Secondo l'analisi commissionata dai promotori, l'Expo avrebbe una ricaduta positiva sull'attività economica (il valore aggiunto) pari a tre volte la spesa iniziale e un effetto sull'occupazione di 60mila addetti all'anno per dieci anni.
Numeri simili tipicamente accompagnano i lanci di altri grandi eventi, quali Olimpiadi, Gran premi di Formula 1, Giubilei, Colombiadi, Mondiali di calcio e di nuoto, riunioni del G-7, e di infrastrutture quali l'Alta velocità e il Ponte sullo Stretto. È difficile opporsi a numeri del genere, e infatti infrastrutture e grandi eventi sono forse le uniche iniziative che godono quasi sempre di un supporto bipartisan.
Ma sono numeri fuorvianti, perché basati sul classico meccanismo dell'analisi di valore aggiunto: i promotori ipotizzano che i salari dei lavoratori e i profitti delle imprese che lavorano all'Expo vengano in gran parte usati per acquistare beni e servizi. Poi si aggiungono altri benefici eventuali di varia natura (ambiente, tempi di viaggio risparmiati, "attrattività"), e anche i ritorni fiscali.
Alla fine è facile arrivare a moltiplicatori di due o tre. Anzi, è quasi impossibile arrivare ad effetti negativi. Cosa manca in questa analisi? L'euro iniziale avrebbe potuto essere speso in mille altri modi. Un'analisi corretta deve dimostrare che i benefici dell'Expo sono non solo positivi, ma anche superiori ai benefici degli usi alternativi, incluso l'uso più naturale – lasciarlo nelle tasche dei cittadini (per i tanti che a questo punto si alzeranno in piedi per invocare il santo patrono Keynes, diciamo che anche Keynes era perfettamente cosciente di questo).
Questa non è una discettazione tra accademici: prima di spendere tra i 7 e i 14 miliardi (quasi l'1% del Pil) sull'Expo, tra i 5 e i 10 per la Tav, forse una decina per il Ponte sullo Stretto (tutte le cifre sono a tutt'oggi molto incerte), si dovrebbe avere una ragionevole certezza che ne valga la pena. Invece analisi costi – benefici in Italia non si fanno, o si fanno per finta, commissionandole ai soggetti interessati: si fanno invece molte analisi di valore aggiunto, che dicono sempre sì.
Questo spiega anche un fenomeno frequente: ai promotori di questi eventi interessano poco i contenuti, quello che li motiva realmente sono i fondi pubblici “dedicati” che arriveranno dall'amministrazione centrale, e le rendite immobiliari che ne derivano. L'Expo illustra perfettamente questo meccanismo. Anni dopo che si è deciso di partecipare alla gara, non si sa ancora se farne un'occasione per rendere più o meno verde la città, per rilanciare la moda o l'agricoltura, per fare degli orti botanici o dei centri congressi, per non parlare delle varie proposte di musei uno più improbabile dell' altro (mentre in quelli che già ci sono piove dentro).
Ma questo è in un certo senso secondario rispetto alla “vittoria” dei milanesi che hanno strappato a Roma i fondi per l'evento. Per questo è politicamente quasi impossibile smarcarsi dalla logica dei grandi eventi: chi oserebbe mai opporsi a nuove infrastrutture regalate dall'amministrazione centrale? Un milanese che lo facesse sarebbe considerato un traditore dai suoi concittadini.
Si dice spesso che eventi e infrastrutture non devono essere valutati solo per i loro “aridi” costi e benefici monetari, ma anche per il loro valore simbolico, per la loro capacità di aggregare le forze di una città o di un paese e di dare il primo slancio per un rinnovamento totale. Noi crediamo che sia esattamente l'opposto. Che slancio, che orgoglio nazionale possono esserci nel gettare miliardi in gallerie ferroviarie sovradimensionate, solo perché la politica non ha il coraggio di fare un passo indietro, ammettere l'errore e opporsi alle lobby dei costruttori? O nel gettare miliardi in innumerevoli edifici che servono ai costruttori ma non alla città, e che saranno inevitabilmente sottoutilizzati e dismessi il giorno dopo che finirà l'Expo, dando ai cittadini e a tutto il mondo l'ennesima immagine di spreco e di degrado?
Eventi e infrastrutture inutili distolgono risorse finanziare, politiche ed umane dal lavoro molto più oscuro ma molto più importante dell'ordinaria amministrazione. Con una minima frazione del costo dell'Expo, che da anni monopolizza il dibattito e l'attenzione dei milanesi e causa lotte senza fine per accaparrarsi le poltrone giuste, si potrebbe fare molto di più per migliorare la vita dei cittadini: dal tenere le strade pulite a riempirne le buche, dal mettere a posto le scuole a ripulire i navigli, da pulire i graffiti sui muri a migliorare i servizi sociali. E contrariamente a quanto credono i politici, queste iniziative contribuirebbero a migliorare l'immagine di Milano in Italia e all'estero molto più di un evento, come l'Expo, che all'estero ha una risonanza minima.
Si cita spesso Barcellona 1992 come il caso tipico di un grande evento che ha rigenerato una città. Ma non si citano mai i tanti eventi o infrastrutture fallimentari, molti nella stessa Spagna e in anni recenti, come gli Expo di Saragozza e Siviglia, o l'alta velocità Madrid-Siviglia. Per non parlare delle Olimpiadi di Atene, all'epoca osannate da tutti ma, oggi sappiamo, una delle cause principali del dissesto greco. I conti bisogna farli con cura prima, perché dopo nessuno avrà interesse a verificare che molti soldi pubblici sono stati buttati, e a far pagare i colpevoli.
La «tigre di carta» americana e gli a-islamici Pakistan e Arabia Saudita. Questi gli obiettivi di Osama bin Laden. Che cosa è accaduto a questi tre paesi?
Immagino una conversazione dell'11 settembre 2011 in cui i grandi capi di al Qaeda esprimono un giudizio sullo stato delle cose a dieci anni dall'attacco portato su suolo americano. Credo che si complimenterebbero per quanto hanno ottenuto. Per capirlo dobbiamo considerare quello che ritenevano di dover ottenere con l'attacco dell'11 settembre. Allora Osama bin Laden espresse chiaramente i suoi obiettivi sul lungo periodo. Disse di voler cancellare ottanta anni di umiliazione per il mondo islamico. Ottanta anni? Bin Laden si riferiva all'eliminazione del califfato nel 1924 (non proprio 80 anni) ad opera di Mustafa Kemal Ataturk. Il suo obiettivo dichiarato era la restaurazione di un califfato, presumibilmente ad opera di un discendente diretto di Maometto, che regnasse sull'intero mondo islamico e che fosse governato dalla sharia.
Che cosa si opponeva a un simile progetto? Tre grossi ostacoli. Il primo erano gli Stati Uniti che usavano il loro potere per soggiogare il mondo islamico. Il secondo e il terzo erano i governi di Arabia Saudita e di Pakistan, che bin Laden considerava due pilastri di supporto degli Stati Uniti all'interno del mondo islamico, e di cui denunciava i governi come «a-islamici». In che modo gli attacchi dell'11 settembre lo avrebbero avvicinato al suo obiettivo? Seguiamone il ragionamento. L'attacco diretto e spettacolare agli Stati Uniti sullo stesso suolo patrio era inteso a mostrare come il paese fosse una "tigre di carta" e a insinuare paure profonde negli americani a proposito della loro incolumità e del loro futuro collettivo. Solo la settimana scorsa, al Qaeda ha criticato pubblicamente il presidente iraniano Ahmaninejad per aver suggerito che l'attacco dell'11 settembre era opera degli americani e non di al-Qaeda.
Gli americani, nelle speranze di bin Laden, sarebbero stati trascinati in una "guerra", una guerra che non avrebbero potuto vincere, pur non "perdendola" sul breve periodo dal punto di vista militare. Bin Laden prevedeva che lo stress continuo di una guerra senza fine avrebbe finito per fiaccare gli Stati Uniti, per via degli alti costi materiali e geopolitici. Se questo era l'intento di bin Laden, sarebbe difficile, nel 2011, sostenere che gli ultimi dieci anni abbiano mostrato che aveva torto.
Ma allora perché cercare di colpire anche il governo saudita e quello pachistano? E in che modo? Secondo Bin Laden entrambi i governi - che riteneva corrotti oltre che a-islamici - riuscivano a sopravvivere, anzi a fiorire, per via dell'ambiguità del loro discorso. Entrambi i governi cercavano di conservare il supporto sia delle élite occidentalizzanti e materialiste, sia delle forze popolari fortemente islamiche parlando due lingue: una al mondo occidentale e una a quello interno.
La strategia di Bin Laden era chiaramente di svelarne la duplicità per forzarli a scegliere tra i due discorsi. Per questo contava sulla pressione statunitense - come effetto dell'11 settembre - che lo avrebbe aiutato a fare quello che voleva. Ovvero gli Stati Uniti sarebbero divenuti il suo strumento per fare leva sui regimi saudita e pachistano costringendoli a mettere fine a quella ambiguità.
Oggi, nel 2011, sembra chiaro che questo è esattamente quanto si sta verificando in Pakistan. Con la situazione militare sempre più difficile per gli Stati Uniti in Afghanistan, gli Usa tollerano sempre meno che il regime pachistano - o almeno quella parte del regime rappresentata dai potenti servizi segreti, Isi - dia apertamente sostegno a vari gruppi che combattono attivamente gli Stati Uniti in Afghanistan: i Talebani, la rete Haqqani, e la stessa al Qaeda.
Il Congresso statunitense, sempre più inquieto, chiede di tagliare gli aiuti al Pakistan. Il nuovo Segretario della Difesa, Leon E. Panetta, spinge per un'azione militare americana diretta in Pakistan. E perfino l'ammiraglio Michael Mullen, capo di stato maggiore uscente, che finora aveva insistito sul mantenere grande prudenza nei confronti dei pachistani (riflettendo la forte riluttanza interna alle forze armate statunitensi a impegnarsi militarmente su un'ennesima arena), sembra abbia definitivamente perso la pazienza ed ha criticato apertamente il governo pachistano.
Come ha risposto il Pakistan? Il ministro degli interni, Rehman Malik, ha a sua volta apertamente criticato gli attacchi unilaterali degli Stati Uniti ai militanti islamisti in Pakistan, e ha chiesto agli Stati Uniti il «rispetto della sovranità» del paese. I pachistani si sono poi rivolti agli altri stretti alleati per trovare sostegno. E hanno ottenuto il pieno appoggio a difesa della loro «sovranità» dal vice primo ministro cinese. E il capo dell'Isi è volato in Arabia Saudita per rinsaldare la comune resistenza pachistano-saudita alla pressione Usa.
Al Qaeda si può rallegrare del fatto che sia stata proprio l'uccisione del loro leader ad opera dei Navy Seals statunitensi a precipitare il conflitto aperto tra leader statunitensi e leader pachistani, esponendo così pubblicamente la divisione interna al governo pachistano tra coloro che avevano contribuito a nascondere bin Laden (e di conseguenza non erano stati informati dagli Stati Uniti del raid imminente) e i complici del governo Usa, che avevano indicato il rifugio di bin Laden. Dopo il blitz la quasi totalità dell'opinione pubblica pachistana era unanime nel condannare l'attacco americano.
Oggi, l'alleanza Stati Uniti-Pakistan è generalmente ritenuta fragile e al Qaeda di certo se ne compiace. Ma ha avuto altrettanto successo rispetto al regime saudita? Non proprio. Il governo dell'Arabia Saudita è riuscito a perseverare nella sua ambiguità fino a un certo punto ma solo prendendo maggiori distanze dagli Stati Uniti e dalle loro diverse azioni all'interno del mondo arabo. Il regime saudita era ovviamente preoccupato che si potesse arrivare a una rottura delle relazioni con gli Usa analoga a quella che si sta verificando Pakistan.
I sauditi sono riusciti in questo combinando una grande fermezza interna con alcune ulteriori concessioni ai gruppi di élite (come testimonia il recente annuncio secondo cui le donne avranno diritto di voto), l'intervento diretto, se necessario, a sostegno dei governi dei vicini stati del Golfo (come testimoniato dalle truppe spedite in aiuto al governo del Bahrain), e un aumentato aiuto economico e diplomatico ai palestinesi. Ma tutto questo basterà? Il più grosso problema per il regime è la controversa minoranza sciita oppressa che si trova fortuitamente proprio nei pressi dei più grandi depositi di petrolio. Inoltre al-Qaeda non aiuterà il regime sciita a trattare in modo intelligente le rivendicazioni sciite.
Dunque, come riassumere tutto questo? I leader di al Qaeda sono stati uccisi in gran numero dai reparti speciali statunitensi, questo è vero. E di fatto hanno perso lo stesso bin Laden. E tuttavia non sembra che questo li abbia rallentati. Al Qaeda è diventata un franchising islamico, e a quanto pare si formano sempre nuovi gruppi ansiosi di portarne il nome, anche se di fatto agiscono in modo autonomo. Gli Stati Uniti oggi sono chiaramente più deboli dal punto di vista geopolitico rispetto al 2001. Il regime pachistano lotta per sopravvivere e quello saudita è molto preoccupato. Il Califfato non è ancora risorto, ma i leader di al Qaeda sanno essere pazientemente impazienti. Dal punto di vista operativo sono impazienti. Da quello strategico sono molto pazienti.
Traduzione di Maria Baiocchi. Nell’icona: Manhattan, 11 settembre 2001 /foto Reuters
All’interno della crescita esponenziale che ha caratterizzato l’industria finanziaria mondiale negli ultimi 30 anni, un posto di rilievo è sicuramente rappresentato dai cosiddetti derivati finanziari. Si tratta di strumenti che hanno permesso e ancora oggi permettono – di trasferire in misura massiccia i rischi da una persona ad un’altra.
Il meccanismo è semplice: un soggetto si impegna a compensare un altro soggetto nel caso in cui un debitore si trovi per una serie di motivi predeterminati nella condizione di non poter onorare il proprio debito. Quando a metà degli anni Ottanta i derivati cominciarono a diffondersi, la Banca dei Regolamenti Internazionali aveva subito avvertito che in questo modo il rischio poteva finire nelle mani di soggetti assai poco attrezzati per valutarlo e gestirlo adeguatamente e, soprattutto, non sottoposti ad una adeguata vigilanza.
Eppure proprio coloro che avrebbero dovuto padroneggiare la materia meglio di chiunque altro la complessa e intricata galassia degli economisti finanziari non sembrava particolarmente preoccupato. Vi era anzi una fiducia pressoché totale nel fatto che, proprio grazie all’uso dei derivati, il sistema finanziario e creditizio avrebbe avuto la possibilità di aumentare la propria efficienza e favorire una crescita economica duratura. A provarlo è un questionario che l’International Swaps and Derivatives Association ha sottoposto nel febbraio del 2004 a 84 professori di finanza appartenenti alle 50 migliori business school mondiali fra cui la Columbia University, il MIT, l’Università di Chicago e anche la nostra Bocconi.
A leggere oggi le risposte a quelle domande c’è da restare quasi increduli: il 98% degli intervistati sosteneva che i derivati avrebbero consentito alle imprese di aumentare stabilmente il valore azionario. Addirittura il 100% sosteneva che l'uso dei derivati avrebbe aiutato le aziende a gestire meglio il rischio finanziario. Più della metà di chi ha risposto al questionario sosteneva che i derivati non avrebbero creato nuovi rischi. Ma il bello viene alla fine: il 99% degli intervistati credeva che l’impatto dei derivati sul sistema economico globale sarebbe stato positivo e oltre l’80% era sicuro che i rischi associati all’uso dei derivati fossero stati sovrastimati.
LA REALTÀ E LA TEORIA
A giudicare da come sono andate le cose viene da pensare che avesse ragione Josiah Bartlet, il presidente degli Stati Uniti e Nobel per l'economia della celebre serie televisiva The West Wing, quando diceva che «gli economisti servono solo per dare credibilità agli astrologi». Con la mente oscurata da modelli matematici sempre più complessi e da ipotesi sempre più ardimentose, gli studiosi di finanza avevano perso di vista la realtà delle cose, ovvero il fatto che l’innovazione finanziaria stava cambiando il rapporto fra produttori e finanziatori, con tutti le conseguenze che questo stava portando con sé.
La dissociazione fra realtà e teoria è un errore che è stato ripetuto anche negli ultimi mesi in Europa. Con il supporto di economisti e commentatori in gran parte vicini alle forze politiche conservatrici, le istituzioni europee hanno insistito nell’affermare che per rilanciare la crescita economica era necessario impostare sempre più gravosi piani di austerità per ridurre rapidamente l’indebitamento.
L’idea di fondo è che a fronte dell’impegno dei singoli governi a ridurre la spesa pubblica e successivamente le tasse, le famiglie si sarebbero attese “razionalmente” di poter beneficiare in futuro di un crescente reddito disponibile e quindi avrebbero aumentato i propri consumi sin da subito rilanciando così la domanda.
A giudicare dai risultati finora ottenuti, non sembra che questa bizzarra teoria avrà maggiore fortuna di quella che aveva portato a decantare le lodi dei titoli derivati. Proprio l’altro ieri l’Economist confermava la revisione al ribasso delle stime di crescita per i prossimi mesi già preannunciate dalla JP Morgan dieci giorni fa. Essere accostati agli astrologi è una cosa che certi economisti hanno loro malgrado imparato ad accettare. Non vorremmo invece che i politici europei finissero per prendere l’abitudine di essere le uniche persone che ancora credono a maghi e fattucchiere.
Mentre la politica italiana s´ingarbuglia nella complicata liquidazione del berlusconismo, le prime vittime della Grande Depressione, cioè i giovani, mirano più in alto. Da temerari, lanciano una sfida globale contro la superpotenza finanziaria. Usano lo spagnolo per definirsi indignados. Scrivono in inglese i loro striscioni: Save school, not banks! S´interconnettono nella scelta dei bersagli: agenzie di rating, Borsa, banche d´affari, istituzioni finanziarie sovranazionali. Se la primavera araba ha abbattuto dei tiranni decrepiti, l´autunno occidentale si misura con l´anonimato di un´altra tirannia che traballa: i dogmi di un´economia incapace di distribuire equamente il benessere.
