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Per più di tre anni, da quando Silvio Berlusconi è ritornato al potere dopo la pessima esperienza durata sette mesi nel 1994, una cantilena ossessiva ha percorso le pagine dei quotidiani e quelle dei telegiornali legati direttamente al presidente del Consiglio o quelli che si definiscono più o meno “terzisti” ovvero neutrali ma solo in apparenza tra i due schieramenti e, guarda caso, sempre intenti a criticare il centro-sinistra e ad esaltare le felici trovate berlusconiane.

La cantilena che abbiamo sentito in lungo e in largo in questi anni è stata pressappoco la seguente: non bisogna dire a Berlusconi che è antidemocratico, truffaldino nelle sue operazioni politiche come l’ultima finanziaria, che sta smantellando la Costituzione repubblicana, la legalità pubblica e lo Stato sociale, cioè i diritti fondamentali dei lavoratori. Se si fa così, secondo questo modo di vedere, lo si demonizza e si disgustano quei fantomatici elettori di centro che hanno votato per lui ma che lo aspetterebbero al varco di fronte ai suoi errori e alle sue gaffes (ma non ce ne sono stati già centinaia? Deve fare un colpo di Stato in piena regola per convincerli a disertare l’attuale maggioranza appena ricompattata dai posti distribuiti con larghezza ai soci dissenzienti della Casa delle Libertà?).

Peccato che, a guardare i risultati elettorali e non i sondaggi, i movimenti che hanno riempito le strade e le piazze nel biennio 2002-2003 e che hanno detto di Berlusconi tutto il male sperimentato in questi anni, hanno rafforzato il centro-sinistra e lo hanno condotto a numerose vittorie nelle elezioni parziali di questi anni.

Ma ora siamo al più assurdo dei paradossi. Appena Romano Prodi, leader riconosciuto della coalizione di centro-sinistra che per cinque anni ha presieduto la commissione europea, vedendosi riconoscere anche dagli avversari la correttezza politica e democratica, definisce mercenari i volontari pagati di Forza Italia, viene assalito dalla gran parte dell’universo mediatico che ci circonda e gli si chiede di offrire le scuse, di ammettere di aver sbagliato e di aver travalicato il limite estremo. Insieme ai soliti convertiti Bondi e Cicchitto - che hanno sepolto, per motivi che non vogliamo sapere, la loro precedente fede comunista e socialista - rispondono all’appello anche tutti i giornalisti che hanno scritto editoriali nella domenica di ieri, e non importa che alcuni di loro abbiano difeso nelle tribune televisive la loro terzietà o che abbiano diretto fino a pochi anni fa giornali di opposto colore prima di incontrare sulla via di Damasco l’ombra del Cavaliere.

È come se da parte loro, in nome non si bene di quale concezione politica, si sottintenda che l’avversario va bene solo se non affonda i fendenti di fronte alle gaffes più mirabolanti dell’attuale presidente del Consiglio.

All’indomani dell’approvazione in Parlamento di una riforma dell’ordinamento giudiziario che, se attuata, non risolverà in nessun modo i problemi effettivi della Giustizia in Italia, non farà diventare i processi più rapidi ed efficienti ma che in compenso porrà una parte rilevante della magistratura alle dipendenze dell’esecutivo, spaccherà in due il Consiglio superiore della magistratura e spingerà la maggior parte dei magistrati a inseguire la carriera piuttosto che a dedicarsi al proprio mestiere, Berlusconi non può essere criticato duramente, perché così lo si demonizza.

Di fronte a una legge di revisione costituzionale che, una volta approvata e magari confermata da un successivo referendum, conduce a distruggere insieme la prima e la seconda parte della Carta, a far della maggior parte degli organi costituzionali, dal Parlamento alla Presidenza della Repubblica, istituzioni essenzialmente decorative a vantaggio di un premier che disporrebbe di poteri quasi assoluti, bisogna stare attenti a non ferire la sensibilità delicata di chi ci governa.

Né si può reagire con asprezza di fronte alle recenti dichiarazioni di Silvio Berlusconi che, controllando sei televisioni su sette e la maggioranza del mercato pubblicitario, annuncia di voler abolire la legge sulla par condicio per disporre di un potere assoluto e rafforzato dalle risorse finanziarie di cui dispone (quelle pubbliche cui si aggiunge un patrimonio personale che è tra i primi quattro del mondo) perché così facendo si rischia la demonizzazione.

Così accade che Prodi, di fronte all’annuncio di mille volontari pagati, cioè veri e propri mercenari, parli delle migliaia di giovani che lavoreranno gratuitamente per l’Ulivo e per il centro-sinistra e viene accusato soltanto per questo di aver valicato ogni limite e invitato a chiedere scusa. E questo sarebbe un dibattito democratico in cui i due contendenti si collocano su un piano paritario e rispetto ai quali l’opinione pubblica deve poter giudicare in modo equanime chi ha ragione e chi ha torto?

Dove la partita si gioca, come deve essere, sul giudizio che si dà della politica economica, di quella sociale, di quella estera, del destino della scuola e dell’università, della separazione dei poteri e dell’autonomia della magistratura e magari dei giornali e delle televisioni?

A chi scrive pare che qui si vogliono truccare le carte e presentare il contrasto tra maggioranza e opposizione come di un duello in cui chi governa ha per principio la ragione dalla sua parte e l’opposizione è legittima soltanto se attacca con garbo, sorvola le gaffes antidemocratiche del premier e si affanna per trovare prima o poi un accordo con la parte avversa.

Ma così si passa da uno scontro democratico a una bagarre impari e disuguale, seguito ogni ora da un coro servile che applaude la maggioranza e segna i punti a chi si oppone. Sarebbe questa la democrazia di cui parla la Casa delle Libertà insieme con i suoi corifei?

Titolo originale The Autonomist Manifesto (Or, How I Learned to Stop Worrying and Love the Road) – traduzione di Fabrizio Bottini

Se entrate a San Diego dalla Interstate 15, potete vedere la strada del futuro. A dire il vero, ne potete vedere due versioni diverse, sulle medesime corsie.

Al centro di ciascuna delle corsie veloci ci sono delle chiazze nerastre, con un diametro più o meno di cinque centimetri, spaziate a intervalli di 1,2 metri. Sotto ciascuna chiazza, sta una pila di magneti. Un’automobile con l’equipaggiamento adatto può percorrere la strada da sola, guidata dai magneti e dal radar che segue le macchine vicine. Qui c’è, finalmente, la strada automatica promessa per tanto tempo dai futuristi. Qui c’è la strada “controllata da raggi” che i “Meccanici Popolari” avevano tratteggiato in un fantasioso articolo del 1940, sulla scampagnata di un giorno di una famiglia da Washington, D.C., in visita a Zia Lillian in California. Quando gli ingegneri di San Diego hanno spedito una file di otto Buicks sulla Interstate 15 a cento all’ora, la mano ferma dei computers al volante le ha tenute distanti giusto cinque metri l’una dall’altra. Strizzando tre volte tante auto sulle strade, questa tecnologia potrebbe migliorare drasticamente la congestione da traffico: se solo gli ingegneri riuscissero a trovare il modo di far comprare a milioni di automobilisti il sistema. Per adesso, il controllo stradale a raggi sta ancora nel futuro.

Nel frattempo, una tecnologia molto più semplice sta già eliminando gli ingorghi sulla I-15: un sistema di controllo computerizzato dei caselli di ingresso, che addebita somme variabili per l’accesso alle corsie veloci, alzando o abbassando il pedaggio ogni sei minuti, a seconda di quanti automobilisti accettano l’offerta. Se computers del genere addebitassero pedaggi variabili di questo tipo in altre città, si potrebbe non solo alleviare la congestione, ma anche generare finanziamenti per pagare nuove strade. Gli americani, liberati da un traffico a distanza di paraurti, potrebbero riscoprire rediscover la gioia di guidare: e questo, paradossalmente, è uno dei motivi per cui sarebbe tanto politicamente difficile installare effettivamente questa tecnologia in tutto il paese. Qualunque politica che incoraggiasse gli automobilisti a usare i propri semiassi del male appare sospetta in questo momento.

Gli americani amano ancora la loro auto, ma hanno la nausea di quelle degli altri. All’automobile si da la colpa di tutto, dal surriscaldamento globale alla guerra in Iraq, alla trasformazione dell’America in una terra di centri commerciali e lottizzazioni suburbane senz’anima piene di abitanti grassi e soli. Al Gore ha definito l’automobile una “minaccia mortale” addirittura “più mortale di qualunque nemico militare”. Le città di tutto il paese, con l’incoraggiamento di Washington, stanno adottando politiche di “ smart growth” per scoraggiare gli spostamenti in auto, e promuovere il trasporto pubblico. Tra anni fa, alla cerimonia del taglio di nastro per una nuova autostrada fuori Los Angeles, il Governatore Gray Davis ha dichiarato che sarebbe stata l’ultima ad essere costruita nello stato. Guardando alla culla della cultura automobilistica, diceva che era tempo di trovare altri modi per spostare le persone.

Personalmente simpatizzo con questi critici, dato che non amo nemmeno la mia, di macchina. Per la maggior parte della mia vita adulta non ne ho neppure posseduta una. Vivevo a Manhattan, e mi facevano pena gli abitanti suburbani che vanno in macchina al centro commerciale. Quando mo sono trasferito a Washington e sono entrato nei loro ranghi, ho preso casa in un paradiso della smart-growth, con una pista ciclabile e una fermata della metropolitana lì vicino. Per la maggior parte dei giorni, vado in centro coi pattini o in bicicletta, piano di legittimo Schadenfreude mentre filo via davanti agli automobilisti bloccati nel traffico. Per il resto, di solito prendo la sotterranea, e le poche volte che uso la macchina, detesto guidare.

Ma non credo più che i miei gusti debbano diventare politiche pubbliche. Sono STAto convertito da una scuola di pensiero rinnegata, che si può chiamare degli autonomisti, perché magnifica l’autonomia resa possibile dalle automobili. Questa scuola di pensiero comprende ingegneri e filosofi, scienziati della politica come James Q. Wilson, ed economisti trita-dati come Randal O’Toole, autore del manifesto di 540 pagine The Vanishing Automobile and Other Urban Myths. Questi pensatori riconoscono i problemi sociali e ambientali provocati dall’auto, ma sostengono che essi non si risolveranno – di fatto saranno in gran parte peggiorati – dalle proposte dei critici dell’automobile. Definiscono la “ smart growth” un’idea assai poco smart, risultato non di pianificazione razionale, ma di un atteggiamento snob e classista, di arroganza intellettuale. Essi preferiscono promuovere lo “ smart driving”, che sta a significare più pedaggi, più strade, e certo: più macchine.

Traendo spunto da un gruppo di autori che va da Aristotele a Walt Whitman, gli autonomisti sostengono che l’auto non è semplicemente una comodità, ma una delle maggiori forze benefiche della storia, un’invenzione che ha liberato i poveri dai quartieri degradati, i lavoratori dalla città-fabbrica, ha sfidato il comunismo, dato potere ai movimenti per i diritti civili, liberato le donne dal lavoro domestico. I loro argomenti mi hanno fatto guardare con più rispetto al mio mini-van. Continua a non piacermi guidarlo, ma ora quando l’impianto stereo suona Thunder Road (“ queste due corsie ci porteranno ovunqueeee”) penso che Bruce Springsteen l’abbia detta giusta. C’è redenzione, sotto quel cofano sporco.

Magnifico Sprawl

Supponiamo che dobbiate scegliere tra due case di prezzo simile. Una è un’abitazione di città a distanza pedonale da negozi e trasporti pubblici, l’altra è nei suburbi e da lì bisogna guidare per andare ovunque. Quale prendereste?

Se scegliete l’abitazione di città, siete in netta minoranza. Solo il 17 per cento degli americani l’ha votata, in un sondaggio nazionale sponsorizzato dalle associazioni di costruttori e promotori immobiliari residenziali. L’altro 83 per cento preferiva i suburbi, il che non ha sorpreso glia genti immobiliari o altri che passano il loro tempo nelle lottizzazioni. Con tutta la cattiva stampa accumulata dai suburbi, in libri come The Geography of Nowhere il cui autore, James Kunstler, chiama l’America “uno slum di automobili”, i sondaggi ripetutamente mostrano che la grande maggioranza degli abitanti suburbani è felice dei propri quartieri.

Potreste sostenere che gli americani sono delusi perché non gli viene data una ragionevole alternativa. I sostenitori della smart-growth affermano che i suburbi hanno prosperato a spese delle città a causa delle politiche governative che promuovevano benzina a buon mercato, autostrade a lunga percorrenza e costruzione di case in aree non urbanizzate. Cosa sarebbe successo se la pubblica amministrazione, invece di devastare i quartieri urbani facendoci passare attraverso autostrade veloci, avesse elargito denaro in trasporti pubblici e imposto alte tasse sui carburanti in modo da scoraggiare gli spostamenti in auto?

A dire il vero, quell’esperimento è già stati condotto in Europa, con un effetto sorprendentemente piccolo. Ai turisti americani che prendono la metropolitana nelle ben conservate vecchie città queste politiche sembrano aver funzionato. Ma poi si scopre che la gente che ci vive non è così diversa dagli americani. Anche con un prezzo di 5 dollari per un gallone di benzina, numero di automobili pro capite in Europa è cresciuto più velocemente che negli USA negli ultimi decenni, mentre la percentuale dei pendolari che utilizzavano i trasporti collettivi diminuiva. Cresceva il suburbio, e anche le città d’Europa perdevano abitanti. Parigi è una gran posto da visitare, ma nell’ultimo mezzo secolo ha perso un quarto della sua popolazione.

”Le città si stanno espandendo praticamente ovunque nel mondo, nonostante tutte le misure anti- sprawl”, afferma Peter Gordon, professore della School of Policy, Planning and Development alla University of Southern California. “Appena la gente ha abbastanza soldi, vuole la propria auto”.

Naturalmente, il solo fatto che gli individui desiderino le macchine, non vuol dire che esse siano una buona cosa per la società. Jane Holtz Kay, autrice di Asphalt Nation: How the Automobile Took Over America and How We Can Take It Back, riassume bene l’ansia diffusa riguardo al costo ambientale e sociale dell’automobile, quando scrive: “Una nazione ingorgata dal suo stile di vita auto-centrico, un ambiente soffocato dai gas di scarico, un paesaggio saccheggiato dalle autostrade, hanno turbato così tanto gli americani che anche questa nazione, tanto orientata allo sviluppo, sta mettendo cartelli “ No Growth” sui nuovi insediamenti, da costa a costa”. Kay ha ragione quando dice che gli americani si oppongono a nuove costruzioni vicino alle proprie case, e temono il traffico che questo porterà, ma potrebbero pensarla diversamente sullo sprawl, se lo capissero meglio.

Prendiamo in esame qualcuna delle convinzioni prevalenti:

Lo sprawl intrappola gli automobilisti nell’inferno del traffico. È vero che le strade sono diventate sempre più congestionate, ma il traffico peggiore tende ad essere nelle aree urbane densamente popolate, dove non sono state costruite nuove strade, come New York e Chicago: il tipo di posti auspicati dagli urbanisti smart growth, ma che sono evitati dalle imprese che cercano posti adatti per collocare uffici. Durante gli anni ’90 il numero di lavoratori suburbani ha superato quello degli abitanti in centro. Questi pendolari trovano anche loro ingorghi, ma dato che non sono diretti al centro riescono ad arrivare ragionevolmente in fretta. La durata media degli spostamenti, che ora è di circa 25 minuti, è salita di soli 40 secondi negli anni ’80, e di circa 2 minuti nei ’90. Lo sprawl non ha intrappolato gli automobilisti: ha offerto una via di fuga.

La cultura automobilistica suburbana intrappola le donne. I critici lamentano che le madri dei suburbi sono condannate a lunghe ora da autista dei propri bambini ai centri commerciali, a giocare a pallone, a lezioni di piano, le quali cose richiedono tutte, davvero, l’automobile. Ma è lo stesso per la maggior parte delle loro attività. Nel suo libro Edge City, lo scrittore Joel Garreau individua l’epoca d’oro dello sprawl nell’ascesa delle donne verso il lavoro extradomestico negli anni ‘70 e ‘80, quando ilo numero di automobili d’America raddoppia, e i costruttori si affrettano a realizzare parchi di uffici e centri commerciali per donne che non hanno tempo di prendere l’autobus per il centro. L’unico modo di star dietro a tutte le loro responsabilità era di comperare un’auto e trovarsi un lavoro vicino ai negozi, e alle scuole, e agli asili vicino casa.

Lo sprawl sfregia il paesaggio americano. Se con “paesaggio” si intende il pascolo o il bosco vicino alla propria abitazione, che è stato ricoperto da cemento e asfalto, allora lo sprawl sembra un abominio. Chi non preferirebbe, essere circondato dal verde, specialmente quando non si pagano tasse sugli immobili per questo?

Ma se si guarda al quadro generale, l’America non sta asfaltando il Paradiso. Più del 90 per cento degli Stati Uniti continentali sono ancora spazi aperti e campi coltivati. La principale modifica nell’uso del suolo, negli ultimi decenni, è stato l’aumento di 30 milioni di ettari di terre allo stato naturale: più di quanto ora sia occupato da città, suburbi, esurbi, secondo Peter Huber, autore di Hard Green: Saving the Environment From the Environmentalists. Visto che l’agricoltura è diventata più efficiente, i coltivatori hanno abbandonato ampi tratti di terreni che sono tornati allo stato naturale, e le zone rurali hanno perso popolazione con i giovani che migravano verso le città. Vi possono non piacere le case che si sono costruiti ai margini del vostro paese, ma se la vostra priorità è la conservazione dei grandi ecosistemi e dell’habitat della fauna selvatica, meglio concentrare la gente nei suburbi ed esurbi piuttosto che sparpagliarla per remote campagne.

Il trasporto collettivo è la cura per la congestione stradale. I treni pendolari e le metropolitane hanno senso a New York, Chicago e qualche altra città, e ci sono altre forme di trasporto pubblico, come gli autobus veloci, che possono fare la differenza altrove (i pulmini che offrono un servizio porta-a-porta sono una manna per gli anziani e chi non ha l’auto). Ma per la maggioranza degli americani, il trasporto collettivo è poco pratico e irrilevante. A partire dal 1970, i sistemi di trasporto pubblico hanno ricevuto più di 500 miliardi di dollari in sussidi, (calcolati in dollari di oggi), ma la gente ha continuato a votare per il volante. I mezzi pubblici hanno perso quote di mercato a favore dell’auto e ora trasportano solo il 3 per cento dei pendolari urbani fuori da New York City. È facile capire perché da una cifra: la media dei pendolari su trasporto pubblico impiega il doppio del tempo della media di chi usa il mezzo privato.

Anthony Downs, economista della Brookings Institution favorevole a dare maggiori sussidi ai trasporti pubblici, afferma che questi sostegni hanno benefici sociali (come l’aiuto a gente senza macchina), ma avverte che faranno poca differenza in termini di congestione stradale. O’Toole e Wendell Cox, espero di trasporti alla Heritage Foundation, stimano che anche nel caso il Congress miracolosamente triplicasse il sussidio annuale per i trasporti pubblici, la media dei tempi di pendolarismo per gli automobilisti si ridurrebbe di un totale generale di 22 secondi.

Gli automobilisti viaggiano gratis. È vero, il governo spende molti più soldi in strade che non in trasporti pubblici, ma la maggior parte di quel denaro viene dalle tasche degli automobilisti. Se si sommano i costi generali dell’automobile (quelli del proprietario e quelli pubblici di costruzione e manutenzione di strade statali e locali, o i salari delle polizie responsabili) si ottengono circa 12 centesimi al chilometro per passeggero, e l’automobilista paga 11 di quei centesimi, secondo Cox. Un viaggio su un autobus locale o treno pendolare costa circa quattro volte tanto, e il contribuente sopporta tre quarti di quel costo.

Gli automobilisti evitano di pagare alcuni costi indiretti delle proprie macchine, come le conseguenze sanitarie dell’inquinamento da scarichi. Uno dei tentativi più approfonditi di misurare questi costi sociali è stato fatto da Mark Delucchi, un analista costi-benefici della University of California, Davis, che ha tenuto conto di fattori di ogni tipo, dalle spese nel Golfo Persico ai costi di urbanizzazione connessi ai parcheggi. Gli Autonomisti lamentano che abbia sovrastimato i costi delle auto, ma anche così i suoi calcoli mostrano che paragonati i costi sociali del trasporto pubblico (come i sussidi pubblici sostenuti dai contribuenti generali, o il rumore degli autobus) l’auto è almeno due volte più economica per chilometro/passeggero.

