«Per due decenni e mezzo dopo la Seconda guerra mondiale, l'Occidente ha conosciuto un periodo di straordinaria espansione economica. Ma già dagli ultimi anni ‘60, questa avanzata aveva cominciato a segnare il passo. Come di recente affermato da Wolfang Streeck, amministratore delegato dell'Istituto Max Planck per gli studi sociali, il rallentamento della crescita ha innescato, nel sistema capitalistico, crisi a ripetizione».
Esplicitato dal finalista Pulitzer Adam Haslett sulle pagine del Corriere della Sera, il tarlo di questo pensiero inizia a diffondersi. Poggia i suoi passi sul terreno culturale offerto da economisti eterodossi, da storici e pensatori di ogni estrazione, senza però ancora riuscire ad approdare nelle sale dove si muovono le leve politiche del comando (o quel che di loro è rimasto).
Immersi nell'emergenza del momento, è così difficile anche solo riemergere per un attimo dal mare in tempesta della crisi, per prendere una boccata d'ossigeno e guadagnarsi una prospettiva che indichi dove si trova la linea della costa. L'unica strada percorribile sembra dunque quella di lasciare che il tessuto della democrazia venga strappato dal potere della finanza e dall'ossessione egoista della crescita, rimpiazzando la dignità dei cittadini con il marchio di consumatore/debitore affidabile o meno.
Il potere politico e, di riflesso, quello dei cittadini di disporre della propria sorte, si trova piegato nella condizione di una nuova servitù della gleba, velata dal miraggio della libertà. Non ci troviamo (ancora, e per fortuna) in una condizione di schiavitù, ma anche il rango di libero cittadino, a ben pensarci, è fuori dalla nostra portata.
Come i servi della gleba, per nascita ci troviamo a vivere nella condizione di consumatore/debitore; come tali, costretti a determinate corvées verso un complesso di comportamenti sociali uniformanti, pena l'essere etichettati come "consumatori difettosi" e quindi esclusi. Come servi della gleba, non siamo in grado di lasciare questo terreno culturale al quale siamo legati, costretti a lavorare, produrre e consumare per un sistema capitalistico ormai incentrato sul dominio della finanza e sull'allargarsi continuo delle disuguaglianze (come ci ricorda l'appena pubblicato rapporto Ocse).
Se il merito iniziale ed indiscutibile del sistema produttivo capitalista è stato - pur sempre al prezzo della disuguaglianza economica e sociale - quello di tirar fuori dall'indigenza miliardi di persone, verso un livello di benessere prima sognato da re e regine, la sua parabola è ora segnata solamente dalla permanenza e dall'ampliamento delle disuguaglianze preesistenti, verso l'implosione del sistema: torna alla mente il mito di Erisittone, punito dagli dei con una fame inestinguibile che lo porta a divorare se stesso.
La fine del mercato è comunque ben lontana. Di sistemi concretamente praticabili, l'orizzonte della storia non offre esempi da seguire (almeno, non all'interno di quei valori che l'Occidente si vanta di voler esportare nel resto del mondo). Piuttosto, sembra auspicabile fermarne la deriva, riprendendo e migliorando la strada socialdemocratica che l'Europa aveva iniziato a tracciare, ma della quale cerca di cancellarne le impronte, sopraffatta dall'ebrezza dell'unica, grande crisi del capitalismo che ci segue da anni.
Seguendo il volo d'uccello illustrato da Adam Haslett, vediamo la recessione dei primi anni '70, seguita da inflazione e disoccupazione. Proseguendo sulla linea temporale, gli anni '80 presentano l'ascesa incontrollata del debito pubblico, seguita dalla svolta tatcheriana, dal retrocedere dello stato sociale, dalle privatizzazioni dogmatiche e dalla deregolamentazione del settore finanziario che, impennandosi negli anni '90, ha raggiunto il suo acme con lo scoppio delle cosiddette bolle che, a partire dal 2008, ci hanno precipitato prima nella crisi bancaria e finanziaria - tamponata con risorse pubbliche che hanno fatto nuovamente esplodere i deficit statali, ora sotto accusa dallo stesso sistema finanziario.
Questa guerra di grafici e numeri, come piovuta dal cielo su cittadini ignari (che di spread, Pil, bond, per ignoranza o disinteresse, neanche avevano mai sentito parlare), trascina con se economia reale e legittimità democratica. Il momento richiede forse sacrifici per non innestare direttamente la marcia indietro sulle conquiste politiche del dopoguerra, come l'integrazione europea. Al prezzo, però, di perdere quelle economiche e sociali conquistate nello stesso arco di tempo? Camminiamo sul filo del paradosso.
Concessioni, per rimanere a galla in un momento di imbarazzo e cecità di governace come quello che stiamo vivendo, sono momentaneamente pensabili, e stanno soffertamente avvenendo. Il livello di guardia e di elaborazione culturale, come corrispettivo, deve alzarsi ancora di più: quel che più manca è un'elaborazione condivisa di un nuovo percorso da seguire, un percorso di sviluppo che non sia solo crescita.
Mentre l'agenzia di rating S&P decide di mettere nuovamente sotto la propria lente l'Europa, con 15 stati che rischiano un declassamento del proprio rating (stavolta non solo l'Italia, ma anche la Francia e la Germania), il presidente della Repubblica Napolitano ha emanato il decreto legge recante "disposizioni urgenti per la crescita, l'equità ed il consolidamento dei conti pubblici", primo parto del governo Monti: è chiaro che tale decreto rientri esclusivamente, ed amaramente, nell'ambito delle "concessioni momentanee" sopra ricordate. Niente ha da spartire con la definizione di una nuova linea di sviluppo sostenibile.
La strada da immaginare e percorrere è dunque ancora lunga. Passa per la partitura di un percorso sostenibile nel senso più pieno ed ampio del termine (economico, sociale ed ecologico), nel pieno rispetto dell'ecosistema che ci nutre, e che abbiamo il dovere morale di curare per le nuove generazioni. Altrimenti, i servi della gleba del XXI secolo saranno gli schiavi del secolo successivo.
Postilla
Riesce davvero difficile immaginare che possa portare lontano una strada che non superi tre caratteristiche del sistema capitalistico: 1) la riduzione d’ogni bene a merce, ivi compreso il lavoro dell’uomo; 2) la finalizzazione del processo economico .(produzione+consumo) al massimo guadagno dei possessori dei mezzi di produzione; 3) la riduzione d’ogni dimensione dell’uomo e della sua attività a strumento questa economia. Il percorso può anche essere (ahimè, sarà) lungo, ma bisogna aver chiaro quali ne sono l’obiettivo e la direzione.
Nel prepararci ad affrontare il quarto anno di crisi finanziaria globale, appare sempre più chiaro che il patto economico e politico che sta alla base della nostra società postbellica è ormai in pieno disfacimento. Non è più il caso di interrogarsi su quando le nostre società torneranno alla normalità, perché ciò non avverrà. Né dovremmo chiederci quando finirà la crisi, perché è destinata a prolungarsi forse per decenni. Ed è una crisi che cambierà la vita della stragrande maggioranza della popolazione più radicalmente di quanto non abbia fatto la fine della Guerra fredda o l'11 settembre.
Per due decenni e mezzo dopo la Seconda guerra mondiale, l'Occidente ha conosciuto un periodo di straordinaria espansione economica. Ma già dagli ultimi anni 60, questa avanzata aveva cominciato a segnare il passo. Come ha di recente affermato Wolfgang Streeck, amministratore delegato dell'Istituto Max Planck per gli studi sociali, il rallentamento della crescita ha innescato, nel sistema capitalistico, crisi a ripetizione. Prima fra tutte, l'inflazione. Dovendo fronteggiare la recessione dei primi anni 70, i governi hanno preferito stampare denaro per stimolare i consumi e tenere a bada la disoccupazione. Ma entro la fine del decennio l'inflazione aveva strangolato i nuovi investimenti, facendo aumentare la disoccupazione.
Nei primi anni 80, ancora una volta davanti allo spettro della recessione, i governi hanno fatto ricorso alla spesa pubblica, gonfiando il deficit dello Stato per rilanciare i consumi, Usa e Gran Bretagna in particolare hanno ingaggiato un braccio di ferro con i sindacati nel tentativo di ostacolare le loro richieste di aumenti salariali.
Però, già nei primi anni 90, debito pubblico e difficoltà di bilancio avevano cominciato a innervosire i mercati finanziari. Nel tentativo di sostenere la crescita e al contempo ridurre il deficit, sia Washington che Londra hanno liberalizzato in maniera decisiva il settore finanziario. Lasciando carta bianca ai finanzieri di inventarsi e immettere sul mercato un'infinità di nuovi strumenti di gestione del debito privato, i governi hanno distolto lo sguardo dagli Stati sovrani, preferendo chiedere prestiti da aziende e individui in grado di finanziare i loro consumi (e speculazioni), finendo per indebitare le future generazioni.
Ne sono venute fuori due bolle degli asset, la prima nel settore informatico e la seconda nel mercato immobiliare americano, provocando il crollo di Lehman Brothers nel 2008 e dando avvio all'attuale crisi. Pertanto, se consideriamo il contesto storico, è lecito affermare che ciò che è in fase di sviluppo non può definirsi semplicemente una contrazione particolarmente grave del ciclo economico ordinario, destinata a esaurirsi. No, oggi assistiamo all'accelerazione di una crisi endemica delle economie occidentali che va aggravandosi da un quarantennio, man mano che si è tentato di ripetere i successi economici, considerati «normali», di quello che era in realtà un periodo storico anomalo, ovvero gli anni del dopoguerra. Inoltre, nel corso degli ultimi due decenni, l'industria finanziaria, sgravata da ogni vincolo, si è conquistata un potere politico talmente grande da bloccare qualsiasi riforma delle sue operazioni, in particolare su scala globale, dove sono indispensabili, imponendo la pratica della distribuzione verso l'alto dei profitti raccolti.
Negli Usa, stagnazione economica e ripartizione sempre più oligarchica della ricchezza hanno innescato proteste popolari su una scala che non si vedeva dagli anni 60. Nel frattempo in Europa l'euro rischia di sparire e l'intero progetto postbellico di integrazione potrebbe da un momento all'altro inserire la marcia indietro, molto più in fretta di quanto si possa immaginare. I governi tecnici insediati in Grecia e Italia sono probabilmente condannati al fallimento perché le misure varate non sono legittimate dal suffragio popolare. Negli Usa, l'egemonia del mercato si fa sentire attraverso i contributi illimitati che il mondo finanziario e industriale può offrire alla campagna elettorale, e tramite le pressioni esercitate sul Congresso si rivela capace di aggirare e vanificare le scelte popolari a favore di una più equa ridistribuzione della ricchezza.
Sia al di qua che al di là dell'Atlantico, le esigenze delle élite finanziarie si scontrano con la volontà popolare, apertamente ignorata. Se dovessero radicarsi, tali tendenze potrebbero sfociare in un assetto politico non più riconoscibile come democrazia, dando vita a un sistema capitalistico, sì, ma non democratico. È assai poco rincuorante constatare che l'attuale crisi non rappresenta che un semplice ingranaggio nell'evoluzione storica complessiva del capitalismo occidentale, che continua a ridistribuire la ricchezza verso l'alto, a indebolire le istituzioni democratiche e a concentrare il potere nelle mani di pochi individui. È questa forza trascinante che continuerà a influenzare la nostra vita nei prossimi decenni, non le vicende altalenanti delle odierne difficoltà economiche. E se per il momento non è possibile imbrigliare questa forza, non ci resta che sforzarci di comprenderla con maggior chiarezza.
(traduzione di Rita Baldassarre)
Tendiamo a dimenticare che in tutti i monoteismi, il cuore non è la sede di passioni o sentimenti sconnessi dalla ragione. Nelle tre Scritture, compresa la musulmana, il cuore è l´organo dove alloggiano la mente, la conoscenza, il distinguo. Se il cuore di una persona trema, se quello del buon Samaritano addirittura si spacca alla vista del dolore altrui, vuol dire che alla radice delle emozioni forti, vere, c´è un sapere tecnico del mondo. Per questo il pianto del ministro Fornero, domenica quando Monti ha presentato alla stampa la manovra, ha qualcosa che scuote nel profondo. Perché dietro le lacrime e il non riuscire più a sillabare, c´è una persona che sa quello di cui parla: in pochi attimi, abbiamo visto come il tecnico abbia più cuore (sempre in senso biblico) di tanti politici che oggi faticano a rinnovarsi. Pascal avrebbe detto probabilmente: il ministro non ha solo lo spirito geometrico, che analizza scientificamente, ma anche lo spirito di finezza, che valuta le conseguenze esistenziali di calcoli razionalmente esatti. Balbettavano anche i profeti, per esprit de finesse.
È significativo che il ministro si sia bloccato, domenica, su una precisa parola: sacrificio. La diciamo spesso, la pronunciano tanti politici, quasi non accorgendosi che il vocabolo non ha nulla di anodino ma è colmo di gravità, possiede una forza atavica e terribile, è il fondamento stesso delle civiltà: l´atto sacrificale può esser sanguinoso, nei miti o nelle tragedie greche, oppure quando la comunità s´incivilisce è il piccolo sacrificio di sé cui ciascuno consente per ottenere una convivenza solidale tra diversi. Non saper proferire il verbo senza che il cuore ti si spacchi è come una rinascita, dopo un persistente disordine dei vocabolari. È come se il verbo si riprendesse lo spazio che era suo. Nella quarta sura del Corano è un peccato, «alterare le parole dai loro luoghi». Credo che l´incessante alterazione di concetti come sacrificio, riforma, bene comune, etica pubblica, abbia impedito al ministro del Lavoro – un segno dei tempi, quasi – di compitare una locuzione sistematicamente banalizzata, ridivenuta d´un colpo pietra incandescente. Riformare le pensioni e colpire privilegi travestiti da diritti è giusto, ma fa soffrire pur sempre. Di qui forse la paralisi momentanea del verbo: al solo balenare della sacra parola, risorge la dimensione mitica del sacrificio, il terrore di vittimizzare qualcuno, la tragedia di dover – per salvare la pòlis – sgozzare il capro espiatorio, l´innocente.
Medicare le parole presuppone che si dica la verità ai cittadini, e anche questo sembra la missione che Monti dà a sé e ai partiti. Riportare nel loro luogo le parole significa molto più che usare correttamente i dizionari: significa rimettere al centro concetti come il tempo lungo, il bene comune, il patto fra generazioni. Significa, non per ultimo: rendere evidente il doppio spazio – nazionale, europeo – che è oggi nostra cosmo-poli e più vasta res publica. Il presidente del Consiglio lo sa e con cura schiva il lessico localistico, pigro, in cui la politica s´è accomodata come in poltrona. Stupefacente è stato quando ha detto, il 17 novembre al Senato: «Se dovete fare una scelta – mi permetto di rivolgermi a tutti – ascoltate! non applaudite!».
L´applauso, il peana ipnotico (meno male che Silvio c´è), le grida da linciaggio: da decenni ci inondavano. Era la lingua delle tv commerciali, del mondo liscio che esse pubblicizzavano, confondendo réclame e realtà: illudendo la povera gente, rassicurando la fortunata o ricca. Erano grida di linciaggio perché anch´esse hanno come dispositivo centrale il sacrificio: ma sacrificio tribale, che esige il capro espiatorio su cui vien trasferita la colpa della collettività. Erano capri gli immigrati, i fuggitivi che giungevano o morivano sui barconi. E anche, se si va più in profondità: erano i malati terminali che reclamano una morte senza interferenze dello Stato e di lobby religiose. La nostra scena pubblica è stata dominata, per decenni, dalla logica del sacrificio: solo che esso non coinvolgeva tutti, proprio perché nel lessico del potere svaniva l´idea di un bene disponibile per diversi interessi, credenze. Solo contava il diritto del più forte, che soppiantava la forza del diritto.
Ascoltare quello che effettivamente vien detto e fatto non ci apparteneva più. Anche il ministro Giarda si è presentato domenica come medico delle parole: «Son qui solo per correggere errori». Non ha esitato a correggere i colleghi, e ha avuto l´umiltà di dire: «Se avessimo più tempo, certo la nostra manovra sarebbe migliore». Monti ha fatto capire che questa, «anche se siamo tecnici», è però politica piena: «L´esperienza è nuova per il sistema politico italiano. A noi piace esser cavie da questo punto di vista». Singolare frase, in un Paese dove a far da cavie sono di solito i cittadini. Ma frase coerente alla politica alta: dotata di una veduta lunga, indifferente alla popolarità breve.
Pensare i sacrifici non è semplice, perché gli italiani e gli europei da tempo si sacrificano, e tuttavia constatano disuguaglianze scandalose. Perché sacrificandosi deprimono oltre l´economia. Lo stesso Sarkozy, che campeggiò come Presidente che poteva abbassare le tasse ai ricchi visto che le cose andavano così bene, è oggi costretto ad ammettere che i francesi «stringono la cinghia da trent´anni». Quel che è mancato, nel sacrificio cui i popoli hanno già consentito, è l´equità, l´abolizione della miseria, delle disuguaglianze. Forse – l´emozione dei potenti resta misteriosa – Elsa Fornero ha pianto perché le misure sono dure per chi ha pensioni grame. Se solo le pensioni sotto 936 euro saranno indicizzate all´inflazione, tante pensioni basse rattrappiranno come pelle di zigrino.
Si poteva fare diversamente forse, e non tutte le misure sono ardite. La lotta all´evasione fiscale iniziata dall´ultimo governo Prodi ricomincia, ma più blanda. La cruciale tracciabilità introdotta da Vincenzo Visco (1000 euro come soglia, da far scendere in due anni a 100) è fissata durevolmente a 1000. Oltre tale cifra è vietato accettare pagamenti in contanti, che sfuggono al fisco: una draconiana stretta anti-evasione è evitata. Né si può dire che tutto sia equo, e la crescita veramente garantita.
Il fatto è che si parla di decreto salva-Italia, ma si manca di chiarire come il decreto sia anche salva-Europa. Non è un´omissione irrilevante, perché il doppio compito spiega certe durezze del piano. Speriamo sia superata. Ogni azione italiana, infatti, è urgentissimo accompagnarla simultaneamente ad azioni in Europa: per smuovere anche lì incrostazioni, privilegi, dogmi. Per dire che non si fa prima «ordine in casa» e poi l´Europa, come nella dottrina tedesca, ma che le due cose o le fai insieme, con un nuovo Trattato europeo più solidale e democratico, o ambedue naufragheranno.
Su 11 settori già «liberati» con norme apposite, soltanto due (farmaci e telefonia) offrono servizi più a buon mercato. Tutti gli altri hanno registrato aumenti importanti, a volte vertiginosi La Cgia di Mestre ha messo a confronto tariffe ed inflazione; l'ideologia «liberale» ne esce a pezzi.
Saremo anche governati da «tecnici», ora, ma quanto a ideologia - sia loro che i supporters - non sembrano secondi a nessuno. Prendiamo un punto fermo di questa ideologia della governance: le «liberalizzazioni» sbloccano un mercato ingessato, migliorano la qualità dei servizi, abbattono i prezzi perché la concorrenza ha proprio questo effetti «livellanti» come sottoprodotto della «competizione». Senza tanti «lacci e lacciuoli» - recita l'antico mantra - il capitalismo dà il meglio di se stesso, con benefici per tutti.
