ROMA - Il presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, dà le pagelle alla lotta alla corruzione. «In Italia è sotto la sufficienza, dobbiamo rafforzare il falso in bilancio». Nell´intervista per la quarta puntata dell´inchiesta sulla corruzione in Italia, Giampaolino dichiara che è stato un grave errore non aver ratificato le convenzioni approvate da Onu e Ue. Il magistrato sostiene inoltre che il disegno di legge anti-corruzione è in ritardo ma soprattutto inadeguato.
ROMA - L´Italia, nella lotta alla corruzione, che «inquina e distrugge il mercato, non arriva alla sufficienza». È drastico il giudizio di Luigi Giampaolino, dal luglio 2010 presidente della Corte dei conti. Che non vede, innanzitutto, «un vero, reale, profondo, sostanziale rivolgimento morale» rispetto alla «mala amministrazione».
La sua esperienza al vertice della Corte, ma prima ancora all´Authority dei Lavori pubblici, la rende un testimone prezioso sul fronte della corruzione. Se oggi dovesse dare un voto all´Italia sulla lotta al fenomeno quanto le darebbe?
«Meno della sufficienza, perché si è proseguito sostanzialmente con un´azione, peraltro episodica, soltanto repressiva. La lotta alla corruzione dev´essere invece di sistema. Essa deve iniziare dalla selezione qualitativa e di merito degli operatori, sia pubblici che privati. Proseguire con il controllo e la vigilanza sul loro operato. Concludersi valutando i risultati. Tutto ciò che fuoriesce da questo schema genera mal´amministrazione e corruzione: anzi, è esso stesso mal´amministrazione e corruzione».
In questi anni cos´è successo? La corruzione è aumentata, è diminuita, è rimasta stabile?
«É una domanda alla quale non si può rispondere, con apprezzabile precisione in via quantitativa. L´impressione è che sia rimasta stabile, soprattutto perché non si avverte un reale, profondo, sostanziale rivolgimento morale; l´onestà, in ogni rapporto anche privato; la valenza del merito; l´etica pubblica; il rispetto del denaro pubblico e di tutte le risorse pubbliche, che sono i beni coattivamente sottratti ai privati e dei quali si deve dar conto».
Ha avvertito nella pubblica amministrazione e nelle imprese da una parte, nei governi dall´altra, un cambio di sensibilità?
«La pubblica amministrazione, anche a seguito della crisi economica, sembra che miri ad avere maggiore consapevolezza della situazione di privilegio in cui talvolta si trova. Quanto alle sue funzioni, ancora non si è realizzata una più rigorosa selezione nella provvista e la garanzia di vagliate e consolidate professionalità, che sono tra i primi antidoti contro la corruzione nei pubblici apparati. Le imprese sembrano avere maggiore consapevolezza della portata disastrosa della corruzione per l´economia in generale, e di conseguenza per esse stesse. Non va dimenticato che la corruzione fa prevalere quelle peggiori, inquina la concorrenza, peggiora, se non distrugge, il mercato».
Gli articoli che puniscono corruzione e concussione, ma anche il falso in bilancio e i reati connessi, sono adeguati o andrebbero rivisitati?
«Andrebbero rivisitati, avendo a parametri non tanto il bene e il prestigio della pubblica amministrazione, ma i valori costituzionali, in particolare gli articoli 97 (buona amministrazione, ndr.) e 41 (libertà d´impresa, ndr.). Indicazioni giunte, per la verità, dalla stessa dottrina penalistica fin dagli anni ‘70, ma rimaste per buona parte inattuate nella riforma dei reati della pubblica amministrazione. In particolare, la fattispecie del falso in bilancio andrebbe ripristinata in tutta la sua portata di tutela di beni fondamentali dell´economia e di sanzioni di comportamenti che ledono».
Dall´Europa viene spesso la raccomandazione a modificare la prescrizione, i cui termini sono troppo stretti per perseguire reati complessi e "nascosti" come la corruzione. Lo trova un allarme necessario?
«É senza dubbio giusto».
La Ue e l´Onu hanno approvato convenzioni internazionali che l´Italia tarda a ratificare. Se ne può fare a meno?
«É un grave errore, soprattutto perché da lì arrivano modelli vincenti di lotta alla corruzione. Non misure solo repressive, ma accorgimenti organizzativi delle strutture pubbliche e delle imprese private, come nel caso del decreto legislativo 231 del 2007 sulla responsabilità amministrativa delle imprese, emanato proprio per attuare una convenzione internazionale. Ma è soprattutto con i rimedi organizzativi interni alla pubblica amministrazione che occorre agire. Ciò che, per la verità, già in parte persegue il disegno di legge sull´anticorruzione, ora in discussione alla Camera».
Non trova anomalo che quel ddl, dopo due anni, non sia stato ancora approvato?
«Senza dubbio è un ritardo da lamentare e in più di un´occasione, nelle mie audizioni in Parlamento, me ne sono lamentato».
Il contenuto della legge è sufficiente?
«Non lo ritengo tale nell´ultima versione frutto dei lavori in commissione. Occorre una rigenerazione fondata sul merito e sulla professionalità delle pubbliche amministrazioni. Serve un´effettiva, indefettibile, concorrenza, nel mercato. Ci vogliono una generale trasparenza, un´estesa dotazione di banche dati, una seria vigilanza ed efficaci controlli».
Il neo ministro della Giustizia Paola Severino propone di introdurre la corruzione tra privati all´interno dell´impresa. Utile o superfluo, visto che le leggi già esistenti vengono aggirate?
«Sono d´accordo col Guardasigilli, dal momento che le imprese devono essere chiamate, con le loro responsabilità, a ovviare ai grandi fenomeni corruttivi».
Che ne pensa dell´Authority anticorruzione proposta da Francesco Greco?
«Dovrebbe essere oggetto di attenta meditazione. Le Autorità, per essere efficaci, hanno bisogno di una riflessione ordinamentale e di efficaci poteri d´intervento e di sanzioni. La corruzione è un male che pervade tutto il sistema e quindi, solo con il concorso di tutte le Istituzioni, può essere combattuta».
Fu negativo abolire l´Alto commissariato? Serviva, o era solo un carrozzone?
«Vorrei astenermi dall´esprimere un giudizio sulla sua utilità. C´è, innanzitutto, la pubblica amministrazione che deve essere richiamata ai suoi alti compiti e alla sua vera essenza. C´è la Corte dei conti, nella sua struttura centrale e in quella ramificata in ogni Regione, che deve essere modernizzata e potenziata. C´è il giudice penale, con le sue estreme sanzioni che avrebbero bisogno, però, di un processo che le rendesse realmente efficaci».
Un ultimo quesito. L´Italia affronta un drastica manovra economica. Era necessario inserirci un duro capitolo sull´evasione fiscale?
«La manovra, in tutte e tre le scansioni succedutesi quest´anno, è molto fondata sulle entrate e su un rilevante aumento della pressione fiscale. La lotta all´evasione rientra in una tale strategia, anche se non va dimenticato che quanto più viene elevata la pressione fiscale, tanto più vi è pericolo d´evasione. É necessario pertanto spostare l´attenzione anche su altri fattori della struttura economica. Il problema strutturale rimane quello della spesa pubblica e di una riduzione qualitativa della stessa. Una "dura" lotta all´evasione fiscale presuppone sempre, come contro partita, una severa attenzione su come si spendono i soldi pubblici e la certezza che vi sia un´eguale osservanza di tutti gli altri obblighi costituzionali che contornano, se non addirittura sono il presupposto, di quello previsto dall´articolo 53 della Costituzione, l´obbligo per tutti di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva».
Cuneese di nascita e montanaro di natura, in montagna era salito subito per dar vita alla Banda Italia Libera, la prima formazione inquadrata nelle file di Giustizia e libertà. Partigiano e giornalista. Negli ultimi tempi, poi, «giornalista partigiano» tout court, in lotta aperta contro un revisionismo storico che marciava di conserva con il degrado morale e politico del Paese. Con Giorgio Bocca se ne va uno degli ultimi testimoni partecipanti di quella stagione alta della nostra vicenda nazionale da cui era uscita, selezionata nel clima rarefatto della montagna, una generazione di italiani diversi, segnati da un marchio indelebile, che avevano trasferito nella propria professione e nel proprio stile di essere cittadini quel loro modo «giusto» di essere stati nella Storia.
Giorgio, cuneese di nascita e montanaro di natura, in montagna c'era salito subito, d'istinto, il 12 settembre del 1943 quando, con un piccolo gruppo di ufficiali degli alpini di fresca nomina aveva raggiunto Frise, una piccola frazione sui contrafforti della Valle Grana, a un'ora di cammino da un'altra borgata abbandonata, Paraloup, dove negli stessi giorni si stava insediando il gruppo guidato da Duccio Galimberti e Livio Bianco. Nacque allora la Banda Italia Libera, la prima formazione partigiana italiana inquadrata nelle file di «Giustizia e Libertà». E da combattente «GL» Bocca si farà tutti i venti mesi di quella guerra spietata, due inverni durissimi e un'estate feroce, di rastrellamenti, di fame e di marce estenuanti: il suo personale e collettivo «romanzo di formazione». Appartiene dunque a quella «classe di leva» - la stessa di mio padre, la cosiddetta «gioventù del littorio» - per la quale la tragedia della guerra segna uno spartiacque radicale, che spezza la biografia, e nella sconvolgente presa di coscienza della vera natura del fascismo ne interrompe irrimediabilmente il filo di continuità - sociale, culturale e famigliare -, dividendo la vita in un «prima» e in un «dopo» inconfrontabili. Producendo in senso proprio un «nuovo inizio», che volenti o nolenti sarà per tutti quelli che erano passati per quell'esperienza un carattere impegnativo anche quando, deposte le armi, dovranno reinventarsi una «vita civile».
Per Bocca quel congedo significherà la diaspora, il passaggio dalla periferia piemontese alla «capitale» Torino, apprendista alla «Stampa», e poi a Milano, al «Giorno» di Italo Pietra. Ma il tono un po' ringhioso del «provinciale» e l'aria ribelle della montagna non l'abbandoneranno mai. Si porterà sempre dietro il tratto rustico, talvolta scostante, l'approccio rude al reale, persino cinico in qualche aspetto, e insieme il senso di appartenere comunque, per vicenda biografica e per etica acquisita, a un'«altra Italia», diversa da quella prevalente, servile, unanimista e conformista. Un «anti-italiano», nell'Italia che dopo la stagione dei fucili si accomodava, compiacente, nei propri antichi vizi.
Non amava i comunisti: li temeva per la brutalità e la spregiudicatezza dell'ideologia, li criticava per l'eccesso di tatticismo e disponibilità al compromesso (il libro su Togliatti è un testo dichiaratamente impietoso). Ma sapeva benissimo, per averli avuto a fianco nel momento del combattimento, che erano abissalmente diversi e infinitamente migliori di qualsiasi fascista (fosse anche uno in «buona fede»), e a quel giudizio si atterrà sempre, anche dopo la «caduta del muro». Conosceva perfettamente la condizione operaia, per aver bivaccato infinite notti a fianco dei giovani lavoratori arrivati in montagna dalla periferia torinese. Ma non nascondeva il fascino esercitato su di lui dalle promesse del neo-capitalismo, oggetto di una sua pionieristica inchiesta sui Giovani leoni della nuova industria italiana negli anni del miracolo economico.
Era un esploratore per vocazione e per naturale inclinazione, ciò che ne faceva, insieme alla scrittura asciutta ed essenziale da vecchio Piemonte, il grande giornalista che è stato, capace di scandagliare i caratteri dei propri interlocutori, ma soprattutto curioso fino all'estremo di tutto ciò che si muove negli interstizi del sociale, siano gli scostamenti nel costume o i segni dell'innovazione, le nuove forme della produzione o i processi sommersi del conflitto. Buona parte dei suoi 61 volumi - dal primo, Partigiani della montagna, pubblicato da un piccolo editore cuneese già nel '45, all'ultimo, Grazie no, d'imminente pubblicazione da Feltrinelli - testimonia di questo furioso bisogno di «vedere», sia che si tratti de La scoperta dell'Italia trasformata dal boom dei primi anni Sessanta (Laterza 1963) o dell'incipiente malessere della seconda metà degli anni Settanta (L'Italia l'è malada, L'Espresso 1977), del primo emergere di un razzismo fino ad allora sconosciuto (Gli italiani sono razzisti? , Garzanti 1986) o dello spaesamento del dopo-Tangentopoli (Il viaggiatore spaesato, Mondadori 1996)... Testi a volte discutibili, e aspramente discussi (penso al reportage dal Sud, visto con l'occhio del Nord), ma tutti frutto di un lavoro diretto di scavo. E di una volontà di capire che faceva in qualche modo da contraltare (e da compensazione) alla coriacea tendenza a non vedere e non capire della stragrande maggioranza della classe politica.
Era anche un giornalista «fedele». Al di sotto della scorza burbera e scostante, nutriva fedeltà profonde, come dimostra il suo rapporto con «Repubblica», iniziato fin dalla fondazione e mai «tradito». O il suo ritornare, ciclico, alla Resistenza, come alla terra delle origini, mai dimenticata. Si spiega così, con questo intreccio tra fedeltà e curiosità, tra continuità e innovazione, il pessimismo - sacrosanto - degli ultimi titoli: Voglio scendere! (1998), Il secolo sbagliato , (1999) Pandemonio. Il miraggio della new economy (2000), Il dio denaro. Ricchezza per pochi, povertà per molti (2001), Piccolo Cesare (2002), Basso impero (2003), Annus Horribilis (2010)...
Il fatto è che per il partigiano Bocca - come per tanta parte dei suoi antichi compagni del Partito d'Azione, come per Bobbio, come per Galante Garrone, come per Leo Valiani - questa Italia, l'Italia della fine del Novecento e del nuovo secolo - era diventata insopportabile.
Dal berlusconismo lo separava un'antitesi di stile, prima che politica. Nutriva per Berlusconi un'avversione di pelle, istintiva. Morale e umorale. In lui, l'antitaliano Bocca vedeva la sintesi dei peggiori vizi degli italiani (la "sintesi di tutte le nostre antitesi", avrebbe detto Piero Gobetti): quelli che ci erano costati la vergogna del fascismo e la tragedia di una guerra perduta. Per questo la sua parola ci mancherà, enormemente, in questa difficile transizione.
“Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati...” Quelli che parlavano erano due piemontesi e discutevano delle radici profonde del male meridionale, loro lo avevano capito e l'analisi che si scambiavano come un testimone che l'uno affidava all'altro non era disprezzo colonialista verso un popolo schiavo che non aveva la forza di riscattare i suoi diritti. No, il loro era amore per il Sud, da italiani che sapevano di essere parte di quella stessa terra così lontana dai portici delle città sabaude, costruiti per proteggere da un clima europeo che il sole della Sicilia e della Campania non sa immaginare: un amore che andava oltre il senso del dovere o della professione e che per questo si trasformava in denuncia, nella metodica, sistematica analisi di quanto il male fosse profondo nella vita della gente che non sapeva, non voleva, non poteva ribellarsi.
Quel colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giorgio Bocca è stato importante per me e per quelli della mia generazione che hanno sempre chiesto di capire. Noi che abbiamo cominciato a fare domande dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per riscoprire così il sacrificio del carabiniere diventato prefetto che aveva rinunciato alle scorte e alle blindate per essere parte della vita di Palermo, l'altra capitale del Sud, e si era imposto di cominciare la sua missione proprio dalle scuole, dal consegnare ai giovani meridionali la speranza in un futuro di legalità.
Noi volevamo capire perché senza capire non si può cambiare; capire anche a costo di specchiarsi nell'orrore di una realtà che non poteva più restare nascosta dietro slogan logori e paesaggi da soap: guardarsi in faccia, scoprire il proprio volto a costo di rendersi conto di quanto fosse brutto. Questo è quello che Giorgio Bocca mi ha insegnato, a raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore. Lo hanno accusato di essere razzista, antimeridionale, di odiare il Sud. Sono le stesse cose che hanno detto di me, contro di me, "il rinnegato". Ci hanno dato degli "avvoltoi" che si arricchiscono con il dolore altrui. Bocca invece ha fatto dell'essere "antitaliano" una virtù, il metodo per non arrendersi a luoghi comuni. Da lui ho capito che non bisognava mai lasciarsi ferire, né abbassare gli occhi: gli insulti sono spinte ad andare oltre, a entrare più in profondità nei problemi. La mia strada per l'inferno l'ha indicata lui, "Gomorra" si è nutrito della sua lezione: guardare le cose in faccia, respirarle, sbatterci contro fino a farsele entrare dentro e poi scrivere senza reticenze, smussature, compiacenze.
Bocca lo ha sempre fatto, da fuoriclasse, lo continua a fare oggi a novant'anni con la curiosità e la tenacia di un ventenne; sempre pronto a mettersi in discussione come quel ragazzo che nel 1943 salì in montagna superando il suo passato e scegliendo il suo futuro.
E quando lui e Dalla Chiesa parlavano di un popolo da liberare lo facevano con l'anima dei partigiani, di chi aveva combattuto lo stesso nemico in nome dello stesso popolo. Avevano rischiato la vita e ucciso anche per consegnare un domani diverso a chi accettava passivamente la dittatura fascista e la dominazione nazitedesca; sono stati partigiani anche per chi non aveva il coraggio, la forza, la volontà, la possibilità o la capacità di lottare per i propri diritti. La loro vittoria è stata la Costituzione, quel documento vivo che dovrebbe essere il pilastro della nostra democrazia, un monumento di libertà troppo spesso ignorato o bollato di vecchiaia. No, è un testo modernissimo, come ancora oggi lo sono gli interventi di Giorgio Bocca. Essere partigiano prima con il fucile e poi per altri 65 anni con l'inchiostro significa avere la misura della libertà, saperla riconoscere ovunque.
A sud di Roma è difficile ascoltare racconti partigiani. La guerra di liberazione è stata più a nord e anche questo ha contribuito a non risvegliare coscienze già rassegnate. Napoli con le sue quattro giornate è stata una fiammata d'eroismo, l'unica metropoli europea a cacciare i tedeschi, ma la sua levata d'orgoglio è bruciata in meno di una settimana. Sembrava quasi che ad animare i napoletani diventati guerriglieri ci fosse lo stesso sentimento del tassista che Bocca descrive nell'incipit del suo "Napoli siamo Noi": "Lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi".
Misure ingiuste. Serve un progetto per l'occupazione con una nuova idea di sviluppo per Fiat e Fincantieri, «ci batteremo contro gli accordi separati». L'11 febbraio tutti a Roma
Un giovedì nero, «non per la Fiom ma per la democrazia italiana». Ieri è capitato di tutto, a partire dall'approvazione di una manovra che «aumenta le diseguaglianza e non fa nulla per l'occupazione e per un nuovo modello di sviluppo». Contemporaneamente Fim e Uilm, organizzazioni minoritarie nei cantieri navali, firmavano un accordo con Fincantieri che «accetta lo stesso piano di esuberi che a giugno l'azienda era stata costretta a ritirare grazie alle lotte dei lavoratori». Dulcis in fundo, gli stessi sindacati «complici» firmavano un nuovo accordo separato che estende il modello Pomigliano - massimo sfruttamento e diritti al minimo - a tutte le aziende del settore auto: «Ti rendi conto che stiamo parlando di centinaia di migliaia di lavoratori?». Ecco Maurizio Landini, battagliero segretario della Fiom impegnato su tanti fronti, non escluso quello interno con la Cgil. Con lui tentiamo un'analisi delle ultime performances del governo e della Confindustria.
Partiamo dall'accordo firmato da Fim e Uilm con Fincantieri.
Semplice, Fim e Uilm hanno accettato quel che i lavoratori hanno rifiutato e contro cui si sono battuti. Hanno accettato la logica delle chiusure di cantieri e degli esuberi senza alcun mandato, e pretendono di imporne le conseguenze a tutti i dipendenti.
E il governo Monti? Fincantieri è un'azienda pubblica.
Il ministero dell'industria non chiede alla sua azienda un piano e addirittura consente che venga firmato un accordo separato senza il sindacato più rappresentativo. Ma come pensano di uscire dalla crisi? Quale modello di sviluppo compatibile, di occupazione, di mobilità hanno in testa, se lasciano deperire la produzione di navi, di treni, di autobus, di automobili?
Pomigliano è un caso unico, irripetibile dicevano i vostri critici di maggioranza e opposizione, Cisl, Uil, persino la Cgil. Poi è arrivata Mirafiori seguita dalla Bertone e infine tutti gli stabilimenti Fiat, 86 mila dipendenti a cui è stato cancellato il contratto nazionale e i diritti conquistati nel secolo scorso. Ora Fim, Uilm e Federmeccanica hanno siglato l'ennesimo accordo separato per l'intero settore auto.
Così, rapidamente, si cancella il contratto nazionale per tutti. La Costituzione è espulsa dalla fabbrica con l'esproprio del diritto di voto e di elezione dei rappresentanti. Prima che un'ingiustizia contro la Fiom è la messa in mora della democrazia dei lavoratori. E se la democrazia esce dal lavoro esce dalla società. Capisci perché insistiamo sulla necessità di ridefinire le regole sulla rappresentanza? Prima la politica prende atto di questo vulnus e meglio è. Chiediamo la certificazione della rappresentanza sindacale attraverso il voto di tutti i dipendenti, in ogni posto di lavoro. Dev'essere chiaro chi rappresenta chi, e insieme, ogni accordo dev'essere sottoposto al giudizio degli interessati e approvato, per essere valido. Abbiamo iniziato la raccolta di firme per un referendum abrogativo dell'estensione del contratto Pomigliano a tutta la Fiat. Alla Ferrari e poi alla Cnh di Jesi persino le Rsu l'anno bocciato. Se passa questo accordo separato e se non ci si libera dell'articolo 8 della manovra berlusconiana arriveremo a una balcanizzazione delle relazioni sindacali. La Fiom ha indetto quattro ore di sciopero a gennaio e una grande manifestazione nazionale a Roma l'11 febbraio, non assisteremo passivamente a questo scempio della democrazia.