Le nuove strade peggiorano solo la situazione. Ambientalisti e urbanisti smart-growth affermano che più strade creano semplicemente più problemi, a causa della “domanda indotta”, conosciuta anche come teoria del “se-le-fai-arriveranno”. Essi sosotengono che qualunque nuovo tratto di strada si riempirà in fretta dato che gli automobilisti ne scoprono nuovi modi d’uso. Aggiungere nuove corsie o strade può migliorare il traffico temporaneamente, ma alla fine saremo condannati a diventare come Los Angeles.

Una nuova freeway in effetti attira nuovi automobilisti, ma questo non significa che non valga la pena di costruirla. A parte i benefici per gli utenti (il che non è poco) allenta la tensione su tutta la rete stradale. La relazione di quest’anno del Texas Transportation Institute conferma altre ricerche, mostrando che tenendo conto della crescita di popolazione, la congestione da traffico è aumentata più rapidamente nelle città che non hanno costruito strade. La ragione del pantano di traffico a Los Angeles sta nel non aver costruito freeways a sufficienza, per quanto incredibile possa sembrare. Il principale luogo simbolo dello sprawl non è proprio quello che appare, se si paragona con altre città utilizzando la definizione statistica di “area urbanizzata”, che arriva fino al limite dell’aperta campagna. Secondo questa definizione, Los Angeles è la città più densamente popolata degli USA, con 2.700 persona per chilometro quadrato di area urbana. Il suo traffico è terribile perché si è costruita solo la metà delle freeways originariamente previste, e ora ci sono meno strade veloci per abitante che in qualunque altra grande città.

I politici di Los Angeles non decideranno tanto presto di realizzare le freeways mancanti, ma questo non significa che non possano imparare a sbloccare quelle che ci sono. Tutto quello che devono fare è guidare un paio d’ore sulla Interstate 15, verso sud.

Una parola che comincia per “P”

Gli automobilisti fermi in un ingorgo fuori San Diego di solito guardavano con odio la fascia centrale della I-15: corsie preferenziali per il car-pool senza nessuna macchina con gruppo di occupanti a percorrerle. Quelle corsie erano così vuote che gli ingegneri hanno deciso di lasciar entrare anche automobilisti soli, a pagamento, come si legge su cartelli luminosi agli accessi. Un computer calcola quante auto accettano l’offerta, e ricalibra il prezzo ogni sei minuti, alzando il pedaggio se troppe macchine accettano, abbassandolo se non sono abbastanza.

La mattina in cui guardavo io, il computer ha fissato un prezzo di 1,25 dollari alle 7 e 10, l’a alzato a 1,50 sei minuti dopo, poi è schizzato a 2,25 alle 7 e 22, aggiungendo un altro quarto alle 7 e 28. Il pedaggio di due dollari e mezzo apparentemente ha spaventato gli automobilisti, e il computer ha reagito facendo crollare i pedaggi a 1 e 75, e a questo punto il traffico è aumentato e pure il pedaggio è risalito fino a 2 dollari. Col passare dell’ora di punta, il pedaggio è calato rapidamente, e per le 8 e 20 il computer voleva far entrare automobilisti nelle corsie preferenziali per un dollaro. Chi pagava poteva entrare a San Diego senza rallentare, nemmeno per pagare il pedaggio. Era raccolto attraverso trasmittenti radio collocate in alto, in grado di leggere il FasTrak transponder di ciascuna auto (la versione californiana di un telepass) a velocità fino a 190 chilometri l’ora.

Quando è iniziato questo esperimento nel 1996, alcuni critici sostenevano che non era corretto creare “corsie preferenziali per le Lexus”. Ma ora, anche gli automobilisti che non pagano il pedaggio hanno iniziato ad apprezzare le corsie, dato che deviano il traffico dalla strada principale. E anche se sono gli automobilisti più ricchi quelli che probabilmente pagheranno il conto, le indagini mostrano che c’è gente di tutti i redditi ad usare quelle corsie. La maggior parte di quelli che ho intervistato erano pendolari a reddito medio che facevano i loro conti, e che usavano se possibile il percorso gratuito. Ma quando il traffico si faceva pesante, consideravano conveniente pagare il pedaggio.

”Non vale la pena, spendere un paio di dollari per passare mezz’ora in più con la famiglia?” si chiede T.J. Zane, consulente politico con una Volkswagen Jetta del 1997. “È quello che spendevo di solito per una tazza di caffè da Starbucks. Adesso mi porto il caffè da casa, e uso i soldi per il pedaggio”.

Queste corsie a pagamento sono diventate così popolari, da essere state prolungate di venti chilometri fuori città, e il concetto di pedaggio variabile è diventata la soluzione preferita degli ingegneri autostradali, per risolvere problemi di ingorghi. Dopo decenni di lavoro su tecnologie fisse, come le strade controllate da raggi, si sono convertiti ad un approccio di economia elementare. Adesso considerano gli ingorghi qualcosa come l’equivalente delle file per il pane nell’Unione Sovietica: una conseguenza del monopolio senza immaginazione gestito da politici restii ad applicare un prezzo di mercato a un servizio di valore. Per essere onesti nei confronti dell’Unione Sovietica, se non altro loro non davano la colpa al pubblico per i problemi che creavano. Non proponevano “ smart-diete” per incitare la gente a mangiare meno pane.

Le strade a pagamento erano comuni negli Stati Uniti, fino alla decisione nel 1950 di finanziare il sistema di arterie Interstate con le tasse sulla benzina, che era attraente dal punto di vista politico: una tassa poco appariscente al posto degli odiati caselli dei pedaggi, un’illusione di eguaglianza perché ciascuno paga la stessa quota. Ma un automobilista sulla Long Island Expressway all’ora di punta pone un elemento di tensione sul sistema Interstate molto più consistente, poniamo, di un abitante del Montana sulla Interstate 90 a mezzogiorno. Quando il traffico raggiunge una massa critica, gli automobilisti rallentano tanto che una strada veloce a quattro corsie ha una capacità pari a una di tre corsie in condizioni di traffico fluido. Se ci fosse un computer a gestire i pedaggi a Long Island, ci sarebbero più autobilisti a muoversi velocemente all’ora di punta.

In trucco sta nel convincerli a pagare. Gli abitanti di Long Island abituati all’autostrada gratis resisteranno, non importa quanti economisti dicano loro quanto il tempo perso in ingorghi valga più del prezzo del pedaggio. I progettisti autostradali dotati di sensibilità politica non usano nemmeno quella “parola-che-comincia-per-P”: lo chiamano value pricing. Ma il traffico è diventato così insopportabile che anche gli antichi oppositori dei pedaggi, come A.A.A. e imprese di autotrasporti, ora sostengono i pedaggi su nuove strade e corsie preferenziali, se non altro perché non c’è altro modo di finanziarle. Si stanno inaugurando o realizzando strade a pedaggio in più di una dozzina di città, e ci sono proposte per coprire intere aree metropolitane con una rete di quanto si chiama corsie HOT (High Ocupancy Toll), come quelle di San Diego, gratuite per autobus e pulmini di pendolari, ma aperte ad automobilisti soli paganti. Alcune di queste nuove strade saranno corsie per il car-pool riconvertite, altre strade nuove o allargate, come le tangenziali attorno a Washington e Atlanta.

”Le corsie a pagamento della California sono il prototipo per il futuro” afferma Robert Poole della Reason Foundation, che ha avuto l’idea delle corsie HOT dieci anni fa. “Invece di affrire a tutti gli automobilisti lo stesso servizio di livello miserabile, ci saranno corsie preferenziali con garanzie di qualità per automobilisti, e particolari percorsi per i veicoli pesanti con una superficie più resistente e curve e pendenze graduali”.

Questo Premium service è già offerto sulle corsie veloci della Route 91, realizzato da una compagnia privata vicino ad Anaheim, California, e che è probabilmente la strada più intensamente monitorata al mondo. Se un automobilista rallenta in qualunque punto del percorso, i sensori nella pavimentazione istantaneamente allertano i tecnici nella sala controllo, e le telecamere poste lungo la strada ruotano per inquadrare l’auto. Quando c’è un problema, la gestione della strada garantisce l’arrivo di aiuti entro cinque minuti. Si mantengono in costante stato di allerta due squadre di servizio, pronte ad accorrere sul posto a cambiare una gomma, una cinghia della ventola, o rimorchiare un veicolo, il tutto senza costi per l’automobilista. Questo servizio extra si paga mantenendo il traffico fluido e attirando clienti, in particolare donne che si dicono disposte a pagare un pedaggio per sentirsi più tranquille sulla strada.

È difficile immaginarsi un traffico fluido, a New York, ma i tecnici affermano che qualunque cosa è possibile, pagando. Peter Samuel, direttore della rivista Tollroadsnews, ha proposto di toglere i campion dalla strada costruendogli un tunnel dal New Jersey a Brooklyn, e trasformando alcuni tratti di ferrovia a Brooklyn in corsie per autocarri. Samuel I. Schwartz, che ha coniato il termine “ gridlock” quando era ingegnere capo al Department of Transportation cittadino, immagina gallerie sotto le strade e autostrade per creare nuovi percorsi, e vuole sbloccare le vie di Manhattan imponendo pedaggi, come ha fatto il sindaco di Londra Ken Livingston con le sue strade.

Alcuni politici obbiettano, ancora, che i pedaggi sono iniqui per i poveri, ma si tratta di un’opposizione che appare tentennante. I Democratici al Congresso si sono uniti ai Repubblicani nel votare modifiche alle leggi autostradali per incoraggiare nuove corsie a pagamento. “Se vogliamo aumentare la capacità stradale per una popolazione in crescita, dobbiamo contare sui pedaggi” dice Robert Atkinson del Progressive Policy Institute, legato al centrista Democratic Leadership Council. Vede i pedaggi come un sistema fiscale progressivo: gli automobilisti più agiati pagano le nuove corsie preferenziali, mentre i meno agiati traggono benefici dal fatto che le strade esistenti diventano meno congestionate, e gli utenti di autobus utilizzano le nuove corsie veloci senza pagare.

Anche gli ambientalisti sostengono i pedaggi ma in genere con un atteggiamento fatalista. Piace l’uso dei pedaggi sulle strade esistenti per ridurre la congestione, perché meno auto significa meno benzina bruciata e meno inquinamento atmosferico. Il gruppo Environmental Defense ha partecipato in prima fila alla battaglia vinta per ridurre la congestione sugli attraversamenti del fiume Hudson aumentando i pedaggi all’ora di punta. Il Sierra Club sostiene la conversione di parte della Washington Beltway a corsie HOT. Ma proponete di costruire nuove strade a pedaggio (quelle più accettabili da politici e automobilisti) e potete aspettarvi citazioni in giudizio e una pubblica sollevazione sul degrado dell’ambiente.

Per i tecnici autostradali, queste obiezioni sono ragionevoli, ma non ostacoli insormontabili. Nonostante l’enorme incremento degli spostamenti in auto degli ultimi decenni, l’aria è diventata notevolmente più pulita nella maggior parte delle analisi e nella maggior parte dei posti, perché le auto emettono molto meno inquinanti, e continueranno a diventare più pulite. Il rumore piò essere diminuito; le strade si possono costruire con più cura, senza distruggere gli ecosistemi.Gli Autonomisti insistono sul fatto che ci può essere tutela e garanzie di livelli minimi di qualità dell’aria e di rumore per la gente vicino alle nuove strade, ma non hanno guadagnato molto spazio contro ai loro nemici, perché questa guerra ha a che vedere con molto più che non l’ambiente. È una guerra fra due visioni della Ville Radieuse.

La Guerra alla Cultura dell’Auto

”incoraggeranno semplicemente la gente comune a muoversi senza alcuna necessità” (Il Duca di Wellington, a proposito delle prime ferrovie a vapore)

Il Senatore John Kerry ora sconfessa la tassa di 50 centesimi al gallone che un tempo ha sostenuto, ma si tratta di un’idea che potrebbe unire amici e acerrimi nemici dell’automobile. Una tassa sui carburanti piace non solo agli ambientalisti, ma anche a molti economisti, che ci vedono il metodo più efficiente per ridurre il consumo di benzina, e insieme un modo semplice per far pagare agli automobilisti i costi sociali delle loro vetture. Non è politicamente realistico, data l’avversione Repubblicana a nuove tasse, ma non si potrebbe almeno escogitare un ipotetico accordo? Sono andato da almeno una dozzina di leaders di entrambi i lati dello schieramento nel dibattito sull’auto con un compromesso di massima: penalizzare glia utomobilisti con una nuova tassa da cinquanta centesimi, magari anche un dollaro, sulla benzina, e in cambio gli ambientalisti potrebbero sostenere nuove corsie e strade a pagamento utilizzabili senza pedaggio da pulmini di pendolari e autobus.

La prima reazione degli Autonomisti è stata di orrore: in parte per il prezzo pagato dagli automobilisti, ma soprattutto al pensiero di tutte le entrate a disposizione dei legislatori federali, ansiosi di spenderle in monorotaie suburbane. Gli autonomisti non volevano che nessun soldo andasse a Washington, anche se la maggior parte del denaro avrebbe pagato nuove strade, che loro preferiscono finanziare coi pedaggi.Ma qualcuno di loro alla fine ha acconsentito alla tassa sul carburante, se tutto il ricavato tornerà al pubblico sotto forma di tagli fiscali, crediti fiscali e altri strumenti. In questo modo chi non guida molto vedrebbe restituito più di quanto pagato in tasse sui carburanti. Le persone a reddito minore tendono a spostarsi in auto meno della media, e in questo modo ne uscirebbero avvantaggiati, e ci potrebbero essere ulteriori aiuti ai poveri sotto forma di buoni viaggio da usarsi sia per biglietti del trasporto pubblico che per spese legate all’auto.

Ma quando ho proposto l’accordo all’altra parte, non ho trovato sostegno. “Credo nel non fare più nuove strade, dal punto di vista intellettuale e ambientalista” afferma Jane Holtz Kay, l’autrice di Asphalt Nation. Altri dicono di non essere necessariamente contro qualunque nuova asfaltatura, ma pongono tante precondizioni (nuovi progetti ferroviari, nuovo smart-growth zoning, intere nuove città di nuovo tipo) che le strade non potrebbero essere realizzate per decenni, o mai.

”Il nostro primo ordine del giorno è di dar forma alle città e regioni e offrire alternative valide all’automobile” dice Peter Calthorpe, architetto “ new urbanist” e leader del movimento smart-growth. “Solo a quel punto si può iniziare a utilizzare le tasse per contruire un sistema di incentivi che metta su un piano di parità”. Neha Bhatt, coordinatrice della campagna del Sierra Club intitolata Challenge to Sprawl, dubita che una tassa sui carburanti possa fare qualcosa di buono. “La gente pagherebbe per continuare a guidare” dice, “perché la dura realtà in America oggi è che devi muoverti su lunghe distanze. Dobbiamo avere un approccio di programmazione più olistico”.

Ma se la gente è disposta a pagare per continuare a guidare, perché loro e le loro automobili devono contare meno dei comuni cittadini che offendevano il Duca di Wellington, col loro desiderio di andare in treno? Il disgusto degli intellettuali per automobili e suburbi, il loro amore per i viaggi in treno e le città, sono una curiosa variante dei vecchi atteggiamenti aristocratici. I sobborghi erano piuttosto di moda quando solo e classi alte potevano permettersi di viverci. I riformatori sociali del diciannovesimo secolo sognavano di mandare i cittadini sovraffollati fuori verso salubri spazi verdi. Ma quando i lavoratori dei ceti medi ci sono riusciti, prima sono stati derisi per le loro “scatolette fatte di pezzi appiccicati”, e più tardi per le cosiddette McMansions. Land Rover e auto sportive erano chic se guidate verso tenute di campagna, poi sono diventate antisociali tracannatrici di benzina quando sono comparse nei quartieri di villette.

”Gli atteggiamenti aristocratici verso la mobilità di massa non sono davvero cambiati dai tempi del Duca di Wellington a quelli della duchessa di Huffington”, ci dice Sam Kazman del Competitive Enterprise Institute, riferendosi a Arianna Huffington, una dei ricchi attivisti di Hollywood dietro al Detroit Project, che ha trasmesso messaggi pubblicitari contro le auto ad alto consumo. (lei e una sua collega in questa campagna per risparmiare energia, Laurie David, moglie del comico Larry David, hanno ispirato un nuovo termine: Gulfstream liberal, in onore del jet che usa il loro gruppo sociale. I critici amano ricordare che un viaggio con questo aereo attraverso il paese brucia dieci volte più carburante per passeggero di un mezzo di linea, e il doppio di un fuoristrada Hummer).

Gli Autonomisti hanno perso la guerra delle pubbliche relazioni, ma stanno cercando di contrattaccare. O’Toole hya fondato la American Dream Coalition per dare battaglia a quello che chiama la “ congestion coalition”, il suo termine per indicare chi si oppone a nuove strade. Gli autonomisti raccolgono casi di problemi provocati dalla smart growth, e in particolare da Portland, Oregon, che è diventata la città immagine degli urbanisti costruendo linee di metropolitana leggera, evitando le nuove strade, e limitando drasticamente lo sviluppo suburbano. Ma quasi il 90 per cento dei suoi pendolari si muove ancora in macchina, e la congestione stradale a Portland è aumentata più che in qualunque altra città americana nei quindici anni dopo l’apertura della prima linea di metropolitana leggera. Nel frattempo, i prezzi delle abitazioni sono saliti vertiginosamente, facendo di Portland una delle città meno accessibili per chi intende comprare casa.

Ma gli autonomisti vogliono fare qualcosa di più che non giocare in difesa. Vogliono che gli americani tornino ad amare le automobili. Citano il Walt Whitman di Fili d’Erba: “Orsù, anima! Non vedesti tu il disegno di Dio sin dal principio?/Tutta la terra percorsa, legata da una rete”. Citano storici come Macaulay, che ha osservato nel XIX secolo “”ogni miglioramento dei mezzi di locomozione è di beneficio all’umanità, moralmente, intellettualmente e materialmente”. Celebrano il ruolo dell’automobile nel famoso boicottaggio degli autobus di Montgomery, quando i neri evitarono il sistema pubblico razzialmente segregato appoggiandosi alle automobili collettive e a un servizio informale di taxi. La polizia, aiutata dai lavoratori dei trasporti messi in crisi, tentò di fermarli applicando strettamente alcune regole di codice stradale (Martin Luther King fu arrestato perché andava a cinquanta all’ora in un tratto dove c’era il limite a quaranta) ma gli automobilisti continuarono, e trionfarono. L’automobile privata diventò anche popolare simbolo di liberazione oltre la Cortina di Ferro. Quando i dirigenti comunisti importarono il film Furore! per illustrare i mali del capitalismo, il pubblico imparò una lezione rivoluzionaria diversa. Guardando gli agricoltori impoveriti andare verso la California, furono sorpresi dal fatto che anche gli americani disoccupati potessero muoversi in automobile dove volevano a cercare lavoro.

In un saggio intitolato Autonomy and Automobility, Loren E. Lomasky, professore di filosofia politica alla University of Virginia, invoca il concetto aristotelico di “auto-movente” per sostenere che la capacità di muoversi e vedere il mondo è la distinzione cruciale fra le forme di vita superiori e quelle di rango inferiore, ed è la fonte di quello che Kant più tardi avrebbe chiamato autonomia morale umana: “L’automobile, sostenibilmente, rivaleggia solo con la stampa (e forse nel giro di qualche anno col microchip) come elemento tecnologico potenziante l’autonomia” scrive. Gli urbanisti decisi a domare lo sprawl, sostiene Lomasky, sono gli eredi intellettuali di Platone e del suo concetto di re-filosofo che dovrebbe imporre l’ordine alle masse non illuminate.

