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Il Ministro Ornaghi: limitare il consumo di suolo, riqualificare le città, tutelare il paesaggio

Lo ha annunciato il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Lorenzo Ornaghi, intervenuto in Commissione Territorio, Ambiente, Beni Ambientali del Senato per illustrare gli indirizzi del Governo in tema di tutela del paesaggio.

Ornaghi ha spiegato che la legge urbanistia 1150/1942 è ormai obsoleta e dovrà essere rinnovata affrontando realtà complesse e diversificate, al fine di contenere al massimo il consumo di suolo e di canalizzare le attività edificatorie verso il rinnovamento e la riqualificazione delle città. La nuova legge - ha assicurato il Ministro - sarà messa a punto con l’intesa del Ministro delle infrastrutture e trasporti e con il concerto degli attori istituzionali e degli altri soggetti, anche portatori di interessi diffusi.

Un importante passo verso questa direzione - ha aggiunto il Ministro -, il Governo lo ha già fatto con il Decreto Sviluppo DL 70/2011 che, all’articolo 5, commi da 9 a 14, impone alle Regioni di approvare leggi per la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente e la riqualificazione di aree urbane degradate. Le leggi regionali possono assegnare bonus volumetrici, consentire la delocalizzazione di volumetrie in aree diverse, modifiche delle destinazioni d'uso o della sagoma necessarie all’armonizzazione architettonica con gli edifici esistenti.

Tornando al paesaggio, tema centrale dell’intervento in Senato, Ornaghi è partito da un importante dato: le superfici artificiali sono aumentate, in Italia, tra il 1956 ed il 2001, del 500%. In molte zone, a fronte di un decremento demografico, si è paradossalmente verificato un incremento delle superfici urbanizzate. Le cause del fenomeno, per il Ministro, sono molteplici: oltre agli ‘investimenti nel mattone’, vi sono ragioni legate alle esigenze finanziarie degli Enti locali, che sempre più spesso utilizzano l’edificabilità dei suoli come strumento di politica di bilancio.

Il Ministero si impegnerà a promuovere l’emanazione dei nuovi piani paesaggistici previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e ad estendere la pianificazione paesaggistica all’intero territorio regionale, non limitandola ai soli beni direttamente soggetti a vincolo, rendendo quindi il piano paesaggistico uno strumento di pianificazione di area vasta in grado di dettare quantomeno le invarianti dei processi di trasformazione e di canalizzarle verso aree già urbanizzate o comunque artificiali da recuperare e riqualificare, preservando i suoli agricoli e i paesaggi di maggior pregio.

Con i nuovi piani entrerà in vigore la semplificazione introdotta dal DL 70/2011, secondo cui, a determinate condizioni, il parere della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici sarà obbligatorio ma non vincolante e si considererà comunque favorevole decorsi 90 giorni.

Altro spunto di riflessione sono le distorsioni causate dal regime degli indennizzi delle espropriazioni per opere di pubblica utilità: il sistema vigente - ha detto Ornaghi - riconosce il prezzo di mercato per i suoli edificabili o edificati e concede uno sconto, anche più del 40%, nel caso di suoli agricoli, favorendo così il consumo di territorio agricolo. Questa situazione, unita alla maggiore sensibilità dell’opinione pubblica in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio, rende urgente limitare il consumo del suolo che, insieme al fenomeno della dispersione urbana, mette a rischio il paesaggio italiano. Il primo passo, per Ornaghi è un deciso rifiuto del metodo dei condoni edilizi.

Tale approccio - ha chiarito il Ministro - non va inteso come ostacolo per le imprese edili le quali, si sono dimostrate attente, anche attraverso le associazioni di categoria, al recupero delle periferie degradate e delle aree industriali dismesse e al miglioramento dell’efficienza energetica del patrimonio edilizio.

Occupy Wall Street scopre le virtù del mercato. Non lo Stock Exchange, storico presidio finanziario sulla punta di Manhattan, ma quello, più a nord, di Union Square: la piazza di New York dove ifarmersdell'agricoltura biologica di Long Island e della valle dell'Hudson vendono (ahimè, a prezzi proibitivi: 7 dollari per un etto di lattuga) i loro prodotti rigorosamente organici. Perché va bene prendersela con le banche per il disastro dei mutuisubprime, attaccare il candidato-finanziere Mitt Romney, protestare contro l'aumento delle rette scolastiche e universitarie. Ma il movimento giovanile che ha tenuto banco per tutto l'autunno ha anche una sua anima bucolica, mentre tra i suoi nemici giurati — i giganti dell'industria e della finanza — ci sono anche le multinazionali dell'agroalimentare. Così la battaglia degli «occupanti» ora si allarga allafood justice: più agricoltura naturale, più spazio ai produttori locali e lotta dura contro lecorporationdei cibi geneticamente modificati, come la Monsanto.

Dopo il «letargo» invernale, il movimento di protesta si sta riorganizzando: i suoi attivisti di New York hanno appena completato un giro in bus di cinque settimane per coordinarsi coi gruppi degli altri Stati, dalla California al Maine, e per raccogliere idee nuove. Domani marcia e occupazione simbolica di Zuccotti Park per celebrare i sei mesi del movimento (che mise le tende nella celebre piazza-parco il 17 settembre). Ma già oggi, davanti al Congresso di Washington, «Occupy Wall Street» si trasforma in «Occupy Monsanto»: scende in piazza con una serie di azioni dimostrative la sua Gcu (Genetic Crimes Unit) che accuserà il Parlamento di essere divenuto esso stesso un organismo geneticamente modificato. «Modificato» dai soldi della lobby delle culture transgeniche.

Si può discutere se le fattorie organiche, di certo salutari ma anche elitarie, producano più «giustizia alimentare» dell'agricoltura industrializzata le cui derrate, certamente di qualità inferiore, sfamano a basso costo. Ma il movimento ha bisogno di individuare nuovi campi di battaglia e di concentrarsi su pochi temi popolari. Tra l'altro i soldi delle donazioni piovute su «Occupy» a settembre e ottobre stanno finendo: un indice della delusione dei «supporter» per un movimento che di chiaro ha solo il «marchio»: il 99 per cento di americani impoveriti (o comunque colpiti dalla crisi) contro l'1 per cento dei ricchi e privilegiati.

Quando dagli slogan si passa, però, alle azioni concrete, la spinta del movimento si disperde in manifestazioni nelle quali ognuno protesta per la sua causa: le assicurazioni sanitarie esose, il costo dell'istruzione, Mitt Romney, la gente buttata fuori dalle case pignorate. Bank of America, la banca che ha fatto più pasticci coi mutui, resta il bersaglio preferito, ma ora viene raggiunta da Monsanto, trasformata in simbolo del cibo-Frankenstein.

postilla

Come spesso accade con le corrispondenze da oltreoceano di Massimo Gaggi, ci sono un paio di sfrondature preliminari da fare, prima di arrivare alla notizia: quella relativa alla sostanziale “linea padronale” del giornale per cui scrive, e quella del nuovo mondo pazientemente spiegato a noialtri un po’ tonti delle retrovie. Ecco, al netto da questa scrematura resta anche qualcosa di assai concreto: la critica al sistema pare assumere, anche nelle forme più radicali (soprattutto nelle forme più radicali), i toni di una specie di Arcadia evocativa, dove ad essere evocato c’è un passato-presente invece molto più contraddittorio e difficile da indicare come prospettiva. Ora, è pur vero che non esiste progresso lineare se non nelle fantasie di qualche studioso a gettone, ma certo con la sola ingenuità non si va lontano. A meno di non sperare (e qualcuno forse sotto sotto ci conta), nella forza distruttrice di una specie di Vandea del terzo millennio (f.b.)

Che cos´hanno in comune la Tav in Val di Susa e le new towns berlusconiane che assediano L´Aquila dopo il terremoto? Che cosa unisce l´autostrada tirrenica e il "piano casa" che devasta le città? Finanziatori e appaltatori, banche e imprese sono spesso gli stessi, anche se amano cambiare etichetta creando raggruppamenti di imprese, controllate, partecipate, banche d´affari e d´investimento. E sempre gli stessi, non cessa di ricordarcelo Roberto Saviano, sono i canali per il riciclaggio del denaro sporco delle mafie. Ma queste lobbies, che senza tregua promuovono i propri affari, non mieterebbero tante vittorie senza la connivenza della politica e il silenzio dell´opinione pubblica. Espulso dall´orizzonte del discorso è invece il terzo incomodo: il pubblico interesse, i valori della legalità.

Se questo è il gorgo che ci sta ingoiando, è perché l´Italia da decenni è vittima e ostaggio di un pensiero unico, spacciato per ineluttabile. Un unico modello di sviluppo, una stessa retorica della crescita senza fine governano le "grandi opere", la nuova urbanizzazione e la speculazione edilizia che spalma di cemento l´intero Paese. Ma su questa idea di crescita grava un gigantesco malinteso. Dovremmo perseguire solo lo sviluppo che coincida col bene comune, generando stabili benefici ai cittadini. è invalsa invece la pessima abitudine di chiamare "sviluppo" ogni opera, pubblica o privata, che produca profitti delle imprese, anche a costo di devastare il territorio. Si scambia in tal modo il mezzo per il fine, e in nome della "crescita" si sdogana qualsiasi progetto, anche i peggiori, senza nemmeno degnarsi di mostrarne la pubblica utilità. A giustificare questa deriva si adducono due argomenti. Il primo è che la redditività delle "grandi opere" è provata dall´impegno finanziario dei privati; ma si è ben visto (Corte dei conti sulla Tav) che il project financing è uno specchietto per le allodole. Una volta approvato il progetto, i finanziatori spariscono e subentrano fondi statali, accrescendo il debito pubblico. Il secondo argomento, la creazione di posti di lavoro, è inquinato da un meccanismo "a piramide" di appalti e subappalti, tanto più inesorabile quanto più grandi siano le imprese coinvolte e le relative "opere". Nessuno, intanto, si chiede se non vi siano altri modi di creare o salvaguardare l´occupazione. La Legge Obiettivo del governo Berlusconi, ha scritto Maria Rosa Vittadini, «ha trasformato il paese in un immenso campo di scorribanda per cordate di interessi mosse dal puro scopo di accaparrarsi risorse pubbliche. Un numero imbarazzante di infrastrutture (oltre 300) è stato etichettato come "opera di preminente interesse nazionale" e come tale ha ricevuto incaute promesse di finanziamento da parte del Cipe. Si tratta di una impressionante congerie di infrastrutture prive di qualunque disegno "di sistema" nazionale, di qualunque valutazione d´insieme, di qualunque ordine di priorità».

Questo è il modello di sviluppo dominante negli ultimi decenni, questa la spirale negativa che ci ha condotto alla crisi che attraversiamo. Ma per reagire alla crisi ci vien suggerita una cura omeopatica, a base di ulteriore cemento. Ci lasciamo dietro, intanto, una scia di rovine, nel paesaggio e nella società. Le new towns dell´Aquila si fanno a prezzo di abbandonarne il pregevole centro storico, ridotto a una Pompei del secolo XXI; il passante Tav di Firenze, costosissima variante sotterranea di un assai migliore percorso di superficie, viene scavato sotto la città senza le dovute certezze sul rischio strutturale e sismico. In Val di Susa, l´irrigidirsi del governo sta provocando una crescente sfiducia nelle istituzioni, certo non temperata dalle "risposte" pubblicate sul sito di Palazzo Chigi. Esse lasciano in ombra troppi punti importanti: per esempio il recentissimo ammodernamento della già esistente galleria del Fréjus, costato mezzo miliardo di euro; per esempio gli alti rischi di dissesto idrogeologico (come già accaduto nella tratta Bologna-Firenze); per esempio la reticenza sullo smaltimento dello smarino amiantifero e sui danni alla salute da dispersione delle polveri sottili.

O ancora l´azzardata asserzione che «le tratte in superficie si collocano in aree già compromesse». Ma il vero capolavoro di questa artefatta verità è in una frasetta: «Si può dire che il consumo del suolo dell´opera assuma una rilevanza minima se confrontato con i dati del consumo edilizio e urbanistico dei comuni della Val di Susa nel periodo 2000-2006». Complimenti: lo scellerato consumo di suolo da parte dei Comuni non è dunque, per chi ci governa, un errore da stigmatizzare e correggere, bensì una scusante per martoriare ulteriormente la valle. A ragione un recente convegno a Firenze, organizzato da Italia Nostra, si è chiesto se le "grandi opere" siano causa o effetto della crisi economica. Ma una cosa è certa: non ne sono la cura.

Perché un modello di finto sviluppo come questo ha tanta solidità da esser condiviso da governi d´ogni sorta? La forza d´urto delle lobbies e dei loro affari è essenziale ma non basta. La dominanza di una fallimentare idea di crescita è il rovescio e l´identico della drammatica incapacità di immaginare per il Paese un modello alternativo di sviluppo, che vinca il muro contro muro delle opposte retoriche della "crescita" e della "de-crescita". E l´assenza di un progetto per l´Italia del futuro è insieme causa ed effetto della crisi della politica, della fiducia nei partiti scesa sotto l´8%, della somiglianza fra non-progetti "di destra" e non-progetti "di sinistra". Ma è proprio impossibile immaginare un´Italia ancora capace di vera innovazione, e non solo di cementificazione? Fra finta crescita e de-crescita, esiste una terza strada: una crescita vera, incentrata sull´utilità sociale e non sui profitti di banche e imprese. Ne esiste, anzi, persino il progetto, che governanti e politici amano dimenticare. Si chiama Costituzione. Ma per una vera crescita nella legalità e nello spirito della Costituzione, cioè del bene comune, è necessario investire prioritariamente in cultura e non in ponti sullo Stretto, in ricerca e non in incentivi alle imprese che disseminano pale eoliche in valli senza vento, nella scuola e non nei tunnel. È tempo di trasformare in manifesto e progetto quell´"imperativo ecologico" di cui parlava Hans Jonas: di ridare all´Italia un futuro degno della sua storia.

Sembra superata la brutta scivolata di ieri della ministra Fornero con l´infelice frase sulla "paccata di miliardi". "Paccata di miliardi" che sarebbe disponibile solo se le parti sociali accettano preventivamente il pacchetto di riforme proposto dal governo. Per lo meno non ha fermato quel pezzo simbolicamente importante di negoziato che riguarda l´articolo 18. La voglia di arrivare ad un accordo sostenibile per tutti prevale, per fortuna, sulle irritazioni e i passi falsi. Anche se sarà bene che Elsa Fornero, come tutto il governo di cui fa parte, ricordino che l´ottica del bene comune non solo va verificata con i soggetti interessati, ma deve valere sempre, verso tutti i soggetti e interessi. Il negoziato con sindacati e Confindustria sta avvenendo in modo pubblico e trasparente, anche se con qualche insofferenza di troppo. Non così è andata sulle liberalizzazioni, dove più che di un negoziato sul bene comune si è avuta l´impressione di un cedimento agli interessi di lobby ristrette ma potenti, al riparo dagli sguardi dei cittadini che ne hanno visto solo gli esiti non sempre favorevoli per loro stessi.

Ma entriamo nel merito del pacchetto di riforme messo sul tavolo dalla ministra. Vi sono diverse cose apprezzabili, in primis l´introduzione di una indennità di disoccupazione unica, che copra diverse fattispecie di perdita del lavoro, benché sia dubbio che riguardi anche i vari co.co.pro. e finte partite Iva, ovvero tutti coloro che sono attualmente sprotetti. Continueranno ad essere esclusi anche coloro che hanno contratti così brevi e provvisori da non riuscire a maturare 52 settimane lavorative piene in due anni. Anche il rafforzamento dell´apprendistato come via di ingresso nel mercato del lavoro è un passaggio importante. Ma non risolve il problema dell´ingresso dei neo-laureati o di chi, come molte donne, si ricolloca sul mercato del lavoro in età non giovanile, o di chi perde una occupazione in età matura. Non affrontare la questione di una maggiore standardizzazione dei contratti di lavoro all´ingresso è una delle debolezze del pacchetto di riforme proposte dal governo, che sembra tutto spostato sul, certo importantissimo, tema degli ammortizzatori sociali e sulla flessibilità in uscita (articolo 18).

Questa impostazione suggerirebbe che il problema del mercato del lavoro italiano, e addirittura della mancata competitività del sistema produttivo, sia la scarsa flessibilità in uscita. Ma i modelli danesi e tedesco, spesso citati anche dalla Fornero, sono dinamici innanzitutto perché sono dinamiche le aziende, che creano posti di lavoro; per cui perdere l´occupazione non è un salto nel buio, ma un passaggio abbastanza veloce verso un altro lavoro. Non è così in Italia, nonostante ormai da diversi anni il mercato del lavoro italiano sia diventato tra i più flessibili, anche per i cosiddetti garantiti. La scarsa competitività italiana, da cui deriva anche l´alto tasso di disoccupazione, ha a che fare non con la mancanza di flessibilità in uscita, ma con la scarsa capacità di innovazione delle aziende, il basso investimento in capitale umano e in ricerca e innovazione. E se le aziende straniere non investono volentieri in Italia non è certo per timore dell´articolo 18, ma perché temono la macchinosità e la lentezza della nostra burocrazia, per altro incapace di proteggere da fenomeni di corruzione, quando non vi è coinvolta essa stessa.

Infine, in Danimarca e in Germania, come in molti altri Paesi europei, nessuno è lasciato senza protezione una volta terminato il diritto all´indennità di disoccupazione senza aver trovato una nuova occupazione. Possono accedere ad una garanzia di reddito assistenziale, destinata a chi ha perso il diritto alla indennità o a chi non ne ha mai avuto diritto, ma è povero. È una misura cui la ministra si è dichiarata più volte favorevole, trovando risposte per altro tiepide in una parte almeno dei sindacati. Ma richiede risorse consistenti che non possono che venire dal bilancio dello Stato.