Ma è vero? A naso, da malfidati di professione, crediamo di no. Ma noi - si sa - siamo «ideologici» per convenzione culturale diffusa. Perciò preferiamo oggi dar conto dei dati pubblicati ieri dalla Cgia di Mestre (confederazione generale degli artigiani veneti, insomma; niente a che fare col marxismo-leninismo). E non è una bella musica per i liberalizzatori a oltranza. Il Centro studi ha preso di petto ben 11 settori già «liberalizzati» in epoche diverse (se qualcuno ricorda le «lenzuolate» del Bersani ministro dell'industria), mettendo a confronto le tariffe attuali con quelle d'allora; e ovviamente con la corsa dell'inflazione.
Ne viene fuori che soltanto per i prodotti farmaceutici (-10,9%) e i servizi telefonici (-15,7) c'è stato il sospirato effetto «competitivo», ovvero la compressione dei costi per l'utente finale. Tanto più significativo se messo a confronto con l'inflazione nel frattempo maturata: +43,3% nel primo caso, +32.5 nel secondo. Un bel guadagno, non c'è che dire; quasi uno spot gratuito per l'ideologia liberalizzatrice. Peccato che occorra ricordare come sia stata l'Europa, a più riprese, a «mazzolare» i gestori di telefonia che facevano i furbi, fino a costringerli ad abbassare le tariffe. volenti o no.
Ma gli altri 9 settori? Esattamente l'opposto (a parte l'energia elettrica, in cui aumento tariffario risulta minore della dinamica inflattiva, grazie anche al pesante crollo del presso del petrolio dopo la «grande crisi finanziaria» innescata dal fallimento dio Lehmann Brothers).
Passi per i servizi postali, rimasti al palo, ovvero sostanzialmente pari all'inflazione (+30%, grosso modo). Ma già i trasporti urbani - là dove questa «modernizzazione» è stata già introdotta, nel 2009 - fanno registrare un aumento quasi doppio rispetto all'inflazione in soli due anni. Idem per il gas (dal 2003), che ha visto i costi doppiare l'inflazione pur potendo contare su prezzi energetici del tutto identici a quella della - calante - energia elettrica.
Siamo però buoni fino in fondo. Possiamo perfino capire che i trasporti aerei - liberalizzati da scervellati, al punto di facilitare il fallimento di Alitalia - siano aumentati di 1,4 volte, per cause tra il noto (il prezzo dei carburanti) e il misterioso (a quanto ammonta il contributo dei consorzi pubblico-privato che sostengono la presenza delle compagnie low cost?). Ma come hanno fatto i costi dei trasporti ferroviari a crescere del 53% (inflazione a + 27), se non imputandoli a una precisa scelta commerciale di quello che - ancora per qualche giorno, ma limitatamente all'alta velocità tra Roma e Milano - è di fatto un monopolista pubblico che si atteggia a privato di lusso?
E ancora: anche i pedaggi autostradali sono aumentati del 50%» dal '99, a fronte di un'inflazione del 30%. Anche qui l'ideologo confindustriale o il «tecnico europeo» potrebbero obiettare che - in effetti - è impossibile fare concorrenza su un tratto autostradale. Vero. Perché sono state «liberalizzate», allora? Solo per fare un regalo a Benetton, Toto e Gavio? Probabile...
Ma certamente era possibile farsi una concorrenza spietata nei servizi finanziari o bancari (aperti anche a società straniere, ormai) e per quanto riguarda la Rc Auto. Ognuno di noi puà cambiare banca o assicurazione in qualsiasi momento. Eppure proprio qui di registrano gli aumenti più vertiginosi. In banca (o per i fondi comuni) paghiamo oggi 2,5 volte più dell'inflazione (ovvero il 50% in più). Per l'assicurazione auto è quasi inutile che vi riveliamo noi i dati: sapete già da soli che sono quasi raddoppiate dal 1994, crescendo 4,2 volte più dell'inflazione.
Detto fra noi: probabile che le «regole» scritte sui manuali di macroeconomia abbiano un rapporto assai labile con la realtà empirica. In altre parole: che siano solo ideologia. Utile per fare profitti, ma fuffa.
L´euro può essere salvato? Non molto tempo fa si diceva che la crisi poteva portare, nel peggiore dei casi, al default della Grecia. Ora si profila l´evenienza di un disastro di proporzioni assai maggiori. È vero che la pressione sui mercati si è un po´ allentata mercoledì. si è allentata dopo il sensazionale annuncio dell´estensione delle linee di credito da parte delle banche centrali. Ma persino gli ottimisti ormai considerano l´Europa avviata alla recessione, mentre i pessimisti lanciano l´allarme sull´eventualità che l´euro diventi l´epicentro di una nuova crisi globale. Come mai siamo arrivati fin qui? La risposta più comune è che l´origine della crisi dell´euro va individuata nell´irresponsabilità fiscale. In tv è un gran vociare di esperti: in assenza di tagli alla spesa pubblica l´America finirà come la Grecia. Ma è vero quasi l´opposto. Benché i leader europei identifichino il problema nella spesa pubblica troppo alta dei Paesi debitori, la realtà è che in Europa la spesa è troppo bassa. E imporre una maggiore austerità è stata una mossa negativa, che ha peggiorato la situazione.
Riassumendo. Negli anni precedenti alla crisi del 2008 in Europa, come in America, il sistema bancario era fuori controllo e il debito galoppava. In Europa però, gran parte dei prestiti erano transfrontalieri, i fondi tedeschi finivano al sud. L´operazione veniva considerata a basso rischio. I destinatari in fondo facevano tutti parte dell´area dell´euro, che cosa mai poteva succedere? In massima parte, detto per inciso, i prestiti non erano diretti ai governi, ma al settore privato. Solo la Grecia ai tempi d´oro presentava gravi deficit di bilancio statale. La Spagna, alla vigilia della crisi, vantava addirittura un surplus.
Poi la bolla scoppiò. La spesa privata nei Paesi debitori crollò. I leader europei avrebbero dovuto riflettere su come impedire che questi tagli alla spesa provocassero una recessione in tutta Europa. Invece risposero all´inevitabile conseguente crescita del deficit imponendo a tutti i governi – non solo a quelli dei Paesi debitori – di tagliare la spesa pubblica e aumentare l´imposizione fiscale. Non tennero conto dei moniti di chi pronosticava un aggravarsi della depressione. «La tesi secondo cui le misure di austerità potrebbero innescare un processo di stagnazione non è corretta», dichiarò Jean-Claude Trichet, all´epoca presidente della Bce. Il motivo? Perché «da politiche che stimolano la fiducia verrà un impulso, non un ostacolo alla ripresa economica».
Ma questa magica fiducia non si è materializzata. E c´è di più. Negli anni del denaro facile, i salari e i prezzi in Europa meridionale sono cresciuti assai più velocemente rispetto al nord Europa. Ora bisogna ridurre il divario calando i prezzi al sud o, in alternativa, alzandoli al nord. E la scelta è importante: se l´Europa meridionale è costretta a ridurre la propria competitività pagherà un caro prezzo in termini di occupazione, e vedrà aumentare il debito. Si avrebbero possibilità di successo maggiori se il divario venisse ridotto aumentando i prezzi a nord.
Ma per far questo i policymaker dovrebbero accettare temporaneamente un aumento dell´inflazione nell´intera eurozona, mentre hanno già ribadito di non averne alcuna intenzione. Ad aprile, la Bce ha iniziato ad aumentare i tassi di interesse, pur essendo palese a gran parte degli osservatori che l´inflazione, semmai, era troppo bassa. Non è stata una coincidenza che proprio ad aprile la crisi dell´euro sia entrata in una nuova, terribile fase. Lasciamo stare la Grecia. Come economia, confronto all´Europa, è paragonabile all´area di Miami rispetto agli Stati Uniti. A questo punto i mercati hanno perso la fiducia nell´euro in generale, portando i tassi di interesse a salire anche in Paesi come l´Austria e la Finlandia, non certo noti per la loro sregolatezza. L´appello all´austerità generale associato al morboso terrore dell´inflazione da parte della banca centrale fanno sì che ai Paesi indebitati sia impossibile sfuggire alla trappola del debito. Questa accoppiata è quindi garanzia di default sul debito, corsa al ritiro dei depositi bancari e crollo finanziario generale. Mi auguro, sia per il bene dell´America che dell´Europa, che gli europei invertano la rotta prima che sia troppo tardi. Ma, in tutta sincerità, non credo che lo faranno. È molto più probabile che noi li seguiamo sulla strada della rovina.
Perché negli Usa , come in Europa, l´economia è trascinata nel baratro dai debitori morosi, nel caso americano soprattutto proprietari di casa. E anche in questo caso c´è assoluto bisogno di politiche fiscali e monetarie espansionistiche a sostegno dell´economia, mentre i debitori lottano per rimettersi finanziariamente in salute. Ma, da noi come in Europa, il dibattito pubblico è dominato dalle ramanzine sul deficit e dall´ossessione dell´inflazione. La prossima volta che vi diranno e che in assenza di tagli alla spesa l´America farà la fine della Grecia, rispondete pure che tagliando la spesa in corso di depressione economica faremo la fine dell´Europa.
Traduzione di Emilia Benghi
«Sono misure recessive che favoriranno la caduta della domanda e non affrontano, invece, la questione centrale della crescita e dell’occupazione». Luciano Gallino, sociologo del lavoro e autore di numerosi saggi sull’economia italiana e l’apparato industriale (ultimo libro profetico Finanzcapitalismo per Einaudi) critica come poco equa la manovra che il governo sta per varare. Anzi, su una questione centrale come quella previdenziale, si chiede perché si «intervenga con questa fretta e in questo modo». La riforma delle pensioni è comunque il capitolo più ambizioso. «Per come è stata presentata sembra esclusivamente un modo per recuperare soldi». Cominciamo dal limite dei quarant’anni di contributi. «Non è una parola magica, ma per molte categorie quel limite non può essere superato. Tra l’altro l’uscita dal lavoro in Italia è già in linea con i Paesi europei più avanzati. Il problema è un altro. E riguarda il bilancio dell’Inps». A cosa si riferisce? «Non si vede la ragione per intervenire con tanta fretta se si guarda all’ultimo bilancio dell’Istituto che vanta un attivo di 10 miliardi nella previdenza. Il passivo pesante è quello determinato dalle varie casse autonome che sono, quelle sì, un pesante onere per lo Stato. Inoltre l’Inps è gravato da numerosi interventi assistenziali non previdenziali. Senza quelli sarebbe in pareggio».
Come giudica l’ipotizzato aumento dell’Irpef sui redditi più alti? «I cittadini di Paesi come Usa, Francia o Germania, quando sono chiamati a fare sacrifici per sanare crisi, pur non create da loro, non si sottraggono. Ma, in Italia, questo ha il sapore amaro della beffa. Siamo infatti il Paese dove il 18% del Pil sfugge al fisco, in pratica si tratta di 120 miliardi evasi. E’ dunque vagamente offensivo chiedere sempre a coloro che hanno sempre dato. Molti di costoro, è vero, non soffriranno troppo dall’aumento dell’Irpef ma si tratta sempre di un accanirsi su chi paga regolarmente». Non c’è la Patrimoniale ma la tassa sul lusso per bilanciare l’Irpef. «Un contentino per dire che anche i ricchi sono colpiti. Per carità, va bene, ma sarebbe servita una patrimoniale sulle grandi fortune». Monti ha subito il veto di Berlusconi? «Berlusconi ha ancora un potere di veto alla Camera. E’ paradossale che uno dei più ricchi in Europa metta il veto sulla Patrimoniale»
In Italia ritornerà l’Ici: una tassa odiosa? «Fu un errore sopprimere quella imposta, un errore pagato dai cittadini che hanno avuto un netto peggioramento dei servizi pubblici comunali. Una sorta di Ici esiste in tutti i Paesi sviluppati, come imposta locale sulle case e anche imposta federale. Ripristinarla è per certi aspetti utile e aiuta i Comuni che sono ora costretti a tagli gravosi».
Complessivamente come giudica la manovra da 25 miliardi? «Priva di equità con molti dubbi sulla sua efficacia reale. Si tratta di un insieme di misure depressive che favoriranno la caduta dei consumi. Così non può affrontare il vero problema che è il lavoro. Anche alle aziende non credo basterà un’Irap più leggera».
La missione impossibile del salvataggio dell'euro, la frana della de-europeizzazione, il cataclisma geopolitico che ne può derivare. Ma con l'austerità non si esce dalla crisi, si produce recessione e depressione. Intervista a Christian Marazzi sulla penitenza dopo l'abbuffata neoliberale e sull'antidoto del comune
Economista, docente alla Scuola universitaria della Svizzera italiana e, in passato, a Padova, New York e Ginevra, militante e intellettuale di riferimento dei movimenti della sinistra radicale, Christian Marazzi è uno degli analisti più lucidi della crisi economico-finanziaria in corso. Fra i primi a diagnosticarne il carattere storico e l'impatto globale, già nel 2009, quando la crisi impazzava negli Usa, aveva previsto l'inevitabile coinvolgimento dell'eurozona. Fine analista della finanziarizzazione come modus operandi del biocapitalismo postfordista, non crede nella possibilità di uscire dalla crisi o di contenerne le contraddizioni attraverso le politiche del rigore. Partiamo dal salvataggio dell'euro per ragionare di quello che ci attende.
L'andamento della crisi ha dato ragione alle tue analisi. Nel giro di due anni l'epicentro si è spostato dagli Stati uniti all'Europa, e nel giro di poche settimane siamo passati dal rischio di default di alcuni paesi, Italia compresa, al rischio del crollo dell'intera eurozona, che equivale al crollo dell'Unione per come è stata fin qui (malamente) realizzata. Secondo te come può evolvere la situazione?
«Gli indizi della cronaca sono eloquenti. In Europa cresce l'astio nei confronti della Germania e della rigidità di Angela Merkel, che non dà segni di cedimento sulle due proposte che ormai tutti considerano indispensabili per evitare il cataclisma di Eurolandia: la monetizzazione dei debiti sovrani da parte della Bce, e l'emissione di eurobond per ridurre il peso dei tassi d'interesse sui buoni del tesoro dei paesi più esposti alla speculazione dei mercati finanziari».
Anche tu le consideri indispensabili?
«Sono due misure condivisibili, ma purtroppo fuori tempo massimo: la crisi ha subito nelle ultime settimane una tale accelerazione da renderle inapplicabili. La trasformazione della Bce in una vera banca centrale sul tipo della Federal Reserve - che possa fungere da prestatore di ultima istanza per acquistare i buoni del tesoro dei paesi-membri indebitati, strappando ai mercati il potere di decidere come e quando intervenire - è un'idea sacrosanta, ma ormai irrealizzabile a fronte della fuga di capitali dall'eurozona che è già in corso, come dimostrano l'andamento dell'ultima asta di bond tedeschi e le 1500 tonnellate di oro che pare siano entrate in Svizzera ultimamente. Arrivati a questo punto, la monetizzazione dei debiti da parte della Bce non farebbe che alimentare questa fuga e accelerare il collasso dell'euro: non a caso, almeno fino a oggi, anche Draghi si oppone a questa soluzione. Lo stesso vale per l'istituzione degli eurobond, obbligazioni emesse e garantite dall'insieme dei paesi-membri per "mutualizzare" o socializzare i vari debiti sovrani: anche questa è una misura sensata, ma non ha alcuna possibilità di essere attuata, perché i paesi forti, come la Francia, l'Olanda, la Finlandia, l'Austria e la Germania si vedrebbero aumentare i tassi d'interesse in un periodo in cui le imprese stanno già subendo aumenti proibitivi del costo del denaro per il rarefarsi della liquidità in circolazione. In ogni caso, anche se al vertice di giovedì a Bruxelles si trovasse un accordo parziale, i vincoli d'austerità imposti ai paesi indebitati sarebbero tali da vanificare qualsiasi salvataggio dell'euro. E' solo questione di tempo».
Dunque in prospettiva tu vedi un tracollo?
«Il fatto è che la crisi della moneta unica costruita secondo i precetti monetaristi e neo-liberali è arrivata alla stretta finale. E a me pare del tutto verosimile che la rigidità di Merkel sia una mossa tattica per rendere inevitabile l'uscita della Germania dall'euro e il ritorno al marco. Circola già la data, fra Natale e l'Epifania, mentre tutti saremo in altre faccende affaccendati; come l'inconvertibilità del dollaro, che fu decisa a Ferragosto. E circolano già, qua in Svizzera, leggende metropolitane su due stamperie che starebbero sfornando marchi».
Se davvero andasse così, che tipo di scenario si aprirebbe?
«Nascerebbe una zona monetaria forte, con dentro la Germania, l'Olanda, la Finlandia, l'Austria, con agganciati il franco svizzero e la corona svedese. L'euro, fortemente svalutato e con l'effetto inflazionistico conseguente, resterebbe la moneta dei paesi deboli, che in compenso avrebbero la possibilità di ridurre il loro debito. L'incognita di questa ipotesi è la Francia. Per i paesi più tartassati dai mercati, sul piano economico non sarebbe un cataclisma. Ma il vero cataclisma sarebbe geopolitico. Di fatto, questa spaccatura monetaria darebbe il via a un processo di de-europeizzazione, con un asse fra la Germania, la Cina, la Russia e il Brasile, e un altro fra la Francia e gli Stati uniti. Non è uno scenario fantascientifico, le grandi agenzie finanziarie internazionali ci stanno già lavorando. Quello che nessuno dice però è che può essere l'inizio di una nuova guerra fredda, con la Cina, la Russia e la Turchia coordinate per schermare l'Iran dalle minacce israeliane. E' inquietante che di questo non si parli: il rischio Iran è esplosivo. Ed è inquietante pure che ormai si parli solo della crisi europea, rimuovendo la situazione degli Stati uniti, dove nel frattempo la crisi dei subprime continua, i poveri sono diventati 46 milioni, la disoccupazione è al 15%, Obama non riesce a battere chiodo e per la sua rielezione può sperare solo nella litigiosità dei Repubblicani.
Ci sono differenze, e quali, fra l'andamento della crisi negli Usa e in Europa?
Sul piano economico nessuna: l'Europa dei debiti sovrani è l'equivalente del mercato statunitense dei subprime, solo che al posto dei singoli individui indebitati ci sono gli stati indebitati. Ma una differenza c'è, a tutto svantaggio dell'Europa, ed è politica, anzi istituzionale e costituzionale: in Europa non c'è Costituzione, e non c'è una banca centrale. C'è la Bce che delega la monetizzazione dei debiti ai mercati, emettendo liquidità su richiesta di quelle stesse banche che hanno contribuito a creare debito pubblico e ora ci speculano sopra».
In questo quadro macroregionale e globale, che ruolo e che senso hanno le politiche nazionali del rigore? In Italia sono state create molte aspettative sul passaggio del governo da Berlusconi a Monti e alla sua squadra di "tecnici", come se ne dipendesse non solo un recupero di credibilità, ma anche un effettivo potere di intervento sulle dinamiche dei mercati. Ma quanta efficacia possono avere i cosiddetti sacrifici sulla crisi del debito sovrano, e relative speculazioni?
«Non è così che si esce dalla crisi, e infatti non ne usciremo: l'orizzonte dei prossimi anni è la recessione. Le politiche di austerità hanno un effetto deflazionistico di compressione della domanda interna, né a questo si può sperare di supplire con le esportazioni. Ma le politiche di austerità sono le uniche contemplate dalla dottrina neo-liberale, che in Europa e in tutto l'Occidente è tutt'ora imperante ed è dura a morire. Dunque restano e resteranno in piedi all'insegna dell'emergenza, o, per usare il termine di Naomi Klein, della shock economy, perché consentono di fare quello che in una situazione normale non si può fare: compressione dei salari, riduzione dell'impiego pubblico, depotenziamento dei sindacati; la famosa macelleria sociale. E' la logica della governance della crisi: una regolazione tecnica e tecnocratica dei rapporti sociali nello stato d'emergenza. Ha detto bene il vicepremier cinese in un'intervista al Financial Times: quello che ci aspetta è un nuovo Medio Evo finanziario e sociale».
