loader
menu
© 2025 Eddyburg

È tipico delle fasi d'emergenza non andarci tanto per il sottile con le distinzioni. Ed è tipico delle fasi d'emergenza all'italiana, tutte all'insegna dell'unità nazionale, fare ricorso alla tesi sempreverde degli opposti estremismi, che provvede a procurare due ali di nemici alle convergenze centripete. Vorrei dunque rassicurare alcuni lettori perplessi, e con loro le cattedre mediatiche che equiparano gli argomenti del manifesto a quelli delle vedove di Berlusconi, o le ragioni dei movimenti anti-Bce alle urla di destra contro il complotto plutocratico-massonico-finanziario: non è affatto vero che diciamo tutti la stessa cosa.

È vero invece che sotto il cielo della fine del ventennio berlusconiano il disordine è grande, e la situazione non propriamente eccellente. Qualche precisazione, allora, sullo stato della democrazia, il tramonto della politica e il feticismo dei mercati che fanno da sfondo al «passaggio Monti».

È del tutto improprio o strumentale, intanto, gridare alla sospensione della democrazia o al golpe antidemocratico per fotografare la situazione. Non stupisce che queste grida provengano da una destra populista come quella berlusconiana, che ha sempre identificato l'esercizio della democrazia unicamente con l'appello al popolo, attribuendo alla conta elettorale il potere di decidere il governo. Questa investitura popolare diretta del governo, per quanto avallata dalle ultime leggi elettorali (e con l'aiuto dei settori più “bipolaristi” della sinistra), notoriamente non esiste nella nostra Costituzione: a norma di Costituzione, il governo non lo decide il popolo ma le maggioranze parlamentari. Dal punto di vista formale dunque non c'è nessun golpe e nessuna sospensione della democrazia nella soluzione della crisi perseguita da Napolitano: il presidente della Repubblica non aveva l'obbligo di indire le elezioni, l'incarico a Monti rientrava nelle sue prerogative, il nuovo governo ha ottenuto il consenso necessario in parlamento.

Tolto di mezzo il golpe formale, però, il problema resta. E a segnalarlo basta il fatto che sono proprio i più convinti sostenitori dell'operato del Presidente della Repubblica a difenderlo non in nome della norma e della normalità democratica, bensì dell'eccezione: mai Carl Schmitt, autore a lungo maledetto se non tabuizzato, è stato così gradito a sinistra. Ora non c'è nessun problema a riconoscere a Napolitano tempismo e abilità decisionista, e perfino (Carlo Galli, su Repubblica di qualche giorno fa) una sorta di “buon uso” dell'eccezione, di un'eccezione volta al ripristino della normalità costituzionale, contro l'eccezionalismo perpetuo e a vocazione eversiva di Berlusconi. Ma il punto, per stare al tema, è anche un altro, evocato ma a mio avviso non risolto nell'intervento di Marco Revelli sul manifesto dell'altro ieri: se, stando ai testi, sovrano è chi decide sullo, non nello stato d'eccezione, chi ha deciso sullo stato d'eccezione in cui ci troviamo? Qui la risposta non è: Napolitano, bensì: i mercati. Napolitano ha deciso nello stato d'eccezione, in uno stato d'eccezione decretato a sua volta dai mercati, dallo spread, dalla Bce e quant'altri. E ha deciso nel solo modo in cui a quel punto poteva decidere, cioè certificando, col ricorso al governo tecnico, l'impotenza della politica di fronte ai mercati, o in altri termini la fine dell'autonomia del politico dall'economico (alla faccia, per inciso, di Carl Schmitt). Altra questione sulla quale nulla ha da rivendicare il fronte berlusconiano in disfatta, che di questa resa della politica dell'economia è stato fino a ieri il principale e nefasto fautore: cos'altro era se non in primo luogo questo, e non solo una rottura di legalità, il famoso conflitto di interessi?

Non sono glosse a margine, perché ne va di una valutazione realistica dello stato delle cose. Senza nulla togliere all'operato del Presidente della Repubblica, né alla sua efficacia nella liquidazione dell'anomalia del Cavaliere, quello che esso ci consegna non è una riaffermazione di sovranità nazionale sui giochi sovranazionali, né un colpo d'ala della buona politica sulla cattiva politica del ventennio berlusconiano: è una democrazia dimezzata, come tutte le democrazie occidentali, di fronte ai poteri sovranazionali che contano davvero, e una politica impotente di fronte al primato dell'economia. Conviene mantenere, rispetto a questi processi, lo sguardo lungo di quella che un tempo si chiamava analisi di fase, e non quello corto della nota politica quotidiana o settimanale: qui infatti non è in questione il sollievo che tutti proviamo per l'archiviazione di Berlusconi, né tantomeno l'illusione che la rinascita della politica potesse venire da un lavacro elettorale dello stesso ceto politico, di destra e anche di sinistra, che ne ha accompagnato e interpretato lo spegnimento. È in questione, al contrario, il fondato timore che dietro la discontinuità di stile rispetto al ventennio berlusconiano si faccia strada una continuità dei processi di fondo: dei quali l'asservimento della politica all'economia non è certo l'ultimo.

C'erano altre strade? Probabilmente no, a quel punto. A quel punto, con lo spread impazzito e i risparmi delle famiglie a rischio, pure le elezioni erano irrealistiche. Però nessuno, ma proprio nessuno, ci esenta dal chiederci come e perché ci si sia arrivati, a quel punto. Come e perché, ad esempio, un'intera estate sia passata senza che da sinistra si smettesse di attribuire solo alla mancanza di credibilità di Berlusconi, e non anche alla mano invisibile del mercato, il precipitare della situazione. O che è lo stesso, come e perché il metro dei mercati sia diventato, per la sinistra istituzionale, il criterio di misura del vero e del falso. Senza mettere in discussione il quale, va detto e ripetuto, non ci sarà nessuna possibilità né di egemonizzare né di condizionare il governo dei professori con i buoni propositi sull'equità e la crescita.

Come pure non sarà possibile uscire dallo spegnimento della politica senza volgere decisamente lo sguardo dalla politica ufficiale alla politica sorgiva. Gian Carlo Marchesini (vedi lettera a fianco) e altri lettori come lui hanno ragione a esprimere le loro riserve su un ricorso alle urne con questo ceto politico e questa legge elettorale, ma hanno torto a dimenticare il cambiamento che si è espresso nelle urne amministrative e referendarie solo pochi mesi fa, o che si esprime oggi nei movimenti contro l'uso politico del debito.

Quel cambiamento è già in atto, e aveva già archiviato Berlusconi e la sua corte dei miracoli prima dell'intervento dello spread e ha bisogno di essere ratificato prima o poi, e più prima che poi, da un voto che sancisca l'uscita dal ventennio. Seppellirlo sotto la coltre e lo stile del governo Monti sarebbe un grave difetto di miopia, lo stesso che da sempre «calmiera» il cambiamento in Italia, spuntandolo di qualunque carica creativa e riportandolo alla sensatezza di un'etica moderata, conservatrice e perbenista. Eppure, se un futuro c'è per la politica, oggi è da lì che passa, ed è lì che trova ricette sensate, parole innovative, pratiche di ricostruzione e di reinvenzione sovranazionali

Nel caffé affacciato sulla bocca del métro Sèvres-Babylone, entrano i coniugi Kundera, Eva e Milan. Lei ha in mano una copia di Le Monde appena acquistato nella vicina edicola. Lo stende sul tavolino e gettata un’occhiata ai titoli di prima pagina non trattiene un’esclamazione di sdegno.

Gira il giornale affinché il marito possa leggere il motivo della sua indignazione; e infatti lo scrittore ha la stessa reazione, seguita da un gesto desolato della mano. Non conosco la lingua ceca e quindi non riesco a capire le parole che si scambiano, ma incuriosito dalla breve, agitata mimica dei coniugi Kundera, corro a comperare il quotidiano, e mi salta subito agli occhi quel che ha provocato il loro lampo di collera. È un titolo, nel quale ci si chiede se la Grecia sia un paese europeo. «La Grèce est-elle un pays européen?» Anch’io vengo colto da un risentimento improvviso nei confronti di chi ha preparato il terreno a quella bestemmia di dimensione storica. Bestemmia che mette in dubbio con tracotanza, con smisurato, indecente orgoglio (l’aristotelica hybris) l’essenza dell’Europa. Vale a dire dell’Occidente, che non a caso è la traduzione greca di Europa; e il cui pensiero originale, non solo il nome, viene da quella terra della quale si mette in discussione il carattere europeo.

È facile scorgere in questa reazione un’eccessiva dose di retorica. Infatti c’è. È un po’ come scandire: siamo tutti greci europei. Perché no? Affidarsi ai tradizionali punti di orientamento offertici dalla storia per muoversi nel presente conduce in una sfera metafisica. La Grecia non produce più gli eterni modelli della bellezza. È chiaro. Così come Roma non è più la patria del diritto, né del medioevo ascetico e trascendente, né del Rinascimento che ha elevato il significato della vita terrena. È chiarissimo. Lo stesso vale per tanti altri centri della civiltà europea. Tutti quei passati non appartengono tuttavia al dominio delle nazioni o degli Stati di oggi, ma al (crociano) "regno della verità". Costituiscono nel loro insieme, con le loro differenze e contraddizioni, il comun denominatore culturale dell’Europa odierna, multilingue ma con idee affini che si sono influenzate a vicenda, formando attraverso i secoli una forte corrente di pensiero. Affidarsi unicamente al livello dei redditi, alle peripezie finanziarie e alle oscillazioni della moneta unica per determinare l’appartenenza all’Europa e di conseguenza alla sua civiltà, è semplicemente un delitto. È uno dei punti più alti toccati dalla nostra ignoranza di europei del XXI secolo. Pensare che la Grecia del presente non possa coabitare, per la sua struttura economica e sociale, alla zona dell’euro è un conto. Ma nessuno ha il diritto di pensare che essa non sia più europea. Il suo passato, quel che della sua civiltà è vivo nel nostro pensiero, nella nostra cultura, appartiene appunto al "regno della verità", di cui noi tutti europei facciamo parte. La Grecia più di qualsiasi altro paese poiché è stata l’origine di tutto. Si può amputare l’Europa?

Milan Kundera è un europeo che può capire più di altri cosa significa essere escluso dall’Europa. Come cecoslovacco ha vissuto il tradimento dell’Europa che nel 1938, con l’accordo di Monaco, abbandonò il suo paese alla Germania di Hitler. E dieci anni dopo ha vissuto la separazione della "cortina di ferro", tra l’Europa dell’Est e quella dell’Ovest. La tragedia cecoslovacca si è ripetuta nel ‘68, quando i comunisti hanno cercato di dare "un volto umano" (ossia "europeo", così dicevano) al regime imposto da Mosca. La quale, puntuale, mandò i carri armati, senza che nessuno si muovesse in Occidente. Era dunque facile da interpretare la stizza di Milan Kundera nel caffè di Sèvres-Babylone, davanti al titolo provocatorio sulla Grecia. Gli veniva spontaneo identificarsi con quel paese. Non poteva non indignarsi e non spazzar via con un gesto della mano l’interrogativo che metteva in dubbio il carattere europeo della Grecia, madre culturale d’Europa. Nessun carro armato minaccia Atene. Le calamità che possono abbattersi, e che già si abbattono, sulla Grecia sono di un’altra natura. Quelle visibili, concrete, sono economiche. Ma c’è l’umiliazione che è altrettanto pesante.

E i greci sono orgogliosi. Dopo secoli di occupazione ottomana sono ritornati in Europa, pagando un altissimo prezzo di sangue. Byron e Chateaubriand si sono associati alla loro lotta. Delacroix gli ha dedicato quadri che all’epoca equivalevano a romanzi. E Mussolini la pagò cara, e con lui gli italiani, quando pensò di poter "rompere la schiena" alla Grecia. La resistenza al regime dei colonnelli, impossessatisi del potere nel 1967, fu aspra e coraggiosa. L’ho seguita per anni con passione e rispetto. Quando negli ultimi Settanta la fragile, disordinata democrazia greca chiese di entrare nella Comunità europea, Valéry Giscard d’Estaing, allora presidente della repubblica in Francia, replicò agli oppositori che non si poteva «chiudere la porta in faccia a Platone». La logica di quella decisione era essenzialmente politica, poiché la Grecia non aveva tutti i requisiti. Ma c’era l’aspetto simbolico. Ad Atene era nata la democrazia, la politica, il teatro, la poesia, la filosofia, la bellezza. Il paese rurale e depresso, dove gli armatori miliardari non pagavano le tasse, restava sinonimo di cultura. Non lo si poteva certo lasciare fuori dalla porta. I suoi abitanti rappresentano poco più di un millesimo della popolazione mondiale. I suoi monumenti e le sue opere letterarie e filosofiche costituiscono una porzione assai più grande come vestigia della civiltà occidentale. Di cui sono le fondamenta. Senza le quali il denominatore comune culturale alla base dell’Europa non esisterebbe.

C'era un'alternativa al governo Monti? E' questa la domanda a cui vorremmo, o meglio avremmo voluto, dare una risposta. Ma se il centrosinistra ha preferito non andare alle elezioni subito e la sinistra di Vendola si è limitata a dire di non condividere il discorso del neo premier, abbiamo la netta impressione che la risposta sia no. Dunque che fare? Dalle parole di Monti si possono certo capire diverse cose, ma saranno i fatti a dimostrare in che modo vorrà portare il Paese fuori dalla crisi.

Difficile non essere d'accordo quando afferma che «Bisogna superare il principio dell'Italia 'anello debole' e riprendere a "pieno titolo" l'elaborazione del progetto europeo». Oppure che «La distribuzione dei "sacrifici sarà equa. E tanto maggiore sarà l'equità della loro distribuzione tanto maggiore sarà la loro condivisione». Come del resto la lotta all'evasione e pure l'Ici, se reintrodotta sul modello di Prodi del 2006 potrebbe avere anche una ragione d'essere.

Impossibile non condividere poi frasi e concetti del tipo: «L'Italia ha bisogno di investire nei suoi talenti, nei giovani. Essere orgogliosa e non trasformarsi in una entità di cui i suoi talenti non sono orgogliosi». Le chiacchiere tuttavia ora stanno a zero, bisogna vedere i fatti e lo stesso Monti oggi alla Camera ha detto: «Noi siamo qui con un atteggiamento di umiltà, di servizio e di sollecitazione al contributo attivo e anche critico di tutti. Qui oggi non vi chiedo una fiducia cieca, ma una fiducia non cieca: vigilante».

Metter mano alle pensioni è questione che ci lascia perplessi. Ci lasciano perplessi anche i legami evidenti con la gerarchia vaticana e con certe lobby e logge. E continuiamo, saremmo certamente limitati noi, a non capire che cosa significhi che «Il mercato del lavoro dove alcuni fin troppo tutelati, mentre altri sono privi di tutele» deve essere riformato per avere un «sistema più equo».

Ci hanno sempre detto che il sistema pensionistico è quello che sostiene le famiglie in questa fase di enorme difficoltà che vede i giovani non trovare posti di lavoro e i 40-50enni perderlo. Certo i conti dello stato devono essere rimessi in ordine, ma la cura non può essere peggiore della malattia, come sta drammaticamente dimostrando il caso greco.

Anche le nostre però, sono chiacchiere, inoltre è chiaro che Monti esegue sic et simpliciter quello che la Bce ci chiede. La speranza è che cerchi di farlo nel modo più "equo e sostenibile" possibile, ma questo è. E soprattutto non dimentichiamoci che l'alternativa era il prolungamento dell'oscena agonia del governo Berlusconi . Complotti internazionali o no, commissariamenti economico-politico-finanziari o meno, la realtà ribadiamo è questa.

Quanto durerà? Se l'asso nella manica lo ha ancora il centrodestra, avrà vita dura, difficile pensare però che con il fiato corto che l'Italia ha sui mercati - deus ex machina di tutto lo sconvolgimento - possano giochicchiare al gatto col topo. Il berlusconismo ha dimostrato fiato corto davanti ad una crisi che ha spazzato via l'ottimismo da bar ed il "miracolo italiano " promesso e mai avvenuto, una deriva avventuristica del Pdl porterebbe probabilmente ad una sua anticipata frammentazione ed implosione. Berlusconi avrebbe voluto essere il salvatore della Patria, difficilmente gli verrebbe perdonata la trasformazione di becchino di un governo sicuramente liberista.

La paura è che questioni per noi fondamentali come il metter mano al dissesto idrogeologico; il piano energetico; gli incentivi per le energie rinnovabili e la materia rinnovabile sottoforma di un rilancio in pompa magna del riciclo possano trovare un posto d'onore nell'agenda di super Mario. Lo speriamo, ma siamo francamente pessimisti, soprattutto dopo le strampalate uscite del neo-ministro dell'ambiente Clini, un superburocrate andato ad "Un giorno da pecora" a fare la figura di uno Scilipoti qualsiasi.

Se dunque dobbiamo bere l'amaro calice per ripulirci l'intestino ed il cervello dalle malefatte del precedente governo, bisogna che l'opposizione sfrutti questo tempo (quello che ci divide dalle prossime elezioni) per uscire da queste logiche. Non diciamo neppure più di uscire dalle logiche del capitalismo, perché ci pare troppo in questa fase, ma almeno per contrastare le sue storture iperliberiste che ormai sono più delle ragionevolezze.