Troppo facile accusarli di velleitarismo, ora che il loro movimento ha circondato perfino il santuario di Wall Street. Neanche il più nostalgico dei marxisti avrebbe osato pronosticare un simile evento storico: lo spettro dell´anticapitalismo si aggira per gli Stati Uniti d´America? Calma e gesso, l´individualismo e lo "spirito animale d´intrapresa" restano connaturati all´America. Mai però la contestazione aveva insidiato prima d´ora i forzieri del capitale, là dove buona parte della ricchezza planetaria viene convogliata e ripartita secondo criteri incomprensibili a noi comuni mortali. Fino a erigere la piramide assurda dell´ingiustizia sociale che neppure i suoi beneficiati osano più giustificare.
Nella Grande Depressione in corso ormai da quattro anni, ha proliferato dapprima diffuso un senso comune anti-élitario, di destra o di sinistra. E ora ne scaturisce un´inedita contestazione eretica dei vincoli dell´economia di mercato. Quando è apparso evidente come all´arricchimento smisurato di pochi corrispondesse l´impoverimento di nazioni intere, gli indignados hanno lanciato la rivolta contro gli intoccabili.
Questi giovani pretendono (si illudono?) di dare un volto ai giocatori che speculano sull´azzardo finanziario. Denunciano le conseguenze di un debito da costoro continuamente riacceso e dunque (solo per loro vantaggiosamente) infinito. Insieme ai tecnocrati, contestano i professori di economia arcisicuri che la sofferenza sociale vada sopportata, perché dalla crisi si uscirà prima o poi ripristinando la baldoria di prima.
La simultaneità dei movimenti di protesta giovanile esplosi a ogni latitudine, rompe i vecchi schemi terzomondisti. Oggi è nel cuore del sistema capitalistico occidentale che si genera l´antagonismo sociale, impersonato da soggetti nuovi come i lavoratori della conoscenza. D´un colpo è invecchiata pure la terminologia suggestiva ma generica di Toni Negri sull´"Impero" circondato da "moltitudini" espropriate: un movimento statunitense che si autodefinisce "Occupy Wall Street" esprime ben altro che la protesta delle periferie del pianeta. Atene, Tel Aviv, Madrid, Santiago non sono più così distanti da New York. Semmai è l´Occidente stesso che comincia a patire le conseguenze della sua eclissi. Smette di credere alla favoletta della ripresa dietro l´angolo, perseguibile con apposite manovre governative dettate dall´alto. Dubita dell´efficacia di piani di rientro del debito sempre più onerosi. Si domanda se una civiltà che prevede un limite ai minimi salariali, per sostenibilità non debba contemplare pure un limite ai compensi elevati.
Trovano così cittadinanza, nel senso letterale del termine, le domande scandalose che purtroppo l´accademia e l´establishment commettono l´errore di liquidare con sufficienza.
La politica, compresa la politica di sinistra, evita di rappresentarle, considerandole naïf, perché a sua volta affida le proprie chance di successo ai rapporti confidenziali che intrattiene con l´accademia e l´establishment. Nessuno che aspiri a governare l´Italia, per esempio, azzarderebbe una contrapposizione esplicita alla lettera-diktat spedita dalla Bce l´agosto scorso. Gli indignados di casa nostra, viceversa, pretendono di consegnare nei prossimi giorni alla Banca d´Italia una lettera dai contenuti diametralmente opposti.
L´appello messo in rete per la giornata europea di mobilitazione, convocata il prossimo sabato 15 ottobre, si rivolge alla Commissione europea, alla Bce e al Fondo monetario internazionale, assimilati alle multinazionali e ai poteri forti: "Ci presentano come dogmi intoccabili il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita". La replica degli indignados è secca: "Non è vero che siano scelte obbligate". Alla politica chiedono di esercitare un contropotere rispetto alla superpotenza finanziaria globale, perfino rivendicando il "diritto all´insolvenza".
L´equazione grossolana secondo cui "il debito non l´abbiamo contratto noi, quindi non lo paghiamo", comincia a essere declinata in forme più articolate. Come l´ipotesi di un "default concordato e selettivo" a protezione dei ceti deboli. Anche per rintuzzare la voracità di cui sono vittime i paesi più indebitati, come la Grecia, a rischio di spoliazione. È una follia questa richiesta di sottrarsi alle regole dei mercati? Può darsi, ma nel caso bisognerà spiegarlo con umiltà a molta gente che nei decenni trascorsi – quando pure furono dei tecnici eccellenti a guidare le politiche di risanamento – ne subirono ingenti decurtazioni di reddito. Neanche l´idea di accollare agli Stati un oneroso piano di rifinanziamento delle banche risulterà accettabile, finché latitano provvedimenti di maggiore giustizia sociale. "Salvate le scuole, non le banche", appunto.
Succede quindi che su ambedue le coste dell´Atlantico si riconosca un nemico comune. Magari ridotto in caricatura semplicistica da chi imbratta le sedi delle banche e occupa gli uffici delle agenzie di rating. Ma si tratta di una reazione comprensibile di fronte a un´economia trasformatasi in ideologia. Sono due docenti dell´università Bocconi, Massimo Amato e Luca Fantacci, a denunciare il feticcio di un sistema finanziario solipsistico in cui pareva possibile che i conti non si chiudessero e i debiti non si pagassero mai (Fine della finanza, Donzelli editore). Fino all´"eternizzazione dell´espediente": da ultimo, creare debito impagabile prestando soldi a chi non può permettersi di rimborsarli, tanto… chi vivrà, vedrà.
Ecco, non si può pretendere che gli indignados, italiani, greci, islandesi, spagnoli o americani che siano – comunque figli rimasti esclusi dai nostri privilegi – credano ancora che l´innovazione sia di per sé portatrice di miglioramento. La creatività dei finanzieri, se mai fu ammirevole, oggi risulta detestabile. E per favore non chiamatela invidia sociale.
L´illusione tecnocratica, l´assalto ai governanti "tutti ladri e corrotti": analisi di un fenomeno che da decenni attraversa la storia della Repubblica L´indignazione non è contro un sistema da abbattere ma contro un ceto che ha deluso e che viene rifiutato con la stessa energia con cui lo si era amato. C´è già chi si prepara a sfruttare ancora una volta, dopo la prima nel 1994, la stanchezza dei cittadini per costruirci sopra una nuova carriera
Antipolitica è molte cose. È la disperazione di Adelchi morente: «non resta che far torto o patirlo. Una feroce forza il mondo possiede». La politica ha in sé, per sempre, lo stigma del peccato, della violenza che si replica nei secoli. Antipolitica è essere persuasi che la politica è l´Inferno in terra. Antipolitica è anche l´ostinazione di Antigone a uscire dall´implacabile logica amico/nemico che il re Creonte codifica nelle sue leggi: chi ha combattuto contro la città va messo al bando dall´umanità, anche da morto; va escluso dalla sepoltura. Ma un´uscita verso una comunità d´amore e non d´odio – quell´uscita che Antigone desidera – non può avvenire sulla terra: solo nell´Ade c´è spazio per la pietà. Antipolitica è poi quella di Julien Benda che difende la purezza disinteressata del sapere dalla commistione con la politica. Ed è anche lo sforzo di Thomas Mann di sfuggire alla forza d´attrazione gravitazionale che si sprigiona dal semplice sapere che la politica esiste, e che è la dimensione della nostra finitezza.
Questa antipolitica "di rinuncia" (tragica oppure profetica: dopo tutto anche il Sermone della Montagna è antipolitico) è una critica della politica così radicale che, paradossalmente, la conferma nei suoi tratti più crudi – quelli stessi evidenziati dai "realisti" più spietati –, proprio perché vede nella politica solo violenza e dominio. Una posizione che rinuncia ad agire, rivolgendosi all´aldilà o ipotizzando un mondo radicalmente diverso da questo; e che deve accettare di pagare con la morte e con la sconfitta – sempre – ogni tentativo di modificare la politica e le sue bronzee leggi.
Ma antipolitica può anche essere, al contrario, l´atteggiamento rivoluzionario di chi vede in un sistema politico un ostacolo da rimuovere integralmente, per instaurare un nuovo ordine di cose. L´originaria aspirazione del marxismo era portare l´umanità, attraverso il proletariato, a superare del tutto la politica: che è falsa e mistificante perché rispecchia e codifica l´alienazione che si genera nei rapporti di produzione capitalistici. Ma non si può certo affermare che questa fosse una fuga dalla politica: anzi, ha generato una potenza politica enorme, un anelito alla palingenesi che ha segnato più d´un secolo di storia mondiale.
Ci sono poi altre forme di antipolitica. C´è la tecnocrazia, ovvero la convinzione – maturata nel positivismo ottocentesco, e nelle pratiche manageriali novecentesche – che la politica sia un modo primitivo di regolare la coesistenza degli uomini. Quanto più la scienza e la tecnica progrediscono, tanto più emergono problemi oggettivi, né di destra né di sinistra, che richiedono, per essere risolti, non politica ma competenza, non conflitti ma decisioni efficaci, nate da un sapere specialistico, interno alle cose. È cronaca di oggi, ma è anche storia: la storia dell´illusione novecentesca della pianificazione, l´utopia dell´automazione. Ed è anche la ricorrente tentazione di non volere vedere che quanto più la società è complessa tanto più è intrinsecamente politica; che non esistono soluzioni ‘tecniche´ ai problemi politici, che la pretesa di oggettività è sempre veicolo di potere: che chi pianifica – chiunque sia – fa politica, non tecnica.
Se questa antipolitica vuole cacciare i politici perché incompetenti, per sostituirli con tecnici, un´altra, analoga a questa, li vuole cacciare perché ladri e corrotti. Ma l´antipolitica ‘di protesta´, dell´indignazione, dell´onestà e della legalità, per giustificata che sia (del resto, anche quella della competenza lo è: pensiamo ai tunnel per i neutrini), non va al di là della rabbia contro la Casta, del lancio di monetine, dello sventolio di cappi. In ogni caso, questa antipolitica è rivolta non contro la politica in quanto tale né contro un sistema da abbattere con la rivoluzione, ma contro un ceto politico che ha deluso le aspettative – che viene rifiutato con la stessa feroce energia con cui lo si era amato; che viene respinto come corrotto tanto quanto da esso ci si era lasciati corrompere – . Ed è quindi, con ogni evidenza, essa stessa una politica, che non sa di esserlo, o non vuole ammetterlo.
Il rischio a cui va incontro è che risulti passiva e inefficace, che sia una valvola di sfogo per i cittadini, che si sottraggono alle proprie responsabilità e le scaricano sulla classe politica, divenuta il capro espiatorio universale. È questo rischio che rende questa antipolitica manovrabile da chi ne sa cogliere l´ingenuità credulona, cioè dall´imprenditore politico populista, che sfrutta il qualunquismo e l´indignazione per sostituirsi ai vecchi politici, e finge che tutto cambi perché tutto resti com´è (o peggiori radicalmente).
Non a caso, c´è già chi (il solito Cavaliere) si prepara a sfruttare ancora una volta – dopo la prima, nel 1994 – la stanchezza dei cittadini per l´indecenza, l´inettitudine, la corruzione, dei politici, e a costruirci sopra una nuova carriera politica. E ci si dovrà veramente dichiarare "antipolitici" se questa operazione di ri-verginazione avrà successo: se cioè Berlusconi, con un "partito dell´antipolitica" (un ossimoro che si smaschera da sé), riuscirà a convincere gli italiani che è un uomo nuovo, non toccato da scandali, competente, non contaminato dalla politica. Se cioè, invece di venire escluso, saprà ancora includere gli italiani nel suo populismo affabulatorio – tanto più politico quanto più antipolitico –.
Forse bisogna comprendere che la politica non è solo quella che governa la società attraverso le istituzioni, i metodi, le strutture che conosciamo, ma è qualcosa che è immanente al rapporto di ciascuna persona con la collettività. C’è una frase che illumina questa definizione della politica, che è ‘unica, oggi, che dà speranza. L’ho trovata in un libro di Lorenzo Milani scritto, molti anni fa, con gli allievi della sua Scuola di Barbiana: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica». Forse è partendo da questa concezione della politica che si può combattere la “politica” di oggi in nome di una Politica vera.
Davvero i diritti rischiano di non abitare più in Italia. Abbiamo già accumulato abbastanza discredito internazionale per l´incapacità di gestire la crisi. E anche per l´impresentabilità oltre frontiera del Presidente del consiglio. Ora si è fatta ancor più palese la vocazione censoria della maggioranza di centrodestra con le ultime iniziative contro la libertà d´informazione, e il mondo comincia a guardarci con il giusto sospetto verso chi mescola prepotenza e ignoranza. Prepotenza, perché siamo davvero di fronte ad uno di quei casi classici di "tirannia della maggioranza", della quale parlò Alexis de Tocqueville, i cui scritti i sedicenti liberali italiani non hanno nemmeno annusato. Ignoranza, rivelata dal modo in cui è stata affrontata la questione dell´informazione e della conoscenza su Internet, con norme incompatibili con la natura stessa della rete, come ha denunciato proprio oggi Wikipedia, con una pagina che già sta facendo il giro del mondo (la parziale marcia indietro su questo aspetto della legge non fa venir meno il discredito che già ci è caduto addosso).
I fatti di ieri sono chiarissimi. Con il nuovo emendamento presentato dal Governo, diventa totale il blackout sulla pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni, anche per riassunto, fino all´udienza-filtro, di cui rimangono incerti i tempi. Registrando questa novità, la presidente della Commissione giustizia, Giulia Bongiorno, si è dimessa da relatrice del provvedimento, smentendo con questo suo gesto le dichiarazioni rassicuranti del ministro della Giustizia, che ha sostenuto che nulla sostanzialmente cambia rispetto al testo già approvato in commissione. La finalità puramente censoria dell´iniziativa del Governo è rivelata dalla situazione contraddittoria e paradossale che si verrebbe a creare per effetto dell´emendamento. Anche prima dell´udienza-filtro, infatti, i contenuti delle intercettazioni non sarebbero più coperti dal segreto, e godrebbero quindi di un particolare regime di pubblicità derivante dal fatto che esse compaiono negli atti giudiziari a disposizione delle parti, come l´ordinanza con la quale viene disposto l´arresto di una persona. Nulla vieterebbe, quindi, alle parti stesse e ai loro avvocati di utilizzarle nel modo ritenuto più conforme al diritto di difesa, parlandone con altri, trasmettendole a consulenti, periti, investigatori. Si creerebbero così due circuiti comunicativi, che si vorrebbero non comunicanti anche quando le intercettazioni rivelano vicende gravi o comunque rilevanti per la valutazione politica e sociale dei comportamenti delle figure pubbliche.
Questo è un classico meccanismo censorio. L´obiettivo dichiarato di impedire la pubblicazione delle parti non rilevanti delle intercettazioni non può essere perseguito vietando la pubblicazione di tutti i contenuti delle intercettazioni. Non si può trasferire nel mondo dei diritti fondamentali l´irragionevole tecnica che sta a fondamento dei tagli lineari in economia. E, per quanto riguarda la sbandierata tutela della privacy, bisogna invitare per l´ennesima volta a leggere la norma cha limita la tutela per le figure pubbliche ai soli casi in cui le informazioni che le riguardano non hanno "alcun rilievo" per l´informazione dei cittadini. Di una disciplina differenziata per le figure pubbliche, per i "cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche", parla l´articolo 54 della Costituzione, stabilendo che quelle persone devono comportarsi con "onore e disciplina". E tutti noi siamo titolari del diritto di poter valutare se ci si comporta in modo conforme a questi principi.
Da qui il dovere di informare e il diritto di essere informati come snodo essenziale del processo democratico, che sarebbe gravemente inquinato da quel doppio registro ricordato prima, perché rendere segreto quel che già è pubblico fatalmente, e quasi doverosamente, spinge a creare condizioni perché il meccanismo censorio non possa funzionare. Si può ancora fare appello alla responsabilità del legislatore perché non crei inammissibili situazioni di conflitto? Per esperienza sappiamo che solo un forte movimento nella società può indurre a qualche ripensamento, e stimolare le opposizioni. E poiché la buona politica deve essere nutrita da buona cultura, in questo difficile frangente vale la pena di ricordare le parole di Ronald Dworkin: "l´istituzione dei diritti è (...) cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev´essere ancor più sincera". Se quella logica viene travolta, allora è l´idea stessa di costituzione a scomparire e, con essa, il fondamento moderno del sistema dei diritti.
Un aspetto impressionante, nella crisi che traversiamo, è l´impreparazione dei popoli. Non è l´impreparazione di chi si sente riparato. La crisi, inasprendo ineguaglianze divenute smisurate lungo gli anni, pesa sui popoli da tempo. Ma questa volta gli animi sono impauriti, disorientati, come se mancasse loro una bussola che indichi dove sta, veramente, il Nord. Nei Paesi più colpiti, come la Grecia, la disperazione può sfociare in guerra civile: come può sdebitarsi una nazione così sprofondata nella recessione, senza sfasciarsi? Nei Paesi che stanno meglio, come la Germania, cresce un isolazionismo antieuropeo non meno intirizzito. In Italia il disorientamento è diverso: la democrazia è talmente guastata, il legame sociale talmente liso, l´opinione talmente disinformata, che ciascuno scorge nella crisi qualcosa che concerne gli altri, mai se stesso.
Anche se diversi, i popoli hanno però questo, in comune: non sanno la storia che fanno. Vivono come in una caverna: fuori c´è un aperto da cui dipendono - l´Europa, il mondo - ma di cui non sanno nulla. Non vedono il futuro, sempre aperto visto che lo scriviamo noi. Non vedono che il futuro è ormai cosmopolitico nei fatti, non nella teoria. La cosa che più temono è cambiare ottica. Ogni novità appare ominosa, mai si presenta come occasione d´imparare la vita all´aperto. Come in Balzac, gli impauriti accettano che il passato domini il presente, e del presente diventano i proscritti.
Questa impreparazione non è tuttavia priva di speranze, in Italia. Basta una cifra - 1 milione 200 mila che condannano la legge elettorale - e subito si capisce come il popolo voglia riprendersi il futuro, partecipare al suo farsi. Come sia disgustato da politici che usano il popolo, che gli tolgono sovranità nell´attimo in cui ne magnificano il primato. L´essenza del populismo è questo bluff. Nei quattro ultimi referendum c´è sete non solo di verità ma di società maggiorenne, e non stupisce che tanti partiti li abbiano avversati o vissuti passivamente.