Intanto Federmeccanica dice ai suoi affiliati che la Fiom non esiste perché non ha firmato il contratto separato del 2009 che cancella quello unitario di un anno prima.
Mi dispiace per loro, ma la Fiom ha 363 mila iscritti, è il sindacato più forte anche tra le Rsu e nel voto dei lavoratori. Gli imprenditori dovranno fare i conti con noi.
La manovra è stata varata ed è diventata legge. Il tuo giudizio?
Invece di ridurre le diseguaglianze le ha accentuate e l'attacco alle pensioni cancella un elemento di solidarietà generale. Neanche per chi ha fatto lavori faticosi fin da ragazzo c'è un minimo di rispetto. Non c'è patrimoniale né lotta a evasione e corruzione, non ci sono investimenti finalizzati a un nuovo modello sviluppo che rispetti i diritti di chi lavora e dell'ambiente. Devo continuare, sui privilegi, sulle spese per gli armamenti? Aggiungo che un paese democratico dovrebbe potersi scegliere il governo esercitando il diritto di voto.
Sull'ennesimo attacco all'art. 18 la ministra Fornero e il governo sono stati costretti a un passo indietro.
Fornero dice di essere stata fraintesa. Bene, non se ne parli più. Il problema non è togliere le sanzioni esistenti ma costruire un sistema universale dei diritti sul lavoro e al tempo stesso ridurre a 4 o 5 le forme atipiche. In testa bisogna avere il binomio occupazione-diritti. A parità di prestazione si devono avere pari retribuzioni e diritti. Il lavoro precario deve costare di più e ancora, va introdotto un reddito di cittadinanza per chi il lavoro non ce l'ha o ce l'ha precario e intermittente. Serve una semplificazione: si deve andare a un contratto unico di tutta l'industria.
La critica comune alla manovra, la difesa dell'art. 18, il giudizio sugli accordi separati, possono avviare una stagione nuova nei rapporti, oggi difficili, tra Fiom e Cgil?
È evididente che siamo entrati in una nuova fase, ed è ormai palese che neanche l'accordo sottoscritto dalla Cgil il 28 giugno ferma la pratica degli accordi separati. Si può ripartire insieme dalla democrazia, dalla certificazione della rappresentanza che presuppone, e mi rivolgo anche alla politica e al governo, un intervento sull'art. 19. Dal diritto di voto dei lavoratori. E da una battaglia per un nuovo modello di sviluppo dove non ci sia più posto per le troppe ingiustizie che affliggono questo paese. A partire dalla vergogna per il trattamento riservato a 4-5 milioni di precari.
Appena l´emergenza più drammatica si è placata, i partiti hanno rimosso un paradosso inquietante: ancora una volta nel giro di pochi anni il nostro Paese sembra capace di esprimere governi di qualità, capaci di operare quando la politica viene travolta dalla crisi. Così fu fra il 1992 e il 1994 quando, in condizioni difficilissime, Amato e Ciampi avviarono il risanamento proseguito poi dal primo governo Prodi: cioè dal governo di centrosinistra della "seconda Repubblica" che è stato meno prigioniero dei partiti. Nel 1992 il sistema politico crollò all´improvviso, oggi è giunta alle estreme conseguenze una corrosione del centrodestra che ha lasciato solo macerie e che si è svolta nella sostanziale assenza di un´opposizione credibile, capace di idee e progetti alternativi. Oggi come allora nel momento della verità i partiti sono stati più un peso che una risorsa, più un intralcio che uno stimolo.
È un nodo centrale del dramma di oggi. Per questa via si è lacerato sempre più, lo ha sottolineato benissimo Gustavo Zagrebelski, quel rapporto essenziale fra società e stato che è compito dei partiti garantire. Siamo giunti cioè al punto estremo di crisi della democrazia: di questo si tratta, ed è inutile nasconderselo. È significativo il ruolo costituzionalmente ineccepibile e al tempo stesso provvidenziale svolto negli ultimi vent´anni da tre capi dello Stato – Scalfaro, Ciampi e Napolitano – che hanno partecipato alla fondazione della Repubblica e sono felicissima espressione di quel clima, di quello spirito. Sono poi dei "non politici" di assoluta qualità a dare prova di uno spirito di servizio che dovrebbe essere il segno distintivo più nobile della politica. Una politica che sta bruciando quel che rimaneva della propria credibilità continuando a ignorare l´urgenza di riformare radicalmente se stessa, il proprio modo di essere e le proprie regole. E difendendo invece nella maniera più assurda i propri privilegi, fino al colpo di mano alla Regione Lazio e a tutte le vicende che variamente ruotano attorno ai vitalizi.
Siamo di fronte alla necessità di ricostruire non solo un sistema politico ma anche un Paese che appare profondamente smarrito e che è chiamato a sacrifici pesantissimi. Anche per proprie colpe: in passato è stato troppo pronto a rimuovere le proprie responsabilità. A dimenticare il contributo direttamente o indirettamente dato all´aprirsi delle voragini, con pesanti spinte corporative e corpose inosservanze degli obblighi civici. Così fu negli anni Ottanta: di queste pessime stoffe era intessuto il sostegno al pentapartito che celebrava allora i suoi trionfi e che ci guidò poi con spensierato ottimismo sin sull´orlo dell´abisso. La barca va, si diceva: fino al naufragio. Così è stato anche nella stagione berlusconiana, e nessuno può rispolverare oggi il mito di una società civile interamente sana contrapposta a un sistema politico corrotto. Sembra semmai più adeguata una vignetta di Altan di qualche tempo fa: "Il Paese avrebbe bisogno di riforme... ma anche le riforme avrebbero bisogno di un Paese".
Oggi siamo costretti di nuovo a "guardarci dentro", ad interrogarci sul nostro passato e sul nostro futuro. Il centrosinistra deve spiegare in primo luogo a se stesso perché nel crollo della "prima repubblica" mancò l´occasione di proporre modelli e pratiche di buona politica. E perché affossò poi rapidamente il primo tentativo di Prodi di andare in quella direzione, lasciando così via libera al consolidarsi del populismo e dell´antipolitica. Perché, anche, è diventato progressivamente preda di una opaca afasia.
È altrettanto importante il ripensamento che può coinvolgere quell´area moderata – spesso al di fuori o ai margini delle organizzazioni politiche – che non ha seguito fino in fondo la deriva berlusconiana: perché è così difficile nel nostro Paese la nascita di una destra normale? Ce ne sono finalmente le condizioni? Questo sarebbe un importantissimo elemento di svolta.
Le riflessioni delle forze politiche di entrambi gli schieramenti possono oggi essere favorite dalla qualità stessa del governo che è stato messo in campo. Essa ha fatto rapidamente impallidire tutte le ipotesi sul "dopo Berlusconi" che erano state avanzate in precedenza: sia quelle che sapevano di "conservazione" sia quelle che si presentavano con il volto dell´innovazione. Oggi ci appaiono tutte obsolete, sanno di antico e di inadeguato. Ed è sempre la qualità di questo governo a rendere ancor più stridenti le insufficienze dei partiti e le loro più estreme manifestazioni di irresponsabilità. Su questo terreno la Lega ha sbaragliato ogni suo precedente record ma la demagogia e l´improntitudine, dopo anni e anni di governo, non sembrano più farle guadagnare consensi. Se così continuerà ad essere, sarà un ottimo segnale. Non andrebbero neppure commentate poi le sortite di Berlusconi, primo responsabile del disastro ma pronto a far cadere il governo appena i sondaggi gli tornassero favorevoli: eloquente conferma di un insanabile conflitto con il bene comune.
La rifondazione di una classe dirigente sulla base della competenza, del rigore e dello spirito di servizio è dunque obbligatoria ed è un processo da avviare subito: altrimenti al voto del 2013 si giungerà con inquietanti incognite. Senza quest´inversione di tendenza, senza il contributo attivo della politica sarà molto difficile ricostruire l´etica collettiva, il senso di una comunità. Sono straordinariamente importanti al tempo stesso i segnali che verranno dal governo: la difesa intransigente di equità sociale e diritti, merito e trasparenza sono il motore indispensabile e insostituibile di una Ricostruzione. In un Paese smarrito ma ancora capace di uscire dalle derive di questi anni le indicazioni di futuro sono essenziali: contribuiscono in modo decisivo alla capacità vitale di una nazione, alla sua possibilità di ritornare protagonista. Questo governo ha tutte le qualità per mandare i segnali giusti, ed è in realtà l´ultima occasione per invertire la rotta. Per questo è giusto chiederglielo con forza.
Come si faccia a riformare il ciclo di vita pensavamo lo sapesse solo Dio, invece lo sa anche la ministra Elsa Fornero che non cessa di spiegarci come si fa: aumentando il tempo di lavoro, innalzando l'età pensionabile, legando le pensioni ai contributi e i salari alla produttività perché bisogna lavorare fino a 70 anni ma sapendo che si vale meno che a 30, liberando i nonni dal mantenimento dei nipoti e remunerando i nipoti con una mancia chiamata salario d'ingresso, parificando il ciclo lavorativo delle donne a quello degli uomini e compensandole con la speranza che i mariti laveranno i piatti tre volte alla settimana.
Lasciamo perdere argomenti già spesi sull'iniquità della riforma, e tralasciamo pure il fatto che la stessa ministra dichiara candidamente che tutto questo per funzionare avrebbe bisogno di una fase di crescita, mentre noi siamo in recessione, lo saremo di più dopo riforme di tal fatta e dunque quello che ci aspetta sono i cinquantenni a spasso senza lavoro e senza pensione a braccetto con i trentenni senza arte né parte. Ma perché Fornero chiama "riforma del ciclo di vita" quella che più umilmente potrebbe chiamare riforma del mercato del lavoro e del sistema previdenziale? Qual è la pretesa che si esprime con queste parole?
Il linguaggio, com'è noto, non mente. Non mentiva sotto il cielo di Berlusconi, e non mente sotto il cielo di Monti. Eppure, con quanta minore acribia ci si esercita ad analizzare questo rispetto a quello. Sarà solo perché la lingua pop del Cavaliere si esponeva a una dissacrazione altrettanto pop, mentre il lessico tecnico e glaciale dei Prof, nonché la spocchia di classe che non lesinano, comanda, e ottiene, deferenza e obbedienza, e quando non la ottiene, vedi il caso di Susanna Camusso, si scatena l'ira di dio?
"Riforma del ciclo di vita" è un'espressione che richiama con chiarezza adamantina quella pretesa di governo delle vite che è il cuore del biopotere contemporaneo. Come quest'ultimo si eserciti, con quali mezzi e quali astuzie, l'abbiamo imparato per l'appunto da Berlusconi, il quale di questa pretesa non faceva mistero: puntava alle nostre menti con le sue tv, ai nostri sensi con le sue esternazioni sui deputati "maleodoranti" dell'opposizione, alle nostre fattezze con la sua estetica di regime, al nostro immaginario con le sue esibizioni sessuali, ai nostri desideri con il suo consumismo dissipatorio. Però quella pretesa biopolitica non è affatto sparita con lui, anzi. E il sollievo, del tutto comprensibile e condivisibile, con cui, all'atto del giuramento al Quirinale del governo Monti, è stato salutato il cambiamento estetico che si annunciava sotto gli abiti discreti e i volti non plastificati dei nuovi ministri non può esimerci dall'interrogarci sul risvolto etico si sta consumando all'ombra della loro rispettabilità. Dal Carnevale alla Quaresima, si disse allora con una battuta. Ma è bastato un mese per capire che non c'è niente da ridere. Dall'etica del godimento all'etica della penitenza: dalla padella nella brace?
Adesso non si tratta più di esibire i corpi, ma di disciplinarli: di riportarli a una disciplina del lavoro priva, però, delle compensazioni espansive - diritti, garanzie, sicurezza - dei decenni d'oro del fordismo, e corredata dalla precarietà disperata del postfordismo. Non si tratta più di titillare i desideri, ma di reprimerli. Non si tratta più di nascondere l'invecchiamento col botox, ma di usarlo per fare cassa. Non si tratta più di prolungare l'adolescenza, ma di allarmarla per il suo futuro. E non si tratta più di deresponsabilizzare l'età adulta, ma di colpevolizzarla.
Come? Con il recitativo del debito: tutti indebitati, tutti colpevoli. E tutti disposti a espiare. Un libro di Maurizio Lazzaratto anticipato sull'ultimo Alfabeta spiega egregiamente questa svolta dell'etica neoliberale che si compie all'ombra della crisi del debito sovrano, e che come al solito nel "laboratorio italiano" si vede meglio che altrove. Eravamo tutti imprenditori di noi stessi ricchi di chance al tempo del Cavaliere, siamo diventati tutti debitori carichi di colpe al tempo di Monti. Il debito funziona così, sparge (to spread in inglese, sarà un caso?) su tutti la responsabilità di alcuni.
Dei quali "alcuni" non si parla: se siamo nei guai fino al collo è di certo per via degli oneri del lavoro dipendente e del welfare, forse per i privilegi di qualche «casta» data in pasto al populismo, ma i profitti sono senza macchia e la finanza senza peccato. E comunque, i nostri ministri ce lo dicono ogni giorno, per questi dossier c'è tempo; per le pensioni no. Aspettiamo fiduciosi. Ma allontanando da noi la penitenza che non ci spetta per un godimento che non è stato il nostro. Di tutto c'è bisogno, fuori che di un senso di colpa che si solidifichi in consenso.
A forza di parlare di governo tecnico, e di un premier che non ha ambizioni politiche, e di ministri che mettono al servizio dell´Italia le proprie conoscenze scientifiche per tornare presto agli studi o alle attività di ieri, ci stiamo abituando a tenere la mente in naftalina, come se il nostro pensare fosse il giunco che astutamente si piega, in attesa di rialzarsi tale e quale appena passata la piena.
Il proverbio del giunco è famoso nel vocabolario della mafia: sembra impregnare anche i partiti e le corporazioni, alle prese con la crisi e il dopo-berlusconismo. Quel che sta tentando il governo non sarebbe politica autentica, nella casa italiana ed europea che abitiamo. Finito l´intervento degli idraulici, rincaseranno i ben più legittimi architetti, decoratori, proprietari.
Questa è la trappola, anche linguistica, che incatena le menti. In realtà, lo sforzo di sanare l´Italia e per questa via l´Europa è politica nel senso pieno e alto, e non solo perché l´esecutivo dipende dal Parlamento. Quel che fa può essere condiviso o no, ma politica resta. Se non è vista come tale, è perché ci siamo disabituati a immaginare altre maniere di farla, e spiegarla. A distinguere fra ambizione e carriera politica. A ridefinire il compito dei partiti nella res publica.
Pensare non solo alle incombenti scadenze elettorali ma ai prossimi dieci, vent´anni; armonizzare le scelte italiane con quelle europee; battersi infine perché l´Unione si trasformi in una comunità più stretta, solidale: dire che tutto questo non è politica ma tecnica equivale a confessare una radicale impreparazione al mondo mutante che abbiamo davanti. Se tutto sta a esser preparati, ecco, non lo siamo: è a costumi obsoleti che stiamo appesi, api ronzanti che vedono un punto e non il tutto. Persistiamo in questa postura anche se la vecchia politica manifestamente è fallita: non solo economicamente ma civilmente, moralmente.
Così come stanno le cose, è probabilmente opportuno che i leader dei partiti non partecipino al governo chiamato a raddrizzare le storture. Lenti a rinnovarsi – Monti l´ha confessato – sarebbero un «motivo d´imbarazzo». Ma se li vediamo da vicino, simili giudizi sono umilianti: certificano che i partiti sono incapaci di politica alta, di misurare e dire all´elettore le prove che ci toccano. Di vedere nella politica non una carriera ma una chiamata, appunto, cui si risponde con l´Eccomi del servizio. Gustavo Zagrebelsky ha scritto su Repubblica, il 12 dicembre, che i partiti hanno alzato bandiera bianca, dicendo a se stessi e ancor più ai cittadini: Dobbiamo esserci, ma vorremmo non esserci. Votiamo a favore ma ci riserviamo di dire, se serve: «Non è questo che volevamo».
Certo è possibile la strategia delle doppiezze. Può esser perfino remunerativa. Se per quasi vent´anni gli italiani hanno votato con cocciutaggine un venditore d´illusioni, proprio questo desideravano: una non-politica, un farsi giunco nella speranza che il fuoco bruci tutti tranne noi, un fantasticare che il divenire non divenga (disincarnata, la fantasia diventa, secondo Hobbes, Regno dell´Oscuro). Ma è una strategia perdente. Di qui l´urgenza di qualcosa che somigli a una rivoluzione mentale. Rivoluzione è sostituire un regime bacato con uno nuovo: per noi vuol dire non svilire i partiti ma riscoprirli, interpreti e pedagoghi della società. Vuol dire aggiustare l´Italia pensandola come Alce Nero pensava il pianeta terra: «Non l´ereditiamo dai nostri padri, ma l´abbiamo in prestito dai nostri figli». La rivoluzione è questa. L´Eccomi è quest´idea di temporanea custodia di un bene che oltrepassa una generazione.
È una rivoluzione insieme italiana ed europea, ed è significativo che in ambedue gli spazi la questione morale sia al centro. Nella nazione, spetta ai partiti tornare a essere quei mediatori descritti nell´articolo 49 della Costituzione: non gruppi d´interessi in complice difesa di una classe, una cerchia, ma libere associazioni di cittadini che concorrono «con metodo democratico a determinare la politica nazionale», dedite al bene comune e non ai propri affari. La questione morale consiste nell´evitare che la Cosa pubblica sia confiscata dall´anti-Stato: evasione fiscale, malavita, esattori del pizzo che usurpano l´esattore statale.
Ma esiste una questione morale anche in Europa, e perfino nelle vicende tecniche dei debiti sovrani, delle bancarotte statali, dei salvataggi europei. Non a caso c´è una parola che riaffiora cronicamente, ogni volta che Banche centrali o organi europei discutono le misure contro i default. Se l´Unione fatica a farsi Stato che protegge tutti i cittadini dalla paura e dagli infortuni, se Germania e Bce tergiversano, è a causa di un rischio specifico, che si chiama moral hazard.
Il rischio morale è un concetto nato nelle mutue. Mettiamo l´assicurazione contro gli incendi: se come assicurato mi sento sicuro a tal punto da non fare più attenzione ai fornelli accesi o ai fiammiferi, se la responsabilità personale cede il passo allo sfruttamento della buona fede altrui, c´è azzardo morale. Certo condivido il rischio pagando la polizza, ma la sicurezza che sarò comunque risarcito può incitare alla lassitudine. Lo stesso può succedere nei rapporti fra Stati europei.
Il dilemma dell´azzardo morale è l´assillo che avvelena l´Europa, tramutandola in un intrico di passioni distruttive: diffidenza verso i partner, paura che gli aiuti saranno sperperati, tracollo della fiducia da cui nacque l´avventura comunitaria. Anche un´essenziale conquista postbellica, il welfare europeo, può svanire a causa dell´azzardo morale. L´Unione e il welfare sono qualcosa di più di una compagnia assicurativa: non tutti i sinistri (diseguaglianze, precariato, la stessa flessibilità che secondo Draghi «crea incertezza») incentivano la lassitudine. Resta che il moral hazard aiuta a capire la centralità dell´informazione, della verità nei contratti. Sempre, infatti, esso insorge da un´informazione asimmetrica: l´assicuratore possiede meno informazioni dell´assicurato, sulle circostanze scatenanti l´infortunio.
Affrontare le due questioni morali (la rivoluzione dell´onestà e della legalità in Italia, della fiducia e dell´unione politica in Europa) significa fare politica in modo diverso, prevenendo in tempo utile sciagure e ingiustizie con una più leale informazione reciproca. Dicendo ai popoli la verità sulle mutazioni mondiali. Imparando – partiti, sindacati, governi – ad agire nel duplice spazio nazionale ed europeo.
La dimensione nazionale della morale pubblica si è andata affievolendo, nella prima e seconda repubblica. Ma anche la dimensione europea è precipitata, per colpa di classi dirigenti incapaci (accade spesso) di pensare due cose al tempo stesso. Perché è urgente la seconda dimensione? Perché nella crisi odierna, agli stati dell´Unione tocca innanzitutto ridurre le spese, disciplinare i conti. Perché le liberalizzazioni son lente a fruttare. Perché l´equità è ostacolata a tanti livelli: lobby, sindacati, partiti, burocrazie statali. Inoltre non promette automatico sviluppo. La crescita, solo l´Europa potrebbe avviarla: con piani unificati di ricerca, di investimenti in energie alternative, in trasporti, in conoscenze, infinitamente meno costosi se fatti in comune.
È la risposta al moral hazard, alle paure, al clima di sospetto che regnano negli stati più forti e nella Bce. Ma per questo bisogna dare più soldi al bilancio europeo, più poteri alla Commissione, al Parlamento europeo. E bisogna che i cittadini possano contribuire a tale politica, attraverso i partiti, eleggendo direttamente i presidenti della Commissione, deliberando assieme gli investimenti europei e il loro finanziamento. Vale la pena questa rivoluzione, perché è lì che riapprenderemo e la politica, e la democrazia, e la sovranità che nazionalmente
Gli effetti del decreto "Salva Italia" dureranno a lungo, perché redistribuiscono poteri e risorse. Per questo non è possibile far tacere lo spirito critico, né pretendere una sorta di acquiescenza sociale, alla quale giustamente i sindacati hanno detto di no. Il decreto, infatti, tocca profondamente vita e diritti delle persone.