E per far questo ci vuole -non è un paradosso - credere di più nell'Ue. In un'Unione Europea che sposi quella virtuosa linea della commissione (l'unica in campo ancorché assai migliorabile) che perlomeno individua lo sviluppo economico nell'economia ecologica. Un programma elettorale quindi come minimo di respiro europeo e con ovviamente specificità italiane. Che proponga ad esempio la "no fly zone" dell'economia finanziaria sulle commodities, specialmente quelle alimentari.

E contemporaneamente rilanci l'industria e la manifattura made in italy e soprattutto sostenibile capace di dare risposte innovative alle emergenze ambientali dei Paesi asiatici. Esempi di sviluppo economico vero che necessitano di maggior investimenti nella scuola e nella cultura in generale. Un Paese davvero moderno che abbia chiaro che questa crisi è sistemica e che bisogna cambiare modello, altrimenti arriveremo esattamente dove siamo diretti...

La realtà dell´eurodisastro offre supporti insperati a chi voglia riconoscervi il sopravvenuto dominio dell´oligarchia finanziaria sulla democrazia: basti pensare alla simultanea rimozione per impotenza manifesta dei primi ministri in Italia e in Grecia. I due premier sono stati sostituiti da personalità organiche all´establishment sovranazionale, molto simili per fisionomia al "podestà forestiero" evocato l´agosto scorso da Mario Monti. Tale "stato d´eccezione" si rivela humus ideale per la germinazione delle più fantasiose teorie cospirative. Chi si nasconde dietro all´uso intimidatorio della parola "mercati"? È impressionante la disinvoltura con cui il populismo di destra, non appena disarcionato il suo governo che pure s´era ridotto a comitato d´affari privati, rispolvera la propaganda in auge nei periodi più bui del secolo scorso: i banchieri venduti alle centrali straniere, i circoli anglofoni, la patria in ostaggio di agenti infiltrati, l´internazionale massonica…

I giovani senza futuro che nel corso del 2011 hanno dato vita a una rivolta mondiale contro l´ingiustizia di questo disordine economico, all'improvviso si ritrovano così di fianco imitatori spregiudicati d´opposta sponda. Per quanto ciò risulti paradossale, berlusconiani e leghisti indossano la maschera dell´anticapitalismo indignado. E loro, gli studenti in lotta? A quanto pare non sembrano preoccuparsene.

"Né Monti, né Tremonti", giocano con la rima. Dirigono il corteo contro l´università Bocconi da cui proviene il nuovo presidente del Consiglio e, se interviene la polizia a fermarli, lo dirottano sulla Cattolica, il cui rettore è divenuto ministro della Cultura. Quanto al nuovo responsabile dell´Istruzione, Francesco Profumo, la sua autorevolezza lo rende ai loro occhi addirittura peggiore della Gelmini. Poco gli importa se il giorno prima a picchettare la sede della Goldman Sachs ci sono andati niente meno che i giovani del Pdl (ignari degli affari intrattenuti dall´azienda del loro leader con tale istituzione finanziaria). Le dimostrazioni scaricano a casaccio la protesta contro "il governo dei banchieri" imbrattando filiali di Unicredit e Intesa Sanpaolo a Palermo, circondando l´Abi a Milano o la sede della Banca d´Italia a Firenze.

C´è qualcosa di funesto nel manifestare contro luoghi del sapere come le università "colpevoli" solo di essere private, contrapponendo studenti a studenti. Così come è sintomo di disperazione prendere di mira gli sportelli Bancomat, simbolo di un reddito da cui si sentono preclusi.

Ma una volta condannati con nettezza gli episodi di violenza e le caricature insulse del "nemico", sarà bene che il nuovo governo, e prima ancora la sinistra democratica che lo sostiene, evitino di prendere sottogamba le ragioni di tanta furia indistinta. Un conto sono le strumentalizzazioni della destra oligarchica e populista, ben altra le motivazioni imprescindibili della rabbia giovanile.

Appare evidente che nell´Italia del 2011 non è più replicabile la stagione dei governi tecnici che realizzarono vent´anni fa il risanamento finanziario e l´ingresso dell´Italia nell´euro con il decisivo sostegno dei sindacati e dei partiti di sinistra. Nonostante il prestigio degli artefici di quella stagione, troppo diffusa rimane la consapevolezza del prezzo pagato all´epoca dai ceti popolari, in termini di decurtazioni nel reddito e perdita di posti di lavoro, senza che ne derivassero le promesse contropartite di investimenti da parte della classe imprenditoriale.

Il collasso del capitalismo finanziario e l´attacco speculativo ai debiti sovrani mutano completamente lo scenario. Chi ha patito la crisi, mentre vedeva gonfiarsi a dismisura i guadagni di una ristretta minoranza, invano ha atteso una correzione di tale stortura. E ora manifesta la sua ostilità non solo contro la classe politica, ma più ancora contro i potenti dell´economia.

La nomina di un "banchiere di sistema", Corrado Passera, a responsabile delle politiche industriali del governo Monti, a prescindere dalle capacità personali dell´interessato, non favorisce certo la necessaria sintonia fra nuova classe dirigente e sentimenti popolari. Qualcuno dovrà pur dare rappresentanza politica alla diffusa richiesta di giustizia sociale se non si vuole che essa cada preda della demagogia scatenata a destra e delle suggestioni cospirative trasversali. Rifiutare l´ineluttabilità dei diktat che piovono sull´Italia da un altrove lontano, e fare i conti con lo strapotere della finanza, diventano per la sinistra priorità non rinviabili a una "seconda fase" del risanamento. Pena il ripudio della sua missione storica, già incrinatasi allorquando - nelle emergenze del passato - prevalse la teoria dei nobili sacrifici intesi come un "farsi carico" da parte della classe operaia dei destini della nazione. Col risultato che sappiamo.

Ormai è chiaro a tutti che la depressione in cui precipita l´Occidente non è frutto degli "eccessi" del capitalismo finanziario fondato sul debito, ma della sua stessa natura strutturale. Per questo i tecnici chiamati oggi a cimentarsi con un difficilissimo tentativo di salvataggio, non hanno altra scelta che trasformarsi in politici coraggiosi, tutt´altro che neutrali. Tocca loro delineare un´incisiva riforma del sistema di cui essi stessi hanno in taluni casi personalmente beneficiato; se non vogliono entrare in una disastrosa rotta di collisione con la gioventù precaria che oggi, a torto o a ragione, non li beneficia di alcuna distinzione rispetto a chi li ha preceduti.

Signor ministro, il governo Monti ha una legittimità piena, ma indiretta. Riscuote la fiducia del Parlamento, ma i ministri, non essendo parlamentari, sono privi del viatico elettorale. Questa condizione, inevitabile nell'emergenza, accentua il dovere di essere trasparenti. Un titolare dello Sviluppo e delle Infrastrutture, che prima faceva il banchiere, può dover prendere decisioni che coinvolgono le sue passate scelte professionali.

Lei non è azionista di rilievo di Intesa Sanpaolo. Ha ragione di negarsi al paragone con l'ex premier, azionista di riferimento di una grande impresa, Mediaset, regolata dalla legge. Non di meno l'opinione pubblica vuole essere tranquilla sul fatto che le decisioni del governo servano sempre l'interesse generale. Il suo non è dunque un conflitto d'interessi pesante, a radice patrimoniale, ma un conflitto più leggero, di tipo manageriale. E tuttavia chi si è scottato teme anche l'acqua tiepida. Lei e i suoi colleghi abbandonerete i consigli di amministrazione, è ovvio. Ma il Corriere guarderà anche ad altro. Senza pregiudizi né sconti.

Nell'agosto 2006, Giovanni Bazoli disse che Intesa Sanpaolo sarebbe stata la Banca del Paese, non certo una Goldman Sachs. Poi, con Generali e Mediobanca, entrò in Telecom Italia per evitare che Telefonica ne diventasse padrona. Mario Monti paventò un «governo occulto» delle banche, contigue alla politica. «Parole infelici», commentò lei. Ora Monti l'ha chiamata al governo, archiviando quel dissenso. E le deleghe che le ha assegnato fanno supporre che, dopo il salvataggio della finanza occidentale a spese dei contribuenti, si sia un po' ricreduto. Del resto, quando una banca riunisce attivi pari al 40% del Pil, si lega al progresso generale del Paese e deve avere il senso della misura. Resta che le singole scelte dell'ex banchiere andranno giudicate una per una, in special modo se rimontano alla vita precedente.

Alitalia, per esempio. Intesa ha lavorato per il governo Berlusconi che aveva azzerato la cessione ad Air France preparata dal governo Prodi. Tre anni dopo, la ristrutturazione aziendale è fatta. E tuttavia la società non è in grado di remunerare il capitale investito. L'operazione tripartita su Telecom, pur criticabile sul piano finanziario, ha evitato al Paese di perdere la presa su una grande impresa strategica, che può crescere. Alitalia ha conti diversi. Logica vorrebbe che Air France l'assorbisse, e amen. Il governo Monti considererà Alitalia un campione nazionale su cui intervenire?

Ntv-Nuovo trasporto viaggiatori. Alta velocità. Intesa è azionista e finanziatrice dello sfidante delle Fs-Ferrovie italiane dello Stato. In ritardo sulle tabelle di marcia, e dunque a rischio di sforare i covenant, ovvero le clausole contrattuali di garanzia, che tutelano la banca creditrice, Montezemolo e Della Valle accusano Moretti di infilare i bastoni del monopolio tra le ruote di Italo, il loro treno. Il signor Frecciarossa sostiene che i due, spalleggiati dal monopolio ferroviario francese, hanno commesso errori operativi. Aggiunge che mollerà l'infrastruttura quando anche Parigi lo farà e darà le stesse aperture dell'Italia. Ecco un bel tema per il ministro delle Infrastrutture e anche per il premier, che con l'interim dell'Economia è l'azionista unico di Fs.

Parentesi sindacale: Alitalia e Fs chiedono l'adozione di contratti di lavoro nazionali. Ammettono intese migliorative aziendali, ma non la giungla e il dumpingsociale di oggi. Linee aeree low cost e Ntv si oppongono. Marchionneggiando. Da che parte starà il ministro del Welfare, Elsa Fornero, già vicepresidente di Intesa? Qui, e sul fronte Fiat di cui la banca è storica creditrice?

Per finire, il rapporto con Banca d'Italia. Negli anni berlusconiani, tra governo e Banca centrale c'è stata una profonda e pericolosa diffidenza. Con il doppio cambio della guardia si potrebbe ritrovare la fiducia e voltare pagina. Due emergenze impellenti lo richiedono. La prima è la revisione delle disposizioni dell'Eba (European Banking Authority) su come le banche devono contabilizzare i titoli di Stato. Ne vengono penalizzate sia le banche sia il Tesoro. La seconda emergenza sono gli aumenti di capitale delle banche, ormai inevitabili.

Da sempre le banche vorrebbero vendere alla Banca d'Italia le quote di capitale della medesima, che detengono senza guadagnare come del resto è giusto che sia. Governatore Mario Draghi, si era arrivati vicini a un accordo che avrebbe procurato al sistema bancario 8-10 miliardi creando, al tempo stesso, un mercato delle quote sotto la ferrea supervisione di via Nazionale. Enrico Salza, ai tempi banchiere in Intesa, aveva proposto un modo per girare anche alle altre banche parte del beneficio, concentrato al 42% su Intesa Sanpaolo e al 22% su Unicredit. Un'idea lungimirante e generosa. Che oggi, dati i tempi, potrebbe piacere meno a Ca' de Sass. L'ombra di Tremonti, che si temeva potesse approfittarne per ledere l'indipendenza della Banca centrale e, magari, sottrarle patrimonio, fermò tutto. Ma nell'autunno 2011?

Di questo passo, mentre si riparla di privatizzazioni, si corre il rischio di sacrificare senza un disegno gran parte delle fondazioni bancarie, alleate del governo nella Cassa depositi e prestiti, e poi, ove non bastasse, di dover nazionalizzare le banche. A parlare con la Banca d'Italia sono di solito il premier e il ministro dell'Economia, ma nel Comitato interministeriale per il credito e il risparmio siede anche il ministro dello Sviluppo. Che viene dall'unica banca non obbligata ad aumentare il capitale.

La nascita del governo Monti ci impone, io credo, di mettere tutte le nostre carte in tavola, compresa la nostra soggettività e le nostre contraddizioni, nel pieno di uno sconvolgimento storico, sociale, mentale che sfida tutti i nostri schemi. E ci immerge in uno scenario inedito. Incomincerò dunque io a fare outing, con un paio di confessioni, sperando di essere seguito da molti.

Confesso innanzitutto che se fossi stato a Roma, sabato scorso, avrei probabilmente preso una bandierina (tricolore) e sarei sceso in strada a festeggiare. Perché quella sera, alle 21 e 42, è davvero finito "ufficialmente" il berlusconismo. So benissimo che la sconfitta di Berlusconi viene da lontano, da Milano, con la vittoria di Pisapia, dal referendum con i 27 milioni di persone che gli hanno disubbidito, e prima ancora dal 14 febbraio con quel popolo rosa che ha detto «se non ora quando». Ma sabato è successa una cosa in più. Per la prima volta nella sua vita politica Berlusconi ha dovuto arrendersi alla realtà.

E l'essenza del suo stile politico - l'anima del berlusconismo - sta esattamente nell'opposto: nella negazione sistematica del mondo qual è. Nella costruzione per via narrativa - appunto, da grande illusionista - di una realtà immaginaria, parallela, fantasmagorica e totalizzante, rispetto alla quale la capacità di farla credere e di farci accomodare dentro il "suo popolo" era la misura e la sostanza del suo potere. Con quell'uscita vergognosa, dalla porta secondaria del Quirinale, in una Roma festante, quella bolla è scoppiata. Di fronte all'evidenza che intorno c'era un mondo coriaceo e ostile, che gli resisteva e lo cacciava, è finita irrimediabilmente la leggenda del Grande Narratore.

Confesso anche - e la cosa mi costa un po' di più - che ho fatto il tifo per Mario Monti. Forse per una questione di pelle. Più estetica (ed etica) che politica. Perché dopo tanto strepitare sopra le righe, dopo la volgarità al potere, il disgusto quotidiano e lo strepito da caravanserraglio, i troppi nani e ballerine e paillettes e cotillon nel cuore dello Stato, la sua normalità sembra un miracolo. La sua sobrietà di abito e di parola una rivoluzione. Ma anche perché, politicamente, mi rendo conto che al suo governo non ci sono alternative. Che il suo ingresso a Palazzo Chigi ha il senso di un'ultima chiamata, oltre la quale non c'è un'altra soluzione politica possibile, ma solo il vuoto in cui tutti, nessuno escluso, finirebbero per schiantarsi (l'insolvenza dello Stato, la sospensione del pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici, il blocco del credito bancario, la paralisi del sistema produttivo, da cui una astrattamente desiderabile campagna elettorale non ci avrebbe messo al sicuro, anzi...). Non so se la nascita del suo governo sarà sufficiente a metterci al riparo, almeno temporaneamente, dalla tempesta che ci infuria intorno. Ma so che ne è - anche sul piano dello stile - la condizione necessaria.

Detto questo, testimoniato il nostro "senso della realtà", non possiamo tuttavia nasconderci il significato profondo - la gravità - degli avvenimenti di questi giorni. Il carattere di discontinuità che essi introducono nella vicenda della nostra Repubblica. Nessuna delle prescrizioni formali della nostra Costituzione è stata violata nei convulsi passaggi di questa crisi di governo, sia ben chiaro. Ma la nostra Costituzione materiale è mutata. E in alcuni suoi aspetti di fondo, a cominciare da quel tratto costitutivo di ogni forma di governo che è il rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo. Costituzionalmente noi nasciamo e siamo una Repubblica Parlamentare. Anzi: un parlamentarismo di partito. Il luogo naturale e genetico dell'indirizzo politico - la sede in cui nascono e muoiono i governi - è il Parlamento. E qui il Parlamento (come d'altra parte il Governo) è stato, nei passaggi cruciali, fuori gioco. Nella migliore delle ipotesi una controfigura, mentre il baricentro dell'iniziativa politica è passato - in un'evidente situazione di emergenza - alla Presidenza della Repubblica, per una semplice ragione. Perché la politica nella sua sede naturale aveva fallito. Perché la sede parlamentare, come luogo della decisione politica, era implosa. I suoi soggetti primi, i Partiti, si erano estenuati e neutralizzati, fino all'assoluta impotenza. In un Parlamento bloccato da una maggioranza tecnica ma non più politica, costruita a colpi di compravendita (in un Parlamento che aveva tragicamente assunto il volto farsesco dell'on. Scilipoti), nel vuoto, dunque, del "potere primo", l'iniziativa è passata a un potere "secondo" (anzi, al "potere terzo", perché così lo configura la Costituzione), che ha deciso.