È stato difficile, trovare i banchetti per affossare il Porcellum: indicazioni assenti, orari fasulli, reticenze nelle sedi del Pd. Se fosse stato facile, forse avrebbero votato 3-4 milioni. Cosa dicono infatti i referendum? Dicono che sì, i popoli sono impreparati, ma perché qualcuno li vuole così: incavernati, frammentati, dunque malleabili. Dicono che la formazione dell´opinione pubblica - ingrediente fondamentale in democrazia - è stata guastata dal dominio politico sulle tv. I firmatari del referendum giudicano che la politica, come organizzatrice del bene comune, non fa il suo mestiere ma protegge poteri e ricchezze di clan.
Paul Krugman spiega bene come tali poteri si nutrano di dottrine economiche «completamente divorziate dalla realtà», fondate sulla menzogna: la menzogna secondo cui non c´è crescita se vengono tassati i ricchi, e quella secondo cui la crisi nasce da troppi regolamenti e non, come i fatti dimostrano, da assenza di regole (New York Times, 29-9-11). Le parole di Napolitano, venerdì a Napoli, smascherano questo fallimento: non sono parole politiche, quelle che promettono mini-Stati padani, ma «grida che si levano dai prati». Così come è grida la difesa di una legge elettorale nella quale «conta soprattutto mantenere buoni rapporti con il partito che ti nomina, non con gli elettori».
In questo la crisi economica somiglia alla guerra che Samuel Johnson descrive nel ´700: le sue «maggiori calamità sono la diminuzione dell´amore della verità, e la falsità dettata dall´interesse e incoraggiata dalla credulità». Questo fanno i moderni pretendenti politici: invece di guidare incoraggiano la credulità, assecondano gli interessi di chi vuol conservare privilegi e ineguaglianze che la deregolamentazione liberista ha creato.
Ma soprattutto di Europa i politici non sanno parlare, in nessun Paese dell´Unione: la evocano sempre come nostro obbligo, mai come nostra opportunità. Denunciano sempre la sua inconsistenza, senza chiarire che se l´Europa è debole è perché i governi la mantengono in questo stato, non affidandole poteri e aggrappandosi al proprio diritto di veto. Loro compito sarebbe di far capire come stiano davvero le cose, di smettere le illusioni di cui nutrono se stessi e gli altri.
È perché i politici non sono all´altezza - la politica è nulla, senza pedagogia delle crisi - che i popoli s´immobilizzano. Il populismo lusingandoli li sfrutta, per occultare quel che accade: una crisi che rovina non solo l´economia, ma quel che tiene unite le società e dunque la democrazia. Una diserzione delle classi dirigenti, restie a spiegare come solo in un governo europeo ritroveremo la padronanza (la sovranità) che tutti stiamo perdendo, governati e governanti. Secondo alcuni, il populismo è il marchio del XXI secolo. Orfano di alfabeto, proscritto dal presente: ecco il popolo-Golem che i populisti plasmano. Ora i popoli gli si rivoltano contro. Erano consumatori, anziché cittadini. Costretti d´un colpo a consumare meno, sgomenti, si riscoprono cittadini.
La paura può divorare l´anima, la storia non essendo progressista lo testimonia. Ma può anche aguzzare la vista. Nell´800, una prima previdenza pubblica nacque perché il socialismo incuteva spavento. Bismarck, in Germania, fu il primo a creare lo Stato che protegge i deboli e l´interesse generale, trasformando la paura di perdere il passato in costruzione del futuro. Così la destra storica in Italia. Le prime norme a tutela del lavoro, della vecchiaia, dell´invalidità, degli infortuni vennero dal liberale Giolitti. La destra di oggi non somiglia in niente a quella di ieri.
Va detto che l´Italia, pur anomala, non è un caso isolato. È venditrice di illusioni perfino la Germania, sono populisti Sarkozy e Cameron, per non parlare di governi liberticidi o corrotti come Ungheria o Bulgaria. Se oggi i governanti volessero ritentare la via di Bismarck, dovrebbero abituare i popoli a pensare che da soli non ce la faranno. Ogni giorno constatiamo che la statura conta, nella globalizzazione: sei forte se rappresenti non uno staterello (la Padania ad esempio) ma se competi con le grandezze demografiche della Cina, dell´India, del Brasile, degli Usa, della Russia.
Inizialmente il populismo sorge come risposta democratica alle oligarchie. Un laccio stringe il capo al suo popolo, e questo laccio, simbolo della sovranità popolare, comanda su tutto, non tollerando né istituzioni intermedie né autorità sovranazionali. Il populismo semplifica, quando per uscire dalla crisi urge complicare, differenziare i poteri. Si parla spesso di una ricaduta nel Trattato di Westfalia, che consacrò gli Stati sovrani assoluti. Si dimentica che l´Europa nel 1648 era in ascesa, mentre oggi precipita frantumandosi. Due guerre mondiali l´hanno emarginata storicamente, e resuscitare Westfalia è grottesco oltre che pericoloso.
L´Italia è in questo un laboratorio. Il deserto tra leader e popolo non resta vuoto, viene occupato da nuove oligarchie: più mafiose di prima, indifferenti al bene comune. Al posto del legame sociale s´insedia l´identità (etnica, religiosa, sessuale) fondata sul rigetto dell´altro. Le liste di politici gay, apparse in rete giorni fa, è un episodio da Ultimi Giorni dell´Umanità. In una democrazia decente i giornali le ignorano. Se non lo fanno è perché il populismo è l´aria che tutti respiriamo.
La crisi diventa occasione se si dice la verità. Bisogna cominciare a dire che in Occidente non riusciremo a crescere come ieri. Secondo gli esperti, ci vorranno 40-50 anni perché i salari dei Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Russia) raggiungano i nostri. Il nostro futuro sarà fatto di meno consumi. Non di crescita zero, purché sia un crescere diverso. Fu inventata per questo l´Europa unita. Perché non aveva più senso, costruire il futuro facendosi governare dalle menzogne sul passato.
Un edificio pieno di crepe, uno scantinato mal illuminato, mal aerato, senza uscite di sicurezza. Nel quale lavoravano una decina di donne, faticando fino a dieci ore al giorno. Però senza contratto di lavoro, e pagate 4 euro l´ora. Di laboratori del genere ce ne sono decine solo a Barletta, che diventano migliaia se si guarda all´insieme del Mezzogiorno, e decine di migliaia se lo sguardo si allargasse mai al Centro e al Nord.
Di laboratori e officine e cantieri in nero è piena tutta l´Italia, lo era prima della crisi e lo è ancora di più adesso che la crisi morde tutti e dovunque. Non tutti hanno sulla testa mura che si sgretolano. Però le condizioni di lavoro crudeli, il lavoro in nero e le paghe da quattro euro o meno sono per centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori l´esperienza di ogni giorno. Il sindaco di Barletta ha detto che non se la sente di attribuire alle persone alcuna responsabilità per le condizioni in cui avevano accettato di lavorare in nero entro quel laboratorio. E neanche alla famiglia dei titolari, che non firmavano contratti in regola, ma nel crollo hanno perso la giovanissima figlia. Dalle nostre parti, intendeva dire il sindaco, l´alternativa al lavoro nero è la disoccupazione e la fame (o l´ingresso nella truppa della criminalità). L´affermazione è politicamente poco opportuna. Il guaio – che è un guaio di tutti noi – è che il sindaco ha ragione. Fotografa una situazione. Il mercato del lavoro è stato lasciato marcire dai governi e dalle imprese in tutte le regioni d´Italia. La crisi ha accelerato il degrado, ma esso viene dall´interno del paese, non dall´esterno. Una intera generazione oppressa dalla precarietà lavora quando può, quando riesce a trovare uno straccio di occupazione. Stiamo uccidendo in essa la speranza.
Adesso milioni di italiani guarderanno i funerali di Barletta in tv, e molti proveranno una stretta al petto, e il giorno dopo torneranno al loro lavoro precario per legge, grazie alle riforme del mercato del lavoro, o precario perché del tutto in nero. Tuttavia qualcuno un po´ di vergogna potrebbe o dovrebbe pur provarla. Come può un paese in cui si vendono centinaia di migliaia di auto di lusso l´anno, in cui ci sono più negozi di moda che lampioni stradali, e milioni di famiglie hanno almeno due cellulari pro capite, permettere a sé stesso di lasciar morire sotto una casa malandata che crolla un gruppo di giovani donne che faticavano senza contratto per 4 euro l´ora? Le abbiamo costruite tutte noi, queste trappole fisicamente e giuridicamente infami, con le nostre scelte di vita, i nostri consumi, con lo squallore della nostra cultura politica e morale.
L'«Autunno americano» dopo la «Primavera araba»? L'anemico fronte deiliberal che negli Stati Uniti rialza la testa e dà vita a una versione di sinistra della rivoluzione dei Tea Party? Fino alla settimana scorsa immaginare che un movimento senza leader e senza programmi definiti come quello sbocciato a due passi dalla Borsa di New York potesse prendere quota e addirittura arrivare a controbilanciare il peso acquistato a destra dai «rivoluzionari del tè» sembrava fantapolitica.I ragazzi di «OccupyWallSt.org» erano snobbati anche dai media più imbevuti di cultura di sinistra: per la rete tv Msnbc, la radio pubblica NPR o la rivista della sinistra sindacale Mother Jones, erano studenti idealisti e volenterosi, ma condannati all'irrilevanza. Molte cose sono cambiate nel week end scorso, con la comparsa di movimenti analoghi in 21 città americane, con la «saldatura» tra i contestatori di Wall Street e i sindacati Usa e con Manhattan attraversata da cortei sempre più consistenti, fino all'episodio degli arresti di massa (per poche ore) sul ponte di Brooklyn.
Ma qualcosa di altrettanto nuovo è avvenuto ieri a Washington dove la sinistra «alternativa» ha aperto in un luogo assai poco alternativo (l'Hilton di Connecticut Avenue) una convention dal titolo suggestivo (Ridateci il sogno americano) con l'obiettivo esplicito di rilanciare l'iniziativa politica dei liberal e di contrastare l'iperattivismo dei Tea Party anche ricorrendo all'energia politica della protesta studentesca di New York. Un «gemellaggio» realizzato attraverso un collegamento video tra Zuccotti Park, la piazza-giardino incastrata tra la Borsa e Ground Zero che è il campo-base della protesta, e gli «stati generali» di Washington organizzati da «MoveOn.org» e dall'American Dream Movement di Van Jones: grosse organizzazioni di sinistra oggi deluse da Obama, ma che quattro anni fa hanno lavorato alacremente per la sua elezione e sono rimaste al suo fianco nella prima parte del mandato alla Casa Bianca.
Un'offensiva della sinistra per mettere alle strette Obama o una mossa in qualche modo incoraggiata dalla Casa Bianca? Il dubbio è alimentato dal fatto che il presidente, che all'inizio aveva chiesto alla sinistra radicale di abbassare il suo profilo per non dare appigli ai conservatori che lo dipingevano come un estremista, ha ormai dovuto prendere atto che la sua strategia non ha funzionato: una riforma sanitaria «centrista», molto simile a quella varata dal repubblicano Romney in Massachusetts, è stata demonizzata con successo dai Tea Party. E la ragionevole proposta del presidente di rimettere a posto il bilancio, oltre che coi tagli, anche tornando a tassare i ricchi come nell'era Reagan, è stata bollata dai conservatori come la mossa di un presidente socialista.
«Come è potuto accadere?» si è chiesto più volte lo stesso Obama. Secondo una tesi che ha preso quota, è stato proprio il ripiegamento della sinistra, materializzatosi mentre l'offensiva dei Tea Party sfondava nei media, a consentire ai conservatori radicali di occupare ampi spazi politici a destra. Ciò ha dato la sensazione che i repubblicani moderati fossero il nuovo centro e ha, così, sospinto Obama a sinistra agli occhi di larghe fasce dell'elettorato.
Molti conservatori pensano che il presidente stesso condivida questa analisi e si stia muovendo di conseguenza. Ma a conclusioni simili è arrivato anche il giornalista-politologo progressista E.J. Dionne secondo il quale (Washington Postdi ieri), negli anni 30 del Novecento Roosevelt riuscì ad attuare politiche efficaci contro la disoccupazione grazie al sostegno dei movimenti dei lavoratori e di quelli per i diritti civili.Quella di rianimare una contrapposizione vivace tra radicali di destra e di sinistra potrebbe essere una mossa molto rischiosa per chi deve governare in una congiuntura difficile come quella attuale. Non è detto, insomma, che dietro ci sia Obama. Ma il disegno esiste. L'enigma ruota intorno al nome di Van Jones: il ribelle deciso a organizzare la «rivoluzione d'autunno» con un passato nella Casa Bianca di Obama e che, anche dopo la rottura col presidente, è rimasto il contatto coi democraticimainstream, attraverso il Center for American Progress di John Podesta.
Una manifestazione "per dare voce all'Italia che in queste settimane ribolle di passione civile". Libertà e Giustizia la organizza per sabato prossimo a Milano. Gustavo Zagrebelsky, presidente onorario dell'associazione, spiega così il significato di "Ricucire l'Italia".
Professor Zagrebelsky, com'è nata l'idea?
"E' venuta due settimane fa a una signora che partecipava al nostro seminario di Poppi in Casentino, nel castello in cui Dante scrisse i versi del sesto canto del Purgatorio: 'Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello'. L'ambizione è quella di provare a invertire la china, a ricucire le diverse fratture che attraversano l'Italia in questo passaggio particolarmente difficile della sua vita politica".
Si riferisce al tentativo secessionista della Lega?
"A quello, ma non solo. Certo, c'è da contrastare la balorda idea che si possa allargare il solco tra Nord e Sud fino alla secessione: sarebbe un bel paradosso a 150 anni dall'Unità, come giustamente ha sottolineato il Presidente Napolitano".
Quali altre fratture vedete?
"C'è quella sociale, il divario che aumenta sempre più tra ricchi e poveri. C'è la frattura generazionale, quella che divide i giovani precari dai lavoratori più anziani. C'è anche una frattura di natura etnica tra immigrati e residenti. Se ci pensiamo, in questi anni la politica ha lavorato per aumentare queste fratture, in alcuni casi ha addirittura fatto fortuna sulla loro esistenza".
Avete preparato un manifesto per l'iniziativa di sabato. Qual è, tra le tante, la frattura principale da ricucire?
"Sabato partiremo da quella tra gli elettori e il ceto politico, tra rappresentati e rappresentanti. Ci sono stati in questi mesi diversi segnali su cui riflettere: il successo dei referendum ma anche certe candidature vincenti alle amministrative ci dicono che il sentire degli italiani è sensibilmente diverso da quel che viene percepito non solo dal governo, ma anche dai partiti e dal Parlamento".
Parla della distanza tra società civile e palazzo?
"E' così anche se dobbiamo stare attenti. Non mi piace fare nomi ma in queste settimane c'è il rischio di lasciarsi andare alle tentazioni dell'antipolitica. Non dobbiamo cedere alla demagogia distruttiva del 'tanto i politici sono tutti uguali'. Userei anche con cautela l'espressione 'società civilè di cui Libertà e Giustizia si sente parte: è un'espressione che è usata spesso come sinonimo di salotti".
Che cos'è invece, a suo parere, la società civile?
"Sono i tanti, giovani e meno giovani, che incontro a lavorare nelle associazioni di volontariato, cattolico e laico. Volontariato in senso molto largo: persone che sono disposte a dare tempo, capacità professionale, denaro in modo disinteressato per il bene di tutti. E' volontariato anche partecipare alla nostra manifestazione di sabato. A questi molti, moltissimi, la politica ufficiale sembra avere sbarrato le sue porte. E' ora che questa società civile decida di far sentire la sua voce in politica".
Avete partecipato alla raccolta di firme per il referendum elettorale. E' meglio andare subito alle elezioni anticipate o modificare la legge attuale, magari con un governo di transizione?
"Noi abbiamo raccolto le firme con lo slogan: 'Mai più al voto con questa legge'. Dunque, per coerenza, sarebbe preferibile che prima delle prossime elezioni si modificasse la legge. Come e chi debba modificarla è oggetto della discussione politica. Certo bisognerà trovare il modo di andare al voto in tempi brevi perché il protrarsi dell'attuale stallo renderà molto difficile la ricostruzione quando si aprirà una fase nuova".
Una nuova manifestazione, dopo le molte dei mesi scorsi. Che cosa potrà cambiare?
"Non è una manifestazione da sola che può rivoluzionare il quadro politico. Ma proprio le manifestazioni di questi mesi sono servite a far sapere che quella frattura tra paese reale e palazzi della politica si stava allargando. Queste iniziative servono a far capire che un'altra Italia è possibile. Anzi, c'è già. Si tratta ora di organizzarla, vedremo chi saprà farlo".
I manifestanti protestano da due settimane contro le logiche dell'alta finanza e le politiche adottate dall'amministrazione Obama per fronteggiare la crisi. L'intervento della polizia quando hanno bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn
NEW YORK - Circa 700 persone aderenti alla campagna contro Wall Street sono stati arrestati a New York. Le forze dell'ordine sono intervenute quando i dimostranti hanno bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn e hanno cercato di dar vita a un corteo non autorizzato. "Vergogna, vergogna" hanno urlato i manifestanti all'indirizzo degli agenti. Testimoni hanno raccontato di averne visti moltissimi ammanettati, seduti a terra mentre tre pullman arrivavano per portarli via. Un portavoce della polizia ha dichiarato che erano stati ripetutamente avvertiti che se avessero invaso le corsie destinate ai veicoli sarebbero stati arrestati.
La protesta del movimento Occupy Wall Street (Occupare Wall Street) va avanti da due settimane e si sta estendendo ad altre città, a cominciare da Washington e Boston. Nella capitale del Massachusetts oggi sono state fermate 24 persone che partecipavano a un sit-in non autorizzato davanti alla sede di Bank of America, che di recente ha annunciato un piano di tagli per 30.000 impiegati con risparmi stimati in cinque miliardi di dollari fino al 2014.
A New York circa 2.000 dimostranti - disoccupati, reduci di guerra, studenti, insegnanti - hanno installato il loro quartier generale a Zuccotti Park, tra la Broadway e Liberty Street, non lontano dai grattacieli di Wall Street. E hanno intenzione di rimanerci per mesi. Da lì, verso le 15.30 ora locale, si sono mossi in direzione del ponte di Brooklyn, distante circa quattro chilometri. Una marcia con cui hanno voluto, tra l'altro, sostenere
il movimento SlutWalk contro gli abusi sessuali sulle donne.