Se non altro, sono gli eredi di Le Corbusier, l’architetto che sognava di stipare milioni di cittadini in una schiera di enormi torri, in una città meticolosamente pianificata che chiamava la Ville Radieuse. I suoi particolari progetti ora sono fuori moda, ma non la sua propensione alla pianificazione generale. Gli entusisti della smart growth vogliono autorità regionali o statali a regolamentare l’uso del suolo. Il loro obiettivo di restaurare i vecchi quartieri urbani suona nobile, ma quei vecchi quartieri e i loro sistemi di mobilità non sono stati costruiti da urbanisti che attraverso autorità regionali imponevano la propria visione di come la gente dovesse vivere e muoversi. Furono realizzati da costruttori di case, e compagnie di tram o metropolitane che rispondevano al desiderio dei propri clienti, in un’era in cui i politici si accontentavano di indirizzare l’urbanizzazione attraverso semplici regole di zoning. Fu solo più tardi, alla metà del XX secolo, che l’urbanistica diventò una professione burocratizzata, con ampie ambizioni, come i progetti di “ urban renewal” degli anni ‘60e ’70, che sono serviti soprattutto ad accelerare la fuga dei cittadini verso i suburbi. Ora che gli urbanisti li hanno seguiti nelle regioni suburbane, gli americani si stanno spostando verso centri più piccoli, negli esurbi. La loro idea di città “radiosa” è quella che si irraggia oltre la portata dei pianificatori generali.

Molti di quelli che se ne sono andati, come me, l’hanno fatto con riluttanza. Essi capiscono il fascino dei portici, dei negozi all’angolo, del tornare a casa a piedi per il pranzo. Alcuni di loro, specialmente i giovani e chi è senza figli, stanno muovendosi di nuovo verso le città, e una volta ancora ci sono costruttori privati pronti a venire incontro ai loro desideri, che ora si orientano verso i loft e le case di città storiche fornite di cucine moderne. Ma nel caso della maggior parte delle famiglie medie, l’ideale della vita urbana confligge con la realtà delle loro vite. Anche se volessero stare senza giardino, come potrebbero permettersi di vivere in un quartiere decente con la possibilità di andare facilmente al lavoro? Come potrebbero fare la spesa in un giorno di pioggia portandosi dietro un bambino? Dove andrebbero a scuola i figli?

Se sono abbastanza determinati, o hanno abbastanza denaro, o nonni con la voglia di fare servizio di doposcuola, possono stare in città. Altrimenti andranno nei suburbi, o più lontano. Una volta trovata casa, probabilmente firmeranno petizioni per fermare lo sprawl, ma faranno spesa da Target. Quando sono bloccati nel traffico, col sedile di pelle reclinato ad ascoltare un ritornello di Lou Reed o passaggi da Bergdorf Blondes,possono anche diventare nostalgici della vita urbana. Fermi dietro una Chevy Suburban, possono anche dimenticare la calca della metropolitana nell’ora di punta, e sentirsi intrappolati in quel national automobile slum. Ma se qualcuno gli desse un’autostrada aperta, metterebbero su Thunder Road e capirebero, ancora una volta, che è stata l’automobile a renderli liberi.

Nota: qui il file PDF scaricabile
Autonomist Manifesto

Intervista a Guglielmo Epifani di Pierluigi Sullo

Guglielmo Epifani era già impegnato nel braccio di ferro con il governo a proposito del Documento di programmazione economica e finanziaria [Dpef], quando gli abbiamo chiesto di fare questa conversazione sulla proposta di una serie di Camere del lavoro, le organizzazioni di base e territoriali del sindacato. L'«autunno sarà caldo», aveva fatto sapere la Cgil, una volta ascoltati i propositi del governo Berlusconi e all'indomani del taglio del dieci per cento delle spese dei comuni. Dunque, il momento era delicato, e il tempo scarso.

Eppure, come si può leggere in queste pagine, Epifani ha scelto di discutere a fondo le tesi delle Camere del lavoro. Un paio di anni fa, quando in un'altra intervista gli chiedemmo cosa pensasse del reddito di cittadinanza, Epifani rispose «per la mia cultura, al centro resta il lavoro, però capisco che è un tema sul quale bisogna discutere». L'apertura è un metodo, dunque.

Ma in più, certamente, il sistematico taglio, da parte del governo delle destre, della spesa sociale, al centro come nelle città, la «riforma» delle pensioni e così via, c'entrano molto, con la discussioni sulle vertenze locali che le Camere del lavoro propongono, e con la partecipazione cittadina.

Pare ci sia del nuovo, nel sindacato. L'inizio di «un progetto nazionale di rapporti diretti tra le Camere del lavoro» - come lo chiama Cesare Melloni, segretario della Cgil di Bologna - propone una innovazione nella struttura stessa della Confederazione: si pensa a un sindacato «a rete», «orizzontale», e non più solo «verticale» e centralizzato. È così?

É utile avviare una sperimentazione di rapporti diretti fra le strutture sindacali territoriali nella stessa misura in cui nella realtà produttiva e sociale si sono di fatto avviate molteplici relazioni fra i sistemi territoriali.

Le filiere produttive, così come i processi migratori, mettono in rapporto le strutture sindacali di categoria e confederali per gestire «situazioni di fatto», spesso a «valle» di decisioni già assunte dalle imprese o dalle istituzioni. Nel nostro caso, l'innovazione che si vorrebbe adottare con la sperimentazione di rapporti diretti fra strutture territoriali riguarda la possibilità di co-progettare una linea di intervento sindacale quando ancora è possibile incidere sulle decisioni dei diversi attori. Insomma un sindacato «a rete», più «orizzontale», può, in molti casi, essere molto efficace nello svolgere meglio la funzione sociale alla quale è chiamato.

Nelle intenzioni di chi propone quel progetto, si tratta di «ridare forza e progettualità al lavoro» affrontando lo squilibrio di potere tra capitale e lavoro «dal lato - cito da una delle relazioni al convegno di Sasso Marconi - del sistema territoriale e nella forma urbana». Che nesso vede, il segretario generale della Cgil, tra mondo del lavoro e «forma urbana»?

La forma urbana riproduce, mediato, nello spazio della città, gerarchie sociali che sono imposte direttamente nel rapporto di lavoro.

Questo fatto è diventato di immediata evidenza nel corso di questi anni, quando si sono indebolite le funzioni di riequilibrio sociale delle politiche di welfare e sono emersi bisogni e domande che si scaricano sulla condizioni di lavoro.

Il caso più eclatante è costituitoo dalla legge Bossi-Fini, che pone in carico al datore di lavoro di mettere a disposizione un alloggio per il lavoratore-migrane, il quale si trova così ad essere subalterno in azienda e ricattato come cittadino, proprio perché subalterno nelprapporto di lavoro.

In forma meno evidente, anche le politiche di incentivazione degli asili aziendali o della mutualità integrativa aziendale ripropone un doppio legame fra sfera del lavoro e sfera della cittadinanza, con effetti di «fidelizzazione del lavoratore che fanno leva sulla dipendenza nel rapporto di lavoro.

La iniziativa sindacale sul territorio deve, perciò rilanciare la necessità di investimenti per politiche di welfare locale, anche come sostegno alla partecipazione al lavoro e come strumento sociale di redistribuzione del reddito, svincolata dalla condizione e dal rapporto di lavoro.

La «forma» urbana riproduce la diseguaglianza e la gerarchia sociale anche nella distanza crescente fra centro urbano, sempre più «vetrina» affluente ed esclusiva, da una parte, e periferia anonima, sempre più sinonimo di marginalità sociale e di ghettizzazione etnica, dall'altra.

In sintesi, si può dire che la convergenza di interessi e di valori fra figura del lavoratore e la figura del cittadino i ichiede una cultura ed una pratica sindacale capaci di cogliere le diverse e complesse dimensioni della condizione umana nell'epoca della globalizzazione.

II punto di partenza delle Camere dei lavoro è la critica dello sviluppo. Sembra, dice Dino Greco, segretario della Cgil di Brescia, che basti mettere il segno «più» davanti a «Pil», e tutto o quasi è risolto. La mia impressione è che la Cgil, quando parla di «declino industriale» del paese, sembri alludere a un problema soprattutto quantitativo; poi, basta aggiungere l'espressione «di qualità», pensando soprattutto alla competizione globale, e l'obiezione è respinta. Sbaglio?

La Cgil, e certamente le sei Camere del lavoro impegnate in questo percorso, hanno come punto di partenza non una critica generica allo sviluppo, ma una critica specifica e argomentata a una forma di sviluppo attenta per l'appunto solo all'aspetto quantitativo [il segno «più» davanti al Pil] e che passa fatalmente per la sostanziale subordinazione del lavoro e dei diritti ad una logica tutta costruita sull'impresa. Si tratta, in sostanza, della storia di questi anni, scritta a quattro mani dall'ex presidente di Confindustria, D'Amato, e dal presidente del consiglio: attacco ai diritti del lavoro e dei lavoratori [vedi la legge 30; la legge Bossi-Fini sui lavoratori-migranti; la pratica degli accordi separati ...], sistema di incentivi finalizzati a finanziare le imprese senza alcuna priorità né selezione, rottura del sistema concertativo, attacco frontale al sistema dei servizi. È proprio questa impostazione che non poteva che portare al declino del Paese, amplificando gli effetti di una crisi più generale ed alimentando l'incapacità di cogliere le opportunità di ripresa.

Per la Cgil, battaglia contro il declino, industriale e non solo, è innanzitutto quindi battaglia per la qualità dello sviluppo, che vuol dire innovazione, non solo del sistema produttivo ma anche del prodotto; ricerca tecnologica; formazione e qualificazione; coesione sociale come valore aggiunto per il sistema Paese nel suo complesso; scommessa su un sistema che preveda, tra i principali fattori di sviluppo, la valorizzazione dell'apporto del lavoro. E ovviamente, un sistema di relazioni industriali che faccia del confronto e della ricerca di soluzioni condivise, il suo perno di riferimento.

Le parole «locale» e «comunità», non molto amate dal linguaggio tradizionale della sinistra, tornano spesso nel discorso delle Camere del lavoro. Che dicono: non solo la tutela e lo sviluppo di un welfare che voglia ricucire la società, ma la stessa qualità della produzione industriale, devono modellarsi sulle società locali, pena cadere nelI'anomia dell'omologazione imposta dalla globalizzazione, i cui modelli di produzione e consumo sono già dati. Cosa ne pensi?

Credo sia giusto, per le Camere del lavoro che operano sul territorio, e perciò complessivamente per la Cgil, porre il tema della qualità dello sviluppo in chiave innanzitutto «territoriale». In una fase in cui i processi di globalizzazione rischiano di produrre la sostanziale estraniazione delle comunità, ma anche delle istituzioni locali e della società corrispondente, dai livelli decisionali, è strategico porre con forza il tema della definizione di condizioni che consentano di stare nella competizione come sistema territoriale strutturato che offra coesione sociale, lavoro qualificato ed esperto e garantito, infrastrutture all'altezza, trasporti e reti di ricerca e innovazione.

In questo senso, trovo legittimo e positivo sostenere che la qualità e le caratteristiche della produzione industriale devono tenere conto della società locale, anche per definire modelli di produzione e di consumo innovativi. Penso, ad esempio, a come collegare ricerca, innovazione tecnologica ad un nuovo modo di «vivere bene», riservato non solo a ricchi e dintorni e che perciò arricchisca complessivamente la comunità e il suo territorio.

È plausibile, secondo te, un modello di vertenza territoriale come quello che le Camere del lavoro propongono e che punterebbe a creare un «fondo sociale» locale? Può, questo modello, coesistere con gli altri livelli di attività sindacale?

Certo che sì. Il problema delle risorse disponibili sul territorio è ormai a livello di guardia e, con l'attuale impostazione di politica finanziaria seguita dal governo, che mortifica le autonomie locali, rischiamo davvero situazioni difficili per la tenuta dei servizi. Del resto, come si diceva prima, sono sempre più evidenti i nessi tra cittadinanza, lavoro, politiche di sviluppo territoriale, che comprendano i temi della partecipazione e della responsabilità sociale del sistema delle imprese.

La proposta di costituire un «fondo di sostegno alla qualità dello sviluppo e della coesione sociale» prova a costruire una modalità innovativa per drenare nuove risorse, finalizzarne l'utilizzo a priorità sociali condivise, quelle che costituiscono [se non risolte] elementi forti di strozzatura del sistema e della sua stessa competitività: la casa, i servizi all'infanzia, la non autosufficienza...

Non mi pare ci possa essere un problema di compatibilità di questo percorso con il resto dell'attività sindacale; viceversa qui si tenta di dare una parte di orizzonte comune alla contrattazione aziendale e di secondo livello e alla contrattazione che si svolge sul territorio e che, in alcune delle Camere del lavoro impegnate in questa iniziativa, è particolarmente diffusa e regolarmente praticata.

In sostanza, si può produrre una nuova, feconda integrazione tra i diversi ambiti negoziali che li rafforza e li valorizza entrambi e che guarda esplicitamente al modello di sviluppo ed alla sua qualità: la proposta del «fondo» può in qualche modo rappresentare un possibile strumento di tutto questo.

Nelle ultime elezioni amministrative, molti hanno notato, ad esempio Sergio Cofferati, che le alleanze opposte alle destre hanno avuto maggior successo quando hanno saputo creare «coalizioni» con le nuove forme di partecipazione cittadina. Non ti sembra che l'iniziativa delle Camere del lavoro sia in sintonia con questa tendenza? E cosa pensi dei progetti «neomunicipali», cioè appunto della sperimentazione democratica a livello locale?

Farei intanto un osservazione. Nelle elezioni amministrative si è andati meglio laddove si è riusciti a tenere insieme le due cose: da una parte gli schieramenti politici e di partito, che hanno svolto la

loro parte, dall'altra ìl mondo vario e complesso della partecipazione cittadina. Bologna è stato un po' l'emblema di tutto questo: una alleanza politica che ha visto insieme in modo convinto tutte le componenti di partito [e che ha retto anche rispetto alla formazione delle giunte comunale e provinciale], ìn una logica, però, e con la capacità di coinvolgere tutto il mondo dell'associazionismo. Se non sbaglio, Cofferati ha potuto contare sull'appoggio dei partiti, da Di Pietro a Rifondazione, e, nello stesso tempo, di 82 associazioni locali.

L'iniziativa delle Camere del lavoro si inscrive in qualche maniera, e in modo sostanzialmente originale, dentro questo nuovo modo di fare la politica sul territorio. Anche qui il caso Bologna è emblematíco: la Camera del lavoro ha messo in piedi un proprio percorso programmatico sulla città, prima ancora che fosse avanzata la candidatura Cofferati, costruendo una proposta precisa e articolata, frutto di una serie di confronti pubblici ai quali ha partecipato una parte consistente dell'associazionismo, del mondo universitario, della società civile. Quella proposta [«Un'altra idea di città»] ha rappresentato un punto importante di riferimento per il programma, ma anche per la campagna elettorale del candidato sindaco.

Quanto ai progetti «neomunicipali», credo siano esperienze da costruire e seguire con attenzione: c'è una voglia di ritorno ad essere partecipi, a stare nelle discussioni, a «uscire dal guscio», che va sostenuta e consolidata. Definire forme di partecipazione democratica che aiutino in questa direzione può essere utile e interessante: il bilancio partecipato è il primo strumento che si potrebbe utilizzare, sapendo che le persone non vogliono essere solo informate, ma vogliono poter incidere sulle scelte che rícadono sulla propria vita. Allora bisognerà approfondire, analizzare e poi progettare, definendo procedure e metodi adeguati ed efficaci. Si farà più fatica, ma siamo convintì che nulla potrà essere più efficace e produttivo, per amministrare bene le città e le province.

Nel suo ultimo articolo, Tom Benetollo ha scritto che si deve difendere l'«autonomia del sociale» dalle «spire» della politica dei partiti. In caso di ritorno al governo dei centrosinistra, e con la nuova direzione di Confindustria, la Cgil potrebbe tornare alle forme di «concertazione» del decennio scorso?



La concertazione per la Cgil è sempre stata un metodo e mai un fine, la condivisone di obiettivi e la messa in comune di volontà. Senza obiettivi condivisi, la concertazione non può esistere. La concertazione invoca la presenza, accanto alle parti sociali, del governo e delle istituzioni locali. In Italia esistono centinaia di accordi di concertazione ogni anno, e nessuno ha nulla da ridire.

La concertazione, quindi, non annulla l'autonomia delle parti sociali: in questo quadro, anzi, solo il mantenimento di un autonomo punto di vista critico delle parti può portare ad un pratica concertativi corretta. Quando si polemizza con la concertazione, si pensa ad un punto di vista specifico e ben preciso [gli accordi del 1992 e 1993]: anche su questo i giudizi della Cgil sono ampiamente conosciuti e non vale la pena di ripeterli.

La Cgil concerterà quando ci saranno le condizioni, ricorrerà al conflitto quando sarà necessario, con l'obiettivo di governare i processi reali, partendo dalla rappresentanza degli interessi e dei bisogni reali che rappresentiamo, senza mai smarrire la mappa dei propri valori fondamentali.

Il sito di

Il sommario del numero speciale

Nel bilancio dei paesi civili non c’è un’entrata che riguarda i condoni edilizi. Più che reati sono considerati veri e propri oltraggi ai patti di convivenza tra cittadini. E condannati dal senso comune. Nell’Italia delle case in libertà questa infrazione è non solo utile per colmare disavanzi, ma indicata, al pari di altre, come pratica “liberale”, nel senso che ognuno a casa sua fa ciò che gli torna più comodo. Come nelle caricature di Corrado Guzzanti.

La proroga del condono edilizio è un favore inammissibile a quanti in questi anni hanno prodotto danni notevoli ai luoghi della Sardegna.

Berlusconi non solo dichiara con i suoi atti di governo la condiscendenza verso questa deprecabile violazione delle leggi di tutela paesistica(che in Sardegna sono il frutto faticoso dell’Autonomia). Ma offre direttamente un brutto esempio, eludendo i controlli su ciò che succede sulle rive sotto casa sua, in Sardegna appunto. Qualunque statista di un qualsiasi Paese progredito si sarebbe premurato di rendere pubbliche le carte invece di autocertificare nei comizi la liceità e la bellezza delle “migliorie”, fornendo versioni contraddittorie apponendo il segreto che fa sospettare anche al più fedele fan chissà quali violazioni.

Ancora non sappiamo esattamente che cosa nascondano i teloni che avvolgono il cantiere in Gallura. Filtrano immagini e notizie, per il diritto di cronaca esercitato nonostante il cordone di guardie private e pubbliche, e che hanno richiamato l’attenzione della stupefatta stampa estera. Mentre nessuna delle istituzioni locali che reclamano contro lo Stato centralista (specie a proposito della tutela ambientale) ha detto una parola per disapprovare questo imbarazzante spettacolo.

Si discuterà a lungo per accertare se il segreto di Stato apposto da Lunardi sia coerente con gli obiettivi della legge. Se si tratti di abuso edilizio e di potere, se le opere riconducibili alla sicurezza nazionale (?) possano eludere le regole regionali sulla tutela del paesaggio, se le date delle varie autorizzazioni coincidano, eccetera.

Si daranno un gran daffare gli avvocati del premier per confutare e minimizzare. Ma non riusciranno a eliminare l’impressione che poca o nessuna protezione potranno assicurare al presidente e ai suoi ospiti un approdo e una piscina a fronte di temuti attentati che, come è noto, violano ben altre difese.

L’idea insomma è che si tratti di lavori per privatissime necessità (di riservatezza e comodità di un ricco imprenditore) che niente hanno a che vedere con le questioni della sicurezza delle istituzioni di competenza di Sismi, Sisde, Cesis.

Si osserverà che una coltura di cactus o di agrumi esotici, un anfiteatro, un laghetto con papere e rocce che simulano barche in secca, e altri interventi esecrabili sul piano del gusto, c’entrano poco con lo scenario della ruvida macchia gallurese. Ma di brutte case e corredi e addobbi insolenti, spesso autorizzati, è piena la Sardegna litoranea: ogni villeggiante villano reclama la sua dose di ritocchi da apportare a spiagge e scogliere. E Berlusconi offre un esempio altolocato, sublimato dallo sfarzo autocelebrativo. In grado di influire (ancora e autorevolmente) su quella catena di figure tipiche del mercato delle vacanze, che echeggiano codici diversi confusamente conglobati: Capri e Disneyland, Ibiza e Beautifool, Miami e Porto Cervo ecc.