Non può non venire in mente - absit iniuria verbis - la vicenda costituzionale della Repubblica di Weimar, e il famigerato art. 48 che assegnava al Presidente la facoltà di proclamare, in caso di emergenza, l' Ausnahmezustand, lo «stato d'eccezione», assumendovi poteri straordinari. Riflettendo proprio su quell'istituto un grande giurista del tempo, Carl Schmitt, elaborò la propria teoria della sovranità che definiva appunto il Sovrano come «colui che decide sullo stato d'eccezione» (e, occorre aggiungere, nello stato d'eccezione). Ora, Schmitt appartiene a quella schiera di "pensatori maledetti" che hanno dato voce e forma ai demoni del Novecento. Ma il suo modello d'interpretazione appare ancora assai utile per tracciare una mappa del potere contemporaneo. Se ad esempio ci chiediamo, in quell'ottica, chi sia stato in questi giorni il Sovrano in Italia, la risposta non può essere che una: Giorgio Napolitano. Non il Parlamento, non il Governo, ma il Presidente della Repubblica, il secondo corno del potere esecutivo, quello meno rilevante in condizioni di normalità.

Se poi allarghiamo il raggio dello sguardo a livello europeo, dobbiamo concludere che qui Sovrana è la Bce, la Banca centrale, un organo amministrativo dunque, e tuttavia dotato della medesima discrezionalità, dello stesso decisionismo, e anche della stessa furia ideologica della politica. E se dalla dimensione continentale passiamo a quella globale la risposta alla domanda "chi è il Sovrano" non può essere che una: i Mercati. Il loro potere arbitrario e definitivo, giudice della vita e della morte dei popoli e dei Paesi (Grecia docet). Ma i mercati - mai come oggi lo si può vedere ad occhio nudo - sono un Sovrano distruttivo. Un Crono che divora i suoi figli. Un Leviatano non vincolato da nessun patto, impegnato in uno shopping feroce che passa da uno stato all'altro, da una Borsa all'altra, con una logica che comporta nei propri codici l'auto-distruzione, lasciandosi alle spalle macerie e rovine. Da essi non ci si può aspettare non dico una società giusta, ma neppure un qualche tipo di società.

Ora, che ci si può aspettare - in questo quadro - dal governo che nasce? Mario Monti, lo sappiamo (e non dobbiamo nascondercelo) è impastato, almeno in parte, di quella stessa logica. Ne condivide alcuni punti fondamentali. Non ci potrà dare, quali che siano le sue intenzioni, "libertà e giustizia". Ed è persino difficile immaginare che chi sta dentro la cultura che ha prodotto la crisi possa, con quella stessa cultura, mettere in campo la cura definitiva. Quello che possiamo aspettarci è un riallineamento economico e finanziario - ma soprattutto in termini di credibilità e autorevolezza - all'Europa. Un riavvicinamento alla crisi degli altri. Cioè il ritorno a una qualche temporanea normalità (pur nell'emergenza che segna il nostro tempo) perché, riconquistata cittadinanza nel nostro continente, si possa aprire un contenzioso vero con l'Europa e i suoi dogmi, se qualcuno, nel frattempo, nel disastrato universo politico (o fuori di esso, in un "sociale" finora troppo silenzioso e pigro), avrà saputo elaborare una cultura altra. Un'alternativa "di modello" plausibile.

Non sarà facile, anche questo programma minimo. Bene che vada, la sua squadra di tecnici dovrà, volente o nolente, rassegnarsi a governare sopra e contro una società politica fallita e tuttavia ancora dotata di un forte potere di interdizione, sospendendone alcune prerogative. Avendo il coraggio di praticare l'istituto temporaneo ed eccezionale che nell'antica Roma aveva il nome di "dittatura commissaria". E costruendosi strada facendo la propria legittimazione: un percorso improbo, perché si troverà ad amministrare galleggiando su un Parlamento frammentato nei 34 gruppi che ha consultato (e chissà quanti altri se ne aggiungeranno, nell'anno che viene), rissoso e miope, dimostratosi drammaticamente irresponsabile. In cui i contenitori partitici che avevano strutturato la nostra forma politica rischiano, ad ogni passaggio, di liquefarsi. E in cui, soprattutto, si aggira ancora il fantasma non placato del vecchio premier, vulnerato ma non cancellato.

Ho detto, all'inizio, che il berlusconismo era finito. E lo ripeto. Ma questo non vuol dire che scompaia anche la figura di Berlusconi. Così come nel 1943 finì il fascismo, ma il suo ex capo Benito Mussolini continuò a devastare il paese per altri venti mesi, allo stesso modo l'Italia dovrà continuare a vedersela con un Silvio Berlusconi fattosi cavaliere di ventura, e con le sue scorrerie politiche, finanziarie e giudiziarie... In fondo, occupa ancora quasi la metà del Parlamento: per il gioco allo sfascio i numeri li avrebbe tutti. La Lega questo passaggio l'ha già compiuto, scommettendo sul fallimento dell'Italia, e preparandosi ad accelerarlo pur di sfuggire al nulla in cui si è confinata attraverso l'uscita di sicurezza della secessione. Se la strana coppia che ci ha portato sull'orlo dell'abisso si ricomponesse sulla linea di un nichilismo politico programmatico, allora davvero il nostro 12 novembre più che a un 25 aprile finirebbe per assomigliare, tristemente, a un 25 luglio. E davvero diventerebbe non più rinviabile il tempo delle scelte.

La distinzione fra tecnica e politica si è affievolita in tutta l´età moderna, in un inesauribile scambio di ruolo e di funzioni - Se lo Stato si sforza di pianificare i settori della produzione economica, si penserà che sia giusto affidare il potere ai manager - La nascita del governo Monti mette in primo piano il complesso rapporto tra la democrazia e la necessità di ricorrere ad una élite di specialisti per il governo

Nasce un governo "tecnico", figlio della debolezza (ma anche della residua capacità di condizionamento) della politica di oggi, e della sciagurata insipienza della politica di ieri. È un governo di tecnici che saranno chiamati a realizzare nel modo più efficiente decisioni in parte già prese (anche e soprattutto fuori del nostro Paese) ma che dovranno nondimeno fare anche delle scelte; il che renderà evidente che sono chiamati non solo a supplire da tecnici la politica, ma anche a svolgere un ruolo propriamente politico.

Questo intrecciarsi di tecnica e politica va dipanato, nei limiti del possibile. Ma è una linea davvero sottile quella che separa la tecnica dalla politica. All´apparenza, la prima è un potere che dall´uomo va verso le cose, per produrle e modificarle, mentre l´altra è un potere che dall´uomo va verso gli uomini, perché esprimano un ordine a loro adatto. È questa la tesi di Platone, nella sua polemica contro i sofisti che riducevano la politica a una tecnica, a un´arte di persuasione e di comando, e non coglievano che l´ordine politico ha a che fare con la Giustizia (e questa con le Idee, col Bene, e con l´Essere); e anche Aristotele ha distinto fra poiesis, la produzione strumentale, che ha il proprio fine nelle cose prodotte, e praxis, l´agire che ha come fine la stessa bontà dell´azione.

Ma il progressivo venir meno del riferimento al Bene ha avvicinato le due nozioni ancora di più: un antropologo del XX secolo, Gehlen, ha sostenuto che la tecnica è l´azione dinamica che elabora l´ambiente e lo rende adatto all´uomo, mentre la politica è l´azione stabilizzatrice, che cerca di ordinare e integrare in un ordine i diversi saperi e le diverse azioni della tecnica.

In realtà, la distinzione fra tecnica e politica si è affievolita in tutta l´età moderna, in un inesorabile scambio di ruolo e di funzioni: benché pretenda di essere il custode di un sapere non specialistico ma universale, e di avere, rispetto alla tecnica, obiettivi più alti – non l´efficienza in questo o in quell´ambito ma la gloria, la nazione, l´Idea, la libertà, la democrazia –, lo Stato è intrinsecamente tecnico, poiché ha bisogno delle competenze di tecnici e scienziati, di statistici e di ingegneri, di amministratori e di militari, di giuristi e di professori; la tecnica conferisce allo Stato la potenza, che è ciò per cui lo Stato vive. E, specularmente, è ineluttabile che la tecnica manifesti la tendenza a produrre un proprio ordine, che esibisca una propria intrinseca capacità di generare forme; che sia, oltre che dinamica, anche stabilizzatrice; e che, oltre che servire, oltre che essere utile, pretenda anche di governare; che pretenda che l´intera società sia a disposizione di chi detiene i saperi neutri e oggettivi con i quali ogni problema sarà infallibilmente risolto.

Così, se lo Stato dipende dalla tecnica per la propria potenza (anche lo Stato sociale ha bisogno di efficienza tecnica), se si sforza di pianificare settori della produzione economica (nel XX secolo lo hanno fatto sia le democrazie sia i totalitarismi), allora si penserà che sia giusto e opportuno che il potere sia nelle mani dei competenti, dei tecnici, o di chi ha il know how dell´organizzazione: i manager, i tecnocrati. Come già sosteneva Weber, la tecnica fatalmente si presenterà allora come la "gabbia d´acciaio" che ha imprigionato la politica; oppure si potrà dire, con Heidegger, che la tecnica è l´essenza e il destino della civiltà occidentale, l´espressione adeguata (tanto più potente in quanto precisa, oggettiva, impersonale, neutrale) della volontà di potenza occidentale.

Contro queste prospettive di un mondo amministrato – in cui la tecnica, nata per servire l´uomo e liberarlo, lo comanda e lo piega alle proprie esigenze –, la politica a volte tenta di recuperare il comando nell´orientamento della vita sociale: questa è stata la rivoluzione culturale di Mao, che ha lanciato le Guardie Rosse contro le tecnostrutture della Cina; questo fanno i populismi, contestando le élites tecnocratiche. Ma più in generale, contro la politica asservita alla tecnica si gioca l´autonomia della politica; al prestigio distaccato dei tecnocrati si contrappone la passione e la partecipazione della politica democratica.

Ma, benché seducenti, tecnocrazia e autonomia della politica sono in realtà due ipotesi insoddisfacenti. La verità non sta né nell´identificazione della tecnica con la politica (la tecnocrazia) né nella loro contrapposizione frontale. Non separate né coincidenti, tecnica e politica si coappartengono: hanno entrambe a che fare con l´incompletezza e l´instabilità della vita associata degli uomini, e con il potere come sforzo di ordinare questo mondo. Ma, paradossalmente, è la politica a essere più aderente alla realtà, e quindi più potente: infatti, la tecnica non sa che il suo ordine impersonale e oggettivo, e i suoi fini universali e neutrali, sono anch´essi decisioni, sono il frutto di scelte già fatte, e mai messe in discussione. Mentre invece la politica sa che non c´è una sola soluzione (che appunto sarebbe ‘tecnica´) ai problemi reali di una società, ma sempre più di una (e di solito in conflitto). E nella scelta fra queste consiste appunto la politica. Se i tecnici vogliono fare politica, dovranno perciò rinunciare a credere nell´univocità e nell´assolutezza dei propri saperi, e addestrarsi al confronto dialettico.

Lo sforzo politico e culturale in cui vale la pena di impegnarsi è quindi quello di politicizzare la tecnica, cioè di fare emergere la contingenza dei suoi imperativi categorici; ma, al tempo stesso, di tecnicizzare la politica, ovvero di evitarne le derive illusionistiche e di renderla consapevole che la sua responsabilità è di decidere mezzi e scopi della potenza tecnica, senza sottrarsi alla durezza delle sue sfide. Alla politica spetta insomma il compito di entrare nell´universo della tecnica senza tributare un culto idolatrico alla sua potenza, nella consapevolezza che non è il Bene ma la percezione della complessità e della contraddittorietà della vita umana il vero discrimine fra tecnica e politica.

Il Governo Berlusconi non c’è più. Il caimano si è dimesso, consumato da un inglorioso autunno del patriarca e sempre più isolato. Era nell’aria sin dai tempi della rottura con Fini ed era diventato quasi una certezza con la splendida primavera dei sindaci e dei referendum. Ora finalmente è accaduto e quindi facciamo bene, noi di sinistra, ad esultare e sentirci sollevati.

Eppure, c’è un “ma” che pesa, perché dopo anni di lotte, speranze, delusioni, traversate del deserto ed indignazioni, alla fine non siamo stati noi a dargli la spallata. Nessun 14 dicembre, primavera democratica o 15 ottobre l’hanno mandato a casa. No, l’hanno fatto i “mercati finanziari” o meglio, visto che la mano invisibile esiste solo nelle favole, quei soggetti che dispongono dei mezzi finanziari per agire e per orientare.

E attenzione, non si tratta di una quisquilia, poiché quella dei protagonisti del cambiamento è questione decisiva. Altrimenti, per scomodare altre epoche storiche, perché nell’aprile 1945 il capo delle forze alleate in Italia avrebbe chiesto ai partigiani di stare fermi in attesa che le sue truppe liberassero il nord del paese e perché il CLN avrebbe invece deciso l’esatto contrario, dando l’ordine per l’insurrezione popolare?

In altre parole, il modo in cui si esce dal disastro berlusconiano è dirimente. E da questo punto di vista faremmo molto bene, noi di sinistra, a toglierci dalla testa che la fine di Berlusconi significhi di per sé l’avvento di un’Italia migliore. A maggior ragione nelle condizioni date, cioè nel bel mezzo della più micidiale crisi economica, sociale e politica che l’Europa abbia vissuto dagli anni Trenta del secolo scorso.

Ebbene sì, perché il punto è questo: ci stiamo liberando dall’anomalia italiana, per ritrovarci di colpo nella normalità della crisi europea. C’eravamo anche prima, ovviamente, ma forse il berlusconismo ci aveva un po’ annebbiato la vista. E così, come logica conseguenza dell’incapacità dell’opposizione sociale e politica di buttare giù il sultano e di avanzare una proposta politica alternativa, ci scopriamo ora destinatari di ordini di servizio alla pari di Spagna, Portogallo o Irlanda e commissariati come la Grecia.

In questi giorni Mario Monti gode di grande credito pubblico, un po’ per il legittimo sollievo di non avere più come presidente del consiglioBerlusconi, un po’ perché molti vedono in lui un’ancora di salvezza in mezzo alla tempesta. Tutto questo è comprensibile, ma non ci esime certo dal guardare oltre il momento e l’apparenza.

Mario Monti, come il nuovo primo ministro greco, Lucas Papademos, è espressione diretta dell’establishment finanziario internazionale. Papademos era governatore della banca centrale greca e vicepresidente della Bce fino all’anno scorso. L’ex commissario europeo Monti è advisor della potente banca d’affari “Goldman Sachs” e ricopre ruoli di primo piano nella Commissione Trilaterale e nel Gruppo Bilderberg. Beninteso, qui non è questione di complotti, ma molto più banalmente di prendere atto che oggi i circoli e le istituzioni del finanzcapitalismo (per usare la definizione di Gallino) hanno deciso di intervenire direttamente nella gestione politica degli Stati.

In questa dinamica, ad essere sconfitta e sottomessa non è tanto la politica intesa come ceto o partiti, bensì la democrazia, intesa come possibilità delle classi popolari di poter partecipare alla formazione delle decisioni pubbliche. Infatti, nelle lettere della Bce all’Italia o nello scandalo ufficiale di fronte all’ipotesi di referendum in Grecia ritroviamo la medesima insofferenza nei confronti della democrazia che abbiamo già visto all’opera a Pomigliano, Mirafiori o Grugliasco.

Insomma, delle pessime premesse per il futuro, dove in gioco non è il ricambio dei governanti, bensì la ridefinizione del sistema politico, sociale ed istituzionale. Cioè, la “terza repubblica” e il modello sociale.

Ecco perché non dobbiamo, noi di sinistra, stare nel recinto della Grosse Koalition a sostegno di un governo per nulla tecnico, il cui programma è stato scritto dalle istituzioni finanziarie. Non per ideologia, ma per realismo. E non per sbraitare a bordo campo, bensì per rientrare in gioco e costruire e organizzare un punto di vista alternativo, a partire dal lavoro, possibilmente con spirito unitario e insieme a movimenti e forze degli altri paesi europei. Altrimenti, anche le elezioni, quando finalmente arriveranno, serviranno a ben poco.

I «padroni dell'universo». Un soprannome modesto per gli uomini di punta di Goldman Sachs (GS). Una banca d'affari con 142 anni di vita, più volte sull'orlo del baratro, da sempre creatrice di conflitti di interesse terrificanti, da far impallidire - per dimensione e pervasività - quelli berlusconiani.

Famosa per «prestare» i propri uomini alle istituzioni, quasi dei civil servants con il pessimo difetto di passare spesso dalla banca privata ai posti di governo. Come peraltro i membri della Trilaterale o del Bilderberg Group. Mario Monti è uomo accorto: è presente in tutti e tre. Per GS ha fatto finora l'international advisor, come anche Gianni Letta, dal 2007, nonostante il ruolo di governo. Cos'è un advisor? Beh, è un consigliere; una persona in grado di indicare a una banca internazionale i migliori affari in circolazione. Specie quando uno Stato deve privatizzate le società pubbliche. Sta nella buca del suggeritore, ma può diventare premier... E G&S ha comunicato ai mercati in tal caso lo spread per i Btp italiani calerebbe a 350 punti in un lampo.