I diritti sono diventati un lusso? L´"età dei diritti" è al tramonto? Di questo discutiamo in questi tempi difficili, e non solo in Italia. E´ tornata l´insincera tesi dei due tempi: prima risolviamo i problemi dell´economia, poi torneranno i bei tempi dei diritti. "Prima la pancia, poi vien la morale" – fa dire Bertolt Brecht a Mackie Messer nel finale del primo atto dell´Opera da tre soldi. Ma l´esperienza di questi anni ci dice che di quel film viene sempre proiettato solo il primo tempo.
Vi è una ricerca francese sui diritti sociali intitolata Droits des pauvres, pauvres droits. Dunque, "diritti dei poveri, poveri diritti": diritti sempre più deboli per i più deboli, e che non si sa che fine faranno. Oggi siamo di fronte ad interventi caratterizzati da una forte asimmetria sociale, che fanno crescere ancora di più la diseguaglianza. Ma qual è la soglia di diseguaglianza superata la quale è a rischio la stessa democrazia? Siamo consapevoli che stiamo passando per un numero crescente di persone dall´"esistenza libera e dignitosa", di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, ad una situazione che spinge verso la pura sopravvivenza biologica?
Proprio nei tempi difficili bisogna parlare dei diritti. Senza conservatorismi, si dice. E allora, poiché il Governo annuncia interventi nella materia del lavoro, usciamo da schemi inutili e aggressivi come quelli che mettono al centro la modifica dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Uno sguardo sull´immediato futuro, realistico e lungimirante, esige che si affronti una revisione dei regimi di sicurezza sociale nella prospettiva del riconoscimento di un diritto ad un reddito universale di base. Di questo si discute da tempo, come mostra un libro appena pubblicato da Giuseppe Bronzini. Si potrebbe così cominciare ad invertire la rotta: dalla sopravvivenza di nuovo verso l´esistenza, ricongiungendosi anche ad una precisa indicazione dell´articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: "al fine di lottare contro l´esclusione e la povertà, l´Unione riconosce e rispetta il diritto all´assistenza sociale e all´assistenza abitativa volte a garantire un´esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti".
Si è detto che l´Italia deve riguadagnare la dimensione europea, rifiutata nei tempi del berlusconismo. Ma, se si vuole che i cittadini non guardino all´Europa solo come fonte di imposizioni e di sacrifici, bisogna ricordare quel che disse il Consiglio europeo nel 1999: «"La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell´Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità». L´Europa dei mercati non può essere disgiunta dall´Europa dei diritti, pena una delegittimazione che può contribuire alla sua dissoluzione. I governanti devono rendersi conto che la Carta dei diritti fondamentali non è un documento al quale dedicare qualche distratta citazione, ma uno strumento che, adoperato con continuità e sincerità, può mostrare il «valore aggiunto» dell´Europa, nel quale diventa conveniente riconoscersi per tutti.
Ma l´Europa è anche quella dei trattati, di cui ora si propongono modifiche per rendere possibile un più diretto governo dell´economia. Di nuovo una questione di legittimità democratica. Si può rafforzare il potere europeo in questa materia sottraendolo a controlli che non siano solo quelli esercitati dalla forza degli interessi di governi nazionali? Se si vuol mettere mano al Trattato di Lisbona, allora, è necessario che una riforma includa un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo. Qui l´antica vocazione europeistica dell´Italia potrebbe essere rinverdita. Vorrà farlo l´attuale Governo, guadagnando così meriti presso tutti quelli che credono ancora in una ripresa della costruzione democratica dell´Unione?
Questa linea di riforma istituzionale, attenta a democrazia e diritti, dovrebbe essere seguita anche per le riforme costituzionali di cui si torna a parlare in casa nostra. Queste non possono essere considerate solo dal punto di vista di un nuovo assetto per Parlamento e Governo. E l´insistenza sulla giusta necessità di restituire ai cittadini poteri confiscati dall´indegna attuale legge elettorale non può limitarsi a questa soltanto. Le nuove forme di partecipazione politica, dei cui effetti abbiamo avuto prove concrete in occasione dei referendum e delle elezioni amministrative, esigono forme istituzionali che diano corpo e legittimazione a quella "democrazia continua" che ormai caratterizza la sfera pubblica e che non può essere affidata soltanto alla dimensione mediatica o alla logica dei sondaggi. Ricordate la critica di Rousseau alla democrazia rappresentativa inglese? «Il popolo inglese crede d´essere libero; s´inganna, non lo è che durante l´elezione dei membri del Parlamento; non appena questi sono stati eletti, esso diventa schiavo, non è più nulla». A questa schiavitù politica, al silenzio tra una elezione e l´altra, i cittadini si ribellano sempre di più, grazie soprattutto alle opportunità loro offerte da Internet. Sono lontanissimo dalle semplificazioni di chi continua a pensare ad una democrazia salvata dalla tecnologia, e ritengo che si debba sempre riflettere sui rischi di una "democrazia elettronica" come forma del populismo dei nostri tempi. Ma è suicida continuare a guardare alle istituzioni e alle loro possibili riforme senza prendere seriamente in considerazione la necessità di integrazioni nuove tra democrazia rappresentativa e presenza più diretta dei cittadini.
Nella prospettiva di riforme, volte però alla buona "manutenzione" e non allo stravolgimento della Costituzione, mi limito ad indicare una sola ipotesi, di cui già ho parlato in passato, ma che il successo dei referendum rende attuale. Mi riferisco all´iniziativa legislativa popolare, prevista dall´articolo 71 della Costituzione e che, finora, ha avuto come effetto solo la frustrazione dei proponenti, visto che il Parlamento ignora del tutto le proposte firmate dai cittadini. Credo che sia venuto il momento di rinvigorire questo istituto, prevedendo procedure che riguardino le modalità in base alle quali il Parlamento deve prendere in considerazione quelle proposte e dando al comitato promotore il diritto di seguirne l´iter parlamentare in commissione, secondo il modello che ha già portato a considerare i promotori di un referendum addirittura come «potere dello Stato». Un passo così impegnativo dovrebbe essere accompagnato da un aumento delle firme necessarie, ben oltre le attuali cinquantamila. Ma avrebbe l´effetto positivo di avviare una integrazione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta (che può e deve trovare ulteriori forme), di aprire un canale tra eletti ed elettori, di insidiare l´autoreferenzialità della politica e di avviare così un suo riscatto nel tempo del massimo suo discredito.
Anche così potremo ricongiungerci all´Europa. L´articolo 11 del Trattato di Lisbona affianca alla democrazia rappresentativa uno strumento di democrazia diretta: il nuovo diritto di iniziativa dei cittadini europei che, in numero di almeno un milione, possono chiedere alla Commissione europea di prendere iniziative in determinate materie. Non è un caso che di questo strumento si prepari a servirsi la rete europea dei movimenti per l´acqua bene comune, dunque proprio i soggetti ai quali si deve la più forte iniziativa referendaria.
L´uscita dalla regressione culturale e politica, nella quale siamo piombati, sta proprio nella capacità di ricominciare a frequentare il futuro senza condizionamenti, primo tra tutti quello che vuole ricondurre tutto alla logica del mercato.
I nostri anticorpi
di Norma Rangeri
Se non ci aiutano loro, gli immigrati, a risalire la china verso una nuova, comune cittadinanza, dopo questi lunghi anni di leghismo xenofobo, di berlusconiana compassione per i poveri, di estremismo proprietario e individualista, per noi sarà più difficile sradicare i semi dell'odio. E sarà faticoso, complicato recuperare il senso di una comunità, ritrovare il piacere della contaminazione e il dovere dell'accoglienza.
L'opera di denigrazione della diversità alimentata dalle istituzioni di governo, la propaganda martellante dei ministri, degli amministratori locali contro i più indifesi hanno lavorato sotto la pelle alimentando una cultura fascistoide che sarà dura bonificare. Ma certo non impossibile. Intanto proprio dalle istituzioni si fanno sentire forti spinte in controtendenza. Dai richiami del presidente della repubblica al diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati, alla nomina di un ministro come Andrea Riccardi alle politiche di cooperazione e integrazione. Ma dalle parole bisognerà passare ai fatti e spetterà a noi tutti rafforzare gli anticorpi dove più si sono indeboliti, specialmente nelle fasce dell'emarginazione culturale e sociale destinate al contagio razzista portato dai venti della grande crisi (lo spettro degli anni '30 si aggira per l'Europa).
Per questo è stato di grande conforto vedere ieri la manifestazione dei senegalesi che hanno raggiunto Firenze un po' da tutta Italia. E il rammarico di non essere lì, nella piazza fiorentina, insieme a Pap Diaw e ai suoi amici colpiti da un lutto così atroce, è stato parzialmente compensato dalle immagini di piazza S.Maria Novella affollata da un popolo fiero e combattivo. Così come va segnalata la presenza in mezzo a loro dei leader della sinistra, finalmente uniti per una giusta causa.
Dai volti e dalle parole, dai canti e dalle preghiere che hanno segnato il timbro della manifestazione, arriva l'orgoglio di una cultura, la rivendicazione di un diritto che è prima di tutto umano poi civile e politico. E che restituisce a noi, per contrasto, tutta la vergogna di un veleno razzista, mostrandoci infine quali sono gli antidoti per guarire la ferita.
«Ora vogliamo un'altra politica»
di Luca Fazio (Milano)
Rivendicano la cittadinanza, il permesso, la chiusura dei Cie e di casa Pound
Insolito ritrovo piazzale Loreto. Non capita spesso che siano gli immigrati, o i loro figli, a trascinare una manifestazione antirazzista, per cui ogni tanto è bene farsi da parte e lasciar fare loro, compresa la manfrina finale del fronteggiamento con la polizia in piazza Duca d'Aosta: alcune decine di giovani senegalesi gridano «assassini», spingono, si spingono, ma non ce l'hanno con la polizia, è solo che tocca a quel cordone rappresentare l'ordine imposto, che in Italia da troppi anni è al servizio di politiche razziste. E fasciste, dice questo corteo inedito. Sembra una banalità ma è un fatto interessante. Solidarizzano con la comunità senegalese di Firenze, parlano di Modou Samb e Mor Diop, e per la prima volta individuano un simbolo tra i tanti che ce l'hanno sempre avuta con loro: casa Pound. I fascisti, si diceva una volta. L'estrema destra, con la strage di Firenze, si rivela per quello che è, solo che adesso lo sanno tutti. Gira un cartello, ne girano tanti - scritti sui cartoni, sui fogli, sulle bandiere... - e il concetto è piuttosto esplicito: «Fascismo e razzismo stessa merda. Chiudere casa Pound».
Ma non è solo per questo che più di un migliaio di persone ha raccolto l'appello a manifestare in occasione della Giornata globale per i diritti dei migranti. Gli africani di Milano, supportati dalle associazioni antirazziste, da qualche centro sociale e da qualche partito di sinistra, hanno delle richieste da fare al nuovo governo. Le stesse che per anni sono rimaste schiacciate tra il razzismo istituzionale del centrodestra e la debolezza, in qualche caso connivente, del centrosinistra.
Rileggiamo i cartelli. Adesso toccherà al governo Monti dare risposte a milioni di migranti che vivono in Italia come cittadini privi di diritti fondamentali (compreso il lavoro, e qui, con la «manovra salva Italia», sembra il gatto che si mangia la coda). I migranti dicono di essere «una sola razza, razza umana universale», e al governo saranno tutti d'accordo. Ma che dire, in tempi di sacrifici per tutti tranne che per ricchi politici e banchieri, davanti al cartello «la legge Bossi-Fini ci incatena al lavoro nero»? Il corteo è pieno di scatoloni con scritto «No sanatoria truffa» e di giganteschi permessi di soggiorno timbrati di rosso: «Espulso» e «Scaduto». Sarà materia di discussione? E poi. Sarà impossibile dare soddisfazione a chi alza il cartello «Chiusura dei Cie», e questo non è un dettaglio, è una vergogna sponsorizzata da tutte le forze politiche che hanno governato dal 1998.
C'è di che essere furibondi, dopo la strage di Firenze e il pogrom di Torino, ma il corteo è pieno di ragazzi e ragazze giovani, e non tira certo aria di rassegnazione. Si sorride. Ci si mescola senza farci caso, perché è la cosa più naturale del mondo. Sfottono, come la ragazza asiatica che ha dipinto di rosa il suo cartello «Tengo o'core italiano». E c'è anche chi avrà tutto il tempo di svegliarsi quando gli pare, come Mariam, sei mesi impastati di sonno sul petto di sua madre. Mariam con la M finale, perché la mamma è italiana e il padre senegalese, «io sono cattolica lui musulmano, ci siamo messi d'accordo così...». Allora viva Mariam.
Firenze, il ruggito antirazzista
di Riccardo Chiari (Firenze)
Più di ventimila persone sfilano nella città a pochi giorni dall'efferato omicidio per mano del militante di casa Pound. Una sola voce per chiedere diritti e democrazia
In una limpida, bellissima giornata di fine autunno, più di ventimila esseri umani di ogni età, genere e colore salutano Samb Modou e Diop Mor. Camminano insieme, per le strade di una Firenze che da anni non vedeva un corteo così consapevole, intenso, autenticamente di popolo. Pap Diaw ci sperava: «Non vogliamo fare un corteo di soli neri, vogliamo mischiarci con tutte le realtà fiorentine». Il portavoce della comunità senegalese vede esaudita anche questa richiesta. I figli della madre Africa, arrivati da mezza Italia per inginocchiarsi lì dove i fiori, le candele e i disegni ricordano la mattanza di martedì, sfilano fianco a fianco con i fiorentini, in lunghi pezzi di corteo dove simboli e appartenenze si annullano in un indistinto, tranquillo fiume di persone diretto in piazza Santa Maria Novella. Per i bambini poi, che sono insieme in piazza come sono insieme ogni giorno in classe, nulla di quanto accaduto può avere senso. Greta, Fatima, Pietro, Francesco e Giulia oggi sono i maestri: «Quali sono le tre cose peggiori al mondo? Guerre, razzismo e fascismo? Hai risposto bene». Come risponde bene il coro, ritmato, che riecheggia lungo tutto il corteo: «Basta, basta, raz-zi-smo».
Già alle due del pomeriggio, un'ora prima della partenza, piazza Dalmazia inizia a riempirsi. C'è chi prega, su un cartello c'è scritto: «In questa piazza il 13 dicembre 2011 sono stati uccisi Samb Modou e Diop Mor, lavoratori senegalesi, per mano razzista e fascista. Perché la memoria non ci inganni». In testa al corteo che si sta formando ci sono i familiari e gli amici delle due vittime. Hanno con sé la foto di una ragazzina: «Ha tredici anni - spiegano - è la figlia di Mor, non l'ha mai conosciuta. Aveva lasciato in Senegal la moglie incinta per venire qua a lavorare. Ora stava aspettando i documenti per tornare e conoscerla». Poco lontano i richiedenti asilo eritrei e somali, insieme al movimento per la casa. Fra loro anche Abdi. Ha un anno e, in carrozzina, è alla sua prima manifestazione. Aspettando, lui che è nato in Italia, di veder riconosciuto il diritto di essere cittadino italiano. Un anno ha Abdi, 87 anni ha Leandro Agresti, il partigiano Marco, che porta al collo il fazzoletto della Brigata Fanciullacci e in mano la bandiera dell'Anpi di Firenze. «Siamo rimasti in pochi. Ma oggi siamo qui. E' doveroso».
Si parte in anticipo perché in piazza non si entra più. E da questo momento sarà ininterrotto il flusso di persone che percorrono la lunga via Corridoni lo svincolo sulla ferrovia lungo la Fortezza da Basso, via Valfonda, piazza Stazione e infine Santa Maria Novella. Più di un'ora e mezzo di corteo, con la coda di migliaia di partecipanti che alla fine non riuscirà a entrare nella pur vasta piazza Santa Maria Novella, dove è stato montato il palco per gli interventi conclusivi. Fra i leader politici, ecco passare negli spezzoni dei loro partiti Pierluigi Bersani, Nichi Vendola, Enrico Rossi, Paolo Ferrero, Riccardo Nencini, Rosy Bindi, il sindaco Matteo Renzi, Marco Ferrando, arriva anche l'ex ministro Rotondi. C'è anche Maurizio Landini. Ci sono i gonfaloni di province (Firenze, Prato, Livorno) e di tanti comuni toscani, peccato per il giglio di Firenze lasciato in Palazzo Vecchio. La strada è stata "pulita" da auto e motorini, i giovani facchini senegalesi del mercato di Novoli fanno da security.
Gli striscioni delle comunità senegalesi, toscane, venete, lombarde, passano senza soluzione di continuità. In fondo al corteo, i senegalesi di Roma cantano nella loro lingua, con una intensità che mette i brividi. Ma ci sono anche i palestinesi, e le mille associazioni e movimenti di base che hanno aderito, compresa la scuola popolare Caracol di Viareggio con i suoi piccoli alunni. Le bandiere giallo-verde-rosso del Senegal si uniscono a quelle rosse del Prc, di Sel, del Pcl, di Sr, bianche dell'Idv e tricolori del Pd. I fiorentini più anziani, molte donne, sono ai lati della strada. Anche loro si sentono, e fanno, parte del corteo. Una volta in Santa Maria Novella, Enrico Rossi ribadisce dal palco: «Sul razzismo le istituzioni non hanno avuto sufficiente rigore». A ruota Paolo Ferrero: «Ci sono leggi che devono essere cancellate, dalla Bossi-Fini al reato di clandestinità». «Noi senegalesi non abbiamo bisogno delle scuse di Casa Pound - chiude Pap Diaw - loro, piuttosto, dovrebbero vergognarsi, e non solo di fronte a noi, ma davanti al mondo intero». TORINO Manifestazioni contro il razzismo in tutta Italia. Sotto la Mole erano tre i cortei per ricordare il massacro di Firenze e l'agguato incendiario contro il campo rom delle Vallette. Ma c'è chi non smette di seminare odio da quelle parti e a mano ha scritto un volantino circolato nel quartiere, in solidarietà ai due arrestati per il raid di sabato scorso NAPOLI La comunità africana e la Campania antirazzista hanno marciato contro il razzismo e per chiedere la chiusura di casa Pound. La manifestazione, cui ha partecipato anche il sindaco De Magistris, ha attraversato piazza Plebiscito per arrivare in prefettura, dove una delegazione di senegalesi è stata ricevuta dal ministro dell'interno Cancellieri.
«Adesso cancellare le leggi razziste»
di Ornella De Zordo
«È stata una prima, bella, risposta, ma ora devono intervenire le istituzioni»
«Una manifestazione bella e piena di una pluralità incredibile, gente normale, non solo realtà organizzate. Tutto questo è molto positivo, è la risposta che bisognava dare a quanto è accaduto a Firenze, ma non basta». Sono le sei del pomeriggio e Ornella De Zordo, consigliera d'opposizione della lista di cittadinanza «Per un'altra città» ha appena finito di sentire parlare dal palco il governatore della Toscana Enrico Rossi, mentre tutto intorno almeno ventimila persone continuano a sfilare per le vie del centro. «Questa manifestazione è una delle risposte che bisognava dare, ma non basta - ripete - perché quello che è avvenuto è sicuramente da collegare alla subculturra razzista che si è affermata negli ultimi venti anni, entrando in vari ambiti e anche nell'immaginario collettivo. Una cultura molto pericolosa. Non dobbiamo dimenticare che abbiamo avuto al governo un partito che sul razzismo ha costruito molto. Per questo la manifestazione di oggi è un bene, perché è stata una risposta immediata e di testa, ma adesso occorre che le istituzioni siano conseguenti. Bisogna cambiare delle leggi, prima fra tutte ovviamente la Bossi-Fini , e dare la cittadinanza ai bambini figli di stranieri che nascono in Italia. Due punti che demoliscono la costruzione fatta contro lo straniero in questi ultimi venti anni».
Anche lei giudica sbagliato considerare quanto accaduto solo come il gesto isolato di un folle?
«Assolutamente si. A insistere su questa lettura è l'estrema destra. Credo invece che l'omicidio dei due ragazzi senagalesi rappresenti l'escalation della subcultura razzista. Certamente non tutti per fortuna arrivano a questi estremi, ma quanto accaduto a Firenze mi sembra il punto limite di una cultura che considera lo straniero come una persona infetta, come qualcuno che determina il degrado della città in cui vive. E a dimostrazione di questo c'è quanto è successo sul web poche ore dopo il duplice omicidio, con i messaggi di esaltazione della figura di Casseri».
Non più Grandi Opere, progetti faraonici come il mitico Ponte sullo Stretto, ma piuttosto opere buone e giuste. Cioè necessarie, utili per i cittadini, sostenibili sul piano ambientale e finanziario. A dieci anni dalla Legge Obiettivo, introdotta dal secondo governo Berlusconi a partire dal 2001, il bilancio è decisamente fallimentare. E perciò ora, mentre il governo Monti annuncia lo sblocco di 12,5 miliardi di euro (disponibili solo sulla carta) per le infrastrutture strategiche, il Wwf presenta un dettagliato dossier sullo stato dei lavori pubblici in Italia, compilando anche un decalogo e indicando le priorità: dalla difesa del suolo ai servizi ferroviari, in particolare nelle aree metropolitane e negli scali portuali.
È una "rivoluzione mancata" quella che emerge dalla controstoria della Legge Obiettivo. Dai 115 progetti originari siamo passati a 390, con un costo complessivo triplicato (da 125,8 miliardi di euro a 367,4). Ma solo 30 opere sono state effettivamente realizzate, per 4 miliardi e 467 milioni, pari appena all´1%: insomma, un grande bluff. Il peggio, però, è che l´estrema semplificazione delle procedure amministrative ha già prodotto effetti devastanti sul territorio: distruzione degli habitat naturali, impatto diretto sulla fauna, frammentazione della continuità ambientale. Il rapporto del Wwf rivela poi un dato sorprendente sul contenzioso che avrebbe ostacolato la realizzazione delle Grandi Opere. Secondo i dati forniti dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), risultano soltanto 21 i ricorsi presentati delle associazioni – comprese quelle dei consumatori - su un totale di 259. Non è stata insomma l´opposizione degli ambientalisti a bloccare il "Cantiere Italia", quanto l´inconsistenza e l´approssimazione dei progetti, insieme alla sproporzione tra i costi preventivati e le risorse disponibili.