In Germania, ad esempio, dopo la cosiddetta riforma Hartz del 2002, questo sussidio garantisce 350 euro al mese per una persona sola, che possono salire fino al 1240 euro circa per una coppia con due bambini, più integrazioni per l´affitto, i libri di scuola, le spese mediche. Anche chi riceve l´indennità di disoccupazione, se questa è inferiore al sussidio, può ricevere una integrazione fino ad un livello equivalente. Inoltre esistono centri per l´impiego efficienti, che accompagnano e stimolano chi riceve il sussidio a stare nel mercato del lavoro, formarsi, e così via. Accanto al dinamismo dell´economia, l´esistenza di questa rete di protezione consente di affrontare meglio le crisi vuoi nell´economia, vuoi nelle biografie personali. In assenza di entrambe queste cose, rimane solo la disoccupazione di lunga durata senza sussidi e senza speranze.

Entro aprile Passera e Ciaccia presenteranno un disegno di legge delega

L’obiettivo è quello di concludere entro aprile con la presentazione di un disegno di legge delega che riesca a tracciare un quadro di riferimento certo per la dotazione infrastrutturale in Italia. Un provvedimento quadro di non più di 6-7 articoli in cui tra edilizia residenziale, vie del mare e opere infrastrutturali (piccole, medie e grandi), il governo possa essere in grado di ridisegnare i settori e, nel contempo, di riscrivere la cornice ordinamentale di riferimento all’interno della quale accelerare le procedure, trovare le risorse, individuare le priorità.

Alla riunione di venerdì scorso, indetta dal viceministro dello sviluppo economico Mario Ciaccia con i committenti pubblici e privati, oltre ai rappresentanti di banche e imprese, ci si è dato un appuntamento ravvicinato. Entro i prossimi quindici giorni si lavorerà a spron battuto a partire dalle 89 proposte stilate oltre un anno fa dalle tre fondazioni, chiamate al tavolo di Ciaccia: Astrid di Bassanini, Italiadecide di Luciano Violante e Respubblica di Eugenio Belloni. Obiettivo è quello non solo di individuare il metodo e la pianificazione delle priorità, ma anche risolvere il problema dei capitali privati.

A sedere al “tavolo Ciaccia” che da qui ad aprile marcerà a tappe forzate, c’erano sia Anas che Fs, Castellucci e il gruppo Gavio, Confindustria, Ance, l’Associazione imprese generali, Abi e Confedilizia. Oltre a Pasquale De Lise, futuro direttore generale dell’Agenzia per le infrastrutture stradali e autostradali che, avuto un primo disco verde dal consiglio dei ministri, sarà destinata a partire da fine luglio a sostituire l’Anas come concedente delle concessioni stradali e autostradali.

Si è parlato del necessario decollo dei project bond che, sostenuti dal governo Monti anche a livello europeo, dovrebbero servire con un regime fiscale ordinario al 20% a far decollare le grandi opere cercando di sciogliere il nodo della partecipazione dei capitali privati con il project financing, che in Italia non è mai veramente decollato. Per gli investimenti pubblici un ruolo di primo piano l’avranno il Cipe e la Cassa depositi e prestiti. E se nella delega ci sarà un capitolo specifico sugli strumenti finanziari, si è affrontato un capitolo ad hoc relativo al nodo costituzionale. L’idea è quella di intervenire nuovamente sul titolo V, con un riordino dei poteri tra stato e regioni, con l’ipotesi di affidare le opere strategiche al primo e quelle minori alle seconde. Si tratterebbe di un nodo da sciogliere in fretta anche se, visti i risvolti costituzionali, i tempi potrebbero essere più lunghi – a meno di trovare un treno normativo su cui saltare in corsa.

È stato poi affrontato anche il tema dell’inserimento di una norma che sterilizzi i contratti in essere da eventuali modifiche legislative. Così come ha avuto modo di sostenere Ciaccia ultimamente, secondo cui è necessario garantire continuità per attirare investitori. Alla riunione si sarebbe discusso anche della possibile introduzione del débat public, su cui Monti insiste nonostante i dubbi circa la possibilità di importare in Italia il modello transalpino.

Sui tempi dell’operazione Ciaccia è stato categorico: Passera intende arrivare con il ddl in consiglio dei ministri entro aprile quando, tra l’altro, dovrebbe giungere a palazzo Chigi anche il lavoro di Giarda sulla spending review. Due interventi destinati a ridisegnare il volto dell’Italia.

Postilla

Il cammino era iniziato da tempo. Ecco i passi che si sono succeduti neglinultimi trent’ani: la subrdinazione della pianificazione del territorio all’emergenza, della prospettiva al’occasione, della visione all’oggi; lo sganciamento delle decisioni settoriali da ogni ipotesi di inquadramento territoriale (ricordate la precoce scomparse dei “lineamenti fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”?); la rincorsa di una “governabilità” pagata con la riduzione della democrazia (il decisionismo craxiano in salsa bassaniniana); il privilegio della Grande Opera sul lavoro minuto e quotidiano di risarcimento del territorio disgregato, delle città devastate, dei paesaggi degradati; il primato del mercato sullo stato, del privato sul pubblico, dell’economia (e quale economia) sulla politica, dei pochi (ricchi) sui molti (via via più impoveriti).

E’ un percorso lento e tortuoso che si è sviluppato fino ad ora. Ma con il governo “tecnico” il disegno si sviluppa con maggiore razionalità ed efficacia. Alle scorrerie delle bande di neoliberisti in pectore succedono le ordinate legioni corazzate dei neolberisti dichiarati. Si giunge a voler inserire nella Costituzione della Repubblica dichiarazioni e principi che ne scardinano molti altri: quelli fondamentali. E ci si propone di rafforzare il project financing all’italiana, in cui il rischio se lo accolla lo stato (il contribuente, e di stabilire che il contratto privatistico prevale sulla volontà del legislatore.

Analizzando la socialdemocrazia nel 1911, Robert Michels parlò di legge ferrea dell´oligarchia: per come si organizzano, e tendono a occuparsi della mera sopravvivenza degli apparati, i partiti diventano piano piano gruppi chiusi, inevitabilmente corrompendosi. Il loro scopo è conservare il proprio potere, estenderlo, e respingere ogni visione del mondo che insidi tale potere. Divengono quei difensori dei vecchi ordini che Machiavelli considerava micidiali ostacoli al cambiamento. Micidiali perché ben più agguerriti dei sempre tiepidi costruttori del nuovo. Anche le menti si chiudono, raggrinzite.

È quello che sta succedendo in Italia, nonostante l´evidente discontinuità rappresentata da Monti. Sono mutati non solo gli stili di governo ma lo sguardo sulla crisi: non più occultata ai cittadini ma limpidamente spiegata, coi vincoli che essa impone. Troppo presto si è parlato tuttavia di fine della seconda Repubblica, di nuovo inizio. La legge ferrea dell´oligarchia permane, e in alcuni momenti sembra perfino consolidarsi. Lo si nota soprattutto in due campi d´azione:la costruzione dell´Europa, e la cultura della legalità ovvero la lotta alla corruzione.

I due ambiti non sono affatto disgiunti: ambedue son figli di abitudini a cerchie recintate. Edificare un´Europa politica e federale implica l´abbandono di sovranità nazionali ormai fittizie, sotto il cui tetto sono cresciuti potentati incompetenti ma tutt´altro che indifesi. Allo stesso modo, creare in Italia una cultura della legalità implica una lotta senza cedimenti all´intreccio fra Stato e mafia, politica e corruzione: intreccio confermato proprio in questi giorni dalla condanna del boss palermitano Tagliavia. L´appello di Saviano a profittare della crisi per varare subito una legge anti-corruzione invita a rifondare le due cose insieme: Europa e legalità.

Vale la pena ricordare come nacque la moneta unica. Tra i pericoli indicati da Kohl ce n´era uno, di cui si parlò poco ma cui furono dedicate più riunioni ristrette: la mafia in Italia, e la sua congiunzione con le mafie dell´Est. Un libro uscito in quei tempi (Octopus, 1990), scritto da Claire Sterling, certifica questo timore: che l´Europa monetaria, invece di frenare la degenerazione della politica, le fornisse in realtà un ombrello protettivo. La moneta senza Stato europeo perpetuava l´illusione degli Stati sovrani, non più minacciati da svalutazioni monetarie che sempre erano state,in passato, momenti di crisi governative e di verità.

Quel timore non era infondato. Lo si è visto in Grecia (la sua piaga è la corruzione) e lo si vede in Italia. L´articolo 18 viene presentato oggi come inibitore di una rinascita. Ma gli specialisti dicono ben altro: se gli stranieri non investono da noi la causa non è l´articolo 18. È la mafia, l´assenza di leggi anti-corruzione. La paura che l´Italia incute dai tempi di Kohl è sempre quella.

Non è casuale dunque che i difensori del vecchio ordine s´aggrappino a due sovranità finte e al contempo distruttive: la sovranità dello Stato-nazione, e il diritto all´impunità di potentati che all´ombra dell´euro hanno confiscato la politica, impedendo che essa si rigenerasse e non tollerando incursioni giudiziarie. Il governo Monti non è sempre responsabile (il giudizio sulle sentenze non gli spetta) ma è vero che lascia fare (come lascia fare sulla Rai) con la scusa che prioritari sono i parametri economici. La battaglia anti-corruzione è tema politico e i tecnici, anche se pienamente legittimati a governare, sono nell´intimo allergici alla politica. Ne hanno addirittura «schifo»: la piccola frase detta da un ministro non cade dal cielo. Quanto all´Europa, il governo è più refrattario del previsto, considerate l´esperienza e le convinzioni recenti del Presidente del Consiglio.

Cominciamo dall´Europa. Anche qui la discontinuità è palese: la nostra voce non è screditata come ai tempi di Berlusconi. Ma la politica estera non è solo quella descritta dal ministro Giulio Terzi: «promuovere l´immagine dell´Italia credibile sulla scena internazionale». Urgente, oggi, è scoprire le radici politiche della crisi europea, e fabbricare un´unione sovranazionale: con la Commissione che sia governo federale, un Parlamento che rappresenti l´agorà europea, un Consiglio dei ministri che diventi Consiglio degli Stati, come quando gli Stati Uniti passarono dalla fallimentare Confederazione alla Federazione (tra i suoi primi atti ci fu la messa in comune dei debiti). È la proposta fatta il 7 febbraio da Angela Merkel, e l´intento è serio se Guido Westerwelle l´ha ripresa, sabato in una riunione di ministri degli Esteri a Copenhagen: prospettando una revisione della carta costituzionale europea e l´elezione diretta dei futuri Presidenti dalla Commissione.

A quest´iniziativa il governo italiano risponde per ora con un no. Ha cominciato Monti, l´11 gennaio sulla Welt, proclamando che degli Stati Uniti d´Europa «non c´è bisogno». Il no opposto da Terzi a Copenhagen è ancor più pesante, alla luce delle proposte tedesche: l´Italia comprende «l´esigenza, posta da diversi Stati membri, che superata la fase più critica della crisi finanziaria si riprenda una riflessione sulla visione dell´Europa». Ma ritiene «estremamente prematura» una nuova Carta costituzionale: « Non mi spingerei a dire che c´è una prospettiva di rilancio». Da chi e perché il ministro ha avuto il mandato così poco ardito?

Nell´ambito della giustizia è avvenuto qualcosa di non meno grave, che concerne non il governo ma i magistrati e la maggioranza parlamentare. Al centro dello scontro: non tanto la sentenza della Corte di Cassazione che ordina di rifare il processo d´appello a Dell´Utri, ma la spiegazione data dal procuratore generale della Cassazione Iacoviello («Nessuno crede più, oggi, al concorso esterno in associazione mafiosa»). Sotto attacco, la figura giuridica escogitata tra gli anni ´80 e ´90 da Falcone e Borsellino con un proposito preciso: far luce sulle collusioni dei politici, dei partiti, dei colletti bianchi che, pur non essendo affiliati alla mafia, la favoriscono e l´innalzano a interlocutore dello Stato. Il «concorso» è complicato da individuare – Carlo Federico Grosso lo spiega bene su La Stampa – perché bisognoso di prove stringenti. Ma è «utile per incidere nella zona grigia di chi aiuta dall´esterno la mafia».

Anche in questo caso, i poteri insediatisi al posto della politica hanno reagito presidiando le leggi ferree dell´oligarchia. Il secondo partito della maggioranza, il Pdl, è saltato sull´occasione con fare vendicativo. La sentenza non scagiona Dell´Utri, ma è interpretata come sconfessione dei magistrati, se non come assoluzione. Permette di fronteggiare, soprattutto, un´incombente minaccia: il disvelarsi di patti Stato-mafia che forse condussero all´uccisione di Falcone e Borsellino. Il disvelamento rischia di denudare la nostra malata politica democratica.

Il potere oligarchico, corrotto o no, fatica a lasciar posto al nuovo, a reinventare la politica. Si arrocca, in casa e in Europa (lo Stato sovrano ha analoghe strutture oligarchiche). Fa parte dell´uscita dalla crisi anche questa restituzione alla politica di spazi, di iniziative libere da pressioni. La politica fa schifo solo a chi non la vuol fare. Solo a chi combatte lo status quo molto tiepidamente, come nelle parole di Machiavelli: «La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità delli uomini; li quali non credono in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza». Una ferma esperienza dell´europeismo dei governanti, e della volontà della politica di combattere le corruzioni: i cittadini ancora non la vedono nascere. Ma di sicuro l´aspettano. La sperano dal primo giorno del governo Monti.

Lo stillicidio delle informazioni sui fatti di corruzione, quasi un quotidiano bollettino di guerra, rende sempre più insopportabile l´attesa di qualche nuova norma che consenta di opporsi in modo un po’ più efficace ad un fenomeno dilagante. Le cronache confermano che la corruzione è ormai una struttura della società italiana, è penetrata ovunque, come testimonia la presenza tra i corrotti di politici e amministratori, imprenditori e primari medici, poliziotti e vigili urbani. Ogni ritardo del Parlamento diventa un aiuto a questo nuovo ceto sociale. E proprio la "disattenzione" politica spiega perché, a vent´anni da Mani pulite e dalle speranze allora suscitate, la corruzione sia divenuta sempre più diffusa.

Ricordiamo quel che disse il cardinale Tettamanzi, lasciando la diocesi di Milano: "Gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano insegnato nulla, visto che purtroppo la questione morale è sempre d´attualità". Ma vi è un documento recentissimo che descrive con spudoratezza una condizione della politica. È la memoria difensiva di un politico calabrese accusato di rapporti con ambienti criminali, dov´è scritto: "La mentalità elettoralistico-clientelare è diventata cultura, costume e inevitabilmente anche modo di governare" e quindi, per il politico che "vive ed opera in questo difficilissimo ambiente, mettersi a disposizione è quasi d´obbligo, senza grandi possibilità di crearsi una difesa che lo garantisca da immorali e infedeli strumentalizzazioni. Il mettersi a disposizione è condizione quali fisiologica dell´attività politica svolta in Calabria, con la conseguenza di affidarsi supinamente alla lealtà dell´interlocutore". Questa richiesta di una "assoluzione sociologica" riguarda i rapporti con ambienti criminali, ma descrive una più generale regola di comportamento dove il "mettersi a disposizione" s´intreccia con le pratiche corruttive alle quali, peraltro, proprio i poteri criminali ricorrono sempre più ampiamente.

Siamo oltre il "mostruoso connubio" tra politica e amministrazione denunciato nell´Ottocento da Silvio Spaventa. Conosciamo altri connubi: tra politica e affari, tra politica e criminalità, che tutti insieme hanno provocato un connubio obbligato tra politica e malapolitica, con quest´ultima che corrode l´intera società. Proprio per questo è necessario guardare alla dimensione politica, pur sapendo, ovviamente, che non è soltanto questa ad essere il luogo della corruzione e che i politici corrotti sono una minoranza. Ma quando la corruzione si insedia nel ceto politico, e da questo non è adeguatamente contrastata, essa finisce con l´assumere una particolare natura, diventa fatto istituzionale, modo di governo della cosa pubblica. Proprio per questo è grandissima la responsabilità dei politici onesti, che non possono chiamarsi fuori in nome della loro personale integrità, poiché hanno l´obbligo di ricostruire le condizioni anche istituzionali per il ritorno dell´etica pubblica.

Finora non è avvenuto. Si è ceduto al patriottismo di partito, si sono cercate misere scorciatoie, si sono coltivate illusioni politico-istituzionali. Spicca, tra queste ultime, la tesi secondo la quale la corruzione era figlia di un sistema bloccato sì che, una volta approdati ad una democrazia dell´alternanza, la corruzione si sarebbe automaticamente ridotta. Non è andata così. L´alternanza tra diverse forze politiche nel governo centrale e in quelli locali ha coinciso con l´espansione della corruzione. Questa, da modalità di esercizio del potere, si è fatta potere essa stessa, ha prodotto le sue istituzioni, le sue reti formali e informali, le sue aree di influenza, una sua economia. Non più fenomeno selvaggio, ma forte e autonomo potere corruttivo.

Non lo scopriamo oggi, nessun politico può invocare l´attenuante della mancanza di informazione. Da anni in Italia sono state prodotte eccellenti ricerche sul tema, sono state fatte proposte dettagliate. Se questa buona cultura è rimasta senza echi, è perché era stata imboccata una diversa via istituzionale.

Discutendo delle differenze tra il tempo di Mani pulite e il tempo nostro, bisogna ricordare le diverse linee istituzionali che proprio in Tangentopoli trovarono il loro spartiacque. Per anni la politica difese le pratiche corruttive senza toccare sostanzialmente il sistema generale delle regole, alle quali ci si sottraeva attraverso una robusta rete di protezione. Si negava la messa in stato d´accusa di ministri (unica eccezione il caso Lockheed, ma questa falla fu prontamente chiusa). Si negavano le autorizzazioni a procedere contro i parlamentari sospetti di corruzione. Si portavano inchieste scottanti nel "porto delle nebbie" della Procura di Roma, che provvedeva ad insabbiarle. Si rifiutava di prendere atto di clamorose responsabilità politiche, con l´argomento che qualsiasi sanzione poteva scattare solo dopo una definitiva sentenza di condanna (e così si allontanava nel tempo ogni iniziativa).