È la banca che ha inventato (subito copiata dalle altre) i prodotti derivati, quei 600mila miliardi di dollari virtuali che stanno strangolando il mondo. Che ha aiutato i conservatori greci a nascondere lo stato reale dei conti pubblici davanti alla Ue. Che ha mandato l'amministratore delegato Henry Paulson, nel 2006, a fare il ministro del tesoro di Bush figlio. Dopo il crack di Lehmann Brothers inventò il piano Tarp: 700 miliardi di dollari statali per salvare le banche private anche a costo di far esplodere il debito pubblico Usa. G&S riuscì in quel caso a intascare buona parte dei 180 miliardi destinati al salvataggio di Aig, gruppo assicurativo. Prima di lui era stato su quella poltrona Robert Rubin, con Clinton presidente; c'era poi tornato molto vicino, con Obama, ma dovette lasciare quasi subito il team economico: troppo evidente il suo doppio ruolo. Robert Zoellick è invece partito da G&S per coprire decine di ruoli per conto dei repubblicani, fino a diventare 11° presidente della Banca Mondiale.

Ma anche gli italiani si difendono bene. Romano Prodi era stato lui advisor, prima di tornare all'Iri per privatizzarla e spiccare quindi il volo verso la presidenza del consiglio, per ben due volte. Al suo fianco, negli anni, Massimo Tononi, ex funzionario della sede di Londra e quindi sottosegretario all'economia tra il 2006 e il 2008.

Ma il più noto è certamente Mario Draghi. Dal 2002 al 2005 è stato vicepresidente e membro del management Committee Worldwide della Goldman Sachs; in pratica il responsabile per l'Europa. Ha lasciato l'incarico per diventare governatore della Banca d'Italia e prendere la presidenza del Financial Stability Forum (ora rinominato Board), incaricato di trovare e mettere a punto nuove regole per il sistema finanziario globale. Compito improbo, che ha partorito molte raccomandazioni ma nessun risultato operativo di rilievo (le regole di Basilea 3 sono tutto sommato a tutela della solidità delle banche, non certo limitative di certe «audacie» speculative).

Dall'inizio di questo mese siede alla presidenza della Banca Centrale Europea, ma prima ancora di entrarci aveva scritto e poi fatto co-firmare a Trichet - la lettera segreta con cui il governo veniva messo alle strette: o le «riforme consigliate» in tempi stretti o niente acquisti di Btp. Forse rimpiange di ver lasciato il Financial Stability Board. Ma non deve preoccuparsi: al suo posto Mark Carney, governatore della Banca centrale canadese. Anche lui, per 13 lunghi anni, al fianco dei «padroni dell'universo» targati Goldman Sachs.

Mettiamo che tutto vada liscio nella road map delineata dal presidente della Repubblica, e sostenuta pure dal presidente degli Stati uniti. Mettiamo pure che tutto, oltre che liscio, vada per il meglio: che Mario Monti riesca a risollevare i conti pubblici e ad abbassare lo spread facendo il contrario di quello che è prevedibile che faccia, cioè con la patrimoniale, senza macelleria sociale, senza vendere il Colosseo e rilanciando l'occupazione, la produzione e i consumi. Mettiamoci infine l'auspicio che dal suo governo nasca una legge elettorale accettabile. Bene, anche in questo scenario fantascientifico i danni collaterali dell'operazione sarebbero, come quelli delle cosiddette operazioni di polizia internazionale, superiori ai risultati, e tali da compromettere gravemente l'uscita dal ventennio berlusconiano. Se ne contano, allo stato attuale, almeno tre, con conseguenti corollari e paradossi.

Primo danno, la fine, politicamente certificata, dell'autonomia della politica. La piramide istituzionale italiana si consegna, per mano del suo massimo vertice, alla governance economica europea e mondiale. La quale, ormai l'abbiamo capito, non avrà pace finché non piazzerà dei propri uomini alla guida dei paesi più esposti alla crisi dell'Eurozona: così in Italia con Monti, così in Grecia con Papademos. E' ovvio che per legittimare questa situazione vengano mobilitate tutte le ragioni emergenziali possibili, e in parte indiscutibilmente reali, dall'insostenibilità del debito al crollo di credibilità dell'Italia. Il ragionamento però, come sempre quando impazza la psicologia dell'emergenza, andrebbe ribaltato: come siamo arrivati a questa situazione? E perché, mentre ci si arrivava, non è stata né tentata né concepita una strada per uscire dallo stato terminale della politica con la politica, se non per dare qualche risposta almeno per intralciare con qualche domanda le mosse rovinose dell'economia e dei cosiddetti mercati?

La risposta sta nel secondo danno collaterale, che è la resa incondizionata, e per giunta fuori tempo massimo, alla religione neoliberista. Che impera in tutto l'Occidente da oltre un trentennio, ci ha portato alla catastrofe economico-finanziaria degli ultimi quattro anni e ha ormai come obbiettivo, anche questo l'abbiamo capito, non il condizionamento ma l'asservimento, se non l'azzeramento, della politica tout court: il capitale ha deciso che deve governare direttamente, senza alcuna mediazione, né degli stati né dei governi né dei parlamenti. Però mentre negli Stati uniti la presidenza Obama ha perlomeno messo in scena, pur perdendolo, un conflitto fra primato dell'economia e primato della politica (conflitto oggi peraltro ottimamente alimentato da Occupy Wall Street), l'Europa incarna nella sua stessa architettura, monca di una Costituzione e di istituzioni politiche credibili, una forma inedita di sovranità economica assoluta.

In Italia, la congiuntura - indubbiamente assai difficile - che vede coincidere la fine del ventennio berlusconiano con la resa dei conti del trentennio liberale avrebbe potuto offrire l'occasione per uscire dall'uno e dall'altro con una sostanziale inversione di rotta. Senonché qui viene in primo piano un nodo finora sottaciuto del fronte antiberlusconiano. Nel quale hanno troppo a lungo e troppo pacificamente convissuto due tendenze opposte: quella che dal berlusconismo vuole uscire uscendo altresì dal liberismo, e quella che viceversa ne vuole uscire con un liberismo più affilato, ancorché più presentabile, di quello che Berlusconi è riuscito a praticare. Il risultato è il passaggio dal feticismo della merce (e del corpo-merce) di Berlusconi al feticismo dei mercati fatto proprio dalla sinistra liberaldemocratica.

Vale allora la pena almeno di accennare, pur senza poterlo sviluppare, a un punto concettuale che oggi diventa politicamente decisivo. Solo in Italia la distinzione lessicale fra liberismo e liberalismo alimenta l'illusione di una distinzione concettuale e politica fra i due termini che oggi, e non da oggi, non si dà. Come molti - da Michel Foucault a Wendy Brown a Luciano Gallino nel suo ultimo libro - hanno ampiamente dimostrato, quello che in Italia chiamiamo neoliberismo, e che altrove si chiama neoliberalismo, non è una dottrina meramente economica che lascia immune il liberalismo politico classico o che può esserne corretta: è una dottrina economica e politica che estende la forma dell'impresa alla società e alle istituzioni, e che la liberaldemocrazia se la sta semplicemente ingoiando, su una sponda e sull'altra dell'Atlantico. Lo stato d'eccezione che a turno ci è toccato o ci tocca sperimentare - negli Usa di Bush di ieri sotto l'emergenza antiterrorismo come nella Grecia e nell'Italia di oggi sotto l'emergenza della crisi - ne sono una diretta conseguenza, prima o poi destinata all'implosione.

Il terzo danno collaterale riguarda la Costituzione italiana e riporta d'attualità il discorso, di fatto archiviato, su quella europea. Non è per caso, in questo scenario di neoliberismo trionfante, che la seconda non sia mai nata, e che la prima traballi da anni. Una ripresa di iniziativa politica continentale dal basso per la Costituzione europea sarebbe oggi l'unica risposta adeguata all'Europa della Bce e del duo Merkel-Sarkozy, e l'ultimo a essere insensibile al tema sarebbe lo stesso Giorgio Napolitano. Del quale, per venire alla Costituzione italiana, non è certo in discussione il ruolo di garante fin qui svolto. Non si può tuttavia eludere il fatto che l'Italia ha vissuto negli ultimi anni, sotto l'emergenza della «anomalia» berlusconiana, una sorta di regime di coabitazione semipresidenzialista che non mancherà di lasciare traccia per il futuro, e che altri in futuro potrebbero interpretare in modo meno commendevole. Così come non mancherà di lasciare traccia l'inedito istituto delle dimissioni a tempo del presidente del Consiglio, e l'eclissarsi del ruolo del parlamento e dei partiti in una situazione straordinaria come quella attuale.

Con il che torniamo al punto di partenza, non senza enumerare i paradossi in partenza accennati. Per paradosso, all'esito di questa situazione la bandiera dell'autonomia della politica viene impugnata da chi l'ha maggiormente affossata sostenendo un regime come quello berlusconiano in cui politica ed economia erano indistinguibili (si veda la manifestazione annunciata per oggi dal Foglio, Libero e il Giornale). E la bandiera della critica all'Europa tecnocratica viene impugnata da chi, come la Lega, dell'Europa politica è sempre stato acerrimo nemico. Un rovesciamento delle parti in cui noi stessi, al manifesto, non ci sentiamo propriamente a nostro agio, ma tant'è.

Ancora un punto, quello che in queste ore appassiona di più le cronache. Giustamente, da parte delle posizioni sia Pd sia Pdl più caute nell'appoggiare la soluzione-Monti, viene la richiesta che se governo tecnico dev'essere, che lo sia davvero: che sia composto di tecnici, che non coinvolga i partiti più del necessario e del dovuto, che abbia un programma definito e un tempo limitato. E' una cautela consapevole del big bang che questo governo può innescare nei singoli partiti e nelle coalizioni sia di centrodestra sia di centrosinistra, e nello stesso bipolarismo. Un big bang che tuttavia di tutti i danni non sarebbe certo il maggiore, e anzi forse non sarebbe un danno. Sotto di esso però, neanche tanto nascosto, c'è un altro pericolo: che il passaggio-Monti serva a ratificare definitivamente quel ruolo ancillare del Pd rispetto a un equilibrio centrista garante dei «poteri forti» al quale fin dall'89 si tenta di inchiodare il resto di quella che fu la più grande sinistra d'Occidente. E non è un affatto un caso che questo nodo torni al pettine all'uscita dall'anomalia berlusconiana, come ultimo e decisivo atto della «normalizzazione europea» del laboratorio italiano.

Prima o poi, a chiunque di noi potrà capitare di sentirsi rivolgere una domanda dai nostri figli, nipoti o pronipoti: ma come avete fatto, tra il 1994 e il 2011, a fidarvi di Silvio Berlusconi uomo politico e capo del governo, a sopportarlo per 17 anni? Tanto vale, allora, cominciare a prepararsi e provare a rispondere.

Ora che il regime televisivo èarrivato alla fine, mentre spunta l´alba di una nuova Liberazione e speriamo anche di una nuova ricostruzione nazionale, quel sortilegio che ha condizionato per quasi un ventennio la vita pubblica italiana appare sempre più incomprensibile e inspiegabile. E non solo agli occhi degli avversari, ma anche di molti (ex) fan, supporter o addirittura berluscones di antica e provata fede.

Il fatto è che la "sindrome di Arcore", come quella di Stoccolma che fa innamorare il rapito o la rapita del suo carceriere, ha fatto innamorare gli italiani - o almeno una larga partedi essi - del loro tiranno mediatico. Non sarebbe corretto attribuire questa infatuazione collettiva soltanto alla televisione, al potere o allo strapotere mediatico che il Cavaliere ha esercitato sulla società italiana a partire dalla metà degli anni Ottanta, cioè dall´avvento della tv commerciale, ben prima della sua fatidica "discesa in campo".

Nessuno ha mai sostenuto che Berlusconi abbia vinto per tre volte le elezioni solo per le sue televisioni. Ma, in mancanza di controprove, si può legittimamente ipotizzare che forse senza le tv non le avrebbe vinte.

È certo, comunque, che il fenomeno ha contagiato purtroppo anche una parte degli avversari, in un processo imitativo e mimetico che non ha risparmiato neppure alcuni settori ed esponenti della sinistra. Quella che occorre, allora, è innanzitutto una svolta nella vita civile del Paese, un´alternativa culturale e sociale, non soltanto un cambio di governo. Ecco perché la personalizzazione della politica, favorita dalla rappresentazione mediatica e in particolare dalla spettacolarizzazione televisiva, a questo punto deve cedere il passo all´elaborazione dei contenuti, dei programmi, delle idee.

Per evitare dunque che il post-berlusconismo risulti anche peggiore del berlusconismo, occorre inoculare nel corpo sociale quelli che Paolo Sylos Labini chiamava gli "anticorpi", da cui ha preso il titolo una riuscita collana dell´editore Laterza. E cioè, la capacità d´indignarsi e di reagire, l´intransigenza, la trasparenza, l´onestà pubblica e privata. Una vaccinazione di massa, insomma, per rafforzare le difese immunitarie contro i virus endemici della corruzione, del clientelismo, del populismo mediatico, della demagogia, del trasformismo che tende a degenerare nel camaleontismo.

È dal sistema della comunicazione che bisogna partire per rivitalizzare il rapporto tra informazione e democrazia, in modo da regolare attraverso il controllo dell´opinione pubblica l´aggregazione e la raccolta del consenso, per garantire un effettivo pluralismo. A cominciare, naturalmente, dal servizio pubblico radiotelevisivo che ne è l´architrave portante.

La tv continua a rappresentare in Italia il veicolo di gran lunga prevalente per l´informazione: quasi il 90%. E le sei reti generaliste di Rai e Mediaset detengono ancora una quota di oltre il 73% di share medio giornaliero. Nel complesso, la televisione rastrella così il 44,8% delle risorse pubblicitarie, rispetto al 15,4% dei quotidiani e al 12,8 dei periodici.

È quanto mai necessario, quindi, quel riequilibrio del mercato che il presidente Ciampi invocava nel 2003 con il suo messaggio alle Camere. Se Mario Monti, già Commissario europeo alla Concorrenza, riceverà l´incarico dal Capo dello Stato e riuscirà a formare un nuovo governo, c´è da auspicare perciò che applichi all´anomalia televisiva italiana lo stesso rigore con cui trattò la Microsoft di Bill Gates. L´antitrust vale a Bruxelles come a Roma.

Governo tecnico? È una parola ambigua, non c´è niente di tecnico nel colpire i ceti medi e popolari Bisogna scegliere tra equità e macelleria, ed è una scelta politica

Un governo che in poche settimane faccia quel che serve al Paese: la patrimoniale, la tassazione delle rendite finanziarie, l´abbattimento delle spese militari. Solo a un programma del genere Sinistra Ecologia e Libertà potrebbe dire di sì. Per poi andare subito - molto prima del 2013 - al voto anticipato: «La medicina giusta per i mali dell´Italia resta la democrazia». Nichi Vendola è in Cina con cento imprenditori pugliesi. Un viaggio da governatore, per stringere rapporti commerciali e istituzionali. Ci risponde da Pechino, ma è come se fosse qui: «Non ho dormito affatto, ho passato la notte al telefono», dice alla fine di quest´intervista. Investito - anche lui - dallo stato di paura in cui la borsa e lo spread hanno gettato il Paese nel mercoledì nero dei mercati.

Sel apre al governo Monti?

«Non è così. Ci viene detto che urge fare una manovra per dare una risposta all´Europa e al mondo. Noi diciamo va bene, si faccia in un tempo ristretto un intervento di riforma della struttura della ricchezza, si facciano scelte drastiche in termini di tassazione patrimoniale e tassazione delle rendite, si abbattano tutte le spese militari. Poi, però, si vada subito al voto».

Queste cose può farle un governo tecnico?

«Tecnico è una parola ambigua che va messa al bando. Non c´è niente di tecnico nell´infliggere colpi ai ceti medi e popolari. Bisogna scegliere tra equità sociale o macelleria. E´ una scelta politica».

Fatta la scelta, quanto dovrebbe durare quest´esecutivo?

«Mi sembra che per fare le cose che ho detto bastino poche settimane. Dopo ci sono solo le elezioni anticipate, dentro questo Parlamento ci sono troppe infezioni».

Secondo molti andare al voto adesso sarebbe un suicidio per l´Italia.

«Chi pensava un anno fa che fosse una iattura andare alle urne deve fare i conti oggi con i danni drammatici che questi tempi supplementari del governo Berlusconi hanno inferto al Paese. C´è sempre la crisi economica per non andare al voto, ma c´è una gigantesca crisi politica che alimenta la crisi economica e che bisogna affrontare con l´esercizio della democrazia. Altrimenti spegniamo la politica e diciamo al mondo che c´è la dittatura delle istituzioni economiche e finanziarie, che i governi e i parlamenti si fanno dirigere dalle grandi banche europee e americane. E noi siamo liberi di decidere: o la macelleria sociale, o la macelleria sociale».

La strada maestra è il voto, quindi. Ora però si parla di un governo guidato da Mario Monti con dentro anche il Pdl.

«Lo trovo paradossale. Ma insomma chi ha fallito? Chi ha perso la maggioranza? Chi ha mandato allo sbando il Paese?».

Questa sembra la via indicata da Napolitano.

«Il Capo dello Stato agisce con grande rigore, secondo i compiti assegnatigli dalla Costituzione. E agisce anche con la grande responsabilità di rappresentare l´Italia di cui non ci si vergogna. Indica degli strumenti, poi però ci sono i contenuti politici e quelli non sono a disposizione di altri che non siano in Parlamento. Non mi si può chiedere, seppur virtualmente, di condividere cose che io considero dannose per l´economia e dal punto di vista sociale, come gli interventi sulle pensioni o i licenziamenti facili».