Per superare adesso i limiti della Legge Obiettivo, e soprattutto le normative speciali che consentono di intervenire in deroga a quella ordinaria, il Wwf propone un decalogo che qui riassumiamo:
1) Tornare allo spirito della legge Merloni, cioè a un mercato dei lavori pubblici ispirato a criteri di trasparenza e pubblicità.
2) Riformare la procedura di VIA, per migliorare la qualità dei progetti.
3) Rivedere la figura del "general contractor", come soggetto in grado di realizzare effettivamente l´opera, limitando a una quota massima del 40% l´affidamento dei lavori a terzi e comunque con procedure pubbliche.
4) Ridurre i poteri dei concessionari, ripristinando i limiti di tempo già previsti dalla legge Merloni.
5) Superare il programma delle infrastrutture strategiche, con l´elaborazione di un nuovo piano per la mobilità nazionale.
6) Puntare in via prioritaria sul potenziamento delle strutture esistenti, privilegiando le piccole e medie opere effettivamente necessarie.
7) Finanziare le nuove opere solo se rappresentano un investimento sicuro e hanno costi certi.
8) Ricapitalizzare Anas e Ferrovie dello Stato, garantendo investimento sulla sicurezza, manutenzione, adeguamento tecnologico e potenziamento della rete stradale, autostradale e ferroviaria.
9) Cancellare la figura dei commissari per opere in deroga alle normative esistenti.
10) Eliminare l´abuso delle norme di protezione civile, estese impropriamente anche i cosiddetti "grandi eventi" in deroga alla disciplina urbanistica, ambientale e paesaggistica.
Non è, come si vede, né un libro dei sogni né una "lista proibita". Al primo posto, c´è la prevenzione del rischio idrogeologico, evidenziato dalle recenti e disastrose alluvioni. Segue la proposta di investire nelle aree urbane per contrastare il dominio dell´automobile e quindi l´inquinamento, favorendo invece i servizi ferroviari in alternativa all´Alta Velocità. Quindi la richiesta di attuare il piano delle piccole e medie opere che langue ormai da due anni, stimato in 825 milioni di euro e sollecitato dalla stessa Associazione nazionale dei costruttori edili in funzione anticongiunturale. Quanto all´adeguamento e al potenziamento delle strutture esistenti, il dossier del Wwf indica una serie di progetti concreti da realizzare al Nord, al Centro e al Sud, dirottando su questi obiettivi i fondi - circa 1-1,5 miliardi di euro all´anno - che vengono destinati effettivamente alle infrastrutture strategiche. Dalle linee ferroviarie Milano-Domodossola e Milano-Chiasso, ai collegamenti stradali della E45 Orte-Ravenna, dell´Aurelia e della Pontina; dalle linee ferroviarie tra Palermo e gli altri capoluoghi siciliani fino al completamento della famigerata Salerno-Reggio Calabria. Più in generale, si sottolinea la necessità di intervenire sulle linee ferroviarie a servizio degli scali portuali.
Da una "rivoluzione mancata", dunque, si può passare ora a una "rivoluzione possibile". Un programma di opere pubbliche ragionevole e soprattutto praticabile, in tempi di austerità e sacrifici per tutti. Più che oneri, sono investimenti per modernizzare il Paese e favorire la ripresa economica.
La Mamma di Batman lascia il Banana di Arcore. Messa così, si potrebbe anche sceneggiare a fumetti la non ufficiale ma nemmeno smentita intenzione di Letizia Moratti, che prepara un approdo nelle file del Terzo polo, ed è andata a pranzo con Gianfranco Fini. «Dialogo proficuo», è il verdetto ufficiale. Non si hanno commenti di Silvio Berlusconi, che l’altroieri s’è detto impegnato nella lettura dei diari (tarocchi) di Mussolini, personaggio con il quale ha confessato una forte immedesimazione. Anche per il tradimento di Letizia potrebbe trovare qualche rimando storico. E nemmeno si conoscono - ma si possono immaginare - i commenti di quel 42 per cento di milanesi che l’hanno votata alle scorse elezioni, quelle della sonora sconfitta contro Pisapia. Non che i pessimi e gelidi rapporti fra la Moratti e il Pdl, dopo la débacle, fossero un mistero.
Lei, la Moratti, tre settimane fa non aveva rinnovato la tessera, presa dalle mani di Berlusconi proprio il 13 dicembre 2009, poche ore prima che l’allora premier venisse colpito da una miniatura del Duomo scagliata dall’attentatore Tartaglia. Aveva anche confessato, la Moratti, un «disagio profondo», e perfino la scoperta che il Pdl «non ha senso etico».
Comica o triste, si giudichi a piacere la vicenda. Di sicuro è il segno dello sgretolamento di un partito dove ogni cacicco ormai fa la sua personale corsa, scrutando un orizzonte tempestoso e cercando nuovi approdi. È anche singolare che le manovre di sganciamento avviate dalla Moratti coincidano con il polemico addio di un’altra donna del Pdl, Stefania Craxi, che porta un cognome simbolo per l’avventura politica e personale di Berlusconi. Due donne milanesi che, negli stessi giorni, prendono il volo dal berlusconismo. La Craxi chiude valutando che «il centrodestra è finito», e che non si può più stare in un partito dove la leadeship del Cavaliere non sarà mai messa in discussione. La Moratti avviando amorose schermaglie con Gianfranco Fini, l’Arcinemico di Berlusconi.
Sulla scena milanese, è di sicuro comica la ridda di commenti imbufaliti degli ex-sodali della Moratti, pronta a intrupparsi nel Terzo polo che ha contribuito a mandarla a casa. È la politica, ragazzi. E questa politica deve aver conquistato anche Letizia Moratti, già star di una tecnocrazia con la puzza sotto il naso, e ora disposta a farsi trattare come una Scilipoti in tailleur.
Le ruspe di colossi delle costruzioni e dell´impiantistica, magnati del petrolio e imprenditori locali hanno acceso i motori per prendersi le rive del Belpaese - La parola magica che dà il via libera a nuovo cemento entro i 150 metri dalla battigia è waterfront, declinata in sigle come "rifacimento del litorale" - A Pozzuoli si gioca la partita edilizia più importante del Mezzogiorno, a Ostia in programma beauty farm e ristoranti, a Palermo approvata l´ennesima struttura
Nella Liguria devastata dall´alluvione c´è chi è pronto a mettere altro cemento su una costa che non regge più all´urto dell´acqua che scende dai monti. In Sicilia invece il cemento si vuole depositare direttamente davanti al mare, nel cuore di un sito Unesco. Ecco le mani sulle coste d´Italia. Le ruspe di colossi delle costruzioni e dell´impiantistica, di magnati del petrolio o di imprenditori sconosciuti, hanno già acceso i motori. Vogliono prendersi le rive del Belpaese, che in teoria - cioè secondo la legge - sono inedificabili. Per metterci palazzoni, alberghi, ristoranti e centri commerciali. La parola magica che consente di aggirare il divieto assoluto di costruire entro i 150 metri dalla battigia è "waterfront", declinata in sigle del tipo «rifacimento della costa» o «nuovo porto turistico». Da Santa Margherita Ligure a Siracusa, passando per Marina di Massa, Cecina, Fiumicino, Napoli, Brindisi o Lipari, ecco i grandi affari in riva al mare. In campo imprese e società pronte a gettarsi a capofitto su un business che solo di opere edilizie vale al momento 1,5 miliardi di euro, che si moltiplicano a dismisura se si aggiungono gli affari commerciali collaterali una volta ultimate le costruzioni. Per cercare di arginare quelle che gli ambientalisti definiscono «le mille Val di Susa in riva al mare» si battono giornalmente associazioni come Italia Nostra, Wwf e Legambiente, e sparuti comitati di cittadini spesso lasciati soli dalla politica locale a fronteggiare poteri forti, anzi fortissimi, visto che in tempi record riescono a farsi approvare varianti urbanistiche su misura come non accadeva nemmeno nella Palermo o nella Napoli del sacco edilizio. Ma quali sono i progetti in via di approvazione o già in fase di realizzazione? Chi c´è dietro le società private interessate a questo grande business?
Hotel dietro al porto
Il viaggio nei waterfront d´Italia parte dalla Liguria, da Santa Margherita. Qui la società Santa Benessere, guidata da Gianantonio Bandera, imprenditore ligure noto per il rifacimento del teatro Alcione e per il progetto del contestato porticciolo a Punta Vagno, ha presentato al Comune un progetto da 70 milioni di euro e la richiesta di concessione demaniale dell´area portuale per i prossimi 90 anni. Cosa vuole realizzare? Un centro di talassoterapia da 30 mila presenze annue e l´allungamento del molo e della diga foranea per chiudere il golfo e consentire anche a megayacht di 50 metri di poter attraccare a Santa Margherita. Dal Fai ad archistar come Renzo Piano, in tanti contestano il piano della Santa Benessere, che dietro di sé ha soci e finanziatori più o meno occulti. L´azionista di maggioranza della società che ha presentato il progetto è un trust inglese, la Rochester holding, che a sua volta ha tra i finanziatori Gabriele Volpi, magnate diventato miliardario con il petrolio nigeriano e che oggi guida un gruppo da 1,4 miliardi di fatturato con proprietà che vanno dalla logistica petrolifera alla pallanuoto e al calcio: è proprietario della Pro Recco e dello Spezia. I soldi insomma ci sono. Lui, Volpi, prende le distanze dicendo di non sapere nulla di questo progetto e di avere investito «soltanto nel trust inglese». In realtà nel cda della Santa Benessere siedono Bandera e Andrea Corradino, entrambi soci dello Spezia calcio. Entro lo scorso novembre il Comune ligure aveva dato tempo per presentare osservazioni al piano.
Pochi chilometri più a Sud di Santa Margherita altre ruspe e altri costruttori si stanno muovendo per realizzare alberghi sul mare laddove sulla carta non si potrebbe piazzare nemmeno un palo della luce. Tra Marina di Carrara e Marina di Massa il gruppo di Francesco Caltagirone Bellavista vuole costruire un porto turistico da 800 posti. Peccato però che tra le strutture a supporto metta anche «40 appartamenti, uno yacht club e un residence a tre piani». «E perfino una torre di otto piani e una piazza da 6000 metri quadrati», dice Antonio Delle Mura, presidente di Italia Nostra Toscana. Le amministrazioni comunali guardano con molto interesse all´iniziativa, in ballo ci sono investimenti per 250 milioni di euro e lavoro per molti concittadini. «Nessuno pensa alle conseguenze ambientali e all´impatto devastante per quest´area, con il rischio di erosione della spiaggia e occultamento della vista a mare: tutti sembrano essersi dimenticati, inoltre, che il progetto presentato ricalca una iniziativa del 2001 presentata dall´Autorità portuale e bocciata allora dal ministero dell´Ambiente», aggiunge Delle Mura.
Italia Nostra in Toscana insieme al Wwf è impegnata però anche su un altro fronte, quello di Cecina. In campo c´è una cordata d´imprenditori locali raccolta nel Club nautico che vuole rivoltare come un calzino il vecchio porticciolo, allargandone la capienza a mille posti barca. Fin qui nulla di strano. Se non fosse che accanto al porto si vorrebbe realizzare un parcheggio da 2000 posti auto, 400 box attrezzati, 40 esercizi commerciali, un hotel a 4 stelle, un centro benessere e 80 appartamenti. E, ciliegina sulla torta, un padiglione esposizioni per la nautica e un mercatino del pesce, con ristorante ed eliporto. «Cosa c´entra tutto questo con un porto turistico?», si chiede la professoressa Roberta De Monticelli, che ha denunciato quanto sta accadendo a Cecina alla Commissione Europea: «Spostare una foce e realizzare un pennello a mare che cambierà le correnti, il tutto in una riserva dello Stato, insomma è davvero incredibile», aggiunge la De Monticelli. Ma quali sono i meccanismi per aggirare il divieto di costruire sulla costa? In base a quali leggi si può andare oltre i piani regolatori vigenti?
Bonifiche di facciata
È certamente a una manciata di chilometri da Napoli che si sta giocando una delle partite edilizie più importanti del Mezzogiorno. E precisamente a Pozzuoli nell´ex area industriale Sofer-Ansaldo, oggi di proprietà della Waterfront flegreo: società, questa, del gruppo dell´ingegnere Livio Cosenza, settantenne, grande elettore del sindaco di Pozzuoli Agostino Magliulo, padre dell´onorevole Giulia e di Francesco, 35 anni, amministratore delegato della Watefront. Nel board della società in questione siede inoltre Carlo Bianco, consigliere d´amministrazione della Pirelli Re. La partita inizia quando il Comune nel 2007 affida all´architetto Peter Eisenman un piano di riqualificazione dell´area. Il piano viene consegnato all´amministrazione, che a sua volta firma subito un protocollo d´intesa con la Waterfront. Cosa prevede il mega progetto di Eisenman? Semplice, la realizzazione di un polo turistico alberghiero con annesso centro commerciale, un polo per la nautica da diporto con tanto di accademia della vela e un terzo polo definito genericamente «polifunzionale». La Waterfront affida subito la progettazione esecutiva a uno studio locale, nel quale lavora tra gli altri la figlia del sindaco di Pozzuoli. Il Cipe, nel frattempo, stanzia 40 milioni di euro per la bretella che collegherà l´area all´autostrada. Le ruspe sono pronte, visto che le carte ci sono tutte e sono in regola. In arrivo 600 milioni di euro d´investimenti, con tanto di anticipo già approvato da Intesa Sanpaolo.
Per il professore d´economia dell´Università di Napoli Ugo Marani si tratta «di un bel progetto che sarà trasformato in scempio» e per questo «va fermato». L´opposizione di Pozzuoli, dal Pd a Rifondazione protesta, ma al momento l´iter burocratico è già concluso e c´è poco da fare. Altri affari sono in corso nelle grandi città. Sul litorale romano, a esempio, il sindaco Gianni Alemanno ha in mente progetti in grande stile: attraverso l´Eur spa punta a stravolgere il waterfront di Ostia, costruendo beauty farm, alberghi, centri commerciali, ristoranti e perfino una scuola di surf, il tutto con la scusa di raddoppiare il porto attuale. A Palermo, invece, il consiglio comunale ha appena approvato il nuovo piano regolatore del porto, che prevede la realizzazione di un ennesimo porticciolo turistico nella zona di Sant´Erasmo, a due passi dal centro storico della città e nonostante vi siano già altri tre porti turistici in funzione sul lungomare palermitano. Nel capoluogo siciliano gli ambientalisti da anni contestano la riqualificazione di Sant´Erasmo, che sarà affidata a una società privata che gestirà il porticciolo per i prossimi trent´anni.
Piattaforme nel sito Unesco
Le ruspe e le betoniere sono invece già in azione nel cuore di un luogo protetto dall´Unesco: Ortigia, centro storico di Siracusa che si affaccia sul bellissimo golfo aretuseo intriso di storia e leggende greche. Qui il gruppo Acqua Pia Marcia del costruttore Francesco Caltagirone Bellavista ha iniziato i lavori d´interramento per il nuovo porto turistico che sarà chiamato Marina di Archimede. Il progetto da 80 milioni di euro, presentato nel 2007 da una società locale, approvato dal Comune a tempo di record e acquistato in corsa dal gruppo Caltagirone, prevede lavori su un´area di 147 mila metri quadrati, 50 mila dei quali in riva al mare: saranno realizzati 507 posti barca, ma anche «uffici, negozi ristorante, caffetteria, centro benessere e un albergo», dice il deputato regionale del Pd, Roberto De Benedictis. Ma al Comune è arrivata una seconda richiesta, questa volta da parte di una società d´imprenditori locali, la Spero srl, che vuole realizzare un altro porto a fianco di quello di Caltagirone. La Spero vuole investire 100 milioni di euro per costruire un molo da 430 posti barca e sul mare una piattaforma - grande quanto sette campi di calcio - da rendere edificabile per mettere in piedi alberghi, centri commerciali, uffici pubblici, ristoranti, tabaccherie e anche una libreria, per dare un tocco di cultura a un´operazione che, come sostiene il deputato Pd Bruno Marziano, «realizzerebbe il sogno di qualsiasi costruttore: cementificare il mare». Il Comune ha già approvato il progetto e l´ha inviato alla Regione per l´autorizzazione integrata ambientale. «Ci si chiede però come sia possibile costruire alberghi in riva al mare o sul mare, in un sito protetto dall´Unesco. Sarebbe una follia», dice ancora De Benedictis. Intanto Legambiente annuncia battaglia: «Difenderemo Ortigia da queste speculazioni», giura il presidente regionale Domenico Fontana. Ma tutti questi nuovi posti barca sono davvero necessari? Non c´è un altro modo per aumentare l´offerta?
Riqualificare i porti abbandonati
Santa Margherita, Massa Carrara, Napoli, Siracusa, sono soltanto la punta di un iceberg fatto di speculazioni sulle coste in nome dell´esigenza di nuovi posti barca che servono per attrarre turisti ma anche per costruire in zone inedificabili. Italia Nostra ha in corso una ventina di battaglie per bloccare la costruzione di nuovi porti, come quelli di Cecina, San Vincenzo e Talamone in Toscana, o Fiumicino, Anzio e Civitavecchia nel Lazio e, ancora, risalendo, quelli di Sarzana e Ventimiglia in Liguria. Soltanto in Sicilia sono già stati varati, o stanno per essere approvati, progetti di costruzione di ben 12 porti, da Menfi a Licata, da Marsala a Capo d´Orlando e Lipari, benedetti da 24 milioni di euro dell´Unione europea. Soldi pubblici per porti che saranno gestiti da privati scelti spesso senza alcuna procedura di evidenza pubblica. «Il territorio costiero è evidentemente sotto attacco», dice la presidente di Italia Nostra, Alessandra Mottola Molfino. Secondo Sebastiano Venneri, presidente nazionale di Legambiente, si tratta di puri e semplici affari perché basterebbe riqualificare i vecchi porti per ottenere migliaia di nuovi posti barca senza ulteriori cementificazioni: «Abbiamo appena completato uno studio che mette nero su bianco come sia possibile ottenere ben 39.100 nuovi posti barca semplicemente riqualificando i porti abbandonati - dice Venneri - circa 13 mila posti sono attivabili immediatamente con piccolissime opere di restauro, 9 mila posti in tempi brevi e altri 15.800 con lavori che non vanno oltre i 24 mesi». Ma in questo caso il business sarebbe molto meno appetibile. Almeno per i signori del cemento.
Nella Torino degli anni '60 insieme ai cartelli «non si affitta ai meridionali» si era messo in moto un grande processo di integrazione basato sulla scuola pubblica e sui servizi sociali. Martedì su queste pagine, Marco Revelli attribuiva giustamente questo risultato alla cultura della solidarietà operaia allora vincente. Nella Firenze di Giorgio La Pira si mise in moto un inedito clima di sostegno alla vertenza delle officine Pignone minacciate di chiusura e lo stesso sindaco fu in prima fila nella battaglia per dare una casa ai fiorentini. Prese addirittura la decisione di requisire alloggi vuoti per darli agli sfrattati.
Le città di quegli anni avevano dunque un senso di appartenenza che, al di là della collocazione sociale di ciascuno gruppo, fornivano servizi, assistenza e integrazione. Erano insomma i luoghi della convivenza pubblica, e come tali venivano percepite da tutti. L'uccisione a freddo dei senegalesi nei mercati rionali fiorentini e il tentativo di pogrom contro i rom torinesi avvengono in un vuoto quotidiano, fatto di indifferenza e scetticismo. Come se la concezione stessa della città luogo pubblico fosse stata spazzata via. È questo il tema di fondo che ci interroga e al quale dobbiamo dare una risposta. Dobbiamo cioè chiederci se i venti anni di liberismo urbano, accettati come un assioma di fede e messi entusiasticamente in pratica dai governi progressisti nazionali e locali, non abbiano minato alla radice la città pubblica, il bene comune per eccellenza.
Ci accorgeremmo allora che i protagonisti di Torino e Firenze non sono «mostri»: sono i frutti avvelenati della devastazione culturale. La furia dei liberisti non ha infatti risparmiato nulla e nessuno. Le scuole dei piccoli centri sono state chiuse. Nelle grandi città vivono in perenne stato di instabilità per le carenze di manutenzione e di personale. I servizi sociali sono falcidiati dovunque «perché non ci sono i soldi». Questa formula magica non vale per il servizio sanitario nazionale che è stato invece privatizzato e affidato (a nostre spese) alle caritatevoli mani dei Don Verzè, degli Angelucci e dei Tarantini di turno. I trasporti urbani dal prossimo gennaio saranno ulteriormente tagliati fino quasi ad annullarli.
Ciascun cittadino è dunque solo nell'affrontare la vita: la rete sociale del welfare è stata cancellata. Le città sono state ridotte a luoghi anonimi, utili all'arricchimento della proprietà fondiaria. Nel decidere nuovi progetti non si discute mai se esiste o meno la convenienza sociale; se le abitazioni costeranno di meno; se ci si metterà meno tempo per andare al lavoro. Si discute soltanto - Sesto San Giovanni è una miniera al riguardo - di quante centinaia di migliaia di metri cubi occorre incrementare i progetti per ignobili arricchimenti e vergognose prebende.