Il movimento contesta le politiche seguite per fronteggiare la crisi economica. Il collante è la protesta contro le logiche di Wall Street, ma anche la delusione nei confronti del presidente Barack Obama che a loro avviso, come ogni presidente, è "schiavo" di quelle logiche. L'ispirazione viene dagli "indignados" spagnoli 1, dalle manifestazioni greche 2, dalle rivolte in Egitto e in Tunisia, dalle tende montate dai manifestanti a Tel Aviv 3. "Questa protesta è l'unico modo per rappresentare noi stessi", spiega Norman Koener, un insegnate di Filadelfia venuto a New York per sostenere il movimento anti Wall Street. "Il Congresso non legifera per noi, e Obama è andato contro tutti i suoi propositi iniziali. Non penso che riuscirà ad essere rieletto ma del resto anche i Repubblicani sono un fallimento. A che serve votare per due partiti corrotti? L'unica soluzione è la democrazia che si vede in questa piazza", conclude amaro il professore.
Quello di Zuccotti Park non è un vero e proprio accampamento perché le tende sono proibite. I manifestanti dormono avvolti in teli di plastica. Ma hanno allestito una cucina e una biblioteca e hanno sparso in giro poster in cui sono enunciati chiaramente i loro slogan. Negli ultimi giorni sono andati tra loro il regista Michael Moore e l'attrice Susan Sarandon. Appoggio alla protesta arriva anche dai cittadini di New York: non sono pochi i passanti che offrono donazioni e alcuni ristoranti hanno donato del cibo.
La rete di comunicazione grazie alla quale il movimento si sta allargando ad altre città si avvale dei mezzi ormai imprescindibili in questi casi, YouTube, Facebook, Twitter. Da Zuccotti Park vengono trasmessi aggiornamenti in tempo reale in streaming e si fa circolare un quotidiano, The Occupied Wall Street Journal. Il 6 ottobre il movimento si sposterà a Washington, simbolo della politica e delle lobby, in occasione del decimo anniversario della guerra in Afghanistan.
Cantiere Italia
di Aurelio Magistà
L´edilizia ferma è il simbolo di una nazione immobile. Ma, anche se le previsioni non possono essere ottimistiche, al Made di Milano convegni, mostre, tecnologie e prodotti innovativi creati dalla ricerca mettono in campo le migliori idee per rilanciare il settore. E far ripartire il paese
L´edilizia è ferma, l´Italia è immobile. Quello delle costruzioni come settore trainante dell´economia nazionale è un luogo comune un po´ abusato, ma certo fondato su dati reali. Così, lo scenario di gru spente, betoniere mute, ponteggi vuoti e fondamenta che si riempiono di sterpi ed erbacce diventa metafora di un paese prigioniero di un´impasse, che non è più in grado di edificare il proprio futuro. La nazione come casa comune appare sempre più una dimora che avrebbe davvero bisogno di una bella ristrutturazione, ma senza più risorse per farlo, un cantiere che ha licenziato gli operai. «Dal 2009 abbiamo perso oltre trecentomila addetti», sintetizza Andrea Negri, presidente di Made eventi anticipando uno dei dati della ricerca di Federcostruzioni che verrà presentata agli stati generali dell´edilizia, il 5 ottobre, giorno dell´inaugurazione di Milano Architettura Design Edilizia. Una difficoltà testimoniata anche dal fatto che l´importante appuntamento nel 2010 si sia tenuto a febbraio: il posticipo a ottobre, oltre che per opportunità di date, è stato dettato anche dalla crisi generalizzata. «Lo scorso anno», prosegue Negri, «non siamo riusciti a recuperare i 47 miliardi di euro persi nel 2009 e non ci riuisciremo nemmeno quest´anno, considerato che le previsioni anticipano un calo dell´1,8, con fortissimi sperequazioni: i settori che esportano molto riescono a ritrovare il segno positivo, ma altri, come la filiera del cemento, registrano perdite vicino al 50 per cento». La pazienza sembra proprio finita
L´altro giorno l´assemblea dell´Associazione nazionale costruttori ha contestato duramente il ministro delle Infrastrutture e trasporti Altero Matteoli, colpevole non solo di inciampare nella lettura dell´intervento, per un´evidente scarsa familiarità con il testo, ma anche perché rappresentante del governo che non ha saputo mantenere nessuna delle sue promesse. Matteoli si è giustificato dicendo: «Mi rendo conto dello stato d´animo degli imprenditori in un momento di scarsità di risorse e di crisi economica e finanziaria. Ma di soldi non ce ne sono». Una risposta che suona quasi beffarda per un settore che chiede prima di tutto riforme. «Certo», nota Negri, «dispiace che il governo abbia bloccato tutti i grandi cantieri e le opere infrastrutturali, anche se tra l´approvazione e il reale inizio dei lavori può passare davvero tanto e quindi bloccarli adesso significa non farli partire nemmeno nei prossimi anni. Ma che cosa dire dei quattordici miliardi di euro che lo stato deve alle imprese per lavori già realizzati e non ancora pagati? Non pagare, di questi tempi, significa mettere a rischio la sopravvivenza stessa delle aziende creditrici. E che cosa dire del piano casa, bloccato dalla lotta tra stato e regioni, regioni e comuni? E che cosa dire di un governo che deprime i consumi aumentando l´Iva e spalmando il rimborso del 55 per cento delle spese per migliorare il risparmio energetico delle case su dieci anni invece che su cinque come era all´inizio?».
Lo scenario è questo, ma una nota positiva viene proprio da Made, che malgrado le premesse e la sordità del potere - «Ormai preferiamo parlare direttamente con regioni e comuni perché il governo non c´è», conclude Negri - lancia proposte per un rilancio. Le idee sono ad ampio spettro. Si va dagli scenari un po´ avveniristici ma molto attendibili di Vegetecture e Bring the forest in the city, mostra e convegno che raccontano un futuro (e un presente) in cui l´architettura si integra con le piante vive, fino all´housing sociale, che garantisce case ad alta efficienza, buona qualità e basso costo, fino al pragmatico programma di recupero dei centri storici e dei borghi, «cui si potrebbe applicare l´housing sociale con l´aiuto della Cassa depositi e prestiti», ipotizza Negri, «mettendo insieme due modi virtuosi di rilanciare l´edilizia».
Da segnalare ancora la serie di incontri dedicati a Nuovi materiali e tecnologie: uno sguardo al futuro, tante inziative per tre giorni, in cui diciotto università di tutta Italia presentano i risultati delle loro attività di ricerca che potrebbero essere utili alle imprese. Un tentativo di transfer technology, di trovare applicazioni pratiche all´innovazione creata dalla ricerca. «Fra i temi più importanti», spiega il professor Giovanni Plizzari dell´università di Brescia, «la sicurezza sismica, la riqualificazione del costruito esistente, considerato secondo la legge italiana che la vita media di una nuova costruzione è circa cinquanta anni, la sostenibilità, che passa anche per il riutilizzo di materiali che fino a ieri erano considerati rifiuti, per esempio il calcestruzzo di demolizioni oppure le polveri di acciaieria che possono sostituire gli aggregati fini come le sabbie». Anche perché con i tempi che corrono è davvero meglio non buttare via niente.
L´agricoltura va in città
di Ilenia Carlesimo
Portare orti e coltivazioni vicino ai luoghi abitati e costruire rispettando il collegamento tra cielo e terra. Così si ottiene uno sviluppo sostenibile e una società attenta
Per andare avanti, c´è bisogno di fare un passo indietro e tornare a un´architettura integrata con il paesaggio e le attività agricole. A quando si progettava in base alle stelle: e dunque in base alla specificità del territorio.
È la riflessione che invita a fare Planetarium: la mostra a cura di Fortunato D´Amico - in programma a Made Expo all´interno dell´evento AAA Agricoltura, Alimentazione, Architettura (con le tre A che vogliono essere anche segnale di emergenza) - in cui vengono esposti alcuni progetti di architettura e design dedicati alla costruzione di una società più attenta al rapporto tra attività umane e agricoltura. Tutto restituendo centralità all´astronomia - come ricorda anche il titolo stesso della mostra, che cita uno strumento per riprodurre la volta celeste - e avviando una filosofia del progetto che riporti armonia tra ambiente, cielo, costruzioni ed esigenze dell´uomo.
«L´astronomia» afferma Fortunato D´Amico «è la base per la nuova architettura. Finora è stata sostituita dal petrolio, e questo ha portato a costruire senza distinzione in posti diversi, senza partire dalle caratteristiche del territorio. Ma i popoli vissuti prima di noi ci hanno insegnato altro: a prendere le stelle come riferimento, a costruire rispetto al sistema astronomico, a sfruttare - in senso positivo - le specificità di ciascun posto, dalla luce al clima, al tipo di terreno».
E Planetarium - attraverso esposizioni e dibattiti (con il contributo di enti, progettisti e produttori di tecnologie e materiali) - vuole fare proprio questo: invitare a fermarsi, perché come ricorda D´Amico «è ora di dire basta alle città delle merci», e indicare la strada della sostenibilità. Non solo per tornare a rispettare l´ambiente, «da troppo tempo cacciato dalle città» ma anche per recuperare il paesaggio e riportare l´agricoltura vicino ai luoghi dell´abitare. Come? Mettendo orti nei terrazzamenti dei grandi palazzi e frutteti nei parchi pubblici. O tornando, come già in parte si sta facendo, a verdure di stagione e a chilometri zero.
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Quanto ci piacerebbe se chi parla o scrive di una cosa tenesse presente tutti gli aspetti di quella cosa! Nella fattispecie ci piacerebbe se, quando si parla dell’industria edilizia, delle difficoltà che essa attraversa oggi e delle prospettive per il suo futuro si tenesse conto anche dei danni che la sua abnorme espansione ha provocato. Danni al territorio, ai suoi abitanti, all’economia. Se non si parte da questo tutte le scelte ce ne conseguono sono sbagliate. Ci piacerebbe che si ricordasse sempre che il peso dell’edilizia nel sistema italiano deriva in larghissima misura nel fatto che questo settore dell’industria è lo strumento per rendere possibile il trasferimento di ricchezza dal pubblico e dal comune al privato mediante la mediazione di due fenomeni, poderosi in Italia più che altrove : le distorsioni nell’assegnazione e nella gestione degli appalti di opere pubbliche, che consentono ai “capitalisti” del mattone e del cemento di ottenere elevati profitti senza correre rischi; la legislazione e la prassi dell’urbanistica, che consentono, soprattutto nei decenni più recenti, di accrescere consistentemente gli incrementi della rendita immobiliare e la sua privatizzazione. Così come quando si parla dell’industria meccanica e del suo futuro bisogna ipotizzare un futuro con enormemente meno automobili di quelle che circolano oggi, così bisognerebbe pensare a un’industria delle costruzioni che ampli il suo impegno in settori oggi minoritari, se non quasi evanescenti, come la manutenzione edilizia e urbana, la sistemazione dei terreni extraurbani, i sistemi di mobilità collettiva, il restauro dei beni culturali. Nel dibattito sulla crisi finanziaria (sulla crisi del finanzcapitalismo) sono emerse molte proposte su questo tema; ne abbiamo registrate diverse su eddyburg. Ma esse stentano a diventare pensiero comune. Forse perché sono rivoluzionarie. Poiché implicano che prevalga un’economia che sia finalizzata al ben essere dell’uomo e della società, che sostituisca quella basata della finalizzazione dell’uomo all’arricchimento dei già ricchi e al dissolvimento della società.
INACCETTABILE BCE
di Loris Campetti
Volevamo abolire le province e invece adesso ci ordinano di abolire lo stato. Purtroppo non è la vivificazione del sogno di Karl Marx, l'estinzione dello stato. Intanto, il soggetto rivoluzionario committente non è animato dallo spirito dell'internazionalismo proletario ma dal pensiero unico liberista, che è un po' diverso. In secondo luogo, la tappa intermedia non è, come scriveva il grande vecchio di Treviri, la dittatura del proletariato ma quella della finanza. La lettera «segreta» della Bce al governo italiano, pubblicata ieri dal Corriere della sera, è straordinaria tanto per la sua lucida coerenza quanto per la sua prepotenza, una prepotenza legittimata, prima ancora che dalle regole, dalla sua assunzione passiva da parte dei governi di tutti i colori. Se lo dice la Bce è vero, così come ha ragione Standard&Poor's se ci declassa.
Si potrebbe dire che il segreto che copriva la lettera era il segreto di Pulcinella: chi non immaginava che avrebbe ordinato tagli allo stato sociale, alle pensioni e ai salari, privatizzazioni e liberalizzazioni? Eppure, persino il segreto di Pulcinella ci può stupire, e anche farci incazzare. Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, più che una lettera hanno stilato un manifesto ideologico per indicare le ricette draconiane e antipopolari per uscire dalla crisi, ma anche le forme con cui le bastonate dovrebbero essere assestate («decreto legge», il tempo è danaro). Dunque, abbattimento del debito anticipando di un anno l'iter della manovra di luglio, buona ma «insufficiente»; liberalizzazione dei servizi pubblici e dei beni comuni con «privatizzazioni su larga scala»; innalzamento dell'età pensionabile, portando a 65 anni la soglia per le donne anche nel privato, da subito; riduzione dei costi nel pubblico impiego, «se necessario, riducendo gli stipendi». Poi, e qui c'è l'aspetto ideologico e di rivincita classista contro le conquiste dei lavoratori del XX secolo, si ordina a un governo che non aspettava altro, un'ulteriore «riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livelli d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende».
Ora, si può capire - accettare o no è una libera scelta - che la Bce decida i numeri necessari a rientrare dal debito pubblico, e persino i tempi. Non è tollerabile invece che entri nel merito dei provvedimenti, che ordini di bastonare operai e pensionati invece che evasori e ricconi, o di tagliare la spesa sanitaria invece di quella militare, di risparmiare sui salari degli impiegati invece che sul ponte di Messina. Soprattutto, non è accettabile che la Bce ordini al governo di imporre a tutti il modello Marchionne che cancella i diritti fondamentali di chi lavora.
Enrico Letta ha detto che «i contenuti della lettera rappresentano la base su cui impostare politiche per far uscire l'Italia dalla crisi... qualunque governo succederà a Berlusconi dovrà ripartire dai contenuti di quella lettera». Difficile accusare di qualunquismo chi dice «sono tutti uguali, tanto varrebbe tenersi Berlusconi». Una sinistra che sceglie di restare nel recinto di Draghi e Trichet, quello in cui si è prodotta la manovra economica con annesso articolo 8, non va da nessuna parte.
I BUONI MOTIVI PER EVITARE IL SACCHEGGIO
di Ugo Mattei
Quando lo Stato privatizza una ferrovia, una linea aerea, la sanità, l'università, un teatro pubblico o cerca di "vendersi" il patrimonio immobiliare (come fatto ieri da Tremonti e Berlusconi) esso espropria la comunità (ognun di noi pro quota) dei suoi beni comuni (proprietà comune), in modo esattamente analogo e speculare rispetto a ciò che succede quando si espropria una proprietà privata per costruire una strada o un'altra opera pubblica. Nel primo caso infatti si tratta di trasferimento immediato o graduale di un bene o di un servizio dal settore pubblico a quello privato (privatizzazioneliberalizzazione) mentre nel secondo caso il medesimo trasferimento (di una proprietà o di un'attività d'impresa) è dal privato al pubblico. In un processo di privatizzazione il governo cioè non vende quanto è suo ma al contrario quanto appartiene pro quota a ciascun componente della comunità, proprio come quando espropria un campo per costruire un'autostrada esso acquista (coattivamente) una proprietà che non è sua. Ciò significa che ogni processo di privatizzazione deciso dall'autorità politica attraverso il governo pro-tempore espropria ciascuno di noi della sua quota parte del bene comune espropriato, proprio come avviene nel caso dell'espropriazione di un bene privato. Tuttavia, mentre la tradizione costituzionale liberale tutela il proprietario privato nei confronti dell'autorità pubblica (Stato) attraverso l'indennizzo e richiede che una legge dichiari la pubblica necessità dell'espropriazione, nessuna tutela giuridica (men che meno costituzionale) esiste nei confronti dello Stato che trasferisce al privato beni della collettività (beni comuni) che non siano detenuti in proprietà privata.
Di ciò manca completamente la consapevolezza non solo a livello politico, visto che la privatizzazione è considerata un'opzione assolutamente libera e percorribile dal governo in carica per il sol fatto di esserlo (al seminario romano di ieri Tremonti e Letta si comportavano da "padroni" dei nostri beni) ma anche a livello degli operatori e teorici del diritto proprio per la mancanza di elaborazione teorica della nozione di bene comune. Questa asimmetria costituisce un anacronismo giuridico e politico che deve essere assolutamente superato, soprattutto in virtù del mutato rapporto di forza fra gli Stati ed i grandi soggetti economici privati transnazionali. Infatti, le conseguenze di questa asimmetria costituzionale si stanno provando devastanti. Consentire al governo in carica che vendere liberamente beni di tutti (beni comuni) per far fronte alle proprie necessità contingenti di politica economica, è sul piano costituzionale tanto irresponsabile quanto lo sarebbe sul piano familiare consentire al maggiordomo di vendere l'argenteria migliore per farsi carico della sua propria necessità di andare in vacanza. Purtroppo l'assuefazione alla logica del potere della maggioranza tipica della modernità ci ha fatto perdere consapevolezza del fatto che il governo dovrebbe essere il servitore del popolo sovrano e non viceversa. Certo, il maggiordomo (governo) deve poter disporre dei beni del suo padrone (beni comuni della collettività) per poterlo ben servire, ma deve esserne amministratore fiduciario (sulla base di un mandato o al massimo di una proprietà fiduciaria) e certo non proprietario libero di abusarne alienandoli e privatizzandoli indiscriminatamente. Infatti i beni comuni una volta alienati o distrutti non esistono più, né sono riproducibili o facilmente recuperabili né per la generazione presente che si dovesse render conto di aver scelto (a maggioranza) un maggiordomo scellerato, né per quella futura cui non si può neppure rimproverare la scelta del maggiordomo. Ecco che la questione dei beni comuni non può che avere valenza costituzionale (o costituente) proprio perché è nelle costituzioni che i sistemi politici collocano le scelte di lungo periodo sottratte al rischio di arbitrio del governo in carica.