Questa posizione la allontana dal Pd?

«Io ho detto il mio pensiero, che mi risulta essere quello del segretario Cgil Susanna Camusso e del segretario pd Bersani. Voglio essere responsabile nel contribuire a un momento di pulizia e di svolta per questo Paese, non corresponsabile nel tenere in vita l´infezione berlusconiana. Senza equità sociale, senza una risposta alla crisi drammatica dei ceti popolari, sarò all´opposizione di qualunque governo».

L'applausometro al seguito del senatore Mario Monti, timoniere di un governo di emergenza nazionale dal Pdl al Pd, va di pari passo con la bordata di fischi contro le voci che invece indicano la via maestra delle elezioni. Non c'è tempo per i bizantinismi del Palazzo, meglio mettere tra parentesi la politica per dare tutto il potere all'economia.

A caratteri cubitali il messaggio viene inviato dalla prima pagina del giornale di Confindustria ("Fate presto"), per spiegare che i tempi della politica (della democrazia) sono troppo lenti e poco conciliabili con quelli della crisi finanziaria. Quindi si può al massimo concedere un rapido passaggio parlamentare per il via libera a Monti, ma chiedere agli elettori come uscire dalla crisi non si può. In altra forma, lo stesso pensiero unico è replicato sulle colonne del Corsera, in prima linea nella battaglia a sostegno «delle qualità super partes» di Monti, come scrive il direttore De Bortoli. Siccome il gettonatissimo candidato a palazzo Chigi è chiamato a salvare l'Italia con «scelte impopolari», sarà bene non mischiare l'alto incarico con gli intralci delle forze politiche (una traduzione dei famosi «lacci e lacciuoli»). Come se essere super partes e impopolari fosse oggi il valore aggiunto, la chiave di volta necessaria per uscire vivi dalle macerie del berlusconismo. Come se dopo il colossale spostamento della ricchezza del paese dal lavoro al profitto (8 punti di Pil: ogni anno 120 miliardi di euro), eredità dell'ultimo quindicennio italiano, non fosse ancora giunta l'ora di chiamare al governo una politica esplicitamente di parte, di quella parte che, altrimenti, sotto le macerie resterà sepolta.

Su queste pagine Guido Viale sottolineava il monopolio degli economisti nel dibattito sulla crisi finanziaria. Avergli delegato la "narrazione" degli eventi, che fossero liberisti e keynesiani, ha avuto l'effetto, e lo vediamo in queste febbrili giornate, di camuffare le leggi dell'economia come leggi di natura. L'abbuffata liberista che ha precipitato il mondo nel terremoto di questi anni, ora pretende di indicare la ricetta e la cura. E può farlo senza l'intralcio e l'impaccio di doverne rispondere ai cittadini.

Le dimissioni di Berlusconi sono persino difficili da credere, come è difficile svegliarsi da un incubo che ha segnato la psicologia collettiva. Tra le pesanti eredità del quindicennio, oltre al disfacimento sociale (ieri dati Istat denunciavano la cifra di cinque milioni di disoccupati: il doppio della media europea), allo svuotamento di ogni principio di rappresentanza, all'annichilimento di qualunque regola di convivenza civile, ci sono i semi avvelenati dell'antipolitica. Che ancora fruttificano, dando a un governo libero da questi partiti il colore rosso della mela avvelenata.

Giulio Malgara rinuncia alla presidenza della Biennale di Venezia. Giancarlo Galan non procede alla nomina. Paolo Baratta rimane al timone dell´istituzione, a meno che, come suggeriscono alcune voci, non diventi nuovo ministro dei Beni culturali, nell´eventuale governo Monti. Nella mattinata di ieri, l´impasse veneziana si è sbloccata. Grazie al passo indietro del pubblicitario amico di Silvio Berlusconi, che per altro arriva dopo il grande movimento di intellettuali che si sono espressi contro la sua designazione e a favore di una proroga per Baratta.

«Ci sono in ballo questioni più importanti; non volevo aggiungere un problema ai tanti che abbiamo», così Malgara ha motivato il suo improvviso "no grazie" all´incarico di guidare la Biennale. Incarico offertogli da Galan poco più di un mese fa e causa di malumori in Veneto e non solo. Nelle scorse settimane, dal sindaco di Venezia e vicepresidente del cda della Biennale Giorgio Orsoni in poi, sono stati in tanti a esprimere opinione negativa sulla scelta del ministro, che aveva diviso anche la Commissione cultura della Camera. Mentre il quotidiano La Nuova Venezia ha raccolto un record di firme illustri per sostenere la riconferma di Baratta. In 4350 hanno risposto all´appello, tra cui i rappresentati delle 30 istituzioni culturali più importanti del mondo: da Nicholas Serota della Tate Modern di Londra ai direttori del Centre Pompidou di Parigi e del MoMA di New York. Nomi che devono avere avuto un peso nella decisione finale. Dal Mibac, fanno sapere che ieri il capo di gabinetto del ministro, Salvatore Nastasi, faceva da ponte tra Galan e Malgara per ottenere la rinuncia di quest´ultimo all´incarico ed evitare così al ministro un formale passo indietro. Ma il fondatore dell'Auditel ha tenuto a precisare che non sono state le polemiche attorno alla sua designazione a spingerlo a lasciare: «In una situazione delicata sul piano politico e istituzionale mi sembrava poco opportuno procedere a questa nomina – ha detto –. Ho sensibilità per queste questioni. Mi è molto dispiaciuto».

Secca la dichiarazione del ministro Galan: «Ringrazio Giulio Malgara per avermi chiesto di non ratificare la sua nomina nonostante fossi già nelle condizioni di poterlo fare. Lo ritengo un gesto di pacificazione che rende onore a una figura il cui profilo istituzionale viene confermato da tale decisione». Per il sindaco di Venezia Orsoni, Malgara «ha dimostrato una sensibilità encomiabile e adesso vedremo cosa succederà».

Lo scenario, infatti, è ancora aperto con Paolo Baratta saldo al comando della Biennale di Venezia, anche se la sua presidenza scade il 18 dicembre. A un nuovo ministro spetterà il compito di prorogare il mandato. Intanto, entro la fine del mese, il cda della Biennale si riunirà per proporre le nomine dei nuovi direttori dei settori, primi tra tutti quelli per l´Architettura e per le Arti Visive. L´edizione 2013 dell´Esposizione internazionale, quella successiva alla direzione di Bice Curiger che si chiude il 27 novembre, nascerà sotto una stella tutta da individuare.

Negli anni trionfali di Berlusconi era possibile sostenere con molti argomenti che non si trattava comunque di un regime: ma come definire il crollare per disfacimento che è sotto i nostri occhi, l´assenza totale di ricambio all´interno del centrodestra, le fughe accelerate e talora sorprendenti, dopo gli "irresponsabili" afflussi dei mesi scorsi (talora con protagonisti non dissimili)? "Muore ignominiosamente la Repubblica" scriveva il poeta Mario Luzi alla fine degli anni settanta: allora la tragedia investiva per intero il Paese e il ceto politico, oggi il centrodestra è in gran parte approdato alla farsa. Ad una dissoluzione senza nobiltà.

All´indomani del 25 luglio del 1943 fra i tanti fedelissimi di Mussolini vi fu un solo caso drammatico, il suicidio per coerenza estrema di Manlio Morgagni, presidente dell´agenzia giornalistica di regime: "Il Duce non c´è più, la mia vita non ha più scopo", lasciò scritto. Le cronache di questi giorni ci danno, fortunatamente, una tranquilla sicurezza: Morgagni non corre proprio il rischio di avere degli imitatori, neppure incruenti, anche se la paura del suicidio (con riferimento solo alla carriera, naturalmente) è stato l´argomento più evocato nelle dichiarazioni. E con buona pace della giovane deputata del Pdl che ha assunto come suo modello Claretta Petacci.

Non si leggano però solo come farsa le cronache dei giorni scorsi, il ricomparire di transfughi o ex transfughi. C´è in realtà poco da sorridere: ci sono i sintomi di una tragedia nelle private disinvolture e vergogne che molte microscopiche vicende ci raccontano (o ci hanno raccontato nei mesi passati, con segno rovesciato). E che Cirino Pomicino sia fra gli affossatori della "seconda repubblica" è il più malinconico epitaffio sia della "prima" che della "seconda".

Sono una cosa terribilmente seria le crisi di regime. Coinvolgono nel loro insieme le istituzioni e il Paese, e conviene prender avvio dalle domande più immediate: perché questo ceto politico è riuscito a imporsi sin qui, a occupare così a lungo la scena? La legge elettorale lo spiega solo in parte, e ripropone in altre forme la stessa domanda: perché il centrodestra ha potuto riempire le sue liste di figure di questo tipo senza pagare dazio? Perché nel crollo della "prima Repubblica" è stata solo o prevalentemente questa "società incivile" ad invadere le istituzioni e non hanno trovato spazio voci diverse, espressione di un opposto modo di intendere la politica e il rapporto fra privato e pubblico?

Non ci si fermi però a queste prime e più immediate domande: quando tramonta un regime è necessario un esame di coscienza più profondo. Nel crollo della "prima repubblica" esso fu eluso addossando ogni colpa a un ceto politico corrotto, contrapposto a una società civile incontaminata: le conseguenze dell´abbaglio si videro presto ed oggi nessuno può affidarsi a quel mito. Nel dicembre del 1994, nell´imminente crisi del primo governo del Cavaliere, Sandro Viola scriveva su questo giornale: "quando Berlusconi prima o poi cadrà, sul Paese non sorgerà un´alba radiosa. Vi stagneranno invece i fumi tossici, i miasmi del degrado politico di questi mesi". I mesi sono diventati anni, quasi un ventennio, e il degrado ha superato da tempo i livelli di guardia. Con una sfiducia nella democrazia ormai dilagante, e con conseguenze pesantissime nell´insieme della società.

Poco meno di un anno fa il rapporto del Censis sul 2010 ha disegnato il quadro di un´Italia sfiduciata, percorsa da una diffusa sensazione di fragilità individuale e collettiva. Incapace di vedere un approdo, una direzione di marcia. Un´Italia "senza più legge né desiderio": ma tornare a "desiderare", a sperare, è la virtù civile necessaria per rimetter in moto la società. E per andare in questa direzione, concludeva il Censis, è necessario ridare centralità e prestigio alle leggi e alle regole. Quel rapporto segnalava anche un dato drammatico, che fu colpevolmente rimosso dall´agenda politica: gli oltre due milioni di giovani che non studiavano e non avevano lavoro né lo cercavano. Resi sempre più sfiduciati e apatici dal diffuso trionfare dei "furbetti" e delle corporazioni. Tramontate da tempo le disastrose illusioni del berlusconismo, affermava allora Giuseppe De Rita, un leader vero dovrebbe ridare in primo luogo agli italiani il senso delle loro responsabilità.

Da qui occorre ripartire, da quella "ricostruzione etica" evocata domenica da Eugenio Scalfari: una più generale ricostruzione che riguarda l´intero Paese ma che nella politica deve trovare riferimento e incentivo. Anche per questo un governo di civil servants sarebbe oggi fortemente auspicabile, segno di un´inversione di tendenza cui chiamare il Paese.

Il governo Monti è oggi una speranza per l’Italia. La speranza di voltare pagina dopo l’ingloriosa fine del ciclo berlusconiano, risalendo la china della credibilità perduta, tenendo insieme equità e risanamento, rimettendo in sesto il sistema politico a partire dalla riforma elettorale. Ma non basterà applaudire per sventare i pericoli che incombono sul Paese.

L’emergenza italiana chiede di essere affrontata con forza, oltre che con equilibrio e giustizia. Ci attendono scelte difficili, politiche severe e non si potrà fare a meno di una forte legittimazione del governo (che è cosa diversa dalla sua legittimità). Il governo Monti si forma in una condizione eccezionale: ma sarebbe inaccettabile che si affermasse come il commissariamento della politica da parte delle tecnocrazie europee o delle oligarchie economiche. Per nascere, invece, il nuovo governo deve poggiare su un’assunzione piena, esplicita di responsabilità dei partiti maggiori, a cominciare da Pdl e Pd. Nessuno può far finta di niente o fischiettare. Senza un loro impegno solenne, aperto alla convergenza di tutti, è meglio correre subito alle urne.

Votare non sarebbe un dramma. Il voto è la normalità, la bellezza, la forza della democrazia. E la democrazia non è un lusso, checché ne dicano alcuni. Non c’è responsabilità politica senza consenso. Ma proprio per questo, ciò che mancherà al nuovo governo, devono fornirglielo il Parlamento e i partiti. Un esecutivo può anche avere un profilo tecnico ed è opportuno che i partiti stavolta facciano un passo indietro dalla compagine ministeriale, innanzitutto perché la conflittualità tra Pdl e Pd appare irriducibile ma non esiste una sospensione della politica.

La piena assunzione di responsabilità per il Pd vorrà dire in primo luogo sostenere contenuti di equità nell’azione di risanamento e di rilancio della crescita. Le dimissioni di Berlusconi sono state un grande successo per le opposizioni. Non era facile vista l’ingessatura dell’attuale sistema. Non sarebbe stato possibile senza l’unità d’azione delle ultime settimane.

Bersani disse che il più antiberlusconiano sarebbe stato quello che l’avrebbe fatto cadere, non chi gridava più forte. Può segnare il punto. E può anche dire a testa alta che il suo partito è pronto a un sacrificio la rinuncia a elezioni immediate per aiutare l’Italia a compiere insieme un importante passo avanti.

La verifica dell’equità sociale però è decisiva. Compito del governo Monti sarà integrare con nuove misure le manovre di Berlusconi: come si farà? È chiaro che a pagare l’aggiunta ora dovranno essere soprattutto coloro che fin qui sono stati risparmiati. La lotta contro l’evasione fiscale va rafforzata, senza escludere misure straordinarie come la sovrattassa per gli “scudati”. I privilegi ingiusti vanno colpiti, eliminando il superfuo nei costi della politica ma anche le barriere di professioni, lobby, corporazioni e i superbonus dei supermanager. I grandi patrimoni e le rendite non potranno più essere esentate dal contributo al risanamento. La tassazione si deve spostare dal lavoro alla rendita, perché solo così può ripartire la crescita. E, siccome il costo sarà alto, tutti dovranno rinunciare a qualcosa. Ma se si può chiedere ai lavoratori di accelerare il superamento delle pensioni di anzianità, anticipando il passaggio al contributivo pro rata, deve essere chiaro che l’arma ideologica dell’articolo 18 va deposta. Neppure Confindustria chiede la libertà di licenziamento. Mario Monti non è un liberista, ma uno studioso che si è formato sull’economia sociale di mercato: a lui toccherà promuovere un nuovo patto sociale, superando quella politica di divisione del mondo del lavoro che Berlusconi ha perseguito con ostinazione fino all’ultimo.

Come scriviamo in questo numero del giornale, il governo Monti avrà anche il compito di restituire all’Italia una legge elettorale di tipo occidentale. Il che vuol dire almeno il ripristino di un rapporto diretto tra elettore ed eletto e l’eliminazione del premio di maggioranza (quel surrogato presidenzialista che ha stravolto il nostro modello costituzionale). Siamo a bivio dopo la Seconda Repubblica: o imbocchiamo davvero la via presidenziale (con elezione separata del Parlamento) o costruiamo un sistema parlamentare efficiente. Non è difficile fare in modo che il premier sia il leader del partito più votato, che la sera del voto sia già chiara al mondo la coalizione di maggioranza, che i governi durino normalmente una legislatura, che comunque il Parlamento possa sanzionare un esecutivo senza che si gridi allo scandalo.

La fase nuova che si apre avrà bisogno di più politica. L’auspicio è che le opposizioni a Berlusconi mantengano, nonostante i dubbi e le riserve di oggi, l’unità di questi giorni. Se venisse meno, sarebbe una chance in meno per l’Italia.

Postilla

A proposito di leggi elettorali. Ma le leggi non le fa il Parlamento?

Riconversione ecologica della produzione e dei consumi, democrazia economica fondata sull'autogoverno. La possibilità c'è, a patto di scardinare i diktat dei vincoli di bilancio

Prima ancora di esserne la causa - e in gran parte, ovviamente, lo è - Berlusconi è il prodotto del berlusconismo: una tabe che affligge non solo il suo entourage politico-affaristico e il suo elettorato, ma larga parte dell'establishment culturale, imprenditoriale e politico del paese (il sindaco di Firenze e il suo seguito ne sono un esempio).