Con quali caratteristiche politiche, e antropologico-politiche?Tu non parli mai solo di economia...
«Alcuni processi sono ormai evidenti. Il primo è la precarizzazione della Costituzione. Il secondo - l'hai scritto pure tu a proposito del ''passaggio Monti'' - è l'azzeramento dell'autonomia del politico sotto lo stato d'eccezione. Il terzo è il passaggio dal Welfare State al Debtfare State: uno Stato in cui il sociale si rappresenta, e viene rappresentato, nella forma del debito, e si disciplina, e viene disciplinato, nel segno del debito. Anzi, del debito e della colpa, secondo il doppio significato della parola tedesca schuld: tema nietzschiano, che oggi torna al centro del bel libro di Maurizio Lazzarato, La fabrique de l'homme endetté. Il debito come dispositivo antropologico di autodisciplinamento dell'uomo neo-liberale».
E' chiarissimo da quello che sta accadendo in Italia, dove in un attimo siamo passati dall'etica del godimento del ventennio berlusconiano all'etica penitenziale del governo Monti. Ma quanto pensi che possa reggere, questo dispositivo? Il soggetto neo-liberale descritto da Foucault, l'imprenditore di se stesso che si nutriva di consumo indebitandosi, ora può nutrirsi del senso di colpa per i debiti contratti? Si tratta di uno sviluppo o di una crisi dell'etica neo-liberale?
«Per ora, io ci vedo un inveramento: il neo-liberalismo si invera nella sua essenza di fabbrica dell'uomo indebitato. L'imprenditore di se stesso produce il suo debito che ora lo disciplina attraverso un dispositivo di colpevolizzazione. Del resto, qui c'è anche un inveramento, o uno svelamento, dell'essenza del denaro: il denaro è debito, la finanziarizzazione del capitale ci ha trasformati tutti in soggetti debitori, e il valore viene prodotto in negativo, da una macchina depressiva».
Però c'è chi si indigna, non ci sta, si ribella. Per fortuna. Che pensi degli Indignados e di OWS?
«Per restare nella scia di Foucault, lui degli Indignados avrebbe detto che si tratta di un movimento parresiastico: un movimento di persone che dicono la verità. Denunciare l'ipocrisia dei mercati, svelare che i debiti sono tutti "odiosi", illegittimi, frutto di rendita e di espropri, e dichiarare che questa crisi l'hanno prodotta le banche e non possiamo pagarla noi, significa affermare la verità del punto di vista del popolo su quella dei mercati. E poi, il movimento di Madrid ha funzionato come uno spazio di democrazia assoluta, come una grande assemblea costituente del comune basata sullo stare insieme nello spazio pubblico: una sorta di ribaltamento dell'etica della paura hobbesiana, in cui mi pare molto visibile l'impronta femminile delle pratica delle relazioni e di un'economia della cura che diventa ecologia politica. La crescita del movimento su scala europea è l'unico antidoto al processo di de-europeizzazione che dicevamo all'inizio. Ma la spinta costituente deve darsi anche delle forme di autodeterminazione locale concreta. Per spezzare il dispositivo cardinale del post-fordismo, lo sfruttamento di saperi, conoscenza e relazioni, non c'è altro modo che ribaltarlo in produzione del comune, tanto più ora che le politiche di austerità comporteranno la privatizzazione ulteriore, la vendita e la svendita dei beni comuni, dall'acqua al patrimonio culturale; ma produrre il comune significa organizzarsi a livello locale, attrezzarsi a gestire nei quartieri l'acqua, l'elettricità, i mezzi di trasporto, le banche stesse».
Loretta Napoleoni, che incontri oggi alla Libreria delle donne di Milano, in un libro di due anni fa sosteneva che la funzione sociale delle banche vive ormai solo nella finanza islamica, e che è da lì che dovremmo riscoprirla: la finanza islamica non specula.
«E' vero, nel senso che dobbiamo reintrodurre la solidarietà al livello giusto, all'altezza delle contraddizioni prodotte dalla crisi. E la ri-socializzazione del debito e della funzione originaria delle banche è una strada per piegare a nostro vantaggio la finanziarizzazione del capitale, lottando sul suo terreno».
Ma la finanziarizzazione si può interrompere, o invertire? Tu ci hai spiegato molto bene che l'economia finanziaria non è più separabile dall'economia reale e si basa sul coinvolgimento attivo di comportamenti e forme di vita della gente comune: il consumatore che usa la carta di credito per fare la spesa, il salariato alle prese con i fondi pensione, i ceti medi strozzati dai mutui per la casa, i poveri che si indebitano fornendo come unica garanzia la loro 'nuda vita'. Se è così, è possibile de-finanziarizzare, almeno in parte, il sistema, o si tratta solo di bonificarlo dai soprusi delle banche? E se produzione e consumo sono così intrecciati al debito, è possibile evitare un esito recessivo e depressivo della crisi?
«La de-finanziarizzazione la sta approntando il capitalismo stesso nella forma recessiva della riduzione del debito di cui abbiamo parlato poco fa, che deprime la domanda e i consumi, e della disciplina della colpa, che deprime le esistenze. Noi dobbiamo lavorare invece per riconvertire la rendita privata in rendita sociale: per la socializzazione del debito, per il rilancio per questa via della domanda e dei consumi di beni socialmente utili, per la riappropriazione dello spazio pubblico, per la ricostruzione di socialità e di felicità collettiva. Il comune è questo e non c'è altro modo per uscire dalla spirale autolesionista della finanziarizzazione. Alcune parole d'ordine delle lotte di questi anni, dal reddito minimo garantito alla Tobin tax, vanno già in questa direzione».
E della parola d'ordine del diritto all'insolvenza che cosa pensi? Nei movimenti viene presentata come un diritto di resistenza alla finanziarizzazione della vita, molti economisti la ritengono una mossa demagogica, altri ci vedono una possibilità di ripristino della sovranità nazionale cancellata dalla tecnocrazia europea.
«Penso che sia giusta se diventa una pratica soggettiva e contestuale, non se viene lasciata in mano agli Stati. Ti faccio un esempio: negli Stati uniti sta maturando da tempo una bolla delle borse di studio, che equivale più o meno alla metà del volume dei mutui subprime: in quel caso il diritto all'insolvenza va senz'altro esercitato dagli studenti e dalle loro famiglie per distinguere il debito illegittimo da quello legittimo. Ma non lo affiderei agli Stati, né alla loro velleità di ritrovare per questa via la sovranità nazionale perduta».
Il rapporto del Censis è attraversato dall’urgenza di invertire la rotta. Di ritrovare quella responsabilità collettiva che è stata decisiva nei momenti più difficili della nostra storia: unico modo per porre fine al "disastro antropologico" degli ultimi anni, a un deterioramento della nostra immagine internazionale che abbiamo vissuto «con dolore e con vergogna». Occorre insomma, ribadisce il Censis, ritornare a "desiderare”, contrastare al tempo stesso il declino e la cultura del declino. Il rapporto evoca anche l’attacco speculativo di questi mesi, che ha visto in noi l’anello debole. E sottolinea la nostra incapacità di governare i processi reali, accresciuta dalla verticalizzazione e dalla personalizzazione del potere ma anche da una più generale povertà della politica. Una politica in crisi radicale di credibilità: solo un italiano su quattro dichiara di aver fiducia nel parlamento o nel governo, ed è fortissima una disattesa richiesta di onestà. Si è aperto in questo modo – prosegue il Censis – un vuoto enorme: quasi che la società possa sopravvivere e crescere "relegando milioni di persone ad essere una moltitudine (egoista) affidata a un mercato turbolento e sregolato", con la supervisione di vertici finanziari ristretti e non trasparenti.
Su diversi terreni occorre dunque agire per contrastare un diffuso sentimento di stanchezza collettiva. Occorre riconquistare il valore della rappresentanza, la capacità di governo e quei caratteri fondativi – quel nostro "scheletro contadino" – che hanno sin qui resistito, anche se appannati dalle "bolle di vacuità" della nostra modernizzazione: flessibilità e capacità dinamica; l’orizzonte come apertura oltre che come realistico limite; il primato dell’economia reale e della lunga durata contro il prevalere dei poteri finanziari e l’illusione che possano disegnare sviluppo. Quegli elementi, cioè, che ci hanno permesso in passato di diventare protagonisti anche sulla scena europea e mondiale.
Nelle scorse settimane, ricorda il rapporto, altri si sono mossi sul piano politico e istituzionale. Ora spetta a noi "guardarci dentro con severità", prendere atto che la nostra società si è rivelata fragile, indifesa, in parte eterodiretta. E analizzare alcune debolezze di fondo: ad es. le contraddizioni di un processo di ampliamento dei ceti medi che è stato elemento importante di crescita ma non ha creato identità collettiva. Di qui, al suo incepparsi, un impaurito ripiegamento individuale che si intreccia al rancore di strati sociali che si riscoprono marginali. Non vanno sottovalutati, sottolinea il Censis, i segnali positivi che pur vengono da alcuni settori dell’economia o da una attitudine internazionale dei nostri Atenei superiore a quel che si pensi, ma vanno guardati con attenzione gli aspetti più inquietanti.
Ad esempio il disincanto di un mondo giovanile duramente colpito dalla disoccupazione, dall’incertezza, dall’esclusione. Un mondo in cui si consolida l’area – segnalata già l’anno scorso, e molto più ampia che in Europa – di coloro che non studiano, non hanno lavoro e non lo cercano, piegati dalla rassegnazione. E in cui si diffonde molto più che fra gli adulti, innaturale e doloroso rovesciamento, la disponibilità anche ai compromessi pur di affermarsi. Senza ripartire da qui, senza innescare qui nuovi meccanismi di speranza e di fiducia, appare davvero difficile invertire la tendenza del Paese.
Roma- Frane e smottamenti possono dipendere anche dall’assenza di agricoltura. E infatti l’abbandono del territorio da parte di chi lo coltiva, accelera e agevola il degradamento dei versanti e delle reti idriche. Il settore primario ricopre sempre di più il ruolo di tutela del territorio, eppure la superficie agricola diminuisce. Negli ultimi dieci anni la superficie agricola si è ridotta dell’11,7 per cento, quella utilizzata (Sau) è diminuita del 2,3 per cento, le aziende agricole hanno registrato un decremento del 32,2 per cento. Andando indietro nel tempo, si rileva che negli ultimi 50 anni le superfici destinate al settore primario si sono ridotte del 30 per cento e le aziende quasi del 63 per cento. “Dinamiche conseguenti lo sviluppo socio-economico che pongono problemi di gestione territoriale da non sottovalutare”, spiega Simone Vieri, professore della facoltà di economia all’università La Sapienza di Roma nel corso del convegno presso la sede della Commissione europea a Roma “L’agricoltura e la difesa del suolo: una funzione strategica di interesse collettivo”.
La proposta Ue per tutelare il territorio gira intorno a due punti chiave: “l’individuazione delle aree a rischio e l’elaborazione e messa in opera di programmi con una scala temporale e erogazione dei fondi da utilizzare”, spiega Luca Marmo, della Dg Agricoltura della Commissione europea. “Ci vuole il tempo di una generazione per poter arrivare a questo censimento”, precisa. Al momento, prosegue Marmo, “la condizionalità riguarda i pagamenti disaccoppiati e le pratiche di buona gestione agricola”. “Il 12 per cento delle somme disponibili per la bonifica dei terreni di tutta Europa è stato utilizzato, ma c’è ancora spazio per migliorare la situazione”. La tabella di marcia stabilita da Bruxelles per un Europa più efficiente per quanto riguarda le risorse, indica il fatto “che si debbano usare le risorse naturali con maggiore efficienza, e non solo quelle minerali, ma anche la terra e il suolo. Ponendosi l’obiettivo di ridurre a zero le superfici atrofizzate entro il 2050”.“Da considerare anche – prosegue ancora Vieri – che il 44,5 per cento degli agricoltori italiani risulta avere un’età superiore ai 65 anni. Elemento che testimonia il difficile ricambio generazionale e che pone le premesse per ancora più significativi abbandoni nel prossimo futuro”. Una situazione che si presenta particolarmente grave in considerazione delle peculiarità del territorio italiano “che è classificato come rurale per il 92 per cento e ha zone svantaggiate per il 39,5 per cento, aree collinari per il 41,6 per cento e montane per il 76,8 per cento” insiste. Oltre alle zone sottoposte a tutela ambientale. Quindi frane e inondazioni testimoniano “la fragilità” del terreno italiano. “Nel periodo 1960-2010 – spiega Vieri snocciolando dati – questi fenomeni hanno provocato 4.122 morti, 84 dispersi e 2.836 feriti. E secondo il Cnr non sono da porre in relazione ai cambiamenti climatici di cui tanto si parla”. Secondo Vieri infatti “è più probabile che la relazione sia tra gli eventi calamitosi e una decrescente capacità di regimazione delle acque da parte del suolo. Che a sua volta si riconduce alla diminuita presenza delle attività agricole sul territorio”.
Motivo per cui la Commissione europea ha evidenziato – nella Roadmap to a resource efficient Europe – come il tema dell’uso sostenibile del suolo dovrà rappresentare uno degli obiettivi prioritari per le politiche agricole e ambientali del prossimo futuro. Appena pochi giorni fa però Massimo Gargano, il presidente dell’Anbi – l’associazione che riunisce l’intero sistema di rete delle bonifiche italiane a tutela del territorio – faceva notare al VELINO che proprio il Greening della Pac, la misura “verde” con cui Bruxelles mira a tutelare il territorio, “mette a rischio di frane e smottamenti” a causa dell’abbandono della terra da parte degli agricoltori. Abbandono che secondo il ministro delle Politiche agricole Mario Catania è inevitabile se la proposta Ue non dovesse essere cambiata: “Questo Greening incita gli agricoltori ad abbandonare la produzione”, aveva dichiarato.
Secondo Alberto Manelli, direttore dell’Inea, l’Istituto nazionale di economia agraria, la politica agricola può evidentemente rivestire un ruolo significativo nella gestione agronomica dei suoli, nella conservazione e manutenzione degli elementi non coltivati del paesaggio – esattamente ciò che il Greening propone con le aree destinate a utilizzazione ecologica (ndr) – e nella corretta gestione agronomica del reticolo idraulico. “La Pac – spiega – ricopre un ruolo che le politiche ambientali lasciano scoperto. L’applicazione di nuove misure nell’ambito della riforma, come le proposte per la diffusione di pratiche agronomiche più rispettose della risorsa del suolo, con ogni probabilità condizionerà in modo ancora più significativo il sostegno pubblico al rispetto delle norme ambientali”. Secondo il presidente di Copagri Franco Verrascina "il Greening proposto da Ciolos è una misura che guarda solo alla politica del Nord Europa e quella anglosassone senza tenere conto - spiega al VELINO - al greening che invece in tutti questi anni è stato svolto in Italia e nei paesi mediterranei. E che ha tutelato il territorio". Per Verrascina un esempio su tuti: "la misura verde di Bruxelles eslude l'olivo che da migliaia di anni è il garante dell'ambiente e del suolo".
Ma se la superficie agricola diminuisce, quella forestale aumenta. “Dall’ultimo dopoguerra la superficie forestale italiana è andata gradualmente estendendosi grazie alla ricolonizzazione naturale di terre marginali abbandonate dall’agricoltura”, spiega Angelo Mariano del Corpo forestale dello Stato. Negli ultimi 30 anni il patrimonio boschivo è aumentato del 30 per cento con un ritmo medio di 80mila ettari l’anno. E coprono circa il 36 per cento del territorio nazionale. “E il vincolo idrogeologico riguarda il 90 per cento del totale”, insiste Mariano. Che spiega che nonostante “la copertura forestale favorisca la stabilità dei versanti contenendo fenomeni di erosione e di dissesto, il ruolo delle risorse forestali in materia di protezione diretta del territorio e della biosfera non è ancora unanimemente riconosciuta dalla comunità scientifica”. Parla di suolo come “corpo vivente” Fiorenzo Fumanti, dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale: “Il suolo è essenziale per l’esistenza delle specie viventi ed esplica una serie di funzioni che lo pongono al centro degli equilibri ambientali”, spiega. La progressiva marginalizzazione di molte aree collinari e montane e l’abbandono delle opere di regimazione “sono tra i principali fattori che hanno accelerato la trasformazione del suolo da ‘risorsa’ a ‘minaccia’”.
Il nuovo vice ministro dello Sviluppo Economico con delega per le Infrastrutture, Mario Ciaccia, si potrebbe definire l'uomo giusto al posto giusto. Dalla poltrona di governo sarà chiamato a gestire operazioni da lui progettate e lanciate come numero uno della Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo (Biis), la controllata di Intesa Sanpaolo che ha guidato fino a due giorni fa. La Biis svolge un ruolo delicatissimo di intermediazione tra aziende private e denaro pubblico. Come spiega il sito internet, “Biis è dedicata al servizio di tutti gli attori, pubblici e privati, che collaborano alla realizzazione di grandi infrastrutture e servizi di pubblica utilità”. La banca, inoltre, propone “una gestione integrata di tutta la filiera dell'interazione fra pubblico e privato, attraverso un'offerta completa di servizi finanziari tradizionali e innovativi che spazia dal commercial all'investment banking”. Dietro il gergo una semplice realtà. La Biis ha in portafoglio finanziamenti per 41 miliardi di euro, 33 dei quali sono prestiti fatti alla pubblica amministrazione e alle cosiddette “public utilities”. Solo la Regione Lazio è stata finanziata per oltre 2,5 miliardi. Idem il Ministero della Difesa, che con i soldi di Biis si è comprato i nuovi caccia e le fregate di Fincantieri. In sostanza, ogni 100 euro di debito pubblico, 2 sono prestiti fatti da Ciaccia, che adesso siede nel governo che quei debiti deve pagare.
Inoltre la Biis sta partecipando con 3 miliardi di euro al finanziamento delle grandi infrastrutture, con prestiti che i realizzatori, attraverso il cosiddetto “project financing”, dovrebbero ripagare allo Stato con i profitti realizzati nella gestione delle opere. Ciaccia è il regista di alcune tra le maggiori operazioni. Come vice ministro potrà garantirne la speditezza. In realtà, se le infrastrutture non si rivelassero redditizie, come accade di regola, sarà lo Stato a pagare. Cioè Ciaccia. L’orizzonte del suo lavoro è sempre stato ampio: “Vie di comunicazione via terra e via acqua, servizi alla sanità, riqualificazione urbana, energia”. Una dichiarazione rilasciata quando ancora lavorava per Biis e che oggi farà scendere un brivido lunga la schiena agli ambientalisti.
Un portafoglio da 41 miliardi
L’elenco è interminabile. Il sito dell’ex banca di Ciaccia (www.biis.it) riporta decine di progetti, ma almeno altrettanti non compaiono nella lista. Prendiamo le autostrade. In Lombardia se ne stanno per costruire 400 chilometri, tra le critiche di chi fa notare come l’area metropolitana di Milano abbia più autostrade (576 chilometri) delle grandi città europee, ma meno metropolitane (75 chilometri) e ferrovie (252 chilometri). Una sfilza di progetti che ha attirato interessi legittimi e altri meno limpidi. Basta ricordare che la Cricca aveva puntato gli occhi sulle autostrade lombarde. Biis è impegnata nei maggiori progetti lombardi: Pedemontana Lombarda (4,2 miliardi di finanziamenti), Bre.be.mi tra Brescia, Bergamo e Milano (1,6 miliardi), Tangenziale Est di Milano (1,5 miliardi), autostrada Cremona-Mantova (430 milioni).