Il presidente è sinceramente convinto di essere nel giusto. E non stupisce l’ultima dichiarazione (prima delle elezioni a Sassari) riguardo alle “migliorie” travisate e che soddisferanno - a suo dire - le curiosità scientifiche di numerose scolaresche. Meta ambita di gite scolastiche venture la collezione di mille e più piante esotiche nel parco di Punta Lada: alternativa conclamata a Versailles, Boboli, Capodimonte, Stupinigi e via dicendo.

Il nuovo governo della Regione avrà tante cose da fare nei prossimi mesi e potrebbe scegliere di trascurare il caso nonostante l’alto significato simbolico. Sarebbe invece opportuno che svolgesse fino in fondo il proprio compito istituzionale, che facesse valere le prerogative regionali nella materia della tutela del paesaggio anche contestando, con i mezzi che la legge offre, il segreto di Stato; almeno per andare a vedere come stanno esattamente le cose nei documenti custoditi nei propri uffici.

(Mi spiegano la fretta con la quale si portano avanti i lavori, specie dell’anfiteatro che dovrà essere inaugurato attorno a Ferragosto. Una serata per la pace. Secondo i bene informati il ricco programma prevede in apertura Gianni Baget Bozzo, solo nella cavea, che legge brani tratti dal “De bello gallico”. Sembra uno scherzo).

Villa Certosa è documentata qui

Ce lo insegnano quasi tutte le esperienza, recenti o meno, che comportano qualche tipo di innovazione. Se la cosa è in qualche modo "governata", partecipata, discussa sin dall'inizio, i conflitti sono se non altro articolati e in qualche modo portano sempre ad un avanzamento. Se le cose sono calate dall'alto si genera quasi sempre e solo la protesta reazionaria, che non porta da nessuna parte e al massimo si limita a spostare la questione nel tempo o nello spazio (fb)

Un meccanismo perverso di produzione che rischia di schiacciare il commercio: capi difettati, scontati fino al settanta per cento, realizzati ad hoc per una nuova, preoccupante rete distributiva.

È la denuncia lanciata nel corso della tavola rotonda su “Factory Outlet: un nuovo trend di consumi” tenuta presso la sede dell'Ascom di Napoli dall'associazione dettaglianti tessili-abbigliamento e pelletteria della provincia di Napoli presieduta da Paola Borriello. All’incontro erano presenti, tra gli altri, Cosimo Capasso, presidente onorario dei Tessili; Vittorio Mori, presidente Assarco; Giovanni Gagliardi, presidente del Gruppo Moda; Renato Tarallo, presidente del centro commerciale “Spirito Santo”; Giuseppe Giancristofaro, presidente del centro commerciale “Via Toledo”.

Al centro della discussione, il fenomeno degli outlet appunto, i grandi centri commerciali ufficialmente sorti per smaltire l’invenduto dell’abbigliamento e che oggi, però, rischiano di annullare il sistema tradizione della vendita al dettaglio. Sotto accusa l’industria nazionale della moda che, in questo periodo di interminabile crisi, sta invadendo il mercato con un’offerta di gran lunga superiore alla domanda. Ecco così nascere un circuito viziato di produzione, pensato fin dall’origine per il sistema delle cittadelle degli sconti e supportato dalle grandi firme della moda, le quali, nel centro delle città, impongono ai negozi i capi griffati da vetrina, rifornendo contemporaneamente gli outlet.

Risultato: la svalutazione immediata degli abiti esposti dai dettaglianti. Nel corso dell’incontro è stato pure presentato un rapporto di Federmoda sui nuovi insediamenti di factory outlet, nati originariamente come spacci aziendali e trasformati in vere e proprie cittadelle dello shopping con strutture per il tempo libero. Durante la tavola rotonda si è discusso non solo delle dinamiche di questo allarmante fenomeno, ma anche delle problematiche giuridiche e degli effetti socio-economici a esso connessi.

Gli outlet non sono più spacci aziendali monomarca che sorgono nelle adiacenze delle industrie; adesso si tratta di veri e propri centri commerciali la cui esistenza dovrebbe ricadere nella competenza delle Regioni, con tanto di analisi delle ricadute del problema sul territorio. Se, da una parte, l’enorme diffusione degli outlet potrebbe far pensare a uno sviluppo positivo dell’imprenditoria del terziario, dall’altra si rischia di dare vita a un mercato drogato sin dalla sua nascita. Inoltre, non solo le griffe arrivano a svalutare se stesse con tali produzioni mirate, ma la stessa catena distributiva risulta compromessa, con la vendita, da parte dell’industria, direttamente nei centri degli sconti e con il salto conseguente degli agenti di commercio e dei distributori all’ingrosso. Per capire l’entità del problema nel nostro paese, basta considerare alcuni numeri. Nella sola Italia sono presenti 12 outlet, a fronte dei 22 di tutta la restante parte d’Europa. Per ogni centro commerciale, inoltre, da noi si trovano in media 130 negozi contro i 68 europei. Iniziatrice di tale esperienza sul nostro territorio nazionale, la società inglese Mc Arthur Glen con il "Designer outlet di Serravalle Scrivia, apertosi nel 2000 e soprannominato “la Disneyland dei saldi”. Si è continuato poi con Valmontone, Conselve, Noventa di Piave, Barberino, Rodengo, Albano di Sant’Alessandro, Santhia, Fidenza, Foiano della Chiana, Molfetta, Bagnolo San Vito. Il fenomeno, pertanto, ha avuto la sua principale diffusione nel nord Italia. A preoccupare i commercianti napoletani è anche l’annunciata apertura a Marcianise di “Capri due”.

Tra le soluzioni principali proposte nel corso della tavola rotonda dei tessili, la nascita di un marchio dell’abbigliamento napoletano e il rafforzamento del potere contrattuale della categoria. Due soluzioni non in contrasto tra di loro e che sole possono garantire la sopravvivenza dei negozianti di qualità nella battaglia contro i colossi dell’outlet.

Nota: Oltre ai pezzi sul tema della sezione Megalopoli, anche sull'Outlet Capri Duedi Marcianise Eddyburg aveva pubblicato poco tempo fa una breve nota

"Italia Nostra" da quando è nata nel 1955, sotto la presidenza del senatore a vita Zanotti Bianco, per difendere il patrimonio storico, artistico e naturale, fino ad oggi, sotto la presidenza di Desideria Pasolini dall´Onda, ha sempre svolto encomiabili battaglie contro gli scempi urbanistici e paesaggistici. Alcune le ha anche vinte ma, soprattutto, è riuscita, ben prima che nascessero i "verdi", a sensibilizzare l´opinione pubblica sui temi della difesa ambientale. Basti ricordare le pluridecennali azioni condotte da una delle sue dirigenti storiche, Teresa Foscari Foscolo, per la salvaguardia di Venezia. Ciò detto reputo che talvolta il pregiudizio ideologico conduca anche "Italia Nostra" a prendere posizioni dettate dal rifiuto contro qualsivoglia progetto innovativo. La difesa di tutto ciò che esiste, si tramuta allora in conservatorismo cieco che riesce a impedire a un buono o anche eccellente progetto di attuarsi.

La opposizione alla edificazione a Ravello di un auditorium progettato da uno dei più grandi architetti del mondo, il brasiliano Oscar Niemeyer, mi appare frutto di questa chiusura cieca che reputa non si debba più costruire nulla a prescindere da ogni criterio culturale e persino da ogni valutazione estetica. Il progetto che il creatore di Brasilia ha offerto gratuitamente all´amministrazione di Ravello e alla Regione campana, contro cui si oppongono in sede Tar sia "Italia Nostra" sia i proprietari del terreno che vorrebbero edificarci un garage, ha ricevuto l´appoggio caloroso di 150 personalità della cultura e dell´arte, da architetti e urbanisti come Fuksas, De Seta, Portoghesi, Alison, Gravagnuolo ed altri a musicisti e musicologi di grande prestigio come Vlad, Sciarrino, Gergev e ai direttori di Santa Cecilia, Cagli, della Scala, Meli, di San Pietro a Majlella, De Gregorio. E di tanti altri, da Massimo Cacciari a Remo Bodei. Persino Legambiente diretta da Ermete Realacci si è pronunciata a favore, mentre il Wwf, che inizialmente si era unito a "Italia Nostra", si è ritirato dal giudizio, convertendosi all´iniziativa. Il progetto di Niemeyer, una elegante costruzione semisferica di ridotte dimensioni (409 posti a sedere), non rappresenterebbe solo un arricchimento al profilo paesaggistico così come, a loro tempo, il Duomo o villa Rufolo, ma anche consoliderebbe la vocazione musicale di Ravello. Non riesumo in questo caso la favola metropolitana secondo cui Wagner avrebbe composto qui il Parsifal (in realtà solo la scenografia originaria del giardino incantato di Klingsor nel II atto si ispirò ai giardini di villa Rufolo che il grande musicista tedesco aveva visitato) ma al prestigioso festival wagneriano che da cinquant´anni vi si svolge e che da due anni è stato inserito in una più ampia programmazione musicale con una presenza anche di altri autori e una suddivisione tematica che spazia dalla musica da camera al film musicale.

Questo festival, cui partecipano maestri, orchestre e solisti di prestigio internazionale presenta oggi tutti i vantaggi e gli svantaggi di svolgersi all´aperto. Così da un lato se il tempo è bello gli spettatori godono anche la vista della costiera amalfitana, mentre quando piove lo spettacolo salta con perdite di centinaia di milioni per l´amministrazione pubblica (Comune e Regione) che lo sovvenziona. Questa la ragione prima - assieme alla possibilità di svolgere edizioni anche nei mesi freddi - che ha spinto la giunta Bassolino a stanziare i fondi per costruire un auditorium per il quale già sono stati ottenuti tutti i permessi e le autorizzazioni (Sovrintendenza, impatto ambientale, commissione edilizia, parere di conformità col piano urbanistico territoriale della penisola sorrentina). Ora la parola spetta al Tar: dare ascolto alle patofobie naturistiche e ai più concreti appetiti degli aspiranti garagisti oppure concedere l´ultimo decisivo placet a una iniziativa culturale di tutto rispetto?

Non per pessimismo inveterato ma per esperienza storica vorrei ricordare che negli anni Cinquanta due grandissimi architetti proposero di offrire a Venezia edifici che l´avrebbero solo arricchita: Wrigth voleva fare una piccola, splendida casa sul Canal Grande al posto di un anonimo edificio ottocentesco, mentre Le Corbusier aveva progettato un nuovo ospedale. Ma il partito di chi non voleva (e ancora oggi non vuole) spostare neppure una pietra - come se Venezia fosse stata costruita, perfetta, in un solo giorno della Storia - l´ebbe vinta anche allora. Auguriamoci che il tempo sia più propizio per l´offerta di Niemeyer.

“Quando l’ingegnere, ci avverte Bourdieu, parla di case è un tecnico, ma un ingegnere che critica pubblicamente la politica del governo diventa un intellettuale”. Quando ingegneri e architetti si occupano di città - come tecnici e come intellettuali- diventano urbanisti. Si è urbanista ( per fortuna) in modo differente; per formazione, esperienza, collocazione- certo - ma soprattutto per la propria capacità di leggere quello che nelle città avviene e, conseguentemente, declinare i singoli elementi della sua trasformazione. Cercare di capire come gli urbanisti (e le urbaniste) oggi leggono la città è un buon metodo per comprendere, anche, come il sapere di cui queste persone sono portatrici riesca, o meno, ad intercettare pratiche e comportamenti di altre persone (i cosiddetti movimenti) che hanno fatto della città il campo principale del loro agire. Abbiamo così pensato di interrogare alcuni colleghi per scoprire se esistono altre possibilità di comprendere, accompagnare e raccontare l’abitare la città come, per dirla con Marx, sogno di una cosa. Le domande sono state montate in modo volutamente ambizioso, a partire dal convincimento che spesso noi urbanisti, con il pretesto della verità delle norme e delle procedure tecniche, stronchiamo desideri ed esigenze concrete della moltitudine che rinomina la città a partire da inedite forme di progettualità sociale.

Organizzate intorno a tre ambiti problematici - la relazione tra urbanistica e città, tra abitare e costruire, tra piano e risarcimento sociale - altrettante domande sono state poste a quattro urbanisti (e urbaniste) che sappiamo costantemente impegnati a riflettere sull'intreccio di competenza tecnica e tensione politica che compone la loro pratica professionale, dentro le amministrazioni come nelle università, tracciando piani come scrivendo libri, seduti accando ai sindaci come in mezzo alle assemblee cittadine. Le loro risposte si configurano come un'apertura di dibattito, un dispiegamento di questioni su cui riflettere insieme. L'urbanistica, certo, è politica; ma come definiamo la politica? L'urbanistica è progetto di città; ma con chi e/o per chi lo disegniamo? L'urbanistica è un sapere tecnico; ma i suoi strumenti sono adeguati al nostro progetto? e quali strumenti per quale progetto? Insomma, non abbiamo cercato l'ennesimo decalogo dell'urbanista di sinistra e, per fortuna, non lo abbiamo trovato. Ciò che invece ci viene offerto è una direzione di lavoro. Non per un’ altra città, ma o ltre questa città.

1. L'Urbanistica e la Città

Desideri e necessità reali di chi abita la città, giorno dopo giorno, sembrano aver finalmente ritrovato la parola. Le città sono oggi attraversate da movimenti -e conseguentemente da pratiche- che pongono concretamente il problema del diritto alla città a partire da quello della cittadinanza. L’urbanistica, con il pretesto della legittimità, sanziona tutto questo. Quale, allora, lo spazio disciplinare dell’urbanistica nei processi di democrazia partecipativa?



Giancarlo Paba - Ciò che chiamiamo convenzionalmente “urbanistica” è da sempre due cose insieme (talvolta separate, talvolta mescolate): disciplina e immaginazione, regolazione e utopia, tecnica e sogno. Credo che in questa fase storica il pensiero e la pratica dell’urbanistica debbano recuperare il versante irrequieto, radicale, alternativo, “politico” della propria tradizione. Ritornare ad essere – come è positivamente capitato in passato – una cultura di opposizione e uno strumento di promozione delle cittadinanze diminuite, difettive, differite (dagli stranieri ai bambini), per le quali la vita non è una quieta condizione di partenza ma un progetto, e la città è ancora un orizzonte, una speranza, un obiettivo.

Anna Marson - Troppo spesso l’urbanistica trascura, in quanto considerati in qualche modo secondari rispetto alla città delle funzioni economiche, problemi evidenziati dai movimenti: la disponibilità di spazi pubblici vivibili e non soggetti a funzioni rigidamente predefinite, un ambiente costruito che sappia accogliere persone con progetti di vita e disponibilità economiche diverse, il diritto di accesso all’acqua, all’aria, a spazi non edificati. Si tratta di temi sui quali la disciplina urbanistica è nata, a cavallo fra ‘800 e ‘900, e che sembravano essere stati resi obsoleti dal “progresso”. I nuovi movimenti urbani ci ricordano che non è così, e che il progetto della modernità occidentale sembra oggi pesantemente fallito rispetto alle illusioni di qualche decennio fa.

Diversa è la questione della democrazia partecipativa, domanda che ha trovato nuova energia a partire da Porto Alegre. Rispetto al problema procedurale di “come” partecipare, è emersa un’esperienza abbastanza diffusa e consolidata di pratiche in campo urbanistico: contratti di quartiere, contratti di fiume, città dei bambini, piani partecipati, progetti integrati di sviluppo locale, agende 21 ecc. E’ sviluppando queste esperienze che l’urbanistica può concorrere alla diffusione dei processi di democrazia partecipativa..

Vezio De Lucia - E’ bene chiarire subito che non esiste l’urbanistica come corpo disciplinare concluso, una volta per sempre. L’urbanistica non è una scienza esatta. L’urbanistica è politica. Il bello dell’urbanistica, se così posso dire, è che la sua modesta base tecnica è adattabile a ogni situazione politica. Perciò, ogni partito, ogni amministrazione esprime, più o meno consapevolmente, una sua politica urbanistica. Importante è saper costruire quella politica.

Dino Borri - L’urbanistica è stata come “disciplina” – sono un po’ riluttante a usare questo termine, per un campo di saperi e di pratiche di cui ho sempre preferito il lato meno strutturato e più utopistico e insorgente – innovata sensibilmente negli ultimi anni dall’ampliarsi della partecipazione sociale. Ne è testimonianza ad esempio la rilevanza ormai acquisita dal “sapere comune” nell’allestimento di piani e progetti urbanistici, spesso in contrapposizione a un “sapere esperto” né efficiente né efficace e soprattutto incapace di misurarsi con le sfide sociali e ambientali emergenti. Ne è testimonianza anche l’attenzione sociale per la qualità dell’”azione” sempre più affiancata quella tradizionale e tecnica per la qualità della “decisione”.

L’urbanistica può d’altra parte essa stessa contribuire, con la promozione di migliori ambienti di vita non solo urbani, al dispiegarsi di forme migliori di consapevolezza civica e ambientale, può contribuire a processi di educazione ambientale, in un rapporto interattivo tra expertise e senso comune. In fondo, anche se forse con un po’ di retorica e di mitologia, guardiamo da sempre alle sapienti costruzioni e alle bellezze di luoghi e città dove più la democrazia si è inverata, dove conflitti sociali anche aspri sono rientrati nel complesso fluire istituzionale delle politiche, di un coordinamento di azione sociale e azione individuale.

2. L'Abitare e il Costruire

I movimenti non sembrano pensare ad un’altra città quanto, piuttosto, attraverso pratiche di progettualità sociale, a costruire forme di resistenza e, in alcuni casi, di esodo dalla città in cui siamo costretti a vivere. Come e in che misura l'urbanista potrà intrecciare i suoi saperi con quelli di questi nuovi protagonisti insorgenti per far sì che la città diventi il luogo dove l’abitare preceda il costruire?



Giancarlo Paba - Come architetti e urbanisti possiamo incidere sui rapporti tra desideri e opportunità (per riprendere un ragionamento di Jon Elster). Nei processi partecipativi, e nelle pratiche dirette di costruzione del proprio spazio di vita, i nuovi abitanti selezionano i propri modelli di abitazione tra le opportunità a disposizione, utilizzano le tecniche conosciute, adattano i propri desideri alle possibilità concrete esistenti e standardizzate. Noi possiamo allargare il campo delle opportunità a disposizione degli abitanti, disseminando le innovazioni, facendo circolare da un’esperienza all’altra le soluzioni migliori, facendo precipitare nelle pratiche partecipative gli stessi risultati innovativi della ricerca (bioarchitettura e biopianificazione). Tornare a fare gli architetti e gli urbanisti, non i “facilitatori”.

Anna Marson - Ogni disciplina è tuttavia fatta di persone, oltre che di un sapere condiviso sedimentato nel tempo: urbanisti (e urbaniste) con idee implicite sul ruolo del tecnico e del rapporto fra sapere tecnico e società a volte molto diverse. Intrecciare i propri saperi con quelli dei nuovi protagonisti insorgenti richiede:

- il riconoscimento dell’importanza dell’interazione diretta con i più diversi portatori di interesse collettivo (versus l’interesse al diritto privato), non delegabile a un qualsivoglia partito;

- la pratica del metodo dell’ascolto, e l’interesse a riconoscere energie sociali utili per la costruzione di scenari alternativi finalizzati al benessere degli abitanti;

- la legittimazione della ‘conoscenza comune’, non tecnica, come conoscenza specifica e situata degna di essere considerata con attenzione e pari dignità delle conoscenze disciplinari.

Tutto ciò non è così facile: in particolare, i partiti sono onnipresenti alle spalle dei committenti (assessori o altro) delle azioni di pianificazione pubblica, e sono generalmente interessati a vietare o limitare il ruolo dell’interazione diretta tra urbanisti e diversi portatori d’interesse, per riservare a sé l’esclusiva della mediazione.

Vezio De Lucia - Mi pare che ci sia in questa domanda un pregiudizio contro la città. Se è così, non sono d’accordo. Perché esodo dalla città? Già nei secoli scorsi si diceva che la città rende liberi. Secondo me, il problema, oggi, è la conservazione o la rivendicazione della dimensione pubblica della città, compromessa dall’esasperazione privatistica, dalla logica dei padroni in casa propria, dal condono, dall’accantonamento dello stato sociale, eccetera. Qui non è possibile approfondire il tema della periferia portato all’attualità dalla tragedia di Rozzano. Credo che non sia sfuggito ai lettori dell’Insostenibile l’allineamento acritico e generalizzato di tanti intellettuali alla campagna contro l’edilizia pubblica. Un brutto segno.