E Confindustria che lo ha sostenuto fino all'altro ieri anche; e allora, di che si lamenta?). Ma gli uomini e le donne al governo dell'Europa sono anch'essi promotori e prodotto (sono prigionieri del loro elettorato; che è però quello che hanno costruito e vellicato) di un virus altrettanto grave, di cui Berlusconi non è che la manifestazione più grottesca, infame e repellente. Quel virus è il pensiero unico: la convinzione, contro ogni evidenza, che il mercato, e solo il mercato, può tirarci fuori dai guai in cui ci ha cacciati. E che per tirarci fuori dai guai, per uscire dalla crisi, occorre rilanciare la crescita: cioè sperare - e che altro, se no? - in un aumento del Pil tale da generare entrate fiscali sufficienti a pagare gli interessi e a rimborsare, un po' per volta, una parte consistente del debito pubblico. Per loro l'economia è come un'auto a cui si è imballato il motore. Basta dargli una spinta e tornerà a correre - cioè a crescere - di nuovo. Ma le cose non sono così facili; e non lo saranno mai più. E intanto, in attesa di questo miracolo, la soluzione vincente è il taglio della spesa pubblica: pensioni, sanità, scuola, trasporto pubblico, welfare municipale, pubblico impiego, salari e stipendi. E privatizzazione di tutto, contando di ricavarne le risorse necessarie a tacitare gli appetiti dei mercati, cioè di tutti coloro impegnati a produrre denaro per mezzo di denaro: banche, assicurazioni, fondi di investimento, speculatori, mafie (queste, sì, con la liquidità necessaria a fare piazza pulita di tutto quel che è in svendita: a partire dai servizi pubblici locali). Di tagliare per altre vie le unghie alla speculazione non si parla; perché quello che chiamano mercato è speculazione: senza l'una non c'è l'altro, e viceversa; simul stabunt, simul cadent. Così, invece di crescere l'economia si avvita su se stessa in una spirale che porta diritto al fallimento (default): non solo delle finanze pubbliche (a beneficio di chi le tiene in pugno), ma del sistema produttivo, della convivenza civile, dell'ambiente.

La parabola della Grecia ne è un esempio: tutti sanno - ma pochi lo dicono - che non si riprenderà più per decenni. Ma altri paesi, Italia in testa, sono già sullo stesso cammino e nessun paese dell'eurozona è più al sicuro. Per statuto la Banca centrale europea (Bce) non può fornire liquidità alle banche messe in crisi dai debiti sovrani (cioè degli Stati) che detengono: ufficialmente per non generare inflazione; in realtà per perpetuare quel blocco dei salari da cui ha avuto origine la cavalcata dei profitti degli ultimi decenni. Così, per garantire quei debiti si ricorre alla creazione di nuovi debiti in una catena senza fine (andando a chiedere l'elemosina persino in Cina) e l'Europa consegna alla finanza internazionale e alla speculazione le chiavi dell'economia: la creazione di liquidità, cioè la moneta.

Siamo alla vigilia della Cop 17, il vertice dell'Onu che a Durban (Sudafrica) dovrebbe rinnovare, estendere e approfondire gli accordi di Kyoto per ridurre in modo drastico le emissioni di gas di serra, causa dell'imminente catastrofe climatica. Scienziati di tutto il mondo ribadiscono l'urgenza di un cambio di rotta, pena la sopravvivenza stessa dell'umanità. Ma nessuno si occupa più della questione e niente evidenzia meglio l'inconsistenza e vacuità della governance europea (e di quelle del resto del mondo: tutte fautrici e insieme prigioniere del pensiero unico). Già si sa che a Durban non si concluderà niente, come niente si è concluso a Copenhagen (Cop 15) e a Cancùn (Cop 16). Se tre anni fa erano Berlusconi e la pseudo-ministra Prestigiacomo a girare l'Europa per spiegare agli altri capi di governo che certi impegni erano irrealizzabili e dannosi per l'economia, ora il loro obiettivo è raggiunto: anche se in alcuni paesi qualche passo in avanti, comunque insufficiente, è stato fatto, su questo punto, in nome della crescita, l'allineamento dell'Europa al berlusconismo è ormai completo.

C'è un'alternativa a questa spirale? Certo che c'è. E' la conversione ecologica del sistema produttivo e dei consumi: la promozione di una democrazia economica fondata sull'autogoverno e un sistema produttivo decentrato, diffuso, diversificato, esperto, riterritorializzato (a chilometri zero, ovviamente dove è possibile), replicabile in tutto il mondo: tanto nei paesi di consolidata industrializzazione che in quelli emergenti e in quelli devastati da sfruttamento e globalizzazione. Una conversione che coinvolga i settori portanti della generazione e dell'efficienza energetica, dell'agricoltura e dell'alimentazione, dell'edilizia e della cura del territorio, della mobilità e della sanità; e promuova l'autogoverno dei saperi, dei servizi pubblici e dei territori, restituiti alla loro vocazione di beni comuni; e adotti consumi più sobri e meno aggressivi verso l'ambiente: non la rinuncia ascetica né la miseria a cui la finanza sta condannando il 99% della popolazione mondiale; bensì un graduale passaggio dai consumi individuali, in cui le scelte sono imposte dalla moda, dalla pubblicità, dal marketing, dagli sprechi, a un consumo condiviso, in cui gli acquisti vengono effettuati, nel rispetto degli orientamenti di ciascuno, attraverso processi partecipati come quelli dei gruppi di acquisto solidale (Gas). E con dei veri tagli alle spese viziose: che non sono la pensione dopo quarant'anni di lavoro in fonderia, e nemmeno il prepensionamento di uomini e donne nel pieno del loro vigore cacciati dalle aziende e senza alternative; ma le spese militari, l'evasione fiscale, le grandi opere inutili e dannose, la corruzione, i costi dei politici (dei politici, non della politica: quella vera non costa quasi niente). Solo nella prospettiva di una conversione ecologica le risorse che si ricavano da tagli del genere non verranno sprecate; evitando soprattutto di pagare un servizio del debito (in Italia oltre 100 miliardi di euro all'anno) che non può che affondare il paese. Non è il vagheggiamento di una società ideale, ma un programma che risponde a un elementare senso di giustizia in un processo fatto di conflitti, di partecipazione e di organizzazione delle forze necessarie per imporre soluzioni innovative e condivise: a partire dalle situazioni di crisi occupazionale che non hanno prospettive se non nella riconversione produttiva; e dal condizionamento dei governi locali, per risalire di lì ai governi nazionali e alle governance europee e mondiali.

Ma dove sono mai le forze per imboccare una strada del genere? Quelle forze hanno fatto una comparsa a livello globale nella giornata del 15 ottobre, trascinate dall'indignazione nei confronti del modo in cui vengono governate, dalla volontà di valorizzare l'energia e l'intelligenza di una generazione messa ai margini dai poteri della finanza, dalla determinazione a non pagare i costi della crisi e i debiti contratti dagli establishment politici e finanziari al potere. Il segnale è partito dalla Spagna e le parole più chiare sono state dette a New York; ma la manifestazione più numerosa e dalla composizione più variegata di questo movimento in marcia è stata quella di Roma, dove si sono ritrovati, per la prima volta insieme, associazioni, movimenti, comitati, sindacati e persone (dai No Tav agli occupanti del Teatro Valle, dalla Fiom ai Cobas, dal Forum per l'acqua al movimento degli studenti) che da anni lavorano con tenacia a promuovere progetti e rivendicazioni tra loro diversi ma convergenti; e non è valsa a offuscarne il significato la messa in scena di una aggressività vacua e violenta.

Una cosa emerge ormai con chiarezza: entro i vincoli di bilancio imposti dalla Bce a Grecia, Italia (quelli esplicitati dalla lettera con cui Draghi e Trichet hanno definito il programma di questo come di ogni prossimo governo) e in tutta l'Europa non c'è posto né per la politica, né per la proposta, né per l'alternativa. C'è posto solo per l'obbedienza, la rinuncia, il servilismo mascherato da buon senso di tanti columnist, e una spirale che porta direttamente al default; dopo aver però devastato occupazione, redditi, convivenza civile, tessuto produttivo e ambiente. La strada stretta della conversione ecologica passa allora attraverso lo scardinamento di questo diktat ed è a senso unico.

La crisi in corso, con il salvataggio delle banche too big to fail (troppo grandi per fallire) ci fa capire quanta forza hanno in realtà i debitori. E' la condizione in cui si trova oggi il nostro paese: la sua insolvenza trascinerebbe nello stesso gorgo, insieme all'euro, tutta la costruzione dell'Unione europea e le economie sia deboli che "forti" di tutti gli altri paesi. Ci sono dunque le condizioni per imporre una ristrutturazione radicale e selettiva del debito pubblico italiano attraverso un negoziato condotto insieme ai paesi cosiddetti Pigs, tutti esposti alla stessa deriva. Cominciando così a sgonfiare la bolla del debito che dai mutui subprime alle banche e agli hedge fund, e da quelle agli Stati che le hanno salvate, e dagli Stati di nuovo alle banche e poi di nuovo agli Stati, continua e continuerà ad aleggiare sul continente, sconvolgendone tutto il sistema produttivo; e buttando a terra uno a uno come tanti birilli tutti gli Stati dell'Unione.

Non sarà l'attuale governo - né il prossimo - ad avviare un negoziato del genere; ma questo è il discrimine intorno a cui raccogliere e ricostruire un'autentica forza di opposizione. Anche per salvare l'euro; e l'Europa che vogliamo.

Per essere un maximendamento che dovrebbe far crescere l'economia, bisogna ammettere che è stato fatto lo sforzo diametralmente opposto. La parola più usata nel testo è infatti «riduzione». Dalle spese dei singoli ministeri, a quelle degli enti locali e dei dipendenti pubblici. Definitivo l'intervento sulle pensioni, dove si fissa per la vecchiaia l'età minima di 67 anni. Nuovi tagli agli enti locali, che dovranno vendere «obbligatoriamente» tutte le quote detenute nelle società che gestiscono servizi pubblici: se non lo faranno potranno essere rimossi dal loro incarico. Per essere un maxiemendamento che dovrebbe far «crescere» l'economia bisogna ammettere che è stato fatto lo sforzo diametralmente opposto. La parola più usata nel testo è infatti «riduzione». Delle spese dei singoli ministeri, di quelle degli enti locali di ogni ordine e grado, dei dipendenti pubblici. L'elenco appare quasi sterminato.

C'è il nuovo intervento «definitivo» sulle pensioni, che fissa per la vecchiaia l'età minima di 67 anni. Tutti meccanismi di «adeguamento» dell'età pensionabile alle «aspettative di vita» vengono accelerati in modo tale da portare tutti a questo limite entro il 2026. Proprio il tema su cui Bossi e la Lega avevano dichiarato una propagandistica «linea del Piave».

Nulla di nuovo nemmeno per quanto riguarda la dismissione degli immobili pubblici non residenziali, da «conferire a fondi comuni di investimento immobiliare» o società private «anche di nuova costituzione». L'incasso servirà a ridurre il debito pubblico e si punta a ricavare 4,8 miliardi. Stessa procedura per i terreni agricoli - anche delle «aree protette» - del demanio, che potranno essere ceduti a trattativa privata fino a 400.000 euro di valore (poi scatta l'obbligo di asta pubblica). Con il più la norma-belletto della «corsia preferenziale» riservata ai «giovani imprenditori agricoli».

Gli enti locali vengono aggrediti su più lati. Debbono ovviamente «contribuire a ridurre il debito pubblico», e quindi si tagliano ai loro bilanci altri trasferimenti (745milioni nel 2012, 1,6 miliardi l'anno successivo). Ma debbono anche vendere obbligatoriamente tutte le quote detenute nelle società che gestiscono servizi pubblici. Per «convincerli» vengono utilizzati diversi strumenti. Per esempio, si tagliano 926 milioni al «sostegno di sviluppo del trasporto». Ma si dispone anche la «liberalizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica» (come nel vecchio decreto) con un'aggiunta. Se non lo faranno entro i termini stabiliti (31 marzo 2012 per gli «affidamenti diretti», entro il 30 giugno per le società miste), i prefetti avranno il potere di fissare un «termine perentorio» entro il quale eseguire l'ordine. Trascorso il quale li rimuoveranno dalla carica commissariando l'ente locale. Ciò vale - tranne che per l'acqua - anche per tutti quei servizi che ricadono tra gli effetti del referendum dello scorso giugno. In questo modo, insomma, si eliminano le «possibilità di resistenza» dei tanti sindaci che puntavano a ricorrere in tribunale contro queste disposizioni.

Confermata anche la riforma degli «ordini professionali», la «semplificazione dei pagamenti» da parte delle amministrazioni pubbliche verso fornitori o appaltisti. E nello stesso spirito si muove la «riduzione degli oneri amministrativi per imprese e cittadini»; ovvero le «zone a burocrazia zero», dove è permesso praticamente di tutto se gli organi di controllo (comuni, ecc) non rispondono alle richieste entro un determinato tempo. Ivi compresa la necessità di presentare «certificati», dando per scontato che l'amministrazione pubblica li possa acquisire per vie interne.

Amministrazione che però viene completamente ridisegnata con la possibilità di mettere in «mobilità» il personale in eccesso. Dovranno farlo per forza, perché anche qui i dirigenti inadempienti rischiano grosso. Fatta la «comunicazione» ai sindacati, si provedde a ricollocarli in altra sede, anche in altra regione. Dopo tre mesi vengono messi in «disponibilità» con stipendio ridotto del 20% e senza tener conto di «altri emolumenti comunque denominati» (che costituiscono quasi sempre una componente elevata della retribuzione finale). Dopo due anni, se non si trova o non si accetta un altra sede, si è fuori.

Confermata infine, tra le tante cose che non c'è stato il tempo di studiare, anche la definizione della Val di Susa come «area di interesse strategico nazionale». Entrarci «abusivamente» e «impedire o ostacolare l'accesso autorizzato» (ai mezzi e alle persone che vi devono lavorare) «è punito ai sensi dell'art. 682 del codice penale» («contravvenzioni concernenti l'inosservanza dei provvedimenti di polizia e le manifestazioni sediziose e pericolose»). A quanto pare, l'unica «crescita» possibile con un decreto del genere è quella dei processi in tribunale...

Il governatore ora apre alle modifiche "Ogni indicazioni è ben accetta". Incontro a Roma per i danni dell´alluvione con i rappresentanti del governo

La tragedia delle alluvioni che hanno devastato l´area spezzina e Genova, riapre la partita delle costruzioni vicino ai corsi d´acqua: torna in discussione il regolamento approvato nel luglio scorso dalla giunta regionale, che riduce da 10 a 3 metri la distanza minima dai corsi d´acqua entro cui è vietato edificare. A rimettere le carte in tavola è il presidente della Regione, Claudio Burlando, cui ieri il governo ha comunicato che arrivano i fondi europei attesi da due anni e mezzo e che potrà utilizzarne una parte, tra i 20 ed i 30 milioni, per i danni alluvionali. La questione delle costruzioni vicino ai corsi d´acqua è stata rilanciata in questi giorni dalle associazioni ambientaliste, WWF, Legambiente e Italia Nostra, che chiedono la revoca del regolamento, e ripresa dal consigliere regionale di Rifondazione Alessandro Benzi. Il presidente della Regione Claudio Burlando risponde: «È nostro interesse avere grande rigore per cui al consiglio regionale dico: fate una commissione, invitate le associazioni, sentitele e diteci secondo voi cosa non va bene. Se le proposte saranno ragionevoli, le prenderemo in considerazione».

Dunque, la palla passa al consiglio regionale e proprio ieri la commissione consiliare Territorio si è occupata di norme urbanistiche e permessi a costruire con una serie di audizioni con gli ordini professionali sulla legge proposta dal vicepresidente della giunta Marylin Fusco sui casi di silenzio assenso. «Queste non sono giornate di polemica ma è tempo di assumersi una responsabilità e rivedere quello che è possibile: dunque penso che vada ripensata tutta la normativa con un dibattito approfondito». Tradotto: l´esame dei provvedimenti in commissione non sarà breve.

Ma tornando alle costruzioni vicino ai corsi d´acqua, se WWF Legambiente e Italia Nostra contestano il pericolo derivante dall´aver accorciato la distanza dell´area interdetta alle costruzioni, il presidente della Regione spiega come nasce e perché la giunta ha approvato questo regolamento. «Questa proposta non proviene dai settori tipicamente accusati di voler fare, ma dall´ambiente, dalla dirigente nota per essere attenta alla tutela del territorio: ci ha spiegato che in questo modo la tutela è maggiore». Difficile, però, pensare che si possa garantire maggiormente dai rischi idraulici, restringendo da 10 a 3 metri la fascia della non edificabilità. O no? «I tecnici ci hanno invece spiegato che i dieci metri erano solo una distanza teorica, che fioccavano le deroghe e che venivano adottate dagli enti senza che la Regione le vedesse. Allora abbiamo provato a mettere un regolamento nuovo». Non era più facile prevedere che ai 10 metri non si deroga? «Il nuovo regolamento recita che non è possibile dare alcuna autorizzazione che comporti un aumento del rischio idraulico. Dopodiché, se scavi come a Rapallo, per fare il depuratore sottoterra vicino al torrente, non metti ostacoli al deflusso delle acque. Premesso questo, ripeto che se ci sono proposte ragionevoli le prenderemo in considerazione».