È solo la punta dell’iceberg. In ogni regione Biis ha la sua opera, per esempio la Salerno-Reggio Calabria. Ma la banca finanzia anche il general contractor chiamato a realizzare il Quadrilatero stradale tra Marche e Umbria. Progetto (costo iniziale previsto di oltre 2 miliardi) fortemente voluto, tra gli altri, dal senatore Mario Baldassarri. Ma il vero affare non è l’asfalto: grazie al Piano di Valorizzazione le aree a ridosso del tracciato sono diventate edificabili. Di più: gli oneri di urbanizzazione e le imposte sulle nuove costruzioni andrebbero a finanziare l’opera. Insomma, il Quadrilatero ha molti santi in paradiso. Che dire poi del Terzo Valico ferroviario Genova-Milano? Qui Biis è direttamente nella società. Un’opera indispensabile secondo gli industriali. Un progetto inutile assicurano comitati e ambientalisti. L’ex ministro Altero Matteoli ha annunciato la firma del contratto, speriamo che il neo-ministro non dia seguito alla promessa”, ricorda Stefano Lenzi, responsabile relazioni istituzionali del Wwf. Aggiunge: “Il Terzo Valico costa 6,2 miliardi, cioè 115 milioni a chilometro, dieci volte più che in Spagna. Una spesa lievitata dell’800%”.
Poi ecco la voce porti. Restiamo in Liguria per uno dei casi più delicati di potenziale conflitto di interessi: la nuova piattaforma Maersk di Vado fortemente avversata dalla popolazione che già convive con la centrale a carbone Tirreno Power e che si vedrà costruire sul mare un colosso di 210mila metri quadrati (costo 450 milioni, previsti 700mila container l’anno). In questo caso Biis è finanziatrice con 100 milioni dell’Autorità Portuale di Savona (una garanzia sull’extragettito).
La variabile “crisi”
Ed ecco il punto delicato: i governi di centrosinistra avevano pensato di trovare i soldi grazie proprio al meccanismo dell’extragettito. In pratica “ipotecando” l’Iva futura prodotta dai nuovi traffici della piattaforma di Vado. Un’operazione pensata in tempi di vacche grasse (era favorevole il governo Prodi, mentre Tremonti si era detto contrario), ma adesso siamo in crisi e di nuovi traffici di container non se ne prevedono. Risultato: le agevolazioni rischiano di “rubare” traffico ai porti vicini. Leggi Genova e La Spezia. Insomma, una guerra tra scali italiani. Che cosa deciderà l’ex Ad di Biis? Non c’è solo Vado. La banca è anche impegnata nei progetti per il porto di Trieste. E poi interventi urbanistici: come quelli già realizzati per la Fiera di Milano o l’Eur di Roma. O ancora gli aeroporti di mezza Italia. Poi progetti per eolico e solare. Alcuni molto contestati. In Puglia c’è chi protesta contro l’invasione di specchi che strappano terreno all’agricoltura. In Molise e Sardegna le pale eoliche rischiano di cambiare il paesaggio. Infine acquedotti e termovalorizzatori. Di tutto questo, chissà, si occuperà anche il ministro per lo Sviluppo Economico. Corrado Passera, ex Ad di Banca Intesa.
Sta diventando uno dei luoghi comuni dei nostri tempi: l´idea che l´Europa, costretta a difendere con brutali austerità la sua moneta unica, sia incompatibile con la democrazia fin qui conosciuta. Uno dopo l´altro si consumano governi, partiti, e nuovi leader vanno al comando.
Son detti tecnocrati: più semplicemente, sono uomini spinti ad apprendere presto, a caldo, una nuova arte della politica. La vera questione non è l´assenza di democrazia, non è il famoso deficit democratico. Lo slogan è una magica litania, un mantra escogitato per scompigliare gli animi nascondendo loro la realtà: non la democrazia è minacciata, ma la sovranità che le nazioni europee pretendono di possedere. Tutte le nazioni, compresa quella che più di altre sembra padrona di sé e dell´Europa: la nazione tedesca.
L´esempio più lampante di questa confusione fra crisi della democrazia e crisi della sovranità è infatti la Germania di Angela Merkel, che grazie alla sua potenza sta mettendo a rischio con rigido dogmatismo non solo l´Euro, ma la Comunità nata nel dopoguerra. È in nome della democrazia, della supremazia assoluta del popolo sovrano e dei vincoli impliciti in tale supremazia, che il Cancelliere si adopera perché non nasca una solidarietà attiva tra gli Stati della zona euro. Il dilemma, qui come altrove, non è oggi tra democrazia e tecnocrazia ma tra democrazia nazionale e democrazia europea.
Le iniziative tedesche degli ultimi anni (dalla sentenza della Corte costituzionale del 30 giugno 2009, da quella emessa già nel ´93) mirano a questo: dare preminenza alle istituzioni rappresentative nazionali (in primis il Parlamento) e rifiutare un´Unione più solidale in nome del deficit democratico che essa implicherebbe. I populisti sono i primi a profittare di quest´emiplegico rapporto con la realtà, e ben contenti si appropriano del mantra dimenticando che la democrazia va oggi governata con tutto il corpo della politica: nazionale ed europeo. La professione di fede democratica è divenuta per i populismi di destra e sinistra un sotterfugio per svilire l´Unione europea. Per nobilitare passioni non nobili e occultare, appunto, i fatti che ci stanno davanti. Le chiusure tedesche hanno molto in comune con i populismi, che sequestrano la democrazia rattrappendola come una stoffa mal lavata.
La crisi sta mostrando che ben altro è il dilemma: non lo spegnersi democratico, non l´Europa delle élite. Quel che la crisi sta estraendo dall´ombra in cui è relegata, con la violenza di un forcipe, è l´incapacità degli Stati di capire che le sovranità hanno cessato da tempo di essere assolute, che ogni cittadino e ogni Stato è immerso ormai in una scena cosmopolitica cui Habermas dà il nome di «politica interna mondiale». Henrik Enderlein, un economista socialdemocratico che da tempo critica il nazionalismo del proprio governo, parla di inattitudine a riconoscere la «comunità di destino» europea, e a darle sostanza. Confondere la questione della democrazia con quella della sovranità nazionale significa schivare il compito più urgente: reinventare democrazia e politica nelle nazioni e in Europa, contemporaneamente.
Può stupire che proprio la Germania sia all´avanguardia in questo nascondimento del reale: il paese che con più vigore, dal dopoguerra, non solo consentì a drastiche deleghe di sovranità ma le invocò, sperando nell´Europa politica. Quella passione non è seppellita ma è entrata in un letargo intriso di esitazioni, lentezze, tentazioni populiste. Questa è l´emiplegia inasprita dalla Merkel: solo l´occhio nazionale vede, giudica. Solo le rappresentanze nazionali contano –Corte costituzionale, Parlamento federale, Banca centrale tedesca– a scapito di organi sovranazionali nati dal consenso di popoli e Stati come la Commissione, il Parlamento europeo, la Banca centrale di Francoforte.
Se così stanno le cose vuol dire che anche l´immagine della Germania-condottiera europea è affatto inappropriata: Berlino comanda, sì, ma non dirige. Il ministro degli Esteri Sikorski ha parlato chiaro ai tedeschi, lunedì a Berlino: «Sarò probabilmente il primo ministro polacco a dirlo: temo assai meno la potenza della Germania che la sua inattività. Siete divenuti nazione indispensabile in Europa: non potete fallire nella guida». È il peccato di nolitio, non volontà, che Berlino commette. Due forze la dominano, solo in apparenza dissimili: i sondaggi e la Bundesbank, un´istituzione mitizzata perché tutte le paure tedesche trovano in essa conforto, da oltre mezzo secolo. Anche in patria dunque la Merkel non è leader. Niente a vedere con Kohl, che assieme a Mitterrand creò la moneta unica e non esitò a contrastare l´allora governatore della Bundesbank, Tietmeyer. Niente a vedere con l´ex cancelliere Schmidt, che nel ´96 scrisse una durissima lettera aperta a Tietmeyer, e accusò la Bundesbank di essere «uno Stato nello Stato».
Oggi sta accadendo esattamente quel che Schmidt paventava: se l´Europa vede in Berlino un gendarme arrogante, è a causa delle paure che la Bundesbank attizza in patria e fuori. In Germania mi dicono: è come se la politica tedesca avesse perso la battaglia condotta anni fa con i guardiani del Marco, e quegli stessi guardiani (quello Stato nello Stato) pilotassero la barca. Come se prendessero una rivincita, sfruttando la più profonda delle passioni tedesche: la paura.
Se davvero la Merkel ascoltasse la democrazia, oggi dovrebbe tener conto che la paura di un´Unione europea più stretta non è affatto dominante in Germania. Il Cancelliere è confortato da sondaggi, industriali, esperti. Ma altre forze, in casa ed Europa, gli resistono. In casa, è criticato aspramente da socialdemocratici e Verdi. Secondo Sigmar Gabriel, capo della Spd, solo un governo economico europeo e gli eurobond eviteranno la rovina: la Merkel è paragonata a Brüning, il Cancelliere che aprì la via a Hitler con politiche deflazionistiche. Ma obiettano anche molti democristiani. Kohl per primo: il 24 agosto, ha detto che il Paese «ha perso il compasso, dilapidato il capitale di fiducia» in Europa. Werner Langen, presidente del gruppo Cdu/Csu al Parlamento europeo, dichiara che per fronteggiare l´odierna speculazione «la decisione spetta alla Bce (dunque alle istituzioni europee legittimate a farlo, ndr) che deve custodire la stabilità dei prezzi ma anche la messa in sicuro della liquidità sui mercati». Elmar Brok, esperto Cdu di politica europea, dice: «C´è qualcosa nella discussione tedesca sul ruolo della Bce che mi sfugge completamente».
Ancora più forte l´opposizione europea, e non solo di paesi contagiati come Italia o Grecia. Nei giorni scorsi, hanno preso le distanze da Berlino governi sin qui devoti alla Merkel: il ministro delle finanze olandese e finlandese chiedono ora quel che a Berlino è eresia: un «ruolo più attivo» della Bce. In sostanza, chiedono l´abbandono della dottrina tedesca della «casa in ordine», imperante in Germania da quasi un secolo: la dottrina secondo cui prima va ripulita la propria casa, e solo dopo scatta la solidarietà internazionale o sovranazionale.
In nome del popolo e dei sondaggi, dunque di una visione solo nazionale della democrazia, Angela Merkel sta minando l´Europa, la natura sovranazionale del suo ordine democratico. Il 23 novembre ha aggredito Barroso – definendo «inquietanti e sconvenienti» le sue proposte sugli eurobond–violando il diritto di proposta conferito dai Trattati all´esecutivo europeo. Dicono che il Cancelliere preferisce la tecnocrazia alla democrazia. Non è vero: abusando della democrazia, ne fa un´arma della paura. Schmidt denunciò proprio questo, nella lettera del ´96, quando evocò la «monomaniaca ideologia deflazionistica della Banca centrale che negli anni ´30-32 preparò l´avvento di Hitler». E quando denunciò le «ipocondriache paure tedesche di fronte all´innovazione».
(Domani il secondo articolo: la Germania ricostruirà l´Europa?
Un´imposta con un´aliquota dello 0,5% peserebbe su ogni super-contribuente per 22.550 euro - Oltre 1000 miliardi di euro in mano a 240 mila famiglie, con un patrimonio medio di quasi 4,5 milioni di euro – Il 5,7% delle sostanze posseduta nel mondo è in Italia. Nei portafogli ci sono titoli, azioni e depositi, ma la proprietà immobiliare rappresenta ancora più della metà di tutte le disponibilità
Delle possibili riforme nel cantiere del governo Monti è la più elusiva. Anche se richiesta a gran voce dalle forze sociali, Confindustria compresa, l´ipotesi di un imposta patrimoniale è al centro di un durissimo scontro fra i partiti della maggioranza, dove il Pdl ha più volte annunciato il proprio veto ad un intervento diretto sulla ricchezza degli italiani. In Parlamento, il presidente del Consiglio è stato attento ad indicare solo l´opportunità di un monitoraggio della ricchezza (e ha voluto ribadire la parola "monitoraggio"), che potrebbe anche voler dire soltanto l´utilizzo di parametri di ricchezza nello stabilire la congruità dei redditi dichiarati. Il terreno, in altre parole, va ancora esplorato.
Sul terreno della patrimoniale ci sono degli ostacoli tecnici. Al di là delle difficoltà di accertamento, sui patrimoni si è già intervenuti o si sta per intervenire. Per gli immobili, tornerà certamente in vigore l´Ici sulla prima casa. Per quanto riguarda i patrimoni finanziari, negli ultimi mesi è stata pesantemente rincarata l´imposta di bollo. L´ottica in cui si discute della patrimoniale, tuttavia, non è quella di colpire, in generale, la ricchezza, ma i ricchi e, in particolare, gli straricchi. Da questo punto di vista, una patrimoniale non universale, ma limitata a "chi ha di più" (un termine usato dallo stesso Monti) consentirebbe di sciogliere una vistosa contraddizione italiana. L´Italia è, infatti, un paese con redditi stagnanti, ma doviziosamente ricco: il 5,7 per cento della ricchezza netta posseduta nel mondo è in Italia, nonostante che gli italiani non siano più dell´un per cento della popolazione globale e il Prodotto interno lordo della penisola sia pari al 3 per cento del Pil mondiale. Una spiegazione corrente è la diffusione della proprietà immobiliare: l´80 per cento degli italiani vive in una casa di cui è proprietario. Ma è solo in parte vero. Secondo le stime della Banca d´Italia, la ricchezza netta degli italiani è pari a 8.283 miliardi di euro, di cui poco più della metà - 4.667 miliardi - è costituita da abitazioni, mentre le attività finanziarie (titoli, azioni, depositi) erano pari, nel 2008, a 3.374 miliardi di euro.
A spiegare la differenza fra reddito e ricchezza è, piuttosto, l´evasione fiscale, che esaspera l´ineguaglianza crescente della società italiana. Nelle due figure in pagina, si vede come la piramide dei redditi (dichiarati) sia svelta, sottile, quasi egualitaria. Mentre il grafico della ricchezza (stimata dalla Banca d´Italia) appare pesantemente squilibrato, più un paralume che una piramide: quasi il 45 per cento della ricchezza nazionale, equivalente a 3.700 miliardi è nelle mani di 2,4 milioni di famiglie, il 10 per cento più ricco. Se, come è stato ipotizzato, la patrimoniale si dovesse, tuttavia, applicare solo ai patrimoni superiori a 1,5 milioni di euro, il grosso dei ricchi italiani ne sarebbe fuori.
Ma anche una patrimoniale per i soli straricchi darebbe un gettito cospicuo. Il 13 per cento della ricchezza italiana (sempre secondo Via Nazionale) è nelle mani di 240 mila famiglie italiane, l´1 per cento del totale. Si tratta di 1.076 miliardi di euro. Una patrimoniale alla francese, con un´aliquota allo 0,5 per cento della ricchezza, darebbe un gettito di oltre 5 miliardi di euro l´anno. Per ognuna delle 240 mila famiglie significherebbe pagare, su un patrimonio che è in media di quasi 4,5 milioni di euro a famiglia, 22.500 euro l´anno.
Le alluvioni di Genova, della Liguria e di Messina. L´Aquila ancora città fantasma dopo l´ultimo terremoto. E prima ancora, Vesuvio, Irpinia, Vajont, fino al Medioevo. Ecco come il nostro Paese è stato devastato dai disastri naturali. E ogni volta ha dimenticato la lezione
Nel 1859 un tuono nel fondo dell´Appennino fa a pezzi Norcia, squarcia le antiche mura e inghiotte centinaia di vite. Manca un anno all´annessione dell´Umbria da parte dei Savoia, la città medievale fa ancora parte dello Stato della Chiesa e tocca al Papa intervenire. Ebbene, alla notizia del terremoto, Pio IX, l´uomo teoricamente più reazionario dell´epoca, impone un´illuminata normativa antisismica. Queste regole indispensabili, ma impopolari per via degli aggravi alla spesa edilizia, non saranno mai applicate. Motivo: con l´arrivo dei piemontesi l´ordine antico decade. Siamo in Italia, le norme danno fastidio. E poi il Paese ha altre gatte da pelare, a partire dalle rivolte del Sud. Per i norcini, neanche dire, è una festa. Il plebiscito del 1861 è per loro un´occasione unica per accantonare l´impopolare antisismica papalina, azzerare la memoria e gettare le premesse di un secolo e mezzo di malaedilizia e conseguenti disastri. Ce le siamo sempre cercate, le sciagure, ignorando scientemente la storia, e la rimozione continua anche oggi, con le celebrazioni del centocinquantenario dell´Unità che rimbombano di fanfare ma evitano accuratamente i disastri. Messina diventa un fiume di fango, la Liguria si squarcia sotto le grandi piogge, l´Aquila è ancora una città fantasma dopo l´ultimo sisma, ma nel grande compleanno dell´Italia i terremoti, le eruzioni, le frane e le alluvioni non hanno cittadinanza. Eppure se c´è una cosa che ci fa nazione è proprio il disastro, la sua anormale frequenza, il modo con cui la catastrofe naturale si riverbera su un territorio notoriamente mal costruito. È la nostra reazione alle avversità, la lezione che ne traiamo, e soprattutto il modo in cui esse vengono (raramente) elaborate o (più spesso) dimenticate.
Quando il Tevere invade Roma nel dicembre 1870, sotto l´onda emozionale si decide di dare alla città una migliore difesa dall´acqua, ma ecco che la solita commissione parlamentare insabbia tutto, al punto che cinque anni dopo, non essendoci ancora nulla di deciso, Giuseppe Garibaldi in persona rompe gli indugi, abbandona inferocito la sua Caprera e torna nella Capitale per inchiodare i politici alle loro responsabilità. Accolto da una folla immensa, tiene un memorabile discorso ai romani «con la voce dei bei giorni» e li esorta a essere «seri, seri, seri e fermi». Solo allora il Parlamento si muove e dà via libera ai lavori per i muraglioni di rinforzo alle rive del Tevere. Se oggi Roma è al sicuro è solo grazie a quell´urlo del Generale.
È un fatto che l´Italia non può più permettersi di subire terremoti e alluvioni senza trarre lezioni dal passato. E forse ora qualcosa timidamente si muove, anche su spinta della presidenza della Repubblica. A Spoleto è nato un Centro euromediterraneo che raccoglie la documentazione sugli eventi estremi e i disastri. Il 12 dicembre il tema dell´Unità d´Italia riletta attraverso i disastri sarà affrontato a Roma all´Accademia di San Luca in un convegno con i massimi esperti italiani del settore. «È incredibile quanto si debba insistere per far capire cose di un´ovvietà assoluta», dice il professor Domenico Giardini, nuovo presidente dell´Istituto nazionale di geofisica. «Le cose giuste le aveva già dette Rousseau dopo il terremoto di Lisbona del 1755. Disse che l´ecatombe è fatale se l´uomo si ostina a costruire case di sei piani in zone sismiche. Ma noi ormai siamo così freneticamente proiettati sul futuro che non abbiamo più tempo di riflettere sul passato e ogni catastrofe ci sembra un evento eccezionale. È un´amnesia fatale per un Paese che ha una media di mille morti l´anno per terremoti». In confronto alla cecità dell´oggi era quasi meglio la vecchia superstizione, quando alluvioni e terremoti erano punizioni divine. C´erano almeno i preti a tenerci in allerta con le "rogazioni", processioni che evocavano il male con scongiuri, simbologie, rituali e precisi anniversari liturgici.
