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Il 4 ottobre 2010, il Ponente di Genova fu colpito da una grave alluvione. Da allora, cosa è successo? “Tredici mesi di testate contro il muro”, denuncia il presidente della Regione, Claudio Burlando, commissario. “Se tutto va bene, sta per concludersi il lungo iter per lo stanziamento dei primi 45 milioni di euro previsti per i danni dell’anno scorso” (ben 300 milioni). Il Wwf denuncia un bluff clamoroso: sparito lo stanziamento nazionale di 800 milioni (500 per la prevenzione del dissesto idrogeologico) promesso da Berlusconi e da Tremonti, con l'asta delle frequenze e con una quota dei FAS. V’è di più. Il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ammette: mai decollato il piano straordinario di manutenzione annunciato un anno fa per 2 miliardi.

E torna la minaccia di un condono degli abusi edilizi, il terzo promosso da Berlusconi. Che ha la faccia di bronzo di commentare la sciagura di Genova con un lapidario: “Si è costruito dove non si doveva”.

Dopo le tragiche inondazioni del 1966, i governi, per lo più di centrosinistra, hanno impiegato ventitre anni per approvare una legge, peraltro buona, per la difesa del suolo, la n. 183 del 1989, sul modello della Themes Authority londinese. Pochi anni, in compenso, ha impiegato il centrodestra.-con l’aiuto di Regioni e Comuni, anche di centrosinistra, s’intende - per smontarla, definanziarla, delegittimarla. A partire proprio dal 2001, quando le più importanti Autorità di Bacino avevano adottato i piani di riassetto. Del resto, l’alleato fedele del letale Berlusconi III, la Lega Nord, il Po lo vorrebbe gestito “a spezzatino”, un pezzo ciascuno Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto. E così pure l’Adige. Esiste politica più ridicola e insieme più criminale di questa?

A Genova l’allerta c’era stato, tempestivo. Non si è detto alla gente: restate a casa. Si è peccato di ottimismo in una città che ha subito, dopo quella paurosa del 1970 (mi ci trovai in mezzo) costata 44 vittime, tanti disastri, l’ultimo un anno fa. Fa bene il sindaco di Torino, Piero Fassino, a usare la massima prudenza. Il Po spaventa di nuovo. Le alluvioni cominciano in montagna. Genova è Comune di mare e di montagna, col Monte Reixa di ben 1.183 metri. Dall’alto precipitano a valle, oltre ai torrenti principali, 44 rii, molti dei quali arrivano in città “tombati” nel cemento e, per la pressione di una massa d’acqua sempre più ingente e veloce (grazie alla tante nuove strade asfaltate e ripide), “scoppiano”. In più, gli agricoltori sono spariti dalle alture e nessuno più ripulisce gli alvei da arbusti, ramaglie, tronchi di alberi caduti. Discorso che vale per gran parte della montagna italiana. Dove gli agricoltori superstiti vanno incentivati a rimanere con politiche mirate. Ma quando ci si convincerà che l’agricoltura, in specie quella di montagna, ha una precisa e preziosa funzione di salvaguardia dell’ambiente, dell’assetto idrogeologico montano essenziale per le grandi pianure?

Come ha ben spiegato ieri sul “l’Unità” l’urbanista Vezio De Lucia, bisogna darsi un diverso modello di sviluppo con piani scientificamente fondati: stop al consumo di suoli liberi, al cemento+asfalto, manutenzioni incessanti di boschi, alvei, sponde, affidate all’ “esercito del lavoro” giovanile, immaginato dal grande meridionalista Manlio Rossi Doria e ripreso dall’economista Paolo Sylos Labini. Non per stipendiare, beninteso, degli inoccupati, ma per “rinaturalizzare” fiumi e torrenti, a monte e a valle con piani seri puntualmente eseguiti. Siamo un Paese geologicamente giovane, sismico, con tante frane (e cave, molte abusive). Nel 105 d.C. Traiano nominò Plinio il Giovane “curator alvei Tiberis et riparum et cloacarum Urbis”, cioè soprintendente generale dell’Autorità di bacino del Tevere. Chi promuoverà quest’opera quotidiana e grandiosa, salverà l’Italia da immensi guasti e lutti (migliaia di morti, dal Polesine in qua) e “passerà alla storia”. Altro che Ponte sullo Stretto.

Dieci anni di federalismo vogliono anche dire quasi mille ricorsi presentati davanti alla Corte costituzionale. A dimostrazione che il nuovo Titolo V non ha avuto vita facile, in particolare nella parte in cui ripartisce le competenze tra lo Stato e le regioni. E continua a generare conflitti, se è vero che negli ultimi due anni i ricorsi di Roma contro i governi locali sono cresciuti del 33% e quelli delle regioni contro lo Stato del 16 per cento. A sollevare il conflitto di poteri è stata soprattutto Roma, che ha ravvisato una lesione delle proprie prerogative in 568 casi, in particolar modo da parte della regione Abruzzo (contro cui ha presentato ricorso 42 volte), della Puglia (41 ricorsi) e della Toscana (38 ricorsi).

Dal proprio canto, la Toscana è la regione che ha chiamato in causa, davanti alla Consulta, lo Stato il maggior numero di volte:73 impugnazioni di provvedimenti in cui, secondo la giunta toscana, il governo centrale si è attribuito competenze non proprie. Un braccio di ferro che non ha uguali nelle altre regioni, tanto che l'Emilia Romagna, che nella classifica dei ricorsi segue la Toscana, in dieci anni ha portato lo Stato davanti ai giudici costituzionali "solo" 39 volte. Complessivamente, le regioni hanno impugnato gli atti centrali 422 volte. A innescare la mina dei ricorsi è stata la formulazione del nuovo articolo 117 della Costituzione, in particolare nella parte delle materie riservate alla legislazione concorrente, ovvero quelle in cui allo Stato spetta fissare i principi generali e ai governi locali legiferare nel dettaglio. Modalità che, insieme alle potestà riservate esclusivamente allo Stato e alle regioni, completa il quadro delle competenze legislative disegnate dal Titolo V riformato.

A dire il vero, anche la potestà legislativa riservata alle regioni è stata fonte di più di un dubbio, perché funziona per sottrazione, nel senso che i governi locali sanno di poter intervenire in via esclusiva in quegli ambiti che non sono espresso appannaggio dello Stato. Di certo, però, la legislazione concorrente è quella che ha generato il maggior numero di questioni e anche le più spinose. E’ di questi giorni, per esempio, la contrapposizione tra ministero dei Beni culturali e regione Lazio sul piano casa, che in alcune parti viola la tutela paesaggistica. Per questo il Governo ha impugnato gli atti regionali davanti alla Consulta.

In questo impressionante marasma di notizie, affermazioni, smentite, menzogne e contraddizioni, e nella valanga ininterrotta di avvenimenti vecchi e nuovi che ogni giorno si accumulano sulla stampa e nei media, è difficile seguire un ordine logico, è quasi impossibile avere sempre ben presente il quadro storico-politico complessivo.

Per me il punto di partenza di qualsiasi ragionamento resta il voto negativo della Camera dei deputati l'11 ottobre scorso sull'Art.1 del Rendiconto dello Stato presentato dal governo. Ne ho scritto sul manifesto del 23 ottobre e si può non essere d'accordo sulle conseguenze estreme che io avrei tratto sul piano della sopravvivenza del Governo da parte della Presidenza della Repubblica (e infatti non è stato d'accordo con me Gaetano Azzariti, il manifesto, 26 ottobre), ma non si può non convenire che quel voto avesse la perfetta equivalenza di un voto di sfiducia, difficilmente rimediabile sul piano costituzionale (come ha argomentato da par suo Gianni Ferrara, il manifesto, 25 ottobre).

Apprendiamo successivamente da un fondo di Eugenio Scalfari su la Repubblica (30 ottobre) che, dopo il voto di fiducia rimediato con i soliti mezzi da Berlusconi, il 14 ottobre, per porre margine (?) allo sfascio potenziale conseguente al voto contrario sull'Art.1 del Rendiconto dello Stato, in una riunione dei capigruppo alla Camera dei deputati era stato deciso all'unanimità (ripeto: all'unanimità) di calendarizzare per l'8 novembre il ritorno alla Camera del Rendiconto, per l'eventuale approvazione, magari con un altro voto di fiducia.

In questa apparentemente modesta notizia ci sono invece due stranezze, di diseguale rilevanza. La prima è che Eugenio Scalfari è un grande editorialista ma non certo un cronista politico quotidiano. Ebbene, la conoscenza del fatto, - che tutti i gruppi parlamentari, opposizione compresa, avevano accettato il ritorno in aula alla Camera del Rendiconto, nonostante le obiezioni costituzionali di cui sopra - ci è pervenuta da un suo editoriale: la grande stampa d'informazione non lo ha sottolineato come rilevante. La seconda è il fatto in sé: anche i gruppi parlamentari di opposizione hanno rinunciato, nessuno escluso, a esercitare il loro diritto di opposi alla disapplicazione dell'art.72 del Regolamento della Camera, il quale prescrive il divieto a ripresentare la stessa legge già bocciata prima che siano trascorsi sei mesi. Bastava che uno di loro lo facesse per rendere inapplicabile la misura invocata dal Governo, ed evidentemente nessuno lo ha fatto. C'è da chiedersi in che mani siano riposte le nostre speranze di cambiamento. Non sono il solo a chiedermelo: in un articolo conciso ed efficace come una staffilata (La Repubblica, 31 ottobre) Alessandro Pace spiega come «le opposizioni non si siano rese conto di essere andate al di là dei loro poteri, e di avere, con il loro beneplacito, creato un gravissimo precedente incostituzionale che si ritorcerà a loro danno, grazie alla disinvoltura costituzionale del governo in carica». Naturalmente è auspicabile che l'8 novembre la Camera dei deputati ponga fine a questa inverosimile commedia, bocciando per la seconda volta il Rendiconto, ma questo non cancellerebbe le contorsioni politico-istituzionali attraverso le quali si perverrebbe, del tutto gratuitamente, a questa ultima, definitiva (?) scelta.

Veniamo a noi. Tutto quello che è avvenuto successivamente a quell'11 ottobre (la delineazione, farraginosa e inconcludente, di un piano per affrontare la crisi, le trattative, vergognose per noi, con i Grandi d'Europa, la messa sotto tutela della linea di politica economica nazionale, ecc. ecc.), è stato opera di un governo che, costituzionalmente, sarebbe dovuto uscire di scena già da un bel po': il che fra l'altro ne spiega la palese, vergognosa, debolezza. Su tutto questo, lasciato passare di straforo, come ho detto, quasi a nessuno importasse, è precipitata la valanga della crisi economica. Ma anche su questo qualcosa da dire (o da obiettare) c'è.

Si sarebbe potuto pensare che Silvio Berlusconi sarebbe stato sbalzato di sella per i suoi innumerevoli e innominabili vizi privati, o per le infinite inchieste giudiziarie, o per le menzogne pronunciate in pubblico anche nella veste di Presidente del Consiglio, o per la sua alleanza con una forza separatista come la Lega o per la più volte comprovata incapacità a risollevare il paese dalla crisi non meno ideale che economica in cui lui stesso l'ha fatto cadere. No: la sua sopravvivenza come premier è tuttora legata alla sua disponibilità/capacità di garantire in Italia l'applicazione dei diktat europei. E l'alternativa al suo governo, ciò di cui attualmente si discute, è rappresentata da un governo tecnico e/o di transizione che, pescando nei fondi di barile di questo screditatissimo Parlamento, faccia quello che Berlusconi potrebbe non esser più in grado di fare. Ai vari vulnus costituzionali, di cui la nostra storia recente è, come ho cercato di argomentare, costellata, si sovrapporrebbe così il pannicello caldo di un'obbedienza più dignitosa e di conseguenza più certa e sicura al verbo merkel-sarkozyano che attualmente ci governa.

Su quest'ultimo punto ci sarà tempo e modo di tornare. Basti dire per ora sinteticamente (ma non ironicamente) che l'Italia non conosceva uno così straripante predominio dello straniero all'interno dei suoi confini naturali (dello straniero, sì, non dell'Europa, perché l'Europa ha preso per ora, il volto dello straniero) dai tempi delle settecentesche guerre di successione (peggio, ora: almeno allora c'era il modesto bastione sabaudo-piemontese a tenere accesa una fiammella). Cambiano i modi, certo, il capitale finanziario ha sostituito gli eserciti, ma la sostanza è la stessa. Insieme con la crisi costituzionale bisogna dunque far fronte a una crisi identitaria, ancora una volta economica e culturale (e forse fra «crisi economica» e «crisi culturale» bisognerà riconoscere che ci sono più reciproci condizionamenti di quanto non appaia a prima vista).

Sere fa, assistendo (del tutto casualmente, s'intende) a una trasmissione di Porta a Porta, ho ascoltato un nostro rappresentante, Pietro Ichino, dichiarare che ormai non era più questione di destra e di sinistra, ma di sapere e volere applicare, oppure no, le misure richiesteci dall'Europa. Lì per lì ho pensato che Ichino, come gli capita, estremizzasse. Poi sono arrivato alla conclusione che avesse ragione e che in effetti la spaccatura di fondo, indipendentemente dagli schieramenti politici e ideali (o pseudoideali) passi fra chi pensa che governare l'Italia consista nell'applicare sic et simpliciter la ricetta europea (farsi commissariare fino in fondo e bene, non poco e maldestramente come ormai sono solo capaci di fare Berlusconi e il suo governo), oppure riconquistare rapidamente tutti i margini d'iniziativa politica, economica e culturale che ci competono, nel contestuale, rinnovato rispetto del dettato costituzionale.

Non è possibile? Non c'è altra strada che l'obbedienza cieca e assoluta? Non esiste una terza possibilità capace di mediare fra il comando brutalmente economico e le esigenza di sopravvivenza e di democrazia politico-sociale del popolo italiano? Bene, vorremmo che qualcuno responsabilmente ce lo dicesse prima di chiederci fiducia a condividere e sostenere l'ardua impresa. Per questo qualsiasi governo tecnico e/o di transizione, espresso da questo Parlamento, non va bene, è un rimedio peggiore del male, non può che peggiorare le cose. Se è vero quel che Ichino dice, e molti pensano e lavorano per realizzare, bisogna che i partiti, le forze politiche, i movimenti e i tecnici ce lo vengano a dire prima. Prima di che? Prima del voto, ovviamente. Qualsiasi sia la strada da scegliere e da battere, bisogna che gli schieramenti siano visibili prima, che i nostri programmi siano formulati prima, che i politici (i nostri futuri rappresentanti) ci dicano prima i prezzi e i vantaggi. Questo è il nostro referendum, il referendum italiano. Chi preferisce rinunciarvi, lavora perché dalla crisi veramente non si esca, perché l'Italia e gli Italiani non siano i soggetti consapevoli del cambiamento. E noi questo non possiamo più permettercelo.

Nel ‘51 in Polesine, le bestie intrappolate dall´onda scesero a valle solo quando l´acqua cominciò a defluire dalle stalle. Da quel momento il Po se le portò al mare gonfie, con le zampe all´aria. Migliaia, per giorni. A Genova e in Lunigiana, in queste ore, l´acqua marrone è scesa come una trivella a portar via uomini e cose nel giro di pochi minuti. Novembre 1951-novembre 2011: sessant´anni di disastri, e ogni volta l´ultimo evento della serie pare quello definitivo, irripetibile e irreversibile. Ma la fredda statistica dice che è dura chiamare eccezionali eventi che si sono ripetuti quasi duemila volte a partire dal 1900, al ritmo di venti disastri all´anno, con un totale di 2570 morti (senza contare il Vajont), 174 dispersi e un numero incalcolabile di feriti. «È il bilancio di una guerra non dichiarata», scrivono Emanuela Guidoboni, Antonio Navarra ed Enzo Boschino nel libro La spirale del clima sulla storia dei disastri nel Bel Paese.

Togli la frana del Vajont nel 1963 e quella di Stava nell´85 (oltre 2200 morti in totale), dove la manomissione dell´ambiente da parte dell´uomo fu agente unico e devastante, non c´è quasi alluvione che non sia ripetuta nello stesso luogo. Genova e i paesi a monte sono andati sott´acqua già nel 1970, quando 900 millimetri di pioggia andarono a imbottigliarsi tra il passo del Turchino e quello dei Giovi, e 44 persone furono portate via dal fango sul lato padano e su quello tirrenico. Il disastro di Firenze del 1966 è stato preceduto da qualcosa di altrettanto tremendo nel novembre del 1844, quando piovve due settimane di fila e assieme all´Arno collassarono in simultanea il Bisenzio, il Serchio, il Chiana, il Sieve e l´Ombrone pistoiese, con danni spaventosi, anche allora, nelle cantine degli Uffizi. La città di Palermo, prima di essere inondata nel 1931, era finita sott´acqua nel 1851, 1861, 1907 e 1925, quando le vie della Vucciria furono percorribili in barca.

E che dire di Sarno: il mare di fango che si portò via 160 persone nel maggio del 1998 aveva avuto decine di precedenti di maggiore o minore intensità, nei cent´anni prima della tragedia. I punti vulnerabili del territorio sono stati colpiti così tante volte da lasciare il segno nei nomi dei paesi o delle alture. «Quando dovevo intervenire su zone colpite da frane o alluvioni - ricorda l´ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso - finivo sempre davanti a cartelli stradali ammonitori. Posti come Pozzallo, Acquamarcia, Fossa, Pietratagliata, Pozzonero, Acquapendente. Non mi vengano a dire che era un caso». Ripetitive fino alla monotonia anche le cause: piogge eccezionali che fanno detonare un innesco già preparato, l´incuria e la cementificazione del territorio. «Per favore non chiamatele catastrofi» taglia corto la Guidoboni, storica dei terremoti. «È un termine che deresponsabilizza gli uomini e scarica tutto sul destino».