Questa rete si smaglia con l´arrivo delle inchieste del febbraio 1992. Si cancella una immunità parlamentare di cui si era abusato. La magistratura, che aveva assicurato protezione, ritrova il suo ruolo di garante della legalità. Questo provoca sconcerto, e per qualche tempo si spera che un tempo nuovo sia davvero cominciato. Ma le vecchie resistenze erano tutt´altro che sconfitte, come subito dimostrarono le difficoltà nel riformare la legge sugli appalti.

Una nuova strategia era alle porte, e trovò nel berlusconismo il clima propizio. Una diversa rete di protezione è stata costruita, cambiando le stesse regole di base. È storia nota, quella delle leggi sulla prescrizione e sul falso in bilancio, delle norme sulla Protezione civile. Il mutamento è radicale. L´intero sistema istituzionale viene configurato come "contenitore" della corruzione.

Di fronte a questa reale emergenza è pura ipocrisia rifiutare interventi immediati dicendo che si tratta di materia estranea al programma di governo e che nuove norme sulla corruzione devono far parte di un più largo "pacchetto" di riforme della giustizia. La questione morale, evocata dal cardinale Tettamanzi e che richiama l´intuizione lungimirante di Enrico Berlinguer, è tema ineludibile della politica di oggi.

Ma non è solo affare di leggi. Bisogna tornare alla responsabilità politica, rifiutando la scappatoia del "non è un comportamento penalmente rilevante". L´etica pubblica non ha il suo fondamento solo nel codice penale. Lo dice bene l´articolo 54 della Costituzione, affermando che le funzioni pubbliche devono essere adempiute con "onore" e "disciplina". Questo significa che, anche se verranno nuove norme, la partita non è chiusa. Oltre le leggi vi è la ricostruzione della moralità pubblica, il dovere della politica d´essere inflessibile con se stessa, se vuole riconquistare la fiducia dei cittadini. Una domanda, per intenderci. Le frequentazioni mafiose possono essere considerate penalmente non rilevanti e consentire a Dell´Utri l´assoluzione. Ma sono compatibili con l´onore e la disciplina richiesti dalla Costituzione?

Per i candidati alle future elezioni dovrebbe essere obbligatoria la lettura del Viaggio elettorale raccontato da Francesco De Sanctis nel 1875, che così parlava ai cittadini: "Avete intorno al mio nome inalberata la bandiera della moralità. Siate benedetti!".

ART.18, MONTI CI PENSI SU

di Valentino Parlato

Se Mario Monti, che ritengo persona attenta ai fatti, avesse potuto vedere di persona la grande manifestazione della Fiom a Roma, sicuramente avrebbe riconsiderato alcuni suoi attuali orientamenti. Lo penso perché la manifestazione di ieri è andata ben oltre la Fiom e i lavoratori della metalmeccanica.

Ieri a Roma c'era l'unità d'Italia. Nord e Sud insieme, capoluoghi di regione e piccoli comuni. Rilevante e importante la presenza di lavoratrici. C'era l'Italia con le sue memorie storiche e la volontà di sostenere la democrazia in questo difficile e pericoloso stato di crisi. Dalle crisi - è storia - sono facili e possibili le uscite a destra. In Italia lo sappiamo. Ebbene, la manifestazione di ieri era la testimonianza di quanto la democrazia sia essenziale al mondo del lavoro, alle persone che lavorano «sotto padrone» e che solo nella democrazia piena hanno la garanzia dei loro diritti e della dignità umana.

Una grande manifestazione di democrazia dalla quale non ci si può distaccare (come ha fatto il Pd, con il pretesto della Tav e cedendo alle esigenze della politica politicante) senza indebolire se stessi, senza far crescere il rifiuto della politica, oggi assai diffuso nel nostro paese. Il Presidente Giorgio Napolitano ha detto che la riforma del lavoro va realizzata, ma tenendo fermi il rispetto dei diritti e della dignità del lavoro, che sono - aggiungo io - il fondamento sostanziale della democrazia.

La nostra Costituzione afferma che siamo una Repubblica «fondata sul lavoro». Nell'attuale confronto sulla «riforma del lavoro», va data grande attenzione anche agli aspetti simbolici. E vengo all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sul quale siamo a uno scontro fondamentalmente ideologico, simbolico, a cui anche il Presidente Napolitano dovrebbe prestare più attenzione. Un industriale come Carlo De Benedetti ha detto che l'art. 18 non gli è mai servito nella gestione d'impresa. Cancellare l'art. 18 oggi non serve affatto agli imprenditori. Cancellarlo è solo dare uno schiaffo in faccia a chi lavora e ai sindacati tutti, dire loro che debbono piegare la schiena davanti al padrone.

La grande e democratica manifestazione di ieri dovrebbe dare uno scatto di intelligenza all'attuale governo. La sua rinuncia alla cancellazione dell'articolo 18 (ripeto, di nessuna sostanza nella gestione d'impresa) sarebbe un gesto di grande acume politico. Il governo potrebbe dire: proprio perché sono forte e ho consenso non voglio cancellare l'articolo 18.

La grande manifestazione di ieri, la sua portata nazionale e democratica, dovrebbe indurre a qualche riflessione l'attuale governo e dire chiaramente che non ne vuole più la cancellazione. Ove facesse questa scelta ne uscirebbe anche rafforzato rispetto ai ricatti e alle minacce che stanno emergendo dal mondo della politica. Monti non ha detto a caso di temere l'allargarsi dello spread tra i partiti. Si faccia raccontare bene la manifestazione di ieri e ci pensi.

SCIOPERARE, UN GESTO RISCHIOSO ALLA FIAT

di Loris Campetti

Una bellissima giornata di sole e di speranza, complici il clima romano e una marea operaia che da tutto lo stivale e le isole è tornata a occupare la capitale con le sue bandiere rosse e le sue rivendicazioni. In fondo, si potrebbe pensare, non è una novità. Ciclicamente la Fiom riempie Roma di colore e contenuti politici: capita ogni tre o quattro anni e ogni volta è insieme una prova di forza e mostra una capacità di aggregare intorno a sé donne, uomini, movimenti, figure sociali che, almeno apparentemente, con la Fiom non avrebbero molto a che fare.

E invece lo sciopero generale di ieri per i diritti, i contratti e la democrazia e la grande manifestazione a Roma contengono molte novità. Scioperare oggi alla Fiat e nelle fabbriche metalmeccaniche rappresenta un gesto coraggioso perché rischioso. Il fatto è - lo dicevano i tanti striscioni e cartelli esibiti ieri in corteo - che oggi in Italia c'è meno democrazia che negli ultimi sessant'anni. Se non si firma un accordo o un contratto con cui vengono cancellati i diritti fondamentali dei lavoratori si è fuori dalle fabbriche, la Fiom non ha più agibilità sindacale, non può avere delegati né convocare assemblee. Solo fuori dai cancelli si può invitare allo sciopero, le catene di montaggio sono off limits. Addirittura, a Pomigliano a cui Marchionne ha cambiato nome per poter licenziare tutti e riassumere solo quelli con il cappello in mano, nessun operaio iscritto alla Fiom è stato riammesso al lavoro, perché sono stati marchiati a fuoco. Pensate cosa voglia dire in queste condizioni, forse normali nelle dittature ma impensabili nel cuore dell'Europa, convincere gli operai a scioperare contro i novelli padroni delle ferriere con il rischio di essere a loro volta marchiati a fuoco. Loro che non hanno più neanche il diritto di eleggere i propri rappresentanti, di votare accordi e contratti che modificano le condizioni di vita e di lavoro, addirittura di scioperare contro la nuova organizzazione del lavoro o di mangiare a un'ora normale e non a fine turno. Di andare a pisciare quando gli scappa.

Eppure in tantissimi, tra quelli che non sono stati licenziati, o messi in cassa integrazione o peggio in mobilità, oppure «esodati» e cioè senza salario e senza pensione, hanno scioperato poi si sono infilati in un pullman per atrraversare l'Italia perché i treni speciali sono stati aboliti dalla Ferrovie, solo l'alta velocità per pochi benestanti può correre sulle rotaie. Sono arrivati a Roma per dire no a Marchionne e a chiunque sostenga leggi antioperaie e antidemocratiche, o pretenda di smontare lo Statuto dei lavoratori e la Costituzione. Per questo i più applauditi sul palco di piazza San Giovanni, insieme a Landini, sono stati Nina di Mirafiori, Ciro di Pomigliano e Giovanni di Melfi, simboli, delegati alla Fiat non riconosciuti dalla Fiat perché per Marchionne, e per chi tace lungo quasi tutto l'arco costituzionale, la Fiom deve morire. O piegarsi.

Pensa, dicono i compagni di Melfi, i nostri delegati non riconosciuti e licenziati hanno vinto anche il processo d'appello, la Fiat è stata condannata grazie all'art. 18 a riassumerli ma si rifiuta di rispettare la sentenza, li paga ma li lascia a casa. E in questa situazione, «il Pd non viene a manifestare con noi perché c'è la Val di Susa? Ma cosa è diventata l'Italia, dov'è finita la sinistra?».

Sta solo in questo la differenza tra il 2012 e gli anni Cinquanta: allora c'era il Pci di Pugno e Garavini, oggi c'è il Pd che promuove a responsabile del lavoro e della Fiat a Torino l'ex segretario nazionale del Sida, il sindacato giallo inventato da Valletta. L'attacco alla democrazia si può declinare in tante lingue diverse: quella degli operai incatenati; quella dei giovani senza diritto allo studio, al reddito e a un lavoro che non sia di merda; quella dei beni comuni violati e mercificati; quella di chi non vuole finire sotto un treno che corre troppo veloce travolgendo ogni presidio; quella di chi aveva raggiunto il diritto alla pensione e non glie la danno o di quelli che ce l'hanno ma glie la sterilizzano o che temono di non avercela mai. Quando il mercato detta legge la democrazia viene rottamata a scuola, in fabbrica, nelle edicole. Per questo studenti, precari, pensionati, popolo No Tav e attivisti dell'acqua e dei beni comuni, lavoratori dello spettacolo in tempi in cui «The show must go off», ieri sfilavano per le strade di Roma insieme alle tute blu: hanno capito che il nemico è comune, è il pensiero unico e loro non cantano nel coro. Non si limitano a difendersi e a resistere, pretendono di orientare l'uscita dalla crisi con regole diverse da quelle che l'hanno provocata. Vogliono un diverso modello di sviluppo, socialmente e ambientalmente compatibile.

La festa per la cacciata di Berlusconi, diventato scomodo anche per la cupola finanziaria che impasta il mondo come una pizza margherita, è finita in fretta. Ora ci sono i bocconiani che terminano il lavoro sporco avviato da chi li ha preceduti, aggiungendo ingiustizie a ingiustizie e i metalmeccanici hanno smesso in fretta di festeggiare. Chi si accontenta della facciata riverniciata non viene capito dai terribili metalmeccanici e dai loro appestati amici montanari che tanto spaventano Bersani. Così tutti devono farsi una ragione per i pochi, rispettosi fischi raccolti dal segretario nazionale della Cgil che è intervenuto dal palco con un atteggiamento decisamente più comprensivo nei confronti dei Monti boys: figurarsi se chi ha osato scioperare e manifestare anche sotto Prodi si può tirare indietro quando c'è da prendersela con Monti, Fornero, Passera e compagnia fischiando. Questi centomila o ancora di più - chi se ne frega quanti, come dice Landini se li conti qualcun altro, la polizia, la Fiat, Monti, Alemanno e anche Bersani - non portano rispetto per chi non li tratta con rispetto. E si incazzano anche per l'assenza di una sponda politica e forse proprio per questo diventano un riferimento per i tanti che vivono le stesse condizioni. Oltre alla rappresentanza, a questi terribili metalmeccanici vogliono togliere con l'attacco al pluralismo informativo persino la rappresentazione, il diritto a veder raccontate le loro battaglie. Sarà per questo che ieri il manifesto è stato accolto in piazza con tanto affetto. Perché lo sciopero generale di ieri della Fiom per i diritti, i contratti e la democrazia e la grande manifestazione a Roma contengono molte novità

L’immagine della Milano ladrona, sorridente e impunita, ha fatto il giro d’Italia. È l’istantanea dell’ufficio di presidenza della regione Lombardia, con 4 componenti su 5 indagati. O arrestati per malaffare. Per la par condicio due del Pdl, Franco Nicoli Cristiani e Massimo Ponzoni, uno del Pd, Filippo Penati, e l’ultimo della Lega, Davide Boni. Mettici pure quattro ex assessori di Formigoni al centro di altrettanti scandali, i già citati Nicoli Cristiani e Ponzoni, più Guido Bombarda e l’ineffabile Piergianni Prosperini. Infine otto consiglieri lombardi sotto inchiesta per una gamma di reati che spazia dalla corruzione alla truffa al favoreggiamento di prostituzione, nel caso di Nicole Minetti. E ti domandi: ma come può una delle regioni più ricche e civili d’Europa a sopportare questa vergogna?

Una tale montagna di scandali non s’era mai vista in Italia, se non nel consiglio regionale della Calabria, che le commissioni antimafia dipingono come il braccio politico della ‘ndrangheta. Ma qui non siamo nella terra di Cetto Laqualunque. Siamo nella capitale del laborioso Nord che sfida la recessione, nella culla del montismo come nuovo costume amministrativo, europeista, poliglotta, competente, rigoroso e un tantino moralista. E allora non ti spieghi la calma piatta, l’indolenza «terrona» con cui la grande Milano accoglie le storiacce della nuova Tangentopoli, vent’anni dopo. Queste tangentone a botte di 300 mila euro in contanti, che sarebbero finite nella tasche del ras lombardo della Lega, Davide Boni, fanno impallidire la madre di tutte le mazzette, i 37 milioncini di lire che il 17 febbraio del 1992 Mario Chiesa cercò di affogare nel cesso dell’ufficio, mentre i carabinieri bussavano alle porte del Pio Albergo Trivulzio. Sorprende la faccia di tolla dei dirigenti leghisti, da Umberto Bossi in giù, che una settimana fa chiedevano la testa di Formigoni «perché non si può andare avanti con un arresto al giorno» e oggi, pizzicato uno dei loro, urlano al complotto politico e affidano la difesa del buon nome del movimento, con un certo grado di crudeltà, al tesoriere Francesco Belsito. Figura incredibile per definizione, noto alle cronache per essersi taroccato nell’ordine la patente di guida mai ottenuta, il diploma di perito e ben due lauree fasulle (una a Londra, l’altra a Malta), non che per aver investito l’anno scorso un terzo del rimborso elettorale della Lega (22 milioni di euro) in una fantomatica banca della Tanzania. Uno insomma al cui confronto il Vincenzo Balzamo tesoriere del Psi di Craxi, e morto di crepacuore pochi mesi dopo Mani Pulite, trasfigura nel ricordo in icona risorgimentale.

Ma il mistero più fitto, o se volete la faccia di tolla più resistente, ha un solo nome: Roberto Formigoni. Il dominus assoluto del ventennio lombardo, da Tangentopoli a Tangentopoli 2, il presidentissimo al quarto mandato, è ancora lì, al centesimo scandalo, barricato nella faraonesca e inutile nuova sede, a recitare la scena del palo della banda dell’Ortica. Il campionario di alibi del presidenza allarga ogni volta i confini del ridicolo. Gli arrestano gli assessori nei settori chiave della regione, sanità, urbanistica, ambiente, e lui non sapeva. Si presenta in consiglio regionale per «mettere la mano sul fuoco per Piergianni Prosperini» il giorno stesso in cui il «Prospero» decide di patteggiare coi magistrati. La Minetti? «Chi se l’immaginava? Me l’ha presentata Don Verzè!». Il caso Boni? «Quale caso? Vedremo. La regione è una casa di vetro. Nel caso ci fosse un caso, ci costituiremo parte civile». Non esistono un «sistema Sesto» o un «sistema Lega» o un «sistema bonifiche», ma soltanto un enorme «sistema Formigoni» (o «sistema CL») che sovrasta e alimenta un arcipelago vastissimo e consociativo di interessi, dove nessuno ha interesse a far saltare il banco del Pirellone. Non la maggioranza politica, ma neppure le opposizioni, che infatti o si schierano contro le elezioni anticipate, come l’Udc, o le chiedono molto timidamente, come il Pd. Non Cl, certo, ma neppure le coop rosse. Non gli industriali o le banche, ma nemmeno i sindacati. Il fatto è che se la Tangentopoli di vent’anni fa era comunque qualcosa di razionale, una specie di escrescenza malavitosa di un’economia ancora sana, un «pizzo» carpito nel grasso della crescita produttiva, con la seconda Tangentopoli si è andati molto oltre. Qui il sistema delle tangenti ha creato ex novo un’economia virtuale che non ha alcun collegamento con il mercato e si fonda sul consumo del territorio. In altri termini, cemento, cemento e ancora cemento.

In vent’anni in Lombardia la popolazione è rimasta ferma, ma le aree urbanizzate sono cresciute del 20 per cento. I cantieri nascono come funghi. Regione e comuni concedono licenze per centinaia di milioni di metri cubi, sulla base di stime demografiche che farebbero ridere uno studente del primo anno di Sociologia. Con tutti gli scandali in corso, il comune di Sesto San Giovanni ha appena riavviato la pratica dell’ex area Falck, nell’ipotesi di una crescita della popolazione da 80 a 100 mila nei prossimi dieci anni. Ma Sesto non ha raggiunto i centomila abitanti neppure quando era la Stalingrado d’Italia, con fabbriche che occupavano decine di migliaia di operai. Perché dovrebbe crescere ora che sono tutte chiuse?