Stanno in questo devastante deserto le radici dell'indifferenza, del rancore diffuso. E stanno sempre qui i rischi dell'accendersi di una ulteriore spirale di violenza razzista. Gli ingredienti ci sono tutti. Con la crisi economica sempre più grave aumenteranno le disuguaglianze e le fasce di emarginazione. Senegalesi e rom saranno, ancora di più, facili bersagli per tutti coloro che vogliono far dimenticare che le origini della crisi stanno in un sistema economico ed urbano perverso che non si ha il coraggio di fermare.
Il pericolo si aggrava ulteriormente se si analizzano i provvedimenti che i professori al governo stanno prendendo in questi giorni. Purtroppo destinati a cercare vie di fuga violente dall'impoverimento di larghi strati della popolazione.
Ambiente, paesaggio e beni culturali in tempo di crisi: a governo tecnico, qualche appunto tecnico.
Primo: ancora più fragile dell´economia italiana è il suolo della Penisola. Sono state censite almeno mezzo milione di frane, che interessano poco meno del 10% del nostro territorio. Non si tratta solo di morfologia naturale: il degrado è velocizzato dall´abbandono delle coltivazioni e da incendi boschivi spesso dolosi. Ma anche dalla cementificazione (infrastrutture e insediamenti abitativi) che sigillando i suoli accresce la probabilità di frane e alluvioni e ne rende più gravi gli effetti, dall´incuria per il regime delle acque, che riduce le risorse idriche e genera disastrose esondazioni. Queste traumatiche alterazioni del suolo comportano enormi danni (almeno 5 miliardi di euro negli ultimi sette anni, secondo l´Ispra) e continue perdite di vite umane. Molto vulnerabili anche le nostre coste, quasi 5.000 chilometri già in continua erosione e a rischio allagamento per almeno il 24% (dati Ispra), eppure ancora devastate dalla proliferazione di porti turistici, a celebrare i fasti di una prosperità che non c´è più. Eppure, mentre il degrado del territorio avanza con ritmo spietato, sentiamo ripetere la favola di uno "sviluppo" economico basato sul moltiplicarsi di autostrade e ferrovie (anche se inutili) e sul rilancio dell´edilizia (mediante condoni, sanatorie, "piani casa"). Ma se così fosse, perché questo tipo di sviluppo ha prodotto la crisi profonda che attraversiamo? Dopo la frana di Giampilieri presso Messina, che nell´ottobre 2009 uccise quaranta italiani, Bertolaso ne attribuì la colpa all´abusivismo edilizio, ma si affrettò a dichiarare che per consolidare quel tratto di costa mancano le risorse, «due o tre milardi di euro». Due giorni dopo, il ministro Prestigiacomo dichiarò che «il ponte sullo Stretto non è alternativo alla protezione dell´ambiente», e il ministro Matteoli disse che i lavori per il ponte devono continuare. Questa è l´idea dello "sviluppo sostenibile" che ci è stata fino a ieri propinata: non un centesimo per consolidare le coste dello Stretto, "uno sfasciume pendulo sul mare" secondo la celebre definizione di Giustino Fortunato, sì invece a una pioggia di miliardi per costruire su quelle frane un´opera faraonica (la definizione è del presidente Napolitano). Questo governo avrà la forza di mettere in discussione le favolette che ci sono state ammannite? Vorrà studiare caso per caso, con esperti terzi e non legati alle banche e alle imprese appaltatrici, la sostenibilità reale della Tav in Val di Susa e altrove? O vorrà allinearsi all´elegante dichiarazione dell´ad di Trenitalia, Moretti, secondo cui a sollevare dubbi contro la TAV sarebbero solo «quattro fessi»?
Secondo: il paesaggio italiano è fra i più devastati d´Europa. A fronte di un incremento demografico nullo, abbiamo il più alto consumo di suolo d´Europa. Incentivi, sanatorie e condoni hanno seminato per il Paese migliaia di capannoni "industriali" dove non si produce nulla e nulla viene immagazzinato (ma che "producono" vantaggi fiscali per chi li fa). Almeno due milioni sono gli appartamenti invenduti (centomila solo a Roma e dintorni), eppure si continua a costruire. Città preziose come Bologna vedono svuotarsi il centro storico, mentre si favoleggia di grattacieli, imitando gli sceicchi del Golfo Persico in una provinciale corsa a una "modernità" già stantia. La retorica delle energie rinnovabili aggrava la situazione: l´Italia è il Paese europeo con più incentivi a chi installa eolico e pannelli solari, mentre non spende quasi niente in ricerca per massimizzarne gli effetti e ridurne l´impatto. Se davvero credessimo nelle rinnovabili, dovremmo fare esattamente il contrario. Perché non dare, invece, incentivi a chi riusa edifici abbandonati, anziché costruirne di nuovi? O a chi salva o incrementa l´uso agricolo dei suoli? Cura del suolo e riuso degli edifici abbandonati potrebbero innescare un processo virtuoso, assorbendo manodopera di un´edilizia comunque in crisi e allo sbando.
Terzo: da quando il governo Berlusconi tagliò quasi un miliardo e mezzo al già languente bilancio del ministero dei Beni culturali (luglio 2008), le strutture pubbliche della tutela hanno visto un vertiginoso ridursi di funzionalità e capacità d´intervento. Mentre cala ogni giorno il numero degli addetti, per pensionamenti e assenza di turnover, e la loro età media si avvicina ormai ai 60 anni, aumentano sulla carta i loro compiti. Soprintendenti-superman devono reggere due, tre, quattro uffici spostandosi da una città all´altra, e intanto mancano i soldi per telefono, benzina, luce elettrica. Per rimediare, qualcuno ha una soluzione pronta: chiudere le Soprintendenze, accorpando gli ultimi superstiti in uffici regionali senza competenze, senza bilancio, senza poteri. Piccola osservazione tecnica: la tutela del paesaggio e del patrimonio artistico della Nazione, imposta dall´art. 9 della Costituzione, non si può fare se non c´è chi tutela. E nessuno al mondo ha mai inventato un sistema migliore delle Soprintendenze territoriali italiane, gloriosa istituzione che ha un secolo e deve essere rinnovata e migliorata, ma non messa in soffitta.
Il governo Monti ha raccolto altissime competenze, a cominciare da quelle del presidente del Consiglio e del ministro dello Sviluppo Passera. Da un governo come questo abbiamo il diritto di aspettarci un´analisi fredda e professionale dei dati, e la capacità laica di dirsi, e di dirci, la verità. È un dato positivo della "manovra" di questi giorni l´assenza della voce "dismissioni del patrimonio pubblico", una fonte d´introiti assai amata da Tremonti. Ed è da augurarsi che il patrimonio culturale e il paesaggio, protetti dalla Costituzione, non vengano mai più messi in vendita. È deludente, invece, che manchi un tentativo minimamente adeguato di combattere l´evasione fiscale: 120 miliardi l´anno di tasse non pagate sono una enorme risorsa economica non sfruttata, anzi generalmente rimossa dalla pubblica attenzione, con sfumature non poi tanto grandi fra centrodestra e centrosinistra. Attingervi potrebbe risparmiarci qualche lacrima sui sacrifici che ci attendono. Sarebbe essenziale per rispondere al sempre attuale invito di Keynes: sconfiggere "l´incubo del contabile", e cioè il pregiudizio secondo cui nulla si può fare, se non comporta frutti economici immediati. «Invece di utilizzare l´immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie - scrive Keynes - stiamo creando ghetti e bassifondi; e si ritiene che sia giusto così perché "fruttano", mentre – nell´imbecille linguaggio economicistico - la città delle meraviglie potrebbe "ipotecare il futuro"». Questa «regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo» (è ancora Keynes che parla). Il paesaggio, l´ambiente, il patrimonio culturale sono come il sole e le stelle: illuminano e condizionano la nostra vita, corpo e anima. Perciò hanno un ruolo così alto nella Costituzione, dove incarnano l´idea che ne è il cuore: il bene comune e l´utilità sociale, sovraordinati al profitto privato. Paesaggio, ambiente, patrimonio richiedono sapienza tecnica per essere tutelati: ma richiedono anche un´idea d´Italia, un´idea declinata al futuro.
C'era una volta
di Loris Campetti
C'era una volta il contratto nazionale di lavoro, una delle più importanti conquiste democratiche del nostro secondo dopoguerra. Da ieri non c'è più, grazie allo strappo di Sergio Marchionne e al cambiamento di natura della Cisl e della Uil che da sindacati generali hanno scelto di regredire al rango di sindacati aziendali corporativi. Fim e Uilm, insieme ad altri addentellati padronali e di destra, hanno firmato l'estensione del cosiddetto «contratto Pomigliano» a tutti gli 86 mila dipendenti della Fiat. Senza alcuna delega da parte dei lavoratori ai quali sarà negato, oggi e per sempre secondo il diktat di Marchionne e grazie all'articolo 8 della manovra agostana Berlusconi-Sacconi, di giudicare con un voto quel che è stato deciso sulla loro pelle.
C'erano una volta anche le Rsu, figlie più o meno legittime degli antichi consigli di fabbrica, che comunque rappresentavano le volontà e il voto dei lavoratori. I delegati eletti democraticamente saranno ora sostituiti da ascari nominati dai sindacati firmatari degli accordi. Non si potrà più conoscere il consenso delle singole sigle perché i lavoratori sono stati retrocessi a pura mano d'opera, privi di diritti e di rappresentanza. Appendici delle macchine, variabili dipendenti del mercato, della globalizzazione e dei capricci dei padroni.
In Fiat, come in tutte le aziende italiane, c'era una volta la Fiom, 110 anni di vita, lotte, sconfitte e conquiste, il sindacato dei metalmeccanici più rappresentativo quando le rappresentanze venivano elette. Dal 1° gennaio del 2012 non ci sarà più nelle fabbriche dell'Eroe dei due monti Sergio Marchionne. Perché no? Perché la Fiom non ha accettato il ricatto «lavoro in cambio dei diritti» della Fiat dopo Cristo, rifiutandosi di firmare il contratto di Pomigliano.
C'era una volta il diritto di sciopero. E ad ammalarsi, a contrattare organizzazione del lavoro e straordinari. La firma di ieri ha cancellato in blocco questi diritti. Se vogliono lavorare gli operai dovranno accettare queste regole. Neanche questo è vero perché la Fiat sta andando a rotoli e viene chiuso uno stabilimento dopo l'altro. L'unica cosa che si può dire è che, grazie alla complicità dei sindacati di complemento, il padrone si è ripreso in mano tutto il potere. E' la vendetta rispetto alle conquiste del '69 e degli anni Settanta. Una vendetta preparata lungamente con la complicità dei governi e della politica quasi in blocco. La manovra di Marchionne si affianca a quella di Monti e insieme rappresentano i pilastri di una nuova era basata sulla dittatura della finanza e dei padroni. Il terzo pilastro è l'insieme del sindacato confederale, con l'eccezione della Cgil se finalmente sceglierà di schierarsi con la «sua» Fiom senza se e senza ma. Il quarto pilastro è il Partito democratico, diviso, incapace persino di leggere i passaggi epocali.
Il voto separato di ieri ha spazzato via il fantasma della nuova unità sindacale materializzatosi per un sol giorno, anzi per tre ore. E oggi un Marchionne ringalluzzito da una vittoria costata appena trenta danari, potrà raccontare nuove bugie sull'italianità della Fiat parlando dalle linee di montaggio di Pomigliano liberate dai delegati e dagli iscritti della Fiom. Che pure ci saranno, ma fuori dai cancelli. E il manifesto insieme a loro.
Il segno del comando
di Mauro Ravarino
Divieto di sciopero e sanzioni per chi non rispetta gli accordi. La Fiat monetizza i diritti con un premio di risultato che gli operai non vedevano da due anni. A Torino, la firma che «cambia la natura del sindacato». Senza la Fiom
TORINO
Tutto come da copione o quasi. Solo con qualche giorno di ritardo. I sindacati del «sì» hanno firmato con il Lingotto, ieri all'Unione Industriale di Torino, il nuovo contratto del gruppo, che prevede - dal primo gennaio - l'estensione dell'accordo di Pomigliano a 86 mila e 200 dipendenti di oltre sessanta stabilimenti di Fiat Auto e Fiat Industrial. Una firma senza la Fiom, estromessa dalla trattativa e, ben presto, anche dalla rappresentanza nelle fabbriche. L'intesa, come quella già siglata per Mirafiori, prevede, infatti, che le Rsa siano elette solo tra i sindacati firmatari (Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Associazione Capi e Quadri). «Con questo accordo cambia la natura del sindacato confederale in Italia - commenta Maurizio Landini, segretario generale Fiom - Chi ha firmato, ha accettato di ridursi al ruolo di sindacato aziendale e corporativo. Fim e Uilm hanno agito contro la loro natura confederale».
Sepolto e disdetto il contratto nazionale, salutata Confindustria, il Lingotto ha plasmato per tutto il gruppo un contratto su misura e senza l'intenzione di interpellare i lavoratori con un referendum. Sulle materie regolate dal contratto, i sindacati hanno il divieto di indire scioperi; a questo, si affianca l'ormai famosa «clausola di responsabilità»: chi non rispetta gli accordi verrà sanzionato in termini di contributi e permessi sindacali. Tra le novità dell'intesa ci sono la maggiorazione dal 50% al 60% dello straordinario al sabato, l'aggiunta ai cinque scatti di anzianità biennali di un sesto scatto quadriennale, un aumento dello 0,5% del contributo aziendale ai fondi pensione integrativi. E, poi, il decantato premio straordinario di 600 euro (da notare che per due anni consecutivi la Fiat non ha saldato il premio di risultato), che tutto i lavoratori, compresi quelli in cassa integrazione, riceveranno nella busta paga di luglio.
Si lavorerà su 18 turni (3 al giorno su 6 giorni), con una settimana di 6 giorni lavorativi e la successiva di 4 giorni. Salgono a 120 , rispetto alle attuali 40, le ore di straordinario a disposizione dell'azienda, senza bisogno di contrattazione. Alla fine, sono rientrati anche i dubbi della Uilm sull'assenteismo, pure in questo caso, le volontà dell'azienda non sono state incrinate: più o meno ricalcano lo schema Mirafiori (il Lingotto non pagherà, infatti, i primi due giorni di malattia se l'assenteismo supererà il 3,5 per cento), seppur Rocco Palombella, leader Uilm, ribadisca: «Abbiamo condiviso una formulazione che garantisce i malati veri con delle norme stringenti utili a dissuadere quelli "finti"».
Secondo i firmatari, in seguito all'intesa i lavoratori del Gruppo beneficeranno di un incremento salariale medio del 5,2% sulla paga base. «Ora che abbiamo chiuso il capitolo contratto, dobbiamo aprire il capitolo lavoro» sottolinea Bruno Vitali, Fim. Ma la firma è arrivata senza nessuna promessa della Fiat e, per ora, di modelli nuovi non se vedono.
Esulta l'ad Sergio Marchionne, che parla di svolta storica nelle relazioni sindacali, e lancia un messaggio ai fedelissimi: «A quei sindacati che hanno abbracciato con noi questa sfida va riconosciuto il coraggio di cambiare le cose, va dato atto della mentalità innovativa che è l'unica in grado di costruire una base solida per il futuro». E bolla la Fiom come rappresentante dell'«antagonismo per professione». Per Susanna Camusso «si impone il tema della modifica dell'Articolo 19 dello Statuto dei lavoratori» per recuperare la rappresentanza Fiom.
«L'accordo firmato a Torino peggiora le condizioni di lavoro e limita le libertà sindacali per i lavoratori del Gruppo. Il governo non può stare a guardare» tuona Landini. «La Fiat - spiega Giorgio Airaudo, responsabile Auto Fiom - ha costretto alla resa una parte del sindacato imponendogli l'uscita dal contratto nazionale nella più importante azienda metalmeccanica privata italiana. Noi continueremo la nostra vertenza e vedremo se avranno il coraggio di far votare i lavoratori». Per Federico Bellono, Fiom Torino, «si sono limitati a registrare le volontà dell'azienda. I 600 euro sono pochi se si pensa a che i lavoratori non percepiscono premi da due anni». Infine, Mimmo Pantaleo, Flc: «È un grave attacco ai diritti costituzionali e alla democrazia perchè esclude il diritto dei lavoratori a poter essere rappresentati dalla Fiom».
Luciano Gallino
«È la fine del contratto nazionale»
intervista di Antonio Sciotto
«L'accordo esteso a tutti gli stabilimenti Fiat è un passo verso la fine del contratto nazionale. Un fatto grave in un momento in cui i lavoratori sono divisi e frammentati, si perdono tutele fondamentali». Il professor Luciano Gallino, sociologo del lavoro molto attento al mondo dell'industria, non ha dubbi: l'intesa siglata ieri è tutta a perdere.
Dunque, professor Gallino, diciamo addio ai contratto nazionale.
È perlomeno un passo verso la sua fine, a cui hanno contribuito gli ultimi governi, in particolare quelli di Berlusconi: hanno sparato a zero, trovando spesso riscontro nella Confindustria. Non credo che questo sia un buon segno, perché il contratto nazionale in Italia ha almeno un secolo di storia, è stato e dovrebbe essere uno strumento importante di difesa complessiva dei diritti dei lavoratori, ha l'importante funzione di redistribuire il reddito, mantenendo il contatto con l'aumento della produttività e del carovita.
Ma ha ancora senso difendere il contratto nazionale quando il lavoro è ormai sempre più diviso e figure come ad esempio le partite Iva non ci rientrano nè mai ci rientreranno?
Io credo che abbia sempre e comunque un senso, per tutti quei lavoratori che cerchino una garanzia di base e collettiva. Anzi, oggi ci sono ancora maggiori ragioni per difenderlo. Quando c'erano le fabbriche con migliaia di lavoratori, per certi aspetti un contratto per un grande sito copriva la maggior parte degli addetti dell'intero settore, ma adesso che le fabbriche con migliaia di addetti non ci sono più, perché sono disperse sul territorio, il contratto nazionale funge da essenziale contrappeso alla frammentazione.
I lavoratori Fiat hanno aumentato gli straordinari comandati, la fatica alla catena con pause ridotte, perdono il diritto di sciopero. A fronte, però, sarebbe assicurata la permanenza della Fiat in Italia, e una monetizzazione con premi di produzione. È forse necessario in un momento in cui le buste paga sono sempre più sottili?
Non direi che è necessario. Ma è certo che un lavoratore messo alle strette, in preda al timore di perdere il posto, in una situazione in cui sono letteralmente milioni quelli che non hanno un'occupazione, o sono precari e malpagati, possa finire per dover scegliere il male minore. A me però questa non sembra una buona strada per relazioni industriali progressive. Mi pare piuttosto che vi sia un'ulteriore discesa, un arretramento, verso relazioni non dico pre-moderne ma quasi. Un regresso verso il modello statunitense, dove tanto le relazioni industriali nel complesso quanto la legislazione e la giurisprudenza sul lavoro, sono molto più arretrate che da noi, o meglio lo erano fino a ieri. Stiamo correndo indietro per raggiungere i parametri degli Usa.
Sembra approfondirsi la divisione tra Cgil-Fiom da un lato e Cisl-Uil dall'altro. Le Rsu Fiom sono escluse perché si applicherà l'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. Aumenterà il conflitto dentro le fabbriche?
Lo scenario sarà sempre più frammentato in una miriade di vertenze locali e puntiformi. Per certi aspetti è un contributo a una sorta di «giungla» delle relazioni industriali. Soprattutto se non si trovasse il modo di bloccare, se non addirittura di abolire, l'articolo 8 della manovra, che permette qualsiasi tipo di deroga alle leggi. Molti si soffermano solo sull'aggiramento dell'articolo 18, ma per certi versi direi che non è nemmeno l'aspetto peggiore. Nel secondo comma dell'articolo 8 sono minuziosamente indicate tutte le materie su cui è possibile derogare: dalle assunzioni con contratti atipici alle paghe, fino agli agli orari e all'organizzazione del lavoro. E tutto questo, neanche con la maggioranza dei sindacati, ma basta quella delle Rsu. Altri gruppi potrebbero decidere di seguire l'esempio Fiat, disegnandosi un contratto di settore e uscendo da quello nazionale: aggiungendo questo aspetto alla esclusione delle Rsu e alle deroghe permesse dall'articolo 8, abbiamo un mix disastroso, un combinato disposto micidiale che alla lunga non gioverà neanche alle aziende. Perché le imprese hanno l'interesse di fondo ad avere un interlocutore relativamente unitario, che non cambia voce e faccia a seconda che sia laziale, siciliano o veneto. Quanto all'articolo 19 dello Statuto, credo dovrebbero pronunciarsi i giuristi, ma certo, se ce ne sono le ragioni, potrebbe essere necessario modificarlo.
Ma incassato questo accordo, almeno Marchionne resterà in Italia? O lei vede comunque una Fiat in fuga?
Se ragioniamo sui dati e sulla realtà attuale, è piuttosto preoccupante. A Pomigliano si parla non già di riassumere tutti i 5 mila operai, ma intanto solo un migliaio entro febbraio 2012: stanno facendo una selezione con aspetti che sembrano un po' strani, che mettono in difficoltà la Fiom. Termini Imerese ha chiuso e non si sa quale sia il suo futuro. A Mirafiori non so da quanto tempo lavorano una settimana al mese, e si annuncia una cassa integrazione fino a metà 2013, in vista di un nuovo modello che non si sa che cosa sia. Quest'anno la produzione di vetture Fiat toccherà il minimo storico, molto al di sotto delle 600 mila unità. Il che vuol dire meno della Francia, della Germania, del Regno Unito, della Spagna, perfino della Repubblica ceca e della Polonia. Il grande produttore europeo che se la batteva alla pari con la Volkswagen, è oggi al settimo/ottavo posto come produttore nazionale: la Volkswagen quest'anno arriverà a circa 5 milioni di vetture prodotte in Germania, più circa 2 milioni all'estero. E intanto il famoso piano «Fabbrica Italia» Fiat ancora nessuno lo ha visto.