Ricordare cosa è avvenuto dal 1900 a oggi non è solo curiosità storica: è un modo per tenere desta l´attenzione sul paesaggio e favorire la prevenzione. Ma la prevenzione è scomoda, perché non fa voti. Così si autorizza l´amnesia. Ed ecco che salvo casi eccezionali, l´alluvione non diventa memoria condivisa, come accade invece con la guerra. Alcune sono già scomparse dalla memoria. Quella del Polesine, per esempio, con i suoi 100 morti, i 160mila sfollati, i 113mila ettari di terreni allagati e i 52 ponti crollati, ha finito per cancellare il disastro calabrese avvenuto poche settimane prima. Eppure era stato un inferno: in soli quattro giorni erano piovuti 1770 millimetri d´acqua, più che nel resto dell´anno. Sessantasette comuni erano stati investiti da frane tra le Serre e l´Aspromonte, e il nubifragio s´era portato via 70 persone e 1700 abitazioni. Due anni dopo, più o meno nella stessa zona, l´evento si ripeté, con un centinaio di morti, di cui oggi più nessuno parla. Stessa rimozione per l´alluvione del Veneto del 1966, messa in secondo piano da quella, concomitante, di Firenze.

Trentasei morti a Messina nel 2009; sedici in Versilia nel ‘96; 53 in Valtellina nell´87: il bollettino del dopo-Polesine non salta quasi nessun anno del calendario e non risparmia nessuna zona d´Italia. Sul piano dei disastri siamo una nazione unita. «Il mutamento del clima ha un suo ruolo» spiega Elpidio Caroni, genovese, docente di sistemazione dei bacini idrici a Trieste, «ma mentre la mappa della pioggia è a pelle di leopardo, quella del consumo di territorio ha lo stesso colore dalle Alpi alla Sicilia. Il settanta per cento dei Comuni italiani sono a rischio. Nord, Centro, Sud, fa poca differenza. È questo il vero problema». Altro elemento ripetitivo in questo bollettino è la mancata lezione che se ne trae. «Ogni volta salta fuori la stessa parola magica: mettere in sicurezza i corsi d´acqua» ghigna Andrea Goltara, direttore del Centro italiano di riqualificazione fluviale, a Venezia. «Risultato: invece di dare aria al fiume, si fanno argini più alti, e così, con la nuova e illusoria sicurezza acquisita, si autorizzano peggiori devastazioni cementizie, che rendono il territorio ancora più a rischio. In sessant´anni abbiamo imparato poco o niente».

«Un consumo bulimico del territorio». Quello che è successo a Genova e alle Cinque Terre non è soltanto l’effetto della natura che cambia. Mario Tozzi, impegnato su Radio 2 per la trasmissione “Tellus”, studia da anni questi fenomeni.

Tozzi, in poche ore è piovuto quanto piove in un anno. Quali sono le ragioni?

Sono ormai 20 anni che assistiamo a piogge sovrabbondanti. Ci sono state anche discussioni in Senato, non siamo solo noi geologi a dirlo. Poi il territorio italiano è giovane, attivo. Questo è un paese dove ci sono vulcani, terremoti, fenomeni di assestamento. Un terzo motivo è che abbiamo avuto un consumo bulimico del territorio. Cemento e infrastrutture hanno consumato la terra. Abbiamo mangiato il suolo rendendo il terreno impermeabile. L’acqua non penetra più, scivola e va via. Si è costruito troppo dove non si doveva. Le case sono state costruite anche sugli argini dei fiumi. A ogni disastro tutti pongono il problema dei detriti che ostruiscono il corso dei fiumi. Il problema non sono tanto i detriti, ma il fatto che l’uomo ha ridotto gli alvei dei corsi d’acqua.

I morti della Liguria sono come quelli di Giampilieri, a Messina. Colpa della natura o dell’uomo?

La colpa è dell’uomo, le catastrofi naturali non esistono. Abitiamo in posti dove non dovremmo stare. I genovesi d’altri tempi stavano nelle alture.

Si parla di cambiamenti climatici e surriscaldamento del pianeta. È un fenomeno irreversibile o si può intervenire?

È un fenomeno parzialmente naturale, ma l’uomo ha accelerato il processo di surriscaldamento. Il carattere violento di queste perturbazioni ne è una conseguenza. Si devono ridurre le emissioni inquinanti. È un processo che deve riguardare tutti i paesi del mondo.

L’Italia è un paese a forte rischio idrogeologico. Quali sono le regioni più a rischio?

La Liguria e la Toscana, ma anche l’alto Lazio, la Campania e la Sicilia. Io considero a rischio frane anche il Trentino. Lì però non si sono mai registrate vittime perchè c’è stato un uso più attento del territorio.

Quali scelte deve fare la politica nei territori a rischio?

I sindaci devono fare un passo indietro rispetto all’uso del territorio. Purtroppo si pensa che si guadagni consenso solo con l’edilizia e il cemento.

L’associazione dei Comuni virtuosi lancia una proposta: moratoria sulle grandi opere e i soldi da destinare contro il dissesto idrogeologico. Che ne pensa?

Sono d’accordo. Li conosco e sarò con loro lunedì prossimo. Cosa si deve insegnare ai nostri figli? Bisogna che capiamo prima noi che è necessario fare un passo indietro rispetto a scelte non rispettose della natura e del territorio. Riprendere ritmi naturali, rinaturalizzare i corsi d’acqua, ritornare a vivere dove e come si viveva un tempo. Il cemento non serve, bisogna recuperare la terra.

In una nota il premier stigmatizza l'eccessiva cementificazione della Liguria senza ricordare le sanatorie edilizie varate nel 2003 e nel 2009. Immediata la polemica. A livello locale il sindaco Pd Marta Vincenzi rivendica la scelta di non aver chiuso ieri le scuole: "Decisione provvidenziale". La mamma della 19enne morta: "Dovevano chiudere quei maledetti edifici"

“E’ evidente che si è costruito là dove non si doveva costruire”. A mettere nero su bianco queste parole, dopo l’alluvione che ha colpito Genova e ha visto la morte di quattro donne e due bambine, non è un ambientalista della prima ora, ma il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Che per un giorno intero ha deciso di non dire nulla e tantomeno di farsi vedere nelle zone alluvionate. Ma che, 24 ore dopo la tragedia, decide comunque di emettere una nota. A far notare l’incoerenza, per primo, il responsabile Green economy del Pd Ermete Realacci: “Le parole di Berlusconi a commento della tragedia di Genova sono senza vergogna – spiega – Le migliaia di case abusive sono infatti il risultato dei due condoni (edilizi, nel 2003 e nel 2009, ndr) che portano la sua firma, provvedimenti che solo qualche giorno fa pensava di riproporre per l’ennesima volta tra le pieghe delle misure di risanamento finanziario del suo governo”.

E infatti, proprio a inizio ottobre, il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto aveva parlato di una doppia sanatoria – edilizia e fiscale – da inserire nella manovra finanziaria in via di approvazione. Un progetto messo da parte dopo la levata di scudi che aveva coinvolto non solo l’opposizione, ma anche parte della stessa maggioranza (Tremonti in primis), la Chiesa e Confindustria.

La frase di Berlusconi scatena immediatamente la polemica. Di “stupro dell’ambiente” parla il presidente della Camera Gianfranco Fini che, pur senza chiamare in causa il Cavaliere, attacca: “Nessuno può avere la presunzione che si possa stuprare l’ambiente senza che ci sia la vendetta della natura”. Il nome di Berlusconi viene pronunciato esplicitamente dall’Idv: “Quanto accaduto ieri a Genova, e solo dieci giorni fa alle Cinque Terre e in Lunigiana, è figlia degli ingentissimi tagli inferti da questo governo alla difesa del suolo per un miliardo di euro e di quella politica dei condoni edilizi ‘a gogò’ e delle sanatorie degli abusivismi con cui l’ineffabile duo Berlusconi-Tremonti ha caratterizzato la sua azione politica”, ha detto Antonio Borghesi, vicepresidente del gruppo Idv alla Camera. Il presidente della Regione Emilia Romagna e della Conferenza delle Regioni Vasco Errani chiede invece “prevenzione” e “risorse” perché “le scelte del governo, confermate dai tagli per realizzare le opere di conservazione e messa in sicurezza del territorio e dalla rigidità delle nuove norme sulla protezione civile, vanno purtroppo nella direzione opposta”.

Contro l’Italia “del cemento, del fango, senza legge, senza giustizia e senza vergogna” si scaglia il comico genovese Beppe Grillo con un post dal suo blog: “Oggi mi sento impotente. La distruzione di Genova era annunciata. E io non ho potuto fare nulla. Ho visto la mia città trasformata in fanghiglia con le auto che cadevano sul porto insieme alla pioggia e ai morti sapendo che si poteva evitare – scrive Grillo – L’Italia del Fango sta mostrando la sua faccia, il suo ghigno, il suo sberleffo. L’Italia Senza Giustizia che manda in galera chi denuncia”. Perché, spiega l’ideatore del Movimento 5 stelle, “il cittadino è solo, senza rifermenti, senza informazione, senza rappresentanti. L’Italia del Cemento – continua Grillo – lo sta seppellendo vivo”. E chiede: “Chi arresteranno ora per disastro colposo? I meteorologi? Persino di fronte al default dell’Italia non si arresta questa bulimia criminale, questo pasto immondo dei partiti sul corpo della Nazione. L’aria è gonfia di pioggia e di rabbia. Genova è tagliata in due come il Paese”.

E’ bufera sul sindaco di Genova: “Si dovevano chiudere le scuole”. A livello locale le polemiche si concentrano sul sindaco di Genova Marta Vincenzi, colpevole per i cittadini di non aver chiuso le scuole ieri. A chi questa mattina, in via Fereggiano – la strada in cui ieri hanno perso la vita 6 persone – le urlava “dimettiti, vergogna“, il primo cittadino ha ribattuto esattamente quanto dichiarato ai giornali il giorno prima in piena tragedia: “La scelta di mandare i bambini a scuola è stata provvidenziale – ha spiegato la Vincenzi – Immaginate cosa sarebbero stati 40mila bambini portati in macchina dai nonni, dai parenti o dagli amici in giro per la città durante l’alluvione”.

Difficile dimenticare però che le vittime di questa alluvione sono state travolte dalla “bomba d’acqua” proprio mentre andavano a prendere i loro figli o fratelli a scuola. E’ accaduto così per la 19enne Serena Costa inghiottita dall’acqua del torrente Fereggiano mentre tentava di riportare a casa il fratello 13enne. Stessa sorte è toccata ad Angela Chiaramonte, infermiera di 40 anni, morta per raggiungere il figlio Domenico al liceo Cassini, così vicino alla stazione Brignole e al Bisagno. E sempre dopo aver portato via dalla scuola ‘Giovanni XXIII’ la sua bambina Joia, è morta anche Shiprese Djala, donna albanese di 28 anni. Solo Evelina Pietranera, 50 anni, è morta per essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, dopo aver dato il cambio al marito Attilio Toffi all’edicola di via Giacometti. “Le dovevano chiudere quelle maledette scuole, le dovevano chiudere – ha gridato a distanza, piena di dolore, la mamma di Serena, Rosanna Costa – Mi hanno chiamata dalla scuola di mio figlio e mi hanno detto di andarlo a prendere. Io ero al lavoro e non potevo così l’ho detto a mia figlia. Ma non l’ho più vista rientrare”.

Ma Marta Vincenzi non ci sta a dire ‘ho sbagliato’ e rivendica le scelte dell’amministrazione comunale: “Abbiamo avvisato la cittadinanza di non usare i mezzi privati. Ma ricordare i comportamenti da tenere in queste occasioni non è bastato. C’erano, in giro per la città, più auto di quelle che normalmente transitano sulle nostre strade”, dice il sindaco che anzi contrattacca: “Buonsenso, senso civico sono concetti che evidentemente non basta ricordare. Vanno intimati, fatti oggetto di divieti”. E mentre il presidente della Regione Claudio Burlando cerca di smarcarsi dalle polemiche con un pilatesco “è difficile decidere cosa fare”, il capo della Protezione civile Franco Gabrielli evoca il “patto sociale” necessario per “evitare che in certe situazioni i sindaci possano essere poi crocifissi” anche se ”le scuole di Genova ieri potevano essere tranquillamente chiuse per ridurre gli spostamenti”.

Ora la paura è tale che il Comune ha deciso di tenere chiusi gli edifici scolastici di ogni ordine e grado anche lunedì 7 novembre, giorno in cui è stato proclamato il lutto cittadino. Tommaso Pezzano, dirigente scolastico della scuola materna, elementare e media Giovanni XXIII nel quartiere di Marassi (quella frequentata dalla piccola Joia), spiega com’è avvenuto il coordinamento tra scuola e amministrazione: “Ci hanno mandato una nota dal Comune, poche righe: stato di allerta meteo due, ma che cosa significa? Tutto e nulla. E noi cosa avremmo dovuto fare? Nessuno ci dava indicazioni”. Nella comunicazione scritta del Comune di Genova, testualmente si legge: “Si invitano le famiglie a connettersi tempestivamente con i mezzi di comunicazione pubblici (Raitre, Emittenti televisive locali, sito del Comune) per acquisire informazioni su eventuali provvedimenti adottati a tutela della pubblica incolumità”. Peccato però che alle 11 la corrente elettrica fosse saltata in quasi tutta la città impedendo ogni forma di comunicazione. “Neppure i cellulari funzionavano – spiega Pezzano – e anche per questo molti genitori sono corsi a scuola per prendere i loro bambini, per portarli a casa”. Una corsa fatale.

ROMA - Non di solo Pil vive un Paese. Per capire se la sua gente sta bene o male, se le prospettive e la qualità della vita sono buone il prodotto interno lordo non basta. Ormai se ne parla da anni - già nel ‘68 Bob Kennedy scrisse che il Pil «misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta» - ora è tempo di trovare un’alternativa e di affiancare all’indice sulla ricchezza e la produzione altre percentuali, altri numeri.

Per l’Italia ci stanno pensando il Cnel e l’Istat che hanno appena individuato dodici nuovi «canali» da percorrere per stabilire come stiamo e verso che tipo di società andiamo. Le prime sette voci sono mutuate da quelle fissate, un paio d’anni fa, dalla Commissione Stiglitz, voluta dal premier Sarkozy per calcolare nel nuovo modo le performance della Francia e il suo progresso sociale. Si parla di ambiente, salute, benessere economico, istruzione e formazione, lavoro e tempi della vita, relazioni sociali e sicurezza. A questi sette capitoli Cnel e Istat, dopo consultazioni con le parti sociali, hanno aggiunto altri cinque caratteri: benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ricerca e innovazione, qualità dei servizi, politica e istituzioni.

L’obiettivo è chiaro: inserire il «giudizio» sul Paese in un quadro più complesso, tanto più in una fase in cui il Pil è destinato, nel migliore dei casi, a non crescere più come una volta e a rivelare tutte le lacune di una valutazione unica. La griglia è pronta, ma non è definitiva: i due istituti invitano infatti esperti, rappresentanti della società civile e singoli cittadini a esprimere valutazioni e consigli rispondendo ad un questionario ad hoc e partecipando ad un blog cui si accede dal sito www. misuredelbenessere. it, già in funzione. Poi, a marzo si trarranno le conseguenze del dibattito on line e degli incontri sul territorio e s’individueranno definitivamente gli elementi adatti a valutare il «benessere equo e solidale» dell’Italia. Quindi si procederà alla costruzione degli indici, che saranno pronti fra un anno, ad ottobre, in tempo per essere inseriti nel quarto rapporto voluto dall’Ocse su questi temi. Allora sapremo come sta l’Italia, al di là del Pil, e potremo confrontare la nostra salute con quella degli altri paesi.

La partita, infatti, non è solo nostra, visto che con questi temi si sono già misurati altri governi, a partire dal premier Cameron e dal «questionario sulla felicità» recentemente inviato agli inglesi. «Noi eravamo in ritardo, ma abbiamo ampiamente recuperato dando alla definizione del benessere parametri concreti e strutturati» ha detto il presidente dell’Istat Enrico Giovannini.Di fatto l’importanza attribuita ai dodici tempi individuati è stata confermata anche da uno studio elaborato dall’istituto di statistica su cosa, secondo gli italiani, determina il benessere di una società. Il campione di 45 mila persone ha messo al primo posto la salute, la possibilità di assicurare un futuro ai figli e di avere un lavoro dignitoso. «Risposte sulle quali si è riscontrata una straordinaria omogeneità al di là delle fasce d’età, del sesso o dalla provenienza territoriale» commenta Giovannini «il che vuol dire che c’è nel Paese c’è lo spazio per costruire un futuro partendo dalla definizione del benessere che vogliamo. E’ un messaggio per la politica, deve farla riflettere».

L’indicatore del benessere è tutt’altro che un gioco: in Paesi come l’Australia e la Nuova Zelanda, dove il percorso è più avanzato, le nuove leggi che il governo vuole varare vengono valutate anche in base all’impatto che determineranno sugli indicatori del benessere. E’ una rivoluzione che Cnel e Istat si augurano pure in l’Italia, anche perché ridarebbe penso alla politica in crisi e fornirebbe una possibile via d’uscita al Paese in stallo.