Malpensa è l’aeroporto più in crisi d’Europa, perde viaggiatori, merci, scali, compagnie, è l’hub di nessuno. La risposta? Il progetto di una terza pista, distruggendo mezzo Parco del Ticino. Un altro esempio, le autostrade. Con la benzina a due euro e l’industria dell’auto al disastro, un investimento geniale. Lo stesso Expo del 2015 è diventato un enigma. Il progetto originario di Stefano Boeri e Carlo Petrini, un Expo leggero ed ecologico, un grande orto permanente dell’agroalimentare, aveva un senso. Il nuovo progetto, l’ennesima fiera tecnologica, nasce vecchio, superato e un po’ ridicolo. Qui girano le tangenti. E i soldi dei risparmiatori che le banche, grandi e piccole, continuano a pompare nei gruppi immobiliari. Basta presentare un progetto qualsiasi. Perfino Danilo Coppola, il furbetto del quartierino finito in galera e poi in coma per tentato suicidio in carcere, condannato a sei anni per bancarotta fraudolenta, ha appena ottenuto dal Banco Popolare un finanziamento di 180 milioni per il progetto di Porta Vittoria. Roma ladrona gli aveva voltato le spalle, ha ricominciato da Milano.

Rito stanco o necessità? Ecco perché questa data può avere significato solo se evolve la società: dai diritti alle nuove regole contro lo stalking - Nonostante la vestissero di giallo, colore disimpegnato, era una ricorrenza "rossa" legata al movimento operaio - Il tema della violenza si accende in occasione di delitti atroci, ma poi sprofonda nel buio e l´interesse vive meno di un rametto di mimosa

Che odio, la mimosa: non profuma, avvizzisce in tempi record e dissemina pallini e pelucchi gialli dappertutto. Tanto è emozionante vederla fiorire sul suo albero come una macchia di luce nel paesaggio, tanto è triste trovarla intrappolata nel cellophane sui banchetti o nei vasi vicino alla cassa dei supermercati. Ridotta a un "brand", venduta per un giorno a prezzi irragionevoli, la mimosa rappresenta bene tutto ciò che nell´8 marzo è da buttare, dagli orpelli del marketing a quanto di rituale e di stantio, come ogni celebrazione, si porta dietro. E pensare che nel 1946 le rappresentanti romane dell´Unione Donne Italiane la scelsero quasi per caso, e soprattutto per risparmiare. Le rose, invocate insieme al pane nei cortei delle femministe americane a partire dal 1908, erano troppo costose; in cerca di un simbolo diverso dallo storico garofano rosso per caratterizzare in modo immediato la festa delle donne, si risolsero per questa fioritura di stagione, assai comune tra Roma e i Castelli: accessibile, allegra e a costo zero.

Nonostante la vestissero di giallo, colore politicamente disimpegnato, l´8 marzo era una festa decisamente "rossa", legata a doppio filo al movimento operaio. Dopo una prima edizione solo statunitense, la Festa della donna nacque ufficialmente nel 1910 a Copenhagen, con una mozione presentata da Clara Zetkin alla II Conferenza internazionale socialista: per promuovere la causa del voto alle donne e «l´intera questione femminile espressa dalla concezione socialista». Meno chiaro da dove esca la data dell´8 marzo. Nel saggio 8 marzo. Storie miti riti della giornata internazionale della donna, le studiose Tilde Capomazza e Marisa Ombra precisano che fu fissata solo nel 1921, alla seconda Conferenza delle donne comuniste di Mosca, in memoria della grande manifestazione delle operaie contro lo zarismo che si era svolta in quella data nel 1917. A partire dagli anni Cinquanta, tuttavia, si diffondono vulgate che "cancellano" la genesi moscovita, legando l´8 marzo al vivace movimento statunitense d´inizio secolo per i diritti delle lavoratrici, e in particolare – nella tradizione del "martirologio" (in palese analogia con il Primo Maggio, anniversario dei "martiri di Chicago") – al tragico incendio del marzo 1911 alla Triangle Shirt Waist Company di New York, in cui morirono orribilmente 146 operai, di cui ben 129 erano donne giovanissime: non poterono mettersi in salvo perché i padroni le tenevano chiuse a chiave nei capannoni per evitare che si allontanassero. L´incendio in realtà ebbe luogo a fine marzo, ma nella pubblicistica divenne il mito fondativo della giornata della donna: forse anche, suggeriscono Ombra e Capomazza, per attenuare i caratteri sovietici e comunisti della ricorrenza. Un dato è certo: l´8 marzo, comunque l´abbiano scelto, nasce come festa delle donne lavoratrici. Nei decenni ha perso gran parte di questo carattere "sindacale". Eppure, il lavoro femminile continua a essere un campo di abusi e sperequazioni. Se la mimosa si può tranquillamente cestinare, vale invece la pena di rinverdire questo spirito delle origini. Tanto più oggi: nel pieno

delle difficili trattative sulla riforma del lavoro, nel paese in cui, per la nostra vergogna, a un secolo esatto dall´incendio della fabbrica di camicie newyorkese, cinque donne sono morte nel crollo di un laboratorio di confezioni a Barletta, dove lavoravano in nero per 4 euro l´ora, ben venga un 8 marzo vintage, la cui agenda rimetta al centro la tutela delle lavoratrici. «Le nostre mimose sono progetti di legge», affermava la senatrice socialista Elena Marinucci nel 1980. A fine febbraio ha cominciato a circolare l´appello di 14 donne che chiedevano il ripristino della legge contro la piaga delle lettere di dimissioni in bianco di cui si abusa per licenziare le donne in caso di gravidanza, cancellata dall´ultimo governo Berlusconi: perché, per cominciare, come prima "mimosa di legge" non ci restituite la legge 188/2007?

A partire dagli anni Settanta, l´8 marzo si trasforma profondamente, ingloba le istanze del femminismo e smette di essere una festa solo di sinistra. Cresce, si allarga e, secondo alcune, si annacqua: arrivano le prime denunce dalle femministe più agguerrite che ne invocano l´abolizione. Parallelamente, nel 1975 la ricorrenza dell´8 marzo ottiene dalle Nazioni Unite la consacrazione ecumenica. Proprio un richiamo dell´Onu ci indica l´altro grande tema da porre in agenda per l´8 marzo: la violenza. Dopo una missione conoscitiva in Italia lo scorso gennaio, la relatrice speciale dell´Onu per la violenza contro le donne, Rashida Manjoo, ha espresso allarme per la pervasività della violenza domestica, quasi mai denunciata e spesso nemmeno percepita come reato, e la crescita dei femminicidi per mano del partner o di un ex dal partner o da un ex: dalle 101 donne uccise nel 2006 si sale alle 127 del 2010.

La nostra settimana della Festa della donna è cominciata con due episodi atroci: a Brescia un uomo ha ucciso la ex compagna, sua figlia e i rispettivi partner; un altro, nel veronese, ha strangolato la moglie perché sospettava lo tradisse. Il tema della violenza sulle donne si accende come un bengala in occasione di delitti atroci come questi e poi sprofonda nuovamente nel buio. L´interesse pubblico vive meno di un rametto di mimosa. Se la festa dell´8 marzo garantisce un giorno in più di attenzione a questa tragedia che si consuma nel silenzio, basta già questo a giustificare la sua sopravvivenza.

La base leghista, che anche ieri mandava messaggi di solidarietà al suo «grande» Davide Boni, è ancora pronta a giurare che il presidente del consiglio regionale lombardo sia «vittima di una campagna d'odio mediatico-politica». Ma le parole dei pubblici ministeri, con il condizionale d'obbligo, dicono invece che dalle indagini per il giro di tangenti che coinvolge Boni «emergerebbe un sistema Pdl-Lega». Sistema che lega l'inchiesta a carico dell'esponente del Carroccio a quella che portò all'arresto dell'altro membro dell'ufficio di presidenza del consiglio regionale lombardo, il pidiellino Franco Nicoli Cristiani.

In pratica secondo i pm Lega e Pdl, politicamente alleati, erano complici di un sistema illegale che dall'alto della giunta di Roberto Formigoni diramava i suoi tentacoli in tutto il territorio lombardo. Del resto non è l'iscrizione nel registro degli indagati di Boni a sancire la fine della «diversità dagli altri partiti» della Lega.

La storia del Carroccio è puntellata da episodi che, già da anni, dimostrano che la Lega, al netto delle parole urlate per acchiappare consensi, ha fatto proprie le ambizioni della vecchia politica: l'utilizzo spregiudicato dei posti di potere, sistematicamente occupati.

A Cassano d'Adda, il paese che con l'inchiesta sul suo Pgt ha fatto saltare il tappo, uno dei protagonisti della locale tangentopoli è Marco Paoletti, assessore leghista in paese e consigliere provinciale a Milano. In provincia di Brescia, a Castel Mella, lo scorso anno furono arrestati l'assessore leghista ai lavori pubblici e il capo dell'ufficio tecnico, a sua volta assessore del Carroccio nel vicino comune di Rodengo Saiano. I reati contestati riguardavano delle irregolarità nella concessione di permessi per la costruzione di centri commerciali. Perché è nel settore urbanistico e del territorio che il sistema agisce. Non è un caso che Boni è stato, nella precedente giunta regionale, assessore all'urbanistica, e che i reati che gli vengono contestati riguardano proprio quegli anni.

Come riguardano l'urbanistica altri avvenimenti che, anche se non hanno portato all'iscrizione nel registro degli indagati esponenti del Carroccio, dimostrano la loro complicità. Nella Brianza dei capannoni in due comuni simbolo come Desio e Giussano, gli esponenti locali del Carroccio furono convinti a non opporsi a mega progetti di centri commerciali voluti dal Pdl. A occuparsi di questo compito, il consigliere regionale Massimiliano Romeo, nominato nelle intercettazioni di Massimo Ponzoni, Pdl, anche lui ex assessore formigoniano, finito in manette qualche tempo fa, definito «quello che sta convincendo la Lega a dare il via libera al progetto». A Bolgarello, in provincia di Pavia, grande sponsor della costruzione di un mega centro commerciale è stato Angelo Ciocca, consigliere regionale lombardo. Anche in questo caso non indagato, ma nell'inchiesta «Infinito», quella sulla 'ndrangheta al Nord, ci sono intercettazioni che lo dipingono vicino al direttore dell'Asl pavese Chiriaco, a sua volta vicino ai boss della locale della ndrangheta. E ancora, a Monza, il sindaco leghista Marco Mariani proprio in questi giorni sta facendo fare un tour de force ai suoi consiglieri per approvare in tempi utili la variante del Pgt che permetterà la cementificazione di un'area verde del territorio comunale, la «Cascinazza». Guarda caso, di proprietà di società riconducibili, come scatole cinesi, a Paolo Berlusconi.

A tutto questo si aggiunga che due attuali assessori regionali leghisti, Monica Rizzi e Daniele Belotti, sono indagati per vari reati. Chissà se qualcuno definirà ancora la Lega partito anti-sistema.

Titolo originale: The best and worst places to be a woman – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Più di metà della popolazione mondiale svegliandosi giovedì mattina – è la 101a Giornata Internazionale della Donna – dovrà scegliere tra i festeggiamenti o la tristezza. Una donna inglese per esempio probabilmente dovrà aspettare almeno quattordici elezioni nazionali prima che alla Camera dei Comuni si arrivi al medesimo numero di rappresentanti maschi. Però in Quatar una donna ha sei volte di più la probabilità di studiare all’Università, rispetto al suo vicino di casa maschio. Il divario globale uomo-donna non si presta a definizioni semplici. Nell’85% dei paesi le condizioni femminili negli ultimo sei anni sono migliorate, ci dice il World Economic Forum, ma è ancora parecchia la strada da fare. E aggiunge un rapporto Oxfam: “Da Londra a Lahore permane la diseguaglianza fra uomo e donna. Il nostro giornale ha provato a verificare dove in vari modi è meglio esserlo, donna, oggi.



Il posto migliore in assoluto: l’Islanda

È l’Islanda ad avere il massimo livello di eguaglianza fra uomini e donne, fra politica, istruzione, occupazione e altri indicatori. Il Regno Unito è al sedicesimo posto, in discesa rispetto al 2010. Ultimo lo Yemen, e l’Afghanistan il più pericoloso.



Se fate politica: il Ruanda

Il Ruanda è l’unico paese in cui le donne sono maggioranza in parlamento. 45 su 80. La Gran Bretagna è quarantacinquesima, alle spalle del Pakistan e degli Emirati Arabi Uniti. Ma c’è anche di peggio: in Arabia Saudita, Yemen, Qatar, Oman e Belize, non c’è nessuna donna parlamentare.



Per diventare mamme: la Norvegia

Se siete una mamma dovete andare in Norvegia, bassissimo rischio di morte per parto – un caso ogni 7.600 – e servizi di altissimo livello per tutte. Il Regno Unito sta al tredicesimo posto. All’ultimo l’Afghanistan, dove una donna rischia di morire di parto 200 volte di più di quanto non rischi con bombe o proiettili vaganti.



Per imparare a leggere e scrivere: Lesotho

In Lesotho ci sono più donne alfabetizzate che uomini, 95% contro 83%. In questo caso la Gran Bretagna è ventunesima. Ultima l’Etiopia, dove sa leggere e scrivere il 18% delle donne, contro il 42% degli uomini.



Volete essere ai vertici dello Stato? Sri Lanka

Le donne governano lo Sri Lanka da 23 anni. Qui il Regno Unito sta al settimo posto, mentre esistono decine di paesi che non hanno mai avuto una donna alla massima responsabilità.



Per una donna che coltiva le arti: Svezia

Il Consiglio Svedese delle Arti promuove l’iniziativa delle pari opportunità nel settore. L’Istituto Cinematografico Svedese distribuisce in modo equo i finanziamenti fra uomini e donne, ci sono anche quote per la produzione. In Gran Bretagna le registe sono solo il 6%, e il 12% le sceneggiatrici.



Donne top manager: Thailandia

Si trova in Thailandia la percentuale massima di dirigenti donne, col 45%. Il Regno Unito è fuori dalle prime venti posizioni, col solo 23% nei ruoli di massima responsabilità. Ultimo il Giappone, con l’8%.



Per partorire: Grecia

Per partorire andate in Grecia, che è il posto in assoluto più sicuro del mondo: solo una morte ogni 31.800. Tredicesima la Gran Bretagna, ma all’ultimo posto sta lo stato più giovane del mondo, il Sud Sudan, dove esistono solo 20 levatrici in tutto il paese.



Per partecipare allo sviluppo economico: Bahamas

Partecipazione femminile all’economia e allo sviluppo stanno al primo posto nelle Bahamas. Il Regno Unito è solo trentatreesimo. Nelle Bahamas gli ultimi sei anni hanno visto ridursi il divario di genere del 91%, mentre nel paese ultimo di questa classifica, lo Yemen, la riduzione è stata solo del 32% nel medesimo periodo.



Se volete fare la giornalista: Caraibi

La regione dei Caraibi è l’area col più elevato tasso di presenza femminile nel giornalismo stampato, televisivo e radiofonico, con 45%. La peggiore è l’Africa, dove solo il 30% delle storie viene raccontato da donne. In Europa siamo al 35% in media, in Gran Bretagna nei quotidiani nazionali sono donne circa il 9% delle giornaliste.



Per il diritto di maternità responsabile: Svezia

In Svezia si può abortire senza alcuna restrizione o vincoli fino a diciotto settimane dall’inizio della gravidanza. Da questo punto di vista fra i paesi peggiori ci sono El Salvador, le Filippine e il Nicaragua, con l’interruzione di gravidanza completamente vietata. Per le donne britanniche l’aborto è possibile sino alle 24 settimane, con il consenso di due medici.



Per le lavoratrici: Burundi

Il Burundi nell’Africa sub-sahariana è al primo posto per la partecipazione femminile alla forza lavoro, l’unico paese in cui le donne superano gli uomini, 92% contro 88%. Il Regno Unito si colloca al 47° posto. All’ultimo il Pakistan, dove i lavoratori sono quattro volte le lavoratrici.



Volete guadagnare? Lussemburgo

Il Lussemburgo fa a gara con la Norvegia per la prima posizione in termini di reddito femminile stimato. Lì con un tetto di 40.000 dollari uomini e donne guadagnano uguale. Gran Bretagna ventitreesima, e in coda l’Arabia Saudita, dove le donne guadagnano 7.157 dollari contro i 36.727 degli uomini.



Per andare all’università: Qatar

In Qatar ci sono sei donne iscritte ai corsi di terzo livello per ogni uomo. Resta il dubbio sulla possibilità che questo investimento in istruzione possa condurre poi a una maggiore integrazione economica. Il Regno Unito è al trentottesimo posto, ultimo il Ciad, dove gli iscritti maschi sono il triplo delle iscritte.



Per vivere più a lungo: Giappone

Le donne in Giappone possono aspettarsi di vivere più a lungo degli uomini, in media 87 anni contro 80. In coda il Lesotho con un’aspettativa di soli 48 anni, ma lì neppure gli uomini fanno molto meglio, on soli due anni in più. In Gran Bretagna l’aspettativa di vita ha raggiunto il suo massimo a 78 anni per i maschi e 82 per le donne. Col divario inferiore nell’Unione Europea.



Molto tempo libero: Danimarca

Le donne in Danimarca hanno molto tempo per sé, e sono obbligate a svolgere quotidianamente solo 57 minuti di lavoro non pagato più degli uomini, il caso migliore dell’Ocse. Le donne britanniche hanno due ore occupate più dei loro colleghi maschi. Va ancora peggio per le messicane, con quattro ore e venti minuti di lavoro non pagato più degli uomini.