All'attuale condizione di inconsapevolezza politica diffusa e di conseguente accettazione generalizzata della visione dominante del mondo (la rivoluzione reaganiana è stata possibile e poi diffusa in tutto il mondo esattamente accettando la logica del maggiordomo dissipatore e del popolo sovrano inconsapevole espropriato) è urgente opporre l'elaborazione teorica e la contestuale tutela militante dei beni comuni come un genere dotato di autonomia giuridica e strutturale nettamente alternativa rispetto tanto alla proprietà privata quanto a quella pubblica (intesa come demanio eo patrimonio dello Stato e delle altre forme di organizzazione politica formale). Ciò è tanto più urgente nella misura in cui il maggiordomo è oggi vittima del vizio capitale del gioco ed è conseguentemente piombato nelle mani degli usurai che paiono assai più forti di lui e che ne controllano ogni comportamento. Nella stragrande maggioranza delle realtà statuali (e l'Italia dal '92 fa tutt'altro che eccezione) infatti il governo, controllato capillarmente da interessi finanziari globali, dissipa al di fuori da ogni controllo i beni comuni utilizzando come spiegazione naturale (e dunque politicamente in gran parte accettata) la necessità autoriproducentesi di ripagare i suoi debiti di gioco. Questa logica perversa che naturalizza uno stato di cose che è tuttavia frutto di continue e consapevoli scelte politiche camuffate da necessità, deve essere smascherata perché i popoli sovrani possano riprendere controllo (ancorché forse tardivo) dei mezzi che consentono loro di vivere un'esistenza libera e dignitosa. Bisogna fra capire a Tremonti e Berlusconi, ma anche a quanti nella cosiddetta opposizione condividono questo realismo politico fatto di false necessità, che il popolo italiano non vuole vendersi il patrimonio per ripagare i debiti di gioco di una classe dirigente incapace e disonesta. Ci abbiamo provato con il referendum ma il maggiordomo vizioso, sorretto da un dispositivo ideologico incostituzionale sostenuto al più alto livello, non pare sentire ragioni. Non ci resta che insistere in tutti i modi possibili. Il 15 ottobre ci darà un'altra preziosa occasione di far sentire chiara e forte la voce del popolo saccheggiato: bisogna invertire la rotta.
Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario concentrano i poteri, alimentano la recessione, espropriano la democrazia. Si deve ripartire dal modello sociale europeo e da un’autorità politica democratica
Quali sono stati i punti deboli della formazione dell'Ue?
La Ue è nata con due gravi difetti strutturali, insiti nello statuto e relative funzioni della Commissione europea e della Bce. La Ce opera di fatto come il direttorio della Ue, ma non è stata eletta da nessuno, le sue posizioni differiscono sovente da quelle del Parlamento europeo, organismo eletto, e appare in troppi casi funzionare come la cinghia di trasmissione dei dettami iperliberisti dell’Ocse e dell'Fm
Da parte sua la Bce è una banca centrale di nome, che però opera solo parzialmente come tale. I paesi entrati nell’euro hanno rinunciato al potere più importante che uno stato possa detenere: quello di creare denaro. Oggi solo la Bce può farlo. Ma lo fa male e in modo indiretto, ad esempio concedendo per anni imponenti flussi di credito alle banche che poi creano denaro privatamente con i prestiti che concedono a famiglie e imprese. Il maggior limite della Bce deriva dal suo statuto, che le impone come massimo scopo quello di combattere l’inflazione, laddove una banca centrale dovrebbe avere tra i suoi scopi anche la promozione dello sviluppo e dell’occupazione. Va notato ancora che la sua indipendenza dai governi maschera in realtà la sua dipendenza dal sistema finanziario e la sua mancanza di responsabilità sociale in nome di un ottuso monetarismo. Democratizzare la Ce e la Ue sarebbero compiti impellenti per i governi europei, se non fosse che per governi di destra, come di fatto son diventati quasi tutti, in fondo una governance non democratica e socialmente irresponsabile della Ue non è poi un gran male.
La centralità della moneta unica, come esclusivo campo d'unità europea, quali vuoti ha prodotto nello sviluppo economico degli stati membri?
Gli stati della zona euro hanno ceduto il potere di creare denaro, com’era necessario per creare una grande realtà politica ed economica quale è la Ue, ritrovandosi poi senza una banca centrale che presti loro, in caso di reale necessità, il denaro occorrente. La Bce dovrebbe operare come un prestatore di ultima istanza – così sostengono vari economisti – non diversamente da quanto avviene con altre banche centrali quali la Fed o la Bank of England. Tuttavia il suo statuto per ora le impedisce di assumere in modo diretto un simile fondamentale ruolo e potere. Ciò ha influito negativamente in tutta la Ue sulla possibilità di condurre politiche economiche e sociali adeguate alla situazione dell’economia europea e mondiale. Le economie più forti, quali la Germania e la Francia, ne sono uscite meglio – non da ultimo perché i banchieri tedeschi e francesi che siedono nel consiglio della Bce han fatto tutto il possibile per evitare troppi danni alle banche dei loro paesi.
Cos'è mancato di più, nel processo unitario, dal punto di vista sociale?
Se c’è un elemento che più di ogni altro potrebbe e dovrebbe fondare l’unità della Ue è il suo modello sociale, cioè l’insieme dei sistemi pubblici intesi a proteggere individui, famiglie, comunità dai rischi connessi a incidenti, malattia, disoccupazione, vecchiaia, povertà. Sebbene il modello sociale europeo presenti notevoli differenze da un paese all’altro, nessun altro grande paese o gruppo di paesi al mondo offre ai suoi cittadini un livello paragonabile di protezione sociale – la più significativa invenzione civile del XX secolo. Ne segue che i governi Ue che attaccano lo stato sociale sotto la sferza liberista della troika Ce, Bce e Fmi, nonché del sistema finanziario internazionale, minano le basi stesse dell’unità europea, oltre a fabbricare recessione per il prossimo decennio e piantare il seme di possibili svolte politiche di estrema destra.
Alla luce della crisi attuale, perché l'Ue appare impotente?
Anzitutto perché non ha ancora alcuna istituzione che svolga qualcosa di simile alle funzioni di un governo centrale democraticamente eletto e riconosciuto dalla maggioranza dei suoi cittadini. Di conseguenza ciascun paese pensa per sé. A ciò contribuisce pure lo strapotere del sistema finanziario internazionale, in assenza di qualsiasi riforma che sappia arginarlo. Inoltre, se si guarda ai singoli paesi, i partiti al potere hanno un orizzonte decisionale di pochi mesi, ovvero pensano soprattutto alle prossime elezioni, mentre dovrebbero ragionare su un arco di più anni. Peraltro l’impotenza deriva anche da una diagnosi sbagliata – quando non sia volutamente artefatta – delle cause della crisi di bilancio. Quest’ultima viene concepita come se derivasse da un eccesso di uscite generato dai costi dello stato sociale, laddove si tratta in complesso di un calo delle entrate che dura da oltre un decennio. Esso è stato causato da diversi fattori: i salvataggi delle banche, che solo nel Regno Unito e in Germania sono costati un paio di trilioni di euro; le politiche di riduzione dell’onere fiscale concesse ai ricchi, che hanno sottratto centinaia di miliardi ai bilanci pubblici (in Francia, ad esempio, tra i 100 e i 120 miliardi nel decennio 2000-2009); infine il fatto che grazie alle delocalizzazioni le corporation pagano le imposte all’estero, dove tra l’altro sono minime, e non nel paese d’origine. Ancora in Francia, per dire, si è molto discusso del caso Total, il gigante petrolifero che nel 2010 ha conseguito 12 miliardi di utili, ma in patria – del tutto legalmente – non ha pagato un euro di imposte (salvo qualche milioncino che vale come indennizzo ai comuni dove opera ancora qualche suo impianto). Ora se un governo è ossessionato dall’idea che il deficit sia dovuto unicamente a un eccesso di spesa sociale punta a tagliare quest’ultima, cercando però al tempo stesso di evitare ricadute negative in termini elettorali, e per la medesima ragione si rifiuta di accrescere le entrate alzando le imposte ai benestanti, o alle imprese delocalizzate. È ovvio che non fa differenza se quel governo sa benissimo che la diagnosi è errata, ma la abbraccia per soddisfare le forze economiche cui ritiene di dover rispondere. In ambedue i casi il risultato sono manovre che picchiano soltanto sui più deboli, mentre le radici reali della crisi non sono nemmeno intaccate.
I vincoli di bilancio quali conseguenze hanno sull'economia «reale»?
Le più visibili sono l’aumento della disoccupazione e del lavoro precario. I licenziamenti in tanti paesi di centinaia di migliaia di dipendenti della PA, insegnanti compresi, i tagli alle spese dei ministeri ed ai servizi resi dai comuni, a partire dai trasporti pubblici, l’aumento delle imposte indirette come l’Iva, comportano nell’insieme una riduzione dei consumi e con essa una minor domanda di beni e servizi alle imprese. Queste reagiscono licenziando o assumendo quando capita solo con contratti a termine, il che genera altra disoccupazione, in un minaccioso avvitarsi dei processi economici verso il basso.
Ha senso, come alcuni fanno, auspicare il default o il ritorno alle monete nazionali?
Sarebbe una pura follia. In primo luogo il ritorno a diciassette monete diverse solleverebbe difficoltà tecniche assai complicate da superare, poiché l’integrazione economica, finanziaria e legislativa tra i rispettivi paesi ha fatto nel decennio e passa dell’euro molti passi avanti. Inoltre parecchi paesi avrebbero a che fare con tassi di scambio catastrofici. Tra di essi vi sarebbe sicuramente l’Italia. Il giorno dopo un eventuale ritorno alla lira ci ritroveremmo con il franco a 500 lire (era a 300 quando venne introdotto l’euro), il marco a 2.000 (era a 1.000) e la sterlina a oltre 3.000. A qualche imprenditore simili tassi possono far gola, poiché favoriscono le vendite all’estero; ma essendo quella italiana un’economia di trasformazione, che all’estero deve comprare tutto, dal gas ai rottami di ferro, il costo degli acquisti dall’estero le infliggerebbe un colpo insostenibile.
Gli stati, i governi hanno ancora qualche margine di manovra e qualche peso sulle decisioni di fondo o tutto è nelle mani di Fmi, Bce o Commissione di Bruxelles?
La troika in questione ha di fatto espropriato i paesi Ue della loro sovranità – con l’eccezione della Germania per la sua capacità produttiva e del Regno Unito perché ha conservato una moneta sovrana. Senza le riforme strutturali della Ue, implicite in ciò che dicevo all’inizio, essa continuerà a dettar legge.
Che giudizio dà sulla manovra italiana? E sull'atteggiamento un po' rassegnato – sul merito – delle opposizioni parlamentari?
La manovra italiana è una fotocopia sbiadita delle solite ricette che la troika di cui sopra trasmette regolarmente ai paesi in difficoltà. Di certo essa accrescerà la disoccupazione, impoverirà ulteriormente il paese, ponendo così le basi per dieci anni di recessione – teniamo conto che il nostro Pil è ancora parecchi punti al disotto del livello raggiungo nel 2007 – e per giunta non servirà in alcun modo a ridurre il debito pubblico. Su questo fronte l’opposizione difficilmente poteva opporsi all’ultimo momento, poiché quando la nave sta affondando uno cerca di salvare il salvabile, piuttosto che continuare a insistere sui difetti di progettazione della nave. Peraltro le opposizioni hanno avuto anni per chiamare i cittadini a discutere su tali difetti, quelli della povera scialuppa del governo ma anche quelli della nave Ue, e provare a disegnare insieme con loro un progetto diverso. Non mi pare che finora le loro proposte abbiano lasciato traccia di sé, nella memoria dei cittadini o nei documenti.
Dopo il tracollo del settembre 2008, la finanza pubblica dell’Occidente ha iniettato nel sistema bancario enormi quantità di denaro per far fronte alla crisi di liquidità che l’esplodere della bolla speculativa aveva generato. Mai nel dopoguerra si era assistito a un piano di salvataggio di così ampie e sistemiche proporzioni realizzato a suon di miliardi di euro/dollari per ricapitalizzare il sistema bancario americano ed europeo. Con quella manovra si voleva evitare che il collasso del sistema finanziario trascinasse con sé l’intera economia mondiale dando il via a una recessione analoga a quella degli anni ’30.
Nel 2010, nel giro di pochi mesi, i principali istituti finanziari e bancari sono tornati a macinare profitti, grazie agli impieghi realizzati proprio con la liquidità addizionale messa a disposizione dagli Stati. Impieghi finanziari che solo in minima parte hanno favorito progetti imprenditoriali e industriali diretti. La stragrande maggioranza di quelle risorse sono invece tornate – come se nulla fosse successo pochi mesi prima – a puntare sui prodotti offerti dalla finanza speculativa e d’azzardo.
Insomma, mentre gli Stati s’indebitavano, buttando nel cestino, nel volgere di pochi giorni, decenni di dichiarazioni solenni sull’inderogabilità dei patti di stabilità, stracciando impegni sovranazionali basati sul rigido rispetto di politiche monetarie restrittive quale unico baluardo contro l’instabilità (chi si ricorda più dei vincoli di Maastricht oggi?), ebbene di fronte a questa svolta epocale, le Banche con totale non chalance confermavano quelle stesse regole di gestione e di massimizzazione dei profitti che le avevano condotte tra il 2007 e il 2009 sull’orlo della bancarotta.
Per usare un’immagine speriamo efficace, la storia a cui abbiamo assistito nell’ultimo biennio è quella di un naufrago che, salvato dai flutti nei quali, a scienza certa, stava affogando, appena riprende fiato, non trova nulla di meglio che correre a comprare una pistola con la quale uccidere il proprio salvatore. Basta guardare ai crudi fatti perché ne risulti confermata questa paradossale ma purtroppo autentica storia.
Le decisioni di investimento, di impiego e di smobilizzo messi in atto dagli operatori finanziari, direttamente o indirettamente, corrispondono a questa immagine: infatti un buon numero di queste istituzioni hanno puntato sul fallimento di alcuni Stati dell’Unione europea, gli stessi che pochi mesi prima avevano anch’essi deciso il loro salvataggio.
E’ un dato di fatto che dagli attacchi speculativi a Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia – i cosiddetti PIGS - alcuni investitori ribassisti hanno ricavato ingenti margini. Dove sono ora finite quelle prese di profitto? Certamente al sicuro, in qualche banca svizzera o in qualche fondo off-shore, o semplicemente su altre piazze finanziarie mondiali considerate più sicure. L’effetto cumulativo delle ondate speculative torna ora come un boomerang e sembra non voler risparmiare nessuno.
Così, a piangere e a lamentarsi, oltre ai piccoli risparmiatori, ai dipendenti pubblici e privati, ai precari, ai disoccupati, ai giovani e ai pensionati, ecco aggiungersi, ancora una volta, le banche, europee e americane senza distinzione. Alcune piangono di più, ad esempio le francesi e le tedesche, e altre di meno.
Di che si lamentano? Le banche si lamentano della qualità dei loro portafogli, pieni zeppi di titoli di stato dei PIGS, comprati non secoli fa ma pochi mesi fa o anche solo l’altro ieri, allettate dai considerevoli rendimenti che la speculazione ha originato. Ma se domani la Grecia prima e dopodomani l’Italia dichiarassero lo stato di default, quegli attivi diventerebbero automaticamente carta straccia.
Qual è allora l’ultima trovata del G20 e del Fondo Monetario Internazionale? Creare un Fondo salva-Stati che entrando nel capitale delle Banche permetta loro di assorbire le perdite che si creeranno quando quei titoli del debito pubblico non varranno più nulla.
Sorge subito un dubbio: ma perché se si devono salvare gli Stati, si salvano innanzitutto le banche? Non sarebbe più semplice con l’emissione di eurobond sostituire in parte i titoli nazionali rendendo quel debito sovrano meno rischioso? E a proposito di banche, non è proprio per il fatto che i titoli dei PIGS sono così rischiosi che esse, in quanto principali investitori istituzionali, ricevono per la loro sottoscrizione tassi di interesse stratosferici, del 4, 10 e sino al 20% in più degli interessi pagati sui titoli tedeschi? Del resto, se si trattasse di debito privato saremmo già oltre il tasso di usura!
Certo, con l’intervento europeo, scomparirebbe il rischio (perché pagato dal pubblico) e quei tassi dovrebbero ritornare su livelli normali – salvo che continueremmo a non sapere che fine hanno fatto le prese di profitto. E sia, diciamo che questo ennesimo sacrificio pubblico mira a rimettere in ordine le cose, a evitare il peggio. Ma allora, ci chiediamo: chi ci garantisce che la storia non si ripeterà?
Perché non si ripeta la beffa della capitalizzazione del 2009, quali condizionalità saranno imposte alle banche, quale sarà il potere di veto dell’azionista pubblico sulle scelte di investimento e di gestione dei banchieri? Oppure, ancora una volta, in nome della “sacralità del mercato” le nuove risorse bancarie torneranno ad abbattersi, come letali armi di distruzione di massa, sulla vita dei cittadini che gli stessi Governi dovrebbero tutelare?
Questa nuova fase sarebbe doppiamente fatale – e così per certi versi è già negli annunci: da un lato, si scatenerebbe un’ondata supplementare di privatizzazioni per saldare i nuovi debiti originati dal Fondo salva-banche e, dall’altro, quelle risorse sarebbero impiegate proprio per comprare a prezzi stracciati interi comparti del patrimonio pubblico. L’inevitabile risultato sarebbe il secco impoverimento della popolazione e il corrispettivo aumento del tasso di finanza cattiva nei gangli dell’economia mondiale.
Il paradosso è dunque quello di un mondo alla rovescia in cui più ti comporti male e più vieni premiato? Purtroppo, la beffa è che in nome dell’infallibilità dei mercati, le sanzioni applicate appaiono totalmente asimmetriche: se il debito pubblico non è credibile, bisogna licenziare, tagliare, vendere; se invece la finanza privata non sta in piedi, allora va salvata, perché altrimenti il panico dei mercati si potrebbe estendere a macchia d’olio, eccetera, eccetera.