Il 4 novembre 1966 l´Arno invase Firenze. Dopo 45 anni nulla è cambiato. Si resta sgomenti. L´Italia non regge più ore e giorni di pioggia. Muoiono persone, e anche una sarebbe troppo. Muoiono bambini. Non servono più gli allarmi se i sindaci non mettono in atto misure di prevenzione. Se il clima è cambiato, se a Genova in cinque minuti sono caduti 50 millimetri di acqua, dobbiamo cambiare anche noi. Altrimenti si continuerà a morire, nelle grandi città e nelle nostre case che crediamo sicure. A Genova il sindaco ha lasciato scuole e uffici aperti, e solo ieri sera ha proibito, per oggi, il traffico di auto. Troppo tardi.

Oltre alla profonda tristezza, da lacrime agli occhi, si resta increduli nonostante lo si sia detto troppe volte. Si denunciano lo scellerato consumo di suolo libero, la cementificazione selvaggia, l´incuria cui sono sottoposti i terreni demaniali in svendita, i boschi, le coste e i suoli che un´agricoltura in crisi come non mai non riesce più a curare. Lo Stato da anni taglia fondi e personale per la cura del territorio. Pensano alle grandi opere e non si preoccupano più delle piccole. Minime, ma che a volte salvano vite. Ci sono delle colpe. Gravi.

L´altro ieri il ministro dell´Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ammetteva il fallimento dell´impegno principale assunto sull´ambiente. Come ha dichiarato la ministro in commissione al Senato, il miliardo di euro stanziato con la Finanziaria 2010 per la messa in sicurezza del territorio non è mai stato reso disponibile. Con la legge di stabilità è stato anche ufficialmente cancellato e sostituito con un impegno del tutto generico, e non vincolante. Queste sono colpe, per cui un normale cittadino verrebbe condannato. Non c´è crisi che tenga di fronte alla cura del bene comune, il primo impegno che ogni Stato degno di questo nome dovrebbe avere.

Non c´è cura se non si cura la piccola agricoltura di qualità, che in molte zone ritenute "arretrate" ha salvato dal naufragio (umano nonché meteorologico) intere aree del Paese. Non c´è cura se si preferisce l´agricoltura dei grandi numeri, quella industriale che dicono «competitiva», che alla fine desertifica. Non c´è cura se c´è cemento ovunque. Non c´è cura se il soldo arriva a prevalere sul buon senso, quello che potrebbe salvare i nostri territori dalla bruttezza e dall´insicurezza più letale.

Smettiamola di dire che le alluvioni sono eventi eccezionali. Perché le abbiamo rese normali. Di fronte a cittadini ormai disabituati alla cura, lo Stato e la politica su questo fronte hanno colpe enormi. Sono anni che non si vede tra le priorità di un programma elettorale o di governo la difesa del territorio, nemmeno tra i riempitivi. Spero che mentre si contesta questo governo, visti i drammi recenti, i partiti inizino a pensarci seriamente, a programmare, a spendere parole e impegni forti, proprio a partire dalle adunate di piazza. Spero che ascoltino quella buona parte di società civile che lo chiede da tempo e già ci lavora con passione e sacrifici. O quegli agricoltori distrutti dai debiti che nonostante tutto lo fanno ogni giorno, nel proprio podere. Un poeta come Tonino Guerra un anno fa mi ha detto: «L´Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c´era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l´abitavano: i contadini. Dobbiamo riapprendere quella forza d´amore che avevano loro». Qui non è più sufficiente indignarsi, bisogna tornare ad amare per davvero questa terra. Vilipesa non soltanto nei comportamenti inqualificabili di chi governa, ma nell´indifferenza di fronte a scempi che non sono più tollerabili. Anche se non lo erano già ben prima di arrendersi allo sgomento di questi tristi giorni della nostra storia.

Questa Europa che detta legge ai governi mi ricorda tanto la Santa Alleanza del 1815, che interveniva in tutto il continente per sedare le rivolte, anche quelle dei patrioti italiani. Pensavano di avere l’Europa sotto i piedi, un po’ come oggi fanno i vertici della Ue e della Bce...». Luciano Canfora, ordinario di Filologia greca e latina all’Università di Bari, ha in cantiere un pamphlet sull’Europa, di cui anticipa alcuni contenuti, anche provocatori, a l’Unità. Non ha dubbi nel sostenere le ragioni del governo greco, che ha tentato di sottoporre a referendum il piano di austerità voluto dall’Ue. «Al premier Papandreou è stato persino imposto di riformulare il quesito, in modo da estenderlo alla permanenza stessa nell’euro. Un atteggiamento semi-coloniale, e la conclusione, cioè la rinuncia della Grecia alla consultazione, è uno scacco mortale alla democrazia. I capi dell’Europa si sono mossi come il brigante Mackie Messer dell’Opera da tre soldi di Brecht, con il coltello in mano».

Professore, che spazio c’è per la democrazia in questa crisi governata dai mercati?


«Il problema è la cessione di sovranità da parte degli stati nazionali verso delle strutture sovranazionali che non hanno una vera legittimazione democratica, perchè hanno una provenienza di tipo tecnico-burocratico e bancario-speculativo. In questo contesto la cessione di sovranità diventa un fenomeno inquietante».

Persino il Wall Street Journal aveva parlato di una “lezione di democrazia” da parte della Grecia.

«In effetti si può dire che la Grecia, che ha fondato la democrazia, ora ne rappresenta una sorta di ultima trincea».

Lei vede margini di democratizzazione della governance europea?

«Sinceramente no, e ricordo cosa disse il presidente della Banca centrale tedesca nel 1998, quando preconizzava la sostituzione del suffragio elettorale con quello dei mercati. Mi pare che il suo auspicio si sia ampiamente avverato».

Come si esce da questo impasse?

«Dopo oltre 50 anni dai trattati di Roma del 1957, non si è riusciti a costruire un governo, una politica estera e neppure un esercito unico. Mi pare che si possa parlare, storicamente, di un fallimento».

E come ci si salva?

«Oltre un anno fa le grandi banche tedesche si sono riunite a Davos per predisporre un piano di fuoriuscita dall’euro. Anche l’opinione pubblica tedesca ormai per oltre l’80% è contraria all’euro. La verità durissima è che l’Europa è un’invenzione astratta, un continente che contiene elementi distinti: il mondo anglosassone, quello francotedesco e mediterraneo. Va ripensato tutto».

Ritiene davvero possibile che l’Italia esca dall’euro?

«Si deve contrattare. I paesi del Mediterraneo, quelli più colpiti, dovrebbero alzare la voce per rinegoziare i parametri di Maastricht, ventilando anche l’ipotesi di costruire una propria area di scambio commerciale alternativa».

Con Berlusconi a Palazzo Chigi l’Italia è oggettivamente più esposta alla speculazione.


«Certo, ma quando sento dire dalle opposizioni che ci vuole un governo di emergenza per imporre i sacrifici ai cittadini, rabbrividisco. Il problema sono i sacrifici, non quale governo li impone. È un errore dare per scontati i sacrifici imposti dall’Europa, e non capisco perché l’opposizione si offra di partecipare».

Molti analisti sostengono che il “vincolo esterno” di Maastricht ci ha reso più virtuosi.


«Ci ha consentito non di essere meno spreconi, ma di mantenere i privilegi di chi già li aveva e di spremere ancora di più i lavoratori dipendenti, quelli che hanno un reddito visibile».

Credevo che ci fosse un limite a tutto. Quando Papandreou ha proposto di sottoporre a referendum del popolo greco il «piano» di austerità che l'Europa gli impone (tagli a stipendi e salari e servizi pubblici nonché privatizzazione a tutto spiano) si poteva prevedere qualche impazienza da parte di Sarkozy e Merkel, che avevano trattato in camera caritatis il dimezzamento del debito greco con le banche. Essi sapevano bene che le dette banche ci avevano speculato allegramente sopra, gonfiandolo, come sapevano che Papandreou aveva chiesto al Parlamento la facoltà di negoziare, e che una volta dato il suo personale assenso, doveva passare per il suo governo e il parlamento (dove aveva tre voti di maggioranza). Ed era un diritto, moralmente anzi un dovere, chiedere al suo popolo un assenso per il conto immenso che veniva chiamato a pagare. Era un passaggio democratico elementare. No?

No. Francia e Germania sono andate su tutte le furie. Come si permetteva Papandreou di sottoporre il nostro piano ai cittadini che lo hanno eletto? È un tradimento. E non ci aveva detto niente! Papandreou per un po' si è difeso, sì che glielo ho detto, o forse lo considerava ovvio, forse pensava che fare esprimere il paese su un suo proprio pesantissimo impegno fosse perfino rassicurante. Sì o no, i greci avrebbero deciso tra due mesi, nei quali sarebbero stati informati dei costi e delle conseguenze. Ma evidentemente la cancelliera tedesca e il presidente francese, cui l'Europa s'è consegnata, avrebbero preferito che prendesse tutto il potere dichiarando lo stato d'emergenza, invece che far parlare il paese: i popoli sono bestie; non sanno qual è il loro vero bene, se la Grecia va male è colpa sua, soltanto un suo abitante su sette pagava le tasse (e non era un armatore), non c'è parere da chiedergli, non rompano le palle, paghino. Quanto ai manifestanti, si mandi la polizia.

E per completare il fuoco di sbarramento hanno aggiunto: intanto noi non sganciamo un euro. Erano già caduti dalle nuvole scoprendo nel cuor dell'estate che la Grecia si era indebitata oltre il 120 del Pil. E non solo, aveva da ben cinque anni una «crescita negativa» (squisito eufemismo). Né i governi, né la commissione, né l'immensa burocrazia di Bruxelles se n'erano accorti, o se sì avevano taciuto; idem le banche, troppo intente a specularci sopra. Perché no? I singoli stati europei hanno dato loro ogni libertà di movimento, le hanno incoraggiate a diventare spregiudicatissime banche d'affari, e quando ne fanno proprio una grossa, invece di mandar loro i carabinieri, corrono a salvarle «per non pregiudicare ulteriormente l'economia».

In breve, la pressione è stata tale che Papandreou ha ritirato il referendum. La democrazia - in nome della quale bombardiamo dovunque ce lo chiedano - non conta là dove si tratta di soldi. Sui soldi si decide da soli, fra i più forti, e in separata sede. Davanti ai soldi la democrazia è un optional.

Nessun paese d'Europa ha gridato allo scandalo. Né la stampa, gioiello della democrazia. Non ho visto nessuna indignazione. Prendiamone atto.

Di fronte al precipitare della crisi finanziaria e al prepotente riemergere dell’ipotesi di un governo di emergenza, che trova robusti consensi nelle file del Pd e dell’Idv, Nichi Vendola ribadisce il suo no. «L’idea del governo tecnico, di una risposta emergenziale, non risolve il problema: siamo di fronte ad una crisi lunga, strutturale, direi di modello. Quelle che vengono apparecchiate come proposte tecniche sono in assoluta continuità con le politiche economico-sociali che hanno generato la crisi. Il governo di emergenza è una strada strategicamente sbagliata e politicamente poco fondata negli attuali rapporti di forza parlamentari».
Eppure l’Italia è a un passo dal baratro...

«Se per rispondere all’attacco speculativo si chiude a tenaglia la stretta sul welfare, se si prosegue con la retorica dell’austerità la politica della miseria, se non si mette in piedi un’idea di politica industriale e di crescita, noi continueremo a produrre tagli su tagli senza effetti virtuosi sul debito pubblico. Il Paese, nel frattempo, salta. E rischia di saltare la coesione sociale, l’architrave del patto che tiene insieme gli italiani».

Se un governo di emergenza dovesse vedere la luce, quale sarà il vostro atteggiamento?
«Negativo. Non esistono ricette neutre, se le medicine rischiano di uccidere l’ammalato, non è che se le acquisto in una farmacia più grande gli effetti sono meno nefasti. Quello che ci rende così vulnerabili agli speculatori è l’opacità della politica, l’autoreferenzialità di una classe dirigente barricata nei suoi fortini».

Secondo lei, insomma, se Berlusconi cadesse per il Paese non sarebbe comunque un balsamo?
«No. Per me il rischio è che si confondano le responsabilità e si rende ancora più torbida l’acqua in cui nuota l’opinione pubblica. C’è il rischio che si operi una sorta di sterilizzazione della coscienza critica nei confronti del berlusconismo, che la crisi venga addebitata alla politica tout court e non a al governo della destra, con tutte le conseguenze del caso sul piano della tenuta democratica. E poi guardiamo al caso greco: il referendum proposto dal premier Papandreou dimostra che il re è nudo e pone un tema ineludibile: qual è la legittimazione democratica di chi detta legge a parlamenti e governi? La drammaticità della crisi richiede un ingresso potente della politica, questa non è l’ora della “tecnica”».
Di Pietro propone una “controlettera” all’Ue. È praticabile?

«Ci si può ragionare. La nostra lettera, se ci sarà, dovrà contenere il capovolgimento dell’impianto di Berlusconi. Non si può non partire da una geografia sociale così segnata da elementi pesantissimi di iniquità. Nel paese è maturata una questione sociale dirompente, che non si può affrontare con l’artificiosa contrapposizione tra i nonni con 500 euro di pensione e i nipoti precari. Dobbiamo partire da una patrimoniale pesante, e da una significativa redistribuzione della ricchezza».

Negli ultimi giorni sembra allontanarsi l’ipotesi di un’alleanza tra centrosinistra e Udc alle prossime politiche... «Sarebbe la presa d’atto di un’intenzione più volte manifestata dal Terzo polo: correre da solo. Nel Pd qualcuno ha iniziato a riflettere anche sul caso Molise, per quello che ci insegna. Lì abbiamo scelto un candidato che veniva dal blocco avversario, con l’idea che avrebbe attratto voti moderati .È finita che l’Udc ha sostenuto il centrodestra e noi abbiamo perso per pochi voti, regalando molti consensi di sinistra ai grillini. L’”alleanzismo“ disinvolto, senza un’idea comune dell’Italia che vogliamo, rischia di sostituire l‘algebra alla politica. Ma non funziona».

Nel Pd sono stati i giorni di Renzi e della sua convention fiorentina. Lei cosa ne pensa?
«Rispetto Renzi, e spero che il confronto tra noi resti sempre sulla politica, senza degenerare mai. Lui ha fatto da destra un’operazione simile a quella che ho fatto io da sinistra». In che senso? «Propone il tema di un’innovazione radicale, di un’offerta politica che rompe le regole, rimescola le carte, e decostruisce il partito».

Perché gli appiccica l’etichetta di ”destra”?
«Accanto ad alcune idee di buon senso ma non molto nuove, Renzi propone in forme comunicativamente suadenti un rilancio dell’ipotesi neoliberista. Ma quello è il piano su cui ricostruire l’Italia o l’inizio della catastrofe? A questo si aggiunge la rimozione di alcune questioni aperte, a partire dal modello di sviluppo, e l’ambiguità sul peso del lavoro nella scena sociale. Si finge di non vedere quanto tutto il mondo del lavoro sia stato succhiato nel vortice della precarizzazione, e si costruisce una giustapposizione artificiale tra garantiti e non garantiti. Non si capisce come mai gli standard di vita dei garantiti debbano peggiorare per poter garantire gli altri. Insomma, vedo una forte continuità con le culture che da Reagan in poi hanno impregnato il mondo occidentale».

Una bocciatura senza appello? «Renzi ha un merito: disvela qualcosa che esiste nel Pd, un’ipoteca non moderata ma liberista sul futuro. E invece oggi c’è bisogno di un riformismo radicale, che si ponga come obiettivo la “conversione” del modello di sviluppo».

Ritiene che il sindaco di Firenze esprima un pensiero radicato nel Pd? «Sta cercando di rompere il giocattolo, per costruire una nuova alleanza tra poteri forti e comunicazione mediatica, come dimostra la scelta dei suoi testimonial, tutti con una cultura politica di destra».

Come la vedrebbe una sfida tra lei e Renzi alle primarie?
«Intanto il nodo della sua candidatura non è sciolto. Il dibattito fa bene, purché nessuno giochi a nascondino. Le carte vanno messe sul tavolo: per me un modello sociale che usa la crisi per rendere ancora più selvaggia la jungla del mercato del lavoro è il passato. E non si può danzare genericamente su temi come lavoro e pensioni».

Ieri Di Pietro in un’intervista all’Unità ha ipotizzato di non correre alle primarie per sostenere Bersani e rafforzare così la coalizione. «È un bel gesto, che dal suo punto di vista aiuta la semplificazione della contesa. Ciascuno di noi sta pensando insieme alla propria idea di programma e a come irrobustire il centrosinistra. Io lo faccio da tempo, concentrandomi sui ragionamenti politici, senza inseguire nessuno sul terreno delle polemiche. La mia presenza renderà le primarie un fatto vero, e questo è un bene».

Fino a che punto le regole vigenti nell´economia mondiale sono tuttora compatibili con l´esercizio della democrazia? La domanda è più che legittima, vista la reazione di panico con cui i mercati finanziari, e insieme a loro tanti leader politici nonché le principali istituzioni monetarie, hanno condannato la decisione del governo greco di convocare un referendum sulle ricette amare prescritte dall´Unione europea.

Il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick, ne parla come di un "lancio di dadi". Il governo tedesco lo qualifica come inaccettabile "perdita di tempo". Quanto alle reazioni dell´establishment di casa nostra, basti per tutti l´aggettivo con cui Ferruccio de Bortoli, sul Corriere della Sera, liquida il referendum indetto da Papandreou: "Scellerato".

Scellerato il ricorso a uno strumento di democrazia diretta? E perché mai? La risposta implicita può essere una soltanto, dato che purtroppo non esiste ancora una Confederazione Europea titolare di sovranità democratica condivisa: uno Stato che, come la Grecia, ha accumulato un debito insostenibile, per ciò stesso sarebbe condannato alla perdita della sovranità nazionale; ai suoi cittadini, quindi, può venir confiscato il diritto di assumere decisioni sul proprio futuro.