Ma lasciare l'Italia per paesi più a basso costo, è almeno una scelta furba sul piano economico?
Io ribalterei la visione: mi chiederei cosa ci interessa come cittadini italiani. Credo innanzitutto i posti di lavoro, e le imposte pagate in Italia, per produzione fatta nel nostro Paese. Ci interessa la ricerca, e che l'industria nel suo complesso resti da noi. Che poi la Fiat abbia migliaia di lavoratori all'estero non ci riguarda più di tanto, sono posti di lavoro e imposte versate fuori.
HANNO DETTO
«Un segnale di grande speranza per il paese», dice Sergio Marchionne: «Quanto fatto oggi dimostra che i grandi passi si possono compiere quando si lavora tutti nella stessa direzione e quando c'è condivisione d'intenti». «L'intesa peggiora le condizioni di lavoro e limita le libertà sindacali per i lavoratori del gruppo», afferma Maurizio Landini: «il governo non può stare a guardare perchè l'accordo non dice nulla degli investimenti». «l'accordo impone il tema della modifica dell'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori», commenta Susanna Camusso. L'accordo è stato raggiunto senza la Fiom, che in base all'art. 19 è esclusa dalla rappresentanza degli stabilimenti.
MILA DIPENDENTI
Il variegato mondo Fiat, composto da 87 mila dipendenti, avrà da oggi in poi un contratto unico, mutuato su quello di Pomigliano, siglato l'anno scorso. La firma sull'intesa è stata posta da Fim, Uilm, Fismic e Ugl, con esclusione della Fiom, che perde così le sue Rsu
MILA AUTOMOBILI
Il gruppo che ha sede al Lingotto di Torino produce circa 600 mila vetture in Italia, un numero in costante calo, mentre si abbassano anche le vendite. In controtendenza gruppi come la Volkswagen, che produce nel paese di origine (la Germania), ben cinque milioni di automobili
Sono due anni che gli Stati europei vivono una crisi che somiglia a una guerra, di quelle che cambiano il mondo. La guerra non è conclusa e quel che imparammo nel ´45, oggi l´apprendiamo con terribile lentezza. Allora tutti si gettarono in una grande corsa: per ricostruire, e anche ricostruirsi interiormente. Oggi si procede a fatica, e per anni è prevalsa l´inerzia o perfino la denegazione. Siamo vissuti come immersi nelle acque dell´ottimismo: avevamo l´Unione europea, avevamo la moneta unica come apogeo. Il disastro, ritenuto impossibile, non era calcolato.
Invece il disastro era non solo possibile ma dietro l´angolo, e per questo urge un risveglio analogo a quello postbellico degli europei e dei loro leader (Monnet, Adenauer, De Gasperi). Alcuni, come Paul Valéry, si svegliarono già prima, dopo il ´14-‘18: «Noialtri, civilizzazioni, sappiamo ora che siamo mortali. Il tempo del mondo finito comincia». Non dimentichiamo mai che da tale presa di coscienza nacquero due cose, non una: l´Europa, e il Welfare. La prima era un no ai nazionalismi, la seconda alle recessioni punitive che scaraventavano genti disperate nelle dittature. Oggi siamo a un bivio simile, e un primo parziale risveglio è iniziato al vertice dell‘8-9 dicembre a Bruxelles.
Il tempo del mondo finito comincia con la consapevolezza che la moneta è davvero in pericolo, se non s´accompagna a un´unione economica-politica che leghi più strettamente i paesi dell´Euro. Se i governi non osano, finalmente, dire la verità ai confusi, spaventati cittadini: le nostre sovranità nazionali sono troppo fatiscenti, per fronteggiare una mutazione mondiale che si manifesta con il caos dei mercati. Non possiamo più permetterci finti sovrani. Neanche possiamo permetterci di dire, come tanti cittadini mossi da giusta rabbia verso i sacrifici richiesti, che la colpa dei debiti eccessivi è imputabile all´1 per cento dei popoli. Da trent´anni l´elettore ha legittimato, votandoli, governi sperperatori, custodi di caste privilegiate.
Anche i politici tedeschi hanno mentito ai cittadini: un atavico impasto di ordine e paura ha abituato all´autodisciplina la nazione, ma anch´essa ha creduto nell´Euro inattaccabile. La Sueddeutsche Zeitung è severa con le sue élite: «Non si può salvare l´Euro tedesco, dando all´Euro europeo solo garanzie limitate». La cultura della stabilità è un bene (tutt´altro che imperiale) che Berlino ha disseminato in Europa; ma è mancata la coscienza che anche il suo piccolo mondo finiva, se cadeva l´Unione. Che anche la solidarietà sociale è un bene pubblico europeo, come la stabilità. Non si può fare l´Euro senza unione economico-politica, dicevano gli scettici tedeschi. Ora che l´unione si può fare s´imbronciano, e fanno come se l´Euro fosse un punto d´arrivo, non di partenza.
Il vertice di Bruxelles è stato giudicato negativamente da molti europeisti, ma potrebbe essere un ricominciamento. Non per la prima volta, i governi più consapevoli hanno deciso di isolare Londra, di tentare un´unione fiscale più compatta partendo da un gruppo ristretto di paesi: quelli dell´Euro, cui s´aggiungerà chi vorrà. La loro sovranità diminuisce, visto che compiti cruciali, di controllo preventivo e sanzione, sono delegati a organi sovranazionali come la Commissione, la Corte di giustizia, la Banca centrale che agirà come agente del Fondo salva-stati operativo nel luglio 2012, prima del previsto. Alcuni denunciano l´accordo intergovernativo: l´Europa comunitaria dei 27 sarebbe scavalcata, i conflitti col Trattato di Lisbona sicuri. Ma anche questo dobbiamo ricordare: l´Europa si è sempre perfezionata a scaglioni (Schengen, moneta unica). I cavilli giuridici si superano, se si vuole.
Un altro progresso è l´abbandono, sia pur stentato, del voto all´unanimità (il liberum veto che già una volta, nella Polonia del ´700, fece morire una nazione). Il Fondo salva-Stati abbandonerà, in emergenza, il diritto di veto. E certo ci sono parole aspre, come l´automatismo delle sanzioni. Ma l´automatismo è benefico, non fosse altro perché mette fine a quella che Monti chiamò, tempo fa, «l´eccessiva deferenza fra stati dell´Unione». In un regime di deferenza i controllori giudicano i controllati, omertosamente si proteggono l´un l´altro. Nel trattato dell´eurozona, solo una maggioranza qualificata di stati potrà opporsi a sanzioni automatiche.
Un´ondata di sdegno si è levata ultimamente contro Berlino: per l´arroganza di certe condotte (Volker Kauder, deputato democristiano e uomo di fiducia della Merkel, ha detto: «L´Europa ora parla tedesco!»). Lo sdegno è stato utile, e soprattutto è servita l´insurrezione socialdemocratica. L´europeismo sta rimettendo radici nella sinistra tedesca, e il Pd farà bene a sostenerla in ogni modo. Il risultato è stato che la Merkel ha dovuto scuotersi dal sonno dogmatico che prescriveva di metter prima «la casa in ordine» e poi fare l´Europa: nei giorni precedenti il summit, sembra aver capito che nessuno stato da solo può salvare l´Europa. Che dare autorità alla Commissione, alla Corte di giustizia, alla Bce è infinitamente più efficace del grido accentratore di un solo Stato. Non a caso la Bce ha annunciato, forte dell´unione fiscale voluta dall´eurozona, che da ora in poi sosterrà le banche per periodi prolungati (tre anni), accettando come garanzie i titoli di Stato di scarsa qualità. Di fatto la Bce già è prestatore di ultima istanza, senza dirlo, assicurando liquidità alle banche, e quindi respiro a Stati e cittadini.
Nel suo discorso al congresso socialdemocratico, il 4 dicembre, Helmut Schmidt ha puntato il dito su contraddizioni europee non più sopportabili: non solo fra sovranità statali e moneta unica, ma anche fra regole del Trattato. Quest´ultimo vieta, ad esempio, il salvataggio europeo degli Stati. Ma è in conflitto con il principio di sussidiarietà che Schmidt riassume così: «Quando uno Stato da solo non riesce a regolare i propri problemi, l´Unione deve farsene carico». La stessa costituzione tedesca è tra le più ardite su questo punto: nell´Articolo Europeo aggiunto dopo la moneta unica (nr 23), è scritto che la Germania, «per realizzare l´Europa unita, può delegarle sovranità».
Val dunque la pena essere prudenti, quando si accusa la Germania. Chi si è opposto alla diminuzione del diritto di veto e difende prerogative degli Stati non è Berlino, ma Parigi. È a Parigi che occorre una rivoluzione europea, più che in Germania. Molte rigidità tedesche sono state inasprite, lungo un ventennio, dall´Eliseo. E i socialisti non sono meglio di Sarkozy. Hollande, candidato all´Eliseo, fonda la propria campagna sul diniego d´ogni ingerenza europea. Quanto all´attuale Presidente, l´intervista che pubblichiamo su Repubblica è pura ipocrisia: l´unione fiscale va bene perché il potere «torna ormai agli Stati (...) non s´organizza più attorno alla Bce e alla Commissione». Bugie siffatte confondono i cittadini, e pure i mercati.
Il nuovo ordine europeo è duro per i popoli. Il mondo cambia; ricchezze e speranze traslocano da Ovest a Est. Di fronte non abbiamo 1-2 anni, ma molti anni di bassa crescita. Tanto più duro è l´ordine se non si salva l´idea del Welfare, oltre che l´Euro. Se i mali scatenatori della crisi (diseguaglianze, privilegi, corruzione, agenzie di rating asservite alle lobby) ci vengono ripresentati addirittura come farmaci. Se l´Europa non comincia a pensare una nuova crescita, ecologica, e a darsi i mezzi (non l´odierno avaro bilancio) per scommettere tutti insieme sullo sviluppo oltre che sulla stabilità. Lo chiedeva il socialista Papandreou: mai fu ascoltato.
Le elezioni del Parlamento europeo, nel 2014, saranno una prova decisiva. Se la Commissione avrà più peso, è essenziale che il suo Presidente sia eletto dai popoli. È indispensabile che anche i deputati dell´Unione si sveglino: reclamando tasse sulle transazioni finanziarie, e una severa sorveglianza di banche, borse. Martin Schulz, futuro Presidente, è stato chiamato da Schmidt a una «rivolta del Parlamento europeo». È essenziale che nasca una vera agorà europea, che vinca l´ignoranza dei più e le ipocrisie dei pochi.
Ma, quando tutto questo sarà finito, che cosa sarà della politica e delle sue istituzioni? Diremo che è stata una parentesi oppure una rivelazione? Parentesi che, come si è aperta, così si chiude ridando voce al discorso di prima; oppure rivelazione di qualcosa di nuovo, sorto dalle macerie del vecchio?
Queste domande devono apparire insensate a coloro che pensano o sostengono che nulla di rilevante sia accaduto e che tutto, in fondo, sarà come prima, così forse credendo di meglio contrastare la tesi estremistica di coloro che, per loro irresponsabili intenti, hanno gridato allo scandalo costituzionale, al colpo o colpetto di stato. In effetti, chi potrebbe dire che la Costituzione è stata violata?
La scelta del presidente del Consiglio è stata fatta dal presidente della Repubblica; il presidente del Consiglio ha proposto al presidente della Repubblica la lista dei ministri e questi li ha nominati; il governo si è presentato alle Camere e ha ottenuto la fiducia; leggi e decreti del governo dovranno passare all´approvazione del Parlamento. Non c´è che dire: tutto in regola. Dovrebbero essere soddisfatti perfino coloro i quali pensano che la legge elettorale abbia sterilizzando poteri e possibilità del presidente della Repubblica.
Come il potere di ricercare in Parlamento eventuali maggioranze diverse da quella venuta dalle elezioni. Per costoro, in caso di crisi, si dovrebbe necessariamente, sempre e comunque, ritornare a votare. Quella che si è formata per sostenere il nuovo governo, infatti, non è una maggioranza alternativa alla precedente; è – di fatto – la stessa, soltanto allargata a forze di opposizione chiamate a condividerne le responsabilità. Abbiamo girato pagina quanto alle persone al governo – il che non è poco – ma non abbiamo affatto rotto la continuità politica, come del resto il presidente del Consiglio, con atti e parole, continuamente, tiene a precisare. Onde potrebbe dirsi: prosecuzione della vecchia politica con altra competenza e rispettabilità. Nelle presenti condizioni politiche parlamentari, del resto, non potrebbe essere altrimenti.
Per quanto riguarda la legalità costituzionale di quanto accaduto, nulla dunque da eccepire. Semplicemente, il presidente della Repubblica ha fatto un uso delle sue prerogative che è valso a colmare il deficit d´iniziativa e di responsabilità di forze politiche palesemente paralizzate dalle loro contraddizioni, di fronte all´incombere di un rischio-fallimento, al tempo stesso, economico e finanziario, sociale e politico, unanimemente riconosciuto nella sua gravità e impellenza. Fine, su questo punto.
È invece sulla sostanza costituzionale, sotto il profilo della democrazia, che occorre aprire una discussione. È qui che ci si deve chiedere che cosa troveremo alla fine (perché, prima o poi, tutto è destinato a finire e qualcos´altro incomincia).
Di fronte alla pressione della questione finanziaria e alle misure necessarie per fronteggiarla, i partiti politici hanno semplicemente alzato bandiera bianca, riconoscendo la propria impotenza, e si sono messi da parte. Nessun partito, nessuno schieramento di partiti, nessun leader politico, è stato nelle condizioni di parlare ai cittadini così: questo è il programma, queste le misure e questi i costi da pagare per il risanamento o, addirittura, per la salvezza, e siamo disposti ad assumere le responsabilità conseguenti. Né la maggioranza precedente, che proprio di fronte alle difficoltà, si andava sfaldando; né l´opposizione, che era sfaldata da prima. Niente di niente e, in questo niente, il ricorso al salvagente offerto dal presidente della Repubblica con la sua iniziativa per un governo fuori dai partiti è evidentemente apparsa l´unica via d´uscita. Insomma, comunque la si rigiri, è evidente la bancarotta, anzi l´autodichiarazione di bancarotta.
Di fronte a grandi problemi, ci si aspetterebbe una grande "classe dirigente", che cogliesse l´occasione propizia per mostrarsi capace d´iniziativa politica. Sennò: dirigente di che cosa?
Si dirà: e il governo, pur piovuto dal cielo, è tuttavia sostenuto dai partiti; anzi, il sostegno non è mai stato, nella storia della Repubblica, così largo; i partiti, quale più quale meno, per senso di responsabilità o per impossibilità di fare diversamente, alla fin fine, si mostrano in questo modo all´altezza della situazione. Sì e no. Sì, perché voteranno; no, perché il voto non è un sostegno e un coinvolgimento nelle scelte del governo ma è, piuttosto, una reciproca sopportazione in stato di necessità. Il governo, timoroso d´essere intralciato dai partiti; i partiti, timorosi di compromettersi col governo. Il presidente del Consiglio ha onestamente riconosciuto che i partiti, meno si fanno sentire, meglio è: votino le proposte del governo e basta. I partiti, a loro volta, sono in un´evidente contraddizione: devono ma non possono. Avvertono di dover votare ma, al tempo stesso, avvertono anche che non possono farlo impunemente. Gli stessi emendamenti di cui si discute in questi giorni sembrano più che altro dei conati: per usare il linguaggio corrente, non un "metterci la faccia", ma un cercare di "salvarsi la faccia".
In questa delicata situazione, i partiti devono esserci ma vorrebbero non esserci. Per questo, meno si fanno vedere, meglio è. I contatti, quando ci sono, avvengono dalla porta di servizio. Alla fine, si arriverà, con il sollievo di tutti, a un paradossale voto di fiducia che, strozzando il dibattito parlamentare, imporrà l´approvazione a scatola chiusa e permetterà di dire al proprio elettorato: non avrei voluto, ma sono stato costretto.
Ma c´è dell´altro. In un momento drammatico come questo, con il malessere sociale che cresce e dilaga, con la società che si divide tra chi può sempre di più, chi può ancora e chi non può più, con il bisogno di protezione dei deboli esposti a quella che avvertono come grande ingiustizia: proprio in questo momento i partiti sono come evaporati. Corrono il rischio che si finisca, per la loro stessa ammissione, per considerarli cose superflue, d´altri tempi. In qualunque democrazia, i partiti hanno il compito di raccogliere le istanze sociali e trasformarle in proposte politiche, per "concorrere con metodo democratico alla politica nazionale", come dice l´articolo 49 della Costituzione: sono dunque dei trasformatori di bisogni in politiche. Una volta svolto questo compito di unificazione secondo disegni generali, ne hanno un secondo, altrettanto importante: di tenere insieme la società, per la parte che ciascuno rappresenta, nel sostegno alla realizzazione dell´indirizzo politico, se fanno parte della maggioranza, e nell´opporsi, se non ne fanno parte. Un duplice compito di strutturazione democratica, in assenza del quale si genera un vuoto, una pericolosa situazione di anomia, cioè di disordine politico, nel quale il governo si trova a dover fare i conti direttamente col disfacimento particolaristico, corporativo ed egoistico dei gruppi sociali, inevitabilmente privilegiando i più forti a danno dei più deboli. La dialettica tra governo e società non trova oggi in Italia la necessaria mediazione dei partiti. Di questa, invece, la democrazia, in qualsiasi sua forma, ha necessità vitale.
Gli storici avrebbero molto da dirci sulla miscela perversa di crisi sociale e alienazione politica, cioè sulla rottura del nesso che i partiti devono creare tra società e Stato. Non che la storia sia il prodotto di leggi ineluttabili, ma certo fornisce numerosi esempi, nemmeno tanto lontani nel tempo: nel nostro caso, esempi – che sono ammonimenti – del disastro che si produce quando le forze della rappresentanza politica e sociale si ritirano a favore di soluzioni tecnocratiche, apparentemente neutrali, né di destra né di sinistra, al di sopra delle parti. Può essere che in queste considerazioni ci sia una piega di pessimismo, ma vale l´ammonimento: non tutti gli ottimisti sono sciocchi, ma tutti gli sciocchi sono ottimisti.
E allora? Allora, il rischio è che, "quando tutto questo sarà finito" ci si ritrovi nel vuoto di rappresentanza. Una certa destra nel vuoto si muove molto bene, per mezzo di qualche facilissima trovata demagogica. Il vuoto, invece, a sinistra ha bisogno di ben altro, cioè di partecipazione e di fiducia da riallacciare tra cittadini, e tra cittadini e quelle istituzioni che esistono per organizzare politicamente i loro ideali e interessi. Questo – altro che sparire, arrendendosi alle difficoltà – è il compito che attende i partiti che stanno da quella parte, un compito che ha bisogno di idee e programmi, strutture politiche rinnovate e trasparenti, uomini e donne di cui ci si possa fidare. Non di salvatori che "scendono in campo", ma di seri lavoratori della politica, degni del rispetto dei cittadini di cui si propongono come rappresentanti.
“Penso che il Ponte sullo Stretto di Messina possa essere un ulteriore incubatore di sviluppo e di crescita per un’area di importanza strategica per tutto il paese”. A pronunciare queste parole, il 20 ottobre 2009, era Mario Ciaccia, amministratore delegato e direttore generale di BIIS - Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo (gruppo Intesa Sanpaolo), neo-vicesuperministro dell’Economia, delle infrastrutture e dei trasporti, accanto al collega Corrado Passera, “ex” consigliere delegato di Intesa Sanpaolo.
L’occasione era di quelle che contano, un convegno promosso a Roma dalla banca di appartenenza su “Federalismo, infrastrutture e turismo per il rilancio del sistema Italia”, relatori - tra gli altri - il presidente del Senato, Renato Schifani, l’allora ministra Michela Brambilla e il presidente della Cassa depositi e prestiti, Franco Bassanini. Felici tutti di poter annunciare la costituzione del fondo d’investimento Marguerite, destinato alle “infrastrutture strategiche europee”, come l’immancabile Ponte che proprio l’Europa sembra non aver mai voluto digerire.
Amore di lunga data quello per il padre di tutte le grandi opere nazionali. Da anni ormai, il viceministro-Ad (Grande ufficiale dell’Ordine al merito della repubblica italiana, presidente di sezione onorario della Corte dei Conti, nonché membro dei comitati direttivi dell’Istituto Affari Internazionali, dell’Associazione Civita e degli Amici dell’Accademia dei Lincei) celebra in ogni sede la sostenibilità del progetto di collegamento stabile nel mitico scenario di Scilla e Cariddi. Da presidente di ARCUS (la società a capitale pubblico che avrebbe dovuto investire il 3% delle risorse della famigerata legge Obiettivo in iniziative culturali e artistiche nei territori investiti dai lavori per le megainfrastrutture), Mario Ciaccia aveva programmato con l’Associazione Civita lo studio di “possibili connessioni e collegamenti per far divenire il Ponte di Messina un’opportunità di sviluppo per il turismo e per i beni culturali della Sicilia e della Calabria”. Furono i ministri Pietro Lunardi (Infrastrutture e trasporti) e Giuliano Urbani (Beni culturali) a presentare pubblicamente, il 4 novembre 2004, gli interventi da finanziare con ARCUS tra Messina e Villa San Giovanni. Un’inesauribile lista dei sogni fatta di musei, parchi archeologici e “percorsi culturali e paesaggistici”, affiancati a centri di accoglienza turisti, parchi commerciali e alberghi, ristoranti e negozi, alcuni dei quali “issati sulle due torri alte 382 metri ai lati della campata” del Ponte. Anfitrione dell’inedito evento pro cultura e pro cemento il presidente Ciaccia. “Il Ponte sullo Stretto costituirà occasione preziosa per un progetto-pilota di bacino culturale che nel tempo avrà effetti durevoli sul contesto sociale, economico e culturale del territorio, una nuova realtà per catturare quel turismo culturale che gli esperti segnalano in grande sviluppo”, proclamò Ciaccia. Poi un avvertimento: “Il Ponte è una grande opera che però comporterà lo sconvolgimento del territorio e bisognerà attutirne l’impatto. Ma con i lavori potranno venire alla luce nuove realtà e sarà un’occasione irripetibile per fare riscoprire quel territorio. Con la possibilità di mettere a sistema una serie di beni culturali tra Calabria e Sicilia…”.