Il Vesuvio, per esempio, chi ci pensa più. Poi guardi la storia dei 150 anni e vedi che non dorme affatto. Comincia proprio nel 1861, salutando con una botta memorabile l´annessione al Piemonte. Poi brontola, in sequenza ininterrotta, nel 1867, 1872, 1891. Quattro anni dopo un nuovo rigurgito di lava crea il Colle Margherita e a seguire, nel 1899, una Piedigrotta di lapilli genera Colle Umberto. Nel 1906 un´eruzione violenta distrugge Borgo Tre Case, poi c´è quella del ´29 e ancora quella del ´44, descritta dallo scrittore Norman Lewis, che è a Napoli con l´esercito americano. San Sebastiano è minacciato e il paese esce in processione verso la lava con la statua del protettore. Ma la gente non si fida troppo e chiama in rinforzo San Gennaro, il cui tabernacolo viene però tenuto nascosto fino all´ultimo in un vicolo, perché Sebastiano non abbia a offendersi. Da allora il pentolone tace, la memoria del pericolo corso si attenua ed ecco, puntuali, i palazzinari all´assalto della scarpata di lava. Idem per frane e alluvioni. Palermo pare estranea a catastrofi di tipo messinese, ma basta un´occhiata al passato per cambiare idea. Andrea Goltara, direttore del Centro italiano di riqualificazione fluviale, ricorda l´esondazione del 1862, quella del 1925 e soprattutto quella, eccezionale, del 1931. Da allora si è talmente costruito in zone allagabili che, se oggi si ripetesse la grande pioggia di quell´anno, i danni sarebbero infinitamente più gravi. I disastri sono spesso recidivi, e quello di quest´anno a Genova è stato preceduto da eventi analoghi nel 1945, 1951, 1953 e 1970. E che dire dell´esondazione dell´Arno nel ´66: una fotocopia di quella già accaduta nel 1844.
Dal Dodicesimo secolo a oggi, Marco Amanti dell´Ispra ha registrato 480mila frane sul territorio nazionale, estese sul settanta per cento dei Comuni. La mappa dei terremoti dal 1861 registra non solo una sequenza ininterrotta di sismi e quindi la necessità di un´allerta costante, ma mostra con evidenza che negli ultimi vent´anni le scosse forti sono semmai diminuite per cui - statisticamente - c´è da aspettarsi un bel tuono a tempi ravvicinati. Più che l´Aquila, preoccupa il silenzio sismico che le sta attorno. L´amnesia è funzionale al cemento. Lo si è visto nel 2009 all´Aquila, dove molti ignoravano di trovarsi in area sismica e dove, in quel vuoto di memoria, i pirati dell´edilizia avevano fatto carne di porco del territorio. È una tendenza vecchia come l´Italia. Dopo il terremoto di Rimini del 1916, i parlamentari romagnoli fecero di tutto per far revocare le norme antisismiche e quando ci riuscirono, negli anni Venti, furono accolti come eroi alla stazione e portati in trionfo dalla popolazione. Stessa cosa in Friuli, dopo il terremoto del 1928. I paesi più "ammanigliati" scansarono le norme di sicurezza che avrebbero comportato spese edilizie maggiorate del 15 per cento, mentre i periferici subirono. Risultato: nel maggio del 1976 i centri esentati come Gemona videro un´ecatombe. Gli altri, come Pioverno, non ebbero neanche un morto.
«Solo chi ricorda sa il pericolo che corre, e quindi accetta di sottoporsi a regole che gli salveranno la vita», sbotta Emanuela Guidoboni, storica dei terremoti e ideatrice del centro di Spoleto. «Per salvarci dai disastri, una forte memoria condivisa è più importante di un sofisticato tecnicismo che porta fatalmente a delegare le soluzioni a pochi, a scelte emergenziali, verticistiche, e allo scavalcamento delle regole. Ricordare ci aiuta invece a fare scelte democratiche e condivise, e a mobilitare la parte migliore di noi». L´Unità d´Italia azzerò anche la toponomastica "ammonitrice". Nello zelo cartografico dei sabaudi, piccoli nomi di luogo come Pozzallo, Pietratagliata, Trematerra, Acquapendente, persero il loro senso o furono fraintesi. La costa sarda di "Maluventu" fu registrata come "Maldiventre" dai piemontesi che non capivano il sardo e per parecchie navi quel pezzo di mare divenne infido perché il nuovo nome non conteneva più l´avvertimento. Gli esempi dello stesso tipo non si contano. La frana più estesa d´Italia, quella di Ancona del 1982, avvenne su un pendio detto "Ruina", dove dall´epoca dei Romani non s´era mai costruito proprio perché si credeva al senso dei nomi.
E che dire del Vajont, 1963, dove nel lago artificiale di una diga appena costruita cadde un monte intero detto "Toc", che significa più o meno "qualcosa in bilico". L´arroganza dei signori dell´energia nell´uso del territorio e la supponenza degli ingegneri di fronte alla memoria dei montanari fece, in un botto solo, duemila morti. Per un nome ignorato vennero giù trecento milioni di metri cubi di roccia e terra, e fu la più grande frana di sempre. Non fu la natura a essere matrigna, ma gli uomini a essere pessimi figli.
Il governo Monti non è atteso soltanto alla prova difficile dell´economia. Lo hanno sottolineato ieri a Roma i movimenti per l´acqua come bene comune che non si sono dissolti dopo il successo referendario. Ma hanno voluto opportunamente ricordare che nessuna emergenza può giustificare l´allontanarsi dalla retta via costituzionale. Sappiamo che sono all´opera gruppi e interessi che spingono nella direzione opposta, invocando il mercato come unica regola, alla quale le istituzioni dovrebbero, una volta di più, piegarsi. Guai se queste suggestioni trovassero eco nel governo. La paventata sospensione della democrazia troverebbe un´inquietante conferma. La volontà espressa con il referendum, infatti, non è disponibile per nessun governo, politico o tecnico che sia, e per qualsivoglia maggioranza parlamentare, ristretta o allargata che sia.
Torniamo alle radiose giornate di giugno, quando 27 milioni di cittadini (ricordiamo sempre questa cifra) dissero no al nucleare, alla generalizzata privatizzazione di servizi pubblici, alle leggi ad personam. Proprio il risultato di quest´ultimo referendum dovrebbe esser preso terribilmente sul serio da un governo che non può affidare soltanto allo "stile" l´impresa ardua di ricostruire un tessuto civile profondamente lacerato. Con il loro voto i cittadini non hanno semplicemente abrogato una legge. Hanno voluto manifestare in modo netto la loro volontà di un ritorno pieno alla legalità, senza privilegi per i potenti: ieri Berlusconi e la sua cerchia, oggi gli interessati all´industria nucleare e alla lucrosa gestione privata dell´acqua.
Il rispetto assoluto della legalità non dovrebbe avere bisogno del severo e corale richiamo venuto dalla maggioranza degli italiani. Ma questo vi è stato.
Ve ne era bisogno, e oggi la legittimazione del governo passa anche attraverso questa ineludibile prova di "serietà" (altra parola inflazionata in questi giorni) che consiste in primo luogo nel rispetto delle istituzioni. Così come dev´essere rispettato il Parlamento, vi è un pari dovere di fedeltà verso l´istituto del referendum, con il quale si esercita direttamente la sovranità popolare.
Archiviamo pure come un incidente di percorso di un ministro frettoloso la dichiarazione secondo la quale potrebbe essere ripreso il tema dell´energia nucleare, che pure è servita a ridare fiato a chi non vuole prendere atto del risultato referendario. Ma è quanto continua ad avvenire, o a non avvenire, intorno alla questione dell´acqua ad inquietare seriamente. Soltanto occasionali e sporadiche sono state le iniziative volte a dare seguito alla chiarissima volontà popolare. Molteplici, invece, sono state quelle volte ad aggirare o vanificare le indicazioni dei referendum, la cui portata, peraltro, era stata ben chiarita dalla Corte costituzionale. E questo spirito non è scomparso, viste le proposte, talora sgangherate, con le quali si indica la via della privatizzazione dei servizi pubblici, delle dismissioni in blocco di beni pubblici.
Il governo, allora, dovrebbe rivolgere la sua attenzione all´articolo 4 della manovra economica che, come da più parti è stato messo in evidenza, non appare in linea con l´esito referendario; e, comunque, non dovrebbe secondare alcuna mossa che possa essere intesa come sostegno per chi, a livello locale, vuole cancellare o rinviare all´infinito gli effetti del referendum. Proprio qui, infatti, nei Comuni e nei cosiddetti Ato (Ambito territoriale ottimale), devono essere avviate le iniziative per la ripubblicizzazione dell´acqua secondo le indicazioni referendarie. Il punto di partenza può essere individuato nei Comuni dove già la gestione dell´acqua è affidata a società per azioni interamente in mano pubblica, che possono essere trasformate in aziende speciali: è già avvenuto a Napoli, e lo stesso può essere fatto a Torino, Milano, Venezia, Palermo.
Ma i movimenti riuniti ieri a Roma hanno indicato anche una strada che affida alla vitalità stessa delle iniziative dei cittadini l´attuazione di quanto è stato stabilito con il voto sul secondo quesito referendario che, per quanto riguarda la gestione del servizio idrico, ha abrogato la norma relativa alla remunerazione del capitale nella misura del 7 per cento. Di fronte all´inadempimento dell´obbligo referendario, sarà lanciata una campagna di "obbedienza civile" per il ricalcolo delle bollette, da pagare senza la remunerazione del capitale. E vi saranno specifiche iniziative giudiziarie.
Questo non è solo un segno della vitalità del movimento dell´acqua, che si conferma come soggetto politico capace di custodire e attuare la volontà dei cittadini. Rappresenta un momento importante della battaglia complessiva per il rispetto della legalità costituzionale.
Si delinea così con nettezza una strategia politica e istituzionale con la quale il governo deve fare i conti.
Può darsi che trovi sostegno debole nella propria maggioranza, dove sono molti quelli che anelano ad una rivincita sul risultato referendario. Ma, legalità costituzionale a parte, questo sarebbe da parte di tutti un segno di incomprensibile miopia politica, un´occasione ulteriore e grave di separazione tra ceto politico e opinione pubblica. Non si può costruire un continuum governoParlamento che contrapponga una propria maggioranza a quella referendaria. Se ci si vuole liberare dalle tossine e dai ricatti dell´antipolitica, bisogna guardare alla buona politica che in Italia si è manifestata con continuità fin dai primi mesi del 2010 e che ha prodotto la partecipazione attiva di 7 milioni di persone alle campagne per le elezioni amministrative e referendaria della passata primavera. Il governo non segua i cattivi consigli di chi incita a liberarsi dalla presa del "movimentismo".
Senza un confronto vitale con la società, il suo respiro sarebbe corto.
Il Parlamento, dal quale si levano voci da vergini violate da parte di chi ne ha segnato l´estrema mortificazione con il voto su Ruby come nipote di Mubarak, vuole ritrovare un suo ruolo? Ha davanti a sé una proposta d´iniziativa popolare per una nuova disciplina dell´acqua firmata da 400mila cittadini. Vi sono due disegni di legge per una nuova classificazione dei beni, con l´introduzione della categoria dei beni comuni, presentati dalla regione Piemonte e dai senatori del Pd. Metta questi testi all´ordine del giorno, ne discuta e il governo, per la parte che gli compete, secondi queste iniziative. E, comunque sia, misuri le sue decisioni con il metro di un´intelligenza politica lungimirante, che non guardi a beni e servizi come ad un´occasione disperata per fare cassa, ma ne consideri il nesso con i diritti fondamentali delle persone, il loro valore "comune" e così consenta pure una loro utilizzazione economica non prigioniera della logica distruttiva del brevissimo periodo.
Una volta di più, i cittadini stanno mostrando intelligenza politica, respiro culturale. Che le istituzioni siano alla loro altezza.
Dal 13 giugno, giorno della vittoria popolare nei referendum, sono passati cinque mesi e più, troppi in un'epoca di cambiamenti rapidi, materiali e finanziari. Il tempo è passato come acqua sui marmi dei Palazzi: non ha lasciato traccia. Il Forum dei movimenti per l'acqua che convoca la manifestazione di oggi spiega bene questo silenzio: «Governo e Confindustria, poteri finanziari e lobbies territoriali, visto che il popolo ha votato contro di loro, hanno deciso di abolire il popolo, con una nuova e gigantesca espropriazione di democrazia».
Abbiamo un nuovo governo, in Italia, approvato dal novanta per cento del parlamento. Il presidente del consiglio non ha trovato parole da indirizzare ai ventisette milioni di sì, non ha fatto neppure un cenno di riconoscimento nei loro confronti, un saluto, non ha citato l'esistenza di problemi ambientali. Un suo ministro, preposto proprio a quel tema, è inciampato sul nucleare, come se non sapesse che la maggioranza delle persone non ne vuole sapere. Sarà lui a rappresentare il paese a Durban in Sudafrica, dove tra pochi giorni il pianeta discuterà su come sopravvivere al disastro ambientale? Sarà lui a rappresentarci a Marsiglia, in marzo, quando si parlerà di acqua al sesto Forum idrico delle multinazionali? Cosa ne sanno costoro, vecchi e nuovi governanti, di acqua, se non che è roba che il mercato predilige e che si può vendere ad alto prezzo, facendo cassa? A Marsiglia, dentro e fuori il Forum dei padroni e il contemporaneo Forum alternativo dei popoli, sarà il referendum italiano a fare da protagonista. Tutti chiederanno come abbiamo fatto, cosa ci proponiamo; molti vorranno discutere, imparare da noi. Racconteremo di un movimento o meglio di mille movimenti, di persone che hanno imparato e insegnato nello stesso tempo, a fare la politica, a raccogliere le firme, a parlare, a cantare e ballare per l'acqua, con generosità e con fiducia nel buon diritto (e nel buon movimento).
Per tenere vivo questo impegno, il Forum lancia oggi, dalla manifestazione romana, la sua proposta di «obbedienza civile». Con un po' di ironia - uno scherzo gentile per coloro che conoscono le durezze della «disobbedienza civile» - si propone di far rispettare il diritto nato dal referendum, cominciando dal non applicare i balzelli che esso ha abrogato.
E' sempre la democrazia del referendum in campo, quella che nessuno ha pensato di consultare. Il nostro ceto politico, o chi lo rappresenta, o lo rappresentava, o lo rappresenterà, è talmente spaventato dallo spread da non vedere che il paese sta crollando, dalla Liguria alla Sicilia. Dice di non avere i quattrini per prevenire, per riparare. Potrebbe almeno rivolgersi a quei 27 milioni di persone che nell'acqua, quella buona come quella cattiva, hanno imparato ad affondare i piedi e le mani.
C’è un po’ di terrorismo in chi è contrario al fallimento nel descriverne gli effetti. Mi è chiaro che giungere a una qualche forma di fallimento non è come bere una tazza di caffè, ma il problema non è questo, il tema è: se ne può fare a meno? Una risposta a questo interrogativo presuppone una qualche considerazione sulle trasformazione del capitalismo. Un po’ mi devo ripetere, mi scuso.
Si sostiene che la crisi attuale è una crisi da eccessiva capacità produttiva e da mancanza di domanda solvibile. Due osservazioni: da una parte questa interpretazione è contraddittoria con l’osservazione che la crisi prende corpo da un eccesso di domanda a “credito”, quindi non la domanda ma la sua finanziarizzazione è il problema; dall’altra parte è vero che c’è una crisi di domanda dato che la popolazione viene continuamente tosata per far fronte alle ingiunzioni della finanza.
È necessario riflettere che la finanziarizzazione dell’economia non è solo una evoluzione del capitalismo ma la modificazione della sua natura. Il processo è passato dalla proposizione denaro-merce-denaro (D-M-D), attraverso il quale il capitale, con una distribuzione non equa del valore prodotto tra capitale e lavoro, accumulava ricchezza, a quella odierne denaro-denaro-denaro (D-D-D), che senza la “mediazione” della produzione di merci (e servizi), permette di accumulare ricchezza (in poche mani).
Si rifletta sui seguenti dati mondiali: il PIL ammonta a 74.000 miliardi; le Borse valgono 50.000 miliardi; le Obbligazioni ammontano a 95.000 miliardi; mentre gli “altri” strumenti finanziaria ammontano a 466.000 miliardi. Risulta così che la produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari. Quanto uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della “ricchezza” finanziaria che circola. Questo dato quantitativo ha modificato la qualità dell’organizzazione economica: mentre resta attiva la parte di produzione materiale si è sviluppata un’enorme massa di attività finanziaria che mentre trent’anni fa lucrava sul “parco buoi”, nome affibbiato a chi affidava alla borsa i propri risparmi nella speranza di arricchirsi, ora lucra sui popoli che da una parte sono sottoposti a una distribuzione non equa di quanto producono (gli indipendenti sono poco tali e sono entrati nella catena allungata del valore aggiunto) e, dall’altra parte, sono tosati (più tasse e meno servizi) in quanto cittadini.
Si tratta di un mutamento che investe la produzione, la distribuzione della ricchezza, ma anche il processo politico e la stessa, tanta o poca che sia, democrazia. Quando la ricchezza si produce attraverso la mediazione della merce era attiva dentro lo stesso corpo della produzione, una forza antagonistica che cercava di imporre una diversa distribuzione della ricchezza prodotta e l'affermarsi di diritti di cittadinanza. Nessun regalo, conquiste frutto di lotte, di lacrime e sangue. Al contrario quando diventa prevalente il meccanismo finanziario, si scioglie il rapporto tra capitale e società, e diventa impossibile ogni antagonismo specifico. Tutto si sposta sul piano politico, un bene e un male insieme. Un male perché manca una cultura alternativa, tutti viviamo entro la dimensione liberista e del mercato, un bene perché è possibile andare alla radice del problema.
È diventato senso comune che il mercato (finanziario) vuole sicurezza e credibilità! È una parte molto modesta della verità. La speculazione finanziaria da se stessa, data la massa di risorse che muove, e le tecnologie che usa (gli High Frequency Trading – HFT – che muovono due terzi delle borse), si crea autonomamente le occasioni di successo per speculare. Come ha scritto Prodi “i loro computer scattano tutti insieme, comprano e vendono gli stessi titoli e forzano in tal modo il compimento delle aspettative”. Contrastare la speculazione, come lo si sta facendo, significa solo offrirle alimento continuo. Si può fare più equamente, e sarebbe importante, ma questo non intaccherebbe il meccanismo. Bisogna colpire direttamente la speculazione al cuore, toglierle l’acqua nella quale nuota. Certo che ci vorrebbe un’azione comune a livello internazionale, ma l’elite politica e tecnica è figlia ideologica, qualche volta non solo ideologica, del liberismo e della finanza; ambedue si possono “criticare” ma non toccare, bisogna farli “operare meglio”. Come ha scritto Halevi, le maggiore banche tedesche e francesi sono piene di titoli tossici, messi in bilancio al loro valore nominale mentre valgono zero, ma il sistema (la governance europea franco-tedesca) difende le banche tedesche e francesi, mettendo in primo piano i debiti sovrani e le banche dei paesi sotto tiro (e quando toccherà alla Francia? Perché toccherà!).