Per giustificare un tale ricorso allo stato d´eccezione che contemplerebbe la sospensione dell´esercizio della sovranità popolare, qualcuno invoca il paragone storico: quando mai un leader politico come Winston Churchill avrebbe sottoposto all´opinione pubblica impaurita la decisione stoica di resistere all´aggressione nazista? La metafora bellica, però, è un´arma a doppio taglio: possiamo considerare un progresso che, nel mondo contemporaneo, il dominio sia fondato non più sugli eserciti ma sul debito. Purché si riconosca che siamo in presenza di una nuova forma di colonialismo.

Si badi bene. Il governo greco soffre di un deficit di forza e autorevolezza, è vero. Ma non si è sottratto al dovere di rinegoziare con l´Ue e il Fmi le condizioni del suo debito. Ne è conseguito un piano di rientro terribilmente oneroso. I cittadini non vengono chiamati a pronunciarsi su un singolo provvedimento, prerogativa del governo in carica, ma su una scelta per tutti loro vitale. Accettare i sacrifici necessari per continuare a far parte dell´Unione europea, o sobbarcarsi l´incognita del default? Già nella piccola Islanda, con due diversi referendum, gli elettori hanno rifiutato di onorare il piano di rimborsi predisposti dal Fmi, e hanno preferito penalizzare le banche creditrici inglesi e olandesi. È vero che se un´analoga decisione venisse assunta dai greci, le ripercussioni sarebbero molto più gravi per tutta l´eurozona. Ma resta la domanda: a chi spetta decidere? C´è forse qualcuno che può sostituirsi al popolo greco in un tale frangente?

Nel loro recente libro-dialogo Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky ricordano che per millenni la democrazia fu considerata un pessimo sistema di governo perché solo un´élite di avveduti saprebbe decidere per il meglio, non la massa degli ignoranti. Se invece restiamo fermi nella convinzione che "il popolo si può sbagliare ma resta il miglior interprete del proprio interesse", e quindi "ogni altro interprete è peggiore", allora dobbiamo guardarci dai vizi antidemocratici che contraddistinguono l´attuale gestione della crisi del capitalismo finanziario. Possiamo delegarla a autorità monetarie rivelatesi per decenni insensibili a piaghe come la disoccupazione e l´acuirsi delle disuguaglianze, se non addirittura compartecipi nel predominio della finanza speculativa? Non risulta beffardo che l´autonominatosi direttorio franco-tedesco sia oggi costituito da leader di destra che negli anni scorsi hanno boicottato una reale unione politica sovranazionale? Per non dire dei governanti italiani che fino a ieri blateravano di popoli in rivolta contro gli "euroburocrati", salvo sottomettersi ora acriticamente ai diktat di Francoforte e Bruxelles.

Una politica incapace di rimettere in discussione i dogmi di un´economia fondata sulla lucrosa perpetuazione del debito e sull´ideologia della competizione esasperata, subisce passivamente la contrapposizione tra finanza e democrazia; sposa le convenienze della finanza a scapito della democrazia. Del resto, la levata di scudi contro il referendum greco è un atteggiamento già sperimentato in Italia. Come dimenticare che la primavera scorsa il nostro governo sperperò centinaia di milioni nell´inutile tentativo di boicottare i referendum sull´acqua e sul nucleare, rinviandone lo svolgimento? E ora, nella foga di varare un piano di privatizzazione delle aziende pubbliche, il governo si prepara a calpestare quel voto contrario di ventisette milioni di italiani convinti che si debbano preservare dei "beni comuni". Tutti scellerati?

Un anno e mezzo dopo lo scoppio della crisi greca, due mesi dopo lo scoppio delle manifestazioni a Wall street e in tutto il mondo - e mentre crollano nuovamente i mercati - la necessità di una svolta nella politica europea arriva sulla prima pagina del Sole 24 Ore, con il "Manifesto per risollevare l'Europa" di Daniele Bellasio e Enrico Brivio. Si propongono cinque cambiamenti di rotta per «permettere all'Europa di fare un vero salto di qualità, disinnescare la crisi del debito sovrano e presentarsi ai partner a testa alta» al G20 di domani: un vero governo economico europeo, una banca centrale che funzioni come la Fed americana, Euro project bond per le infrastrutture, Euro Union bond per ridurre i costi del debito pubblico, un mercato unico per il credito.

Finalmente si apre una discussione all'altezza dei problemi. Non si può non essere d'accordo su una Banca centrale che sia tenuta non solo a combattere l'inflazione, ma a sostenere la crescita: lo si chiede dalla fondazione della Bce. D'accordo in linea di principio sul governo economico europeo, ma qui il Sole lo vorrebbe «guardiano della disciplina fiscale», mentre serve un protagonista della politica economica che possa sostenere la domanda per evitare una grande depressione in Europa.

D'accordo sugli eurobond per finanziare progetti di sviluppo, ma basta, per favore, con le "grandi opere" che non servono e non si fanno: usiamo gli eurobond per finanziare la riconversione ecologica dell'economia, il risparmio energetico, le energie rinnovabili, le "piccole opere" che creano occupazione e qualità della vita. D'accordo pure con la proposta di Prodi e Quadrio Curzio, già apparsa sul Sole, sugli eurobond per ristrutturare - a condizioni migliori - il debito pubblico esistente.

Un po' meno d'accordo sul mercato unico per il credito. È dal 1990 che si liberalizzano i mercati dei capitali e la finanza, e pensare che altre liberalizzazioni portino stabilità sembra quantomeno ingenuo. Stupisce il silenzio del Sole sulla tassa sulle transazioni finanziarie su cui perfino Merkel e Sarkozy hanno concordato, e sulle altre misure che potrebbero limitare la speculazione finanziaria che ha colpito l'Europa. È comunque una buona notizia ritrovare sul Sole alcune delle proposte emerse nella discussione aperta nel luglio scorso dal Manifesto e da Sbilanciamoci sulla "rotta d'Europa". Il problema - anche per il Sole - è capire quali possono essere le "gambe" politiche che a Roma e a Bruxelles potranno sostenere quest'agenda. Confindustria si vuole impegnare su questa strada? Che interlocutori troviamo in parlamento? Come convinciamo la Germania sugli eurobond? Ma forse c'è un'altra buona notizia, Il Manifesto italiano appare nel giorno dell'insediamento di Mario Draghi alla Presidenza della Bce a Francoforte: che sia un segnale di cambiamento possibile nella politica della Banca centrale?

La sentenza n. 951/2011 (depositata il 28 giugno 2011) del T.A.R. Lombardia-sezione di Brescia, delinea uno scenario importante che è bene venga conosciuto in ogni Comune italiano: un nuovo Piano di Gestione del Territorio (o Piano Regolatore) non può basarsi su previsioni di sviluppo demografico non giustificate. In parole povere, non è possibile che la nuova pianificazione si basi su un numero di abitanti potenziali di troppo superiore all'effettivo andamento demografico registrato nel corso degli anni. Nel caso in questione, il PGT di Soncino (Cremona) prevedeva un aumento del 30% della popolazione attuale a fronte di un'evoluzione demografica sostanzialmente stabile registrata nel Comune negli anni.

Limitandosi a sottolineare l'assenza di giustificazioni all'interno dei documenti di piano di tale scelta, i Giudici bresciani hanno quindi annullato il Piano del Comune di Soncino, invitando il Comune a dare successivamente debito conto delle proprie stime in sede di successiva adozione.

Nella sentenza si legge che è presente un “errore nel dimensionamento del piano […] sulla stima del futuro numero di abitanti”, il PGT annullato “prevede un considerevole aumento della popolazione residente, che dovrebbe accrescersi di 2.979 nuovi abitanti […] si tratta di un incremento superiore al 30% e considerevole anche in valore assoluto, previsto secondo logica nell’arco dei cinque anni che […] costituiscono il termine di validità del documento di piano”. 
Basta guardare l’andamento storico per verificare che “l’evoluzione demografica del Comune di Soncino, è caratterizzata da una sostanziale stabilità” citando la crescita di 321 abitanti negli ultimi 36 anni. Questa previsione di crescita spropositata e non dimostrata, a detta del TAR, è “senza dubbio una illogicità manifesta […] e comporta l’annullamento del piano”.

Quante decine (centinaia ? migliaia ? ...) di Comuni italiani conoscete in identica situazione ? Ora c'è una sentenza del T.A.R. a fare da precedente !

Da quando hanno cominciato a protestare, gli indignati hanno denunciato via via l´ottimismo illusionista dei governi, le istituzioni internazionali spesso indifferenti ai vincoli democratici, infine la Banca centrale europea: nostro salvagente, ma salvagente riluttante a tramutarsi in prestatore di ultima istanza. Le denunce possono convincere o no, ma dietro c´è una domanda cruciale, cui non si sfugge.

La domanda è comune agli indignati e alle forze che in queste ore, più che mai, mostrano di non credere in Stati come Grecia e Italia, non escludendo funeste bancarotte: chi comanda, nell´emergenza che viviamo? E se davvero la crisi prelude a una mutazione radicale delle società, se davvero Roma o Atene s´inabissano: quali poteri decideranno il da farsi, combinando o non combinando i sacrifici con la giustizia sociale che fonda le nostre democrazie? Chi controlla i controllori?

Davanti a questo bivio stiamo, e la domanda è cruciale perché pone al tempo stesso la questione della sovranità e della democrazia. E perché è una domanda che in Italia sale dal Quirinale stesso, che giudica il vuoto politico ormai non più tollerabile. La risposta che dà Berlusconi - colpevole è l´euro, «moneta strana che non ha convinto nessuno» - è non solo becera. È nichilista, perché scaricare le responsabilità su Francoforte significa perpetuare la truffa illusionista e non capire il tracollo del proprio ventennio: ventennio che si chiude con una sorta di sconfitta bellica simile a quella che travolse Mussolini. Quando il Premier gioca allo sfascio attaccando l´euro, e poi fa come se avesse detto il contrario, mostra che la cacofonia affligge non tanto la sua maggioranza quanto la sua testa, e quel che la testa gli fa dire. Con cortesia gelida, Mario Monti gli ha ricordato in una lettera aperta sul Corriere che «anche le parole non sorvegliate hanno un costo», pagato da noi tutti.

Altri giocano allo sfascio, più o meno scompostamente. C´è chi, come il Premier greco, indice un referendum spericolatissimo sull´austerità, presentandolo come democrazia. C´è chi accarezza l´idea di sospenderla, la democrazia, persuaso in segreto che la via sia quella di Donoso Cortés, il politico spagnolo dell´800 che preferiva l´autoritarismo alla sempre titubante clase discutidora. Chi parla di governi italiani di salute nazionale indica la soluzione (il Quirinale stesso fa sapere che «servono larghe intese»), ma esiste il rischio di curare i mali col veleno che li ha creati. Non abbiamo bisogno che al governo vada un outsider infastidito dalla politica, magari con nuovi conflitti d´interesse: l´esperimento è già stato fatto, dopo Mani Pulite, dall´imprenditore di Arcore. Credo che l´Italia abbia sete di veri politici, di servitori dello Stato come Monti che è stato per anni civil servant in Europa, allo stesso modo in cui per liberarsi da Tangentopoli ebbe bisogno di Ciampi, del suo senso della res publica. Il nostro risanamento non può avvenire in due tempi: prima la democrazia sospesa, poi il ritorno al confronto politico normale.

Se ben governata, la catastrofe italiana può infatti riservare sorprese non distruttive, e fornire una risposta alla doppia domanda di indignati (e mercati) su sovranità vera e democrazia. Tutto verte attorno al termine commissariamento, vissuto come un´onta da gran parte della nostra classe dirigente. In un articolo pubblicato il 28 ottobre sul Sole 24 ore, dopo l´accordo di Bruxelles e la lettera d´intenti italiana, Beda Romano ha scritto un importante articolo, che punta il dito sulla frase più rivelatrice del comunicato finale del vertice Ue: «Invitiamo la Commissione a fornire una valutazione dettagliata delle misure e a monitorarne l´attuazione, e le autorità italiane a fornire tempestivamente tutte le informazioni necessarie per tale valutazione».

Il passaggio equivale a un commissariamento solo se restiamo convinti che gli Stati nazione siano ancora capaci di comando, nell´emergenza. Ma il comunicato può esser letto in modo radicalmente diverso: come primo segno di una riduzione delle sovranità nazionali, non negativa anche se vissuta - in Italia - dolorosamente e non democraticamente. «L´Italia è diventata all´improvviso un banco di prova per l´intera unione monetaria», scrive Romano, e, lungi dall´essere commissariata, potrebbe essere «il battistrada di una nuova Europa».

Non per questo però il dramma s´attenua. L´esperimento che trasforma l´Italia in embrione di governo europeo nasce con vizi gravi: affronta la questione della sovranità, non della democrazia. È uno dei punti salienti del discorso, lucido, che Napolitano ha tenuto a Bruges il 26 ottobre: una nuova Europa sta forse nascendo, non solo economica ma politica, dotata di una «sovranità europea condivisa», ma alla metamorfosi dell´Unione potranno contribuire in maniera inventiva solo Stati non disfatti, ridotti a cavie, tentati dall´antipolitica, ma che stiano in piedi agendo da protagonisti su ambedue i piani: apprendendo la cultura della stabilità, e spingendo i partner dell´Unione a fare più Europa, a dotare il bilancio comunitario di più mezzi, a osare la messa in comune dei debiti con gli eurobond, a riprendere il sentiero dell´Europa sociale. Anche nel quadro di un avanzamento dell´Unione, ha detto Napolitano lunedì, «restano affidate inderogabili funzioni agli Stati nazionali, e decisivo resta il loro concorso al perseguimento delle stesse politiche comuni europee». Come concorrere, se lo Stato naufraga?

La cessione di sovranità non può iniziare profittando di un legno marcio, oltre che storto. Altrimenti il battistrada diverrà spauracchio. La Francia farà simili passi? E la Germania, il cui nuovo nazionalismo Habermas giudica severamente, cederà infine sovranità? Si ritorna così alla prima domanda: se l´Italia è apripista, chi comanderà la futura Europa delle sovranità condivise? Che volto avrà il governo sovranazionale: quello del Leviatano di Hobbes (l´autorità fa legge), oppure esisteranno regole cui l´auctoritas dovrà sottostare? Se il referendum greco minaccia l´euro, quale democrazia europea inventare, perché i cittadini non si sentano spodestati?

Disvelare i veri poteri e democratizzarli è il compito dei partiti europei. Un compito arduo in Italia, perché doppio: si tratta di allontanare Berlusconi, che evidentemente crea sfiducia ovunque, e di lavorare, in Europa, per un salto di qualità federale. Nicola Zingaretti, nel manifesto scritto il 27 ottobre sul Foglio, fa proprio questo: è l´unico, a me pare, ad auspicare una battaglia simultanea in Italia e Europa. Quel che propone, in sintonia con Napolitano, è lanciare subito «una campagna per l´elezione diretta del presidente dell´Unione europea», per rispondere alla richiesta di un nuovo spazio politico. I politici italiani di destra e sinistra sono accusati di aver «abdicato alla missione per la quale fu intrapreso il cammino dell´unità (il cui simbolo vincente è stato senz´altro Romano Prodi)» e d´aver rinunciato ad affiancare un´Unione politica democratica a quella economica. Alla domanda di indignati e mercati urge rispondere indicando con chiarezza quali sono i poteri e i contropoteri negli Stati e nell´Unione: «Nell´era della comunicazione globale le persone vogliono giustamente sapere chi decide e controllare direttamente l´iter delle scelte».

Anche la Banca centrale europea deve cambiare, secondo Zingaretti, e darsi nuovi poteri e missioni: «Bisogna dotare l´euro degli stessi strumenti di cui gode oggi il dollaro, ed evitare che l´assenza di strumenti difensivi flessibili nel sistema monetario esponga la nostra moneta alla speculazione». Non lo propone solo Krugman, spesso scettico verso l´euro. Anche europeisti come Paul De Grauwe, Charles Wyplosz, Jacques Delors, chiedono che sia consentito all´istituto di Francoforte di divenire una Banca centrale autentica, prestatrice di ultima istanza. Solo così, secondo Delors, le istituzioni europee saranno «non i pompieri, ma gli architetti dell´Europa» che verrà, se la vorremo.

Il teorema Sacconi è lineare e infatti insiste. Ma certamente non è nuovo: ci sono forze politiche e sociali che, accusando il governo delle difficoltà del paese, gettano paglia sul fuoco della protesta, come dimostrerebbero gli scontri del 15 ottobre a Roma. La protesta, si sa, è come una bomba e una volta innescata è difficile da spegnere. Può assumere le forme civili del dissenso, ma anche quelle incontrollabili della violenza dentro cui ineluttabilmente si insinua e si nasconde il cancro del terrorismo. Non è questo che ci insegnano decenni di storia italiana? Morale: bandire la critica, vietare i cortei e, soprattutto, rigettare sui cattivi maestri - opposizioni politiche e sociali - le responsabilità di quel che potrebbe succedere. E che potrebbe succedere? Potrebbe scapparci il morto. Questo lo dice lui, la realtà è che il ministro teme che la protesta sociale possa riuscire là dove un'opposizione politica afona non riesce: mandare a casa lui e il suo capo Berlusconi.

Questa volta però il ministro Sacconi ha superato ogni limite, facendo perdere la pazienza persino a chi del suo teorema infame si è nutrito per decenni. C'è chi tenta di giustificarlo ricorrendo a strumenti psicologici: poverino, era così amico di Marco Biagi (e magari così pieno di sensi di colpa per la revoca della sua protezione) ammazzato dai terroristi che bisogna capirlo. Si potrebbe controbattere che nascondere le sue politiche liberticide e antioperaie, nonché il suo irresponsabile allarmismo, dietro il corpo di Biagi è un'operazione sporca.