Dino Borri - Preoccupa l’incapacità collettiva di rielaborare la città contemporanea per adeguarla alle complesse sfide socioambientali che la investono. Dalla megalopoli al villaggio si è di fronte a modelli in crisi, per le tante povertà, i tanti inquinamenti, le tante violenze solo in parte visibili. Senza pensare a una palingenesi, è realistico mettere in conto il fatto che città e campagne – dove ancora ne esistono – debbano cambiare fortemente, intrecciare meglio artificio e natura, rigenerarsi, essere capaci di preservare le diversità, attrezzarsi a convivere con gravi problemi di carenza di risorse e di conflitti socioculturali.

I saperi tecnici possono e devono essere stimolati a una più complessa progettualità (non quella delle soluzioni illusoriamente definitive ma quella di più adeguate rappresentazioni dei problemi con cui si deve convivere creando via via anche piccoli spazi di azione) da queste forme di resistenza sociale, che il più delle volte rivendicano maggiore giustizia sociale e ambientale, una vita più semplice, meno distruttiva, tutte cose che migliorano la qualità dei processi urbani e che devono informare ogni tecnica per non renderla inconsapevole e devastante.

L’abitare precede il costruire dove una vita leggera si fa strada, dove rappresentazioni e esigenze del mondo meno materiali delle attuali si fanno strada e le persone che lavorano in vario modo alla organizzazione delle città sanno farsene intrigare.

3. Piano e Risarcimento Sociale

Nella città contemporanea assistiamo a fenomeni sempre maggiori di costruzione di nuove culture dell’abitare. Tali culture, attraverso continui processi costituenti, concretizzano un ideale di comunità aperta e solidale che tende alla costruzione dell’alternativa come risarcimento sociale. Ha ancora senso pensare al piano urbanistico come opportunità per costruire l’alternativa e vendicare le forme di sfruttamento imposte dal nuovo ordine economico mondiale?

Giancarlo Paba - È in atto uno scontro tra città fortezza e città aperta, tra recinzione e apertura dello spazio pubblico, tra strategie di securizzazione e sorveglianza da una parte e reinvenzione della dimensione collettiva della città dall’altra parte. Come sempre possiamo scegliere di stare da una parte o dall’altra: progettare case protette e blindate o nuove residenze collettive, trasformare le fabbriche abbandonate in un recinto commerciale o riprogettarlo come struttura aperta alle nuove culture e ai nuovi stili di vita, immaginare soluzioni urbanistiche per una città permeabile e aperta o progettare gated communities, abbandonarci ad una “sociologia ed estetica della constatazione” della città diffusa (come ha scritto efficacemente Gregotti su Repubblica una paio di giorni fa) o provare di nuovo (come ha sempre tentato di fare l’urbanistica di opposizione) a trasformare la città esistente.

Anna Marson - Il piano urbanistico non è mai stato uno strumento per “costruire l’alternativa”, anche se l’idea di città promossa era diversa da quella prodotta dallo sviluppo edilizio selvaggio. Il piano si è (quasi) sempre posto il problema di come mitigare le domande di rendita privata con la produzione di una serie di beni collettivi liberamente fruibili e con indici di edificazione tali da garantire condizioni di vita decenti.

Rispetto alle “forme di sfruttamento imposte dal nuovo ordine economico mondiale” alcuni piani recenti propongono la rivalutazione e la salvaguardia del patrimonio territoriale locale come forma di resistenza e di autonomizzazione, nella produzione di ricchezza, dall’omologazione dilagante. Non più quindi un semplice “risarcimento sociale”, ma una progettualità, anche sociale, alternativa.

Vezio De Lucia - Allo stato delle cose non vedo alternative al piano urbanistico come strumento fondamentale per la difesa degli interessi collettivi e degli strati sociali sfavoriti. Non è certo un caso che, con il pretesto della modernizzazione, della semplificazione, eccetera, sono proprio i portatori degli interessi fondiari a patrocinare il superamento dell’urbanistica tradizionale. Da questo punto di vista, mi sembra esemplare l’azione condotta a Bologna dalla Compagnia dei Celestini, un’associazione formata da giovani urbanisti che ha denunciato i gravi difetti dell’urbanistica bolognese, anche prima di Guazzaloca. I Celestini hanno puntualmente dimostrato che i nuovi strumenti d’intervento (accordi di programma, piani di recupero, eccetera), che avevano l’obiettivo di migliorare la condizione urbana, hanno invece determinato un suo sistematico e netto peggioramento. Così è dovunque. Attenti perciò a non favorire un’oggettiva convergenza dei movimenti antagonistici con le strategie degli energumeni del cemento armato, come li chiamava Antonio Cederna.

Dino Borri - Le culture contemporanee dell’abitare sono plurali, com’è stato d’altra parte sempre, fatte di una pluralità che riguarda anche risorse, diritti. Si va da modi opulenti nelle città del nord del mondo a modi di povertà estrema nelle megalopoli del sud diseredato le cui baraccopoli sono terribili forse più degli affamati villaggi rurali che le hanno per fuga generate. Spesso proprio nelle forme di abitare più difficili e povere, alle periferie di immense città dalle impressionanti storie, comunità si creano continuamente, vitali e in qualche misura solidali pur nelle difficoltà e conflittualità che le percorrono per le tante durezze.

Il piano urbanistico tradizionale, costruito sulla città sociale moderna, non ha più molto da dire a queste realtà e deve sostituirsi con politiche e progettualità assai più sensibili, plurali, fragili, incerte. D’altra parte il vecchio piano, se è in crisi nella megalopoli povera la cui crescita e il cui sviluppo sono profondamente diversi da quelli della città industriale europea che quel piano tradizionale ispirò, è pure in crisi nella città opulenta del nord del mondo dove il dilagare di una appropriazione capitalistica degli spazi e dei luoghi e di una massiccia deregolazione domandano nuove forme di controllo e progetto, nuove relazioni tra spiriti pubblici e spiriti privati.

Non più valore da tutelare, ma merce su cui speculare. E' questa l'evoluzione che ha subito il patrimonio ambientale della regione Lazio sotto la guida del governatore Francesco Storace (An). Dopo aver tagliato con l'accetta 18 mila ettari di parchi e riserve naturali regionali, la giunta di centro-destra ha scardinato anche la legge sui piani paesistici (Ptpr). Ossia la normativa che regola e coordina tutti gli strumenti legislativi di tutela ambientale. All'una e mezza della scorsa notte, dopo 12 ore e passa di discussione, il consiglio regionale del Lazio ha infatti approvato la modifica della legge sulla Pianificazione paesistica attualmente in vigore (la n. 24 del 1998). Uno scempio che demolisce le tutele ambientali della regione - e apre la porta alle speculazioni edilizie - passato a colpi di maggioranza con l'astensione di Ds e Margherita e il voto contrario di Verdi, Rifondazione e Comunisti Italiani. «Il provvedimento - denunciano Angelo Bonelli e Salvatore Bonadonna, capigruppo in regione rispettivamente di Verdi e Prc - è il peggior attacco all'ambiente messo in pratica dalla giunta Storace». Di «legge pessima» parla anche Alessio D'Amato, capogruppo Pdci in consiglio regionale. Assai più misurato, invece, il giudizio dei Ds, che pur non condividendo l'impianto generale della legge, sono soddisfatti per la conquista di alcune «modifiche di grande rilievo», come quella che consente l'acquisizione al patrimonio pubblico delle aree private dei parchi. Una posizione morbida che, insieme a quella della Margherita, ha suscitato scandalo e «sconcerto» tra gli ambientalisti. Una polemica tutta interna al centro sinistra, che la maggioranza non ha mancato di sottolineare. Tutte le denunce sul testo di legge liquidato, invece, il centrodestra le respinge al mittente. Anzi rilancia. «Le modifiche - dichiara infatti Maria Annunziata Luna, capogruppo della lista Storace - garantiscono valorizzazione e sviluppo ai territori sottoposti a vincolo».

Sta di fatto, però, che grazie ai nuovi Ptpr sarà possibile realizzare nuove edificazioni e sanare gli abusi edilizi (sicuramente quelli fatti fino al 1985) sulle fasce costiere marittime, di fiumi e laghi, il tutto in deroga al vincolo nazionale di protezione. La fascia di tutela sugli argini di fiumi e corsi d'acqua, inoltre, si riduce dagli attuali 150 metri ad appena 50. Tra le novità più eclatanti del provvedimento c'è anche la deroga al vincolo statale nei territori boschivi, che consentirà di costruire sopra i 1.200 metri. Con la nuova normativa arriva anche il via libera all'aperura di nuove cave in aree vincolate. Come se non bastasse, in tutti i casi in cui viene liquidato l'uso civico si elimina anche il vincolo paesistico, mentre non è prevista alcuna autorizzazione per i tagli culturali dei boschi. Una voltra approvato, il Ptpr potrà essere modificato dalla regione ogni due anni e anche i comuni potranno proporre cambiamenti per esigenze di sviluppo. La nuova legge, inoltre, prevede una serie di programmi di intervento sui quali sarà possibile applicare deroghe ai piani territoriali paesistici e perfino al ptpr: cioè operare anche in difformità ai piani di tutela ambientale. Con lo stesso meccanismo (la deroga al Ptpr), la regione potrà individuare nuovi parchi archeologici e culturali, o paesaggi protetti.

Le sovrintendenze archeologiche, invece, sono state completamente esautorate dal controllo del territorio. Le uniche segnalazioni ad avere efficacia, infatti, saranno quelle del ministero dell'ambiente e della regione. Dulcis in fundo, l'articolo 35 bis del testo approvato concede la sanatoria a tutti gli abusi realizzati su aree vincolate da leggi statali o regionali, purché ricadenti in piani urbanistici attuativi (strumenti assai diffusi sul territorio regionale).

A legge approvata rispuntano fuori vecchi progetti imprenditoriali, come quelli che prevedono la realizzazione di 200 house boat per usa turistico sul lago di Paola ( in pieno parco nazionale del Circeo) e l'abbattimento di 5.000 alberi sul versante nord del Terminillo per far posto a una nuova pista da sci.

Intanto, a meno di 24 ore di vita del provvedimento, Italia nostra, Legambiente, Wwf e Sole che ride promettono battaglia. Per gli ambientalisti, infatti, la nuova legge «dimostra una volontà di smantellamento sistematico di ogni valore e livello di tutela». La prima mossa, dunque, sarà una lettera indirizzata al presidente Ciampi, garante della Costituzione. Poi toccherà alla mobilitazione di piazza.

Nel 2000 è avvenuta una svolta nella storia del pianeta. Una svolta al termine di un processo che potrebbe essere cominciato sessanta secoli fa. Ma anche centoventi. Gli esseri umani che vivono in città hanno superato quelli che vivono in campagna. Nessun festeggiamento, nessuna cerimonia. Ma è da qui che parte Guido Martinotti, sociologo urbano, professore all´Università di Milano-Bicocca, di cui è anche prorettore, nella sua riflessione sullo stato di salute della città, sulla sua forma e sulle sue trasformazioni, sulle città che si ingrandiscono e su quelle che si rimpiccioliscono, su come ci si vive e su come ci si muove o, soprattutto, su come ormai non ci si muove più. Tutto questo è al centro della terza edizione di «Mobility Venice», un forum internazionale che si è aperto ieri a Venezia (vedi il box in questa stessa pagina).

Martinotti constata l´avvento di una nuova forma di città, che procede contemporaneamente al successo della dimensione urbana nel confronto durato molti secoli con la campagna: è nata la "meta-city", la "città-oltre", una concentrazione territoriale che supera non solo l´antica città cui i millenni ci hanno abituato, ma anche la stessa, recentissima, area metropolitana. Un urbanista, Francesco Indovina, la chiama "città diffusa". È un agglomerato edilizio e di strade che giorno dopo giorno consuma ettari di suolo, porzioni irriproducibili di paesaggio. Non è abusivismo: stando al censimento, la superficie agricola totale che nel 1990 arrivava a 23 milioni di ettari, nel 2000 non superava i 19 milioni 700 mila ettari. Questa marmellata edilizia accorpa città un tempo distanti, si slabbra senza confini amministrativi, sembra una nebulosa, ma è pur sempre un oggetto concreto, visibile a occhio nudo, governato non si capisce da chi, certo non da organismi rappresentativi come il Comune o la Regione.

Professore, si può parlare ancora di città?

«È un termine insufficiente, perché non rende le modifiche degli ultimi cinquant´anni almeno, tutte orientate in un´unica direzione, l´enorme ampliamento dell´urbano».

Al sostantivo va necessariamente abbinato un aggettivo: città storica, metropolitana, densa, spontanea, diffusa, ecc.?

«Questi e altri ancora. I tentativi terminologici procedono incessanti: non-luogo, urban realms, edge city, metropolitan fringe?»

Eppure, stando ai dati statistici, le città perdono abitanti. Roma, Milano, Firenze, Napoli, Torino al censimento del 2001 contavano gli stessi residenti di venti, trenta, persino cinquant´anni prima. E lo stesso accade a Detroit o a Lipsia?

«È vero. Milano ha pochi più abitanti del 1936. Ma queste misurazioni si riferiscono alla città di notte, quella che dorme. Non a quella che di giorno si satura di persone e di auto. Una volta le due entità si sovrapponevano. Ora non più. Ed è per questo che in sociologia si è introdotta l´espressione city users».

Com´è una città che perde residenti?

«È una città che invecchia. Milano ha quasi il 29 per cento di ultrasessantenni, una quota in crescita continua. Detto questo, pur restando ai dati dei censimenti, la nostra resta un´epoca di urbanizzazione».

Quali dati?

«In Europa, in America e in Asia il 70 per cento delle persone vive in città. In Italia questa percentuale è di poco superiore alla metà. Ma già in Francia è superiore. Fino a trent´anni fa crescevano solo le città occidentali, ora si dilatano quelle cinesi o africane. E tenga conto che l´espulsione dalle campagne è agevolata dalle multinazionali dei semi geneticamente modificati, che impongono immense estensioni e pochissima manodopera».

Ed è in questa fase, lei dice, che avviene nel mondo il sorpasso delle città rispetto alle campagne.

«Sono stime delle Nazioni Unite. L´urbanizzazione è un cammino che procede dalla fondazione di Gerico in Palestina, le cui mura risalirebbero a diecimila anni prima di Cristo, di Ugarit in Siria o di Uruk, la città sumera con i suoi bastioni, un´organizzazione sociale e persino un hinterland».

Ma proprio nel momento in cui raggiunge l´apice del suo sviluppo, la città cambia completamente la sua forma. È così?

«La città è un organismo vivente. Per sessanta e più secoli ha fronteggiato in condizione di minorità il mondo rurale. Da due secoli la situazione è andata via via mutando, fino a ribaltarsi. Ma nel frattempo la forma della città è radicalmente mutata».

E si arriva così a quella che lei chiama "meta-city". Vogliamo vederla più da vicino?

«Volentieri, ma devo partire dagli anni Venti del Novecento, quando si affaccia, soprattutto sulla scena americana, una prima generazione di città moderna, la città fordista, largamente dominata dall´industria pesante e dall´incipiente diffusione dell´automobile privata».

Cui è seguito che cosa?

«È seguita una seconda generazione, dal dopoguerra fino a tutti gli anni Sessanta. La chiamerei the car-happy city».

La città dove si è felici di usare la macchina?

«Esattamente. Ne era simbolo una celebre canzone di Charles Trenet. Oppure il film Il sorpasso. È la città che si espande, la città della ricostruzione e dello sviluppo capitalistico, così in Occidente come in Asia. L´auto serve a muoversi dalla periferia verso il centro e la città è costruita sul concetto della mobilità, che è determinato anche dal valore dei suoli. Chi ha più soldi vive in centro, chi ne ha meno, va in periferia».

E la terza fase?

«È quella in cui la città si è dilatata, tracimando oltre i propri confini, comprese le periferie tradizionali. Fortunatamente è anche emersa la consapevolezza del fenomeno, dovuta agli alti costi sopportati da chi vive in questi agglomerati, costi energetici, costi di congestione e di inquinamento. In termini molto ottimistici si può definire questa come la fase della conservationist city».

Eccoci arrivati a quello che oggi è diventata la città.

«La società periurbana, chiamiamola così, è un territorio di primaria importanza per capire la nuova città. Dal punto di vista morfologico è composta di varie forme insediative: aeroporti, centri commerciali, quartieri residenziali, infrastrutture per il tempo libero, ma anche semplici agglutinazioni di diverso tipo intorno a strade, autostrade, caselli autostradali, ferrovie. Provi ad andare lungo il corridoio che scivola da Piacenza a Forlì: non c´è più uno spazio libero».

Perché non include anche gli stabilimenti industriali?

«Non perché siano scomparsi. Le fabbriche hanno perso l´originaria funzione di ordinamento del territorio che avevano un tempo».

È un processo ineluttabile?

«Nulla lo è. Certamente quegli insediamenti sono favoriti dallo sviluppo tecnologico legato ai modi dell´abitare».

Che vuol dire?

«Le case devono diventare molto più comode e anche più grandi perché si riempiono di macchine. Ecco perché esplode la tipologia della villetta. Un tempo le macchine erano time saving, aiutavano a risparmiare tempo - la lavatrice, la lavastoviglie, che da anni però non registrano significative innovazioni. Adesso le macchine servono a consumare il tempo risparmiato: la tv e il computer fondamentalmente. E non solo. Contribuiscono a trasferire dentro casa, in una specie di agorà privata, ciò che prima era collettivo».

In Italia il fenomeno ha le stesse caratteristiche di altri paesi europei?

«Alla fine del secolo scorso oltre metà della popolazione francese viveva nel periurbain. E questa è una tendenza che, con qualche differenza, si generalizza in tutta Europa. In Italia la proporzione è leggermente inferiore perché resiste un fitto insediamento di città medio-piccole».

La città diffusa, quella, per esempio, che si è propagata nel Nord Est, è molto onerosa. Quel modello economico è in affanno. Quali sono i principali costi?

«Ne parlavamo prima: l´inquinamento nell´area padana è fra i più elevati del mondo, simile a quello nel triangolo fra Chicago, Boston e Washington. La città diffusa o quella che si distribuisce lungo corridoi stradali non può essere coperta da un sistema di trasporto collettivo, che se dovesse rincorrere i brandelli sparsi di città avrebbe oneri pazzeschi. È il dominio delle auto private, che faranno lievitare il costo del petrolio a cento dollari il barile. Ed è il dominio della congestione».

Titolo originale: The 21st Century Comprehensive Plan, traduzione di Fabrizio Bottini

[...] Ho iniziato a pensare al futuro, a quale forma potranno prendere la pianificazione e i piani nel secolo che arriva. Nonostante siano senza dubbio molti, i fattori che influenzeranno e daranno forma all’urbanistica, voglio concentrarmi su cinque modi in cui i piani urbani stanno già iniziando a cambiare mentre ci avviciniamo al nuovo secolo.

1 - Orientamento a una “visione” – La pianificazione generale ha sperimentato un boom dopo la seconda guerra mondiale. Infatti, molte città hanno iniziato a sviluppare i loro land use plans durante gli anni Cinquanta. Uno sguardo in prospettiva a quei piani mostra, in generale, un approccio orientato ai problemi. Venivano identificati problemi e questioni, e proposte soluzioni. Questo orientamento ai problemi prosegue fino al giorno d’oggi, ma con una nuova tendenza. Anziché iniziare il processo di piano con una lista di questioni e problemi, le città, con un esercizio di visione in prospettiva, costruiscono un’immagine o idea di cosa lo spazio locale intende fare di sé stesso, cosa vuole realizzare e diventare. Una volta sviluppata e adottata, questa visione prescelta diventa il punto di convergenza o meta da perseguire. Il processo di piano che ne risulta delinea la sequenza di eventi e azioni che la comunità dovrà intraprendere per realizzare la visione.