In sostanza il sistema non si tocca; si possono punire, anche severamente, come in America, chi la fa grossa, ma poi si finanziano le banche, né si riesce a mettere una qualche freno (amministrativo, fiscale, legislativo, ecc.) alla speculazione. Come l’apprendista stregone che non riesce a gestire le forze che ha scatenato.
Non voglio dire che il sistema è al collasso, ma è sulla strada; ci vorrà tempo (anche secoli secondo Ruffolo) e ci vorranno forze, ma si coglie “una condizione di insoddisfazione diffusa, di generale incertezza e di sfiducia e timore del futuro”.
La Grecia ha fatto tutto quello che le era stato richiesto, licenziamenti, diminuzione di stipendi, tagli, ecc. ed è giunta, di fatto al fallimento (controllato). La speculazione finanziaria ha aggredito la Grecia, ha tosato la popolazione, ha scarnificato la società. Il furbo Papandreu ha tentato la mossa democratica del referendum, è stato redarguito, bastonato ed ha fatto marcia indietro.
Oggi tocca all’Italia (un po’ alla Spagna, domani la Francia, nessuno è al riparo. La finanza non ha patria, non ha terra, non ha sangue), che si appresta (con serietà, si dice) a seguire le richieste della Banca europea, del Fondo monetario, della Commissione della UE, cioè di fatto della finanza, per scivolare lentamente in una versione diversa della Grecia. Ha senso? Certo che no, ma la questione è: ha senso una politica keynesiana? Ha senso una più equa distribuzione dei sacrifici? Ha senso pensare a risposte più “riformiste” e civili alle indicazione della Banca europea? Ha senso pensare ad operation twist (di che dimensione dato l’ammontare del debito italiano), proposta da Bellofiore e Toporowski? senza con tutto questo intaccare il potere e la capacità operativa della speculazione (che costituisce parte strutturale del sistema)?
Credo di no, e mi domando: è necessario continuare ad avere la Borsa che ha perso ogni originale funzione? È possibile dividere le banche che fanno finanza da quelle della raccolta e collocamento del risparmio? È possibile avere una banca europea che operi come una banca nazionale? È possibile avere un governo europeo, non solo economico ma generale? È possibile tassare le rendite e i patrimoni? Ecc. Tutto è possibile ma poche cose sono probabili.
Qual è l’ottica con la quale un governo di centro-sinistra (che si dice probabile) deve guardare alla situazione? Certo c’è da ricostruire il senso della società, come dice Rosy Bindi, c’è da ricostruire un ruolo internazionale, c’è da rilanciare lo sviluppo (sostenibile, equilibrato, ambientale, risparmiatore, ecc. lo si qualifichi quanto lo si vuole), c’è da affrontare il problema del lavoro di giovani, donne, precari, disoccupati, c’è da occuparsi di scuola, sanità, territorio, ecc. La domanda è: tutto questo è fattibile insieme al pagamento del debito? Qualcuno (Amato) parla di una patrimoniale di 300-400 miliardi per ridurre drasticamente il debito. Bene, ma tutto il resto come lo si fa? Sacrifici, per piacere no, riforme impopolari per piacere no, e non solo per collocazione politica ma perché inutili e dannosi per fare tutte le cose elencate prima.
Penso che bisogna mettere mano al debito. Il come, dipende da volontà e forza: un concordato con i creditori (via il 30%); una moratoria di 3-5 anni; differenziato rispetto alle persone fisiche e alle istituzioni (le banche che hanno in bilancio titoli tossici potrebbero benissimo tenersi anche i titoli sovrani, con buona pace del Cancelliere tedesco), ecc. La patrimoniale certo che ci vuole, ma dovrebbe servire ad avviare tutte le altre cose, così come una ristrutturazione della spesa pubblica (spese militari, ecc.) potrebbe liberare risorse. Mentre la lotta all’evasione (mancati introiti per 120 miliardi l’anno) e alla corruzione (60 miliardi l’anno) potrebbero servire alla diminuzione delle imposte dei lavoratori. Insomma ci sarebbe tanto da fare, ma bisogna in parte, in toto, o per un certo numero di anni, liberarsi del debito.
Non dovrebbe essere una iniziativa europea? Certo, ma in sua mancanza facciamo da soli, non c’è da salvare una astratta Italia, ma una concreta popolazione di uomini e donne. Questo è il tema.
Oggi ci avviamo al governo del “grande” Mario; che si tratti di persona onesta e retta è molto probabile, ma è il suo pensiero che preoccupa, un pensiero tanto forte quanto inefficace.
GENOVA – Un fondo alimentato da forme di fiscalità per finanziare gli interventi di emergenza, ma soprattutto quelli di prevenzione e le opere infrastrutturali: questo proporrà oggi al Consiglio dei Ministri Corradi Clini, responsabile del dicastero dell’Ambiente.
Da Genova (colpita dall’alluvione il 4 novembre) il ministro ha tracciato il suo programma: la costituzione del fondo da sostenere «non con una tassa di scopo propriamente detta» ma con risorse che potrebbero derivare «anche dalla patrimoniale se si deciderà di vararla».
Intanto oggi si prorogherà probabilmente l’aumento delle accise sul carburante. Clini ha dichiarato l’intenzione di rivedere la legge urbanistica nazionale in riferimento alle autorizzazioni edilizie: «In Italia sono state e sono autorizzate costruzioni – ha detto – che mai avrebbero dovuto essere approvate». Occorreranno sei mesi per tracciare «le nuove linee guida» e mettere in cantiere una mappatura del territorio.
Il principio ribadito dal ministro è stato: spendere in prevenzione è meno costoso che rincorrere i danni in emergenza. In riferimento all’outlet che dovrebbe essere costruito a Brugnato, un comune alluvionato, Clini ha detto, «mi sembra difficile che qualcuno abbia la fantasia di autorizzare costruzioni nuove in zone che sono esposte a rischi».
Gli scioperi generali erano molto comuni in Europa e Stati uniti sul finire del diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo. Essi provocarono intensi dibattiti nei sindacati e nei partiti e movimenti rivoluzionari (anarchici, comunisti, socialisti). L’oggetto del dibattito era l’importanza dello sciopero generale per le lotte politiche e sociali, le condizioni per il loro successo, il ruolo delle forze politiche nella loro organizzazione. Rosa Luxemburg (1871-1919) fu una delle presenze più importanti in quei dibattiti. Ora lo sciopero generale è tornato. In Europa, dopo quelli in Grecia, Spagna e Italia, ieri era la volta del Portogallo. Perché lo sciopero generale è tornato? Che analogie ci sono con le condizioni e le lotte sociali del passato?
Nei loro distinti ambiti (comunità, città, regione, paese), lo sciopero generale è sempre stato la manifestazione della resistenza contro situazioni ingiuste e dannose, ossia, situazioni che peggioravano le classi lavoratrici o perfino la società nel suo complesso, anche se specifici settori sociali o professionali potevano essere quelli più direttamente colpiti. Il rifiuto di diritti civili e politici, le repressioni violente contro le proteste sociali, le sconfitte dei sindacati nella loro lotta per il welfare sociale o contro la dislocazione di fabbriche con il relativo impatto diretto sulla vita di intere comunità, i «tradimenti parlamentari» (come le scelte della guerra o del militarismo), queste furono alcune delle condizioni che nel passato portarono allo sciopero generale.
All’inizio del ventunesimo secolo noi viviamo in un tempo diverso; le condizioni ingiuste e dannose non sono le stesse di prima. Tuttavia, rispetto alle rispettive logiche sociali, ci sono inquietanti similitudini. Ieri, la lotta era per quei diritti di cui le classi popolari sentivano di essere ingiustamente privati; oggi, la lotta è contro l’ingiusta perdita di diritti per cui tante generazioni di lavoratori hanno combattuto e che parevano essere conquiste irreversibili. Ieri, la lotta era per una più equa distribuzione dell’immensa ricchezza creata dal capitale e dal lavoro; oggi, la lotta è contro una distribuzione della ricchezza sempre più iniqua (la confisca di salari e pensioni, l’aumento dello ore di lavoro e l’accelerazione dei ritmi lavorativi; imposizioni fiscali e salvataggi finanziari che favoriscono i ricchi - l’1% secondo quelli che vogliono occupare Wall Street - e condannano l’altro 99% a una vita quotidiana fatta di ansie e incertezze, di attese frustrate, dignità e speranze perdute).
Ieri, la lotta era per una democrazia che doveva rappresentare gli interessi della maggioranza emancipata; oggi, la lotta è per una democrazia che, una volta conquistata, è stata svuotata dalla corruzione, mediocrità e dalla avidità di leader e di tecnocrati non eletti che servono il capitale finanziario come hanno sempre fatto. Ieri, la lotta era per alternative (il socialismo) che le classi dirigenti sapevano esistere e quindi, chiunque le sostenesse, doveva essere represso brutalmente; oggi, la lotta è contro il senso comune neo-liberista, doviziosamente riprodotto dai media, che non c’è alternativa al crescente impoverimento delle maggioranze o allo svuotamento delle opzioni democratiche.
Alla luce di tutto questo, lo sciopero generale di ieri in Portogallo vuole lanciare i seguenti messaggi. Primo, le misure di austerità approvate dal governo per il prossimo budget sono controproducenti in quanto è tanto vero per i governi quanto per la gente comune che nessuno paga i suoi conti producendo e lavorando di meno; quelle misure d’austerità porteranno ad altre misure dello stesso tipo con l’ulteriore impoverimento di milioni di persone (guardate la Grecia); i sacrifici chiesti ai portoghesi non saranno mai compensati dai mercati perché questi prosperano chiedendone sempre di più (guardate all’Irlanda). Secondo, la soluzione meno dannosa è una soluzione europea.
Però federalizzare il debito senza federalizzare la democrazia (la soluzione favorita dalla Germania: gli eurobonds in cambio della resa totale al controllo finanziario di Berlino) significherà la fine della democrazia in Europa, e la Germania dovrebbe essere il paese meno interessato a una tale prospettiva. Come alternativa la Ue dovrebbe lavorare in tempi rapidi per andare alla federalizzazione del debito insieme alla federalizzazione della democrazia (più poteri all’euro-parlamento, elezione diretta della Commissione europea, un nuovo mandato per la Banca centrale). Dal momento che questo richiede tempo e per i mercati il lungo termine sono i prossimi dieci minuti, la Banca centrale europea dovrebbe cominciare a intervenire subito e in modo tale da mandare un segnale inequivoco della fattibilità e credibilità dei futuri cambi politici. Con un nuovo presidente e una diversa interpretazione del mandato corrente, questo è nelle possibilità della Bce.
* Sociologo, professore alla facoltà di economia dell’università di Coimbra (Portogallo) e docente di diritto alla università del Wisconsin-Madison (Usa). E’ uno dei fondatori del Forum sociale mondiale
Che cosa si può cogliere sulla politica infrastrutturale del governo Monti? Finora, come giusto dati i tempi strettissimi, non molto. Innanzitutto una attenzione particolare all’intervento dei privati, attraverso una riforma del project financing, che ne aumenti il ruolo e li protegga maggiormente dai capricci della politica. C’è solo da aggiungere che occorrerà anche un occhio vigile sugli aspetti indifendibili del project financing all’italiana: l’indebitamento pubblico mascherato, ciò l’intervento di capitali privati la cui redditività sia comunque garantita dallo stato. Di fatto, un prestito in altra veste, solo dilazionato nel tempo in modo non trasparente.
Facciamo un esempio: le nuove linee ferroviarie non hanno alcun ritorno finanziario (gli utenti non ne vogliono sapere di pagare gli investimenti). Il project financing in questo caso si trasforma sì in un investimento privato, ma con dei canoni annui a carico delle Ferrovie (“canoni di disponibilità”, nei termini della “finanza creativa” cara al governo Berlusconi), che di fatto sono le rate di un prestito ben mascherato. Purtroppo le banche hanno un ruolo centrale in queste operazioni, e certo non tocca a loro entrare nel merito di chi alla fine pagherà, cioè, in questo caso, gli ignari contribuenti, attraverso il bilancio di Fs, società tutta pubblica. Notoriamente, le autostrade, piaccia o meno, hanno utenti molto più disposti a sobbarcarsi i costi di investimento, sempre a loro insaputa.
Allora sembra urgentissimo dare forti segni di discontinuità rispetto alla logica delle grandi opere berlusconiane, soprattutto in termini di trasparenza: confrontare tra loro i progetti sul tavolo con analisi costi-benefici, e esplicitare chi e quanto alla fine pagherà. Infine c’è il problema di spendere i pochi soldi pubblici che ci saranno, con forti contenuti anticiclici: meglio allora concentrarsi sulle “piccole opere”, ad alta intensità di lavoro (ad esempio le manutenzioni), meno visibili politicamente ma molto più efficaci e utili.
Cronaca di un disastro annunciato
di Alessio Caspanello
Da settembre a oggi in Italia sono 32 le vittime del dissesto idrogeologico. Manca un piano nazionale di prevenzione L'alluvione che ha colpito il messinese devasta il comune di Saponara. Tre le vittime travolte dal fango. La Procura apre un'inchiesta per omicidio colposo Si poteva mettere in sicurezza il territorio con quei 160 milioni promessi e congelati da Berlusconi
Chiudendo gli occhi per un attimo, sembra di essere tornati indietro al primo ottobre del 2009. L'odore nauseabondo del fango, l'olezzo della nafta bruciata dai mezzi di soccorso, gli ordini urlati, il calpestio degli anfibi dei soccorritori, gli sguardi smarriti, gli occhi al cielo sperando che il sole faccia capolino dietro le nuvole nere, le bestemmie e le preghiere. Due anni fa, a Giampilieri e Scaletta, sotto il fango di messinesi ne sono rimasi trentasette. Ieri, di messinesi ne sono morti tre. Per il resto, tutto uguale. Due anni. Trascorsi invano.
Non è un paese normale quello in cui ogni volta che piove ci si deve chiudere in casa per ordinanza sindacale, quasi si fosse in guerra. Non è un paese normale quello in cui non c'è sicurezza nemmeno barricati dentro casa, perché troppo vicina agli argini di un torrente o troppo sotto una montagna. Non è normale che, a danno annunciato, non si intervenga. Saponara è un paesino di poche migliaia di abitanti, in collina, a cinque km in linea d'aria dal mare. Fino a ieri, era famoso per aver dato i natali a Graziella Campagna, la ragazzina quindicenne vigliaccamente uccisa dagli sgherri locali affiliati a Cosa nostra. Da ieri, e per qualche giorno, la ribalta delle prime pagine. Luigi Valla, il figlio Giuseppe ed il piccolo Luca Vinci sono rimasti vittime del fango e dell'acqua.
Luigi, cinquantacinquenne dirigente provinciale della Fiom (e già animatore della sezione del Pci di Saponara) e Giuseppe, studente di medicina di 28 anni, sono stati travolti in casa dalla frana che si è staccata dal costone sovrastante la loro abitazione. Luca, un bambino di soli dieci anni, è stato letteralmente strappato dalle mani della madre dalla furia del fango che veniva giù dalla monta: un evento imprevedibile, ha confermato il capo della protezione civile Franco Gabrielli. E anche Gaetano Sciacca, ingegnere capo del Genio civile di Messina che negli anni non le ha certo mandate a dire sul delirante scempio che si è fatto del territorio, ha dovuto constatare come le condizioni della collina che è franata siano buone, come il versante sia stato curato, come sia presente una vegetazione rigogliosa. E come le case non sorgano in zone abusive, precisazione che, quando una tragedia di questo tipo accade in Sicilia, è sempre meglio evidenziare in rosso, giusto a scanso di equivoci. Versione confermata anche dal sindaco di Saponara, Nicola Venuto, che, quasi in lacrime, ha spiegato che nel 2010 c'erano stati degli smottamenti e segnalati dei rischi «ma in un un'altra zona, non in questa».
E quindi pare proprio che la mano dell'uomo, nella tragedia non ci sia. Pare. Perché, di nuovo, non è normale che una tempesta possa uccidere tre persone. L'Italia, la Sicilia, e Messina in particolare, è una lunga teoria di torrenti che dalle montagne scorrono verso il mare. E negli anni sono stati riempiti di detriti, usati come discariche, colonizzati da case e coperti dal cemento. E le montagne, le montagne lanciano segnali, avvertimenti, non cadono giù da un giorno all'altro. Bisogna coglierli, quei segnali. E possibilmente intervenire. Perché i torrenti esondano, e le montagne franano. Ed quando lo fanno, esigono un tributo in vite umane. E non bastano i messaggi di cordoglio, e la fila di auto blu di fronte alla Prefettura. Servirebbero interventi massicci. Quelli che avrebbero in parte potuto garantire i centosessanta milioni di euro che il governo Berlusconi aveva stanziato per Giampilieri, Scaletta, Mili, san Fratello, Caronia, tutti comuni del messinese, ionici, tirrenici, peloritani e nebroidei devastati da frane e alluvioni.
Sarebbero serviti se solo fossero stati disponibili. E invece niente: accreditandoli, si sarebbe sforato il patto di stabilità della Regione Sicilia. E quindi niente. Alla fine, raschiando il barile, di milioni ne sono arrivati una quarantina. Per una intera provincia che si sbriciola sotto la pioggia.Il mattino dopo, a Saponara c'è un sole che sembra maggio. Perché la natura, se vuole, sa anche essere bastarda. E beffarda. Quello che resta è un paese colorato di marrone, gente che scava, gente che conta i danni, gente che si dispera e gente che piange. E che cerca un colpevole. Trovarlo, se mai ci si riuscirà, toccherà al Procuratore Capo Guido Lo Forte e al sostituto Camillo Falvo, che sono arrivati in paese per l'apertura dovuta di un'inchiesta: disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Che arriva giusto una decina di giorni dopo i 18 avvisi di chiusura indagini per i fatti di Giampilieri.
Stess test territoriali, non grandi opere
di Tonino Perna
Il primo ottobre del 2009 a Giampilieri, nella stessa provincia di Messina flagellata in questi giorni, caddero in poche ore 350 millimetri di pioggia. I morti a causa delle frane furono 37. A Genova, pochi giorni fa, di millimetri ne sono caduti 500, quanta pioggia viene mediamente giù in sei mesi.
Gli eventi estremi di cui tutti ora parlano con padronanza di linguaggio - uragani, tifoni e alle nostre latitudini piogge intense e concentrate alternate a periodi di forte siccità - sono ormai una tragica normalità. Il cambiamento climatico è una verità scientifica e non un'opinione. Di conseguenza, accusare la natura come il Fato è sbagliato e serve solo a nascondere altre responsabilità, umane e politiche.
Per la sua vicinanza geografica ai luoghi del disastro odierno, quello che è accaduto a Giampilieri rappresenta una perfetta cartina di tornasole. Il governo aveva promesso di intervenire, ma gli unici soldi arrivati sono andati agli alberghi della costa costretti a ospitare gli sfollati. In due anni non si è fatto nulla, e molti sono rientrati clandestinamente nelle case a rischio per necessità e non per incoscienza.
Oggi si ripresenta la stessa situazione. Tutti si strappano le vesti per poi non fare assolutamente nulla per il risanamento del territorio. Fare i conti con la normalità degli «eventi estremi» è una necessità che non trova adeguata rispondenza nelle volontà politiche dei governi.