Se siete un’atleta: Stati Uniti

Cinque delle più pagate dieci professioniste dello sport nel 2011 erano statunitensi. Il paese che si classifica peggio, l’Arabia Saudita, non ha mai mandato una donna alle Olimpiadi e proibisce le pratiche sportive femminili nelle scuole pubbliche. Le donne britanniche coprono solo lo 0,5% del mercato delle sponsorizzazioni sportive fra gennaio 2010 e agosto 2011.



Per lasciare il marito: Guam

L’isola di Guam in Micronesia ha il più elevato tasso di divorzi del mondo, il Guatemala il minimo. In Inghilterra e Galles fra il 2009 e il 2010 c’è stato un incremento del 4,9%.



Per guidare l’automobile: India

Nuova Delhi è il posto migliore per la donna che volesse irrompere nel mondo ancora prevalentemente maschile dei tassi. Una Ong della capitale indiana promuove una iniziativa di formazione per radiotaxi esclusivamente femminili. Il peggior paese del mondo per guidare è l’Arabia Saudita, l’unico dove alle donne sia vietato.



Se cercate un lavoro altamente qualificato: Giamaica

In Giamaico c’è la più alta percentuale di donne che occupano posizioni lavorative di alta specializzazione, come rappresentanza politica, funzionarie dirigenti pubbliche e private. Sul totale degli impieghi di questo tipo il 60% è coperto da donne. La Gran Bretagna si classifica al trentacinquesimo posto nel panorama globale, lo Yemen all’ultimo: lì le donne con lavori altamente qualificati sono solo il 2%.



CASI



“Ci occupiamo soprattutto di madri e figli”

Kristbjorg Magnusdottir, 42anni, levatrice islandese, abita nel miglior posto del mondo per essere donna. Ha quattro figli, da tre a sedici anni,e si ritiene fortunate di essere nata in un paese che sostiene l’indipendenza femminile e il lavoro delle donne

“Ci sono molte occasioni: fino a vent’anni la scuola pubblica gratuita, un ottimo sistema sanitario e per mamme e figli. Soprattutto c’è una solida etica del lavoro. Parecchie le mamme single lavoratrici, molto inserite e rispettate dalla comunità”.



“Sono parlamentare, qui siamo la maggioranza”

Connie Bwiza Sekamana, 33 anni, parlamentare in Ruanda, l’unico paese del mondo dove le donne sono la maggioranza delle elette. Quando ha cominciato a fare politica erano solo il 12%, ma grazie anche alle sue lotte è stato introdotto un minimo del 30 di donne nella costituzione approvata dopo il genocidio

“Mi sentivo investita di un compito particolare: dare voce alle donne che erano state particolarmente vittime del genocidio. Qui è il luogo dove si approvano le leggi, e le donne sono molto istruite. Possiamo sollevare questioni che le riguardano, a avere ascolto tanto quanto gli uomini”.



“Ci sono ancora troppe donne che muoiono inutilmente di parto”

Joy Kenyi, 38, anni quattro figli, vive in Sud Sudan, paese più giovane del mondo e anche quello dove è più rischioso partorire. La signora Kenyi lavora con l’ Unicef ed è specializzata nella maternità. Dopo aver sperimentato un primo parto traumatico, ha contribuito a un progetto di moto-ambulanze che possano trasportare le donne in centri di assistenza

“Vediamo donne che muoiono senza motivo nel corso di una gravidanza, 16 al giorno. L’80% dei parti avviene in casa. Oggi abbiamo 75 moto che possono trasportare le donne con qualche complicazione presso le strutture. Se in tanti paesi non si muore di parto, perché dovrebbe succedere in Sud Sudan?”



“Più donne ai vertici”

Zoë van Zwanenberg, 59 anni, di Dunbar, East Lothian, è l’unica donna che dirige un ente nazionale nel settore artistico. Presidente del Balletto Scozzese da sette anni, giudica “sorprendente” che siano così poche le colleghe al vertice di enti simili del Regno Unito, a prendere le massime decisioni

“Le persone che presiedono dovrebbero avere una grande esperienza nel settore, ma poi sono relativamente poche le donne importanti. I criteri usati dovrebbero essere relativi solo alla capacità di essere decise, pronte a scelte anche difficili, pronte a combattere, ma in realtà non avviene così”



“Oggi abbiamo un’istruzione migliore”

Mamokete Sebatane, 65 anni, è un’insegnante con problemi visivi del Lesotho, l’unico paese nell’Africa sub-sahariana che ha risolto il divario di genere riguardo all’alfabetizzazione. In quarant’anni di esperienza la signora Sebatane ha dovuto superare una doppia discriminazione, quella di essere donna e di avere problemi con la vista

“I genitori preferivano mandare i figli a studiare invece che le figlie, dovendo pagare la scuola. Adesso l’istruzione dell’obbligo è gratuita. Studiano più bambine e diventano più indipendenti e fiduciose. Ne sono molto fiera”



“Per una rete di donne nel mondo”

Noorjahan Akbar, 21 anni, divide il proprio tempo fra l’Afghanistan, il luogo più pericoloso per una donna, e gli Stati Uniti dove lavora. La Akbarè co-fondatrice di Young Women for Change, associazione per l’eguaglianza di genere. L’anno scorso ha organizzato la prima manifestazione contro le molestie sessuali sulle donne Afghane

“Ogni volta che torno in Afghanistan resto sconvolta. Mi molestano quattro o cinque volte al giorno, anche per strada; ed è la realtà quotidiana delle donne afghane. Ma non mi arrendo, non rinuncio, per me e per tutte le altre, che si meritano di meglio. Voglio creare un internet café femminile a Kabul, dove possano incontrare donne da tutto il mondo”

Adriano Sofri (La Repubblica del 3 marzo) solleva una questione che va al di là del caso Tav. Riflette su chi debba decidere in casi come questo. Ma la tesi secondo cui serve fare valere l'opinione locale attraverso qualcosa di simile a una consultazione referendaria ha il suo pericoloso rovescio. Rischia, senza precisazioni, di dare argomenti a chi non ha a cuore il bene comune: a chi fa speculazione sul paesaggio e ha fondate ragioni per preferire che sia assegnata l'esclusiva del governo del territorio a chi lo abita.

Agli abitanti della Val di Susa mi sento vicinissimo. Non solo giudico le loro ragioni fondate, ma penso che con un po' più di tempo potrebbero convincere tanti altri che non stanno da quelle parti. Sono anche portato a credere che un sondaggio tra i residenti avrebbe possibilità di sconfiggere la Tav (non ricordo che un referendum in loco sia stato evocato dai contrari al ponte tra Scilla e Cariddi).

Devo insomma notare, ed è questo il punto, che ci sono intollerabili trasformazioni di luoghi bellissimi che si compiono con il gradimento pressoché totale e decisivo delle popolazioni residenti. Si pensi al solido consenso di cui godono localmente i villaggi turistici che passano per fortunate occasioni di crescita economica (ignobili speculazioni nella maggior parte dei casi, vantaggio di pochissimi e a discapito di risorse naturali e delle generazioni future).

Lo constatiamo da tempo in Sardegna. Da mezzo secolo il territorio dell'isola è eroso soprattutto per scelte dei comuni, a volte di comuni molto piccoli che rivendicano il diritto a scegliere in casa loro e che non sopportano le intromissioni. Non sono mancate manifestazioni per CostaSmeralda2 con il sindaco in testa al corteo. Così chilometri e chilometri di coste e campagne sono stati compromessi per il deliberato di amministratori eletti da qualche centinaio di persone. Troppo pochi, si converrà, rispetto al valore di beni che appartengono ad una comunità assai più vasta.

Le case al mare non hanno l'impatto duro di una discarica o di una montagna che ti si spacca sotto gli occhi. Il danno è subdolo e progressivo, avvertito oltre una certa soglia, quando è irreversibile. L'Italia brutta e inquinata e dissestata è soprattutto il prodotto di questo consenso locale (vogliamo considerare le complicità, luogo per luogo, data a schiere di abusivi?)

Il dibattito sul piano paesaggistico ha evidenziato in Sardegna molte contrarietà perché sottrae potere decisionale ai comuni su beni appartenenti a un più ampio sodalizio. Ecco, la necessità richiamata da Sofri di conoscere il parere dei valligiani («un elemento in più, e non dei minori, per regolarsi»), ha una sua logica. Ma senza il pregiudizio in agguato che lo sguardo da vicino sia quello più utile a capire. Perché sempre di più abbiamo bisogno di sguardi da diversa distanza: solo attenzioni molteplici e concorrenti ci possono aiutare nella battaglia per la difesa di ciò che resta del paesaggio italiano.

La Fiom lancia la giornata di venerdì. In ballo la difesa dei diritti violati, un modello di sviluppo non energivoro e l'agibilità democratica in Italia In piazza ci saranno anche studenti, precari, pensionati. E la Valsusa, perché il sindacato è da sempre anti-Tav

La Fiom ha scritto a tutti i parlamentari ed europarlamentari italiani invitandoli a partecipare alla manifestazione del 9 Marzo sulla base della denuncia di una palese violazione dei diritti costituzionali attuata ai danni dei lavoratori metalmeccanici messa in atto, innanzitutto, dalla Fiat. Se il Gotha del Partito democratico ha deciso di non partecipare, vuol dire che non riconosce o più semplicemente accetta questa violazione. Per carità, non è cosi, precisa il gruppo dirigente del partito: il Pd dà forfait perché sul palco della Fiom ci saranno rappresentanti del movimento No Tav. I quali, com'è noto, sono politicamente sieropositivi.

Casualmente, chi prenderà la parola per spiegare le ragioni del valsusini sarà il presidente della Comunità montana, addirittura iscritto al Pd. Questo è quanto ha precisato Maurizio Landini ai giornalisti, aggiungendo che l'opposizione della Fiom al Tav, al Ponte sullo stretto, al nucleare è di antica data, convinta e condivisa nell'organizzazione. Un'opposizione motivata dalla necessità di investire fondi pubblici e privati per attivare lavoro finalizzato a costruire un diverso modello di sviluppo, socialmente e ambientalmente compatibile, non energivoro. Punto.

Venerdì i metalmeccanici si riprenderanno le strade e le piazze del centro di Roma con un unico, grandissimo corteo. Con loro ci saranno gli studenti che chiedono una scuola pubblica e un lavoro, i precari che chiedono stabilità e un reddito di cittadinanza, ambientalisti, intellettuali che difendono la cultura, operatori di un'informazione sempre più monopolizzata che invece difendono la pluralità. Ci saranno pensionati e lavoratori di tutte le categorie Cgil che non sono disposti a veder manomesso l'articolo 18. Tutte persone che sanno che l'attacco ai metalmeccanici, se non sarà fermato, sarà un apripista per ridurre l'agibilità democratica di tutti i cittadini.

Se è vero, come tutti i sondaggisti ci spiegano, che intorno al governo Monti c'è un consenso grandissimo nel paese, la stessa cosa dovrebbe valere in casa metalmeccanica, incalza un giornalista. Sbagliato, risponde il segretario della Fiom, raccontando come in tutte le assemblee operaie le critiche alle politiche governative si moltiplichino. Vogliamo parlare di pensioni? Uno schiaffo a chi ha lavorato una vita e non gli basta ancora, uno sberleffo ai giovani che vedono sempre più distante la possibilità di uscire da una condizione di precari o peggio disoccupati. Vogliamo parlare di art. 18 e della libertà di licenziamento, in nome dei giovani naturalmente? Vogliamo parlare della crescita delle diseguaglianze sociali, della sterilizzazione del testo unico di sicurezza?

Insomma. Dice Landini, la Fiom è stata con la Cgil l'unica organizzazione sindacale che si è battuta contro il governo Berlusconi, «e lo rivendichiamo». Ciò non impedisce agli operai metalmeccanici di giudicare e criticare il governo dei tecnici con la stessa libertà e autonomia esercitate ai tempi di Berlusconi o di Prodi. Insomma, la manifestazione di venerdì si annuncia quanto mai pepata e potrebbe diventare un punto di riferimento per i soggetti più colpiti dalla crisi.

Dal palco di piazza San Giovanni parleranno gli operai dei grandi gruppi, alternati da interventi di intellettuali, attori, rappresentanti dei movimenti e dell'associazionismo, dei beni comuni. È la democrazia il tema che unisce. Si parlerà molto dell'assassinio della democrazia in atto alla Fiat, naturalmente, di diritti e contratti negati. Si chiederà al governo, direttamente al presidente Monti, di convocare Marchionne e impegnarsi a impedire la fuga dell'auto dall'Italia.

Serve un piano straordinario per un'occupazione pulita e compatibile con i diritti dei lavoratori e dell'ambiente, insiste Landini. A questo scopo devono essere attivati investimenti pubblici e privati. L'Italia ha bisogno di tutto, tranne delle grandi opere inutili e dannose. Oltre settecento pullman arriveranno a Roma, i treni sono interdetti alla Fiom come a chiunque non faccia parte della minoranza della popolazione che si sta accaparrando tutta la ricchezza. Un ex segretario della Cgil trasporti è diventato lo strumento per distruggere un servizio pubblico, mettendo la pietra tombale su una storia di mezzo secolo di treni speciali «democratici». Prezzo pieno, oppure tutti a piedi, o in pullman. Gli affari sono affari, la democrazia non è più compatibile con il mercato.

Ma il 9 Marzo non ci sarà solo una grande manifestazione, ci sarà lo sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici. Uno sforzo straordinario per chi ha ancora un lavoro, sia pure precario, sottopagato, a rischio. Uno sforzo, quello delle tute blu, un atto di generosità nei confronti di noi tutti.

Siamo in provincia di Monza, nel cuore di quella Brianza che con l'hinterland napoletano è il territorio più urbanizzato d'Italia. E che ha rischiato di "mangiarsi" tutto il terreno agricolo con un Pgt ispirato dalla criminalità organizzata. Finché un'inchiesta ha travolto giunta e consiglio comunaliA Desio, provincia di Monza, cuore di quella Brianza che dopo l'hinterland napoletano è il territorio più urbanizzato in Italia, hanno imparato che cosa vuol dire avere la 'ndrangheta che fa l'urbanista. E ora provano a cambiare strada. E a fermare il consumo di suolo che qui si è mangiato quasi il 70 per cento dello spazio (secondo una proiezione, se si continuasse a costruire a questi ritmi, nel 2080 non ci sarebbe più un centimetro quadrato per l'agricoltura). E a bloccare l'abusivismo edilizio, che ha raggiunto livelli da regioni meridionali - oltre 700 le domande di condono (sono 900 a Monza che ha tre volte gli abitanti di Desio), più di 100 le ordinanze di demolizione. E soprattutto a impedire che la regia neanche tanto occulta dell'urbanistica cittadina resti nelle mani delle cosche o comunque preda della più sfacciata corruzione, così come hanno accertato due inchieste della magistratura, l'operazione Infinito sulla penetrazione della 'ndrangheta in Lombardia (luglio 2010) e quella che alcune settimane fa ha mandato in galera o ai domiciliari l'ex assessore regionale Massimo Ponzoni (Pdl), il vicepresidente della giunta provinciale di Monza, Antonino Brambilla, e Rosario Perri, capo dell'Ufficio tecnico del comune di Desio e poi anche lui assessore alla Provincia brianzola (entrambi del Pdl).

Ci sta provando a invertire la rotta un ingegnere di quarant'anni, Roberto Corti, da maggio scorso sindaco Pd di Desio, dopo che il consiglio comunale venne sciolto travolto dall'inchiesta contro le cosche insediate in Lombardia condotta da Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone (centodieci le condanne a oltre mille anni di carcere). Saltano centri commerciali e insediamenti industriali, interi quartieri di palazzine e villette vengono cancellati. Svaniscono centinaia di migliaia di metri cubi di cemento che già fruttavano, a chi aveva ottenuto l'edificabilità, decine di milioni di euro.

Desio, 40mila abitanti, è il primo comune della Lombardia la cui giunta si sia dimessa perché investita da un ciclone antimafia. La 'ndrangheta era saldamente installata in città, hanno accertato i giudici, e controllava consiglieri, assessori e dirigenti comunali. E soprattutto dettava le regole di una crescita edilizia smodata, dissipatoria, all'insegna dello spreco di suolo agricolo, che ora, appena usciti dall'abitato, è invaso da una enorme quantità di lottizzazioni, di recinzioni, piccole e grandi ulcerazioni di un paesaggio puntellato da sfasciacarrozze, laminatoi, depositi di laterizi, stabilimenti in abbandono, discariche e attraversato da strade sterrate sulle quali si affacciano minacciose telecamere a circuito chiuso. La conferma che il territorio fosse solo un'occasione per accumulare rendite è venuta da una costola dell'inchiesta milanese e reggina, stavolta guidata dalla Procura di Monza che, con l'arresto di Ponzoni (brillante recordman di preferenze, astro nascente del Pdl lombardo), ha rivelato come dietro tutte le più recenti operazioni immobiliari di Desio vi fosse corruzione: tu mi paghi e io ti regalo edificabilità, cambi di destinazione d'uso, ti consento di saccheggiare come credi quel che resta del suolo agricolo e ti faccio anche uno sconto sugli oneri che dovresti versare al comune. Ponzoni, Brambilla e Perri incassavano tangenti o altre utilità - questa l'accusa dei magistrati - e lasciavano mano libera a chi squassava un territorio già martoriato.

Il Pgt della città (il Piano di governo del territorio, che ha preso il posto del vecchio Piano regolatore) era il catasto in cui si riversavano tutte queste operazioni. Così sostiene la magistratura inquirente che, pur non rilevando estremi penali, censura con asprezza gli autori di quel documento, redatto sotto l'egida del Politecnico di Milano: i professori Maria Cristina Treu e Carlo Peraboni. Appena insediato, dopo aver battuto al ballottaggio il candidato leghista, e prima ancora che i giudici svelassero la corruzione dell'urbanistica, Corti ha chiamato un altro professore del Politecnico milanese, Arturo Lanzani, poco più che cinquantenne e con una vasta bibliografia sui temi della "città diffusa" e del paesaggio, e gli ha chiesto di affiancare le strutture comunali, nel frattempo bonificate (al posto di Perri, finito ai domiciliari, è arrivato Luigi Fregoni, che vantava l'esperienza in un altro comune lombardo inquinato dalla 'ndrangheta, Buccinasco), per scrivere un nuovo Pgt. Regista politico dell'operazione è Daniele Cassanmagnago, architetto, di Sinistra ecologia e libertà.