Burlando tra l´altro proprio ieri è stato a Roma dove, «in un clima da ultimo giorno di Bisanzio» come l´ha definito lui stesso, ha incontrato il capo della Protezione civile, Gabrielli, i ministri Fitto, Matteoli e Prestigiacomo e il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta. Le garanzie per il risarcimento dei danni alluvionali e per ripristinare le infrastrutture, per ora vengono dai fondi Fas: sono sbloccati i 288 milioni di euro che la Liguria aspetta da due anni e mezzo. La Regione potrà utilizzarne una quota tra i venti ed i 30 milioni per affrontare l´emergenza alluvionale. «Vedremo quanto e come - dice Burlando - valutando se in questi anni qualche progetto si è perso per strada e se ci sono delle economie», anche perché quei finanziamenti arrivano per progetti già individuati. L´altra novità riguarda l´impegno del ministero delle infrastrutture, «che attiverà un tavolo tecnico anche con Anas perché serve anche un´attività di progettazione delle strade da ricostruire: nello spezzino ci sono 250 chilometri di strade inagibili». Infine, è piaciuta l´ipotesi di mantenere l´accisa sui carburanti nata per l´emergenza Libia e utilizzarne i proventi per i danni delle alluvioni. Ma per vararlo ci vorrà una norma, sia pure un atto amministrativo e non una legge, da parte di ministeri e governo che in questi giorni sono in tutt´altro affaccendati.

Non si parla che di riforme. Ogni misura di politica economica è annunciata come una riforma anche quando si tratta di normale amministrazione. Il termine si è inflazionato. Riforme dovrebbero essere quelle che cambiano la struttura di un sistema, non quelle che ne modificano i parametri, come l´età pensionabile o il livello della contrattazione salariale. L´accento sulle cosiddette riforme è posto tutto sulla contrazione dei costi e in particolare di quelli del lavoro: decentramento dei livelli di contrattazione, flessibilità dei contratti (per non dire licenziamenti), mobilità del lavoro, ecc... E non si parla d´altro che di liberalizzazioni, privatizzazioni, semplificazioni e riduzione del peso della burocrazia.

Ora non c´è dubbio che interventi di modernizzazione e di razionalizzazione siano opportuni. Ma è assai dubbio che si traducano in un forte stimolo alla crescita nel tempo breve, anzi brevissimo, di cui disponiamo. Perché il passo fondamentale per avviare un ciclo di crescita robusto e duraturo non può che consistere nell´espansione della domanda aggregata la quale, oltre a trainare la ripresa dell´occupazione, avrebbe un effetto benefico sul gettito fiscale e quindi sulla tenuta dei conti pubblici e sulla fiducia dei mercati.

La questione fondamentale per suscitare la crescita, dunque, è la "domanda". Ma come attivarla? Uno dei pilastri per ottenere un´espansione della domanda è rappresentato da un piano di investimenti pubblici nelle infrastrutture e nella riconversione ecologica dell´economia.

In Italia il finanziamento di un piano per la crescita potrebbe provenire in primo luogo da un´imposta patrimoniale dell´ordine di 15 miliardi di euro all´anno che si protragga per almeno tre o cinque anni. Nel contempo, in questo momento difficilissimo per la tenuta delle finanze pubbliche, andrebbero attivate le grandi imprese a partecipazione statale come Eni, Enel e Finmeccanica e andrebbe coinvolto il sistema bancario, non solo per motivi di solidarietà nazionale ma anche perché il rilancio della crescita avrebbe l´effetto di far risalire le quotazioni azionarie delle grandi imprese e delle banche che oggi sono pesantemente sottovalutate a causa del "rischio Italia".

In Europa il finanziamento di un piano per la crescita dovrebbe avvenire attraverso due interventi da attuare simultaneamente: l´emissione degli Eurobonds e il varo della tassa sulle transazioni finanziarie che permetterebbe di pagare la spesa per interessi sulle obbligazioni europee.

Il rilancio della crescita dell´economia italiana ed europea avrebbe un effetto importante sulla fiducia che è essenziale per alimentare la circolazione della moneta e per riattivare il credito bancario alle famiglie e alle imprese. Perché oggi le banche europee a causa delle fosche prospettive di crescita hanno degli attivi che sono diventati sempre più illiquidi e tendono a mettere a riserva oppure ad impiegare in attività speculative la liquidità che si possono procurare a basso costo dalla Banca Centrale Europea.

Inoltre, è di cruciale importanza rovesciare le convinzioni dominanti che considerano i redditi da lavoro come gravami da minimizzare piuttosto che fattori di benessere da promuovere: come vincoli e non come obiettivi. Il fatto è che è proprio nel mostruoso aumento delle disuguaglianze sta l´origine della crisi attuale. Alle origini della crisi americana, trasmessa poi all´Europa, c´è un colossale indebitamento generato dalla necessità di evitare la contrazione della domanda associata alla stagnazione dei salari. Quelle disuguaglianze oggi non si sono ridotte ed anzi sono state accentuate dallo spostamento del debito privato su quello pubblico e quindi dalla necessità di tagliare le prestazioni sociali per far quadrare i conti. E le agenzie di rating che avevano tranquillamente garantito i conti di imprese fallimentari oggi non si stanno facendo scrupoli nel declassare gli Stati in difficoltà.

La verità è che nel capitalismo finanziario il problema cruciale è quello della distribuzione della ricchezza. La crescita comporta uno spostamento della ricchezza concentrata in misura sproporzionata verso i livelli più alti.

Ma quale crescita dobbiamo avere in mente nel periodo attuale? Crediamo che l´obiettivo prioritario non debba essere di tipo quantitativo. Oggi dobbiamo puntare su di un´economia della sostituzione e dell´efficienza che ci porti verso una condizione di "stato stazionario di natura dinamica". Cioè dobbiamo impegnarci verso la costruzione di un´economia in cui il prodotto totale non continui ad espandersi indefinitamente ma che punti invece su uno sviluppo di qualità.

Una più equa distribuzione del reddito e una produzione ecologicamente più equilibrata: ecco le vere riforme di un capitalismo che ci sta trascinando verso un´età dei torbidi.

Il salto d'epoca si materializza attorno alle 8 della sera. Non è solo la decisione delle dimissioni di Berlusconi ad annunciarlo. E' il combinato disposto del comunicato del Quirinale, in cui la decisione del premier viene messa nero su bianco, e della nuova missiva in arrivo dalla Commissione Ue, anticipata in contemporanea sul sito di Repubblica. Il ventennio berlusconiano finisce nello stesso momento in cui quel che resta della sovranità nazionale italiana viene messa al guinzaglio dalla governance europea. La talpa della religione neoliberista ha scavato di più della millantata rivoluzione liberale del mago di Arcore.

Solo un'ora prima, a colloquio in corso fra Berlusconi e Napolitano, la ridda delle ipotesi e controipotesi sulla crisi di governo ormai certificata dal voto sul rendiconto pareva avviata su più consueti binari, sia pure controllati dal semaforo della Ue e dominati dal feticismo dei mercati e dello spread. Intervistato dal Tg3 delle 19, Giuliano Ferrara raccontava che Berlusconi era salito al Colle mezz'ora prima diviso fra due diverse ipotesi, a loro volta sostenute da due diverse tifoserie. La prima, tifoseria di Ferrara medesimo e pochi altri: lanciare un appello all'opposizione per ottenerne l'appoggio in Senato sulle misure anticrisi annunciate al G20, garantendo di dimettersi subito dopo per andare risolutamente alle elezioni. La seconda, tifoserie varie Pdl e Lega, meno votate al rischio elettorale e fermamente incollate agli scranni parlamentari: fare il famoso passo a lato e adattarsi a favorire la nascita di un governo Alfano o chi per lui, con la speranza di allargare la maggioranza di quanto basta per tentare di arrivare a fine legislatura. Due alternative corrispondenti a due opposte filosofie; posta in gioco, il senso del ventennio berlusconiano da consegnare alla storia. Nel primo caso, un Berlusconi terminale ritrova il Berlusconi delle origini e sfida le urne rivendicando tutto il peso del suo ventennio, puntando i piedi sull'irreversibilità del bipolarismo, riproponendosi - dio solo sa come - come l'unica personalità in grado di affrontare la crisi europea senza inchinarsi più del dovuto ai relativi diktat: se funerale del berlusconismo dev'essere, che sia almeno un funerale in grande. Nel secondo caso, un Berlusconi terminale si mette la maschera del leader responsabile, garantisce i suoi passando il testimone, ma accettando di sfigurare il ventennio nel suo contrario, ovvero nel rito grigio e trito di una manovra parlamentare da prima Repubblica di sapore democristiano, esattamente ciò contro cui aveva detto di essere sceso in campo nel '94: un funerale mestissimo e di seconda classe.

All'uscita dal Quirinale, mentre agenzie e siti italiani e stranieri battono le sue dimissioni attese in tutto il mondo, Berlusconi sa e dice che ormai le cose non sono più nelle sue mani ma in quelle di Napolitano. Non scioglie del tutto il suo dilemma, ma si dichiara nettamente a favore della prima alternativa: dopo di lui, elezioni. Dopo di lui, governo di transizione, replica un Bersani soddisfatto ma ben consapevole che Berlusconi si è dimesso ma non è scomparso, e che la situazione economica e finanziaria è «delicatissima». A misure anticrisi approvate, si apre il gran ballo delle consultazioni. L'epoca però è improvvisamente cambiata. Non si tratta più solo, né per il Cavaliere né per l'opposizione, di dare adeguata sepoltura al ventennio berlusconiano barcamenandosi fra la seconda Repubblica mai nata e la prima che può sempre tornare. Si tratta di ereditare un sistema economico e sociale massacrato e sottoposto a 39 quiz stilati nell'inglese standardizzato delle istituzioni economiche, non politiche, sovranazionali. Al funerale del berlusconismo, qualcuno si ricordi di dire che Berlusconi e Bossi non ci facevano caso, ma Arcore e la Padania stavano in Europa.

Ci sono due scene, nel fine regno di Berlusconi, che dicono la sua caduta con crudezza inaudita: più ancora del voto del rendiconto dello Stato che ha attestato, ieri, lo svanire della maggioranza.

Ambedue le scene avvengono fuori Italia, trasmesse dal mezzo che Berlusconi per decenni ha brandito come scettro: la tv. La prima è il riso di Sarkozy e Merkel, quando una giornalista chiede se Roma sia affidabile. È l´equivalente del lancio di monete su Craxi: un´uccisione politica.

La seconda scena è del 4 novembre, dopo il G20 a Cannes, e forse è quella che parla di più. Con volto tirato, stupito, il Premier ripete che di crisi non c´è traccia, che «per una moda passeggera» i mercati s´avventano sul nostro debito sovrano: «Noi siamo veramente un´economia forte, la terza economia europea, la settima economia del mondo... la vita in Italia è la vita di un Paese benestante, in tutte le occasioni questo si dimostra... i consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, con fatica si riesce a prenotare posti negli aerei, i posti di vacanza nei ponti sono assolutamente iperprenotati... ecco, non credo che voi vi accorgiate, andando a vivere in Italia, che l´Italia senta un qualche cosa che possa assomigliare a una forte crisi! Non mi sembra!»

Vale la pena soffermarsi su questa frase - su questo «non credo», «non mi sembra» - perché in pochi secondi apprendiamo quel che è stato, ed è, il berlusconismo: l´apparenza che usurpa il reale, e il vocabolario di tale usurpazione. Non è il linguaggio della politica, che anche quando s´ingarbuglia s´adatta astuto alle circostanze. Non è neanche il linguaggio di una classe: in questo caso, di un imprenditore sceso in politica perché messo alle strette dalla giustizia. È il linguaggio dello spot promozionale: insistente, sempre eguale a se stesso, sempre indirizzato al cittadino che di politica non vuol sapere, sempre pronto ad annusare il possibile cliente in chi sta appeso alla Tv.

Per il pubblicitario non c´è crisi, non ci sono precipizi, ma un mondo liscio, parallelo a quello - reale - che sta «là fuori». Nei disastri il pubblicitario c´è o non c´è a seconda delle convenienze: iper-presente all´Aquila, iper-latente in Liguria e a Genova. In pieno sfascio economico la réclame non smetterà di esibire sontuosi sofà, mogli che corrono ai centri benessere, lussuose automobili che una giovane coppia, piccata, non compra perché le ritiene, nientemeno, «troppo poco care». Ecco, il quasi ventennio Berlusconi è stato questo: uno show che dominava le menti anche se sporadicamente governava la sinistra. Un Truman Show, che alla fine beve il cervello stesso del suo demiurgo.

Ricordate il finale del film? È il risveglio che Eugenio Scalfari invoca nell´articolo di domenica. Truman, l´eroe in fuga, giunge ai limiti estremi di quello che crede essere il mondo ed è invece un immenso studio Tv. Col proprio veliero cozza contro una parete che s´erge all´orizzonte e simula, tutta dipinta d´azzurro, il cielo ai confini con le acque (lo spazio azzurro dei fan di Berlusconi, nel sito Pdl). Dalla cabina di regia è interpellato dal capo della Grande Manipolazione, Christof, e Truman che ha scoperto la verità gli chiede: «E io chi sono?» - «Tu sei la star» - «Non c´era niente di vero...» - «Tu, eri vero. Per questo era così bello guardarti. Ascoltami Truman, là fuori non troverai più verità di quanta ne esista nel mondo che ho creato per te: le stesse ipocrisie, gli stessi inganni, ma nel mio mondo, tu non hai niente da temere... Io ti conosco meglio di te stesso. Tu hai paura. Per questo non puoi andar via». La sfera di cristallo s´infrange quando Truman scoppia a ridere, recita la frase-spot che ripeteva nel finto villaggio, e esce dallo show: «Caso mai non vi rivedessi... Buon pomeriggio, buona sera e buona notte! Già..».

Accade così il risveglio ma non sarà facile, perché quasi tutti hanno concorso alla costruzione della sfera con nuvole, notti, cieli finti. Perché tanti si sono abituati alle frasi-spot, all´infantile ecolalia. Anche la sinistra ha concorso, fin da quando permise che un proprietario di reti tv si candidasse a premier. Non dimentichiamo come finirono i governi Prodi, affossati da chi pretendeva sostenerli e parve ignaro che il tycoon perdeva magari il governo ma non il potere. L´ultimo esecutivo di sinistra, nel 2006-2008, fu considerato fallimentare dagli stessi alleati di Prodi perché troppo rigoroso in economia, troppo preoccupato di sincronizzare i tempi italiani con l´orologio europeo. Chi nomina ancora in pubblico Vincenzo Visco, dipinto dalla destra come Dracula assetato di sangue perché in lotta con l´evasione fiscale? Eppure Tremonti ha dovuto riesumare non poche sue misure: oggi l´evasore è ritratto come insetto parassita, parola che Visco non usò.

L´altro giorno, intervistato da Lilli Gruber a 8½, Enrico Letta è stato evasivo sull´austerità. Senza Berlusconi, ha detto, noi «non abbiamo davanti un tempo di drammi quanto alle misure da prendere. L´Italia è un Paese che ha fondamentali assolutamente solidi, forti. Ha imprenditori, ha lavoratori, ha ricchezze, ha patrimoni. L´Italia ha tante, tante, tante possibilità di farcela! Noi non siamo la Grecia! Siamo proprietari delle nostre case, proprietari in buona parte del nostro debito pubblico. L´Italia ha la ricchezza!» Che dovremo fare, caduto questo governo? Ci salveremo «facendo scelte che indichino la terra promessa. Perché ci sono una serie di importanti riforme che non sono fatte solo per sacrificarsi: ma per cambiare ed essere migliori!» Tutto questo è vago, e non così diverso, in fondo, da quanto detto dal Premier a Cannes. Perfino certi suoi tic verbali sono ripresi: l´ubiquo avverbio "assolutamente", o le infantilizzanti parole a raffica (tante tante tante possibilità, riecheggianti la grande grande grande riforma giudiziaria). Non è vero quello che si legge in queste ore: «Berlusconi non esiste».

Centro e sinistre si stanno dimostrando responsabili, ma non è evidente che abbiano, della crisi, una visione davvero chiara. Che siano pronti ad affrontare il tema destinato per volontà del Premier a sovrastare la campagna elettorale: l´Europa. Nell´attacco il centrosinistra è bravo. Molto meno nel contrattacco. Continuerà a denunciare il commissariamento, o lavorerà su misure più eque ma per noi necessarie? E come replicherà allo spot di Berlusconi, secondo cui è colpa dell´euro se stiamo male? Possibile che nessuno gli ricordi che al governo c´era lui, quando l´euro fu introdotto nel 2002 e i prezzi s´impennarono senza trasparenza né controllo alcuno? Dovrebbe far riflettere il fatto che il dibattito interno al Pd, o la battaglia europea su una vera Banca centrale, prestatrice di ultima istanza, avvengano soprattutto sul Foglio.

Uscire dal Truman Show significa rifare le istituzioni italiane, oggi sfatte. Non è chiaro se la sinistra darà alla Rai l´indipendenza dai partiti che possiede la Bbc. Se lotterà in Europa per trasformarla in qualcosa di più democratico e sovranazionale. Se riempirà di contenuti i discorsi sull´etica pubblica, combattendo corruzione, cricche, mafie. Se vorrà la legge elettorale reclamata dai cittadini, e candiderà parlamentari debitori verso gli elettori, non i partiti. Se contrasterà l´inadeguatezza e i fallimenti della seconda repubblica senza proporre tutti i mali della prima. Promettono male, i posti nelle liste di centro sinistra garantiti ai transfughi Pdl.

Non so cosa intendesse Prodi, quando domenica su Repubblica ha detto che «Bersani è una persona eccellente, di grandi capacità, ma non riesce a "uscire"». A me pare che parlasse di un´uscita dal deserto del reale: dal Truman Show. Berlusconi scimmiotta Mao: «Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente». Siamo sicuri che non lo scimmiotti anche la sinistra? I sogni utopici, dice Slavoj Žižek, eliminano il "rumore di fondo": cioè la realtà. Siamo sicuri che questo rumore sapremo udirlo, capirlo, restituirgli uno spazio?