Eppure le idee e le competenze per intervenire con successo non mancherebbero. Basterebbe farla finita con le grandi opere per destinare le risorse a un'unica opera di messa in sicurezza del territorio, a carattere nazionale, articolata in tante piccole opere locali sulla base di una scala di priorità, come da tempo propone anche Sbilanciamoci. Ma come si definisce questa scala di priorità? Attraverso degli stress test territoriali, simulando l'impatto di una pioggia intensa su un determinato territorio, secondo le sue caratteristiche morfologiche, e agendo su di esso di conseguenza.
È grave che tutto ciò non si faccia, ancora più grave in tempi di crisi economica e finanziaria. Abbandonare il territorio vuol dire non solo sopportare la tragedia delle vittime e il costo (materiale e immateriale) dei danni ambientali. Vuol dire anche alimentare l'assistenzialismo statale, ad esempio pagando per anni l'albergo a chi è rimasto senza un tetto. Quello stesso assistenzialismo che a parole si dice di voler combattere.
Stato di calamità in Calabria: Scopelliti fa l'«ambientalista»
di Silvio Messinetti
Un morto, una tragedia ferroviaria sfiorata, un ponte crollato, la linea jonica interrotta in più punti, intere zone del catanzarese prive di energia elettrica, gravi danni a Catanzaro città, chiuse le sale operatorie del Policlinico, decine di negozi invasi da fango ed acqua. Insomma, un disastro. Il solito in Calabria. Dove sostiene Legambiente: «Il 100% dei comuni è a rischio frane». E di fronte a questi dati raccapriccianti la politica non sa far altro che passerelle e messinscene.
«Chiediamo l'attivazione delle procedure per la dichiarazione dello stato di calamità. Speriamo che il governo ci fornisca tempestivamente le risposte. Noi faremo tutto ciò che è utile per cercare di attirare l'attenzione per il nostro territorio visto che i danni sono ingenti. Quello che noi facciamo finta di non sapere è che esistono situazioni di alloggi, abitazioni costruite all'interno di fiumare. E questo è accaduto perchè la politica era disattenta e oggi paghiamo le situazioni del passato. Dobbiamo lavorare per cercare di consolidare il nostro territorio e salvaguardarlo».
A parlare non è un'attivista dei movimenti a difesa del territorio ma il presidente della Regione, Peppe Scopelliti (Pdl), che anziché fare il mea culpa si traveste da ambientalista fuori tempo massimo. E alla presenza del capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, si cimenta nel solito scaricabarile. Ingiustificabile dato che le responsabilità delle istituzioni sono gigantesche. Sono passati appena 18 mesi dalla frana spettacolare di Maierato le cui immagini fecero il giro del mondo, e Scopelliti e compari in questo tempo sono stati a guardare. Nessun piano di messa in sicurezza del territorio, nessuna opera di salvaguardia e prevenzione. Ma solo cementificazione selvaggia, speculazione edilizia, banditismo urbanistico. E il risultato è sconcertante, la lista dei danni di due giorni di pioggia lunga come un lenzuolo.
Ieri è stato il crotonese a essere interessato da forti temporali che hanno provocato l'allagamento di molte abitazioni poste ai piani terra e di diversi scantinati, oltre a problemi alla circolazione per una serie di piccole frane verificatesi su alcune strade interne. Interrotta la linea ferroviaria jonica tra Soverato e Crotone per un muro caduto e allagata la stazione di Botricello. A Reggio in località Bocale i vigili del fuoco sono intervenuti per soccorrere una donna rimasta isolata nella sua abitazione dopo che una mareggiata aveva portato via un tratto di strada. A Cinquefrondi e a Cittanova le scuole sono state chiuse su disposizione dei sindaci. Stessa cosa a Catanzaro, colpita da un vero e proprio diluvio durato fino a notte fonda. Non è ancora chiaro il quadro dei danni, delle frane, delle interruzioni stradali dentro la città e nell'immediata periferia.
Le zone più colpite sono quelle a sud, nei quartieri Santa Maria e Lido e a Catanzaro Sala che ancora piange il morto di lunedì notte travolto dal muro della sua abitazione. Molti altri quartieri risultano senza energia elettrica. La linea ferroviaria tra Lamezia e Catanzaro è ancora interrotta a causa del crollo di un ponte avvenuto pochi istanti dopo il passaggio di un convoglio che è deragliato per la presenza sui binari dei detriti provocati da uno smottamento. I 21 passeggeri non hanno riportato conseguenze. Solo per una fortunata casualità il treno non è precipitato nel dirupo sottostante. Nella Locride stanno tornando a casa gli abitanti di Platì, dopo l'evacuazione di dieci nuclei familiari. E poi c'è Natile Vecchio, nel pressi di Careri, in provincia di Reggio ove l'unico ponte di accesso al paese è crollato. Come la credibilità di chi governa una Regione che anziché pianger miseria dovrebbe assumersi per intero le responsabilità. E dimettersi.
Aggrediti dal cemento
di Elena Di Dio
L'ingegnere capo del genio civile di Messina parla con voce trafelata. Col cuore denso di rabbia e negli occhi lo strazio di un territorio macellato, esposto; nelle orecchie le parole di sconforto degli abitanti di contrada Scarcelli a Saponara, piccolo centro sul versante tirrenico a 23 chilometri da Messina capoluogo, costretti da ieri ad abbandonare le proprie case per l'ordine di evacuazione del sindaco Nicola Venuto. Gaetano Sciacca, l'ingegnere capo del genio civile, da qualche anno a Messina è la voce stonata nel coro di parole inutili che amministratori, consiglieri e commentatori vari dedicano alle alluvioni, al dissesto idrogeologico, alle morti di Giampilieri, al recupero del suolo.
A Giampilieri, il 1 ottobre del 2009, morivano 37 messinesi sepolti dal fango di una collina crollata sulle case. Lui, Sciacca, poche ore dopo ricordava a tutti - proprio dalle pagine del manifesto - che le sue denunce sulla fragilità di un territorio aggredito dalle costruzioni erano state opportunamente inviate alle autorità competenti insieme a un piano di interventi mai realizzato. Fino alla tragedia. Da Giampilieri in poi, l'unica a mantenere le promesse di stanziamento dei fondi pubblici è stata la Regione siciliana che ha investito per l'apertura di 21 cantieri in quelle aree sulla fascia ionica di Messina 40 milioni di euro. I 160 milioni di euro promessi dal premier dimesso Silvio Berlusconi sono un miraggio. Lo sono stati in questi due anni e continuano a esserlo dopo la firma dell'ordinanza con cui l'ex presidente del consiglio, solo il 2 settembre scorso, prevedeva lo stanziamento. Un territorio abbandonato. E malgovernato, come continua a dire Sciacca dopo la tragedia che ieri sera a Saponara ha portato via con fango e rabbia la vita di Luca Vinci, un bimbo di dieci anni e quelle di Luigi e Giuseppe Valla, padre e figlio.
«Non si può consumare altro suolo - tuona Sciacca - Non si può costruire ovunque rilasciando concessioni edilizie senza considerare le ricadute su un territorio fragilissimo. I sindaci facciano la prima cosa essenziale e doverosa per il compito che gli viene consegnato: garantire la sicurezza dei cittadini. Finché la vera emergenza sarà un territorio così a rischio l'emergenza non si esaurirà mai». È agitato Sciacca ma lucido come sempre e ai sindaci del territorio siciliano manda a dire chiaro e tondo: «Il governo del territorio spetta al sindaco che lo esercita attraverso la pianificazione territoriale dei piani regolatori generali. Basta nuove costruzioni. Stop all'aumento degli indici di edificabilità. Il nostro territorio non può più sopportarlo. I soldi delle amministrazioni pubbliche non possono essere spesi per le opere di urbanizzazione a vantaggio delle nuove lottizzazioni.
I soldi devono essere spesi per la valorizzazione e la messa in sicurezza dell'esistente. È uno scempio non più sostenibile». Parole che suonano come una sentenza e che si concentrano sulle omissioni locali tralasciando quelle di un governo nazionale che ha dimenticato il territorio del meridione e quello della provincia di Messina in particolare. Segnata a ogni ottobre - il mese delle alluvioni e dei nubifragi in questa area della penisola - dal rischio di tragedie legate al maltempo che sbriciola interi tratti collinari. È successo già nel 1998 quando morirono a Messina città cinque persone, si è ripetuto nel 2009 a Giampilieri con 37 vittime. Si è replicato ieri a Saponara con tre morti.
Il governo Monti, intanto, muove i primi passi. I ministri dell'Ambiente Corrado Clini e dell'Interno, Anna Maria Cancellieri sono stati in prefettura ieri pomeriggio per discutere delle misure d'emergenza e di una primissima stima dei danni per portare in consiglio dei ministri, in programma domani, il caso Messina. E individuare le risorse da destinare a questo territorio. Conferma anche l'assessore al Territorio della Regione siciliana, Sebastiano Di Betta: «Il Corpo forestale della Regione già ieri ha effettuato i primi sopralluoghi nelle zone alluvionate per una primissima conta dei danni. Il ministro Clini ha assicurato l'intervento del governo».
Il Ponte delle sciagure
di Antonello Mangano
«Diciamo che si sono allargati». Quando il presidente dell'Anas Piero Ciucci venne nella città dello Stretto per presentare il progetto del Ponte commentò così la lunghissima lista di «opere compensative» presentata dai politici locali. Era il febbraio 2010. L'incontro si tenne in un «palacultura» inaugurato dopo 35 anni di lavori. Il disagio del megacantiere andava compensato col raddoppio della tangenziale e con nuovi svincoli autostradali, persino quello di Giampilieri. Fino alla richiesta che oggi assume un significato particolare: la copertura dei torrenti Papardo e Annunziata, ovvero quei piccoli tratti miracolosamente sfuggiti all'asfalto. Il 27 settembre del 1998 l'Annunziata straripò uccidendo cinque persone: una intera famiglia più un cingalese trascinato via dal fango. Allora si ascoltò per la prima volta il consueto «mai più» che ogni volta avrebbe accompagnato i funerali delle vittime e le immagini dei corsi d'acqua trasformati in bombe d'acqua. E una delle discariche previste dal progetto del Ponte è posta proprio sopra il torrente Annunziata.
Poche settimane fa una delegazione della Rete No Ponte riusciva a incontrare il vicesindaco superando un doppio sbarramento di polizia e vigili urbani. Gli attivisti volevano semplicemente invitare i politici locali a non firmare l'accordo con la «Stretto di Messina» che avrebbe consegnato il territorio a un progetto di devastazione. Oltre sei milioni di metri cubi sarebbero «conferiti» nei «siti di recupero ambientale», secondo l'elegante burocratese dei progettisti. Per ambientalisti e tecnici, invece, si tratta di discariche poste nei canali d'impluvio: cioè ulteriori tappi capaci di creare nuove bombe d'acqua. Alcune sono previste a Messina, le altre a Torregrotta e Valdina, esattamente a metà strada tra Barcellona e Saponara, teatro delle alluvioni che hanno fatto tre morti.
«Oggi in una scuola ho visto le classi vuote. Ormai la gente non esce di casa se vede una nuvola nera», disse un attivista al vicesindaco. «Bisogna avere i dati, le prove», rispose il lungimirante politico. Dopo qualche settimana il primo cittadino - in seguito all'allerta meteo - ordinava a tutti i presidi della città di trattenere gli alunni fino al termine della pioggia. In molti casi era troppo tardi: i dirigenti scolastici avevano mandato a casa i bambini. Per evitare lo psicodramma del 9 novembre, due giorni fa le scuole sono rimaste chiuse preventivamente.
Ieri il consiglio comunale messinese, per la quinta volta di seguito, si è riunito per discutere l'accordo di programma con la Stretto di Messina. Nelle quattro occasioni precedenti era mancato il numero legale. Il sindaco era stato spesso assente. Ponte e sicurezza del territorio sono questioni cruciali per la città, ma la classe politica le vive con rilassatezza. Gli animi si infiammano solo quando si discute di «opere compensative», ovvero la modalità con cui un ceto politico di questuanti spera di strappare a Roma le risorse che per via ordinaria non arriveranno mai.
«I cittadini chiedono sicurezza dal rischio idrogeologico. Le frane che hanno causato 37 morti il primo ottobre 2009 rappresentano l'evento più tragico di una sequenza di episodi calamitosi. Sotto accusa è un modello di gestione del territorio». Subito dopo la tragedia di Giampilieri il movimento No Ponte chiedeva che le risorse per la grande opera fossero spostate alla sicurezza del territorio. Una posizione oggi condivisa da tutti gli schieramenti politici e dalle parti sociali, ma che non ha prodotto risultati tangibili.
Nello Stretto opera già il cosiddetto «monitore ambientale», la figura prevista dal contratto del Ponte. Dovrebbe studiare «ante operam» il territorio. Un appalto da 29 milioni di euro. La società capofila è la multinazionale EDF, equivalente francese dell'Enel, accusata di aver inquinato la falda acquifera di Melfi, in Basilicata. Gli studi previsti riguardano la lepre italica e i pipistrelli, ma ci dicono pochissimo sulla fragilità del territorio.
Per Giampilieri e Scaletta Zanclea (altro comune vittima del disastro del 2009) sono stati stanziati fondi per 180 milioni. Ma sono inutilizzabili a causa di un'ordinanza sbagliata. Sembra quasi che le sciagure siano preparate con cura, per una sorta di «shock economy» all'italiana. Un copione che due anni fa vedeva Berlusconi sorvolare in elicottero le zone devastate, proporre il suo show a base di battute, promettere agli sfollati una nuova abitazione col frigo pieno. Di solito si concludeva con gli affari della cricca.
A Messina non funzionò, i movimenti e gli abitanti rifiutarono le new town. Ai funerali il cavaliere fu pesantemente contestato. E ci rimase malissimo: «Berlusconi va a Messina, lavora tutta la mattina per rifare le case, va in chiesa e sta tre ore in piedi con la gamba che gli fa male, di fronte alle bare. Abbraccia tutti coloro che deve abbracciare perché hanno perso i cari», confida a Lavitola in una celebre telefonata intercettata. «Poi dalla chiesa va alla sua macchina e ha quindici giovani da una parte e dall'altra che gli dicono 'assassino', 'buffone', 'vergogna'. E non succede niente. O lascio, o facciamo la rivoluzione. Ma la rivoluzione vera».
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Rapporto della Protezione Civile
Un «dilagante processo di urbanizzazione», la «cementificazione dei corsi d'acqua», la «deforestazione» dei bacini idrografici, la mancata manutenzione di fiumi, torrenti, scarichi a mare, insomma la fotografia di un territorio con «squilibri idrogeologici non disgiunti da cause antropiche»: era già tutto nel rapporto della Protezione civile scritto nell'ottobre 2008, un anno prima delle 37 vittime dell'alluvione che colpì il messinese devastando Giampilieri e un anno dopo l'alluvione del 25 ottobre 2007, quando esondarono i fiumi, si registrarono smottamenti e frane ma, per fortuna, nessun morto. Quel rapporto è stato consegnato alla procura di Messina che ne ha tratto spunti per l'inchiesta sui fatti del 2009, chiusa una decina di giorni fa con l'avviso di conclusione indagini a 18 tra amministratori, tecnici e dirigenti.
ROMA — Corrado Clini, il nuovo ministro dell'Ambiente, ha parlato di «svuotamento». Ha detto ieri, prima di volare a Messina: «Bisogna cominciare ad agire sui territori svuotando le zone dove non si sarebbe mai dovuto costruire». E in tanti hanno applaudito, gli ambientalisti per primi, loro che da anni quello svuotamento lo chiamano «delocalizzazione» e che, da anni, professano la libertà dei fiumi oggi imbrigliati dal cemento.
Eppure la proposta del ministro Clini è costellata di «ma». Gabriele Scarascia Mugnozza, capo dipartimento di Scienza della Terra dell'università La Sapienza di Roma, li riassume con due domande: «Clini dice cose giustissime: ma dove trova i soldi per fare questo? E anche: dove trova le persone che hanno la forza di spostare i cittadini dal proprio territorio?».
Già: chi li sposta i cittadini dalle loro case? Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia, pensa che non ci siano persone così. Pensa che: «La teoria delle nuove case che costerebbero molto molto meno che rimettere in sicurezza le case crollate trova la resistenza imbattibile dei cittadini». E non è un pensiero solo del meridione profondo.
Basta fare un salto fra i paesini della Toscana ferita: «Cosa pensa Clini? Di cancellare i piccoli comuni con un colpo di spugna?». Sandro Donati è il sindaco di Mulazzo, il comune che custodisce Montereggio, il paesino dei librai analfabeti. «Ci sono la storia, la cultura, le tradizioni con cui fare i conti», ribadisce il primo cittadino eletto in una lista civica di centrosinistra. E le sue parole incontrano l'esperienza tecnica di Paola Pagliara, capo del settore rischio idrogeologico della Protezione civile.
Dice Pagliara: «Di fronte al rischio idrogeologico non ci sono che due approcci possibili: o si svuotano gli abitati o si rimettono in sesto. Storicamente come Protezione civile abbiamo sempre avuto problemi con lo svuotamento. Il primo che facemmo, a Cavallerizzo di Cerzeto, nel cosentino, ci fece combattere con una resistenza strenua degli abitanti della comunità che lo abitava».
Ma non è soltanto un problema di cittadini. Franco Orsi, sindaco (e senatore) pdl di Albisola, Liguria, dice di non aver problemi a «delocalizzare» i propri cittadini al momento dell'allerta meteo. «Il problema della proposta del ministro Clini è un altro: d'accordo svuotare, dunque abbattere le case. E gli ambientalisti applaudono. Ma poi? Quando si tratta di ricostruire? Ha un'idea il ministro di quanto sia problematico far passare le varianti ad un piano regolatore? E quante resistenze oppongono gli ambientalisti?».
Oggi queste resistenze gli ambientalisti le hanno lasciate da parte. Applaudono alla proposta di Corrado Clini che vede coronare il loro sogno di liberare i fiumi. E le obiezioni, semmai sono di altro genere. Come quelle economiche avanzate da Francesco Ferrante, senatore ecodem del Pd: «Sacrosanta la proposta del ministro. Ma siamo sicuri di trovare ovunque le sostenibilità logiche ed economiche?».
Paure condivise anche da Maria Grazia Midulla, responsabile clima ed energia del Wwf, e da Giorgio Zampetti, dell'ufficio scientifico di Legambiente che, però, sostiene la proposta come una panacea: «La delocalizzazione è una proposta che noi facciamo da sempre. Delocalizzare una struttura è un intervento risolutivo, la messa in sicurezza è invece infinitamente più onerosa».
Gian Vito Graziano, presidente del consiglio nazionale dei geologi, esordisce entusiasta: «Penso che quella del ministro Clini sia una scelta molto coraggiosa». Il «ma» arriva subito dopo: «Come pensa di riuscire ad attuarlo? In Italia manca una legge che supporti la difesa del sottosuolo, adesso affidata soltanto ad un capitolo della legge 152 del 2006. Ed è ben poca cosa: io in Italia non ho mai visto buttare giù una villetta, ma nemmeno una casetta abusiva».
Francesco Chiocci, ordinario di Geologia alla Sapienza di Roma, propone il «ma» più articolato di tutti. Dice, infatti: «La delocalizzazione è sicuramente un'opzione. Ma la verità è che non esiste una risposta univoca ad un problema tentacolare come questo. Penso, ad esempio, ai paesini costieri della Liguria: sono spesso costruiti su fondali dove non esistono alternative. Non ha senso dire che vengono svuotati, bisognerebbe dire che vengono chiusi per sempre. E ricostruiti altrove».