Il nuovo Pgt prende forma in questi giorni. Ma una prima variante ha già annullato gran parte delle previsioni edificatorie. Lanzani, che lavora con il Comune senza alcun compenso, Fregoni e Cassanmagnago hanno disegnato sulla mappa di Desio un perimetro rosso oltre il quale la città non deve andare: sono cancellati il 10 per cento di superficie urbanizzata prevista dal vecchio Pgt, oltre un milione quattrocentomila metri quadrati che già qualcuno sognava coperti di cemento. Stando ai calcoli compiuti dai consulenti della Procura di Monza, i terreni di quattro Atr, cioè aree di trasformazione, valevano 8 milioni 660 mila euro prima del Pgt, ma schizzavano a 62 milioni 270 mila euro dopo l'approvazione del Pgt. Tutte plusvalenze sfumate, garantite non dal costruito, ma dalla semplice concessione (comperata) di edificabilità. Annullato il centro commerciale Pam, l'ennesimo nel giro di pochi chilometri, oltre 100mila metri quadrati di superficie, contro il quale si era espressa anche la Provincia di Milano (allora quella di Monza non era ancora istituita). Annullata una lottizzazione per 45mila metri cubi (case, strutture commerciali e industriali) in una delle zone più pregiate di Desio, di fronte a un edificio seicentesco, la Cascina San Giuseppe, e a Villa Buttafava, tipica residenza brianzola fra XVII e XVIII secolo. Annullati altri insediamenti più piccoli, tutti disposti "a morbillo", dice Lanzani, in piena zona agricola.

Quella adottata da Corti è una scelta in controtendenza. I comuni sono assetati di oneri derivanti dalle concessioni edilizie. Anche se cominciano a essere numerosi i sindaci che si impegnano per la "crescita zero" (ne è un esempio Domenico Finiguerra, primo cittadino di Cassinetta di Lugagnano, a sud di Milano). A Desio il contesto criminale rilevato dall'inchiesta di Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone e confermato dall'ordinanza di custodia cautelare di Monza rende tutto più delicato e rischioso. "Paura? E perché dovrei?", replica Corti. "In tanti mi chiedono se ho la scorta, ma il problema non investe il singolo, è tutta l'amministrazione che si muove in questa direzione. E poi le forze dell'ordine vigilano con efficienza. Il prefetto è molto sensibile".

Qui si racconta, però, la grande influenza di cui godeva Perri, "da collegare altresì ai suoi rapporti con esponenti della cosca di 'ndrangheta di Desio". Perri, inoltre, aveva anche nascosto, arrotolati nei tubi dell'acqua di casa, circa 600mila euro. Su Ponzoni alle elezioni regionali del 2005 confluiscono i voti veicolati dalla 'ndrangheta, annotano i magistrati, ed è lo stesso consigliere e poi assessore all'Ambiente nella giunta Formigoni, ad ammetterlo in una telefonata intercettata. E ancora un paio di mesi fa un cinquantenne con qualche precedente penale è stato ucciso nella sua azienda di rottamazione. Aveva anche una sfarzosa villa abusiva. "Qui la 'ndrangheta mi sembra che si comporti come gli animali colpiti che si leccano le ferite. Forse tornerà a farsi sentire per le prossime elezioni, ma sullo stop al consumo di suolo noi non arretriamo", dice Corti.

Vince la Italcementi, perdono i comitati di cittadini. E vince l'Ente Parco dei Colli Euganei, schierato con i cementieri contro gli ambientalisti. Il Consiglio di Stato, ribaltando la sentenza del Tar, ha benedetto il nuovo progetto del cementificio di Monselice, nel cuore del Parco dei Colli Euganei, in Veneto. E lo ha fatto con una motivazione originale e destinata a far discutere: il cementificio migliora il paesaggio e la ciminiera alta 89 metri non è un pugno negli occhi - come sostengono gli oppositori - ma un pregevole elemento architettonico.

Scrivono i giudici: "il progetto comporta modifiche positive sotto il profilo paesaggistico (...); adotta soluzioni volte a mitigarne la percezione delle sagome (...), idonee a ridurne l’impatto visivo; realizza un elemento verticale – la discussa torre di 89 metri – il cui sviluppo si accompagna a una qualità architettonica apprezzabile, in linea con le tendenze dell’architettura contemporanea che attribuiscono alle strutture verticali ad elevato contenuto tecnologico la funzione di riqualificare i siti nei luoghi deteriorati (...)".

Prima dell'istituzione del Parco, quarant'anni fa i Colli Euganei erano "colline senza pace": una groviera di cave (un'ottantina) e tre cementifici. La salvezza dei Colli, chiesta dal comitato locale, diventò un caso nazionale grazie agli articoli di denuncia di Paolo Monelli sul "Corriere della Sera" e di Gigi Ghirotti su "La Stampa". La legge del 1971 ha messo all'indice le cave (oggi ne restano solo cinque). E i cementifici? Secondo gli ambientalisti vanno ritenuti "incompatibili con le finalità del Parco" e dismessi, ma la chiusura non è mai stata decisa e quindi continuano a operare. Tanto che la Italcementi, quinto produttore mondiale, ha presentato un progetto di "revamping" (ristrutturazione) dell'impianto di Monselice, con nuove tecnologie e un grande camino in mezzo ai pendii che ispirarono poeti e pittori.

E qui sta il punto: il cementificio rinnovato non si può fare perché è una nuova costruzione e il Parco non lo consente, sostengono ambientalisti e Tar. Si può fare, spiegano Italcementi ed enti locali, perché il progetto "modifica sostanzialmente" il cementificio esistente ma non ne fa nascere uno nuovo. Anzi migliora la situazione anche dal punto di vista ambientale. Questa tesi è stata accolta dal Consiglio di Stato.

Questione chiusa? I comitati non mollano e studiano la prossima mossa. La Italcementi li ha anche citati in tribunale chiedendo un risarcimento danni di 200 mila euro. Dunque la guerra continua. E i Colli Euganei si riscoprono ancora "senza pace".

Quello in atto in Valle di Susa è un autentico «scontro di civiltà»: la manifestazione di due modi contrapposti e paradigmatici di concepire e di vivere i rapporti sociali, le relazioni con il territorio, l'attività economica, la cultura, il diritto, la politica. Per questo esso suscita tanta violenza da parte dello stato - inaudita, per un contesto che ufficialmente non è in guerra - e tanta determinazione - inattesa, per chi non ne comprende la dinamica - da parte di un'intera comunità. Quale che sia l'esito, a breve e sul lungo periodo, di questo confronto impari, è bene che tutte le persone di buona volontà si rendano conto della posta in gioco: può essere di grande aiuto per gli abitanti della Valle di Susa; ma soprattutto di grande aiuto per le battaglie di tutti noi.

Da una parte c'è una comunità, che non è certo il retaggio di un passato remoto, che si è andata consolidando nel corso di 23 anni di contrapposizione a un progetto distruttivo e insensato, dopo aver subito e sperimentato per i precedenti 10 anni gli effetti devastanti di un'altra Grande Opera: l'A32 Torino-Bardonecchia.

Gli ingredienti di questo nuovo modo di fare comunità sono molti. Innanzitutto la trasparenza, cioè l'informazione: puntuale, tempestiva, diffusa e soprattutto non menzognera, sulle caratteristiche del progetto. Un'informazione che non ha mai nascosto né distorto le tesi contrarie, ma anzi le ha divulgate (a differenza dei sostenitori del Tav), supportata da robuste analisi tecniche ed economiche: gli esperti firmatari di un appello al governo Monti perché receda dalle decisioni sul Tav Torino-Lione sono più di 360; significativo il fatto che un Governo di cosiddetti «tecnici» il parere dei tecnici veri non lo voglia neppure ascoltare. Poi c'è stata un'opera capillare di divulgazione con il passaparola - forse il più potente ed efficace degli strumenti di informazione - ma anche con scritti, col web (i siti del movimento sono molti e sempre aggiornati) e col sostegno di alcune radio; ma senza mai avere accesso - in 23 anni! - alla stampa e alle tv nazionali, se non per esserne denigrati.

Secondo, il confronto: il movimento non ha mai esitato a misurarsi con le tesi avverse: nei dibattiti pubblici - quando è stato possibile - nelle istituzioni; nelle campagne elettorali; nelle amministrazioni; nel finto «Osservatorio» messo in piedi dal precedente governo e diretto dall'architetto Virano, che non ha mai avuto il mandato di mettere in discussione l'opera ma solo quella di imporne comunque la realizzazione. Strana concezione della mediazione! La stessa del ministro Cancellieri: «Discutiamo; ma il progetto va comunque avanti». E di che si discute, allora? Grottesca poi - ma è solo l'ultimo episodio della serie - è la fuga congiunta da incontro con una delegazione del parlamento europeo del sindaco di Torino e dei presidenti di provincia e regione Piemonte il 10 febbraio scorso. Ma ne risentiremo parlare.

Il terzo elemento è il conflitto: non avrebbe mai raggiunto una simile dimensione e determinazione se l'informazione non avesse avuto tanta profondità e diffusione. Ma sono le dure prove a cui è stata sottoposta la popolazione ad aver cementato tra tutti i membri della cittadinanza attiva della valle rapporti di fiducia reciproca così stretti e solidi.

Il quarto elemento è l'organizzazione, strumento fondamentale della partecipazione popolare: i presìdi, numerosi, sempre attivi e frequentati, nonostante le molteplici distruzioni di origine sia poliziesca che malavitosa; le frequenti manifestazioni; i blocchi stradali; le centinaia di dibattiti (non solo sul Tav; anzi, sempre di più su problemi di attualità politica e culturale nazionale e globale) che vedono sale affollate in paesi e cittadine di poche centinaia o poche migliaia di abitanti; la presentazione e il successo di molte liste civiche; la rete fittissima di contatti personali nella valle; il sostegno che il movimento ha saputo raccogliere e promuovere su tutto il territorio nazionale: Fiom, centri sociali, rete dei Comuni per i beni comuni, movimento degli studenti, associazioni civiche e ambientaliste, mondo della cultura, forze politiche (ma solo quelle extraparlamentari); ecc.

La scorsa estate si è svolto a Bussoleno il primo convegno internazionale dei movimenti che si oppongono alle Grandi Opere, con la partecipazione di una decina di organizzazioni europee impegnate in battaglie analoghe: un momento di elaborazione sul ruolo di questi progetti nel funzionamento del capitalismo odierno e un contributo sostanziale alla comprensione del presente. Infine quel processo ha restituito peso e ruolo a un sentimento sociale (o «morale», come avrebbe detto Adam Smith) che è il cemento di ogni prospettiva di cambiamento: l'amore; per il proprio territorio, per i propri vicini, per il paese tutto; per i propri compagni di lotta e la propria storia; per le trasformazioni che questa lotta ha indotto in tutti e in ciascuno; persino per i propri avversari, anche i più violenti. Non a caso Marco Bruno, il manifestante NoTav messo alla berlina da stampa e televisioni nazionali per il dileggio di cui ha fatto oggetto un carabiniere in assetto di guerra (ma, come è ovvio, lo ha fatto per farlo riflettere sul ruolo odioso che lo Stato italiano gli ha assegnato) ha concluso il suo monologo con questa frase, registrata ma censurata: «comunque vi vogliamo bene lo stesso».

E i risultati? Rispetto all'obiettivo di bloccare quel progetto assurdo, zero. O, meglio, il ritardo di vent'anni (per ora) del suo avvio. Ma quella lotta ha prodotto e diffuso tra tutti gli abitanti della valle saperi importanti; un processo di acculturazione (basta sentire con quanta proprietà e capacità di affrontare questioni complesse si esprimono; e poi metterla a confronto con i vaniloqui dei politici e degli esperti che frequentano i talkshow); una riflessione collettiva sulle ragioni del proprio agire. Ha creato uno spazio pubblico di socialità e di confronto in ogni comune della valle. Ha permesso di rivitalizzare una parte importante delle proprie tradizioni. Ha unito giovani, adulti, anziani e bambini, donne - soprattutto - e uomini in attività condivise che non hanno uguale nelle società di oggi. Ha allargato gli orizzonti di tutti sul paese, sul mondo, sulla politica, sull'economia (altro che «nimby»! Il «Grande Cortile» della Valle di Susa ha spalancato porte e finestre sul mondo e sul futuro di tutti). Ha creato e consolidato una rete di collegamenti formidabile. Ha ridato senso alla politica, all'autogoverno, alla partecipazione: per lo meno a livello locale. Ha aiutato tutti a sentirsi più autonomi, più sicuri di sé, più cittadini di una società da rifondare. Infine, e non avrebbe potuto accadere che in un contesto come questo, ha messo in moto un movimento di gestione etica e ambientale delle imprese, riunite in un'associazione, «Etinomia», che conta in valle già 140 adesioni, e che rappresenta la dimostrazione pratica di come la riconquista di spazi pubblici autogestiti sia la condizione di un'autentica conversione ecologica.

E dall'altra parte? Schierati contro il movimento NoTav ci sono la cultura, l'economia, la metafisica e la violenza delle Grandi Opere: la forma di organizzazione più matura raggiunta (finora) del capitalismo finanziario: la «fabbrica» che non c'è più, divisa in strati e dispersa in miriadi di frantumi. Le caratteristiche di questo modello sociale, che ritroviamo tutte nel progetto Torino-Lione, sono state esemplarmente enucleate da Ivan Cicconi ne Il Libro nero dell'alta velocità (Koiné; 2011) e qui mi limito a richiamarle per sommi capi. La «Grande Opera» è innanzitutto un intervento completamente slegato dal territorio su cui insiste, indifferente alle sue sorti prima, durante e soprattutto dopo la fine dei lavori, quando, compiuti o incompiuti che siano, li abbandona lasciando dietro di sé il disastro. Non è importante che sia utile o redditizia. Col Tav Milano-Torino dovevano correre, su una linea dedicata ed esclusiva, 120 coppie di treni al giorno; ne passano 9: quasi sempre vuoti. L'importante è che la «Grande Opera» si faccia e che alla fine lo stato paghi. E' una grande consumatrice di risorse a perdere: suolo, materiali, energia, denaro (ma non di lavoro, comunque temporaneo e per lo più precario, che a lavori conclusi viene abbandonato a se stesso insieme al territorio). Per questo ha bisogno di grandi società di gestione e di grandi finanziamenti, cioè del coinvolgimento diretto di banche e alta finanza (il ministro Corrado Passera ne sa qualcosa); non per assumersi l'onere della spesa, ma solo per fare da schermo temporaneo a un finanziamento che alla fine ricadrà sul bilancio pubblico E' il modello del project financing , l'apogeo dell'economia finanziaria che ci ha portato alla crisi, inaugurato trent'anni fa dall'Eurotunnel sotto la Manica. Quanto al Tav, le tratte Torino-Milano-Roma-Salerno dovevano essere finanziate almeno per metà dai privati; il loro costo, lievitato nel corso del tempo da 6 a 51 miliardi di euro (ma molti costi sono ancora sommersi e, una volta completate le tratte in progetto, supereranno i 100 miliardi) è stato interamente messo a carico dello Stato (cioè del debito pubblico). Ma per il Tav in Valle di Susa non si parla più di project financing : la fretta è tale che si dà inizio ai lavori senza sapere dove prendere i soldi. Si aspettano quelli dell'UE, che forse non verranno mai, spacciando questa attesa per un impegno «imposto dall'Europa».

Ma perché quei costi sono quattro volte quelli di tratte equivalenti in Francia o in Spagna? E' il «Grande Segreto» delle nostre «Grandi Opere»: il subappalto. Le Ferrovie dello stato hanno affidato - in house , cioè senza gara - la realizzazione dell'intero progetto a Tav Spa, sua filiazione diretta. TavSpa, sempre senza gara, ha affidato il progetto a tre General contractor (le tre maggiori società italiane all'epoca: 1991), tra cui Fiat. Fiat ha fatto il progetto della Torino-Milano e ne ha affidato la realizzazione a un consorzio della sua - allora - controllata Impregilo (quella dei rifiuti in Campania e del disastro ambientale in Mugello). Impregilo ha diviso i lavori in lotti e li ha affidati, senza gara, a una serie di consorzi di cui lei stessa è capofila; e questi hanno affidato a loro volta le forniture e le attività operative a una miriade di ditte minori, attraverso cui hanno fatto il loro ingresso nella «Grande Opera» sia il lavoro nero che la 'ndrangheta: la stessa, ben insediata a Bardonecchia, che da tempo aspetta l'inizio dei lavori sulla Torino-Lione e ha già ampiamente contrattato (vedi l'inchiesta giudiziaria Minotauro) il voto di scambio con i principali partiti della Regione. I lavori che all'ultima ditta della catena vengono pagati 10 Fiat li fattura a TavSpA a 100. La differenza è l'intermediazione dei diversi anelli della catena, tra cui non mancano partiti e amministrazioni locali. Ecco che cos'è la «crescita» affidata alle «Grandi Opere». Ed ecco perché per imporre una soluzione del genere occorre occupare militarmente il territorio. E perché ci vuole un Governo «tecnico». Così Monti è il benvenuto.