L'inedita convergenza tra un gruppo di giuristi e associazioni militanti ha posto le basi in Italia di un movimento maggioritario, che non ha però ancora una traduzione politica. Da qui la proposta dei due autori per alcune iniziative referendarie tese a ricreare quella felice alleanza sociale per contrastare la violenta campagna denigratoria avviata dai poteri forti per normalizzare il paese

Sebbene sia stata rapidamente archiviata, la proposta del leader socialista e ex premier greco Georges Papandreou di un referendum attorno alle proposte dell'Unione europea per fronteggiare la crisi del paese ellinico offre una preziosa occasione per riflettere sul senso e sul futuro della battaglia per i beni comuni, divenuta politicamente rilevante in Italia dopo l'esito dei referendum per l'acqua pubblica e il nucleare.

Il linguaggio nuovo dei beni comuni, l'impegno politico di tantissimi uomini e donne attorno alla gestione dei beni comuni ha portato a un voto popolare che ha mostrato le potenzialità di una nuova egemonia culturale e politica nel paese, con una base sociale trasversale che supera la tradizionale contrapposizione fra destra e sinistra; e che rende la costruzione di una «società dei beni comuni» una sfida entusiasmante e possibile, perché riesce a cogliere la tendenza, ampiamente diffusa nel paese, che ha nel rifiuto delle delega al sistema politico uno dei tratti più evidenti. Sono inoltre uomini e donne che sfuggono alla melodia stonata delle sirene dell'antipolitica, ponendosi allo stesso tempo l'obiettivo di costituire laboratori tesi alla individuazione di soluzioni ai disastri sociali prodotti dal neoliberismo.

Indignazione alle stelle

Il paragone non risulti irriverente, ma così come sul finire degli anni Settanta del Novecento è stata la destra economica e politica a rispondere ai problemi posti dalla crisi petrolifera attraverso la produzione di una ideologia e una piattaforma culturale preparata da accademici reazionari come Milton Friedman, Friedrich Von Hayek e Ludvig Von Mises, l'operazione da compiere oggi è la stessa, ma di segno contrario. Infatti, di fronte a una crisi economica ben più drammatica, l'obiettivo è di sviluppare una griglia concettuale e una weltanschauung incardinata proprio sui «beni comuni» e che ha tutte le capacità per neutralizzare la naturalizzazione bipartisan del neoliberismo, proposta, sul piano globale, da Bill Clinton e Tony Blair; dai «governi tecnici», invece, a livello italiano. Va dunque fatto tesoro di quanto è accaduto nella cosiddetta «primavera italiana».

In giugno, infatti, oltre all'intero elettorato dell'opposizione parlamentare, una parte rilevante dell'elettorato cattolico conservatore e della Lega Nord ha votato a favore dei due referendum, producendo nelle urne una promettente alleanza fra componenti della borghesia «per bene» e la sinistra radicale. E sempre nelle urne questa alleanza ha garantito il successo di Luigi De Magistris e Giuliano Pisapia nelle elezioni amministrative.

L'esito dei referendum e delle elezioni amministrative era impensabile data la rappresentazione che era fatta dai media rispetto i rapporti di forza nella società e nell'arena politica. Va ricordato che due anni fa veniva approvato, con un voto di fiducia alla Camera, il Decreto Ronchi per la gestione dell'acqua. Tutto quanto infatti deponeva a favore di un'accettazione rassegnata del decreto Ronchi, alla luce anche della «presa in giro» avvenuta nella sala Nassirya, dove ad accogliere Giovanni Conso e Stefano Rodotà, relatori autorevoli della proposta di legge sull'acqua pubblica presentata dalla regione Piemonte (che non è stata ancora discussa), c'erano senatori di ogni schieramento politico. Poche ore dopo, nello stesso giorno, la Camera ha però votato lo stesso la fiducia sul decreto Ronchi. È in quel contesto che è avvenuto un «moto di indignazione» che ha portato un gruppo di giuristi, compresi quelli che scrivono, a redigere, per conto del Forum dei movimenti per l'acqua, i quesiti referendari sull'acqua bene comune e a istituire il Comitato referendario SIacquapubblica, assorbito da una produttiva dialettica politica fra accademia e movimenti sociali che si è espressa nella mobilitazione per la raccolta delle firme per il referendum.

I successivi mesi di lavoro politico e giuridico, con il record nelle firme raccolte e l'insperata dimensione del successo in Corte Costituzionale, hanno segnato l'inizio di un entusiasmante processo politico nel paese capace di utilizzare un linguaggio nuovo che chiedeva di cessare immediatamente il saccheggio dei beni comuni e di «invertire la rotta» per porre le basi di un «governo democratico dell'economia» radicalmente alternativo alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni, parole chiave del dogma che ha regolato le politiche economiche in molti paesi europei e non solo.

I referendum di giugno possono quindi essere considerati l'anticipato equivalente funzionale della proposta referenderia in Grecia. In Italia, come ad Atene nei giorni scorsi, era il popolo sovrano, e non soltanto l'accademia o una commissione ministeriale come quella presieduta da Rodotà, a dover esprimersi contro le politiche di austerità e il saccheggio dei beni comuni.

Un bilancio eversivo

L'esito dei referendum è noto a tutti. Minore attenzione è stata posta sul dispositivo messo in campo per contrastare quella straordinaia produzione di egemonia in un paese importante come l'Italia. La lettera firmata da Trichet e Draghi così come la manovra di Ferragosto (puntualmente impugnata in Corte Costituzionale) altro non sono che il tentativo di imporre, con una modalità per certi versi eversiva dell'ordine costituito, un governo tecnico o un governo del presidente che rilanciasse politiche di austerità e che cancellasse l'esisto del referendum. La critica contro l'articolo 41 della Costituzione - quello che stabilisce la libertà di iniziativa economica, sempre che non sia in contrasto con la sua utilità sociale, prefigurando così forme di controllo su di essa - e la campagna per la costituzionalizzazione della golden rule (il pareggio di bilancio) costituiscono infatti vere e proprie campagne per ridimensionare la portata politica del tema dei beni comuni.

Anche in questo caso, se il parallelo non fosse troppo irriverente, l'attacco all'articolo 41 e la costituzionalizzazione della golden rule possono essere comunque considerati un vero e proprio processo costituente messo in campo dai poteri forti per normalizzare la stituazione italiana. La risposta deve dunque essere adeguata, ma anche questa volta di segno contrario. Serve cioè un nuovo momento costituente di popolo per porre al centro della scena pubblica la questione democratica e dei beni comuni. Non è però una strada in discesa. Né un pranzo di gala, come attesta la campagna diffamatoria, e bipartisan, contro il movimento NoTav. D'altronde la posta in gioco è alta e riguarda la traduzione politica di questo nuovo blocco sociale egemonico nel paese.

Ci sono già alcune iniziative che indicano la strada da percorrere. A Napoli, la costituzione di Abc Napoli e l'assessorato ai Beni Comuni è un primo passo per mostrare come si possa rispettare la volontà popolare e, al tempo stesso, di come possano essere meglio gestiti senza scopo di lucro i servizi pubblici di quanto non faccia il privato azionario (o il pubblico colluso). A Roma il Teatro Valle occupato da quasi cinque mesi mostra un metodo dal basso, fondato sull'azione diretta e la democrazia radicale, di come la cultura possa essere pensata un bene comune. In Valle di Susa un'intera popolazione si batte per la salvezza del bene comune territorio. Sono, queste, solo alcune delle iniziative attorno ai beni comuni che hanno messo radici in Italia.

Oggi la partita per il modo e le circostanze che potrebbero rendere traducibile la nuova egemonia in rappresentanza politica è aperta e la violenza verbale utilizzata contro la battaglia dei beni comuni da qualche giornalista (Pietro Ostellino sul Corriere della Sera di sabato scorso) mostra che i poteri forti hanno paura della democrazia in Italia in nome della difesa dei «mercati».

La battaglia per i beni comuni deve infine mostrare la capacità di prefiguare una rifondazione di un settore pubblico forte, autorevole e trasparente, capace di contrapporre una visione alta, prodotta in rapporto con le migliori intelligenze del paese, alla visione asfittica e di breve periodo dei poteri forti europei e dei loro garanti nazionali.

Tutto ciò pone con altrettanta evidenza la centralità dei mezzi necessari affinché la battaglia in difesa dei beni comuni risulti vincente. Nonostante la proposta sia stata ritirata, il referendum greco (e prima ancora quello islandese) è da considerare uno strumento adeguato per restituire la sovranità al popolo: quella stessa sovranità che l'Unione europea pensa essere un attentato alla stabilità economica e politica del vecchio continente. Occorre a questo fine costruire le condizioni per creare un grande movimento politico e sociale che non lasci, ad esempio, sola la Fiom nella battaglia referendaria già decisa sull'articolo 8 della manovra di Ferragosto. In altri termini, dobbiamo elaborare un pacchetto di referendum altamente simbolici sui beni comuni, accomunati tuttavia dalla stessa visione politica

Appagante parsimonia

Innanzitutto una serie di referendum legati alla cultura bene comune che fra loro condividano lo spirito del Teatro Valle occupato; uno contro l'Università azienda; uno contro la la Rai lottizzata e piegata alla volontà partitocratica; uno contro un'editoria che vuole condannare al silenzio voci libere e critiche. Identificheremo poi un referendum legato alla questione difesa, che consenta di ribadire ai troppi che se ne sono scordati, che l'Italia ripudia la guerra e che molti soldi si possono risparmiare facendolo; infine uno o più quesiti che vadano ai gangli vitali della naturalizzazione economica del neoliberismo in Italia.

Su questo ultimo aspetto, le proposte non possono che riguardare le misure sulle liberalizzazione definite negli anni Novanta che, con la scusa di entrare o restare in Europa, hanno trasferito a poche oligarchie risorse ingentissime che appartengono a tutti noi e che oggi andrebbero utilizzate con onestà e la parsimonia necessaria nella cura dei beni comuni. Per questo, vanno studiati quesiti contro la trasformazione della Cassa depositi e prestiti in società per azioni. Allo stesso tempo vanno elaborate proposte affinché le fondazioni bancarie, da ritenere anch'esse un bene comune, non possono diventare imprese da mettere sui mercati finanziari.

Tutto questo per dire che la posta in gioco è alta. Per questo, la convergenza tra diritto e azione politica di movimento è una delle scommesse su cui puntare per un'emergenza economica ed ecologica mai prima ad ora così drammatica.

L´eguaglianza ha fatto il suo grande rientro nella politica quotidiana. Ed è un ospite non gradito per chi tiene le fila delle transazioni finanziarie e delle politiche monetarie. Lo si vede da come i governi hanno accolto la proposta di istituire una tassa sulle rendite patrimoniali – il nostro è all´avanguardia nell´aver escogitato tutte le misure che possono pesare sui molti senza direttamente toccare i pochi (in extremis e nella disperata ricerca di sopravvivere qualche giorno in più tira fuori la proposta di ‘Tobin tax’ ma senza dimostrare di crederci).

Presumibilmente perché a Roma l´oligarchia governa direttamente, senza intermediari. È fuori di dubbio che Silvio Berlusconi sia il più ricco italiano e quindi tra quell´1% che Occupy Wall Street ha individuato come la minoranza che accumula e concentra potere entrando fatalmente in rotta di collisione con la maggioranza e, quindi con l´eguaglianza. Oligarchia e democrazia sono esplicitamente visibili e in tensione.

In un ottimo libro dal titolo chiaro, Oligarchy, uscito per Cambridge University Press pochi mesi fa, Jeffrey A. Winters ci ricorda che la democrazia non elimina l´oligarchia ma la incorpora. Questo lavoro di inclusione dura e ha successo fino a quando l´economia cresce e produce ricchezza alla quale tutti, chi più e chi meno, possono sperare di accedere e, nei fatti, vi accedono anche. Ma quando questa condizione decade, allora la moltitudine comincia a proporre politiche che intaccano le ricchezze e le proprietà dei pochi, politiche fiscali redistributive. È a questo punto che la differenza tra oligarchia e democrazia si mostra con tutta la sua radicalità.

Occupy Wall Street – il nome di un movimento che è globale nella sua semplicità, come globale è l´1% –– è il segno che la tregua tra oligarchia e democrazia si è interrotta. Le pressioni delle dirigenze finanziarie e bancarie sulla democrazia greca, ce lo ricordava recentemente Gad Lerner su questo giornale, affinché non ricorra al referendum è il segno di un´escalation del potere oligarchico su quello democratico. E che il popolo greco non vada al referendum è un segno del potere che l´oligarchia ha di fare sentire la sua voce. Ma è anche un segno del fatto che le procedure democratiche stesse possono diventare un problema se il loro uso paventa esiti che possono mettere a repentaglio l´interesse materiale dei pochi. In questo frangente si è buttata alle ortiche la logica del proceduralismo democratico, che i manuali scolastici ci insegnavano a non giudicare dal punto di vista degli esiti ma delle possibilità di determinarli con le nostre autonome forze. Ora invece è proprio l´esito che viene invocato per neutralizzare la procedura. Un rovesciamento pericolosissimo poiché chi ci garantirà che le elezioni non verranno giudicate non opportune perché passibili di interrompere la stabilità di governo?

Il linguaggio per dualismi – "i pochi" e "i molti" – ha un sapore quasi antico, arcaico. Chi sono i pochi? E come denotarli? Non essendo più i pochi che producono dirigendo masse di lavoratori, non possono essere qualificati come capitalisti tradizionali. Sono super-ricchi – nuovi e meno nuovi. Individuabili solo per quantità: 1%. E infatti, quando Aristotele doveva definire il governo democratico lo faceva identificandolo con i poveri, che sono i tanti. Non perché una società democratica sia fatta di poveri, ma per una ragione molto più sottile e che si vede oggi molto bene: perché non appena la questione della ricchezza materiale si fa critica in quanto la sua distribuzione prende vie inegualitarie, allora i molti si rappresentano (e spesso sono) come poveri o impoveriti. A questo punto, il dualismo è una realtà che può essere rappresentata solo con la quantità, e ciò è in sintonia con la democrazia, la quale è un governo fondato sulla quantità (dei voti).

Allora 1% contro 99% diventa la raffigurazione aritmetica dell´identità della democrazia quando il patto tra i molti e i pochi si rompe perché la ricchezza si muove in una direzione soltanto.

Sono molti i casi di lotta oligarchica che il libro di Winters ricostruisce, dall´Atene e Roma classiche, all´Indonesia e le Filippine, da Venezia e Siena, dalle commissioni mafiose negli Stati Uniti e in Italia fino alle famiglie degli indiani Apalachi. Insomma non esiste società senza oligarchia. Gli Stati si possono quindi distinguere tra quelli schiettamente oligarchici e quelli che hanno siglato un compromesso con la democrazia. Nell´Atene classica quel compromesso riuscì per alcuni decenni, benché l´alternativa oligarchica restasse sempre una concreta possibilità visto che le grandi famiglie non accettarono mai il governo dei molti. I governi rappresentativi sono riusciti a correggere questa condizione di endogena precarietà della democrazia traducendo in meccanismi costituzionali il rapporto con "i pochi", dalla cui collocazione è sempre dipesa la stabilità dei sistemi politici. Consentire a questi di competere attraverso le elezioni è stato un modo per incorporarli – con il contributo dei molti che li eleggono, giudicano, controllano e limitano nel potere.

Il successo delle democrazie rappresentative costituzionali ha corrisposto a due secoli e mezzo di espansione della società di mercato nelle due forme che conosciamo: il capitalismo industriale e, ora, quello finanziario. È stato un successo reso possibile da una condivisione generale degli oneri che ha consentito che il divario tra arricchimento dei pochi e dei molti non fosse fuori controllo. Oggi questo compromesso è rotto. E per molti ordinari cittadini è cominciato un duro periodo di impoverimento – che non è la stessa cosa della povertà. La durezza di questa crisi consiste nel fatto che per la prima volta cittadini che avevano conosciuto per due o tre generazioni un´espansione dei diritti e delle possibilità, si trovano oggi di fronte alla perdita di status, a non potere aver progetti per il futuro. Con la propaganda mediatica, come ci racconta Paul Krugman, che li vuole convincere ad accettare l´impoverimento senza dare loro in cambio alcuna certezza per il domani. In passato quando si trattava di tirare la cinghia si invocava "l´interesse nazionale", e i super-ricchi erano in molti casi, come gli Stati Uniti, i primi a partecipare. Ma oggi non vogliono condividere gli oneri.

Questa è la gravità dell´attuale tensione tra oligarchia e democrazia: se le due forze si mostrano così bene oggi, se in altre parole l´eguaglianza, anzi la sua violazione, è oggi il tema centrale è perché il patto che mitigava la diseguaglianza e incorporava l´oligarchia dentro la democrazia mostra la corda. Nessuno può allo stato attuale delle cose dire come lo scontro si evolverà. Ma le pressioni dei "mercati" sulla Grecia affinché non convochi i molti a giudizio è un segnale nemmeno troppo velato dei rischi politici che questa crisi contiene. Per la democrazia non si promette nulla di buono.

© 2025 Eddyburg