Nel presentare il proprio governo, il 16 novembre scorso, il nuovo premier Mario Monti ha raccontato come i dirigenti dei partiti abbiano preferito non entrare nell´esecutivo e ha aggiunto un´osservazione significativa, e perturbante.
«Sono arrivato alla conclusione, nel corso delle consultazioni, che la non presenza di personalità politiche nel governo agevolerà, piuttosto che ostacolare, un solido radicamento del governo nel Parlamento e nelle forze politiche, perché toglierà un motivo di imbarazzo».
La frase turba perché con un certo candore rivela una verità oculatamente nascosta. Così come sono congegnati, così come agiscono da decenni, i partiti non sanno fare quel che prescrive la Costituzione: non sono un associarsi libero di cittadini che «concorre con metodo democratico a determinare la politica nazionale»; rappresentano più se stessi che i cittadini; e nel mezzo della crisi sono motivo d´imbarazzo. Il nuovo premier ama la retorica minimalista – la litote, l´eufemismo – ma quando spiega che le forze politiche non vogliono scottarsi perché «stanno uscendo da una fase di dialettica molto molto vivace tra loro» (e non senza asprezza aggiunge: «Spero, che stiano uscendo») snida crudamente la realtà.
È una realtà che dovrebbe inquietarci, dunque svegliarci: al momento, i partiti sono incapaci di radicare in Parlamento e in se stessi l´arte del governare. Sanno conquistare il potere, più che esercitarlo con una veduta lunga e soprattutto precisa del mondo. Sono come reclusi in un cerchio. È ingiusto che Monti deprezzi la nobile parola dialettica. Ma i partiti se lo meritano.
Questo significa che l´emergenza democratica in cui viviamo da quando s´è disfatto il vecchio sistema di partiti, nei primi anni ´90, non finisce con Berlusconi: il berlusconismo continua, essendo qualcosa che è in noi, nato da storture mai raddrizzate perché tanti vi stanno comodi. Il berlusconismo irrompe quando la politica invece di ascoltare e incarnare i bisogni della società accudisce i propri affari, spesso bui. La dialettica, che dovrebbe essere ricerca dell´idea meno imprecisa, per forza degenera. È a quel punto che le lobby più potenti, constatando lo svanire di mediatori tra popolo e Stato, si mettono a governare direttamente, accentuando lo sradicamento evocato da Monti.
Questa volta, a differenza di quanto accadde nel ´94, entrano in scena tecnici di grande perizia, e l´Età dei Torbidi con ministri inetti, eversivi, premiati perché asserviti al capo, è superata. Ma non tutto di quell´età è superato, e in particolare non il vizio maggiore: il conflitto d´interessi. Un vizio banalizzato, quando a governare non sono solo accademici e civil servants europei come Monti, ma banchieri che sino al giorno prima hanno protetto non la cosa pubblica bensì i profitti di aziende, banche. È il caso di Corrado Passera, che appena nominato ha lasciato Banca Intesa ma guida dicasteri e deleghe (sviluppo, infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni) legati rischiosamente ad attività di ieri. Sarà ardua la neutralità, quando si tratterà di favorire o no i treni degli amici Montezemolo e Della Valle, di favorire o no quell´Alitalia che lui stesso (con i sindacati) volle italiana, nel 2008, assecondando l´insania di Berlusconi e affossando l´accordo di Prodi e Padoa-Schioppa con Air France: l´italianità costò ai contribuenti 3-4 miliardi di euro, e molti disoccupati in più. Passera assicura: «I fatti dimostreranno» che conflitto d´interessi non c´è. Vedremo. Il male che Monti denunciò su La Stampa il 4-5-07 (il «potere occulto delle banche», la «confusione tra politica e affari») e tanto irritò Passera, per ora resta.
Alcuni dicono che la democrazia è sospesa, e qualcosa di vero c´è perché la Repubblica italiana non nacque come Repubblica di ottimati. Ma il grido di sdegno suona falso, e non solo perché la Costituzione non prevede l´elezione di un premier, caduto il quale si torna al voto. È falso perché preserva, occultandolo, uno dei nostri più grandi difetti: l´inattitudine a esplorare i propri storici fallimenti.
Se la democrazia viene affidata ai tecnici e alla loro neutralità ideologica, è perché politica e partiti hanno demandato responsabilità che erano loro, specie in tempi di crisi. Perché non hanno raccontato ai cittadini il mondo che muta, lo Stato nazione che ovunque vanta sovranità finte, l´Europa che sola ci permette di ritrovare sovranità. Perché non dicono che esiste ormai una res publica europea, con sue leggi, e che a essa urge lavorare, dandole un governo federale, un Parlamento più forte, una Banca Centrale vera. Non domani: oggi.
La situazione italiana ha una struttura tragica, che toccò l´acme quando fu scoperchiata Tangentopoli ma che è più antica. Ogni tragedia svela infatti una colpa originaria, per la quale son mancate espiazioni e che quindi tende a riprodursi, sempre più grave: non a caso non è mai un eroe singolo a macchiarsi di colpe ma un lignaggio (gli Atridi, per esempio). La colpa scardina la pòlis, semina flagelli che travolgono legalità e morale pubblica. Alla colpa segue la nemesi: tutta la pòlis la paga.
In Italia la scelleratezza comincia presto, dopo la Liberazione. Da allora siamo impigliati nel cortocircuito colpa-nemesi, senza produrre la catarsi: il momento della purificazione in cui – nelle Supplici di Eschilo – s´alza Pelasgo, capo di Argo, e dice: «Occorre un pensiero profondo che porti salvezza. Come un palombaro devo scendere giù nell´abisso, scrutando il fondo con occhio lucido e sobrio così che questa vicenda non rovini la città e per noi stessi si concluda felicemente». Lo sguardo del palombaro è la rivoluzione della decenza e della responsabilità che tocca ai partiti, e l´avvento di Monti mostra che l´anagrafe non c´entra. Sylos Labini che nel ´94 vide i pericoli non era un ragazzo. Scrive Davide Susanetti, nel suo bel libro sulla tragedia greca, che il tuffo di Pelasgo implica una più netta visione dei diritti della realtà: «Per mutare non bisogna commuoversi, ma spostarsi fuori dall´incantesimo funesto del cerchio» che ci ingabbia (Catastrofi politiche, Carocci 2011).
Monti non è ancora la guarigione, visto che decontaminare spetta ai politici. Per ora, essi vogliono prendere voti come ieri: vendendo illusioni. Ma Monti è un possibile ponte tra nemesi e catarsi. Già il cambiamento di linguaggio conforta: sempre le catarsi cominciano medicando le parole. L´ironia del premier sull´espressione staccare la spina è stata un soffio di aria fresca nel tanfo che respiriamo. Altre parole purtroppo restano. Quando Passera dice che «sì, assolutamente» usciremo dalla crisi, usa il più fallace degli avverbi. Anche la parola blindare andrebbe bandita: nasce dal linguaggio militare tedesco (lo scopo è render l´avversario cieco, blind). Non è una bella dialettica.
Monti è l´occasione, il kairòs che se non cogliamo c´inabissa. Per i partiti, è l´occasione di mutare modi di pensare, rappresentare, in Italia e soprattutto in Europa. Di ricominciare la «lunga corsa» intrapresa dopo il ´45. Di darsi un progetto, non più sostituito dall´Annuncio o l´Evento: quell´Evento, dice Giuseppe De Rita, «che scava la fossa in cui cadrà il giorno dopo».
Non c´è un solo partito che abbia idee sull´Europa da completare. Non ce n´è uno che dica il vero su clima, demografia, pensioni, disuguaglianza, crisi che riorganizza il mondo. Diciamo commissariamento, come se poteri europei fatali ci comandassero. In realtà siamo prede di forze lontane perché l´Europa politica non c´è. Monti denunciò a giugno l´eccessiva deferenza fra Stati dell´Unione. Speriamo non sia troppo deferente con Berlino. Che glielo ricordi: le austerità punitive imposte prima della solidarietà sovranazionale sono come le Riparazioni sfociate dopo il 14-18 nella fine della democrazia di Weimar.
Le patologie italiane permangono, nonostante i molti onest´uomini al governo. Il fatto che il partito più favorevole a Monti, l´Udc, sia invischiato nelle tangenti Enav-Finmeccanica, e si torni a parlare di «tritacarne mediatico», è nefasto. Il pensiero profondo che salva lo si acquisisce solo se si scende giù nell´abisso, scrutando il fondo. Scrutarlo con l´aiuto di un´informazione indipendente aiuterà chi pensa che non basti un Dio, per risollevarci e rimettere nei cardini il mondo.
Poco meno di una decina di anni addietro il manifesto titolò la foto di copertina che presentava un gruppo di immigrati con un «Non ci posso credere!». Il titolo si riferiva alla imprevista dichiarazione dell'on. Gianfranco Fini sull'opportunità di concedere il voto agli immigrati. In effetti non si capiva bene cosa avesse in mente Fini e cosa intendesse proporre. Era da poco stato approvato quel pacchetto di emendamenti al Testo Unico delle leggi sull'immigrazione che va sotto il nome di legge Bossi-Fini e la dichiarazione risultò sorprendente anche e soprattutto perché contrastava con il carattere persecutorio di alcune delle norme presenti in quel testo.
La proposta fu salutata da noi - e da pochi altri - oltre che con sorpresa, anche con scetticismo. E infatti non se ne fece nulla. Diverso è il caso della proposta lanciata ieri dal presidente Napolitano di estendere la cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia da famiglie di immigrati. Ciò sia per la figura di chi ha avanzato la richiesta, che per la sua urgenza e per il contesto nel quale cade. Il presidente è persona notoriamente cauta e moderata, gode di autorevolezza e fiducia con pochi precedenti. Inoltre in passato ha operato nell'ambito della politica migratoria in direzione dell'integrazione. Fu sua la legge di un solo articolo che, nel 1996, permise (con l'attivazione di una norma contenuta in un decreto decaduto) a 270 mila immigrati di non perdere la regolarizzazione appena ottenuta. Fu sua, giustappunto, la legge Turco-Napolitano del 1998 che - pur zeppa di norme repressive, a cominciare dall'istituzione dei Cpt (ora Cie, insomma i lager per immigrati) - era piuttosto avanzata sul piano delle politiche sociali.
Il secondo governo Berlusconi, nato dopo la sconfitta del centrosinistra nel 2001, già condizionato dagli orientamenti xenofobi della Lega Nord, non cancellò la legge: si limitò a peggiorarne gli aspetti di controllo e repressivi mentre, per quanto attiene alle politiche sociali, decise semplicemente di garantirne la non applicazione soprattutto non finanziandole. Ma qualcosa tuttavia rimase: penso all'art. 18 sulla protezione delle persone vittime della tratta di esseri umani, all'estensione - sulla base del principio universale del diritto alla salute - del godimento dell'assistenza sanitaria anche per gli immigrati non regolari. E penso ai ricongiungimenti familiari, che hanno permesso l'ingresso in Italia di centinaia di migliaia di bambini e di persone in età fertile.
Questi bambini ora vanno a scuola e, se sono cinesi nati in Toscana nel distretto del cuoio, si chiamano Vanni, Marzia o Chen. Se sono indiani si chiamano Simona come la figlia dei miei amici Metha di Piadena, i quali però hanno anche un figlio che si chiama Hani, dato che la multiculturalità è una cosa complessa. Per questo rimando allo splendido libro con le foto di Giuseppe Morandi (e testi, tra gli altri, di Peter Kammerer e Ivan della Mea). Comunque è certo che questi bambini vanno a scuola e parlano italiano: non anche italiano ma soprattutto italiano. Hanno tutti un forte accento e non un accento straniero, bensì quello del paese dove abitano e sono nati: strettamente partenopeo se nel distretto dell'abbigliamento nell'area vesuviana, romano se nell'area di Piazza Vittorio, dove Flavio, Tse e Tsiao sono tutti all'apparenza cinesi. Si vada a vedere alla scuola elementare Di Donato di via Bixio, per averne un esempio lampante.
Di questo mi pare che abbia preso saggiamente atto il presidente della Repubblica. Ha indicato che, in base alla nuova realtà dell'immigrazione, i processi di integrazione hanno bisogno di un'ulteriore iniziativa istituzionale, insomma che lo stato riconosca la nuova realtà multiculturale dell'Italia.
Qualche razzista del Pdl si è già unito al coro della Lega, lamentandosi del fatto che si passa dalla nostra tradizione di cittadinanza fondata sullo ius sanguinis a un modello fondato sullo ius soli. Ma siamo nel 2011: «diritto di sangue» (che pure ha caratterizzato alcune improvvide iniziative legislative recenti del repubblichino on. Tremaglia) non suona molto bene. Tanto è vero che nei paesi d'Europa più avanzati, che hanno questa stessa nostra eredità, si va verso un suo superamento, sia pure spesso parziale.
Infine, si sente spesso dire che in Italia cinque milioni di cittadini stranieri immigrati sono troppi. Sono assolutamente d'accordo: in molti paesi europei solo una parte di questi cinque milioni di immigrati sarebbero ancora «cittadini stranieri». Gli altri - un quarto o un quinto - sarebbero già cittadini nazionali. Un cauto adeguamento a una più civile situazione europea mi pare il senso dell'iniziativa del presidente Napolitano.
Si continua a definirlo "tecnico" eppure questo guidato dal senatore Mario Monti è un governo a tutto tondo politico; molto più del governo Berlusconi che lo ha preceduto. Politico nel senso più pregnante del termine: perché ha riportato le questioni che interessano il nostro destino – nostro come società e come Paese – al primo posto, come dovrebbe essere (ed è sperabile che ciò restituisca all´Italia una forza di negoziazione con i partner europei che aveva perso e di cui ha bisogno).
Per anni ci eravamo dimenticati che il governo deve occuparsi delle cose che riguardano la nostra vita, non la vita di chi governa. Per anni abbiamo assistito impotenti a uno spettacolo preconfezionato a Palazzo Grazioli su come Palazzo Chigi doveva operare e per chi: per tre anni le questioni di sesso e di corruttela hanno inondato le nostre giornate, quelle degli interessi del premier tenuto l´agenda politica del Parlamento. E lo si chiamava governo politico. Di politico aveva due cose: era stato l´espressione diretta della maggioranza dei consensi usciti dalle urne e l´esito di un accordo tra alcuni partiti politici. Ma questo non è sufficiente a fare di un governo un governo politico. Questo è il preambolo, la condizione determinante ma non sufficiente.
Il governo Berlusconi, nato politico, si è astenuto dal governare per noi e quando lo ha fatto ha generato problemi invece di risolverli. Per esempio, le norme sulla criminalizzazione dell´emigrazione hanno gettato petrolio sulle fobie razziste senza risolvere i problemi legati al controllo degli ingressi e all´integrazione degli immigrati; per esempio, gli interventi sulla scuola pubblica sono stati proditoriamente fatti per umiliarla e depauperarla avvantaggiando con i soldi dei contribuenti le scuole private. Questi sono i pochi esempi di agire politico del precedente governo, e sono entrambi esempi di cattiva politica, funzionale alle esigenze propagandistiche della coalizione, ovvero nel primo caso per imbonire i fedeli leghisti e nel secondo per tenere l´appoggio delle gerarchie vaticane. Queste scelte "politiche" sono state fatte all´interno di un´agenda di governo che non aveva alcun interesse a fare i nostri interessi. Il governo Berlusconi ha negato l´esistenza della crisi economica e finanziaria per anni, proprio dai primi mesi del suo insediamento, quando ironizzava sullo stato dell´economica degli altri partner europei per mandare agli italiani il messaggio voluto: il suo era il migliore dei governi possibili. Un´agenda politica senza politica.
Il governo del Presidente, com´è stato chiamato questo esecutivo guidato dal professor Monti, non è fatto di politici eletti, e quindi non è politico-partitico. Ma è fatto di cittadini italiani con competenze professionali specifiche. Non è inutile ricordare che chi è cittadino di un Paese democratico è naturalmente politico, perché non può che interessarsi delle questioni che riguardano la vita della società. Non solo chi milita in un partito è politico; e inoltre gli stessi partiti si organizzano grazie a cittadini che sono non politici di professione. La democrazia non ha politici di professione, anche se ha bisogno di stipendiare chi nella divisione del lavoro sociale si occupa degli affari pubblici. Nessuno ha la patente di "politicità" in democrazia, e nessuno può accaparrare per sé la politica e dire che è lui a sapere che cosa sia e come la si faccia (questo è proprio di una mentalità patrimonialistica). Il governo Monti è politicissimo, dunque. E lo è in primo luogo perché ha ricevuto il sostegno del Parlamento che lo ha reso a tutti gli effetti politico. Ma lo è per una ragione ancora più sostanziale, e davvero forte: perché i temi all´ordine del giorno nella sua agenda sono squisitamente politici, solo politici. L´interesse personale è uscito da Palazzo Chigi, che ha ospitato il governo meno politico che l´Italia repubblicana abbia conosciuto, anche se forte dell´alleanza di ferro e famelica tra partiti. Che sia stato incapace di affrontare i problemi politici del Paese è un´ulteriore dimostrazione del fatto che era incapace di essere politico. Dei governi come quello guidato dal professor Monti c´è bisogno perché quelli politico-partitici falliscono.
Il governo Monti è un governo politico, e va giudicato per le scelte politiche che farà. Giudicato per come vuole risolvere i problemi che riguardano la nostra economia, dalle pensioni, alla disoccupazione, al lavoro senza diritti e precario, alla lotta all´evasione fiscale (che è il problema più grave del nostro Paese). Questi obiettivi, che sono per opinione quasi unanime, urgenti e necessari, saranno giudicati per il modo e le strategie con cui il governo proporrà di realizzarli. E i ministri saranno chiamati non solo a rendere conto del loro operato. Nato come non-politico-partitico, questo governo non potrà che essere politico. Per un´altra ragione ancora. Poiché la politica che lo ispira non è per nulla neutrale o tecnica, ma pronunciata moderata, non indifferentista ma con un´evidente simpatia cattolica. Si tratta di qualità o caratteristiche politiche che andranno giudicate dal punto di vista degli interessi generali di tutti gli italiani, non di una parte soltanto, anche se maggioritaria.
In un´intervista di qualche mese fa la ministra, professoressa Elsa Fornero diceva due cose importanti. La prima: se lei fosse nata negli Stati Uniti non avrebbe avuto la possibilità di accedere a un´eccellente formazione universitaria. Leggo questa osservazione importante così: senza una buona scuola pubblica, la selezione dei competenti sarebbe in effetti una selezione di classe. È importante che nel governo ci siano ministri che riconoscono il valore della scuola pubblica. Una prospettiva che il governo che ha appena chiuso i battenti non ha mai avuto. Ridare vigore alla scuola è un obiettivo politico primario per la nostra società, lo è per ragioni economiche e politiche, poiché una democrazia di ignoranti è pericolosa. La seconda osservazione che faceva la ministra Fornero era che lei cestinava gli inviti ai convegni nei quali gli speaker erano solo uomini. L´osservazione è coerente a quella precedente. E riguarda l´eguale dignità: è umiliante dover sempre ricordare a chi tiene i fili delle carriere (che sono in maggioranza maschi) che ci sono donne competenti. I criteri delle eguali opportunità di formazione e del giusto riconoscimento dovrebbero essere la stella polare a guidare le scelte di ogni governo politico. Ed è su queste scelte e in base a questi criteri che l´operato di questo governo dovrebbe essere giudicato da chi in Parlamento decide e controlla, a nome di tutti noi.