Sugli aspetti economici e funzionali del bucone nella Val di Susa segnaliamo due artico di uno studioso certamente non tacciabile di filo-ambientaismo o di ostilità al neoliberismo, Marco Ponti: un articolo del dicembre 2010 e uno del giugno 2011

Facciamo un passo indietro. La decisione del Parlamento europeo e del Consiglio (884/2004) prescrive che all'atto della pianificazione e della realizzazione dei progetti «gli stati membri devono tenere conto della tutela dell'ambiente, effettuando... valutazioni d'impatto ambientale dei progetti comuni da attuare». Più sotto, all'articolo 10 si prevede un «ruolo importante nel traffico ferroviario di passeggeri su lunghe distanze» e inoltre di agevolare « il trasporto delle merci attraverso l'individuazione e lo sviluppo di grandi assi riservati al trasporto merci o destinati in via prioritaria ai convogli merci».

Quello che c'è davvero, sotto la montagna, nessuno dei grandi democratici che strillano, se l'è chiesto. La prospettiva è di scavare 16 milioni di metri cubi di roccia. Solo per la parte italiana. A conti fatti è il volume di una città da 250 mila abitanti. Una nuova città, la seconda del Piemonte, tutta di rifiuti e cresciuta poco alla volta, nel corso di 10 anni e più. Anche l'acqua dei monti se ne andrà. Inoltre vi sono altre montagne da bucare, per fare la ferrovia nuova. Per esempio il Musinè, con una roccia satura di amianto. Quante centinaia di tonnellate di amianto verranno alla luce? Le si manderanno, eventualmente, tutte a Casale Monferrato, dove sono già abituati?

Il cenno al «ruolo importante...dei passeggeri» sembra una presa in giro. Il traffico passeggeri è sempre più modesto, già da prima della crisi. Modesto al punto di far fare, come si usa dire, una «capriola» al progetto e cambiare il Tav nel Tac dell'Alta capacità o Traffico merci. Qui sorge il dubbio che i francesi non siano neppure stati avvertiti. In ogni caso il Traffico merci, quello per il quale si fa l'opera, era nel 2006 di 6 milioni di tonnellate anno (mt/a) contro i 16 ipotizzati. Nel 2010 il piano era di 20 mt/a, mentre la dura realtà è stata di 2,6 mt/a.

C'è almeno un altro punto da ricordare; nell'allegato III al punto 6 si descrive il famoso asse ferroviario Lione-Budapest-Frontiera ucraina, quello che dovrebbe passare dalla galleria del Moncenisio, quella nuova. È prevista una tratta Torino-Venezia, ma dov'è il decisivo collegamento Milano-Venezia? La tratta Verona-Padova non è neppure stata appaltata. Lungi da noi la volontà di puntare il dito su quelle operose popolazioni, ma è proprio così. La Tav tra Lione o Parigi e Milano, via Torino invece c'è già ed è gestita - tra l'altro - dalle ferrovie francesi. Il viaggio dura forse mezzora o anche un'ora più passando più in alto, ma il viaggio si fa. Invece il cosiddetto corridoio 5 non esiste, senza il collegamento veneto. Certo è più facile, almeno sulla carta, fare i prepotenti con i valsusini che risolvere i nodi, politici ed economici del ricco Nord-est.

Adesso facciamo un passo avanti. Ministri, capi della polizia e personaggi dei grandi partiti sono sconcertati per la diffusione della sindrome Tav in buona parte d'Italia. La spiegazione corrente è quella dell'anarcosindacalismo, ma è piuttosto una spiegazione di comodo, in attesa di trovarne un'altra, più sensata; o di non trovarne affatto e passare alla fase di repressione, senza se e senza ma.

I più ingenui tra i detentori del potere credono davvero di insegnare la democrazia a un pugno di riottosi. Solo che i numeri della protesta non tornano e neppure la geografia. L'influenza valsusina, se di questo si tratta, è ormai molto diffusa. A riflettere bene, la democrazia della maggioranza che fa quello che vuole, perché ha i voti in parlamento, è quella cara a Silvio Berlusconi, il presidente di prima. Allora gli dicevamo che democrazia è qualcosa di più complesso, per esempio il diritto di una minoranza di non essere messa a tacere, ma di ottenere che le leggi - tutte le leggi - vengano rispettate. Non solo quelle che la maggioranza ha fatto a proprio favore, o a favore degli amici.

C'è anche un altro spezzone di verità e giustizia, forse difficile da acquisire da parte di chi non fa neppure un tentativo in quella direzione. I giovani e i meno giovani che stanno dalla parte dei valsusini sono convinti assertori della necessità di cambiare modello - e subito - nel nostro paese e in Europa, se si voglia garantire un futuro accettabile a tutti.

Il modello ha molti nomi. Sul nostro giornale prevale ormai la formula «Conversione ecologica» cui tutti si sentono partecipi e tutti collaborano, cercando di cambiare la società, il sistema produttivo, le priorità. Il lavoro. Un treno ad Alta velocità (o alta capacità che sia) che si sovrappone a uno esistente, buca le montagne, riempie di polveri nocive la pianura, blocca miliardi su miliardi, silura altre iniziative necessarie, crea le condizioni di appalti fuori controllo, urta con scelte drammaticamente diverse sul sistema dei trasporti, nazionale e locale, non fa parte della conversione ecologica e neppure dell'insieme di verità e giustizia che compone la democrazia che vogliamo.

Con gli ultimi provvedimenti, il profilo del governo "tecnico" si è ormai chiaramente definito e le caratteristiche dei suoi interventi rappresentano anche una messa in mora (una sfida?) per un mondo "politico" che non riesce a trovare una sua misura di fronte ad una novità che si conferma sempre più profonda. E i partiti devono fronteggiare anche una ineludibile questione: antipolitica o altrapolitica? Infatti, la lunga ondata antipolitica, alimentata ogni giorno da scandali e debolezze del sistema dei partiti, non può occultare il fatto che l´Italia sia pure un Paese pieno di politica, reattivo in forme né populiste né qualunquiste. Ma quest´altra politica viene temuta dai partiti, che magari ne parlano e poi la tengono lontana, la trascurano, continuano ad abbandonarsi all´esorcismo del "non cedere ai movimenti", formula divenuta ormai l´emblema dell´immobilismo e dell´autoreferenzialità. Così stando le cose, potranno i partiti realizzare quel mutamento che tanti invocano come indispensabile?

Nella sua lezione all´università di Bologna, il presidente della Repubblica ha associato la fiducia nel governo Monti ad un invito ai partiti ad "autorinnovarsi", a realizzare una "riqualificazione culturale e programmatica". E il presidente del Consiglio ha parlato di un compimento del suo mandato che restituirà l´iniziativa appunto ai partiti. Ma quali dovrebbero essere le condizioni perché, rigenerati, i partiti possano di nuovo guadagnare quella fiducia dell´opinione pubblica che oggi appare perduta? E quali i temi con i quali cimentarsi per l´auspicato ritorno ad una seria elaborazione culturale, per mettere a punto programmi non raffazzonati? Comincio con l´indicarne tre: i diritti fondamentali; i servizi pubblici; i limiti alla libertà d´iniziativa economica privata.

Non li scelgo a caso. Dietro ciascuno di questi temi si trovano soggetti reali, iniziative concrete. Molti comuni e gruppi si adoperano ogni giorno perché trovino effettivo riconoscimento i diritti degli immigrati, delle coppie di fatto, di quanti vogliono liberamente decidere sulla fine della loro vita. La questione dei servizi è simboleggiata dal servizio idrico, dall´acqua come bene comune: l´Italia è l´epicentro di un largo movimento, che ha visto ventisette milioni di elettori votare contro la privatizzazione dell´acqua, che produce analisi sempre più accurate, che ha visto convenire a Napoli e Roma rappresentanti da molti Paesi, che è all´origine di una rete di comuni europei e di iniziative popolari rivolte alla Commissione di Bruxelles. Altrettanto intensa è la discussione intorno ai limiti del mercato, accesissima intorno ai temi del lavoro e che vede l´inquietante tentativo di cancellare l´articolo 41 della Costituzione che congiunge il decreto berlusconiano di luglio e il decreto "Cresci Italia", ponendo il problema se sia ancora possibile in economia una politica "costituzionale". Questa è l´altra politica. E ciascuno di questi temi pone la questione di quale idea di società debba oggi sostenere l´azione politica.

E i partiti? Silenziosi o diffidenti, timorosi della loro ombra. Si pensi a quel che è avvenuto a Milano, dove una meritoria iniziativa del sindaco riguardante le coppie di persone dello stesso sesso ha provocato sconcertanti reazioni di rigetto all´interno dello stesso Pd, dove evidentemente si ignora che una sentenza della Corte costituzionale ha affermato che queste persone hanno un diritto fondamentale a veder riconosciuta la loro condizione. La questione non può essere considerata minore o locale, poiché rivela come all´interno di quel partito non vi sia una elaborazione programmatica riconoscibile, si è paralizzati dall´irrisolto rapporto tra le diverse forze che hanno dato origine al Pd e che troppe volte fanno emergere tentazioni integraliste e incapacità di altri settori del partito di definire una posizione netta proprio sui diritti fondamentali delle persone. Non diversa è la condizione del Pdl, prigioniero di fondamentalismi figli soprattutto d´una stagione d´un collateralismo strumentale, quando il partito si presentava come il portavoce della gerarchia vaticana.

Stanno così nascendo due circuiti: quello, talora discutibile ma dinamico, dell´altra politica e quello congelato del sistema dei partiti. Quest´ultimo si chiude sempre più in se stesso, rifiuta il dialogo, e ne paga i prezzi. Quando le condizioni istituzionali rendono inevitabile il contatto tra i due circuiti, infatti, è quasi sempre quello dell´altra politica a prevalere. Lo dimostra, per il Pd, l´esperienza negativa di primarie e elezioni, da Milano a Cagliari, da Napoli all´ultimo episodio di Genova.

Davvero si può credere che da questa difficoltà politica si possa uscire con espedienti procedurali o accentuando il controllo partitico sulle candidature alle primarie? Il nodo è altrove, e riguarda la necessità di prendere atto non solo dell´esistenza di nuovi attori politici, ma delle realtà che sono capaci di rappresentare. Proprio qui, nella perdita di capacità rappresentativa, ha una sua radice profonda la crisi dei partiti.

L´esistenza di circuiti politici diversi, che s´intersecano e configgono, non è esperienza soltanto italiana. Ricordo solo il rapporto tra sfera politica e blogsfera, che ha conosciuto momenti di tensione negli Stati Uniti. L´intelligenza politica ha consentito ad Obama di rendersi conto che la novità di Internet non era tecnologica, ma incideva sulla qualità della politica. E così, attraverso una accorta connessione dei due circuiti, ha pure costruito il suo successo elettorale. Ma i partiti italiani rimangono arretrati, le ricerche serie mostrano la povertà del loro uso delle risorse della Rete. Qui si riflette una più generale debolezza: l´incapacità di confrontarsi con il cambiamento radicale imposto dalla rivoluzione scientifica e tecnologica, che giunge a configurare nuove antropologie, individua dinamiche e spazi inediti. Anche, per certi versi soprattutto, su questo terreno si deve compiere la "riqualificazione" dei partiti.

Ma chi dev´essere protagonista di questo processo? Possono farcela le attuali oligarchie, logorate in mille modi, responsabili del loro discredito per non aver voluto comprendere che l´abbandono d´una rigorosa etica pubblica avrebbe fatto dilagare la corruzione, che ci assedia e che ha già destrutturato la società italiana? La costituzione di un governo tecnico si rivela anche come un diverso modo di selezione del ceto politico. È rivelatrice la mossa di indicare in Corrado Passera un possibile leader del centrodestra. È questa la strada o la riqualificazione deve riguardare non solo cultura e programmi, ma pure la capacità dei partiti di modificare i criteri di selezione e legittimazione democratica al loro interno, in un contesto di rinnovata moralità civile?

Senza la disordinata invasione europea la malattia sarebbe rimasta circoscritta - Negli anni ´30 Kinshasa era piena di avventurieri e fu il ground zero dell´incubazione

Tutto è nato da una scimmia. Uno scimpanzé. Il pantroglodytes troglodytes. Un cacciatore bantu nel sudest del Camerun cattura e uccide un esemplare. Lo scuoia, lo macella, lo cucina e se lo mangia. Scene normali nella foresta più interna e isolata dell´Africa centrale. Il primo contagio del virus Hiv è avvenuto così. Con il sangue infetto. È storia nota. Dopo anni di dibattiti e tesi contrapposte la scienza ha decretato una prima verità. Quello che non si riusciva ancora a capire è in che modo il contagio abbia raggiunto i centri abitati, poi le città, le metropoli, gli Stati, i continenti, fino a trasformare l´Aids nella più spaventosa pandemia del secolo scorso. Un giornalista del Washington Post e un ricercatore statunitense lo hanno scoperto. O meglio: sostengono, indicando una serie di prove, che la responsabilità ricade su quel grande dinamismo economico e commerciale che spinse le vecchie potenze europee a colonizzare l´Africa all´inizio del Novecento. Una conclusione che offre al quotidiano statunitense lo spunto per titolare: «Kinshasa, il ground zero dell´Aids».

La tesi del libro ("Tinderbox") è suggestiva. Mette insieme una serie di elementi che ricercatori ed esperti avevano sottolineato nell´itinerario del virus, senza riuscire però a tracciare la linea che li univa. Se la corsa all´Africa fosse stata gestita con più oculatezza, se il Belgio di re Leopoldo II, assieme a Francia, Gran Bretagna, Portogallo e Germania, non avessero spedito in quelle terre inospitali frotte di avventurieri ignoranti e senza scrupoli, il contagio sarebbe stato contenuto e forse non avrebbe mai varcato i confini della giungla. Bramosia di ricchezza, desiderio di conquista. Le colpe originarie sono dei colonialisti. Colpe vere, quelle che hanno prodotto 40 milioni di sieropositivi al mondo, di cui 30 solo in Africa, e ucciso altri 25 milioni di uomini, donne e bambini.

Il povero e ignaro cacciatore bantu fu infettato dallo scimpanzé. Tornò al villaggio e lì, probabilmente per decenni, il virus dell´Aids rimase in silenzio. Nel vecchio Continente si moriva di tubercolosi, di diarrea, di malaria, di fame. L´Hiv, almeno fino al 1980, era sconosciuto. Ma la nascita delle automobili e quindi degli pneumatici, ai primi del secolo scorso, spinse i Grandi dell´Europa a cercare nuove piantagioni di caucciù di cui l´Africa occidentale e centrale è ricchissima. Gli esploratori, ma soprattutto gli avventurieri arruolati dalle società belghe, si rivelarono spietati caporali. Venivano pagati a seconda dei chili di gomma che riuscivano a raccogliere dagli alberi. Un lavoro che facevano svolgere agli indigeni: erano i soli a conoscere i segreti e i pericoli della foresta. Erano schiavi. Se il raccolto era basso venivano puniti con l´evirazione: un modo barbaro di umiliarli e destinarli all´isolamento.

Questo esercito di uomini, spesso criminali salvati dal carcere ma utilissimi per il lavoro sporco, attirò un indotto di taverne, postriboli, case da gioco, bar. Le foreste erano meno isolate, i contatti più frequenti, soprattutto quelli sessuali. L´Aids, misterioso e sconosciuto, aveva la strada spianata. Si è scoperto che il primo caso di virus Hiv-M2 è stato individuato nel 1959, nel sangue di un uomo che viveva a Kinshasa. Era dello stesso tipo del Siv, il virus dell´immunodeficienza delle scimmie. Si stima che il primo contagio risalga almeno al 1931.

Altri studiosi si spingono fino a indicare il 1908. È l´anno che segna la nascita delle prime grandi città della conquista coloniale. Kinshasa era già un centro che vibrava di attività. «Era piena di gente, frenetica, allegra, carica di energie e di speranze», ricordano gli autori del libro. «Una comunità dove le vecchie regole venivano messe da parte di fronte al nuovo commercio che arricchiva tutti». Fu l´inizio della fine. Solo più tardi si scoprirono a San Francisco i casi dei cinque gay infettati. Kinshasa è stata la culla: per mezzo secolo ha protetto e diffuso il più ostinato, mutante, subdolo nemico dell´uomo. Un nemico diventato oggi quella bomba che condiziona le economie africane. E il Sudafrica guida la classifica del contagio, con 5,3 milioni di sieropositivi.

Parlando dell´austerità che si impone a Atene, e delle riforme strutturali necessarie al ritorno della crescita, il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi è ricorso a un´immagine forte. In un´intervista al Wall Street Journal, il 23 febbraio, ha detto che quel che si profila in Grecia è un Nuovo Mondo. L´immagine è forte, e singolare, perché di Nuovi Mondi nessuno osa più molto parlare: tanti ne sono stati promessi, e le cose non sono andate bene.

Generalmente quando si annunciano Nuovi Mondi se ne seppelliscono di vecchi, o perché falliti o perché malgovernati. Goethe, ad esempio, era convinto che la Rivoluzione francese non avrebbe spazzato via i monarchi come «vecchie scope», se questi fossero stati veri monarchi. Lo stesso si può dire oggi dell´Europa, che versa in condizioni ancora peggiori di quei re: la corona non l´ha persa; non l´ha mai pienamente avuta. Non esiste un impero europeo che governi il caos. Non esistono partiti europeisti che si battano contro l´impotente potenza dei nazionalismi, letale per l´Unione. Proviamo dunque a vederlo e pensarlo, il Nuovo Mondo proposto non solo a Atene ma a tutti noi.

È un mondo che abolirà il vecchio regime, e ci libererà dei sepolcri imbiancati dentro cui giacciono divinità ancora onorate, ma ormai finite: «All´esterno paiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume», di ipocrisia e iniquità. Tra questi sepolcri viene additato il Welfare: cioè quel sistema di protezione universale dai rischi della malattia, del lavoro, della vecchiaia, conosciuto in Europa dopo il ‘45. «Lo Stato sociale è morto», annuncia il governatore della Bce, perché perde senso se non copre tutti i cittadini e se il lavoro resta duale: da una parte i giovani costretti alla flessibilità, dall´altra i protetti con salari basati sull´anzianità e non sulla produttività.