2 – Una base tematica – Le tradizioni in urbanistica cambiano lentamente. Ad esempio, prendete in considerazione il vostro piano regolatore generale e i suoi contenuti. Posso tentare di indovinare che il vostro piano sia organizzato per capitoli o punti dedicati alla casa, ai trasporti, ai servizi urbani, e simili. Come risultato di questo stile organizzativo, il lettore, e allo stesso modo la città, talvolta percepiscono ciascun capitolo o punto come indipendente dagli altri. Come sanno molti planning commissioners, si tratta di una percezione sbagliata, Per superare questo schema mentale, i piani stanno cominciando a riflettere uno stile “tematico”. Anziché avere distinti capitoli dedicati a singoli argomenti, i piani si concentrano su tematiche ampie, come la crescita equilibrata, la conservazione dei caratteri rurali, l’accresciuta vitalità economica, e via di seguito. Questo stile di pianificazione integrata aiuta il lettore a comprendere le interdipendenze e correlazioni esistenti nella città.

3 – Uno sforzo di collaborazione – Perché la pianificazione abbia davvero un significato, i cittadini devono essere coinvolti nel processo. Gli urbanisti, indipendentemente dal loro talento e capacità, se lavorano in modo isolato e lontano dai destinatari del piano, non saranno in grado di costruire piani che la comunità possa sentire propri. Un processo di collaborazione offre una modalità più aperta, inclusiva, di coinvolgere i cittadini nel quadro generale della strategia di piano.

4 – Focalizzazione sulla scala sovracomunale Per la maggior parte di questo secolo, i piani generali urbani sono stati sviluppati mostrando scarsa considerazione per la regione circostante. Nell’ultimo decennio, comunque, le trasformazioni del sistema economico, tecnologico, finanziario, e nelle politiche statali e federali che influiscono sull’uso dello spazio, hanno reso chiaro come i sistemi locali siano interdipendenti. In quanto tali, le città sono sempre più consapevoli di dover lavorare insieme a risolvere problemi comuni. L’inserimento nel quadro di un bilancio regionale, o di una sezione dedicata alle strategie di impatto a questa scala nei piani locali, - insieme a più ampi sforzi per assicurare che i piani di comunità confinanti siano coerenti l’uno all’altro – diventerà indubbiamente una pratica più comune negli anni a venire.

5 – Oltre la carta – I piani del ventunesimo secolo rifletteranno anche l’era dell’informazione. Negli anni recenti, molte città hanno fato uso delle televisioni locali per familiarizzare un pubblico più vasto con la pianificazione urbana. Allo stesso modo, molte comunità stanno iniziando a utilizzare internet per mostrare bozze di parte dei propri piani, o l’elaborato finale. Nel futuro, le immagini di realtà virtuale e le simulazioni al computer dei cambiamenti di uso del suolo diventeranno di uso comune, consentendo alle persone di “vedere” davvero come potrebbe cambiare l’aspetto fisico delle proprie città in seguito a diverse scelte generali.

In definitiva, l’urbanistica non resterà immobile nella transizione al nuovo secolo. Un nuovo secolo che promette di essere un’epoca stimolante. Sarà nostro compito assicurare che anche i nostri piani si mantengano dinamici e efficaci.

Nota: qui, al sito del Planning Commissioners Journal, la versione originale, insieme a molti altri saggi (fb)

Ci risiamo: negli spazi già intasati della grande distribuzione entra un’altra attività, e di tipo piuttosto “pesante”. Pesante certamente per gli aspetti ambientali specifici, come chiunque può ben capire trattandosi di carburanti, ulteriore pavimentazione e impermeabilizzazione ecc. ecc. Pesante, perché da un lato riafferma la centralità automobilistica dei centri commerciali, dall’altro perché avrà ripercussioni sul tipo e distribuzione del servizio probabilmente simili a quelle note sugli altri settori commerciali: desertificazione, vuoti, dismissioni.

Naturalmente, e come forse è ovvio nel suo mestiere, la giornalista saluta l’abbassamento dei prezzi. Ma come da tempo ci avvertono dal resto del mondo, ci sono “prezzi diversi”, che si pagano in altri modi e tempi. E li pagheremo cari, e li pagheremo tutti, in particolare se la cosa sarà gestita male, in modo semplificato, magari come l’ennesima lotta corporativa fra vecchi benzinai avidi e un po’ unti, e qualche bellezza nazionalpopputa in tacchi a spillo che ci ammalia “risparmia fino a 4 euro per ogni pieno”. Salvo pagarne una ventina in altri costi fissi più o meno indotti. In questo continuo drive-through che, anche per un automobilista scorazzatore appassionato come il sottoscritto, sta diventano troppo obbligatorio. (fb)

Lucca, a ottobre la Conad aprirà una stazione di servizio

E' la prima di un gruppo italiano. Ogni rifornimento, meno 4 euro

Dopo la spesa, ecco il distributore

Arriva il pieno all'ipermercato

di LUISA GRION



ROMA - Risparmiare sulla benzina si può. Più o meno 4 euro al pieno. E magari se ne può approfittare per fare la spesa della settimana. Tutto sta nel scegliere una stazione di servizio che stia a ridosso di un ipermercato e che sia rigorosamente gestita dall'ipermercato stesso. Negli altri paesi europei lo fanno in molti, in Italia no. Perché le stazioni di servizio così organizzate - oggi - sono solo 4. Per risparmiare, bisogna per forza andare a Nichelino (provincia di Torino), Portoguaro (Venezia), Massa o Bussolengo (Verona). Tutti ipermercati di matrice francese: Carrefour i primi tre, Auchan l'altro. Da ottobre però ci sarà una possibilità in più: Lucca, dove per la prima volta un gruppo italiano, Conad, alleato con i francesi della Leclerc, aprirà una stazione di servizio a marchio suo assicurando sconti di 6-7 centesimo al litro.

Il mercato del "pieno" italiano si divide infatti in tre fasce: quella delle stazioni di servizio direttamente gestite dalla compagnie petrolifere (circa 23 mila impianti); quella delle stazioni gestiti dalle compagnie, ma aperti a ridosso di un ipermercato (sono una ottantina e garantiscono sconti di 2-3 centesimi al litro) e infine le stazioni che gli ipermercati aprono in proprio, garantendo sconti fra i 5 e 7 centesimi. Negli altri paesi europei le proporzioni sono completamente diverse: in Francia il 50 per cento della benzina consumata è venduta presso gli ipermercati. In Italia la quota "scontata" è dell'1,4 per cento, quella "superscontata" è irrisoria.

Il carburante, dunque, per la grande distribuzione italiana, resta un miraggio. Rispetto agli altri paesi europei le restrizioni all'apertura di stazioni di servizio sono enormi. Il potere di concedere o meno le autorizzazioni è gestito dalle Regioni che subiscono pressioni dai benzinai e dai gruppi petroliferi.

La liberalizzazione - introdotta da un decreto voluto dall'ex ministro Bersani - non è mai decollata. Mentre Francia, Spagna e Belgio non pongono limiti, da noi ogni regione può fissare vincoli: si va da quelli che riguardano la superficie di vendita, a quelli che determinano la distanza minima dal distributore più vicino, all tetto di "quote" invalicabili. Ogni Regione decide da sola: ci sono quelle più "aperte" come la Toscana, e quelle più "chiuse" come Lombardia (dove i gruppi francesi hanno sì sfondato, ma rilevando stazioni già aperte) o la Puglia. "Le carte per aprire a Lucca sono pronte da un anno e mezzo - dice Francesco Pugliese, direttore generale della Conad - ma entro l'anno speriamo di fornire di un distributore gli altri nostri 14 ipermercati ed entro il 2005 anche i nuovi 16 punti che inaugureremo. La benzina Conad non sarà il nostro core-business per cui potremo permetterci margini di guadagno più bassi. Tanto più che la partnership con il gruppo Leclerc che raffina direttamente e conta su 45 depositi petroliferi di proprietà ci garantisce rifornimenti a prezzi contenuti".

Molta voglia di espandersi ce l'avrebbe anche Carrefour: "Vorremmo vendere benzina scontata in tutti nostri centri, anche nei negozi di vicinato - dice Cesare Magni, direttore sviluppo per la rete italiana - i primi a subire gli effetti di questa chiusura sono i consumatori". Stessa linea alla Auchan: "Il nostro obiettivo - dice Patrick Espasa, direttore generale - è di aprire quante più stazioni possibili"

E la grande distribuzione italiana? Conad a parte, è un po' spaventata dalla "palla al piede" rappresentata dalla burocrazia. Ma non sembra intenzionata a battere in ritirata tanto presto di fornte a quello che si preannuncia come un buon affare. Tanto è vero che anche la Coop sta mettendo a punto i suoi piani, giunti a una fase che si definisce già "avanzata".

Ci sono, nell’aria che respiriamo, i cosiddetti gas inerti ... Sono, appunto, talmente inerti, talmente paghi della loro condizione, che non interferiscono in alcuna reazione chimica, non si combinano con alcun altro elemento ... Solo nel 1962 un chimico di buona volontà, dopo lunghi ed ingegnosi sforzi, è riuscito a costringere lo xenon a combinarsi fugacemente con l’avidissimo, vivacissimo fluoro. “L’impresa”, dice ancora Primo Levi ne Il sistema periodico, “è parsa straordinaria”.

Si dovrebbe provare a costruire un’operazione analoga nel campo della politica e dell’urbanistica che, come i gas nobili, si sentono auto sufficienti e non cercano punti d’incontro, anzi custodiscono il privilegio della loro separatezza per non rendere conto del loro operato o meglio, dei suoi effetti, evidenti nella scarsa qualità urbana che in modi diversi, colpisce centri storici e periferie, metropoli e villaggi.

La città ne soffre perché è un organismo politico per eccellenza. La mancanza di indirizzo politico nel governarla è cosa anomala e come sappiamo, in politica i vuoti vengono colmati. il centro destra ha le idee chiare e le persegue [illegalità territoriale, privatizzazione della città, irrobustimento del privato-immobiliare, indebolimento del potere pubblico] come dimostrano la Legge Urbanistica presentata, il Condono edilizio, Patrimonio S.p.a. Mentre il centro sinistra non ha un progetto comprensibile e chiaro [forse non ha un progetto].

Questa assenza politico-culturale produce danni alla città, al territorio e quindi al vivere quotidiano delle persone.

In questo vuoto, finiscono per prevalere gli interessi di gruppi di potere forti [proprietà immobiliare e fondiaria, consorzi di costruttori] non più guidati dalla mano pubblica.

Il nostro operare di tecnici-esperti forse potrebbe offrire un contributo più qualificato, se la politica si occupasse delle città dove vive 1’80% della popolazione, dove sono concentrati i capitali, i servizi rari, ma anche le più forti contraddizioni e differenze sociali.

I diritti urbani possono essere il terreno sul quale stabilire un confronto o avviare almeno le prove di dialogo.

Il diritto alla città sostenuto nella Carta Mundial pelo Direito à Cidade - offerta di condizioni di opportunità equivalenti per i suoi abitanti - vita urbana basata sui principi della solidarietà, libertà, equità, dignità e giustizia - degrado ambientale e privatizzazione dello spazio pubblico generatori di esclusione e segregazione sociale e spaziale.

Il diritto alla legalità del territorio, al quale purtroppo il centro destra sembra aver rinunciato.

Il diritto alla differenza, alla convivenza e alla pace.

Il diritto alla cultura urbana che comprende la bellezza della città e del paesaggio, per affermare che ha valore anche ciò che non è monetizzabile.

Il diritto all’equità, che impone di indirizzare le scelte, anche del mercato, verso il soddisfacimento dei bisogni a partire da quelli che non hanno voce per esprimerli.

Il diritto alla casa, negato a chi non ha reddito o ha il colore della pelle sbagliato.

Sono questi e altri i “sistemi” attorno ai quali sarebbe utile fra politici, tecnici e amministratori il confronto, non perdendo di vista mai, le ragioni politiche, sociali, etiche, del proprio agire.

La città è un organismo collettivo, centro della vita politica, sede privilegiata della cultura e dell’economia. Ma a differenza del passato, oggi il potere politico è abbastanza disinteressato ai suoi destini e a trasmettere, attraverso la rappresentazione durevole di sé, quel modello statuale democratico che caratterizza la nostra società.

Il processo di globalizzazione ha investito, da tempo, non solo l’economia, ma l’architettura e le città. Non sempre per esportare qualità, più spesso per omologare fra loro periferie prive di un’identità propria, accomunate da un segno distintivo: l’assenza di segno.

Le città, soprattutto italiane, sono riconoscibili solo dai loro straordinari centri storici. Ma nel centro storico vive meno del 10% della popolazione urbana. Il resto è abbandonato nelle periferie, dove si concentra una borghesia sempre più insofferente, lavoratori extracomunitari in crescita e sacche di povertà urbana che la città opulenta vuole ignorare.

Nella città diventata cosmopolita, più ricca di culture, esperienze, colore e nel piccolo paese che è ormai parte del mondo, sta emergendo il diritto alla diversità.

Nelle contraddizioni, che sempre più forti emergono, si possono trovare le ragioni e le risorse per una rinascita urbana, sostenuta dalla consapevolezza che la città è un organismo collettivo e sociale, non la città di pochi ma il luogo di tutti.

In questa dimensione la città contemporanea può scoprire il senso della propria identità e la capacità di fondere equità e bellezza: il senso estetico dell’equità e il valore universale della bellezza. Questo è possibile nella misura in cui la buona politica ritorni ad occuparsi della città, non solo come bacino elettorale, ma per tendere a quella città ideale che Pier Della Francesca disegnava, riconoscendo nello spazio pubblico, la qualità suprema, il significato più rappresentativo dell’ambiente urbano.

È una visione di città che vogliamo affermata anche nella città contemporanea per l’alto valore simbolico che rappresenta.

Se, come diceva Goethe “l’architettura è una musica pietrificata”, possiamo esigere la melodia delle sue forme. Da tempo la bellezza non è fra i parametri richiesti, requisito ritenuto primario nei secoli e in tutti i luoghi della terra, oggi è considerato superfluo. Anche per questo va provocatoriamente citato il diritto alla bellezza.

La Politica pensa che non siano fatti suoi. Ma un tempo, proprio chi governava esigeva il bello dall’architettura e dalla forma della città.

Bellezza intesa come patrimonio collettivo, bene che appartiene a tutti, implica il dovere di assumerla quale segno di rispetto per la cultura della società di cui è espressione.

La guerra in Iraq rappresenta l’emblema del negativo modello di risoluzione degli squilibri mondiali. Costruita sulla negazione dell’altrui cultura e identità, ha offuscato la storia millenaria di un popolo, culla della civiltà, per meglio distruggere persone e città senza volto, con l’atteggiamento arrogante di chi vuole “esportare la democrazia” che va perseguita in ogni luogo, soprattutto attraverso la riduzione delle enormi diseguaglianze.

Arroganza e incultura sono alla base anche dell’appropriazione indebita delle opere d’arte italiane attraverso Patrimonio S.p.a. Non vanno messi in vendita pezzi di città che da secoli appartengono alla gente di questo Paese, in quanto la “cosa pubblica” è cosa di tutti. Ma la bellezza della città non può vivere di passato, perché il nostro presente è il passato del domani e il futuro delle città è quello che oggi progettiamo. La solidarietà verso le generazioni future comprende anche i luoghi urbani così incomprensibilmente trascurati.

Governo delle Città è Governo della Complessità che non ammette semplificazioni.

L’architettura non deve perdere la sua funzione di “legante”, di elemento costitutivo della città, fatalmente interagente con il suo intorno, in termini funzionali, morfologici e spaziali. Le opere di architettura, separate dal contesto in cui si collocano, seppur bellissime, sono dei totem, diventano preziose sculture.

Chi propone una città di architetture senza piano, senza un disegno regolatore, senza un contesto di riferimento, forse intende solo contrastare giustamente quell’idea di città a due dimensioni che crede di risolvere tutto con qualche norma, qualche indice fondiario, tracciati viari, vincoli ambientali. La città ha bisogno di questo, ma è anche altro. L’architettura interviene in quella dimensione spaziale, epica e formale che lancia la città verso la tensione dinamica degli eventi umani.

Nei “pensieri di un uomo curioso” Albert Einstein afferma: “Gli ideali che hanno illuminato la mia strada e mi hanno sempre dato il coraggio di affrontare la vita con allegria sono stati gli affetti, la bellezza e la verità” e racconta “Nella vita quotidiana sono il classico solitario, ma la consapevolezza di appartenere alla comunità invisibile di quelli che lottano per la verità, per la bellezza e per la giustizia mi ha risparmiato ogni sensazione di isolamento”.

È interessante notare come in entrambi questi pensieri, la bellezza sia coniugata ad altri valori.

Per realizzare una città bella, funzionale, dotata di servizi, occorrono spazi urbani adeguati e ben localizzati.

I Piani Regolatori per “far quadrare gli standard”, ricorrono ai vincoli delle aree agricole, mentre consentono l’edificazione di aree libere nelle zone densamente urbanizzate.

Senza la disponibilità di spazi centrali, la riqualificazione urbana è molto ardua.

Ma non è facile sottrarre alla speculazione edilizia i luoghi che hanno raggiunto i massimi valori della rendita. Così da tempo si utilizzano teorie che giustificano la loro edificazione, che insieme allo sfruttamento intensivo di aree produttive fuori zona, hanno spesso poco a che fare con l’interesse collettivo.

I vuoti sono come le pause tra una parola e l’altra e come queste, sono fondamentali per rendere comprensibile il discorso urbano.

Un pensiero corrente, contenuto peraltro nell’articolo di una proposta di legge presentata alla Camera, sollecita la “costruzione” nei vuoti urbani per evitare l’espandersi della città. Ma nonostante i proclami di urbanisti e amministratori, la città non ha contenuto i suoi confini e con l’ipocrita giustificazione di evitare ulteriore consumo di suolo [fatto che sistematicamente e contemporaneamente è accaduto] si sono perduti gli ultimi spazi di città inedificata. Nella città costruita dovrebbe accentuarsi l’attenzione del pianificatore, e dove più alta è la densità edilizia, più forte e determinata dev’essere la difesa di luoghi ecologicamente funzionali alla salute e alla bellezza della città.

Sono temi che si confrontano con le ragioni e i problemi della sovraproduzione edilizia, rispetto alla crescita demografica. In Italia negli ultimi 4 anni vi è stato un incremento della produzione edilizia del 28% [superiore agli altri Paesi], secondo Nomisma, dovuto ai deludenti risultati del mercato azionario rispetto al rendimento degli immobili ad uso residenziale [16%].

Quindi le forti pressioni del mercato immobiliare devono essere indirizzate verso il recupero dell’edilizia esistente, il soddisfacimento del fabbisogno pregresso di aree verdi, servizi, case in locazione anche a canone sociale, affinché questa congiuntura favorevole all’investimento nel così detto “bene rifugio” non si risolva nel solito aumento di territorio urbanizzato, ma si traduca in qualità urbana o in deterrente verso i facili guadagni della rendita fondiaria.

Questo modo di indirizzare la domanda di investimento nel settore edilizio, che oggi preme sulla Pubblica Amministrazione può venire in soccorso al Comune nell’acquisizione di aree e costruzione di servizi, compresa la residenza a canone sociale.

Uno strumento che, se oculatamente adoperato, potrebbe tradurre concretamente questa volontà politico-amministrativa in standard non costretti a rimanere solo sulle tavole dei PRG è la perequazione.

La perequazione ha interpreti molto diversi. Vi sono opportunità che questo strumento offre e danni che se mal regolamentato può arrecare. Innanzi tutto due premesse:

1. la città, per essere tale, ha bisogno di servizi veri, realizzati e gestiti.

2. i dati sul fabbisogno pregresso e la sconfortante prospettiva sulle risorse finanziarie degli Enti Locali inducono ad una riflessione sul presente e futuro delle città, grandi incompiute nell’offerta di servizi pubblici e collettivi.

Dopo oltre 30 anni di standard e di Piani che li indicano sulla carta, anche se proposti in misura sempre superiore alle percentuali obbligatorie, la presenza di servizi realizzati è insoddisfacente e inadeguata ai bisogni. L’esproprio, strumento necessario ma non sufficiente, non va cancellato, bensì sostenuto da forme complementari ed efficaci di acquisizione di aree e realizzazione di servizi, perché in questi 50 anni ha dimostrato l’incapacità di procurarli alla città, privando di conseguenza i cittadini di diritti fondamentali per la vita collettiva, sociale, politica, culturale. La sua applicazione, e lo sa chi ha amministrato una città, non sempre è stata espressione di equità.