Dire che il «socialista» Sacconi se le cerca sarebbe altrettanto irresponsabile, quasi un appello a metterlo a tacere. Invece non dovremmo metterlo a tacere, ma rimandarlo a casa a riflettere sui suoi incubi: i comunisti - sì, anche lui se li sogna la notte - il '68, la Cgil. Per non parlare della Fiom. Sacconi è assetato di vendetta, ha in testa solo il ritorno ai bei tempi, quando di fronte al padrone ci si toglieva il cappello, vuole tirare una riga sopra le conquiste - lui dice le aberrazioni - degli anni Settanta quando il ministro livido cominciò a elaborare il suo teorema. Ma è difficile mandare a casa Sacconi e il suo governo quando persino le bestemmie - per aumentare l'occupazione bisogna rendere più facili i licenziamenti - raccolgono applausi in tutto l'arco costituzionale. Quando giuslavoristi dinosauri denunciano l'eccesso dei diritti dei presunti garantiti, quando i giovani rottamatori scoprono le meraviglie del teorema Marchionne. Se anche mandassimo a casa Sacconi, e speriamo davvero di riuscirci prima che avveleni definitivamente il clima politico e sociale, ci resterebbero i fans di Marchionne e Ichino, e quelli che pensano che se i giovani oggi non hanno lavoro e domani non avranno la pensione, la colpa sta nel fatto che non si lavora fino a settant'anni e che c'è l'articolo 18.

Solo ricostruendo una razionalità di sinistra con gli anticorpi per non cadere nel trabocchetto del modernismo e del pensiero unico, potremmo essere certi di non trovarci a sostituire un Sacconi con un altro Sacconi, anche se è oggettivamente difficile pescarne uno come lui, persino cercando con impegno nel nutrito battaglione del pentitismo socialista italiano. Ma in tutto questo il terrorismo non c'entra nulla: non basta evocare i fantasmi per dar loro la vita.

Dopo Tangentopoli la legislazione urbanistica è stata smantellata. Le metropoli sono diventate terreno di conquista degli speculatori. Fiumi di cemento hanno inondato i nostri territori. Ripristinare la legalità, bloccare le espansioni urbane, riqualificare le periferie, recuperare il costruito abbandonato: ecco tutto ciò che andrebbe fatto per fermare il saccheggio del territorio e delle città.

Regole e legalità cancellate

Il 1993 segna lo spartiacque per comprendere cosa è avvenuto nel territorio e nelle città. Tangentopoli aveva mostrato lo stretto intreccio tra l’urbanistica e la corruzione: a Roma e Milano, solo per fermarci alle due maggiori città, le regole venivano sistematicamente cambiate dalla politica collusa con la proprietà fondiaria e con l’affarismo.

Nulla di nuovo. Una storia iniziata nell’immediato dopoguerra: la Roma dominata dalla Società generale immobiliare, la Napoli dei tempi di Lauro, lo scandalo di Agrigento, il sacco di Palermo avevano dimostrato l’arretratezza del sistema economico che dominava le città. È stata la speculazione parassitaria a imporre il proprio dominio: dappertutto erano sorte periferie sfigurate e incivili.

Eppure in quel periodo il legislatore aveva risposto agli scandali con una serie di riforme che avevano collocato l’Italia nel panorama dei paesi virtuosi. Regole e strumenti pubblici chiari e efficaci: la legge sull’edilizia pubblica del 1962, [del 1971 e del 1978 – n.d.r.] la legge ponte del 1967, la Bucalossi del 1977, la Galasso del 1985, la legge sulle aree protette del 1991. Era stato mancato l’obiettivo di scindere in maniera definitiva il diritto di proprietà dal diritto di edificare analogamente agli altri paesi europei poiché il tentativo di riforma di Fiorentino-Sullo fallì nel 1963 per la violentissima reazione del blocco immobiliare. Ciò nonostante, la risposta agli scempi urbanistici portò a una profonda evoluzione della legislazione.

La risposta allo scandalo di Tangentopoli è stata di segno opposto: la legislazione urbanistica è stata infatti smantellata. La cultura delle regole viene sostituita dalla prassi della deroga. I piani regolatori, e cioè il quadro coerente dello sviluppo delle città, vengono sostituiti dall’urbanistica contrattata: volta per volta si decide la dimensione e i caratteri degli interventi urbani, al riparo di qualsiasi trasparenza. Conseguenza inevitabile, se si pensa che le elezioni politiche del 1994 portarono alla vittoria Silvio Berlusconi che all’interno del suo programma aveva promesso «padroni a casa propria» slogan che dà il via alla serie di leggi – mai contrastate negli anni dei governi di centro-sinistra – che avrebbero messo in crisi il governo pubblico del territorio.

Quando scompaiono le regole trionfa l’illegalità. Questo è avvenuto in molti casi, dall’attacco continuo alla magistratura al falso in bilancio alle prescrizioni facili. Ma è nelle città che il malaffare ha trionfato. Quanto emerge dall’inchiesta della magistratura su Sesto San Giovanni ne è la più chiara dimostrazione. I colloqui tra i protagonisti vertono sull’esigenza di variare le volumetrie da realizzare nell’area ex Falk da un milione a un milione e mezzo di metri cubi. Senza alcuna procedura di evidenza pubblica si regalano alla proprietà fondiaria 500 mila metri cubi: un arricchimento in termini economici di oltre 200 milioni di euro. Ammettiamo pure per assurdo che non ci sia stata alcuna tangente: il fatto grave è che attraverso l’urbanistica contrattata si alterano le regole di mercato. Altri operatori che sulla base delle scelte urbanistiche avevano deciso di investire in differenti aree vengono danneggiati e se non vogliono soccombere hanno un’unica strada: venire a patti con la politica e iniziare la contrattazione urbanistica.

Questa patologia spiega il motivo per il quale non c’è nessun operatore edilizio di altri paesi europei che investa sul mercato italiano: chi è abituato al rispetto delle regole non può avventurarsi in un far west dominato da taglieggiatori, speculatori e amministratori pubblici infedeli. Del resto, siamo il paese dei tre condoni edilizi, una vergogna sconosciuta negli altri paesi.

Le periferie più grandi e desolate d’Europa

Dopo circa vent’anni dalla sua affermazione è venuto il momento di tentare un bilancio degli effetti sulle città e sul territorio dell’urbanistica contrattata. Esso deve partire da una constatazione statistica: nel quindicennio che va dalla ripresa del mercato delle costruzioni (1995) ad oggi, un fiume di cemento e asfalto si è riversato sul paese. L’Istat ha certificato (2009) la costruzione di oltre 3 miliardi di metri cubi di cemento, una produzione edilizia imponente, molto simile per dimensioni a quella realizzata negli anni Cinquanta-Settanta quando l’Italia era investita da grandi flussi demografici e da indici di crescita economica a due cifre. La cancellazione delle regole urbane ha dunque giovato al mondo della proprietà fondiaria e delle costruzioni. Ha giovato anche alla qualità delle nostre città?

La risposta è inequivocabile. Le periferie – che rappresentano la parte preponderante delle nostre città – sono in assoluto, con alcune lodevoli eccezioni, le più brutte, disordinate e invivibili dell’intera Europa. Lo sono per le carenze dei sistemi di trasporto, per la qualità dei servizi pubblici e degli stessi edifici. I luoghi scelti per realizzare le nuove periferie hanno anche contraddetto la regola usuale della città liberale, quella cioè di espandersi in adiacenza ai precedenti tessuti, mantenendo la città compatta e minori i costi di funzionamento urbano. In ogni parte del territorio agricolo sono nati centri commerciali, nuclei abitati, residence, cittadelle del consumo: lo sprawl urbano è la caratteristica più evidente del ventennio liberista. Le città italiane nel ventennio dell’urbanistica contrattata sono diventate più estese, più disordinate, socialmente più ingiuste. La speculazione immobiliare ha fatto enormi affari. Gli altri sono stati costretti a spostarsi nelle sempre più lontane e squallide periferie.

Una gigantesca periferia senza struttura e senza relazioni: abbiamo il più basso livello di infrastrutture su ferro, il più alto numero di automobili ad abitante, con il più elevato livello di superficie urbanizzata a parità di popolazione, un consumo di suolo senza uguali nei paesi ad economia forte. Un’immensa «non città», anonima e disordinata. Una frammentazione che genera consumi energetici insostenibili, disfunzioni economiche e scarsa qualità della vita.

Verso il default urbano

Raccogliamo dunque gli effetti di processi giustificati dall’ideologia di uno «sviluppo» che oltre a lasciare macerie urbane ha anche vuotato le casse delle amministrazioni pubbliche. Paradigma di quanto è avvenuto nelle città italiane è il caso di Parma. Una città ricca, con una parte antica meravigliosa e una periferia storica bella, è stata saccheggiata dietro lo schermo dello sviluppo. Oggi Parma ha un deficit di bilancio che pesa sulle spalle delle future generazioni per 600 milioni di euro.

Del resto, la stagione delle «grandi opere» è servita soltanto al saccheggio. Dietro i concetti dell’ammodernamento del paese sono state avviate opere dannose e inutili: dal Mose al ponte di Messina; dal corridoio della Val di Susa alle emergenze della Protezione civile, è stata messa a punto una macchina perfetta che ha favorito soltanto le cricche del malaffare e dilapidato risorse pubbliche. Del resto, per collocare in un panorama più vasto le dinamiche italiane, non si deve dimenticare quanto è avvenuto in Grecia. Anche lì l’ideologia liberista ha imposto a tutti i costi lo svolgimento dei Giochi olimpici nel 2004: il deficit di bilancio accumulato per la folle sfida è stato di 20 miliardi di euro dilapidati in cattedrali nel deserto, poco meno di un decimo del debito che sta collassando quella nazione.

Se si mettono queste caratteristiche del territorio in relazione con la crisi economica e finanziaria che sta colpendo sempre più intensamente il paese e che provocherà un’inevitabile diminuzione delle capacità di spesa delle amministrazioni pubbliche, gli interrogativi sul futuro delle nostre città si fanno allarmanti. Non avremo risorse per portare i servizi nel territorio diffuso e – ciò che in prospettiva è più importante – non potremo competere con i livelli di efficienza delle città europee, con la qualità dei servizi erogati ai cittadini, con la loro capacità di fare rete – e richiamare investimenti privati – proprio in virtù dell’alto livello di funzionalità.

Viaggiamo verso una prospettiva insostenibile. Nella crisi globale una struttura forte del territorio è un potente fattore di traino di nuove attività: territori a bassa densità non sono invece in grado di competere con i livelli di concentrazione di servizio esistenti nelle città del mondo. La Comunità europea prevede che nel 2020 l’80 per cento della popolazione degli Stati membri vivrà in ambiente urbano. La sfida per la ripresa economica passa dunque per le città e l’Italia è la cenerentola rispetto ai paesi, che anche in questi anni di liberismo non hanno abbandonato la cultura del governo delle città.

Abbiamo minato le stesse basi per una nuova fase di sviluppo e per tentare di colmare la distanza dobbiamo essere in grado di rendere concrete due condizioni: bloccare per sempre le espansioni urbane perché è un costo che non possiamo permetterci più e investire risorse pubbliche per migliorare le città. Assistiamo purtroppo a una rincorsa bipartisan a espandere ancora le città e a impoverirle cancellando il welfare urbano, i trasporti,fino a ipotizzare di svendere i monumenti.

È come se una banda di malfattori si fosse impadronita del paese. Continua infatti l’assalto alle coste marine ancora integre. Dalla Sardegna alla Sicilia l’unico motore di sviluppo è il cemento. Assistiamo poi a un altro assalto all’integrità dei luoghi condotto mediante nuovi mostri giuridici come i «piani casa» (nel Lazio si deroga perfino per le aree ricomprese nei parchi) o le «zone a burocrazia zero» volute dal ministro Tremonti con le quali si possono superare anche i vincoli paesaggistici che hanno rilevanza costituzionale sulla scorta dell’articolo 9. Salvatore Settis ha lanciato l’allarme sul rischio della definitiva cancellazione dei paesaggi storici italiani.

Se a questo si aggiunge ancora che – deroghe a parte – i vigenti piani regolatori prevedono espansioni illimitate (solo i recenti piani di Roma e Milano prevedono un incremento di 120 milioni di metri cubi di cemento, e cioè un milione di nuovi abitanti in due città che perdono popolazione da circa trenta anni!) c’è davvero da preoccuparsi. Occorre interrompere questa folle corsa alla distruzione del paese.

Le città e il territorio sono beni comuni

Solo in base a nuovi princìpi giuridici si potrà fermare il saccheggio del territorio e delle città. È necessario un nuovo paradigma e, se finora lo sviluppo delle città e del territorio ha favorito la speculazione immobiliare e il mondo delle imprese colluse con la politica, è venuto il momento di riportare i destini delle città e del territorio nelle mani delle popolazioni insediate. Occorre affermare che il territorio, le città e le risorse naturali che consentono la vita insediativa sono beni comuni non negoziabili. Le istituzioni pubbliche, attraverso le forme della partecipazione attiva della popolazione, ne sono i custodi e i garanti nel quadro delle specifiche competenze. È questo il pilastro su cui deve essere rifondato il governo del territorio. I beni comuni non possono essere trasformati in funzione dell’esclusivo tornaconto dei proprietari degli immobili ma ogni mutamento deve essere deciso dalle amministrazioni pubbliche attraverso forme di partecipazione delle comunità insediate, specie in questo periodo di scarse risorse economiche.

Il principio generale si completa con due corollari. In primo luogo occorre conoscere quanto è avvenuto. Finora non ci sono dati ufficiali su quante abitazioni sono state costruite e quante sono invendute, quante aree industriali sono dismesse, quante aree urbane sono prive delle più elementari opere di urbanizzazione. Per completare il quadro conoscitivo è necessario applicare un anno di moratoria edilizia in cui sono consentiti soltanto gli interventi in corso, quelli di recupero e ristrutturazione di edifici esistenti ma è preclusa ogni urbanizzazione di terreni agricoli. Una sorta di simmetria con l’anno di sospensione dell’entrata in vigore della «legge ponte» che la proprietà immobiliare impose e che servì per compiere alcuni dei più gravi misfatti che deturpano ancora oggi il territorio.

Il secondo corollario riguarda il fatto che su ogni opera di rilevanza territoriale, da un nuovo centro commerciale a una grande opera, è la popolazione insediata che deve esprimersi attraverso le mature forme di partecipazione, e cioè i referendum confermativi. Visto che le regole sono state infrante, occorre ricostruirle a partire da un nuovo protagonismo: quello dei custodi del bene comune, i cittadini.

Insieme al nuovo principio su cui deve rifondarsi il governo del territorio e delle città, è poi urgente definire le principali linee di azione da intraprendere per una nuova forma di governo. Lo faremo individuando nove fondamentali provvedimenti.

Le politiche individuate hanno bisogno di investimenti pubblici. Una prassi normale nella storia delle città: esse sono infatti luoghi pubblici per eccellenza e la loro evoluzione è stata sempre alimentata dalla lungimiranza di coloro che la governavano. Oggi non si investe più perché «non ci sono più soldi». Una menzogna vergognosa. Non passa giorno in cui non apprendiamo scandali e ruberie compiuti ai danni del territorio e dell’ambiente. È purtroppo vero che le risorse pubbliche vengono spese per opere inutili, per alimentare un sistema di potere che sfugge ormai al controllo democratico. La spesa pubblica per i provvedimenti contenuti in questo elenco serve per favorire la ricerca tecnologica e nuove produzioni, per rendere le città più vivibili. È un investimento per il futuro del paese e delle giovani generazioni.

1. Chiudere la fase dell’espansione urbana. È preminente interesse pubblico bloccare la corsa all’ulteriore espansione delle città e ridurre a zero il consumo di suolo ai fini insediativi e il mantenimento della parte naturale che è il luogo della biodiversità. Alcune normative regionali hanno già stabilito che nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali devono essere consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. La norma di principio valida su tutto il territorio nazionale potrebbe affermare ad esempio che «la realizzazione di nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali può essere definita ammissibile soltanto ove non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti, delle infrastrutture o delle attrezzature esistenti».

L’esperienza ci insegna però che una simile norma non ha da sola la forza per fermare l’espansione urbana. Sono troppe le deroghe che consentono il nascere di nuovi insediamenti. L’efficacia della norma può essere resa stringente recuperando una proposta che da tempo Italia Nostra propugna, quella di inserire le aree agricole all’interno delle categorie dei beni tutelati ai fini paesaggistici dalla legge Galasso. Si dovrà dunque aggiungere al codice dei Beni culturali e paesaggistici (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42) un comma che afferma: «Il territorio agricolo è vincolato come bene paesaggistico» in modo che sia conseguentemente sottoposto alla tutela dei piani paesaggistici.

Un piccolo e combattivo nucleo di sindaci ha dato vita al movimento «Stop al consumo di suolo», dimostrando che sono i cittadini a chiedere che le città non crescano più: si tratta di estendere all’intero paese ciò che è già in movimento.

2. Il territorio del lavoro. I suoli agricoli sottratti alla monocultura del mattone e dell’asfalto possono fornire una prospettiva produttiva. Ai fini di una lungimirante gestione del territorio nazionale, infatti, si deve recuperare un uso agricolo consapevole, puntare sulla qualità del prodotto, sulla riconversione biologica, sulla filiera corta. Un tema decisivo per il futuro economico del paese, una prospettiva che comporta la possibilità di integrazioni di reddito, la riscoperta delle radici culturali e della qualità del cibo. L’avvio di nuove politiche sarebbe di grande importanza perché i territori collinari e montani si stanno spopolando sempre più velocemente, con gravi rischi sulla stessa stabilità geologica dei versanti.