Morale lapalissiana: se il mondo è storto, vuol dire che non è dritto. Occorre dunque ricostruire un mondo equilibrato e portatore di un’etica degna di questo nome. Le banche debbono semplicemente tornare a fare il loro mestiere: cioè utilizzare i risparmi delle persone per concedere crediti a chi ha progetti validi ed è capace di produrre lavoro e ricchezza. Né più né meno che questo. I Governi, d’altro canto, hanno il sacrosanto dovere di consolidare il debito storico ormai ingestibile, un fardello che non può pesare ad infinitum sul futuro nostro e dei nostri figli.
In un mondo così complesso, le cose a volte possono essere a tratti meravigliosamente lineari e comprensibili. Renderle tali è compito della Politica, ottemperando ai propri fini che sono quelli dell’interesse pubblico e non quello di pochi, voraci e autodistruttivi pescecani.
Qui il blog del Gruppo di cultura politica Fondamente
Parlando in nome della Chiesa italiana, il cardinale Bagnasco ha usato parole molto chiare, ieri, davanti al Consiglio permanente dei vescovi. Il nome del presidente del Consiglio non viene fatto, ma è di Berlusconi che parla: quando denuncia «i comportamenti licenziosi e le relazioni improprie», quando ricorda il «danno sociale (che essi producono) a prescindere dalla loro notorietà». Quando cita l´articolo 54 della Costituzione e proclama: «Chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell´onore».
Non è la prima volta che il Presidente della Cei critica l´immoralità insediatasi ai vertici del governo italiano, ma questa volta le parole sono più precise e dure, il tono si fa drammatico perché il Vaticano ormai ne è consapevole: la personalità stessa del premier è elemento della crisi economica che sta catturando l´Italia, e all´estero la sua figura non è più giudicata affidabile. Tra le righe, Bagnasco fa capire che le dimissioni sarebbero la via più opportuna: «Quando le congiunture si rivelano oggettivamente gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili. La storia ne darà atto».
Come in altre occasioni, non manca la critica parallela alla magistratura: critica che Berlusconi ha abilmente sfruttato a proprio favore, per lungo tempo, presentandosi come politico vicino alla Chiesa e da essa appoggiato. Il Cardinale ha dubbi «sull´ingente mole di strumenti di indagine messa in campo, quando altri restano disattesi e indisturbati» e giunge sino a dirsi «colpito dalla dovizia delle cronache a ciò dedicate»: sono dubbi e sbigottimenti non del tutto comprensibili, perché è pur sempre grazie alla magistratura e alla dovizia delle cronache che la Chiesa stessa, infine, ha dovuto constatare i «comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui»; «l´improprio sfruttamento della funzione pubblica»; i «comitati d´affari che, non previsti dall´ordinamento, si autoimpongono attraverso il reticolo clientelare, andando a intasare la vita pubblica con remunerazioni, in genere, tutt´altro che popolari»; l´evasione fiscale infine, «questo cancro sociale» non sufficientemente combattuto. Senza le inchieste della stampa indipendente, senza le intercettazioni ordinate dai pubblici ministeri, senza la documentazione sugli innumerevoli reati imputati al premier, la Chiesa non potrebbe fondatamente pronunciare, oggi, il suo «non possumus».
Anche in questo caso tuttavia, Bagnasco cambia tono rispetto agli anni scorsi. Pur esprimendo dubbi su magistrati e giornalisti, si rifiuta di metter sullo stesso piano le condotte degli uni e degli altri: «La responsabilità morale ha una gerarchia interna che si evidenzia da sé, a prescindere dalle strumentalizzazioni che pur non mancano (...) La questione morale, complessivamente intesa, non è un´invenzione mediatica: nella dimensione politica, come in ciascun altro ambito privato o pubblico, essa è un´evenienza grave, che ha in sé un appello urgente».
La questione morale non è un´invenzione mediatica: lo dicono da tempo tanti cattolici, laici e non, e la Chiesa italiana sembra volerli ascoltare, meno riottosamente di ieri. Si capisce che non faccia nomi espliciti, che non usi l´arma ultima che è la richiesta esplicita di dimissioni: sarebbe un´interferenza nella politica italiana, non promettente per il futuro anche se comprensibilmente invocata da molti. La Chiesa già interviene molto sulle scelte delle nostre istituzioni (il testamento biologico è un esempio), e non sarebbe male se in tutti gli ambiti osservasse la prudenza politica che manifesta verso Berlusconi, non nominandolo espressamente. Forse la condanna che oggi pronuncia - che questo giornale ha chiesto con forza - non può che essere spirituale, al momento: il cristiano non compra l´amore, non compra il consenso, non mente, non inganna, non privilegia i ricchi contro i poveri, non presta falsa testimonianza. Su questi e altri peccati ce ne sono, di cose da dire.
La vera questione, a questo punto, concerne i cattolici che sono nella maggioranza, e che dovranno giustificare ora le innumerevoli connivenze, i silenzi così tenaci e vili. Cosa pensano Formigoni, o Giovanardi, delle parole che vengono dal vertice della Conferenza episcopale italiana? Con che faccia il ministro Rotondi parla di Berlusconi come di un «santo puttaniere»? Perché "santo"? Per tutti costoro, più che per la Chiesa, vale oggi il comandamento di Gesù: «Sia invece il vostro parlare «sì sì», «no no», il di più viene dal maligno». Il Cardinale sembra avere in mente questi politici quando constata: «Colpisce la riluttanza a riconoscere l´esatta serietà della situazione al di là di strumentalizzazioni e partigianerie; amareggia il metodo scombinato con cui a tratti si procede, dando l´impressione che il regolamento dei conti personali sia prevalente rispetto ai compiti istituzionali e al portamento richiesto dalla scena pubblica, specialmente in tempi di austerità».
Non è escluso che il Papa abbia avuto il suo peso, nel linguaggio più aguzzo cui la Chiesa italiana ricorre. Da quando si è inasprita la crisi, Benedetto XVI ha usato parole di grande severità contro le ingiustizie e le diseguaglianze che lo sconquasso economico sta dilatando. Va in questa direzione l´omelia pronunciata l´11 settembre a Ancona. E nel viaggio in Germania il Pontefice non ha esitato ad ammettere che la Chiesa per prima è oggi scossa alle fondamenta: che per sopravvivere e rinascere deve "demondanizzare" se stessa, deve farsi scandalosa. Nel discorso al Konzerthaus di Friburgo ha ricordato che uno dei tanti fattori che rendono "poco credibile" la Chiesa è il suo apparato, e sono le sue ricchezze materiali.
Demondanizzarsi, riscoprire l´umiltà e la povertà: è un progetto di vita alto, è l´antica denuncia che Antonio Rosmini fece nelle Cinque Piaghe della Chiesa (inizialmente la Sacra Congregazione dell´Indice condannò il grande libro, nel 1849). «La Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?» lo ha chiesto a Friburgo il Papa, stavolta, e quel che ha chiesto è importante anche per l´Italia, alla cui costruzione e alla cui unità tanti cattolici laici hanno contribuito. Così come è essenziale anche il discorso sulla povertà. È già un passo non irrilevante la disponibilità di Bagnasco a farsi giudicare, sulle sovvenzioni che la Chiesa riceve dallo Stato italiano: «Facciamo notare che per noi, sacerdoti e vescovi, e per la nostra sussistenza, basta in realtà poco. Così come per la gestione degli enti dipendenti dalle diocesi. Se abusi si dovessero accertare, siano perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti».
La Fiom non cambia linea. Chi ha letto nella conclusione unitaria dell'assemblea nazionale dei delegati e nella buona accoglienza riservata a Susanna Camusso un cambiamento di rotta dei metalmeccanici Cgil, un rientro «nei ranghi», ha preso un abbaglio. Parola di Maurizio Landini. Il segretario generale della Fiom ci rilascia questa intervista a conclusione dell'assemblea degli «indignati», in preparazione della giornata europea del 15 ottobre. Segno anche questo che la linea non cambia, e non cambiano le alleanze: con gli studenti, i precari, l'ambientalismo, i movimenti nati sul territorio contro le politiche liberiste e antipopolari. L'obiettivo è «la riunificazione delle lotte che hanno al centro diritti, dignità, un modello di sviluppo alternativo a quello che cancella ogni vincolo sociale e ambientale».
A pochi giorni dalla ratifica della firma di Susanna Camusso con Cisl, Uil e Confindustria, in calce all'accordo del 28 giugno che voi contestate, improvvisamente la Fiom ritrova l'unità e si riapre positivamente il confronto con la Cgil? Chi è andato a Canossa, tu o la Camusso?
Nessuno dei due. Io sono un sindacalista e sto al merito delle questioni: sulle politiche contrattuali, sia l'opposizione agli accordi separati che la rottura con la Fiat di Marchionne non hanno visto forti divisioni tra Fiom e Cgil. Comune è il giudizio negativo sull'articolo 8 della manovra. Noi abbiamo costruito una proposta convincente e condivisa sulla piattaforma contrattuale con un lavoro determinato nel territorio nell'ultimo anno e mezzo segnato da difficoltà e conflitti. Un'esperienza che ha unito l'organizzazione e rafforzato il rapporto con i lavoratori, ma anche posto le condizioni per una ripresa di un confronto più sereno con la nostra confederazione, che ha assunto la piattaforma votata quasi all'unanimità. Ciò non toglie che sull'accordo del 28 giugno e sulla decisione di ratificare la firma della Cgil senza consultare i lavoratori restano due giudizi diversi, esplicitati nella mia relazione, nell'intervento di Camusso e nel dibattito. La dialettica è molto forte, ma è possibile uscirne positivamente.
Veniamo alla piattaforma contrattuale. Quali sono gli aspetti caratterizzanti?
Al primo punto metterei la definizione di un accordo con tutte le controparti sulle regole democratiche, per evitare nuovi accordi separati. Come? Innanzitutto garantendo sempre il voto dei lavoratori. Questa condizione non è garantita dall'accordo del 28 giugno, e tantomento dall'articolo 8 della manovra. Chiediamo a tutti, sindacati e organizzazioni imprenditoriali, un atto di responsabilità per chiudere una stagione orribile, segnata da idee e contratti diversi: c'è chi come noi riconosce quello del 2008 oggi in scandenza e chi invece si rifà a quello separato del 2009. La Fiom vuole riconquistare il contratto unitario, sottoscritto da tutti, questo è l'asse portante della nostra piattaforma assunta dalla Cgil.
Fa discutere la disponibilità della Fiom a raffreddare il conflitto. Non sarà un modo sotterraneo per accettare la sospensione del diritto di sciopero?
Noi difendiamo il contratto nazionale, il suo primato all'interno del sistema contrattuale, la sua non derogabilità. In qualche caso, penso all'informatica o alle istallazioni telefoniche, è possibile che il contratto nazionale che resta uguale per tutti e ovunque, demandi al contratto aziendale la definizione di normative congrue con la specificità dei singoli settori, in materia di orari, trasferte e quant'altro. Vogliamo anche noi qualificare la contrattazione nelle aziende e il ruolo delle Rsu, e a questo scopo chiediamo alle controparti informazioni preventive sulle eventuali modifiche dell'organizzazione del lavoro, sulle ristrutturazioni, sui progetti, sui trasferimenti, per farla finita con l'unilateralità delle imprese. Se si accetta questo principio, se dentro la crisi si riconosce il ruolo del sindacato e si smette di attaccare i diritti dei lavoratori, allora anche noi siamo disponibili ad evitare azioni unilaterali. Oggi non abbiamo né informazioni né confronto sindacale ma solo aggressioni ai diritti sindacali e del lavoro. Senza un accordo chiaro, controfirmato e rispettato è impensabile qualsiasi raffreddamento del conflitto.
Che cosa ha prodotto in piattaforma il rapporto costruito con il mondo giovanile e il precariato?
Ci diciamo disponibili a un maggior utilizzo degli impianti previa contrattazione, ma se ci si chiede di andare oltre la situazione attuale, si pone il problema della riduzione degli orari e l'aumento dell'occupazione. E alle controparti chiediamo di sviluppare un'azione comune nei confronti del governo per favorire la stabilizzazione dei precari. Ribadiamo, a parità di prestazione parità di diritti e condizioni lavorative. Le forme di lavoro temporaneo devono costare di più, proprio per stabilizzare i lavoratori. Infine, accettiamo la trimestralizzazione del contratto e per questo chiediamo un aumento salariale di 208 euro tra il 3° e il 5° livello. Questo aumento dovrebbe essere detassato.
Come pensate di continuare la battaglia contro l'articolo 8 della manovra?
Andremo avanti fino al ripristino del diritto del lavoro, la nostra piattaforma è alternativa all'articolo 8. Qui c'è un punto di unità con la Cgil e con il paese, come testimonia lo straordinario successo dello sciopero del 6 settembre che ha convinto tante persone anche esterne alla Cgil, magari iscritte ad altre organizzazioni. Condividiamo la scelta della confederazione di ricorrere alla Corte costituzionale, ma se ciò non bastasse dovremmo continuare con le lotte, fino a organizzare un referendum popolare abrogativo dell'articolo 8. Non sarà soltanto questa battaglia a caratterizzare l'iniziativa della Fiom. Abbiamo deciso 8 ore di sciopero per proseguire nel territorio la mobilitazione avviata con lo sciopero generale. Poi terremo un'assemblea generale dei delegati Fiat per decidere insieme iniziative, così come avverrà in altri gruppi come la Finmeccanica. L'obiettivo resta la riunificazione delle lotte, a cui non è estraneo l'impegno sociale per la caduta del governo Berlusconi.
La battaglia contro Berlusconi legittima l'alleanza con la Confindustria che chiede più privatizzazioni e liberalizzazioni, mentre pratica l'attacco ai diritti?
Certo che no. Ho letto il manifesto di Confindustria, teso a peggiorare le politiche sociali ed economiche del governo. Noi ci battiamo contro la filosofia che ha prodotto la crisi e contro una risposta che si fonda sulla stessa filosofia e sulle stesse persone.
Hai faticato a spiegare agli indignati che la Fiom non cambia la sua linea in nome di esigenze superiori?
Nessuna fatica, e per altro nessun sospetto all'assemblea sul 15 ottobre. La Fiom è un sindacato, le sue posizioni e le sue battaglie sono note e se queste incontrano la condivisione della Cgil credo che ciò faccia bene alla Fiom, alla Cgil, ai lavoratori e ai movimenti.
Per il Partito democratico, stanco di tenere a bada le sue rissose anime sindacali, più numerose degli operai iscritti al partito, è una gran bella notizia: la Cgil, per mano della sua segretaria generale, ha ratificato l'accordo che sancisce la controriforma del sistema contrattuale, manda in pensione il contratto nazionale con il meccanismo perverso delle deroghe e toglie ai lavoratori il diritto di votare sugli accordi che riguardano la loro vita e il loro lavoro. Hanno vinto la Confindustria di Emma Marcegaglia che voleva cancellare gli ultimi vincoli sociali (e costituzionali) allo strapotere del capitale e il segretario della Cisl Raffaele Bonanni che incassa l'isolamento della Fiom.
La Fiom, l'ultima trincea che resiste all'attacco all'autonomia del lavoro e all'indipendenza del sindacato. Ha vinto anche Maurizio Sacconi, il peggior ministro del lavoro della storia d'Italia, che ha imposto nella manovra l'articolo 8 con cui si fa piazza pulita della contrattazione e si introduce addirittura la retroattività della norma che deroga ai contratti nazionali attraverso l'uso spregiudicato dei contratti aziendali siglati da sindacati di comodo. Un regalo alla Fiat di Marchionne, l'eroe dei due mondi che chiude uno stabilimento dopo l'altro, perde ovunque quote di mercato, viene declassato per i suoi debiti ma continua a volerla fare da padrona, con la conseguenza di vedere il conflitto operaio estendersi dagli stabilimenti del vecchio a quelli del nuovo mondo.
Un vero capolavoro: Cgil, Cisl, Uil e Confindustria di nuovo insieme. A pochi giorni dallo straordinario successo dello sciopero generale indetto dalla Cgil, il sindacato di Susanna Camusso rientra nei ranghi - e per tanti di quelli che il 6 settembre avevano scioperato e riempito le piazze di tutt'Italia sperando nell'inizio di una nuova storia, questa normalizzazione verrà vissuta come una debacle, e al vuoto di una sponda politica per i più colpiti dalla crisi e dalle manovre classiste si aggiunge la caduta di una sponda sociale. Perché la firma definitiva dell'accordo del 28 giugno non argina l'effetto mortifero per la democrazia dell'articolo 8 di Sacconi, ne è anzi la premessa e lo giustifica. La Cgil, con questa firma che non è legittimata da alcuna consultazione tra i lavoratori, rompe con la sua storia democratica e secondo la minoranza interna, ridotta al silenzio con una pratica che scavalca ogni centralismo democratico e rimanda alla stagione delle purghe staliniane degli anni Trenta, persino con il suo statuto. Non solo agli operai è negato il diritto di voto sui contratti e gli accordi, neanche possono più esprimersi sulle scelte del proprio sindacato.
Hai voglia a prendetela con l'antipolitica di chi dice sono tutti uguali, o a mettere l'insufficienza sui compiti di chi riduce tutto al conflitto contra la casta, se anche la parte "sana" del sindacato, quella non arruolata nelle fila dell'avversario di classe, fa prevalere una indecente interpretazione dell'autonomia del politico che cancella quella del sindacato. Forse Berlusconi sta per cadere, allora tutti insieme per la nuova Italia, insieme alla Confindustria che attacca il governo anche se lo fa da un versante iperliberista chiedendo privatizzazioni, attaccando salari diritti e pensioni di chi già oggi non ce la fa più a campare. È una logica suicida, quella del Pd e della maggioranza della Cgil: purché siano contro Berlusconi sono nostri alleati. Persino i burocrati di Standard&Poor's vengono promossi al rango di compagni. Non siamo certo alla fine della storia, ma sicuramente al suo arretramento. La Cgil e la sua segretaria dovranno però fare i conti con la realtà, e forse anche con la loro base sociale. Già a partire da oggi all'assemblea nazionale dei delegati Fiom, dove è attesa proprio Susanna Camusso.
«L'economia mondiale sta diventando sempre più ingiusta e insostenibile: uccide più delle bombe». «Quest'ingiustizia affonda le radici in un neoliberismo che non sa rispondere ai veri bisogni delle persone» e cresce in un'economia che privilegia «le rendite finanziarie e i guadagni speculativi anziché la produzione, la crescita quantitativa anzichè la qualità, lo sfruttamento della natura e dell'ambiente anziché la loro protezione». Dopo la crisi finanziaria di questi mesi non è difficile essere d'accordo con questa critica.