Una perequazione ben concepita potrebbe avviare un processo di risanamento della città intesa come sistema integrato di funzioni in controtendenza alla sua progressiva privatizzazione. Potrebbe inoltre includere fra i servizi, la residenza sociale, sempre più dimenticata perché elettoralmente poco remunerativa.

Il diritto alla casa potrebbe avere una prospettiva se in ogni trasformazione urbana una percentuale di superfici edificabili venisse obbligatoriamente ceduta come standard al Comune che, gradualmente, ma sistematicamente verrebbe dotato di un patrimonio pubblico di alloggi e di aree.

Affinché questi benefici effetti si producano, sono però necessarie tre condizioni:

1. gli interventi di trasformazione devono offrire servizi superiori agli standard minimi dei piani di lottizzazione, che tengono conto solo delle esigenze interne al perimetro del pdl; si consentirebbe in tal modo la realizzazione di fasce verdi lungo i corsi d’acqua che attraversano la città e di altri corridoi ecologici, in modo da dare continuità a sistemi ai quali di solito corrisponde un assetto proprietario frammentato quasi impossibile da acquisire.

2. le scelte urbanistiche vanno fatte a prescindere dallo strumento perequativo per non essere “giustificazioniste” di potenzialità edificatorie in eccesso.

3. la cosiddetta “compensazione” si carica di rischi se sottrae al nuovo PRG la forza e l’autorevolezza di modificare le destinazioni del precedente Piano, con il risultato di sommare ai nuovi interventi, quelli ancora giacenti e non consumati nel vecchio PRG. Si traduce inoltre in una subdola forma di deregulation se oltre a consentire incrementi della capacità edificatoria allo scopo di ottenere aree o servizi [punto 2] prevede per le “giacenze” del vecchio Piano, trasferimenti di metri cubi in cerca di localizzazione [come previsto nelle proposte di legge presentate].

Se queste devianze non sono rimosse, la perequazione può trasformarsi, da cosa utile, in nefasta.

Un’ampia riserva di aree pubbliche, che attraverso lo strumento perequativo si possono ottenere, è condizione necessaria per gestire l’urbanistica, inoltre in quanto pubbliche, si sottrarrebbero agli effetti sempre incombenti della decadenza dei vincoli.

Sono temi presenti nella LEGGE SUL GOVERNO DEL TERRITORIO. È la Legge che dopo oltre mezzo secolo sostituisce la n° 1150 del 1942. Non è una come tante, ma il caposaldo delle politiche territoriali, il riferimento culturale e operativo che informerà gli atti successivi e paralleli, una sorta di Costituzione del Territorio, la sua Magna Carta.

Dopo la riforma al Titolo V della Costituzione, il Governo del Territorio, che comprende anche la pianificazione, diventa un processo integrato e complesso che più di prima necessita di concertazione e assunzione di responsabilità politiche e amministrative non delegabili e offre una grande opportunità alle aree urbane e al territorio che con esse ha un rapporto simbiotico.

La città è il luogo in cui convivono le maggiori contraddizioni, dove i conflitti possono trasformarsi in partecipazione, le differenze in diritto di cittadinanza, dove si possono risarcire le diseguaglianze e praticare la solidarietà.

Questa è la città dei diritti urbani, primo fra tutti il Diritto alla Democrazia.

“La Giungla sulle piastrelle. Cinquant’anni fa nasceva il centro commerciale. L’America non sarebbe stata più la stessa”, The New Yorker, 15 marzo 2004 [estratti e traduzione di Fabrizio Bottini]

Victor Gruen era piccolo, risoluto, irrefrenabile, una testa di capelli arruffati, sopracciglia come cespugli bisognosi di potatura. Secondo un profilo stilato da Fortune (la gente adorava stilare profili di Victor Gruen) era “un conversatore torrenziale con occhi brillanti come mica e una mente veloce come mercurio”. In studio, era famoso per tener occupate a tempo pieno due o tre segretarie, muovendosi da una all’altra, dettando senza pause nel suo marcato accento viennese. Era cresciuto nell’ambiente della buona Vienna ebraica anteguerra, e aveva studiato all’Accademia di Belle Arti: la stessa scuola che, qualche anno prima, aveva respinto un artista alle prime armi di nome Adolf Hitler. La sera, Gruen si esibiva in spettacoli di cabaret satirico, nei caffè pieni di fumo. Emigrò nel 1938, la stessa settimana di Freud, con uno dei suoi amici del cabaret travestito da truppa d’assalto nazista a guidare l’auto con lui e sua moglie fino all’aeroporto. Presero il primo aereo disponibile, verso Zurigo, arrivarono fino in Inghilterra, e poi salirono sulla Statendam verso New York, sbarcando, come Gruen ricorderà più tardi, “con una laurea in Architettura, otto dollari, e niente Inglese”. Durante il viaggio, un Americano gli aveva detto di mirare in alto: “non tentare di lavare piatti o fare il cameriere, ne abbiamo milioni, di quelli”. Ma Gruen non aveva bisogno di quel consiglio. Insieme a qualche altro emigrato tedesco formò il Refugee Artists Group. La moglie di George S. Kaufman era la loro principale ammiratrice. Richard Rodgers e Al Jolson fornirono soldi. Irving Berlin li aiutò a fare musica. Gruen prese un treno per Princeton, e tornò con una lettera di raccomandazione di Albert Einstein. Per l’estate del 1939 il gruppo era Broadway, con undici serate al Music Box. Poi, come ci racconta Jeffrey Hartwick in Mall Maker, la sua nuova biografia di Gruen, un giorno lui uscì per una passeggiata in centro e incappò in un vecchio amico dei tempi di Vienna, Ludwig Lederer, che voleva aprire una boutique di articoli in pelle sulla Fifth Avenue. Victor accettò di progettarlo, e il risultato fu una facciata di negozio rivoluzionaria, con una piccola galleria all’ingresso, più o meno di quattro metri per cinque: sei squisite scatole di vetro, faretti, marmo finto, vetro verde ondulato sul soffitto. Era una “trappola per clienti”. Si trattava di una nuova idea nella progettazione commerciale americana, in particolare sulla Fifth Avenue, dove tutte le facciate dei negozi in una logica da commercio stradale traboccavano sul marciapiede. I critici andarono in estasi. Gruen progettò Ciro sulla Fifth Avenue, Steckler su Broadway, Paris Decorator sul Bronx Concourse, e undici filiali della catena californiana di abbigliamento Grayson’s. Nei primi anni Cinquanta, ideò un centro commerciale aperto chiamato Northland, fuori Detroit, per J.L. Hudson. Copriva una superficie di circa settanta ettari, e un parcheggio con quasi diecimila posti auto. Questo avveniva quando erano trascorsi poco più di dieci anni dallo sbarco dalla nave, e guardando le ruspe che iniziavano a smuovere il terreno Gruen si voltò verso il suo socio e disse: “Mio dio, se ne abbiamo di faccia tosta”.

Ma la creazione più famosa di Gruen è il suo progetto successivo, a Edina, appena fuori Minneapolis. Cominciò a lavorarci quasi esattamente cinquant’anni fa. Si chiamava Southdale. Costò venti milioni di dollari, conteneva settantadue negozi e due grandi magazzini a fungere da “anchor”, Donaldson’s e Dayton’s. Fino ad allora, la maggior parte dei centri commerciali erano stati ciò che gli architetti amano chiamare “estroversi”, a significare che vetrine e ingressi si affacciavano sia sul parcheggio che sui percorsi pedonali interni. Southdale era introverso: pareti esterne cieche, e tutta l’attività focalizzata all’interno. I centri commerciali suburbani erano sempre stati all’aperto, con i negozi collegati da passaggi esterni. Gruen concepì l’idea di mettere l’intero complesso sotto un tetto, con aria condizionata per l’estate e riscaldata per l’inverno. Quasi tutti i principali centri commerciali erano stati realizzati su un solo livello, il che comportava lunghe e faticose camminate. Gruen mise i negozi su due livelli, collegati da ascensori e accessibili da un parcheggio a due livelli. Al centro, sistemò una specie di piazza urbana, un “cortile a giardino” sotto un lucernario, con una vasca dei pesci, enormi sculture a forma di alberi, una voliera di sei metri piena di uccelli colorati, balconate con cascate di verde, e un caffè. Il risultato, come scrive Hardwick, fece scalpore:

“All’inaugurazione del centro commerciale di Minneapolis arrivarono tutti i giornalisti delle principali testate del paese. Life, Fortune, Time, Women’s Wear Daily, New York Times, Business Week e Newsweek, tutti dedicarono spazio all’avvenimento. Stampa nazionale e locale, consumarono superlativi tentando di cogliere l’atmosfera di Southdale. “Il più spumeggiante centro degli Stati Uniti”, decantava Life. Il patinato settimanale lodava l’inconsueta combinazione di “una vasca di pesci rossi, uccelli, arte, e cinque ettari di negozi tutti ... sotto un unico tetto del Minnesota”. Un “Parco sotto una cupola con parcheggio”, salutava Time. Un giornalista dichiarò che da un giorno all’altro Southdale era diventato parte integrante della American Way of Life”.

Il centro commerciale di Southdale esiste ancora. Sta sulla Statale 494, a sud del centro di Minneapolis e a ovest dell’aeroporto: una grossa scatola di cemento in un mare di parcheggi. Le catene “anchor” ora sono J.P. Penney e Marshall Field’s; c’è un negozio Ann Taylor, un Sunglass Hut e un Foot Locker, e qualunque altro marchio dei negozi che potete vedere nei centri commerciali. Non sembra un edificio storico, il che è precisamente il motivo per cui lo è. Cinquant’anni fa, Victor Gruen ha progettato un complesso commerciale perfettamente chiuso, “introverso”, con molti ingressi, con due catene “anchor”, un cortile-giardino sotto una cupola trasparente. Gruen non ha disegnato un edificio, ma un archetipo. Per un decennio ha tenuto conferenze sul tema, e ci ha scritto libri, e incontrato un costruttore dopo l’altro sventolando eccitato le mani, e nell’ultimo mezzo secolo quell’archetipo è stato riprodotto così fedelmente e in così tante migliaia di occasioni che oggi, virtualmente, qualunque americano suburbano fa la spesa o passeggia in un facsimile di Southdale almeno una volta o due al mese. Victor Gruen può essere considerato il più autorevole architetto del ventesimo secolo. Ha inventato il centro commerciale.

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Urbanistica e regole erano di grande importanza, per Gruen. Dopotutto, era un socialista, e un viennese. Alla metà del XIX secolo, Vienna aveva demolito le mura e altre fortificazioni che l’avevano cinta dai tempi medioevali, e negli spazi aperti ricavati aveva costruito la Ringstrasse: un’aggiunta meticolosamente articolata alla vecchia città. C’erano case ad appartamenti, piazze pubbliche, edifici governativi, gallerie commerciali, ciascuno realizzato in quello che si riteneva fosse lo stile storicamente appropriato: La Rathhaus in alto Gotico; il Burgtheatre in primo Barocco; l’Università puro Rinascimento, e il parlamento classico Greco. Era tutto parte della risposta viennese ufficiale alle sollevazioni popolari del 1848: se l’Austria doveva rimodellarsi come democrazia liberale, Vienna doveva essere rifatta fisicamente secondo linee democratiche. Il Parlamento ora si affacciava direttamente sulla strada. Le mura che separavano l’élite di Vienna dalla plebaglia dei sobborghi erano demolite. E, più importante di tutto, una strada ad anello, o Ringstrasse – un grande viale – era realizzato attorno alla città, con ampi marciapiedi e vaste prospettive urbane, dove i viennesi di tutte le estrazioni potevano mescolarsi liberamente nel loro passeggio della domenica pomeriggio. Per i riformatori viennesi dell’epoca, la qualità della vita civica era funzione della qualità dell’ambiente fisico. Gruen pensò quel principio applicato con identica chiarezza ai suburbi americani.

Non molto dopo la realizzazione di Southdale, Gruen pronunciò il discorso inaugurale alla cerimonia di premiazione del Progressive Architecture a New Orleans, e colse l’occasione per fustigare i sobborghi americani, le cui strade, disse, erano “vie dell’orrore”, “fiancheggiate dalla peggiore raccolta di volgarità – cartelloni pubblicitari, motel, stazioni di servizio, baracche, parcheggi, vari impianti industriali, chioschi di salsicce, negozi per clienti di passaggio – mai messa insieme a memoria d’uomo”. I suburbi erano il caos, e l’unica soluzione al caos era la pianificazione. Quando Gruen stese il primo piano per Southdale, collocò il centro commerciale nel cuore di un lindo quartiere di duecento ettari, che comprendeva case ad appartamenti, case unifamiliari, scuole, un centro medico, un parco e un laghetto. Southdale non era un’alternativa suburbana al centro di Minneapolis. Era il centro di Minneapolis come sarebbe stato se si fosse ripartiti daccapo correggendo tutti gli sbagli che erano stati fatti la prima volta. “Non c’è niente di suburbano a Southdale, tranne la localizzazione”, spiegò Architectural Record recensendo la nuova creazione di Gruen. Si trattava di

“un creativo distillato di quanto rende magnetico il centro città: varietà, individualità, luci, colore, anche la folla: perché la scala a misura di pedone di Southdale assicura attività e trambusto. Aggiunta a quest’essenza dei centri città esistenti, tutta una serie di cose che dovrebbero starci se i centri non fossero tanto rumorosi e sporchi e caotici: caffè sui marciapiedi, arte, aiuole verdi, una pavimentazione gradevole. Altri centri commerciali, anche gradevoli, sembrano provinciali in confronto al modello originale: il centro città. Ma a Minneapolis è la città ad apparire mediocre e provinciale se confrontata col carattere metropolitano di Southdale”.

Una persona che non sembrava abbagliata da Southdale, era Frank Lloyd Wright. “Cos’è: una stazione di treni o di autobus?”, chiese quando venne a farci un giro. “C’è un giardino centrale che ha tutti i difetti della strada di villaggio e niente del suo fascino”. Ma nessuno ascoltò più di tanto Frank Lloyd Wright. Quando si trattava di centri commerciali, era l’idea di Victor Gruen, a contare.

Il grande schema per Southdale non fu mai portato a termine. Non ci furono parchi, né scuole, né case ad appartamenti: solo quella grossa scatola in un mare di parcheggi. Né, con pochissime eccezioni, nessun altro si mise a progettare i centri commerciali come cuore di un lindo, denso, quartiere multifunzionale. Gruen aveva ragione riguardo agli effetti trasformanti del centro commerciale sul commercio. Ma nell’idea di poter replicare la lezione della Ringstrasse nei suburbi americani, aveva torto, e il motivo sta nell’improvviso cambiamento nella costruzione dei centri commerciali, a metà anni Cinquanta.

All’epoca di Southdale, i grandi centri commerciali erano una proposta difficile. Uno dei primi centri del dopoguerra fu Shopper’s World, a Framington, Massachusetts, progettato da un antico socio d’affari di Gruen ai tempi dei negozi sulla Fifth Avenue. Shopper’s World era una struttura aperta, su trentacinque ettari, con quarantaquattro negozi, seimila posti auto, e un grande magazzino Jordan Marsh di ventitremila metri quadrati: a due anni dall’apertura, nel 1951, il costruttore era in bancarotta. Un grande centro commerciale, semplicemente, costava troppi soldi, e ci voleva troppo tempo al costruttore per farli rendere. Gruen pensava al centro come cuore di un nuovo centro città accuratamente pianificato, perché credeva fosse l’unico modo in cui si potesse mai realizzare: pianificavi perché dovevi farlo. Poi, a metà anni Cinquanta, accadde qualcosa che ribaltò del tutto le tristi economie dei centri commerciali: il Congresso votò una radicale trasformazione delle regole fiscali riguardanti l’ammortamento.

Secondo la legge fiscale, se costruisci un edificio commerciale, o compri un macchinario per la tua fabbrica, o fai qualunque acquisto per i tuoi affari, si ritiene che quell’investimento si deteriori e perda qualche parte del proprio valore per usura e danneggiamento ogni anno. Come conseguenza, a un’impresa è consentito accantonare parte del proprio reddito, esentasse, per pagare il costo finale o rimpiazzare questi investimenti. Ai fini fiscali, a metà anni Cinquanta la vita utile di un edificio era calcolata in quarant’anni, e dunque un proprietario poteva dedurre un quarantesimo del valore del suo edificio dal suo reddito, ogni anno. Un nuovo centro commerciale da quaranta milioni di dollari, quindi, dava una detrazione da ammortamento di un milione di dollari. Quello che fece il Congresso nel 1954, nel tentativo di stimolare gli investimenti nell’industria, fu di “accelerare” il processo di deprezzamento per le nuove costruzioni. Ora, usando questa e altre scappatoie, un costruttore di centri commerciali poteva recuperare il costo del proprio investimento in una frazione del tempo necessario. Come sostiene lo storico Thomas Hanchett in un innovativo saggio sulla American Historical Review, il risultato fu una “cuccagna” per i costruttori. Nei primissimi anni successivi alla costruzione del centro, le deduzioni da ammortamento erano così grosse che il centro commerciale era – almeno sulla carta – in perdita. Il che portò con sé enormi benefici fiscali. Per esempio, in un articolo di prima pagina del 1961 sugli effetti dei cambiamenti nell’ammortamento, il Wall Street Journal descriveva il sistema finanziario di un investitore nel campo dei centri commerciali di nome Kratter Corp. Il ricavo dalle operazioni immobiliari del 1960 era di $ 9.997.043. Dedotte le spese operative e gli interessi calcolati in $ 4.836.671, si arrivava a un guadagno netto di 5,16 milioni di dollari. Poi veniva l’ammortamento, che arrivava a 6,9 milioni, e dunque il buon profitto della Kratter si era magicamente trasformato in una “perdita” di 1,76 milioni di dollari. Immaginiamo che voi foste uno dei cinque azionisti di Kratter. La politica dell’impresa era di distribuire quasi tutto il guadagno pre-ammortamento delle sue operazioni agli azionisti, e quindi la vostra quota di guadagno sarebbe stata circa di un milione di dollari. Normalmente, ne avreste pagato una bella fetta in tasse. Ma quel milione di dollari non era guadagno. Quel milione di dollari era “return on capital”, ed era esentasse.

Improvvisamente, era possibile fare molti più soldi investendo in cose come i centri commerciali che comprando azioni, e così il denaro si riversò nelle imprese di investimenti immobiliari. I prezzi salirono vertiginosamente. Gli investitori realizzavano edifici, cavandoci fuori quanto più denaro possibile con l’uso del deprezzamento accelerato, poi rivendendoli quattro o cinque anni dopo, e poi ancora realizzando edifici più grossi, perché più costoso l’edificio, più alta la somma dell’ammortamento.

In queste circostanze, a chi mai interessava se il centro commerciale avesse senso economico per i commercianti? I centri e gli insediamenti commerciali lineari divennero quello che gli urbanisti chiamano “catalizzatori”a significare che i costruttori non li realizzavano come servizi per comunità suburbane esistenti; si costruiva nelle frange urbane, oltre gli insediamenti residenziali, dove il terreno eera più economico. Hanchett segnala, infatti, che in molti casi la crescita del centro commerciale non sembra seguire alcuna logica demografica. Cortland, New York, per esempio, praticamente non cresce affatto fra il 1950 e il 1970. Ma in quei due decenni Cortland guadagna sei nuove piazze commerciali, compreso quello “chiuso” di Cortlandville Mall, 37.000 metri quadrati. Nello stesso arco di vent’anni l’area di Scranton perde settantatremila persone mentre guadagna trentun centri, dei quali tre “introversi”. Nel 1953, prima che fosse operativo l’ammortamento accelerato, negli Stati Uniti fu realizzato un solo grande centro commerciale regionale. Tre anni dopo l’approvazione della legge, il numero era salito a venticinque. Nel 1953, la costruzione di centri commerciali di tutti i tipi ammontava a un totale di 550.000 metri quadrati. Nel 1956, quella cifra si era incrementata del cinquecento per cento. Questa è anche l’epoca dei ristoranti fast-food, e Howard Johnson, Holiday Inn, dei vari negozi a basso prezzo che cominciavano a moltiplicarsi su e giù per le strade e viali dei sobborghi americani, e mentre crescevano questi insediamenti, altri se ne aggiungevano a dividersi il crescente traffico di clienti. I centri commerciali portavano altri centri commerciali, e i centri commerciali alle grandi catene dei solitari del commercio, come Wal-Mart e Target, e poi i “power centers” di tre o quattro commercianti “big-box”, come Circuit City, Staples, Barnes & Noble. Victor Gruen intendeva Southdale come una compatta e autosufficiente città. Oggi, a quindici minuti di “strada degli orrori”, c’è il Mall of America, il più grosso del paese, con cinquecentoventi negozi, cinquanta ristoranti, dodicimila spazi parcheggio, e ci si può facilmente immaginare che un giorno anche questo, possa lasciare posto a qualcosa di più nuovo e più grosso.