Compito delle autorità pubbliche è riattivare il tessuto sociale dell’Italia «marginale». Un solo esempio: i terreni abbandonati costano poco sul mercato immobiliare e le amministrazioni pubbliche potrebbero dunque inserirsi come operatori attivi e acquisire estese porzioni di territori da affidare poi alle comunità locali. Non sarebbe questa una spesa pubblica «classica», improduttiva. È al contrario un modo intelligente di investire sul futuro del paese, utilizzando ad esempio le risorse liberate attraverso la vendita delle proprietà pubbliche non indispensabili.

3. Pareggio di bilancio dei conti pubblici a carico della rendita parassitaria. Il blocco delle espansioni urbane porterebbe un consistente riequilibrio dei bilanci pubblici. Si spendono ingenti risorse per inseguire e raggiungere tutti i frammenti delle espansioni urbane nati recentemente. A carico della collettività resta infatti il pesante compito di realizzare le strade e le infrastrutture energetiche, di garantire i servizi pubblici, i trasporti e la quotidiana gestione dei quartieri. Questi oneri sono ormai insostenibili poiché la crisi economica ha ridotto le capacità di spesa delle amministrazioni. Si deve dunque stabilire il principio che ogni attività di trasformazione urbanistica presuppone l’esistenza o la preliminare realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale, a iniziare dalle reti di trasporto su ferro. A carico del privato vanno anche tutte le spese di mantenimento e di gestione dei nuovi insediamenti: è ora di chiudere il rubinetto che prosciuga le casse dello Stato.

In questo modo si possono cancellare le folli previsioni dei piani regolatori comunali. Se vogliamo davvero cambiare le città non possiamo consentire che si costruisca in luoghi privi di sistemi di trasporto non inquinante. I cittadini hanno il diritto, come in ogni altro paese europeo, di vivere in modo civile e non essere costretti a passare molte ore al giorno in spostamenti in automobile. È ora che gli attori edilizi si facciano carico della realizzazione delle infrastrutture, interrompendo il comodo gioco di scaricarne i costi sulle amministrazioni pubbliche che non sono più in grado di farsene carico.

Stesso ragionamento vale nel campo dell’erogazione dei pubblici servizi dove si sperpera un altro fiume di risorse economiche attraverso un impressionante numero di società di scopo. In nome dell’ideologia della presunta «efficienza», ad esempio, a Parma sono state create 34 società partecipate per gestire compiti ordinari come erogare l’acqua. Anche nell’area bolognese e in molte altre città i servizi pubblici sono gestiti da un numero imponente di società. Presidenze, consigli di amministrazione, consulenti d’oro che riportano docilmente i soldi ai decisori politici.

In questa stessa ottica di recupero di risorse economiche deve essere sottoposto a radicale revisione il paradigma della svendita del patrimonio pubblico così di moda nei circoli della finanza internazionale e dei politicanti nostrani. Nulla in contrario: proprietà pubbliche non utilizzate per il soddisfacimento delle esigenze collettive possano essere poste in vendita. Ma ciò deve in primo luogo escludere i beni culturali poiché un paese che guarda al futuro non vende le sue radici. In secondo luogo deve avvenire soltanto dopo aver coinvolto le popolazioni locali, poiché quel patrimonio appartiene a loro, e dopo aver verificato che quegli immobili da vendere non possano servire per abbattere il flusso delle risorse pubbliche spese per pagare affitti di uffici pubblici alla grande proprietà immobiliare. A Roma, ad esempio, importanti istituzioni – ad iniziare dal parlamento – pagano canoni altissimi a immobiliaristi e faccendieri anche se esistono ancora grandi edifici pubblici localizzati in posizione centrale. Invece di svenderli, potrebbero essere riutilizzati al posto di quelli per i quali si pagano i canoni di affitto.

Un altro eloquente esempio riguarda lo stesso ministero dell’Economia guidato da Giulio Tremonti, e cioè l’istituzione che più di ogni altra dovrebbe perseguire una rigorosa politica di risparmio. La sede del ministero ubicata a ridosso del laghetto dell’Eur è stata di recente dismessa e venduta per consentire l’ennesima speculazione immobiliare. Le strutture lavorative prima concentrate sono state smembrate e ora sono localizzate in due immobili tra loro distanti. Paghiamo i costi del disservizio e lauti canoni di affitto a grandi società immobiliari: lo Stato svende e il privato ci guadagna.

4. Il diritto all’abitare. Occorre pertanto invertire questo meccanismo perverso: la vendita degli immobili pubblici deve essere decisa dalla collettività dopo attenta verifica della loro potenzialità di essere riutilizzati per fini istituzionali o per risolvere i fabbisogni abitativi. La grande produzione edilizia di questi anni non ha infatti risolto il problema delle abitazioni. Sono centinaia di migliaia le famiglie che non hanno casa o vivono in abitazioni improprie. Nelle grandi città italiane esistono oltre 300 mila abitazioni nuove invendute. Ciononostante, i valori economici degli immobili hanno subìto un’impennata provocando l’espulsione dalle zone centrali delle città di un numero enorme di famiglie a medio e basso reddito. Una nuova legge «sull’abitare», e cioè sul diritto di tutti non soltanto ad avere un tetto, ma anche ad avere una città efficiente e accogliente è un altro fondamentale tassello del programma di governo.

Anche in questo settore va affermato un nuovo principio: a tutti i cittadini sono garantiti i diritti fondamentali all’abitazione, ai servizi, alla mobilità, al godimento sociale del patrimonio culturale, alla dignità umana. La legislazione dello Stato determina le quantità minime di dotazioni di opere di urbanizzazione, di spazi per servizi pubblici, e la fruizione collettiva e per l’edilizia sociale, nonché i requisiti inderogabili di tali dotazioni.

5. Le radici culturali da conservare. Nel delirio della cancellazione delle regole, si è tentato perfino di aggredire le radici della nostra storia urbana, i centri antichi. Nel cosiddetto «piano casa» berlusconiano si alludeva infatti anche alla possibilità di trasformare le tipologie presenti nei centri storici e continuamente si tenta di forzare le norme esistenti. Converrà dunque ribadire con una legge ad hoc che gli insediamenti storici non possono essere manomessi, ma conservati gelosamente per le future generazioni.

In forza della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali dovranno essere vincolati ope legis gli insediamenti urbani storici e le strutture insediative storiche non urbane; le unità edilizie e gli spazi scoperti, i siti in qualsiasi altra parte del territorio, aventi riconoscibili e significative caratteristiche strutturali, tipologiche e formali. Le radici culturali delle città e dei territori non possono essere modificate.

6. Periferie da rendere belle. Se da un lato si chiude la fase della crescita urbana, il governo delle città deve essere in grado di dare sbocchi concreti a un comparto produttivo che rappresenta comunque una percentuale importante del sistema produttivo italiano. In tal senso devono essere facilitate e avviate a trasformazione tutte quelle aree urbane che hanno bisogno di riqualificazione urbanistica. Si tratta dei tessuti abusivi ancora oggi privi dei requisiti minimi di civiltà e vivibilità (marciapiedi pedonali, piazze e servizi pubblici) e dei tessuti produttivi dismessi: è questo un patrimonio volumetrico imponente che potrebbe rappresentare – in una chiave sistematica – la chiave di volta di una riqualificazione urbana.

In tal senso va varato un provvedimento legislativo «quadro» (la materia urbanistica è «concorrente» tra Stato e Regioni ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione e lo Stato deve limitarsi alla definizione di norme quadro) che incentivi attraverso aiuti economici, fiscali e procedurali il rinnovo urbano e la creazione di periferie belle.

7. La riconversione tecnologica ed ecologica delle città. I provvedimenti fin qui elencati appartengono a un orizzonte che potremmo definire «tradizionale», nel senso che fa i conti con la crisi urbana ma non tiene conto della necessità sempre più impellente della riconversione ecologica delle aree urbane, del risparmio energetico, del cambiamento climatico in atto. Abbiamo edifici e città energivore: puntare al risparmio energetico serve a mettere in moto un gigantesco volano di ricerca, produzione e occupazione superiore a qualsiasi altro investimento nelle cosiddette «grandi opere». Anche qui alcune esperienze già sono in campo. Il progetto «casa clima» delle provincie di Trento e Bolzano ha dimostrato di aver saputo essere volano di interventi di sostituzione edilizia e di risparmio energetico.

Occorre però definire un provvedimento legislativo che aggredisca la questione urbana in maniera complessiva, dalla produzione energetica, ai sistemi di illuminazione fino alla forestazione urbana, definendo politiche efficaci e finanziando, anche attraverso forme di sgravio fiscale, l’evoluzione energetica delle città.

Occorre aprire una fase di profonda e radicale innovazione tecnologica delle città e del territorio in grado di far tesoro del patrimonio di innovazione, di ricerca e di produzione che in altri paesi è ormai una solida realtà produttiva.

Come è noto i nostri sistemi di trasporto urbano sono tra i più antiquati e inquinanti. Esistono invece infiniti esempi di sperimentazioni e attuazione di sistemi a impatto energetico e ambientale ridotto (tramvie, filovie, reti ciclabili integrate con i nodi del trasporto pubblico).

È il caso di sottolineare che si dovrà interrompere il consumo di suolo agricolo che oggi viene alimentato da progetti di fonti energetiche alternative. Troppe aggressioni al paesaggio collinare dell’Italia sono già state compiute: discutibili impianti eolici e pannelli fotovoltaici deturpano paesaggi storici, si pensi soltanto al caso di Sepino. Nel futuro le fonti energetiche di nuova concezione devono trovare spazio nelle aree già compromesse lasciando intatti i territori aperti.

Va infine superata l’arretratezza dei sistemi di smaltimento dei rifiuti urbani. Basta guardare all’Europa dove sono diventati un volano economico. A parte poche aree virtuose, siamo il paese delle discariche in cui viene sepolto tutto, compresi i materiali riciclabili, e di quelle abusive gestite dal circuito della criminalità organizzata. Il ciclo dello smaltimento dei rifiuti urbani deve invece diventare un elemento connotativo di politiche di risanamento ambientale e di innovazione delle filiere produttive.

8. Territori sicuri. Antonio Cederna poneva sullo stesso piano la tutela dell’integrità culturale delle città e la salvaguardia dell’integrità fisica dei territori. Siamo un paese ad alta fragilità geologica e abbiamo ogni anno un numero impressionante di frane. Tragedie che coinvolgono intere comunità locali e distruggono interi territori. Meglio prevenire che intervenire su emergenze senza fine.

Una nuova politica di gestione del territorio passa prioritariamente per la sua messa in sicurezza, per il potenziamento dell’Ufficio geologico centrale (oggi lasciato nell’oblio); nella redazione della carta geologica nazionale che ancora non vede colpevolmente la luce; nell’avvio di politiche di regimazione dei corsi d’acqua. Piccole opere preziose invece di grandi, inutili cattedrali nel deserto.

9. Il ripristino della legalità. È del tutto evidente che per essere efficace, le nuove norme in materia di governo del territorio devono essere perfezionate con l’abrogazione delle normative derogatorie. In ordine di importanza devono essere cancellati l’accordo di programma, e cioè il grimaldello che scardina le procedure urbanistiche ordinarie, e la strumentazione d’emergenza sperimentata in questi anni dai «galantuomini» della Protezione civile, i «piani casa», le zone a burocrazia zero, le compensazioni urbanistiche e quelle ambientali. Scorciatoie che servono soltanto a nascondere il saccheggio.

E in tema di legalità un discorso particolare merita l’esigenza di bonificare i troppi siti inquinati esistenti sul territorio nazionale. È un problema che investe sia il Nord, che riutilizza i suoli precedentemente produttivi senza le necessarie bonifiche (come ad esempio a Santa Giulia a Milano), sia il Meridione, in cui il circuito dei rifiuti gestito dalla malavita organizzata ha riversato sul territorio ogni tipo di veleno. Un paese civile non può continuare ad abbandonare intere popolazioni al rischio di morbilità o di malattie ereditarie. Ripristinare la legalità serve alla salute di un paese smarrito.

Le vecchie ricette keynesiane non hanno più margini in una crisi strutturale di queste dimensioni e qualità. Deve decrescere la dipendenza dal mercato e dall'ossessione del Pil

Alzino la mano quanti hanno azioni? Pochissimi, a giudicare dal fatto che non ci dicono mai la loro vera consistenza (numero di persone per il valore delle azioni possedute). Alzino la mano quanti hanno titoli di stato? Non molti e comunque posseggono meno della metà della metà del valore dei titoli emessi (la metà è all'estero, l'altra metà è nelle casse di imprese e investitori istituzionali vari). Alzi la mano chi ha denari in banca? Abbastanza, ma si accontentano di interessi che non proteggono nemmeno dall'inflazione. E allora, chi se ne frega del default ! Falliscano pure banche e stati, non vengano rimborsati i prestiti che hanno avuto, o vengano congelati in attesa di tempi migliori. Le bancarotte (assieme alle guerre) sono il metodo più sbrigativo per la remissione dei debiti e ricominciare da capo. E' successo molte volte nella storia degli stati e, da ultimo, l'Argentina insegna che ci si può risollevare. Chi vive del proprio lavoro, chi non arriva alla quarta settimana, cioè la maggioranza delle famiglie, si libererebbe così finalmente dal peso di dover foraggiare rendite e interessi. Se è vero che su ogni italiano gravano 30.000 euro di debito pubblico, quanti anni ci vorranno per estinguerli, ammesso che i futuri governi riuscissero a non aggiungerne altri? I giovani senza futuro, gli indignados che protestano a Wall Street, i disoccupati nelle piazze spagnole e greche gridano: «Non vogliamo pagare noi i vostri debiti». Ed hanno più che ragione.

Ma c'è un ma che rende ancora più grave la situazione e più profonda la svolta economica e politica necessaria per uscire dalla crisi. Non sono solo gli avidi speculatori, gli approfittatori alla Soros, i manager pagati in opzioni alla Marchionne, i ministri della finanza creativa alla Tremonti che ci hanno portato sull'orlo del baratro. Via loro (e sa iddio quanto sarebbe bello!) non cambierebbe nulla perché anche l'azienda dove andiamo a lavorare, l'amministrazione comunale dove abitiamo, la locale azienda sanitaria, il fondo che gestisce la nostra pensione, la banca del nostro bancomat, l'agenzia di stato che sborsa il sussidio di disoccupazione a nostro figlio... sono da tempo, in un modo o nell'altro,tutti indebitati. Tutti avevano fatto il conto ("aspettativa" si dice in economia) di riuscire in futuro a guadagnare di più (facendo profitti, riscuotendo tasse, realizzando interessi, vendendo immobili e "cartolarizzando" il Colosseo...) di quanto non avessero ricevuto in prestito. Credevano, cioè, nella chimera di una crescita economica esponenziale e senza fine. Un calcolo tragicamente sbagliato. Da tempo (dieci, venti, chi dice trent'anni) le economie occidentali sono in crisi di realizzo, il loro tessuto produttivo non è più in grado di riprodurre guadagni tali da riuscire a mantenere gli standard dei consumi privati e pubblici. Per mascherare questo fallimento e allontanare il declino le hanno tentate tutte: la leva finanziaria, i titoli tossici, il signoraggio del dollaro, oltre, ovviamente, al vecchio trucco di stampare carta moneta. Niente, la "santa crescita", nonostante le continue invocazioni e i lauti sacrifici umani, non arriva. E non arriverà mai più, almeno per chi è da questa parte del mondo.

Doveva essere il secolo americano ed invece è quello del suo declino che si trascina con sé propaggini e imitazioni. Ciò accade un po' perché portare via le materie prime dal terzo mondo è sempre più costoso (militarizzazione crescente, prebende a regimi fantoccio, esaurimento delle risorse naturali), un po' perché i paesi emergenti hanno imparato che "arricchirsi è glorioso" e nemmeno così difficile. In un contesto di economia neoliberista, fondata sulla competizione selvaggia tra aree geografiche vince semplicemente il più forte: chi ha più capacità produttiva, chi riesce più a spremere i fattori e gli strumenti della produzione: a partire dal lavoro e dalle risorse naturali. Questa volta la Cina è davvero vicina.

Oppure si decide di uscire dal gioco per davvero. Si esce dall'economia del debito (cioè da quella economia che pone gli interessi del capitale sopra a quelli del lavoro e della stessa vita delle persone e dell'ecosistema terrestre) con tutto quello che ne deriva. E' questo il vero recinto di pensiero da cui nemmeno la sinistra-sinistra riesce ad uscire. Le vecchie ricette keynesiane non hanno realmente più margini di applicazione dentro una crisi strutturale di queste dimensioni e di questa qualità. Le politiche riformiste, anche quelle più caute sono tagliate fuori sia sul versante del modello economico, sociale ed ecologico, sia su quello della distribuzione della ricchezza. E' ormai chiaro che le risposte possono venire solo uscendo dalle regole e dai dogmi del mercato. Dovremmo pensare ad un altro tipo di ricchezza, ad un altro tipo di benessere, ad un altro modo di lavorare, ad un altro modo di relazionarsi tra le persone che non sia quello che passa attraverso il portafogli. E sarebbe certamente una società più umana, più in armonia con la natura, più capace di futuro, più desiderabile. Se provassimo a mettere la cura e la fruizione dei beni comuni (l'acqua, la terra, le foreste, il patrimonio naturale, ma anche quello culturale: la conoscenza, i saperi) al centro della nostra idea di società, riusciremmo facilmente e con grande soddisfazione individuale e collettiva a fare a meno dell'ossessione dell'aumento del Pil. Anzi, essere costretti a pagare per possedere, invece che condividere per accedere ad una fruizione collettiva, sarebbe un indicatore negativo di benessere. Decrescere la dipendenza dal mercato è l'unico modo per sottrarsi ai suoi diktat. Non c'è modo di liberarsi dalla tirannia della produttività misurata in budget se non ci si libera dal dispositivo dell'incremento del valore di scambio delle merci. Ed è esattamente questo, non altro, quello che chiamano, in modo assolutamente bipartisan (da Napolitano a Berlusconi, dalla Camusso a Marchionne, dagli economisti marxisti a quelli liberisti): crescita.