Chiamato da Corrado Passera a dirigere la banca del gruppo Intesa che punta a “favorire il credito destinato alle infrastrutture e alle grandi opere” e a “partecipare a progetti urbanistici di sviluppo e di riqualificazione”, Mario Ciaccia ha promosso l’immagine di BIIS quale insostituibile polmone finanziario dei Signori del Ponte. Divenuta capofila del pool di banche che ha rilasciato la garanzia fideiussoria per la partecipazione alla gara ad Eurolink, il consorzio d’imprese aggiudicatario dell’appalto del Ponte (linee di credito per 350 milioni di euro), il 21 luglio 2009, Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo faceva sapere per bocca del suo amministratore delegato di essere pronta a intervenire direttamente nel finanziamento dei lavori. “Sono stati stanziati 1,3 miliardi e noi siamo pronti a mettere quello che serve e poi eventualmente a sindacarlo”, dichiarava Ciaccia.
“I soldi ci sono e da molto tempo. Il mondo bancario ha bisogno solo di certezze operative che solo la politica può dare”, spiegava Ciaccia, meno di un anno dopo, al convegno pro-Ponte organizzato dall’Ordine degli Ingegneri della provincia di Catania (co-relatori i rettori delle università di Enna, Salvo Andò, e Reggio Calabria, Massimo Giovannini; il direttore generale della Società Stretto di Messina, Giuseppe Fiammenghi; il presidente di Eurolink, Mario Lampiano). Poi in un’intervista a Specchio Economico, l’amministratore di BIIS interveniva a difesa delle grande opera messa in discussione da economisti, politici e organizzazioni sociali: “Al di là delle valutazioni di parte, al Ponte sullo Stretto partecipano grandi costruttori italiani e noi abbiamo il dovere di essere presenti perché le nostre imprese non si sentano sole. Se poi il nuovo Governo bloccasse l’opera, probabilmente vi sarebbero penali da pagare a chi si è aggiudicato l’appalto. Per ora abbiamo rilasciato fidejussioni e linee di credito che, ovviamente, hanno un costo. Come ha un costo il fatto che un’impresa si sia dedicata anche finanziariamente e tecnicamente a un’opera invece che a un’altra”.
Ponte sì dunque e ad ogni costo, ma non solo Ponte. Sotto la direzione del neo-viceministro dell’Economia, delle infrastrutture e dei trasporti, la banca ha finanziato grandi progetti in Italia ed all’estero dal valore complessivo di oltre 30 miliardi di euro. “Abbiamo erogato finanziamenti all’Anas per la realizzazione della terza corsia del Grande Raccordo Anulare di Roma, per un importo di 390 milioni di euro; e del secondo lotto della Salerno-Reggio Calabria, per oltre 430 milioni di euro”, ha aggiunto Ciaccia su Specchio Economico. “Siamo presenti nel Passante di Mestre con un investimento di 800 milioni di euro e abbiamo favorito la realizzazione di parcheggi in varie città per un importo di 130 milioni. Abbiamo attuato il collocamento e la sottoscrizione di parte dell’emissione obbligazionaria della ex società Infrastrutture Spa per la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Milano-Napoli, per un importo di 320 milioni di euro. Siamo i consulenti per la realizzazione e gestione delle autostrade Brescia-Bergamo-Milano e delle Tangenziali esterne di Milano, rispettivamente per 1,6 e 1,4 miliardi di euro”. Mario Ciaccia non lo dice, ma Intesa Sanpaolo è azionista per il 39% di Autostrade lombarde, soggetto promotore della BreBeMi; inoltre controlla il 5% del capitale di Tem, a cui si aggiunge uno 0,25% di azioni in mano direttamente a BIIS. Inutile tentare di comprendere dove passi la demarcazione tra controllori e controllati specie adesso che in Italia governano i conflitti d’interesse.
Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo è inoltre advisor dell’autostrada regionale Cremona-Mantova (project financing da 430 milioni) e della Pedemontana Veneta, l’autostrada che collegherà le province di Bergamo, Monza, Milano, Como e Varese. BIIS controlla il 6,03% della società di gestione della Pedemontana e contestualmente si occupa dell’arranging del debito, stimato in circa 3 miliardi di euro su un costo complessivo dell’opera di 4,7 miliardi. Nell’agosto 2010, la banca di Ciaccia ha poi concesso un credito di 15,7 milioni ad Invester, la finanziaria dell’imprenditore lombardo Rino Gambari, primo socio privato della Brescia-Padova, ricevendo in pegno le quote di proprietà della società autostradale. Della “Serenissima”, Intesa Sanpaolo detiene già il 6% del capitale attraverso la controllata Equiter.
BIIS è attiva nel settore ferroviario attraverso il controllo diretto di Cofergemi, la società che si occupa della linea ad alta velocità Genova-Milano. Inoltre controlla il 12% di Portocittà, la Spa che intende ristrutturare il porto di Trieste. In Liguria ha intrapreso una partnership con Regione e amministrazione comunale di Genova per lo sviluppo di grandi progetti come il Terzo Valico, la Gronda di Ponente ed il rafforzamento delle infrastrutture portuali locali (oltre 7 miliardi di investimenti). BIIS ha pure sottoscritto crediti per un miliardo di euro a favore delle imprese impegnate nei lavori della nuova Fiera di Milano ed è arranger di alcuni dei più discutibili programmi destinati alla Sicilia, come il “miglioramento dell’adozione idrica” di Siciliacque Spa (investimenti per 564 milioni) e la realizzazione dei termovalorizzatori da parte di un pool d’imprese a guida Falck (1,2 miliardi) e Sicil Power (450 milioni).
Altro importante settore d’intervento della banca di Ciaccia è la cosiddetta “cartolarizzazione dei crediti sanitari”, attraverso l’emissione di obbligazioni costruite sui crediti vantati da aziende del settore nei confronti delle Regioni (in prima fila Abruzzo, Molise, Lazio, Campania e Sicilia). “Sempre nel campo delle cartolarizzazioni, la BIIS ha lanciato il 23 dicembre 2009 una maxi da 1,33 miliardi legata ad un portafoglio costituito da titoli obbligazionari emessi da enti locali italiani, mentre il 24 luglio 2009 ha realizzato l’attesa emissione da 3 miliardi di euro di obbligazioni bancarie garantite da crediti al settore pubblico”, ricorda Gino Sturniolo della Rete No Ponte, autore di un saggio sulle speculazioni del capitale finanziario nostrano. “A ben vedere – aggiunge Sturniolo - si tratta di operazioni che approfittano della carenza di liquidità dell’ente pubblico per sostituirsi ad esso ipotecando il futuro. Cosa accadrà quando i pedaggi autostradali non saranno sufficienti a coprire l’investimento iniziale, i comuni non saranno in grado di far fronte ai debiti, le Regioni a pagare le spese sanitarie?”.
Mario Ciaccia non nutre comunque alcun dubbio sul potere taumaturgico del dirottamento di massicce risorse pubbliche, specie se a favore delle grandi opere consacrate dalla legge Obiettivo. Il 3 febbraio 2010, intervenendo al convegno dell’Istituto latino-americano su “La cooperazione economica pubblico-privato”, l’odierno viceministro l’ha sparata più grossa del Berlusca: “Investendo 50 miliardi di euro l’anno così da coprire un fabbisogno infrastrutturale di 250 miliardi, il minimo per far fronte alla crisi economica ed energetica e riprendere lo sviluppo, si potrebbero ipotizzare nell’arco di un quinquennio circa 3,5 milioni di nuovi posti di lavoro”. Tre volte e mezzo in più degli occupati promessi dal leader massimo del Pdl, ma con dosi massicce di denaro pubblico che richiederebbero in un lustro chissà quante manovre finanziarie lacrime e sangue. La prima dell’era Monti-Passera-Ciaccia è già arrivata. Per le altre si dovrà attendere che passino le feste di Natale.
Nei primi anni Novanta emersero le difficoltà che misero fine al "patto di finzione" su cui era prosperata l´era craxiana e fecero arrivare il paese in gravi condizioni alla sfida europea
"Oro per la patria" chiese il fascismo agli italiani per sostenere la guerra di aggressione all´Etiopia, e nella "giornata della fede" le donne furono chiamate a donare l´anello nuziale. Cominciò così il percorso che ci avrebbe portati alla tragedia della seconda guerra mondiale, e la Liberazione vide un Paese piegato e piagato. Un Paese che seppe però trovare la forza per risollevarsi e dare avvio ad una Ricostruzione materiale ed etica. In un quadro di drammatica miseria e di inflazione senza freni la moderazione responsabilmente scelta dal sindacato portò a sacrifici pesanti per i lavoratori ma fu decisiva. Ad essa non corrisposero però altre misure: ad esempio una imposta patrimoniale straordinaria e progressiva, e un cambio della moneta volto a colpire gli arricchimenti occulti. Le avevano proposte con forza le sinistre, che parteciparono al governo sino al 1947, ma vi si opposero la destra conservatrice e i grandi poteri economici e finanziari. E le sinistre furono poi estromesse dal governo nel clima della "guerra fredda".
Per risollevarci furono certo decisivi gli aiuti americani e il Piano Marshall ma quel clima pesò negativamente. Alimentò un´offensiva anticomunista e antisindacale che aprì la via a licenziamenti massicci, ad uno sfruttamento intenso nelle fabbriche e al mantenimento di salari bassissimi: profonde iniquità sociali segnarono così il nostro sviluppo e contribuirono alla sua interna debolezza. Ebbero radici qui le tensioni che emersero negli anni del "miracolo", ulteriormente alimentate poi da una dura controffensiva padronale. E destinate inevitabilmente ad esplodere: vennero così l´"autunno caldo" del 1969 e una "conflittualità permanente" che rese più acuta da noi la crisi degli anni settanta. Una crisi aggravata dallo shock petrolifero del 1973, che accentuò la nostra fragilità e mandò in frantumi la più generale illusione di uno "sviluppo senza limiti".
Negli anni Ottanta rimuovemmo quei nodi e dimenticammo colpevolmente che stavano crescendo ormai "i figli del trilione", come fu detto: si stava avvicinando infatti a cifre stratosferiche il debito pubblico che gli adulti stavano scaricando sulle loro spalle. E che salì dal 60% del Pil nel 1981 al 120% e oltre dei primi anni Novanta. La crisi internazionale mise allora impietosamente a nudo le nostre responsabilità, ruppe il "patto di finzione" su cui era apparentemente prosperata l´Italia craxiana e ci fece giungere in pessime condizioni alla sfida europea. Una sfida che apparve allora quasi impossibile ma che venne affrontata positivamente grazie al duro sforzo di risanamento iniziato dai governi guidati fra il 1992 e il 1994 da Amato prima e da Ciampi poi. Furono aiutati da sofferte scelte sindacali sul costo del lavoro (e dal coraggio di leader come Bruno Trentin), e furono meno condizionati che in passato dai partiti, travolti dalla bufera di Tangentopoli. Un paradosso, a ben vedere, che avrebbe dovuto imporre una riflessione profonda e una rigenerazione radicale della classe dirigente: così non fu, e ad una parte del Paese il "nuovo" parve identificarsi allora con le illusioni del populismo antipolitico e mediatico.
Il severo risanamento fu proseguito invece dal primo governo Prodi, che ci assicurò l´ingresso in Europa. Forse in qualcosa fu troppo debole: ad esempio nel farci comprendere il significato profondo del progetto che giustificava i sacrifici. Nell´aiutarci a dare corpo e soprattutto anima ad un futuro europeo da costruire. Oggi abbiamo di fronte lo stesso nodo, ulteriormente aggravato.
La crisi e la manovra del governo impongono scelte radicali. Ma le élites, per essere credibili, non possono aumentare le disuguaglianze - Le situazioni di pericolo eccezionale dovrebbero produrre leadership che sanno condurre la lotta all´esterno e imporre la pace all´interno - Chi è veramente il nemico? Il nostro debito o chi ci specula sopra? La Bce o la politica che ha sempre rinviato la soluzione dei problemi?
Il 13 maggio 1940, alla Camera dei Comuni, il nuovo premier e ministro della Difesa, Winston Churchill, presentando il suo governo e accingendosi a «guidare gli affari di Sua Maestà Britannica» nel momento più duro della storia inglese, disse: «non ho da offrirvi che sangue, sudore, fatica e lacrime. La nostra politica è fare la guerra: nostra mèta, la vittoria». La Camera gli diede unanimemente la fiducia, e anche tutta «la nazione fu unita e piena d´entusiasmo come non mai».
Dopo la battaglia di Canne (216 a. C.) anche un altro impero, quello romano, era stato in pericolo mortale; perduti almeno sessantamila soldati, un console morto in battaglia, il nemico più formidabile di Roma, Annibale, libero di agire nel cuore dell´Italia meridionale. Tuttavia, la città non si perse d´animo. Effettuò gli ultimi sacrifici umani della sua storia per placare gli dei, e il popolo si affidò alla dittatura informale del ceto senatorio. La Roma repubblicana non ebbe allora un leader capace di alta retorica come Churchill, ma un abile attico della guerra di logoramento, Quinto Fabio Massimo. Alla fine, però, Cartagine fu vinta, come Berlino.
Lacrime e sangue, dunque – il dolore per la sconfitta, che però non annienta; la ferita aperta, che però non abbatte –, dicono di un caso d´emergenza, di una necessità che rafforza l´animo di chi la deve fronteggiare. E dicono anche che questa condizione eccezionale di pericolo produce l´emergere di una leadership, individuale o collettiva, per condurre la lotta all´esterno, e per imporre, al tempo stesso, la pace sociale e politica all´interno. Come dopo Canne s´interruppe il confronto fra patrizi e plebei, così nell´imminenza della battaglia di Francia Churchill formò un governo di unità nazionale e non accontentò coloro che chiedevano la testa dei politici conservatori che avevano voluto Monaco, nel settembre del 1938: «se il presente cercasse di erigersi a giudice del passato, perderebbe il futuro», rispose il premier.
Non sempre è andata così: la Francia rivoluzionaria, minacciata nel 1792 dal prussiano Brunswick, risponde con la guerra – la battaglia di Valmy –, ma al tempo stesso con le stragi di settembre, cioè con l´uccisione di qualche migliaio di aristocratici prigionieri. In questo caso, la logica amico-nemico che scatta nelle emergenze – serrare i ranghi per resistere all´ora difficile, e per passare al contrattacco – si manifesta anche all´interno, e non solo verso l´esterno. Una rivoluzione, infatti, contro il nemico che sta davanti alle porte trae forza dalla guerra civile contro il nemico che sta dentro le mura; i sacrifici umani con cui Roma aveva cercato di propiziarsi gli dei diventano atti sacrificali della nuova religione rivoluzionaria. Il sangue e le lacrime non sono solo quelle dei cittadini; anche i nemici del popolo piangono e muoiono, mentre l´esercito sanculotto – formato dalla leva in massa – corre alle frontiere.
Ma quando non si va alla ricerca di un capro espiatorio, "lacrime e sangue" indica una situazione di necessità davanti alla quale tutti sono uniti e tutti sono uguali; senza che le differenze sociali e politiche vengano cancellate, sono tuttavia momentaneamente neutralizzate da una mobilitazione corale dei cittadini, chiamati alle armi per salvare la patria. Se è vero che le categorie di giusto e ingiusto spariscono davanti allo stato d´eccezione, in cui vale solo la logica dell´efficacia e dell´inefficacia, è anche vero che senza l´attenuazione dei privilegi, senza la consapevolezza che tutti sopportano gli stessi rischi e sacrifici, anche la risposta all´emergenza viene indebolita. Nei momenti di crisi, l´equità – il far sì che i piatti della bilancia siano pari, livellati, senza che uno penda a terra, gravato da oneri vessatori e l´altro salga al cielo, libero e leggero da ogni gravame – è una delle condizioni dell´efficacia. Si possono richiamare tutti al coraggio e al sacrificio solo se nessuno fa affari con l´emergenza.
Tutto ciò vale anche ai tempi nostri, anche se la guerra è solo economica e se non è neppure ben chiaro chi sia il nemico: esterno o interno? il nostro debito o chi ci specula sopra? Le logiche severissime su cui si fonda l´euro o quelle speculative dei mercati? La Bce con le sue lettere o la Germania con la sua riluttanza a una politica economica europea centralizzata? La crisi finanziaria nata a Wall Street nel 2008 o, in ultima analisi, noi stessi e la politica, da noi voluta, che ha sempre rinviato la soluzione dei problemi?
E vale ancor più nel momento in cui a gestire la cosa pubblica sono chiamati gli esponenti delle ultime élites che il Paese ha a disposizione, le ultime riserve della Repubblica: professori universitari e manager cattolici. Che devono trovare la forza di dare segnali chiari e forti di equità e di lotta ai privilegi; sia perché solo così la manovra può essere condivisa, e quindi sostenibile, sia perché la qualità e la legittimità delle élites – di quelle politiche e di quelle sociali – si rivela proprio quando a esse un Paese si affida, aspettandosi che diano l´esempio. Dopo tutto, non si chiedono sacrifici umani, né guerre civili ideologiche; ma ragionevole uguaglianza nel portare il peso dell´emergenza. Forse le rispettabili lacrime di un ministro equivalgono simbolicamente al gesto d´espiazione delle matrone romane che, dopo Canne, spazzavano i pavimenti dei templi con le loro lunghe chiome sciolte. Ma oggi alle élites si chiedono altri segni, più tangibili, di partecipazione alle lacrime e al sangue di tutti.
Un'intervista con Andrew Ross. Dopo il lungo inverno neoliberale, Occupy Wall Street è solo uno degli episodi di una realtà, quella statunitense, dove la crisi evidenzia l'eclissi del sogno di riscatto incarnato da Barack Obama e le possibilità di una critica al capitalismo contemporaneo
Can't Pay, Won't Pay, Don't Pay. Già in questo slogan - lanciato dalla campagna «Occupy Student Debt» - c'è la potenza di Occupy Wall Street: individua le radici materiali, lo situa dentro la crisi globale, traccia la composizione, fatta di studenti, precari e lavoratori impoveriti che non ne vogliono pagare i costi, indica obiettivi e forme di lotta. È un grido di battaglia contro la finanziarizzazione della vita lanciato da quello che, almeno simbolicamente, è il ventre della bestia. L'equazione politica - la lotta sul salario sta al capitalismo industriale come la lotta sul debito sta al capitalismo cognitivo - che fino a poco tempo fa appariva come un azzardo teorico di una minoranza radicale si sta semplicemente imponendo con la forza di un pregiudizio popolare. Soprattutto, è incarnata in diffuse pratiche di resistenza che della crisi costituiscono la radice soggettiva. Allora, se in soli pochi mesi tanto si è detto e scritto su Occupy Wall Street, è anche per queste ragioni, oltre che per la sua nota lucidità interpretativa ed efficacia di analisi, che rivestono una particolare importanza le valutazioni di Andrew Ross.
Docente della New York University, noto per il suo impegno militante, autore di numerosi saggi che spaziano dai cosiddetti cultural studies- No Respect: Intellectuals and Popular Culture; Strange Weather: Culture, Science, and Technology in the Age of Limits; The Chicago Gangster Theory of Life: Nature's Debt to Society - alle trasformazioni del lavoro nel capitalismo contemporaneo - No-Collar: The Humane Workplace and Its Hidden Costs; Fast Boat to China: Corporate Flight and the Consequences of Free Trade; Nice Work if You Can Get it: Life and Labor in Precarious Times - Ross è infatti tra i promotori della campagna «Occupy Student Debt».
Come è nata Occupy Wall Street, o per meglio dire quali ne sono state le condizioni di possibilità e come sta cambiando il contesto americano?
«Gli eventi politici spontanei sono sempre “possibili”, non è facile prevedere quando e dove avranno presa. Penso che se Occupy fosse stato un anno o sei mesi prima, non sarebbe decollato nello stesso modo. Un fattore da considerare è la tardività degli Stati Uniti: quando, ci siamo chiesti tutti, le mobilitazioni globali si sarebbero diffuse nelle città americane? Un altro fattore è che, con l'occupazione di Wall Street, il disgusto popolare per il processo politico negli Stati Uniti ha raggiunto una massa critica. Ricordo che solo qualche settimana prima che l'occupazione cominciasse, Doug Henwood e Liza Featherstone hanno fatto circolare un invito tra le persone di sinistra di New York per contribuire a un convegno dal titolo «Why Fucking Bother?» («chi cazzo se ne frega?»). Si proponeva di incanalare o mitigare un condiviso senso di disperazione sulla possibilità che qui accadesse qualcosa. Nondimeno, c'è stato un cambiamento a 180 gradi del morale negli ultimi mesi. Io vivo negli Stati Uniti da trent'anni e non ho mai visto qualcosa comparabile alla forza o al senso del destino di cui questo movimento è portatore. Quei trent'anni sono appartenuti a Wall Street, i prossimi trenta possono e devono appartenere a noi se Occupy mantiene la sua energia e creatività. Il mio coinvolgimento nel movimento non è atipico. È cominciato come residente (vivo non distante da Zuccotti Park), poi c'è stata una rapida transizione all'esserne partecipante, nelle prime manifestazioni di massa e nei gruppi di lavoro su «Empowerment and Education», e infine a diventare organizzatore nella nostra campagna «Occupy Student Debt». Come molti altri che conosco, è stato estremamente facile essere attratti nel movimento, che è come ci si dovrebbe sentire in un movimento.»