Ma queste parole erano scritte 14 anni fa nell'appello della Marcia Perugia-Assisi "Per un'economia di giustizia" del 12 ottobre 1997. La Tavola della Pace, nata in quell'occasione, portò centomila persone a chiedere - con indubbia capacità di anticipazione - un'economia meno ingiusta. La pace si costruisce con la giustizia, e l'ingiustizia dell'economia che si globalizza è la fonte principale dei conflitti, «uccide più delle bombe». La soluzione è in un ordine internazionale che faccia a meno delle armi e che riduca sottosviluppo e disuguaglianze. Per farlo, il potere dei mercati, della finanza e delle grandi imprese multinazionali deve cedere il passo agli strumenti della politica e ai diritti delle persone. Questo il filo del discorso di allora.
L'analisi era precisa: le disuguaglianze aumentano ovunque, i problemi di sopravvivenza della parte più povera dell'umanità sono irrisolti, il sottosviluppo genera disastri ambientali, lotta per le risorse, conflitti senza fine. L'ingiustizia viene dal neoliberismo e da una logica di profitto che impedisce il benessere di tutti; il mercato calpesta le persone e i benefici di tutto questo vanno ad «alcuni paesi più forti e alcune élite economiche e sociali, aumentando la marginalizzazione di milioni di persone».
Qualcosa è cambiato da allora, non molto nella sostanza. Allora non si immaginava che l'Italia sarebbe stata messa fuori così presto dal gruppo dei paesi forti, che da allora a oggi il Pil italiano in termini reali non sarebbe praticamente aumentato. Cina, India, altri paesi asiatici, alcuni paesi dell'America latina hanno avuto un rapido sviluppo, i redditi medi sono aumentati, ma così pure le disuguaglianze interne a quei paesi. L'ingiustizia non è diminuita. L'insostenibilità del modello neoliberista ha portato al grande crollo del 2008 e alla recessione attuale, ma il potere politico ed economico resta aggrappato all'intoccabilità della finanza e al mito dell'efficienza dei mercati. Così l'insostenibilità si aggrava. È cambiato - denunciato solo dai pacifisti - il ricorso alla forza militare, tornato all'ordine del giorno. Dalla guerra nei Balcani del 1999 ai bombardamenti in Libia di oggi - passando per le guerre del Golfo e in Afghanistan - l'Occidente e il nostro paese si sono rimessi a fare la guerra per imporre un ordine neocoloniale, occasionalmente travestito con la tutela dei diritti umani. Le vittime - e le conseguenze - si moltiplicano.
Che cosa si chiedeva, 14 anni fa, ai potenti dell'economia? Partire dalle persone, battersi contro povertà e disuguaglianze, dare lavoro a tutti e dare dignità al lavoro, mettere cooperazione, democrazia e sostenibilità dentro l'economia. Mentre la globalizzazione neoliberista costruiva i suoi pilastri - il "consenso di Washington" e l'Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) - i pacifisti chiedevano ai governi un'autorità politica sovranazionale che bilanciasse il potere dell'economia globale e la perdita di sovranità degli stati. La scommessa era di democratizzare e riformare il sistema delle Nazioni Unite, dare spazio all'agenda illuminata delle grandi conferenze Onu degli anni '90 - sull'ambiente, le donne, lo sviluppo sociale, il razzismo, etc. - e alle convenzioni sul lavoro dell'Organizzazione internazionale del lavoro dell'Onu - creando una possibile difesa contro una globalizzazione pagata dai lavoratori.
Quest'offensiva "cosmopolitica" ha avuto pochi risultati, l'Onu si è ripiegata su se stessa, soprattutto negli anni bui delle presidenze Bush, le conferenze Onu a dieci anni di distanza hanno tutte registrato un arretramento degli obiettivi di cambiamento. Ma anche la globalizzazione è finita, prima ancora della crisi del 2008; la spinta propulsiva del libero commercio e del Wto si è esaurita, si è affermata una dinamica regionale - in Asia e America latina come in Europa - che diversifica le traiettorie di sviluppo. Agli organismi sovranazionali - Fmi e Banca mondiale - si chiedeva di cambiare politica e «la cancellazione del debito estero dei paesi impoveriti, che ha raggiunto la cifra record di circa 2000 miliardi di dollari». Ora il debito del terzo mondo non è più cosi pesante, e l'Italia da sola supera quella cifra, con un debito che in dollari vale 2700 miliardi. Perfino il Fondo monetario ha moderato la sua ortodossia liberista; in compenso, la sua vittima più recente è diventata la Grecia. Alle politiche dei governi si chiedeva di «redistribuire le ricchezze, di offrire nuova occupazione anche riducendo gli orari di lavoro», di tutelare i diritti dei lavoratori, di dare spazio alle donne e all'economia solidale. Su questo fronte nulla è stato fatto, continuiamo ad arretrare rispetto a 14 anni fa, le richieste di oggi sono le stesse. Il sistema politico degli stati sembra più immobile di quello mondiale.
Per i pacifisti, poi, c'era la «responsabilità di agire». Non solo marce e proteste. Si è lavorato a costruire reti transnazionali di società civile capaci di proporre alternative, che avessero ascolto nelle istituzioni globali. Per questo 14 anni fa a Perugia si tenne - prima della marcia - la prima Assemblea dell'Onu dei popoli con un centinaio di rappresentanti di movimenti, associazioni, comunità locali di altrettanti paesi diversi. E due anni dopo, nel 1999, la successiva Assemblea dell'Onu dei popoli si intitolava "Un altro mondo è possibile": tre mesi dopo ci fu la rivolta di Seattle contro l'Omc e un anno e mezzo dopo il primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre scelse lo stesso titolo. Incontri di massa di questo tipo tra i movimenti di tutto il mondo sono diventati appuntamenti regolari, e la società civile - con le sue reti, campagne, eventi - è diventata un soggetto visibile e influente sulla scena globale.
Agire ha voluto dire fare dell'economia di giustizia un tema condiviso da centinaia di associazioni ed enti locali, capace di mettere in moto migliaia e migliaia di persone, aprendo la via alle proteste di massa degli anni successivi contro la globalizzazione liberista, fino al G8 di Genova del 2001. Agire ha voluto dire incalzare la politica ad affrontare le ingiustizie, proporre alternative. Nel 2005 all'Assemblea dell'Onu dei Popoli ci fu un confronto con Romano Prodi, candidato del centrosinistra alle elezioni (vittoriose) dell'anno successivo. Fece qualche apertura sul ritiro italiano dalla guerra in Iraq, ma la sua difesa della globalizzazione come forza positiva fu inflessibile, lo stesso per l'integrazione europea guidata da mercati e moneta. Inevitabile la delusione per i risultati della sua politica. Un'esperienza che meriterebbe un nuovo confronto, a Perugia quest'anno. Chissà se il centrosinistra sa imparare dagli errori che il crollo del 2008 e la crisi dell'euro hanno ora messo sotto gli occhi di tutti?
Oggi come 14 anni fa i nodi irrisolti restano il potere dei mercati, della finanza e delle imprese, e l'assenza di una politica capace di affrontare le ingiustizie, nazionali e globali. Qui si misura il fallimento di un'Europa che ha costruito la sua integrazione sul liberismo e la finanza, e ora si trova sotto l'attacco della speculazione, divisa e indebolita. Troppe cose non sono state fatte allora. L'agenda per cambiare non è cambiata. Per limitare il potere della finanza si chiedeva già allora la Tobin Tax sugli scambi di valute. Impensabile e irrealizzabile, ci rispondevano. Ora la fattibilità della tassa sulle transazioni finanziarie è sostenuta da Fmi e Ue (Merkel compresa), però manca ancora la volontà politica di introdurla. Più aiuti allo sviluppo si chiedevano allora; i governi dei paesi ricchi si sono reimpegnati all'Onu nel 2000 a destinare lo 0,7% del loro Pil agli aiuti allo sviluppo, ma hanno subito mancato le promesse; con la crisi attuale gli aiuti sono i primi tagli effettuati. Più occupazione e diritti per tutti i lavoratori, si chiedeva. Ora l'Unione europea ha 23 milioni di disoccupati e in più 15 milioni con lavori temporanei, a tempo pieno o parziale: una precarizzazione generale che 14 anni fa non avremmo sospettato.
Le alternative ci sono, oggi come allora. Le forze del cambiamento anche, unite da un filo che attraversa le mobilitazioni di decenni. Pacifisti e movimenti saranno ancora sulla strada da Perugia ad Assisi, l'appuntamento è per la mattina presto, domenica 25 settembre 2011.
Il sostegno che i vertici della Chiesa continuano a dare a Berlusconi è non solo uno scandalo, ma sta sfiorando l´incomprensibile. Che altro deve fare il capo di governo, perché i custodi del cattolicesimo dicano la nuda parola: «Ora basta»? Qualcosa succede nel loro animo quando leggono le telefonate di un Premier che traffica favori, nomine, affari, con canaglie e strozzini? Non sono sufficienti le accuse di aver prostituito minorenni, di svilire la carica dimenticando la disciplina e l´onore cui la Costituzione obbliga gli uomini di Stato? Non basta il plauso a Dell´Utri, quando questi chiamò eroe un mafioso, Vittorio Mangano? Cosa occorre ancora alla Chiesa, perché si erga e proclami che questa persona, proprio perché imperterrita si millanta cristiana, è pietra di scandalo e arreca danno immenso ai fedeli, e allo Stato democratico unitario che tanti laici cattolici hanno contribuito a costruire?
Un tempo si usava la scomunica: neanche molto tempo fa, nel ´49, fu scomunicato il comunismo (il fascismo no, eppure gli italiani soffrirono il secondo, non il primo). Se Berlusconi non è uomo di buona volontà, e tutto fa supporre che non lo sia, la Chiesa usi il verbo. Ha a suo fianco la lettera di Paolo ai Corinzi: «Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello, ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro; con questi tali non dovete neanche mangiare insieme. Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi!».
Anche l´omissione è complicità. Sta accadendo l´intollerabile dal punto di vista morale, in politica, e i vertici della Chiesa tacciono: dunque consentono. Si può scegliere l´afonia, certo, o il grido inarticolato di disgusto: sono moti umani, ma che bisogno c´è allora di essere papa o vescovo? (avete visto, in Vaticano, Habemus Papam?). Dicono che parole inequivocabili son state dette: «desertificazione valoriale», «società dei forti e dei furbi», «cultura della seduzione». Ma sono analisi: manca la sintesi, e le analisi stesse son fiacche. D´un sol fiato vengono condannati gli eccessi dei magistrati, pareggiando ignominiosamente le condanne. Da troppo tempo questo è, per tanti laici cattolici scandalizzati ma non uditi, incomprensibile. Quasi che il ritardo nella presa di coscienza fosse ormai connaturato nella Chiesa. Quasi che l´espiazione (penso ai mea culpa di Giovanni Paolo II, nobili ma pur sempre tardivi) fosse più pura e santa che semplicemente non fare il male: qui, nell´ora che ci si spalanca davanti.
Un gesto simile a quello di Cristo nel tempio, un no inconfondibile, allontanerebbe Berlusconi dal potere in un attimo. Alcuni veramente prezzolati resterebbero nel clan. Ma la maggior parte non potrebbero mangiare insieme a lui, senza doversi ogni minuto giustificare. Non è necessario che l´espulsione sia resa subito pubblica, anche se lo sapete, uomini di Chiesa: c´è un contagio, del male e del malaffare. Forse basterebbe che un alto prelato vada da Berlusconi, minacci l´arma ultima, la renda nota a tutti. Questa è l´ora della parresia, del parlar chiaro: la raccomanda il Vangelo, nelle ore cruciali.
Sarebbe un´interferenza non promettente per il futuro, lo so. Ma l´interferenza è una prassi non disdegnata in Vaticano, e poi non dimentichiamolo: già l´Italia è governata da podestà stranieri in questa crisi (Mario Monti l´ha scritto sul Corriere: «Le decisioni principali sono prese da un «governo tecnico sopranazionale»), e Berlusconi d´altronde vuole che sia così per non assumersi responsabilità.
Resta che gli alleati europei possono poco. E una maggioranza che destituisca Berlusconi ancora non c´è in Parlamento. Lo stesso Napolitano può poco, ma la sua calma è d´aiuto, nel mezzo del fragore di chi teme chissà quali marasmi quando il Premier cadrà. Il marasma postberlusconiano è fantasia cupa e furba, piace a chi Berlusconi ce l´ha ormai nelle vene. Il marasma, quello vero, è Berlusconi che non governa la crisi ma si occupa di come evitare i propri processi: tanti processi, sì, perché di tanti reati è sospettato. L´Italia è un battello ebbro, il capitano è un simulacro. Non ci sono congiure di magistrati, per indebolire la carica. Il trono è già vuoto. Il pubblico ministero, organo dello Stato che rappresenta l´interesse pubblico, deve per legge esercitare l´azione penale, ogni qualvolta abbia notizia di un reato, e in molte indagini Berlusconi è centrale: come corruttore o vittima-complice di ricatti. Gli italiani non possono permettersi un timoniere così. Se sono economicamente declassati, la colpa è essenzialmente sua.
Berlusconi non farà passi indietro, gli oppositori si ridicolizzano implorandolo senza mai cambiare copione. Oppure vuole qualcosa in cambio, e anche questo sarebbe vituperio dell´Italia. Il salvacondotto proposto da Buttiglione oltraggia la Costituzione. Casini lo ha smentito: «Sarebbe tecnicamente e giuridicamente impossibile perché siamo in uno Stato di diritto».
Perché la Chiesa non dice basta? Si dice «impressionata» dalle cifre dell´evasione fiscale, ma la vecchia domanda di Prodi resta intatta: «Perché, quando vado a messa, questo tema non è mai toccato nelle omelie? Eppure ha una forte carica etica» (Famiglia cristiana, 5-8-07). E come si spiega tanta indulgenza verso Berlusconi, mentre Prodi fu accusato di voler essere cristiano adulto? Pare che sia la paura, ad attanagliare i vertici ecclesiastici: paura di perdere esenzioni fiscali, sovvenzioni. Berlusconi garantisce tutto questo ma da mercante, e mercanti sono quelli che con lui mercanteggiano, di quelli che Cristo cacciò dal tempio rovesciandone i banchi. E siete proprio sicuri di perdere privilegi? Tra gli oppositori vi sono persone a sufficienza, purtroppo, che non ve li toglieranno. Paura di un cristianesimo che in Italia sarebbe saldamente ancorato a destra? Non è vero. Non posso credere che lo spauracchio agitato da Berlusconi (un regime ateo-comunista)abbia ancora presa. Oppure sì? Penso che la Chiesa sia alle prese con la terza e più grande tentazione. Alcuni la chiamano satanica, perché di essa narra il Vangelo, quando enumera le prove cui Cristo fu sottoposto: la prova della ricchezza, del regno sui mondi: «Tutte queste cose ti darò, se prostrandoti mi adorerai». La Chiesa sa la replica di Gesù.
Il Papa ha detto cose importanti sulla crisi. Che agli uomini vengon date pietre al posto del pane (Ancona, 11 settembre). La soluzione spetta a politici che arginino i mercati con la loro autorevolezza. Non saranno mai autorevoli, se ignorano la quintessenza della decenza umana che è il Decalogo. Ma neanche la Chiesa lo sarà. Diceva Ilario di Poitiers all´imperatore Costanzo, nel IV secolo dC: «Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l´anima con il denaro».
Gli italiani, ricchissimi e disperati. Ebbene sì, siamo ricchissimi, più dei francesi e dei tedeschi, più degli inglesi, degli americani e dei giapponesi. Lo dicono i numeri: la ricchezza lorda delle famiglie italiane alla fine del 2010 ammonta a 9 mila 732 miliardi di euro, i debiti (sempre delle famiglie) a circa mille miliardi, la ricchezza netta è quindi pari a 8 mila 700 miliardi. È una cifra enorme, quasi sei volte il pil, quattro volte e mezzo il debito pubblico, 7,8 volte il reddito disponibile, contro il 7,7 del Regno Unito, il 7,5 della Francia, il 7 del Giappone, il 6,3 della Germania e il 4,8 degli Stati Uniti. Siamo più ricchi di loro ma stiamo peggio. Perché?
Per spiegarlo dobbiamo partire dall’inizio, ovvero da come abbiamo fatto ad accumulare tanto. I motivi principali sono che siamo un popolo di risparmiatori (virtù in erosione) e un popolo di evasori fiscali (difetto che non si erode affatto). Un elevato risparmio consente di accumulare e non pagando le tasse si risparmia e si accumula molto di più. Nel 2009 per esempio la ricchezza complessiva è cresciuta di 93 miliardi, 70 dei quali rappresentati dal risparmio e il resto dall’aumento del valore. Non è un’eccezione, tra il 1995 e il 2009 l’aumento della ricchezza è dovuto per il 60 per cento al risparmio e per il 40 all’aumento del valore.
Il passo successivo per avvicinarci a capire perché stiamo peggio è nella struttura economica dell’Italia, la cui sintetica fotografia è questa: debito pubblico enorme e debito privato relativamente contenuto, ricchezza privata immensa che però non produce crescita.
Il presidente del consiglio e il ministro dell’economia, oltre a dirci fino a giugno scorso che l’Italia stava benissimo, ci hanno venduto quel contenuto debito privato e la gigantesca ricchezza delle famiglie con elementi di forza, garanzie della tenuta del nostro debito pubblico. Alla prova dell’estate purtroppo non si sono rivelate tali, per la semplice ragione che più che elementi di forza sono segni di squilibrio. Per quello che comportano e per quello che rivelano.
Quello che comportano è sotto i nostri occhi: il debito pubblico elevato sbilancia l’intero paese e rende più costoso anche quello privato. Se la ripartizione fosse diversa, con un 2030 per cento in più di debito privato e altrettanto in meno di debito pubblico le agenzie di rating e i mercati ci guarderebbero con occhi assai diversi.
Quanto alla ricchezza privata, se è certo che è meglio averla che non averla, è però assai poco utile se non produce crescita. Vuol dire che è immobile e mal gestita. E’ come quelle famiglie aristocratiche che hanno immensi palazzi che non producono neanche il reddito necessario a mantenerli. Il loro destino è segnato, cominceranno a venderne dei pezzi fino a ritrovarsi nella casa del guardiano.