Naturalmente c´è del vero, nella denuncia del sepolcro-idolo. Lo Stato sociale fallisce, a partire dal momento in cui non mantiene più la parola. Ma perché dire che come promessa è morto, gone? Perché nessun accenno al fatto che, essendo un patrimonio essenziale dell´Europa, va riorganizzato, ma non ucciso? Possibile che debba emergere da un certificato di decesso il mirabile nuovo mondo che vedremo dopo austerità e liberalizzazioni? Il brave new world di Huxley - ricordiamocelo - è una distopia, un´utopia tutta negativa.

In realtà sono decenni che lo Stato sociale è sotto attacco, quasi fosse un lusso ormai insano. Più fondamentalmente è sotto attacco lo Stato: considerato esso stesso un rischio, da politici ed economisti abituati a nutrirsi di dottrine antistataliste. Su quel che accadrà di qui al Nuovo Mondo non ci si sofferma. Parole come povertà, penuria, declino demografico scompaiono, sostituite dal pulito, clinico eufemismo: «Ci sarà una contrazione». Torna in auge perfino la famosa certezza esibita dalla Thatcher: «Non c´è alternativa». Anche quest´affermazione è leggermente stupefacente, perché l´univoca ideologia inglese e americana degli anni ‘80 è finita infelicemente. Il mercato-padrone, che da solo si equilibra, s´è infranto nel 2007-2008. Oppure no?

Quel che conta è sapere cosa muore, e cosa si mette nel vuoto che resta. Muore quel che gli europei appresero nella crisi degli anni ‘30, e in due guerre. La prima cosa che scoprirono fu l´unione europea, il No alle rovinose sovranità assolute degli Stati-nazione. La seconda fu il Welfare, il No alla povertà che aveva colpito le genti negli anni ‘30, gettandole nelle dittature e nelle guerre. Si tratta di due polizze d´assicurazione, offerte ai popoli per far fronte ai sinistri del passato, e tra esse c´è un nesso. Basti ricordare che il principale ideatore del Welfare, William Beveridge, fu anche militante dell´Europa federale.

Come si tiene insieme una società? Come si scongiurano le guerre, civili o tra Stati? La duplice risposta europea (Unione e Welfare) fu data per evitare che la questione della povertà divenisse di nuovo mortifera. Lo Stato sociale che Beveridge propose nel 1942 su richiesta di Churchill fu voluto all´inizio da un liberale e un conservatore. Toccò al Premier laburista Attlee, nel dopoguerra, metterlo in pratica. Come disse Churchill, l´aspirazione era di «proteggere l´individuo dalla culla alla tomba». Secondo Michel Foucault, il Welfare nasce come patto di guerra. Alle persone «che avevano attraversato una crisi economica e sociale gravissima», i governanti dissero in sostanza: «Ora vi chiediamo di farvi uccidere, ma vi promettiamo che, una volta fatto questo, conserverete il posto di lavoro sino alla fine dei vostri giorni» (Foucault, Nascita della biopolitica). Cinque erano i «giganti» che Beveridge riteneva nemici della Ricostruzione postbellica: Bisogno, Malattia, Ignoranza, Squallore, Ozio. Tutti insieme andavano abbattuti.

Quali sono i giganti contro cui oggi combattiamo, per ricostruirci? A sentire chi ci governa non sono quelli evocati da Beveridge. Non sono il disgregarsi della convivenza civile, la miseria, il crollo della democrazia. Sono la non-attuazione dell´austerità, l´«immediata reazione negativa» dei mercati. Perfino il voto democratico si tramuta in rischio, e infatti si diffida delle elezioni greche di aprile, e forse anche delle italiane. L´unico gigante che impaura è l´ozio, la pigrizia figlia del Welfare. L´essere umano non è guardato con apprensione: è guatato con sospetto, e sul sospetto non si edificano polizze né patti.

Per la verità anche Foucault denunciò la «coppia infernale sicurezza sociale-dipendenza», negli anni ‘80. Di fronte a una «domanda infinita», s´ergeva (e andava riconosciuta) la finitudine del Welfare. La sua finitudine, i suoi limiti: non la sua morte. Nato come contrappeso a processi economici selvaggi, come correttivo degli effetti distruttori del mercato sulla società, era assurdo gettarlo via. Altrimenti crescita e benessere dipendevano solo da concorrenza e privatizzazioni: un´ennesima utopia, lo si era visto negli anni ‘30-40. La crisi di oggi ci riporta a quegli anni di presa di coscienza sull´orlo del disastro. È il patto di guerra che stavolta manca, in Europa. È la memoria di quel che escogitarono uomini come Keynes, Beveridge, Roosevelt. È significativo che mentre l´Europa dimentica, l´America tenti - assai timidamente con Obama - di resuscitare Roosevelt e il New Deal.

Ci sono momenti nella vicenda europea dei debiti sovrani in cui si ha l´impressione, netta, che sulla pelle dei greci si stia compiendo un esperimento neo-liberista, una sorta di regolamento dei conti con Keynes, Beveridge, Roosevelt. Si vuol capire sin dove regge un paese, se impoverito e sfrondato di Stato sociale. È la tesi di Michael Hudson, economista dell´Università di Missouri a Kansas City: «La crisi greca è usata come esperimento di laboratorio, per vedere fino a che punto la finanza può spingere verso il basso i salari e privatizzare il settore pubblico. È come nutrire sempre meno un cavallo per vedere se sarà più efficiente, fino a quando le gambe gli si piegano e muore».

Con decenni di ritardo, molti economisti e politici sembrano riesumare l´illusione del 1989, quando Francis Fukuyama dichiarò finita la Storia. I patti sociali del dopoguerra non servono, ora che è naufragato lo stimolo che fu il comunismo. Quel che prevale è una sorta di spirito anti-conciliare: allo stesso modo in cui la Chiesa disattende sovente la sua stessa dottrina sociale (meno in Europa, più in America), gli Stati affossano la giustizia sociale offerta in pegno nel buio della guerra. Pensano di poter fare l´Europa così, sognando di sospendere lo Stato sociale e l´agorà democratica con le sue sempre possibili alternative. Non riusciranno, perché un´Europa siffatta è costruzione vana, dietro la quale non ci sono più comunità di uomini, ma cavalli dalle gambe spezzate.

La verità su quanto sta accadendo in Val di Susa, e sul suo significato generale, sta tutta in una quarantina di ore. Nel breve spazio che va dal sabato pomeriggio al lunedì mattina. Sabato, una valle intera - un popolo - molte decine di migliaia di persone, anziani, giovani, donne, bambini, contadini, operai, piccoli imprenditori, commercianti, "popolazione", riempiono le strade, i campi circostanti, le rotatorie e i borghi, per dire no al Tav. Pacificamente, con volti sorridenti e idee chiare in testa. Lunedì mattina - come se niente fosse - una colonna di uomini armati marcia, secondo programma, sull'area-simbolo di Clarea, sui terreni di proprietà comune risparmiati dal primo blitz del 27 giugno 2011 e diventati il simbolo della resistenza, per occuparli. Indifferenti a tutto, muovono per spianare la Baita che ha ospitato in questi mesi l'anima della valle, come se con le ruspe potessero cancellare le ragioni di tutti. In mezzo, un uomo che cade da un traliccio, folgorato, e solo per miracolo non perde la vita.

Non servono molti discorsi per cogliere l'intreccio di arroganza, di stupidità, di sordità burocratica e di sostanziale disinteresse per i fondamenti della democrazia che muove un potere insensibile a qualunque argomentazione razionale e a ogni criterio di prudenza. Persino a ogni calcolo di costi e benefici. Incapace di leggere i numeri (anche se composto da fior di professori di economia) come di ascoltare le voci dei territori (anche se sensibilissimo ai sussurri dei mercati globali). Chiuso in un'assolutistica fedeltà ai soli interessi dei forti e ai progetti (insensati) degli apparati tecnocratici, a tal punto da non soprassedere neppure una settimana, neppure un giorno, nell'esecuzione di una decisione con tutta evidenza improvvida.

Ho sempre cercato di resistere alla seduzione delle teorie "catastrofiche" che annunciano l' "azzeramento della democrazia" di fronte all'onnipotenza delle tecnocrazie trans-nazionali e all'impersonalità dei mercati. Mi sembravano una diagnosi paralizzante. E tuttavia è difficile non cogliere l'evidenza empirica della forbice sempre più larga - un abisso - che si va creando tra le pratiche autoreferenziali e burocraticamente formali delle istituzioni nazionali e continentali (di quella che con drammatica ironia si chiama "politica") e le domande sempre più esasperate di partecipazione (o anche solo di ascolto) che salgono dai territori. Tra la "democrazia dell'indifferenza" che domina in alto, e la "democrazia della partecipazione" che abita in basso.

Non si tratta solo della pressione repressiva, che d'altra parte in Val di Susa si è fatta soffocante, ai limiti della tollerabilità costituzionale e anche oltre. Si tratta di una cosa più complessa che riguarda il delicato rapporto tra rappresentanti e rappresentati, giunto davvero - per lo meno sul piano nazionale - al punto di rottura, forse irreversibile. Si tratta di quell'organo essenziale in ogni democrazia (e che manca in ogni dittatura) che è l'udito: la capacità di ascoltare le voci della società, dei suoi diversi "pezzi", e di dar loro il giusto peso, come condizione per mantenere "coeso" un Paese, ed evitare l'esodo delle sue parti vitali.

In assenza di quel canale uditivo, un Paese si "slega". Se ignorata troppo a lungo nelle sue ragioni vitali, una popolazione esce dal patto civile che determina il grado e la forma della legittimazione. L'immagine della Grecia è esemplare: un popolo, una nazione, una società condannata alla morte civile in nome di dogmi fideistici coltivati e celebrati nel cuore istituzionale d'Europa, sulla base di ricette rivelatesi mortali agli occhi di tutti, tranne che a quelli dei decisori istituzionali. Come esemplare è l'immagine di quei poliziotti-scalatori che alla baita di Clarea, armati di corde scalano, implacabili, il traliccio indifferenti al rischio e alle parole di Luca Abbà, finché la tragedia non si compie.

Se non riempiremo quell'abisso di senso e di silenzio, se non sapremo riportare a terra il luogo della decisione sul destino dei beni di tutti ora evaporata nell'alto dei cieli finanziari e tecnocratici - ricominciando in primo luogo ad "ascoltare" - quelle di Atene e di Chiomonte non saranno le sole tragedie a cui assisteremo.

La situazione in Portogallo è terribile, ora che la disoccupazione vola addirittura oltre il 13 per cento. Ma va anche peggio in Grecia, Irlanda e probabilmente Spagna. Nel suo complesso tutta l´Europa pare scivolare nuovamente nella recessione. Perché l´Europa è diventata il malato dell´economia mondiale?

La risposta è nota a tutti. Purtroppo, però, buona parte di ciò che si sa non è attendibile, e le false voci sui guai europei stanno snaturando il nostro dibattito economico. È assai probabile che chi legge un articolo d´opinione riguardante l´Europa – oppure, troppo spesso, una presunta cronaca giornalistica degli avvenimenti – possa imbattersi in una di due possibili interpretazioni, alle quali penso in termini di variante repubblicana e variante tedesca. In verità, nessuna delle due rispecchia la realtà.

Secondo la versione repubblicana di come stanno le cose – uno dei temi centrali sui quali batte la campagna elettorale di Mitt Romney –, l´Europa si trova nei guai perché ha esagerato nell´aiutare i meno abbienti e i disgraziati, e staremmo quindi assistendo all´agonia del welfare state. Questa versione dei fatti, a proposito, è una delle costanti preferite della destra: già nel 1991, quando la Svezia si angosciò per una crisi delle banche innescata dalla deregulation (vi suona familiare?), il Cato Institute pubblicò un trionfante articolo su come ciò che stava accadendo di fatto confermasse il fallimento dell´intero modello del welfare state.

Vi ho già detto che la Svezia – che ha ancora oggi un generoso welfare – è al momento una delle migliori performer e ha una crescita economica più dinamica di qualsiasi altra ricca nazione? Ma procediamo con sistematicità: pensiamo alle 15 nazioni europee che usano l´euro (lasciando in disparte Malta e Cipro) e proviamo a classificarle in rapporto alla percentuale di Pil che hanno speso in programmi di assistenza sociale prima della crisi. Le nazioni Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) che oggi sono nei guai spiccano davvero in tale classifica per il fatto di avere uno stato assistenziale insolitamente generoso? Niente affatto. Soltanto l´Italia rientra nelle prime cinque posizioni della classifica, ma anche così il suo welfare state è inferiore a quello della Germania. Ne consegue che i problemi non sono stati causati da grandi welfare.

Passiamo ora alla versione tedesca, secondo la quale tutto dipende dall´irresponsabilità fiscale. Questa opinione pare adattarsi alla Grecia, ma a nessun altro Paese. L´Italia ha avuto deficit negli anni antecedenti alla crisi, ma erano di poco superiori a quelli tedeschi (l´enorme indebitamento dell´Italia è un´eredità delle irresponsabili politiche di molti anni fa). I deficit del Portogallo erano significativamente inferiori, mentre Spagna e Irlanda in realtà avevano plusvalenze.

Ah: non dimentichiamo che Paesi non appartenenti alla zona euro sembrano proprio in grado di avere grandi deficit e sostenere un forte indebitamento senza affrontare alcuna crisi. Gran Bretagna e Stati Uniti possono prendere in prestito capitali a un tasso di interesse che si aggira intorno al 2 per cento. Il Giappone – di gran lunga più indebitato di qualsiasi Paese europeo, Grecia inclusa – paga soltanto l´1 per cento. In altre parole, il processo di ellenizzazione del nostro dibattito economico – secondo il quale tra uno o due anni soltanto ci troveremo nella stessa situazione della Grecia – è del tutto sbagliato.

Che cosa affligge, dunque, l´Europa? La verità è che la questione è in buona parte legata alla moneta. Introducendo una valuta unica senza aver preventivamente creato le istituzioni necessarie a farla funzionare a dovere, l´Europa in realtà ha ricreato i difetti del gold standard, inadeguatezze che rivestirono un ruolo di primo piano nel provocare e far perdurare la Grande Depressione.

Andando più nello specifico, la creazione dell´euro ha alimentato un falso senso di sicurezza tra gli investitori privati che ha dato briglia sciolta a enormi e insostenibili flussi di capitali nelle nazioni di tutta la periferia europea. In conseguenza di questi flussi, le spese e i prezzi sono aumentati, la produzione ha perso in competitività e le nazioni che nel 1999 avevano a stento raggiunto un equilibrio tra importazioni ed esportazioni hanno iniziato invece a incorrere in ingenti deficit commerciali. Poi la musica si è interrotta.

Se le nazioni della periferia europea avessero ancora le loro valute potrebbero ricorrere alla svalutazione – e sicuramente lo farebbero – per ripristinare quanto prima la propria competitività. Ma non le hanno più, e ciò significa che sono destinate a un lungo periodo di disoccupazione di massa e a una lenta e faticosa deflazione. Le loro crisi debitorie sono per lo più un effetto collaterale di questa triste prospettiva, perché le economie depresse portano a deficit di budget e la deflazione aumenta l´incidenza del debito.

Diciamo pure che comprendere la natura dei guai europei offre agli europei stessi benefici soltanto assai limitati. Alle nazioni colpite, in particolare, non resta granché al di là di scelte difficili: o soffrono le pene della deflazione oppure prendono la drastica decisione di abbandonare l´euro, il che non sarà praticabile da un punto di vista politico fino a quando – o a meno che – ogni altra cosa non avrà fallito (punto verso il quale pare che si stia avvicinando la Grecia). La Germania potrebbe dare una mano facendo dietrofront rispetto alle sue stesse politiche di austerità e accettando un´inflazione più alta, ma non lo farà.

Per il resto di noi, tuttavia, capire bene come stanno le cose in Europa fa una bella differenza, in quanto circolano su di essa false teorie utilizzate per spingere avanti politiche che potrebbero rivelarsi aggressive, distruttive o entrambe le cose. La prossima volta che sentirete qualcuno invocare l´esempio dell´Europa per chiedere di far piazza pulita delle nostre reti di sicurezza sociale o per tagliare la spesa a fronte di un´economia gravemente depressa, ricordate di tenere bene a mente che non ha idea alcuna di ciò di cui sta parlando.

Traduzione di Anna Bissanti - © 2012 New York Times News Service

Dinanzi all´ordine di rimuovere le bacheche che espongono l´Unità, sulle prime uno pensa che Fiat abbia deciso di estromettere la democrazia dai suoi stabilimenti. Un segno non da poco. Il cammino era già tracciato con i contratti ferrei di Pomigliano e Mirafiori, il licenziamento di alcuni operai che avrebbero disturbato la produzione a Melfi, infine l´esclusione della Fiom dai reparti. Ora si aggiunge il divieto di esporre un quotidiano. Il che fa pensare ad altro. Infatti la democrazia non è morta sempre con un gran botto. In diversi casi è morta anche a piccoli passi, compiuti nelle fabbriche, nelle scuole, in piccole città, fino a che ci si è accorti che era scomparsa in un intero Paese. Per questo motivo il segnale che arriva da Bologna e altrove preoccupa sotto il profilo politico più che sotto quello delle relazioni industriali.

D´altra parte è possibile che Fiat non abbia affatto intrapreso i passi anzidetti per cancellare la democrazia industriale. Magari ha già deciso di lasciare l´Italia, come parrebbe anche dai contraddittori annunci circa i modelli da costruire o forse no nel quadro del fantomatico piano Fabbrica Italia e dai milioni di ore di CIG a Torino e Pomigliano. E vuol mostrare che vi è costretta perché con la Fiom non si ragiona, troppi osano criticare il Piano che non c´è mentre gli americani lo ammirano, e qualcuno pretendeva pure di esporre nei suoi impianti un quotidiano che in un angolo reca tuttora la scritta "fondato da Antonio Gramsci nel 1924".

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