Il guaio non è la «vera e propria crisi del capitalismo» (sono parole del The Observer), ma la mancanza di una alternativa di sistema. Cioè, la mancanza di una soggettività politica che abbia il coraggio civile e intellettuale di prospettare un sistema di valori etici e di regole sociali all'altezza della odierna crisi di civiltà e capace di evitarci di pagare le conseguenze del collasso. Per esempio: non ci si libera dagli strozzini e dagli usurai se non si stabilisce che la finanza e la moneta devono tornare ad essere strumenti neutri, beni comuni pubblici, di servizio, che nessuno (né grande banchiere, né piccolo azionista) può pensare di usare per arricchirsi. Non ci si evolve dal lavoro schiavo e precario se non si torna a stabilire che anche il lavoro è un bene comune, non una merce, un modo di realizzare sé stessi e, assieme, contemporaneamente, un modo per offrire agli altri cose utili, sane, durevoli. Non ci si libera dal peso delle crescenti spese militari e per la "sicurezza", se non si capisce che la pace e la sicurezza sono beni indivisibili, universali.

Fastidiose utopie, dirà qualcuno, indispensabili modi di essere per chi pensa che sia possibile praticare forme di economia non monetizzata, sociale e solidale. Ernst Friedrich Shumacher diceva che l'economia è una «scienza derivata», che deve cioè «accettare istruzioni». È urgente che qualcuno impartisca nuove istruzioni.

Il Parlamento parla, come no. O meglio strepita, gesticola, s'azzuffa; ma decisioni nisba. Appena 42 leggi d'iniziativa parlamentare approvate in questa legislatura, però soltanto una negli ultimi 6 mesi. Se aggiungiamo quelle scritte sotto dettatura del governo (i tre quarti del totale), la cifra cresce un po', ma poi neppure tanto. È il capitolo - per esempio - dei decreti legge, sparati a raffica dal IV gabinetto Berlusconi con una media di 2 provvedimenti al mese; ma guardacaso adesso non ce n'è più nemmeno uno da convertire in legge.

Sarà che sono tutti stanchi, deboli, influenzati. O forse dipenderà dal fatto che il Parlamento, per questa maggioranza, è diventato un luogo di tortura. Troppo pericoloso mettergli carne sotto i denti, quando alla Camera ti capita d'andare sotto per 94 volte (l'ultimo episodio mercoledì). E meno male che t'aiuta l'opposizione, le cui assenze - come ha documentato Openpolis - sono risultate determinanti nel 35% delle votazioni. Sicché come ti salvi? Rinviando tutto alle calende greche. Anche i provvedimenti che stanno a cuore al premier, come la legge sulle intercettazioni: sparita dal calendario dei lavori. La Conferenza dei capigruppo ha avuto un soprassalto di prudenza, e ha deciso di non decidere.

Non che le Camere abbiano ormai chiuso i battenti. Nell'arco della XVI legislatura si contano 535 sedute per i deputati, mica poco. Ma a quale scopo? Per ascoltare annunci di riforme che non vedranno mai la luce, come l'obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, cancellato anch'esso dal calendario di novembre. Per votare mozioni (539), risoluzioni (96), atti d'indirizzo: insomma, chiacchiere. O altrimenti per esprimere fiducia nei riguardi del governo, un tormentone che fin qui si è ripetuto in 51 casi. Trasformando l'esecutivo in un fidanzato trepidante: mi ami, ti fidi del mio amore? Dimmelo di nuovo, la volta scorsa non ho sentito bene.

È la parabola finale della legislatura: un governo commissariato dall'Europa, un Parlamento commissariato dal governo. D'altronde è proprio così che è cominciata. Negando alle assemblee legislative il loro mestiere principale, spostando l'officina delle leggi nei sottoscala del governo. Con i decreti legge, ma soprattutto con i decreti legislativi: 143, in media 4 al mese. Oppure sequestrando le due Camere con i maxiemendamenti, che oltretutto rendono le nostre leggi assolutamente incomprensibili. Ora siamo all'ultima stazione: siccome il governo non si fida più della propria maggioranza, ha deciso di mandare il Parlamento in quarantena.

Un bel guaio per la democrazia italiana, non foss'altro perché si spegne l'unica sede istituzionale in cui le opposizioni hanno spazio e voce. Perché inoltre l'eclissi delle Camere sbilancia il sistema dei poteri, togliendo un contrappeso al peso del governo. Perché infine la loro inerzia semina discredito sulla forma di governo, dunque sulla Costituzione che l'ha disegnata. Ma almeno in questo caso la responsabilità è tutta politica, non delle istituzioni. Non è vero che il Parlamento sia sempre un treno a vapore: nel luglio 2008 il lodo Alfano venne licenziato in 4 settimane. È vero tuttavia che questo Parlamento giace su un binario morto. E a questo punto non servono più cure, ci vuole un'autopsia.

Partiamo da un numero: 1000 miliardi di euro, una cifra stratosferica, quasi 4 volte il debito pubblico greco. Mille miliardi è la somma che il Consiglio d'Europa ha deciso di impegnare per la salvezza del sistema finanziario europeo. Non c'è da stupirsi che ieri le borse abbiano fatto baldoria con guadagni clamorosi in una fase della congiuntura mondiale che non spinge di certo all'ottimismo. Il sistema è salvo, scrivono i commentatori. Ma quale sistema? Ieri il manifesto ha pubblicato con grande rilievo una notizia di fonte Credit Suisse, una della banche più accreditate del sistema finanziario: nell'ultimo anno meno dell'1% della popolazione mondiale ha «arraffato» il 39% della ricchezza globale, quasi il 4% in appena dodici mesi. Se non bastasse, l'Ufficio del bilancio del Congresso Usa ci ha fatto sapere che negli ultimi 28 anni il reddito dell'1% della popolazione più ricca è salito, in termini reali, del 275%, mentre quello del 20% della popolazione più povera di appena il 18%. Insomma , la forbice della distribuzione dei redditi si sta allargando.

Questi numeri (uniti ai 1000 miliardi) sono la conferma che il bailout, cioè la ciambella di salvataggio ha funzionato a senso unico salvando (quasi banale ripeterlo) chi la crisi del 2008 aveva provocato. Anzi, rendendolo più ricco. Ma c'è un altro aspetto niente affatto secondario: questi numeri smentiscono la vulgata che indicano nella globalizzazione la soluzione di ogni problema. Al contrario è «questa» globalizzazione che ha portato al trionfo della finanza e allo schiacciamento dei diritti delle persone. Ieri Gianni Rinaldini ha scritto che «in questi anni c'è stato un quotidiano smantellamento di ciò che conferisce al lavoro umano una condizione diversa da una merce». La lettera spedita da Berlusconi al Consiglio d'Europa ne è la conferma.

Con una premessa: in quella lettera poteva esserci scritto qualsiasi cosa: i 27 avrebbero dato in ogni caso la loro benedizione (perché cane non morde cane e quei 27 capi di stato e di governo dovevano salvare se stessi) anche in presenza di impegni evanescenti, coerenti unicamente con la peggiore ideologia liberista. Tipo quella, tanto cara a Sacconi, che solo diminuendo i diritti del lavoro con la libertà di licenziamento, si potrà garantire una maggiore occupazione.

Nella lettera spedita a inizio agosto da Trichet e Draghi a Berlusconi era scritto: «Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento». La replica del governo italiano non si è fatta attendere: «Entro il maggio 2012 l'esecutivo approverà una riforma della legislazione del lavoro funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenza di efficienza dell'impresa anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici». Attenzione, per motivi economici anche oggi i licenziamenti, anche di massa, si possono attuare. Basta seguire le regole che prevedono prima la Cig e poi la mobilità. I motivi economici evocati nella lettera sono altri. Significa potersi liberare di un lavorare anziano che guadagna molto di più dei giovani che potrebbero essere assunti al suo posto. Il lavoratore è sempre più «merce» e come tale viene trattato: se viene giudicata troppo cara non lo si compra più e la si allontana dalla produzione e dalla vita.

Nella lettera d'intenti di Berlusconi c'è anche molto altro. A volte grottesco. Tipo: «Il governo trasformerà le aree di crisi in aree di sviluppo». Lo vadano a dire ai lavoratori di Termini Imerese per i quali non è ancora stata trovata una soluzione credibile, non di sviluppo, ma più banalmente di conservazione del lavoro esistente. Una delle promesse che ha raccolto maggiore attenzione è stata quella del pensionamento per tutti a «almeno» 67 anni nel 2026. Ma non si tratta di una novità: con l'anticipo delle norma sulla «speranza di vita» i 67 anni erano già una certezza.

Quello che è certo, invece, è che per i dipendenti pubblici arriveranno tempi «cupi». Su questo punto Brunetta (uno dei «grandi» estensori della lettera) si è scatenato: mobilità obbligatoria; cassa integrazione; superamento delle dotazioni organiche. Tradotto: la Pubblica amministrazione sarà ridotta all'osso per cedere le sue attività (come sta già accadendo con la complicità di direttori generali di nomina governativa) ai privati.

Questa lettera ai potenti piace perché protegge le elite dominanti e disprezza la vita del 99% (o giù di lì) della popolazione. La sola speranza è che rimangano impegni presi sulla carta perché Berlusconi e i suoi ascari non hanno la forza per realizzarli. Speranza è anche che il futuro governo sappia fare di meglio. Ma più di un dubbio è autorizzato considerati i ripetuti applausi ricevuti dalle richieste delle autorità europee all'Italia. Anche dalle forze di opposizione, anche dai richiami rivolti agli opposti schieramenti politici dal presidente della repubblica. Berlusconi potrebbe essere sostituito con un governo tecnico che porti a compimento il massacro.

CALAMITÀ MORALE

di Franco Arminio

Sospeso sulle argille/ di una vecchia collana,/ il paese perde le sue perle,/frana. Può essere ottobre o maggio, può essere la Liguria o la Calabria, la scena si ripete e la pioggia porta via i muri, le macchine e qualche volta anche le persone. Ogni volta si leva il lamento sull'assenza di prevenzione, poi cala il silenzio, in attesa della prossima sciagura. E invece la sciagura è sempre in corso, la frana non finisce mai, lo smottamento è perenne e quando non porta via le case, comunque apre crepe, distende altri fili nella ragnatela delle faglie. L'Italia è un paese fragilissimo che scompare mano a mano che viene costruito. Ogni volta che vedo una betoniera mi viene un dolore allo stomaco, sento che quel cemento va a coprire un altro poco di terra. Ormai siamo una penisola di cemento in mezzo al mare. La terra in certe zone sembra avere le ore contate. E l'acqua batte ovunque, può essere la capitale o il paese più sperduto dell'Appennino: il risultato è sempre lo stesso: fango nelle cantine, alberi in gita lontano dalle loro radici, un paesaggio rotto, incapace di ricordarci che non è questione di piccole inadempienze, ma di un modo di abitare il mondo che qui da noi ha i tratti conclamati del delirio. Certo, ce la possiamo prendere coi cittadini che si fanno le case in zone pericolose e con chi glielo permette, possiamo immaginare che lo Stato si faccia avaro e non rimborsi i danni, ma comunque non si risolve molto. E piuttosto che dichiarare lo stato di calamità naturale, che va ad alimentare la sempre fertile economia della catastrofe, bisognerebbe dichiarare lo stato di calamità morale. Ed è uno stato ormai perenne, con o senza piogge fa i suoi danni ogni giorno. E li fa nella civilissima Liguria allo stesso modo che nelle terre delle mafie.

L'Italia è divisa su tutto, ma è unita dalla frane. Le frane di cui parliamo fanno scalpore perché ci sono vittime, perché un paese in bilico è a suo modo spettacolare. La frana più grande è stata la fuga degli abitanti dall'Appennino e la discesa a valle dei paesi. Come se chi fosse rimasto avesse bisogno di abitare un luogo che in qualche modo scimmiottasse la città. Praticamente ogni paese alto ha sempre una periferia lungo la strada nazionale. I paesi si sono duplicati. E quello in alto è quasi sempre un museo delle porte chiuse, un gioiello dell'agonia. Oltre alle case, è vuota anche la terra intorno.

Gli italiani hanno fatto di tutto per non essere più contadini e ci sono riusciti. Lo sanno tutti che la terra coltivata attenua l'impatto delle piogge, ma oggi coltivare la terra è un lusso per ricchi. E l'attenzione della politica ai problemi dell'agricoltura è testimoniata dalla nomina del ministro attuale che nella sua vita si è occupato di ben altro. Il panorama è ugualmente desolante se pensiamo alle politiche sui piccoli paesi. Ormai da anni viene approvata una leggina in un ramo del parlamento e poi puntualmente si ferma per strada. L'anno scorso la Camera ne ha approvate due, ma lo stanziamento complessivo è di soli cento milioni di euro. Non mi risulta che il Senato abbia affrontato l'argomento. Nell'italietta televisiva una legge sui paesi non fa gola a nessuno. Sarebbe ora che gli abitanti che sono rimasti sui paesi si sollevassero per reclamare misure a difesa del territorio, ma i paesi sono governati dalle stesse logiche che hanno i dinosauri del parlamento. Una piccola borghesia fangosa che imbratta con furbizie e intrallazzi ogni cosa.

Sarebbe il momento di reclamare alcune semplici norme, prima fra tutte lo stop al consumo di suolo agricolo. Una norma che suona inconcepibile ai tromboni dello sviluppo e della crescita che abitano tutte le contrade politiche. E allora le frane, come gli incidenti stradali e altri disastri ordinari, fanno parte di questa apocalisse diluita che chiamiamo società civile. Nessuno si illuda di essere a riparo, oltre alle frane che muovono la terra, ci sono le frane mediatiche che hanno portato nelle nostre case la poltiglia di un consumismo cieco e avvilente. Non servono solo geologi e opere di ingegneria naturale, serve passione per il bene comune, ardore politico, serve l'ammissione che ogni giornata in un mondo del genere è un fallimento. La pioggia diventa una sorta di marker tumorale, rivela impietosamente che il nostro paesaggio è malato, è malato il nostro modo sempre più autistico di abitarlo. Siccome non possiamo chiedere alle acque di placarsi, siccome non possiamo addomesticarle, allora è il caso di non prendersela coi metereologi che sbagliano le previsioni, dobbiamo prendercela con le leggi che consentono anche a chi non è agricoltore di farsi la casa in campagna. Nei piccoli paesi è rimasta poca gente e se ne vede pochissima in giro perché abitano quasi tutti in campagna, nelle case sparse. Il lavoro nei campi è stato abbandonato, ma la piantagione delle villette non accenna a diminuire.

SOLO PIANI CASA,

ZERO ATTENZIONE PER IL TERRITORIO

di Paolo Berdini 


Sono lontane le colline dell'Appennino ligure dai luoghi della politica dove si sta discutendo se approvare il quarto condono edilizio; se estendere ancora i benefici del piano casa; se rendere automatica la possibilità di costruire dovunque.

Lì c'è un territorio tormentato, bello e fragile che dovrebbe essere sottoposto a manutenzione continua. Ci vogliono risorse, ma non sono spese improduttive: sono un investimento per il futuro delle nuove generazioni. Ma, ci dicono, non ci sono soldi e nelle stesse ore in cui è venuto giù un intero territorio, in cui sono interrotte due autostrade, strade e ferrovie, in cui l'Italia si paralizza, la maggioranza di governo ha un'unica idea: spianare la strada a nuovo cemento. Come se quello fin qui realizzato non sia ancora sufficiente. Basta leggere le pagine di Marco Preve e Ferruccio Sansa (Il partito del cemento) e la Colata) dedicate alla Liguria: una serie interminabile di soprusi e speculazioni. Nel capitolo sulle Cinque terre si legge: «Per capire cosa stia succedendo bisogna arrivare a Corniglia. Il muraglione sotto la ferrovia ha una crepa lunga venti metri. E sulle rovine del vecchio Villaggio Europa sta per sorgere un albergo di 140 posti letto».

Sarà venuto giù quel muraglione, come gran parte dei meravigliosi muri a secco da troppo tempo abbandonati da uno sviluppo cieco. Il presidente della regione Liguria Claudio Burlando ha affermato: «Stiamo evacuando il maggior numero di gente possibile e ci stiamo rendendo conto di persona del disastro». Poteva cimentarsi ad evacuare una parte del cemento e dell'asfalto che ha devastato negli ultimi quindici anni la Liguria e l'Italia. L'Istat ha certificato il volume che è stato costruito dal 1995 a oggi: oltre 3 miliardi di metri cubi.

Una quantità mostruosa che grazie all'urbanistica contrattata è stata realizzata dappertutto. Sugli alvei fluviali; sulle zone in frana; sulle aree sismiche. Così, con tragico rituale piangiamo vite spezzate e territori cancellati. Nel 1994 alluvione ad Asti: settanta morti. 1996 straripa il Versilia, tredici vittime; l'Esaro a Crotone, 6 vittime. 1998, Sarno viene sommersa dal fango: 160 vittime. 2000, il torrente Suvereto cancella un campeggio di ragazzi: tredici vittime. Sempre nel 2000 la grande alluvione del Piemonte: oltre 30 morti. Nel 2008 quattro vittime in val Pellice e sei a Capoterra in Sardegna. 2009, a Giampilieri scompare una collina portando con se trentasei vittime. Una settimana fa Roma è rimasta paralizzata. E ogni volta tocca vedere i responsabili dello scempio del territorio che con i volti di circostanza si recano sui luoghi per "rendersi conto". Cos'altro ci vuole per rendersi conto?