Se questo è quello che la struttura economica dell’Italia comporta, ancora più illuminante è quello che rivela. Debito pubblico e ricchezza privata sono due facce della stessa medaglia, uno stato senza credibilità e autorevolezza e un privato opportunista e spesso saccheggiatore.
A questo punto però, per capire perché questa immensa ricchezza privata non produce crescita, dobbiamo guardarci dentro. Quello che troviamo già dice quasi tutto. Di quei 9 mila 732 miliardi di patrimonio lordo il 57,8 per cento è rappresentato da immobili, il 4,9 per cento da beni di valore e da impianti, macchinari, scorte, attrezzature, brevetti, avviamenti (le cosiddette attività reali) e il 37,3 per cento da attività finanziarie.
Cominciamo da quei 5 mila e 600 miliardi di immobili. Solo il 6 per cento, 330 miliardi o giù di lì, sono negozi, uffici o capannoni; il 4,3 per cento (240 miliardi) sono terreni e il resto, ovvero 4 mila 900 miliardi, sono abitazioni. Di queste (in totale sono 29 milioni 642 mila) l’80 per cento sono abitazioni principali e il restante, 5,7 milioni, sono seconde case (poco utilizzate) o case sfitte. Quelle vuote, inutilizzate, sono ben 1 milione e 200 mila.
Passiamo ora alla seconda voce per importanza, le attività finanziarie. Non sono poca cosa, si tratta di oltre 3 mila e 600 miliardi, metà dei quali sono detenuti in contanti, depositi bancari e postali, titoli pubblici e obbligazioni, altri mille miliardi in azioni e fondi comuni e circa 630 sono riserve tecniche delle assicurazioni. Nel complesso la quota rappresentata dal capitale di rischio è più vicina a un quarto che a un terzo del totale.
Infine la cenerentola di questo elenco, le attività reali, 476 miliardi di euro investiti per un quarto circa in beni di valore (quadri, gioielli, mobili di antiquariato) e solo 380 miliardi in beni produttivi. Pochissimo, per un paese che si dice manifatturiero, per un popolo che si ritiene abbia l’imprenditoria nel sangue. Guardandosi intorno, osservando le decine di migliaia di imprese che affollano tutto il Nord, una parte del centro e qualche pezzetto fortunato del sud, e anche escludendo le società quotate, le cui azioni vanno nel capitolo della ricchezza finanziaria, sembrerebbe che il valore dei macchinari, degli avviamenti e delle scorte di tutte quelle imprese sia ben superiore a quei sparuti 380 miliardi. La spiegazione c’è. Se calcoliamo che secondo il Rapporto Corporate EFIGE 2011, la percentuale dell’attivo di bilancio delle imprese italiane finanziata con il capitale proprio è pari al 12 per cento (in Francia il 30 e in Germania il 34) e l’88 per cento è coperto dal debito, i conti tornano. Il valore complessivo di tutte quelle attività è vicino a 4 mila miliardi, il problema è che i proprietari di tasca loro ci mettono poco, pochissimo, e infatti uno dei vincoli alla crescita di quelle imprese è che sono poco capitalizzate e molto indebitate. I loro proprietari preferiscono mettere i soldi in appartamenti e nella finanza piuttosto che nelle aziende, e infatti loro sono ricchi e le aziende povere.
A questo punto possiamo tornare alla domanda iniziale: perché con un patrimonio così ricco la crescita del nostro paese è così bassa? La risposta, che è già nel modo in cui quel patrimonio è investito, la dà Giacomo Neri, partner di PricewaterhouseCoopers e curatore insieme a Gino Gandolfi dell’Università di Parma di un osservatorio sul risparmio degli italiani (Orfeo): «La struttura di questo patrimonio è difensiva e la sua gestione non è ottimale». Questo patrimonio non serve a costruire il futuro ma a difendersi, per una serie di ragioni di ieri e di oggi, che poi sono le stesse che stanno dietro i capitali all’estero. Alla base c’è la sfiducia nello stato, nel suo arbitrio, nelle sue incertezze e instabilità, in passato c’era anche l’inflazione, che aggiungeva sfiducia nella moneta (e quindi gli immobili). A questa si aggiunge la sfiducia nei mercati finanziari, quelli del parco buoi, quelli nei quali le azioni si pesano e non si contano, nei quali gli azionisti di controllo anche se con un pugno di titoli in mano usano l’impresa come casa propria.
C’è anche, dice Roberto Nicastro, direttore Generale di Unicredit «una ragione culturale: l’immobile piace e rassicura, conserva il valore o lo accresce nel tempo. E l’imprenditore che rischia con la sua attività con il suo risparmio preferisce non rischiare».
Ma la ragione chiave è il fisco. Le tasse servono a pagare i servizi comuni, le strade, l’illuminazione, la giustizia, la difesa, per coprire investimenti comuni come l’istruzione e per difenderci da rischi che abbiamo deciso di mettere in comune, come la salute e la vecchiaia. Ma il modo come le si raccoglie non è indifferente, disegna il modo di essere di un paese e della sua economia. Il fisco italiano da decenni ha deciso di caricare tutto il suo peso sull’impresa e sul lavoro, ovvero su quello che crea la ricchezza, e di privilegiare gli immobili e le rendite finanziarie (il cui prelievo solo con l’ultima manovra è passato dal 12,5 al 20 per cento). C’è una tabella di Banca d’Italia chiara e terribile: nel 2010 le imposte dirette sono state pari al 14,6 per cento del pil, quelle indirette al 14 per cento e quelle in conto capitale, ovvero sul patrimonio, pari ad un misero 0,2 per cento. Il denaro fugge dove viene meno colpito, e in Italia è meno colpito se si ferma, si immobilizza, esce dalla famigerata denuncia dei redditi.
«Lo stock di ricchezza è un vantaggio competitivo nazionale dice Neri ma bisogna valorizzarlo, gestirlo bene, renderlo produttivo e dinamico. Ci vuole una politica orientata a questo, in un paese con tanto risparmio a valorizzare il risparmio gestito favorendo la nascita di grandi imprese del settore, in un paese con un ricco patrimonio immobiliare favorendo la crescita di gestori più grandi e più professionali. In un paese ricco ma fermo riorientando il prelievo fiscale tassando i patrimoni e i beni improduttivi e alleggerendo il carico su lavoro e impresa». Ci stiamo occupando molto, e giustamente, della produttività del lavoro, forse dovremmo cominciare a occuparci anche della produttività del capitale.
Roberto Nicastro aggiunge un segnale di allarme: «Negli ultimi mesi si sta inaridendo il flusso di fondi esteri disponibili a investire in Italia, e se non si recupera rapidamente credibilità e fiducia potrebbe diventare un problema. Questo pone una sfida al risparmio italiano: se continuiamo a mettere i soldi negli immobili come faremo a finanziare la crescita?» Nicastro dà anche la risposta, che riguarda anch’essa le tasse: «Bisogna pensare a un nuovo equilibrio nel trattamento fiscale relativo tra le varie forme di risparmio».
La conclusione è che dobbiamo decidere che paese vogliamo, se puntiamo sull’impresa e sul lavoro oppure sulla rendita. Ma dobbiamo sapere che la rendita non sarà eterna: se le cose non cambiano quel patrimonio cominceremo presto a mangiarcelo.
«Una vergogna, una cosa che a Venezia non è mai successa. Prove tecniche di fascismo padano». L'assessore all'Ambiente Gianfranco Bettin esprime tutta la sua indignazione per gli scontri di ieri pomeriggio agli Scalzi «Ho chiamato al telefono Beppe Caccia e mi ha risposto il medico del Suem. Sentivo la sirena, mi hanno detto che lo ricoveravano per stato confusionale e lo avrebbero sottoposto a Tac. Quello che è successo è gravissimo. Il ministro leghista ha cercato lo scontro per difendere la manifestazione del suo partito. Non ce n'era alcun bisogno». Bettin ricorda come nel 1996 una situazione molto più delicata — le manifestazione contemporanea della Lega, allora al culmine della popolarità, dei no global, degli autonomisti e la partita di serie A Venezia-Torino vennero gestite con calma, «senza divieti e provocazioni». Stavolta invece è arrivato l'ordine di non far passare i manifestanti nemmeno in Strada Nuova, da sempre teatro delle manifestazioni e dei cortei. Neanche l'intervento del sindaco Orsoni, nel pomeriggio, è riuscito a smuovere la Prefettura e la Questura.
Sull'accaduto il senatore del Pd Felice Casson ha annunciato una interrogazione urgente. «Venezia è una città di pace, aperta a tutti», dice, «estranea alla cultura della violenza. E' incomprensibile questo divieto imposto dal ministro Maroni. Non c'era alcun motivo di scontri, lo scontro l'ha cercato il ministro leghista». Corrado Callegari, deputato della Lega, non si sbilancia. «Io dico soltanto che se ci sono feriti tra le forze dell'ordine la mia solidarietà va alle forze dell'ordine. Pacifici? L'altra sera hanno preso a pugni un ragazzo. Del resto non so». Paolo Ferrero, segretario nazionale della Federazione della sinistra, parla di «uso privatistico del ministero da parte del ministro leghista». «Il suo comportamento è vergognoso e al di fuori della Co- Uno dei momenti caldi della manifestazione di ieri pomeriggio stituzione». Il consigliere comunale di Rifondazione Sebastiano Bonzio intanto chiede le dimissioni del questore Fulvio Della Rocca. «Sono stati creati disagi alla città non giustificati», dice, «per impedire una pacifica e democratica manifestazione. Condanna per gli scontri anche dal sindaco Giorgio Orsoni e dal vicesindaco Simionato. Che per tutto il pomeriggio hanno tentato invano di mediare con la Questura, cercando di convincere i responsabili dell'ordine pubblico a lasciar passare il corteo per il percorso tradizionale. «La nostra città dalla tradizione democratica non merita questo», dice Simionato, «non si doveva arrivare a questo punto».
«Venezia è un bene comune». E' lo slogan che oggi avrebbe dovuto attraversare i luoghi simbolo della città nel corteo organizzata dalla rete di Uniti per l'alternativa. Obiettivo: «Veneto libero, dalla Lega Nord». Mobilitazione più che annunciata, itinerario noto fin nei dettagli. Partenza alle 15 dal piazzale della stazione Santa Lucia; arrivo in Riva Sette Martiri, dove Bossi domani terrà il comizio finale della Festa dei popoli padani. Così fino alle 17 di ieri. Poi il clamoroso stop della questura con l'obbligo di limitare il corteo a metà percorso. Motivo ufficiale? Ordini superiori. Del ministero dell'Interno.
E' Beppe caccia, consigliere comunale e tra i promotori dell'iniziativa a spiegare i dettagli dell'altolà. «Il questore Fulvio Della Rocca ha risposto solo ieri pomeriggio alla notifica della manifestazione con un'ordinanza che impone disposizioni che - sulla base di motivazioni pretestuose e autoritarie - di fatto costituiscono un inaccettabile impedimento al corteo. A una manifestazione che non avrebbe creato problemi di ordine pubblico e che doveva svolgersi lungo strada Nuova viene imposto di concludersi a campo Santa Margherita. E pensare che abbiamo scelto il giorno prima del raduno leghista proprio per evitare problemi. Questa ordinanza - continua Caccia - è una vera e propria provocazione contro l'esercizio del diritto a manifestare liberamente». Dichiarazioni sottoscritte in un comunicato anche da Giorgio Molin (segretario generale Fiom Veneto), Sebastiano Bonzio (consigliere comunale), Sandro Sabiucciu (coordinatore Sel), Vittoria Scarpa (Razzismo Stop), Michele Valentini (Rivolta) e Tommaso Cacciari (laboratorio Morion). Fanno notare: «Ai militanti della Lega che due anni fa si sono resi responsabili della devastazione di un ristorante e dell'aggressione razzista a un cameriere albanese viene concesso di scorazzare a piacimento. Ai cittadini democratici si vuole vietare un corteo pacifico». Da qui la denuncia dell'«emergenza democratica nelle scelte compiute dal Ministero dell'Interno». E l'appello al prefetto: «Si faccia garante di un diritto costituzionale».
Ma prima, squadernare il conflitto d'interesse: «In pratica il ministro dell'Interno della Lega limita il corteo che avrebbe messo in difficoltà la Lega». La prova che il "cartello" di associazioni, centri sociali, sindacati (Fiom e Cobas) migranti, insieme a genitori, studenti e insegnanti (che comunque oggi alle 15 saranno a Santa Lucia) fanno davvero paura. «Sburgiardiamo la favola della diversità leghista e sveliamo l'inganno che ha prodotto l'attuale manovra finanziaria, il razzismo e il fallimento delle poltiche securitarie» spiega la ventina di realtà sociali che ha firmato l'appello «contro la speculazione». Da qui l'operazione-verità sulla devolution: «Al posto del federalismo sono arrivati i tagli alla sanità e al welfare. Al posto dell'autonomia impositiva ticket e nuove tasse».
Il tutto, naturalmente, non ferma il tradizionale tam-tam leghista. La pubblicità della giornata conclusiva della Festa dei popoli si affida alla cicloturistica Monviso-Venezia che prosegue idealmente il Giro della Padania. In Veneto, marketing più che necessario alle alte sfere del Carroccio preoccupate di placare gli effetti dell'alleanza con Berlusconi e delle "guerre" non più intestine. Sullo sfondo, il carbone della centrale Enel di Porto Tolle, «pulito» dai vincoli di legge con una norma ad aziendam sponsorizzata (anche) dalla Lega che non convince il popolo padano. In ogni caso domani, agli Schiavoni, tutti concentrati sul palco del comizio di Bossi. Sovieticamente, disegnerà il nuovo diametro del «cerchio magico». Al punto che nella Lega c'è chi assicura conteranno più le foto delle parole.
Eccellentissimo Presidente Napolitano, le scriviamo come giuristi che, dopo anni di impegno civile a favore di buone regole giuridiche a protezione dei beni comuni e per il buon governo del patrimonio pubblico, abbiamo redatto i quesiti referendari n. 1 (servizi pubblici locali) e 2 (tariffa per il servizio idrico integrato) cui, nella scorsa tornata referendaria di giugno, ha risposto sì la maggioranza assoluta degli elettori italiani.
Il nostro intendimento era quello di arrestare, attraverso un pronunciamento diretto del popolo, nelle forme e nei limiti di cui all'art. 75 della Costituzione, il protrarsi di una logica di privatizzazione ideologica e dannosa per l' interesse comune anche all' indomani della drammatica crisi finanziaria iniziata nel 2008. Tramite il nostro pacchetto referendario volevamo aprire un grande dibattito politico nel nostro paese, teso a ricordare che la crisi non è stata causata dal pubblico ma dagli eccessi di libertà privata. Volevamo denunciare l'irrazionalità di una posizione politica che, lungi dal riequilibrare i rapporti fra pubblico e privato dopo vent'anni di pensiero unico, ulteriormente indeboliva il settore pubblico spingendolo a dismettere risorse che, se ben gestite, avrebbero potuto restituirgli la forza, l'autorevolezza ed il prestigio necessario per governare una crisi drammatica.
Negli scorsi mesi abbiamo lottato, con i mezzi del diritto e della politica democratica, insieme a moltissime persone, per scongiurare i diversi tentativi di impedire al popolo di pronunciarsi. All'indomani del 13 giugno siamo stati soddisfatti per aver contribuito a compiere una buona azione civile per il nostro paese. Quasi due mesi dopo, a fronte di dati sul debito pubblico italiano che non sono sostanzialmente variati nell'ultimo decennio (nonostante l'avvenuta dismissione di quote ingentissime del patrimonio pubblico) nel paese è stato creato un clima da emergenza finale. L'andamento della borsa e della finanza (ancora una volta settore privato) e manovre speculative volte ad attaccare un settore pubblico ulteriormente indebolito dallo sforzo ingentissimo di salvare il settore finanziario dalla crisi, hanno provocato un clima di panico che ancor oggi si protrae.
Al di là delle diverse valutazioni sulla fondatezza di tali allarmi, è certo che ingenti porzioni del Decreto, redatto in fretta e furia a Ferragosto, in particolare l'art. 4 denominato «adeguamento dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione Europea», presentano prima facie tratti di incostituzionalità, confessati in modo privo di precedenti nel nostro sistema delle fonti, dall'annunciata modifica dell'art. 41 della Costituzione contenuta nello stesso decreto.
Tale incostituzionalità risulta in particolare dall'espressa e diretta contrarietà del decreto di Ferragosto (ora convertito con la fiducia) rispetto alla volontà popolare espressa appena due mesi fa con il voto referendario che, come dichiarato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 23 del 2011, non era affatto limitato all'acqua ma coinvolgeva l'intero settore dei servizi pubblici di interesse generale.
Nei giorni immediatamente successivi all'emanazione del Decreto abbiamo dato vita, con i nostri limitatissimi mezzi, ad una raccolta di firme su un appello on line dei giuristi estensori dei quesiti referendari intitolato «La manovra di ferragosto è incostituzionale», cui hanno aderito esponenti illustri della società civile e politica e migliaia di cittadini indignati per l'ennesimo tentativo di scippo del voto referendario.
Con questa lettera ci permettiamo di farle pervenire l'elenco di tali firmatari. Le rivolgiamo inoltre un appello, come Supremo Garante della Costituzione, a considerare il fatto che da anni i conti pubblici italiani non sono in buone condizioni (le alleghiamo due pubblicazioni del lavoro da noi svolto in passato) e che la fretta di privatizzare e liberalizzare ulteriormente l'economia al di fuori da una struttura di principii giuridici solidi e condivisi, lungi da fare l'interesse del popolo italiano soccorre quello degli speculatori internazionali che hanno generato la crisi.
Illustrissimo Presidente, anche in considerazione del fatto che il voto di fiducia ha impedito la necessaria discussione parlamentare, la invitiamo a non promulgare l'art 4 del decreto di Ferragosto. La Sua autorevolezza contribuirebbe così, stralciando provvedimenti che certo non possono esser presi in emergenza e senza largo accordo politico, ad aprire finalmente un dibattito sulla vera priorità istituzionale e riforma strutturale necessaria in questo paese: la ricostruzione di un settore pubblico forte, autorevole, decentrato e democratico.