Occupy Wall Street è stato spesso presentato come evento imprevedibile. Tuttavia, ci sono molte lotte che hanno preceduto e preparato il terreno di questo movimento: per citare solo un paio di esempi, a New York ci sono stati negli ultimi anni gli importanti scioperi dei graduate students e dei lavoratori dei trasporti. Pensi che ci sia un processo di sedimentazione di soggettività e pratiche politiche nella genealogia di questo movimento, oppure prevalgono gli elementi di cesura e completa novità?
«Ci sono molti affluenti che sono sgorgati nel fiume di Occupy. Il movimento per la giustizia globale è il più importante. Sul lato del lavoro, penso che la capacità dei sindacati metropolitani di abbracciare il movimento del lavoro universitario costituisca uno sfondo importante. Per quanto riguarda gli elementi nuovi, certamente la crescente consapevolezza rispetto al sistema del debito è un fattore centrale. Resistere alla servitù del debito ha costituito una forma di vita nei paesi del Sud globale negli ultimi trent'anni. Ora le conseguenze del vivere nella trappola del debito hanno colpito i paesi del Nord».
Qual è la composizione del movimento, e quali sono le sue forme di organizzazione e comunicazione?
«All'inizio la composizione degli occupanti era piuttosto circoscritta: la maggior parte istruiti, bianchi, giovani, molti di loro si sono fatti le ossa nel movimento per la giustizia globale, per altri questa è la prima esperienza politica. Ora, tuttavia, la composizione è molto differente: i sindacati del settore pubblico sono sempre più coinvolti, c'è un insieme pienamente intergenerazionale di soggetti, il gruppo di lavoro su «People of Color» è una presenza importante. Il processo di consenso dell'assemblea generale è il dna organizzativo del movimento, e sta cominciando a penetrare in parti della società civile tradizionale. Per esempio, alcune delle scuole superiori della città hanno rimpiazzato le loro forme di rappresentanza studentesca con le modalità orizzontali dell'assemblea generale. Si è dimostrata essere un modello virale di norme culturali. Poiché ogni gruppo può creare la propria assemblea generale (ce ne sono molte in giro per New York), è una struttura organizzativa che incoraggia e genera autonomia. Così, la natura «faccia a faccia» di questa forma decisionale completa il diffuso utilizzo dei social media volto a disseminare l'informazione. In realtà, direi che il bilanciamento tra gli incontri fisici e l'uso dei social media è un elemento chiave».
Puoi spiegare come è nata la campagna «Occupy Student Debt»?
«Fin dall'inizio il tormento del debito studentesco è stata una costante di Occupy Wall Street e delle occupazioni di altre città. George Caffentzis, Silvia Federici e io abbiamo fatto degli incontri sul debito durante l'occupazione di Zuccotti Park. Abbiamo invitato i partecipanti a formare un gruppo per costruire un'iniziativa di azione che legasse la questione del debito studentesco al sistema dell'istruzione superiore nel suo complesso. L'assunto centrale è che i college e le università americane dipendono in misura crescente dalla schiavitù del debito a cui sono costrette le persone che invece dovrebbero servire. Così abbiamo creato una campagna che richiama i nostri principi politici (l'atto di rifiuto, la minaccia di uno sciopero del debito, la rivendicazione di un giubileo del debito). È progettata per dare ai debitori la possibilità di agire collettivamente piuttosto che soffrire il tormento e l'umiliazione del debito e del default privato. Fondamentalmente la campagna chiede a coloro ai rifiutanti di bloccare il pagamento del prestito quando si sarà raggiunta la quota di un milione di sottoscrizioni, ed è legato a quattro principi: tutte le università private devono essere gratuite, i prestiti studenteschi devono essere sganciati dalle tasse che vanno abolite, le università private devono aprire i loro libri contabili, il debito esistente deve essere cancellato. Si può vedere il sito: www.occupystudentdebtcampaign.org»
La lotta contro il debito è presentata come una pratica di riappropriazione della ricchezza sociale. Da questo punto di vista, potremmo dire che è un movimento costituente. Cosa ne pensi?
«Concordo. La nostra campagna è un'iniziativa di azione e non una lista di domande, poiché condividiamo l'ethos di Occupy Wall Street per cui le domande non possono essere rappresentate dal sistema politico attuale, sotto la funesta influenza dei dollari delle aziende. Le azioni che puntano a riappropriarsi della ricchezza e del potere non sono solo in sé potenzianti, ma anche - come dite - costituenti di un nuovo modello di cultura politica. La maggior parte dei partecipanti si stanno rendendo conto di una trasformazione soggettiva: il linguaggio è spesso di innocenza radicale, un sintomo manifesto del sorgere di una nuova «struttura del sentire», per dirla con le parole del teorico inglese Raymond Williams. Certamente la classe politica tenterà di cooptarne alcuni, e non la vedo come una risposta inattesa: non si può erigere un confine non poroso tra un movimento e l'establishment».
Quali sono i rapporti tra le union sindacali e il movimento?
»I sindacati degli impiegati pubblici non ha solo sostenuto, ma ha anche pienamente partecipato al movimento. La solidarietà mostrata per gli occupanti di Zuccotti Park da parte dei lavoratori del vicino cantiere del World Trade Center è stato particolarmente importante. I dirigenti sindacali e ancor di più i militanti della base hanno espresso in modo molto esplicito il loro rispetto per i successi di Occupy Wall Street nell'accumulare attenzione e generare impatto politico. Si è così creato un gruppo sul lavoro proprio attorno alle questioni del lavoro».
E quali sono i rapporti tra Occupy Wall Street e l'università come luogo di produzione e di conflitto?
«La fase di «Occupy Colleges» del movimento è appena iniziata, ma è il suo naturale prossimo passo. Gli sgomberi di Zuccotti Park coincidono con questi movimenti dentro le università, a New York, in California e altrove. A New York c'è ogni settimana un'assemblea generale degli studenti dell'intera metropoli, continui appuntamenti della People's University alla NYU e alla New School, una serie di iniziative e manifestazione studentesche di massa, incluso anche un giorno di sciopero. Recentemente molta attenzione si è concentrata sulle lotte contro l'aumento delle tasse alla City University of New York (Cuny). Un tempo gratuita (è stata una delle università della classe operaia più grandi del mondo), le tasse sono state per la prima volta imposte agli studenti del Cuny all'alba della crisi fiscale del 1976. Ciò è generalmente visto come il primo colpo che in questo paese il neoliberalismo ha inferto alla formazione pubblica. È un motivo in più per guardare al Cuny, in questo momento altamente simbolico, come spazio per rovesciare la situazione.
«Ora il movimento Occupy Colleges sta costruendo una rete nazionale. Alcuni presidenti di università, in particolare alla New School, si sono mostrati disponibili, altri sono stati gravemente danneggiati dal loro ricorso alla repressione poliziesca contro la libertà di parola. Come per Occupy in generale, ogni volta che la polizia agita i manganelli o sgombera violentemente manifestanti pacifici, ciò rovina il supporto pubblico per le autorità e fa crescere la simpatia per il movimento. Forse è questa, più di ogni altra cosa, la prova dell'impatto di successo del movimento».
Quattro o cinque caffè a testa per mantenere il grande "tesoro" dei nostri 24 Parchi nazionali e (in totale) delle nostre 871 Aree protette. Attraverso il ministero dell’Ambiente, lo Stato italiano spende la miseria di circa 70 milioni di euro all’anno, per finanziare questo straordinario deposito di biodiversità: cioè di boschi, fauna e paesaggio. A cui si aggiungono altri 180 milioni delle Regioni per i parchi e le aree regionali. Un giacimento naturale che, in termini di benefici economici e sociali, arriva a rendere fino a 6-7 volte un investimento così modesto.
A vent’anni dall’approvazione della legge-quadro sui Parchi, la n. 394 del 6 dicembre 1991, l’occasione è stata propizia per fare un consuntivo e un bilancio di previsione per il futuro prossimo venturo. In un convegno organizzato a Roma dalla Federparchi, si sono confrontati parlamentari, ambientalisti, dirigenti locali. E se il giudizio sulla "394" è risultato generalmente positivo, come hanno riconosciuto gli ex ministri dell’Ambiente Edo Ronchi e Valdo Spini, non sono mancati però motivi di riflessione e di ripensamento per adeguare la legge alle nuove esigenze imposte dalla crisi economica e da quella climatica.
In bilico tra conservazione e sviluppo, il complesso dei Parchi e delle Aree protette copre il 10% del territorio nazionale: complessivamente una superficie di oltre tre milioni di ettari a terra e di 2,8 milioni a mare, comprendendo 658 chilometri di costa protetta. A dispetto dello "spread" che incombe sui nostri titoli pubblici, questo sistema è riconosciuto come uno dei più organizzati e strutturati d’Europa. Assicura l’occupazione diretta a poco più di diecimila dipendenti e alimenta altri novantamila posti nell’indotto (turismo, agricoltura e commercio), attirando circa 37 milioni di visitatori ogni anno con un numero di presenze alberghiere che sfiora i cento milioni e un giro d’affari complessivo che supera un miliardo di euro.
Dalle montagne al mare, dunque, un’imponente "infrastruttura naturale" che custodisce la biodiversità, salvaguarda l’assetto del territorio, preserva il paesaggio. Ma che oggi è chiamata anche a contrastare il cambiamento climatico e le sue disastrose conseguenze, come un polmone verde nel corpo vitale del Paese. E perciò, a vent’anni di distanza, si ritrova a fare i conti con le incognite e le incertezze di uno scenario in rapida evoluzione.
È confortante che dal dibattito sulla "394" sia emersa la conferma di una "trasversalità politica" - sottolineata dallo stesso presidente della Commissione Territorio e Ambiente del Senato, Antonio D’Alì (Pdl) - che ha preceduto la fase di tregua istituzionale introdotta dal governo Monti. C’è al fondo la consapevolezza comune che - come ha detto Giampiero Sammuri, presidente della Federparchi - "questo patrimonio naturale non è né di destra né di sinistra". Si può ben sperare, perciò, che il confronto parlamentare in corso possa migliorare ulteriormente la legge nella prospettiva di un "federalismo ambientale" che dev’essere necessariamente declinato regione per regione, in modo da promuovere il territorio nell’ottica di una strategia nazionale.
Sono soprattutto due le questioni all’ordine del giorno, richiamate da Francesco Ferrante, senatore del Pd: la "governance" e le risorse. Da una parte, si tratta di allargare sempre più il governo dei Parchi agli enti e alle associazioni locali, per coinvolgerli più direttamente nella gestione. Dall’altra, ferma restando la necessità del finanziamento statale per garantire la funzione istituzionale di questo sistema, si discute su nuove forme di contribuzione privata in rapporto alle opportunità di valorizzazione economica: dalla bioagricoltura alla "green economy".
Con un recente sondaggio Ispo alla mano, il presidente del Wwf Italia, Stefano Leoni, ha avvertito che il 60% degli intervistati attribuisce ai Parchi la funzione fondamentale di "conservazione della natura", contro un 20% che parla invece di "educazione ambientale" e un altro 20% che si disperde in risposte diverse. Ma prima il presidente della Lipu (Lega protezione degli uccelli), Fulvio Mamone Capria, ha respinto l’ipotesi dell’area protetta come "riserva indiana". Poi è stato Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, a ricordare realisticamente che - a differenza della scuola - "i Parchi producono anche beni e merci, contribuendo ad alimentare l’identità territoriale".
Non c’è dubbio, comunque, che - di fronte alla crisi globale e in funzione della crescita - anche il "tesoro verde" d’Italia può svolgere un ruolo di volano economico, senza venir meno alla sua missione a tutela della biodiversità. La conservazione ambientale non deve corrispondere, però, a un atteggiamento di conservazione culturale né tantomeno politica.
A Roma l'intellighenzia discute. Tronti: «Se non proviamo a fare qualcosa abbiamo già perso». Bertinotti: «Ormai capitalismo e democrazia sono incompatibili»
La reazione non è stata fulminea, ma ora le opposizioni da sinistra al governo Monti preparano le loro contromanovre. Dentro e fuori il parlamento, fin qui in ordine sparso. Ieri l'Idv alla Camera ha presentato la sua: Massimo Donadi, Augusto Di Stanislao e il senatore Pancho Pardi hanno annunciato il combattimento «fino all'ultimo emendamento perché la manovra cambi». Altrimenti il partito di Di Pietro voterà no. Lotta all'evasione, risparmiare 50 miliardi sulle spese per gli armamenti («a partire dai 18 miliardi che la Difesa ha messo in bilancio per 131 cacciabombardieri F35, che non servono a missioni di pace») e una gara per l'assegnazione delle frequenze tv «anziché darle a Rai e Mediaset gratuitamente». Gli stessi capitoli, più la patrimoniale e lo stop alla falcidia delle pensioni basse, sono alcune delle proposte che il Prc ha presentato al congresso di Napoli, lo scorso week end. Anche i verdi i preparano la mobilitazione contro le spese militari: «Pronti alla disobbedienza civile», dice Angelo Bonelli: «Perché l'Italia non fa come la Germania che ha tagliato la spesa militare di 10 miliardi?». Sulla gara per le frequenze si muove invece la sinistra Pd.
Oggi tocca a Sel. A Roma Nichi Vendola presenta la sua contromanovra: «O si dice patrimoniale e si interviene sui grandi patrimoni mobiliari e immobiliari, oppure è difficile credere che un pensionato a 900 euro al mese debba anche sobbarcarsi il costo della manovra. Per me è inaccettabile». La critica è a Monti, ma perché anche il Pd intenda. Ieri sono già volati stracci fra Bersani e Di Pietro. Il leader Idv ha alzato il tono contro chi voterà la manovra e quello del Pd lo ha invitato a non «scantonare» altrimenti «ci saranno problemi ad andare d'accordo». Tradotto: giù i decibel altrimenti saltano le future alleanze. Ma la rottura dei patti «prematrimoniali» del Nuovo Ulivo è ormai a un passo. E anche Massimiliano Smeriglio, responsabile economico di Sel, molto duro sulla manovra, dice: «Chi siede in parlamento trovi la determinazione per cambiare una manovra sbagliata, ingiusta e recessiva. Chi voterà la manovra Monti oggi difficilmente potrà costruire l'alternativa domani».
Parole impegnative, sintomo di un possibile rimescolamento di carte nella sinistra. Una sinistra che, nel frattempo, discute sulle proprie prospettive. E infatti ieri a Roma si è ritrovata in un dibattito sull'Europa che aveva un'intera sessione intitolata «Governi di sinistra o sinistre al governo». Padroni di casa tre pensatoi dell'alternativa, Altramente, Cercare ancora e Fondazione Rosa Luxemburg. Parterre ad alta densità di economisti, intellettuali e attivisti di movimenti. Il dibattito dura tutto il giorno, vola alto, ma per forza di cose precipita su cosa deve inventarsi la sinistra (questa) per fermare il governo dei tecnocrati Bce. «Monti è espressione di un golpe bianco iniziato nelle manovre estive di Berlusconi fino al compimento di questi giorni», attacca l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti. Il cuore del ragionamento riprende le tesi del suo ultimo saggio sull'«opportunità della rivolta»: «Il capitalismo finanziario europeizzato è tendenzialmente incompatibile con le forme della democrazia, che anzi vuole demolire». In estrema sintesi, la sinistra non è se non combatte il capitalismo. Quindi quella che abbiamo conosciuto fin qui sinistra non è più, «è morta». L'unica possibilità di resuscitarla sta nell'apertura di una «fase costituente dei movimenti».
«Prima di dichiarare morta una politica ho bisogno di averne un'altra», replica il professor Mario Tronti, filosofo e presidente del Centro riforma dello Stato. «Oggi si aprono grandi giochi della politica. Bisogna giocarli, non starne fuori è essenziale per non dare per scontata l'uscita a destra dalla crisi». «Fuori dal campo non si portano a casa risultati», insiste Pierre Carniti, segretario della Cisl fra gli anni 70 e 80. «La differenza tra stare dentro o fuori al recinto è la lotta contro la politica del debito», dice Roberto Musacchio ex europarlamentare Prc e oggi di Altramente, che propone un «audit popolare sul debito» per ricostruire la cronistoria e le responsabilità dell'indebitamento italiano. In effetti «è una strana opposizione quella che abbiamo oggi, un'opposizione che collabora con i governi che hanno portato l'Italia nel baratro», conclude Alfonso Gianni di Sel, «e invece serve un'opposizione di qualità che si ponga il tema del governo, non in termini di potere ma come poter cambiare la società. Ma per farlo da sinistra, piuttosto che allontanare le forze politiche dai movimenti, serve movimentare le forze politiche e politicizzare i movimenti».
Nel prepararci ad affrontare il quarto anno di crisi finanziaria globale, appare sempre più chiaro che il patto economico e politico che sta alla base della nostra società postbellica è ormai in pieno disfacimento. Non è più il caso di interrogarsi su quando le nostre società torneranno alla normalità, perché ciò non avverrà. Né dovremmo chiederci quando finirà la crisi, perché è destinata a prolungarsi forse per decenni. Ed è una crisi che cambierà la vita della stragrande maggioranza della popolazione più radicalmente di quanto non abbia fatto la fine della Guerra fredda o l'11 settembre.
Per due decenni e mezzo dopo la Seconda guerra mondiale, l'Occidente ha conosciuto un periodo di straordinaria espansione economica. Ma già dagli ultimi anni 60, questa avanzata aveva cominciato a segnare il passo. Come ha di recente affermato Wolfgang Streeck, amministratore delegato dell'Istituto Max Planck per gli studi sociali, il rallentamento della crescita ha innescato, nel sistema capitalistico, crisi a ripetizione. Prima fra tutte, l'inflazione. Dovendo fronteggiare la recessione dei primi anni 70, i governi hanno preferito stampare denaro per stimolare i consumi e tenere a bada la disoccupazione. Ma entro la fine del decennio l'inflazione aveva strangolato i nuovi investimenti, facendo aumentare la disoccupazione.
Nei primi anni 80, ancora una volta davanti allo spettro della recessione, i governi hanno fatto ricorso alla spesa pubblica, gonfiando il deficit dello Stato per rilanciare i consumi, Usa e Gran Bretagna in particolare hanno ingaggiato un braccio di ferro con i sindacati nel tentativo di ostacolare le loro richieste di aumenti salariali.
Però, già nei primi anni 90, debito pubblico e difficoltà di bilancio avevano cominciato a innervosire i mercati finanziari. Nel tentativo di sostenere la crescita e al contempo ridurre il deficit, sia Washington che Londra hanno liberalizzato in maniera decisiva il settore finanziario. Lasciando carta bianca ai finanzieri di inventarsi e immettere sul mercato un'infinità di nuovi strumenti di gestione del debito privato, i governi hanno distolto lo sguardo dagli Stati sovrani, preferendo chiedere prestiti da aziende e individui in grado di finanziare i loro consumi (e speculazioni), finendo per indebitare le future generazioni.
Ne sono venute fuori due bolle degli asset, la prima nel settore informatico e la seconda nel mercato immobiliare americano, provocando il crollo di Lehman Brothers nel 2008 e dando avvio all'attuale crisi. Pertanto, se consideriamo il contesto storico, è lecito affermare che ciò che è in fase di sviluppo non può definirsi semplicemente una contrazione particolarmente grave del ciclo economico ordinario, destinata a esaurirsi. No, oggi assistiamo all'accelerazione di una crisi endemica delle economie occidentali che va aggravandosi da un quarantennio, man mano che si è tentato di ripetere i successi economici, considerati «normali», di quello che era in realtà un periodo storico anomalo, ovvero gli anni del dopoguerra. Inoltre, nel corso degli ultimi due decenni, l'industria finanziaria, sgravata da ogni vincolo, si è conquistata un potere politico talmente grande da bloccare qualsiasi riforma delle sue operazioni, in particolare su scala globale, dove sono indispensabili, imponendo la pratica della distribuzione verso l'alto dei profitti raccolti.
Negli Usa, stagnazione economica e ripartizione sempre più oligarchica della ricchezza hanno innescato proteste popolari su una scala che non si vedeva dagli anni 60. Nel frattempo in Europa l'euro rischia di sparire e l'intero progetto postbellico di integrazione potrebbe da un momento all'altro inserire la marcia indietro, molto più in fretta di quanto si possa immaginare. I governi tecnici insediati in Grecia e Italia sono probabilmente condannati al fallimento perché le misure varate non sono legittimate dal suffragio popolare. Negli Usa, l'egemonia del mercato si fa sentire attraverso i contributi illimitati che il mondo finanziario e industriale può offrire alla campagna elettorale, e tramite le pressioni esercitate sul Congresso si rivela capace di aggirare e vanificare le scelte popolari a favore di una più equa ridistribuzione della ricchezza.
Sia al di qua che al di là dell'Atlantico, le esigenze delle élite finanziarie si scontrano con la volontà popolare, apertamente ignorata. Se dovessero radicarsi, tali tendenze potrebbero sfociare in un assetto politico non più riconoscibile come democrazia, dando vita a un sistema capitalistico, sì, ma non democratico. È assai poco rincuorante constatare che l'attuale crisi non rappresenta che un semplice ingranaggio nell'evoluzione storica complessiva del capitalismo occidentale, che continua a ridistribuire la ricchezza verso l'alto, a indebolire le istituzioni democratiche e a concentrare il potere nelle mani di pochi individui. È questa forza trascinante che continuerà a influenzare la nostra vita nei prossimi decenni, non le vicende altalenanti delle odierne difficoltà economiche. E se per il momento non è possibile imbrigliare questa forza, non ci resta che sforzarci di comprenderla con maggior chiarezza.
(traduzione di Rita Baldassarre)