Continuano a dirci che questo è lo sviluppo. Questa follia è invece una della maggiori cause della crisi economica, se solo si contassero i miliardi di euro spesi negli anni per risanare i danni. La contraddizione che va sciolta al più presto sta nel fatto che è sempre più diffusa una sensibilità dei cittadini che hanno compreso che questo modello di sviluppo ci sta portando al disastro ambientale ed economico e le centinaia e centinaia di comitati che si battono in ogni città contro le cementificazioni, mentre la classe dirigente pensa solo ad aumentare gli scempi.

Ad ogni sacrosanta protesta dei comitati, il grande circo mediatico diretto spesso da coloro che hanno giganteschi interessi nel cemento e nella speculazione immobiliare accusano quei cittadini di essere affetti della sindrome di Nimby. Mentre seminano distruzione del territorio e dell'ambiente, considerano evidentemente una colpa la ricerca della felicità.

“L’unica grande opera infrastrutturale della quale l’Italia ha bisogno non è il Tav o il ponte sullo Stretto, ma è un piano per la messa in sicurezza del territorio”. I due volti televisivi del pensiero ambientalista italiano, Mario Tozzi e Luca Mercalli parlano a una voce sola per commentare quanto accaduto in Liguria e Toscana, dove il maltempo ha messo in ginocchio le regioni provocando morti, dispersi e interi paesi evacuati.

Secondo i due esperti, sul banco degli imputati ci sono cinquant’anni di edilizia selvaggia, nessun piano serio per prevenire il dissesto idrogeologico né tantomeno uno straccio di programma per informare la popolazione sui rischi connessi a questo tipo di fenomeni. “Sono nato il 4 novembre del 1966, il giorno dell’alluvione di Firenze – dice Mercalli – Anche allora ci si fece trovare impreparati. Quarantacinque anni dopo non è cambiato niente. Si piange e si contano i morti quando piove e si fa finta di niente quando torna il sole”.

Negli ultimi 45 anni non solo non è andati avanti a cementificare il territorio come se niente fosse, ma il clima impazzito ha aggredito quei terreni resi negli anni fragili e impermeabili alle bordate d’acqua sempre più forti che piovono dal cielo. Un fenomeno che in molti paesi rappresenta una realtà con cui fare i conti, mentre in Italia viene derubricato a superstizione di qualche cassandra travestita da scienziato.

“La quantità d’acqua che prima cadeva in un mese, oggi cade in un’ora. E questo è uno dei principali effetti dell’innalzamento della temperatura terrestre, perché l’aria è più calda e l’energia termica che viene sprigionata è maggiore. E questo è un fatto, non un’opinione”, sostiene Tozzi.

Parole che dovrebbero fare fischiare le orecchie ai vari Marcello Dell’Utri, Adriana Poli Bortone, Antonio D’Alì e alla pattuglia di senatori della maggioranza protagonisti, poco più di un anno fa, di una serie di mozioni che negavano l’esistenza del cambiamento climatico come conseguenza dell’azione umana. Secondo loro, il climate change è figlio di non meglio precisati fenomeni astronomici e, nel caso esista realmente, porterà “maggiori benefici” che danni. Come gli scenari apocalittici descritti dagli scienziati dell’Ipcc, l’International panel on climate change delle Nazioni unite. Il loro corposo dossier, considerato dal centrodestra italiano come una iattura anti-sviluppista, valse agli esperti dell’Onu il premio Nobel per la Pace nel 2007.

“Eppure la tropicalizzazione del clima ci sta presentando il conto – sostiene Tozzi – A iniziare dalle flash flood (le bombe d’acqua, alluvioni istantanee, ndr) che sono figlie del clima che si surriscalda e si estremizza. Basti pensare alla Liguria dove nei giorni scorsi sono caduti metà dei centimetri d’acqua che in quel territorio cadono in un anno”.

Una posizione condivisa da Mercalli che ricorda quando durante una recente puntata di Che tempo che fa descriveva in diretta i contenuti del dossier sugli scenari climatici messo a punto dalla Svizzera: “Il governo elvetico ha messo in conto al primo punto gli eventi alluvionali intensi e improvvisi che sono scatenati dall’aumento della temperatura, da noi invece si fanno spallucce e scongiuri per poi dichiarare lo stato di calamità naturale”.

Infatti a differenza di Berna in Italia si preferisce costruire gigantesche opere infrastruturali, giudicate inutili dagli esperti e invise alle popolazioni locali, invece che mettere a punto un piano organico per fronteggiare il dissesto idrogeologico. Un settore che “a partire dal 2006 ha visto i fondi dimezzati, mentre si trovano, o si dice di trovare, i soldi per la Torino-Lione o per il ponte sullo Stretto di Messina”, fa notare Tozzi. “Ma la prevenzione – continua il geologo – non solo salva le vite umane – conviene anche dal punto di vista economico: per un euro speso oggi se ne risparmiano sette in futuro”. Al posto di faraonici ponti e gigantesche gallerie, secondo i due conduttori, bisognerebbe aprire mille piccoli cantieri che mettano in sicurezza colline, paesi e letti di fiumi. “Invece noi siamo il paese delle grandi opere che non vedranno mai la luce del sole, degli sciagurati piani casi, della cementificazione selvaggia e soprattutto dei condoni”, sottolinea amareggiato Tozzi.

A fianco della prevenzione l’altro grande assente dal dibattito è l’informazione, che “è morta” secondo Mercalli per lasciare il campo alla semplice emotività nel commentare emergenze e catastrofi. Il meteorologo cita il caso di New York, quando a fine agosto si è trovata a dover fronteggiare la tempesta Irene. Il piano di evacuazione e le informazioni date alla cittadinanza da parte dell’amministrazione Bloomberg hanno fatto sì che in città non si registrasse nessuna vittima. “Quello che sarebbe successo nel Levante ligure si sapeva con 48 ore di anticipo – attacca Mercalli – Se si fosse messo a punto un serio piano di educazione-informazione per i cittadini, come nella Grande Mela, magari non si sarebbero salvati gli edifici, ma di sicuro le vite umane”.

Tuttavia i due conduttori televisivi guardano al futuro con disillusione e quasi all’unisono dicono: “Dopo la tragedia tornerà il sole e anche questa volta ci si dimenticherà di tutto”. In attesa della prossima alluvione o frana accompagnata dalla solita litania giustificatoria. “Che suonerà ancora più grottesca perché eventi di questa portata non sono più né eccezionali né tantomeno imprevedibili”.

Stavolta non si può certo dare torto ai dieci assessori della regione Lazio che si sono dimessi per l'affronto subito con la sonora bocciatura, da parte del governo amico, del cosiddetto piano casa. Affermano infatti che si tratta di una scelta «incomprensibile che mette in discussione uno dei punti qualificanti del programma elettorale del Popolo della libertà sia a livello locale che nazionale». Sono due anni che il centrodestra afferma che la ripresa economica del paese e il suo futuro sono legati al mattone, ad una stanza in più, ad un piano aggiunto. Sono quasi due decenni che vengono approvati condoni edilizi, attenuate le tutele paesaggistiche, umiliate le Soprintendenze, sospese le demolizioni degli abusi in Campania, militarizzate le opere che, come la linea ferroviaria della Val di Susa, non potrebbero essere autorizzate perché violano i vincoli di legge.

È dunque vero che il centrodestra ha fatto della devastazione del territorio e del paesaggio «uno dei punti più qualificanti del programma». E ora che la Polverini aveva battuto tutti i record lanciando il Lazio come capofila dello scempio di qualsiasi regola, ecco che il ministro Galan ha distrutto il prototipo della cancellazione di ogni regola.

Il piano casa della regione Lazio prevedeva infatti la possibilità di costruire nelle aree sottoposte alla tutela della legge sui parchi, metteva cioè a repentaglio uno dei pilastri della cultura giuridica italiana. Prevedeva la realizzazione di porti in ogni parte della coste laziali e in ogni foce di fiume, altro che case.

E se poi la natura si riprende il suo spazio cancellando gli arenili si ricorre alla tanto vituperata spesa pubblica: da Ostia ad Anzio sono in costruzione barriere frangiflutto per tentare di frenare l'erosione. Uno sviluppo dissennato viene dunque sostenuto da un fiume di denaro pubblico: e continuano a cantare la storiella che «non ci sono più soldi».

E poi, diciamola tutta: Galan non è uno studioso dell'opera di Antonio Cederna. È stato presidente della regione Veneto per quindici ininterrotti anni dal 1995 al 2010. Basta andare nelle campagne di quello sventurato territorio per comprenderne gli esiti: quello veneto è forse il territorio più disordinato d'Italia, ad un capannone segue una casa e poi un altro capannone. E non hanno rispettato neppure i fiumi. Il 2 novembre 2010 Vicenza e i territori circostanti sono stati colpiti dall'alluvione provocata dal Bacchiglione, un tempo nobile fiume e ridotto oggi ad un delirio di cemento. E anche in questo caso, l'incuria per le regole l'abbiamo pagata noi. In due mesi sono stati erogati ai privati quasi 20 milioni di euro di risarcimenti, soldi bruciati nella folle ubriacatura della cancellazione delle regole.

La bocciatura della legge è stata provocata da una importante iniziativa dell'opposizione. Il ricorso presentato al governo era impeccabile e ribadiva che la tutela dell'ambiente è un pilastro della nostra Costituzione e non può essere distrutto per avere consensi. Forse è a questo che si riferivano i dieci dimissionari quando hanno affermato che la bocciatura agisce «contro le aspettative legittime dei cittadini laziali rende impossibile trasmettere ai territori quei valori da tutti noi condivisi». I "valori" che hanno in mente sono soltanto cemento e asfalto. E desolazione, perché il loro piano casa permette ad esempio di trasformare anonimi capannoni industriali - anche se localizzato nei luoghi più isolati e privi di servizi civili - in residenze, aumentandone le volumetrie e la rendita immobiliare del 20%. Tanto mica ci vanno ad abitare gli assessori.

I lavori tra Bologna e Firenze potrebbero essere fermati dai pm, nonostante Berlusconi prema per tagliare il nastro. "Cinquecento persone rischiano di perdere la loro abitazione". Il dirigente della società autostrade: "Un'opera che l'Italia [sic] aspetta da 30 anni, è una polemica assurda per poche case"

“Fermate oggi, subito, i lavori di quella galleria o il paese rischia di venir giù”. Il grido d’allarme viene da Santa Maria Maddalena, una piccola frazione di San Benedetto Val di Sambro nell’Appennino bolognese. Il rischio, per intenderci, è quello di un altro Vajont: qui non c’è la diga, ma come in quel caso dell’ottobre 1963, la mano dell’uomo rischia di provocare una immane frana che potrebbe tirar giù un intero abitato. Sette case del piccolo borgo di montagna sono state già evacuate, ma a rischio ce ne sono almeno 250 con un coinvolgimento di 500 persone.

Ora a muoversi è finalmente anche la Regione. Giovedì l’assessorato alla Protezione civile ha infatti inviato al sindaco di San Benedetto, Gianluca Stefanini, una lettera firmata da diversi esperti geologi. La missiva mette in guardia sulla stabilità delle abitazioni, stabilità a rischio per i lavori di una galleria della variante di Valico, il nuovo tratto di A1 che collegherà Bologna con Firenze.


Il traforo è stato progettato dalla società Autostrade ai piedi di due gigantesche frane preesistenti, che negli ultimi mesi, con l’avanzamento degli scavi, hanno iniziato a muoversi. Un movimento sospetto che ha accelerato il suo passo sempre più. A dimostrarlo tutti gli ultimi esami condotti, anche se le perizie devono fare i conti con un Silvio Berlusconi che freme per tagliare il nastro: “La revisione dello studio – scrive nella lettera datata 20 ottobre la Regione – prevede spostamenti massimi di entità compresa tra 2 e 9 cm, mentre in precedenza si ammettevano spostamenti assai modesti, inferiori a 2-3 cm. Allo stato attuale i rilievi topografici hanno mostrato che l’edificio più vicino allo scavo della Canna Nord, di proprietà Pellicciari, risulta essersi spostato di circa 8 cm in direzione est”.


Nei palazzi del Consiglio regionale a Bologna, il consigliere del Movimento 5 Stelle, Andrea Defranceschi, oltre a rendere nota questa lettera inviata giovedì, ha presentato altri documenti che confermerebbero i timori del comitato cittadino del piccolo centro appenninico, guidati dal combattivo geometra (in pensione) Dino Ricci. “Non siamo un comitato contro la costruzione della Variante di valico, diciamo solo che costruirla ai piedi di una frana è una follia – spiega Ricci, che fino a qualche anno fa lavorava in una ditta che costruiva proprio autostrade – Si può fare una variazione facendo passare il tunnel un po’ più a est e soprattutto scavando nel cuore della montagna, non ai piedi di una frana. Ma fermiamo subito gli scavi”.


Lo stop ai lavori potrebbe essere infatti un toccasana come confermato dallo stesso assessorato alla Protezione civile: “L’analisi dei monitoraggi evidenzia una stretta dipendenza tra l’avanzamento della galleria e gli spostamenti. Nel periodo di agosto la sospensione dei lavori ha prodotto un rallentamento degli spostamenti significativo misurato in molti punti di monitoraggio. Con la ripresa dei lavori – scrive ancora la nota dei tecnici della Protezione civile regionale – la velocità degli spostamenti è ripresa con entità simile al periodo pre-Agosto”. Il ragionamento poi termina con una frase raggelante: “Le incognite sul comportamento complessivo della massa mobilizzata restano alte”.


A preoccupare è anche l’arrivo della stagione invernale e della pioggia. Sempre secondo la lettera della Protezione civile indirizzata al sindaco Stefanini, le attuali condizioni già critiche “potrebbero modificarsi con l’arrivo della stagione piovosa autunnale-primaverile. È possibile che la velocità del movimento possa essere influenzata da incrementi di circolazione di acque sotterranee”.


Anche i numeri mostrati da Defranceschi lasciano adito a molte preoccupazioni: “Nelle settimane precedenti la frana si muoveva di un centimetro al mese. Ora invece, secondo le rilevazioni degli inclinometri, un centimetro è stato lo spostamento negli ultimi 12 giorni”. La velocità della massa franosa raddoppierebbe quindi giorno per giorno.


La Procura di Bologna, con il pubblico ministero Morena Plazzi, ha aperto una indagine conoscitiva per danneggiamento aggravato e per attentato alla sicurezza dei trasporti. Giovedì, sul dorso locale bolognese del quotidiano “la Repubblica”, Gennarino Tozzi, condirettore generale Sviluppo Rete di Autostrade per l’Italia aveva espresso tranquillità riguardo al proseguimento dei lavori: “Abbiamo fatto eccome tutti i rilievi necessari, vogliamo scherzare? Non c’è nessuno sbaglio. Non c’è nulla di diverso da un normale esproprio e daremo la massima assistenza. Non vorrei che ci fossero interessi a far modificare il tracciato per far guadagnare di più le imprese. E alcune lesioni sono pregresse. So che c’è un’inchiesta. Se la magistratura facesse sospendere i lavori si prenderebbe le sue responsabilità – dice Tozzi – ma io credo che una magistratura equilibrata non lo farà. Questa è un’opera che l’Italia aspetta da 30 anni, è assurda questa polemica per poche case”.


A proposito di queste “poche case”, questo vero e proprio buco scavato ai piedi della frana, lungo 4 chilometri, largo 32 metri e alto 12 metri, sta già causando crepe nelle abitazioni. Non solo, le stradine di montagna lì attorno (secondo le foto mostrate dal comitato) mostrano delle deformazioni e inclinazioni. La stessa galleria in costruzione, secondo il geometra Ricci che è in contatto con molti dei tecnici dei cantieri, si sarebbe spostata di 10 centimetri a causa della spinta laterale proveniente dalla frana.

Ora, dopo aver acquisito, tramite il consigliere Defranceschi, i documenti provanti che qualcosa non va (ai cittadini di Santa Maria Maddalena questa documentazione sarebbe stata negata da Comune e società interessate) il comitato paesano attende che il sindaco faccia qualcosa e fermi i lavori, invece di limitarsi a fare sgomberare le case a rischio crollo. A essere messa a repentaglio è l’incolumità delle persone, dei lavoratori della galleria e della ferrovia Direttissima, quella che ogni giorno porta migliaia di cittadini da una parte all’altra dell’Appennino, da sud a nord Italia. Quella frana di 2 milioni di metri cubi di terra non controlla gli orari dei treni.



Nella giornata di ieri la replica di Autostrade agli allarmi del Comitato: “Escludiamo nel modo più assoluto che Santa Maria Maddalena stia collassando a causa dello scavo della galleria Val di Sambro, come dimostra il piano di monitoraggio in atto”. Poi la nota prosegue: “La progettazione della galleria è il risultato di un lavoro che ha coinvolto professionisti di chiara fama e che ha ottenuto tutte le autorizzazioni previste, comprese quelle del ministero dell’Ambiente, delle Infrastrutture, dell’Anas, della regione Emilia-Romagna, della locale comunità montana e di tutti gli enti territoriali coinvolti“. Infine, sostiene autostrade, “affermare che l’alta velocità ferroviaria Firenze-Bologna e l’autostrada siano coinvolte da movimenti del terreno – conclude una nota della società – è frutto di strumentalizzazioni per chi ha interesse allo stop di lavori speculando sul disagio di alcuni cittadini”.

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