Una volta, a metà anni cinquanta, Victor Gruen si incontrò con un collaboratore della rubrica Talk of the Town, del New Yorker, per esporre il suo pensiero su come salvare la città di New York. L’intervista ebbe luogo nell’elegante ufficio di Gruen sulla Dodicesima West, in un vecchio edificio Stanford White, e ci si può immaginare il reporter estasiato, mentre Gruen si sporgeva in avanti con le sue sopracciglia ispide. Primo, disse Gruen, Manhattan deve liberarsi di magazzini e industrie leggere. Poi, tutto il traffico di superficie a Midtown (taxi, autobus, camion) deve essere convogliato in tunnel sotterranei. Chiedeva di mettere super-autostrade sul perimetro dell’isola, punteggiate da garages parcheggio su due piani. L’intrico di case popolari e residenze e condomini di Manhattan doveva essere rimpiazzato da semplici file di torri residenziali da centocinquanta piani, sistemate lungo nastri a giardino, parchi, percorsi pedonali, teatri e caffè.

Il Signor G. abbassò le sopraciglia e ci guardò di traverso: “Siete preoccupati per quei tunnel, è vero?” chiese. “Vi chiedete se c’è spazio per farceli stare, in quella giungla sotterranea di tubi e cavi. Non avete mai pensato a quanto sia assurdo seppellire sotto tonnellate di solido materiale da pavimentazione, quello che è destinato a andare il tilt, ogni tanto?” Saltò dalla sedia, e iniziò a manovrare un immaginario martello pneumatico sul levigato pavimento dello studio. “Rat-a-tat-tat!” esclamò. “Giorno e notte! Tira su le strade! Poi asfaltale! Poi strappale su ancora!”. Buttando da parte l’immaginario martello pneumatico, si gettò di nuovo sulla sedia. “Nella mia New York del futuro, tutti i tubi e i cavi saranno attaccati nella parte superiore di quei tunnel, sopra una passerella, accessibili agli operatori e verniciati in colori brillanti, per deliziare l’occhio anziché spaventarlo”.

L’America dell’immediato dopoguerra era un posto intellettualmente incerto, e c’era qualcosa di inebriante nella sofisticatezza e fiducia di Gruen. Fu questo a portarlo dal porto di New York, con otto dollari in tasca, a Bradway, alla Fifth Avenue, e alle vette di Northland e Southdale. Era un intellettuale Europeo, un emigrante, e nell’immaginario popolare l’emigrante europeo rappresentava immaginazione, il dono di vedere qualcosa di grandioso nella banalità della vita americana del dopoguerra. Quando l’Europeo visionario era posto di fronte a uno squallido e congestionato panorama urbano, non stava a cincischiare o dubitare: radeva al suolo i depositi, mandava sottoterra le strade, stendeva un eccitante piano per mettere a posto le cose. “Il mezzo principale di spostamento sarà camminare”, disse Gruen della sua re-immaginata metropoli. “Non c’è niente come camminare, per la tranquillità d’animo”. A Northland, diceva, migliaia di persone andavano, anche quando i negozi erano chiusi, solo per passeggiare attorno. Era proprio come la domenica sulla Ringstrasse. Con i centri commerciali, la Vecchia Europa era arrivata nei sobborghi di Detroit.

Quello che Gruen aveva, tra l’altro, era una incrollabile fede nella “piazza del mercato” americana. “I centri commerciali ci insegnano” disse una volta “che è il mercante che salverà la nostra civiltà urbana. Pianificazione non è una parola sporca per loro. Buona pianificazione significa buoni affari”. Continuava: “Qualche volta l’interesse personale ha notevoli conseguenze spirituali”. Gruen aveva bisogno di crederci, come molti altri intellettuali Europei dell’epoca, soprannominati da Daniel Horowitz “celebratory émigrés”. Erano fuggiti da un luogo di ansia e caos, e cercavano nella cultura del consumo americana un baluardo contro la pazzia di oltreoceano. Volevano trovare nel trambusto della piazza del mercato qualcosa di grande come la Vienna che avevano perduto: il posto dove l’inconscio era meticolosamente sezionato dal Dottor Freud sulla Bergstrasse, dove si costruivano altari alla civiltà europea – il Gotico, il Barocco, il Rinascimento, l’antica Grecia – sulla Ringstrasse. Per gli Americani, niente era più lusinghiero. Chi non voleva credere che il fatto di radere al suolo depositi e mettere sottoterra le strade non avesse conseguenze spirituali? Ma, alla fine, era troppo bello per essere vero. Questo non era per niente il modo in cui funzionava l’America.

Qualche mese fa Alfred Taubman [protagonista della parte di articolo tagliata, n.d.T.] ha tenuto un discorso ad una associazione di operatori immobiliari a Detroit, sulle prospettive per il centro città, e una delle cose di cui ha parlato è la Northland di Victor Gruen. Era, semplicemente, troppo grande, ha detto. Hudson’s, il grande magazzino “anchor”, all’epoca aveva già un negozio madre in centro a Detroit. Dunque perché mai Gruen aveva progettato un satellite di cinquantacinquemila metri quadrati a venti minuti di macchina? I satelliti davano il loro meglio su una superficie da quindici a ventimila metri quadri. Ad oltre cinquantamila erano grandi a sufficienza per contenere qualunque varietà di merce disponibile nel negozio madre, il che significava che nessuno avrebbe avuto più alcun interesse ad andarci. Victor Gruen diceva che la lezione di Northland diceva come i mercanti avrebbero salvato la civiltà urbana. Non valutava che, per il suo cliente, avrebbe avuto molto più senso salvare la civiltà a quindicimila, anziché a cinquantamila, metri quadri. La lezione dell’America è che anche la più grandiosa visione può essere deviata dal più banale dei dettagli, come la dimensione dell’esercizio commerciale o il fatto che il Congresso fissi l’indennità di ammortamento a quaranta o vent’anni.

Quando, ormai avanti negli anni, Gruen arrivò a capire tutto questo, per lui fu una profonda delusione. Rivisitò uno dei suoi centri commerciali, vide tutte le costruzioni che gli spuntavano attorno, a si dichiarò in preda a un “serio choc emotivo”. I centri commerciali, disse, erano stati sfigurati dalla “bruttezza e disagio del devastante mare di parcheggi che occupava il suolo” attorno ad essi. I costruttori erano interessati solo al profitto. “Mi rifiuto di pagare gli alimenti per questi quartieri bastardi”, disse in un discorso a Londra nel 1978. Se ne andò dal suo paese adottivo. Si era comprato una casa in campagna appena fuori Vienna, e ci andò ad abitare. Ma cosa trovò, una volta arrivato? Appena a sud della vecchia Vienna, era stato appena costruito un centro commerciale, nelle sue angosciate parole “un’enorme macchina da spesa”. Stava facendo fallire gli amati negozianti viennesi. Stava stritolando la vita della sua città. Gruen era devastato: aveva inventato il centro commerciale per fare l’America più simile a Vienna; aveva finito per fare Vienna più simile all’America.

Chi volesse leggere l'articolo integrale e in originale, può ovviamente farlo al sito del New Yorker online (fb)

La scheda critica del libro "Mall Maker" molto citato in questo articolo (e da cui l'autore ha probabilmente cavato moltissime informazioni) è disponibile a piè di pagina in questo link di Amazon books (fb)

Caro amico / cara amica,

abbiamo lanciato la campagna “Tetti Protetti” per salvare i tetti della Lombardia da una disastrosa legge regionale che ha consentito un recupero dei sottotetti senza regole.

Ti preghiamo di aggiungere il tuo nome e di inviare la petizione che segue per posta elettronica:

- all’Assessore al Territorio della Regione Lombardia, che sta approvando la nuova legge urbanistica che comprende il recupero dei sottotetti,

- all’Assessore all’Urbanistica del tuo Comune (se diverso da Milano devi cambiare l’indirizzo indicato),

- per conoscenza a noi.

Gli indirizzi sono indicati all’inizio della petizione e li devi copiare nelle caselle del tuo programma di posta prima dell’invio del messaggio.

Ti siamo grati se vorrai inviare questo messaggio ad altre persone interessate per aumentare la pressione sulla Regione e sui Comuni lombardi.

La discussione sulla legge urbanistica inizia in Consiglio Regionale il 31 marzo e quindi ti chiediamo di agire rapidamente.

Pubblicheremo l’andamento della campagna sui siti www.ilbaruffi.it e www.msacerdoti.it

Grazie per la tua partecipazione e scusaci del disturbo se il problema non ti interessa o non sei d’accordo con il contenuto della campagna

Il Gruppo Consiliare dei Verdi al Comune di Milano

Tel. 02-88450208, E-mail: tettiprotetti@gruppoverdiapalazzomarino.it

Testo della petizione

Oggetto: Recupero dei sottotetti

Egr. Assessori,

il recupero dei sottotetti in Lombardia e nel nostro Comune ha da tempo assunto le dimensioni di una diffusa operazione speculativa. A farne le spese sono state le città e i paesi, le piazze, i palazzi, deformati e sfigurati da sopralzi o abbaini, nel più totale disordine di stili e tipologie: interventi eseguiti per sfruttare al massimo la volumetria, senza rispetto per l'estetica, la facciata sottostante o tanto meno gli edifici circostanti. Si sono creati problemi di stabilità degli edifici, sicurezza anti-incendio, manutenzione delle canne fumarie, con nascita di numerosi contenziosi tra condomini. Questi potrebbero essere evitati se il Comune richiedesse l’autorizzazione del condominio, prevista dall’art. 23 del Testo Unico dell’Edilizia in quanto il tetto è di proprietà di tutti i condomini in base all’art. 1117 del codice civile. Si sono creati contenziosi tra Regione e Comuni in quanto le nuove costruzioni prevedono sottotetti in deroga alle volumetrie massime previste dai piani regolatori. L'estensione della Denuncia di Inizio Attività alle ristrutturazioni e nuove costruzioni ha aggravato i problemi in quanto i Comuni non riescono nei 30 giorni previsti a controllare la regolarità delle pratiche e ad effettuare la valutazione di impatto paesistico.

Chiedo alla Regione Lombardia, che ha inserito il recupero dei sottotetti tra gli articoli della nuova legge urbanistica, di:

- escludere l'utilizzo della D.I.A. per ristrutturazioni e nuove costruzioni,

- eliminare la possibilità di recuperare i sottotetti di nuovi edifici,

- vietare la modifica delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde negli edifici esistenti.

Chiedo al Comune di:

- variare comunque il piano regolatore, in modo da vietare l'alterazione della sagoma del tetto nel territorio comunale,

- autorizzare il recupero del sottotetto solo se è allegato alla pratica l’assenso del condominio in qualità di proprietario del tetto.

Distinti saluti

C’è qualcosa di nuovo nel panorama, anzi di antico: il cemento armato. Disteso sulla pianura padana e lungo l’Appennino, a tonnellate, per disegnare il futuro ideale del viaggiatore, merce o essere umano (o entrambi) che sia: l’alta velocità.

Trattandosi di cemento, forse parlare di paesaggio suona un tantino blasfemo, ma il disegno della ferrovia veloce si dispone lungo linee sinuose, curve affascinanti, architetture potenti e aggressive ma non prive di grazia, come quelle specie di colonne doriche d’epoca titanica distese a una ventina di metri d’altezza a nascondere le montagne parmensi agli occhi di chi smadonna e scarbura sulla Via Emilia: sono le barriere antirumore fra cui sfreccerà, a mezz’aria, l’Eurostar dell’avvenire. E al diavolo i poeti e i passatisti: anche un fanatico demodé del cipressetto e del declivio verdeggiante non potrà negare che il maccherone metafisico color Milano coricato nella piana è bello. Bello: di una sua virile bellezza calcestruzza, montata su pilastri tanto eleganti da sembrare agili a dispetto del tonnellaggio. Linee poderose per descrivere un sogno: attraversare la penisola in poche ore e decongestionare il traffico micidiale che paralizza l’economia italiana e massacra le arterie degli italiani.

Un sogno che ha ormai dimensioni concrete, ben delineate nel piano e nelle cifre pubblicate da Tav spa, la società della Rete Ferroviaria Italiana (Rfi) dedicata all’alta velocità: sono già in costruzione circa 630 chilometri di nuovi binari sulla direttrice Torino-Milano-Napoli e sono in corso di progettazione linee ad alta velocità per 250 km fra Milano e Padova e fra Genova e la rete padana, attraverso il “terzo valico”. Non è tutto: a completare la rete andranno altri 250 km sulla direttrice Firenze-Roma, in corso di adeguamento, e oltre 750 km previsti da Rfi, che se ne assumerà direttamente la realizzazione: verso nord, fra Padova e Mestre (dove sono già in corso i lavori) e successiva mente attraverso i valichi alpini per potenziare i collegamenti con l’Europa; e verso sud, tra Napoli e Bari, tra Napoli e Reggio Calabria e verso Messina e Palermo.

A oggi, punta di diamante del progetto Alta Velocità è il cantiere della linea Torino-Novara, in procinto di essere consegnata alla Rfi dai contractor (il consorzio CavToMi, a guida Impregilo, società del gruppo Gemina); in primo luogo perché sarà la prima tratta a entrare in esercizio, se come sembra saranno rispettati i tempi previsti (30 ottobre 2005). Ce lo descrive, con il giusto orgoglio, l’ingegner Luciano Ciapponi, direttore generale del Consorzio: “È il cantiere più grande d’Europa, per uomini impegnati (fino a 6500) e per fatturato (dell’ordine di 130 milioni di euro). Ha comportato circa 5000 espropri, perché attraversa zone altamente abitate, ma complessivamente non abbiamo avuto più di 7, 8 ricorsi al Tar. Anche questo è un segnale dello scrupolo e della correttezza con cui si è proceduto”.

Al consorzio è anche toccata la realizzazione di 86 scavalchi autostradali, dato che la linea Tav corre parallela all’autostrada Torino-Milano, di nuove strade di accesso, e di due viadotti da innestare a Novara, dove l’autostrada è costretta dalla ferrovia a deviare il suo corso: un totale di 450 km di nuova viabilità. Anche se Ciapponi non lo dice, vale la pena di sottolineare che il tempo servito per i lavori - due anni e mezzo - è esatta mente la metà di quello che è stato necessario per le autorizzazioni: ingegnere batte burocrate 2 a l.

Se non il paesaggio, non c’è dubbio che al CavToMi stia a cuore l’ambiente. L’ingegner Lara Capitini, responsabile dell’impatto ambientale spiega: “Il cantiere taglia un reticolo irriguo complesso e delicato, con due zone critiche particolari: l’area delle risaie e, in prospettiva, il parco del Ticino. Per garantire la continuità dell’irriguo, abbiamo realizzato 420 tombini di dimensioni singolari, 2 metri per 2, per permettere ispezioni”. “Sono vere opere d’arte”, aggiunge Ciapponi, “almeno per un ingegnere, e ci permettono di ricucire l’ambiente, dopo il ‘taglio’ dei lavori”. Particolare attenzione è data poi al monitoraggio dell’acqua, all’atmosfera e all’impatto delle vibrazioni, oltre che alla gestione dei rifiuti. Nella speranza di offrire risposte convincenti alle mobilitazioni ecologiste che accompagnano l’intera storia del Tav. Eppure, almeno nelle intenzioni, l’intero progetto Tav dovrebbe avere una valenza ecologica, al di là dei problemi d’impatto ambientale causati dai lavori. La sua finalità reale, infatti, è decongestionare il sistema dei trasporti nazionali, il cui squilibrio in favore della rete stradale e del trasporto su gomma è evidente, ai limiti della catastrofe per costi ambientali, sociali ed economici.


L'immagine di "copertina" non è (abbastanza ovviamente) tratta da "D", ma era un implicito commento di Eddyburg al tema dell'articolo

Secondo i dati del ministero dei Trasporti, la curva del traffico su strada ha avuto un’impennata impressionante nel decennio scorso. Complessivamente, nel 2001, il 92,8% del traffico passeggeri totale interno si è svolto su gomma, contro il 5,6% su rotaia. Notevole lo squilibrio anche nel settore merci, con la quota dell’autotrasporto al 66,6%, seguita dal trasporto marittimo al 22% e poi dalla ferrovia (11,1 %). Il riequilibrio del sistema dei trasporti è fra i principali obietti vi di Rfi: alleggerire le linee esistenti e consentire la circolazione in condizioni di massima sicurezza di un numero di treni quasi doppio rispetto all’attuale. “Concepite secondo standard tecnologici all’avanguardia e in conformità alle direttive europee”, si legge nella presentazione del progetto Tav disponibile in rete, “le linee veloci saranno dedicate al trasporto di passeggeri e merci sulle lunghe e medie distanze”. “È più corretto parlare di alta capacità, che di alta velocità”, chiarisce Ciapponi: “Il sistema italiano differisce da quello francese che dedica l’alta velocità solo ai passeggeri: il nostro obiettivo è un trasporto misto su linee che garantiscono una velocità di progetto di 300 km all’ora e una velocità reale d’esercizio intorno ai 250 km all’ora. E se in questo modo eliminassimo il 30, 40% del tra sporto su gomma di lungo tragitto, avremmo grandi risultati ambientali”.

Ambizioni sulle quali provvede a spargere qualche dubbio Sergio Bologna , tra i massimi esperti italiani di trasporti, già consulente dei governi di centro sinistra, membro di Round Table 125, organismo di consulenza Ocse sui trasporti e di recente coautore del volume di riferimento in materia: European Integration of Rail Freight Transport edito dalla Conferenza europea dei ministri dei Trasporti. “Innanzitutto -spiega Bologna - le alte velocità sono poco adatte al trasporto merci: un cargo che aumenta la sua velocità da 80 a 120 kmh aumenta i costi di manutenzione del 40%. Inoltre l’alta velocità non è utilizzabile per molte merci deteriorabili o pericolose, come i materiali chimici. Ma è soprattutto l’analisi del traffico, a dirci che il trasporto trasferibile dalla strada alla ferrovia è una percentuale minima di quello attuale”.

Bologna cita una ricerca della Regione Emilia Romagna del 2002 (“finora la fonte più attendibile: i dati Istat, per esempio, considerano solo i camion italiani”) condotta at traverso 12 mila interviste a camionisti: vi si legge che 1’87% dei camion pesanti (attenzione, non si parla di furgoni o veicoli commerciali), si muove su tratte inferiori ai 200 chilometri. Il 53%, poi, si ferma sotto i 50 km. “Il tra sporto su rotaia non è flessibile: prenotare un treno può richiedere fino a sei mesi”, aggiunge Bologna, “non è adatto a questo tipo di traffico. Ciò significa che nella migliore delle ipotesi la quota di trasporto su gomma trasferibile alle ferrovie è del 17%”.

Il Tav non offre dunque grandi vantaggi? “Non esageriamo, i progressi potrebbero essere notevoli: liberando le linee secondarie dal trasporto passeggeri”, secondo Bologna, “sarà possibile una maggiore organizzazione”. I convogli merci viaggiano oggi a una velocità media di 18 chilometri l’ora, più o meno come un rompighiaccio in servizio oltre il circolo polare: la causa è la precedenza obbligatoria dovuta ai convogli passeggeri. Il Tav, correndo su rotaie proprie, eliminerebbe almeno questo inconveniente. In ogni caso, alla faccia degli “standard tecnologici”, il trasporto su gomma resta un nodo difficilmente risolvi bile con i progetti della nuova ferrovia. Appena si parla di merci si incontrano i veri problemi, tanto che lo stesso Amministratore delegato delle ferrovie Elio Catania individua nel settore Cargo, definito dal Sole 24 Ore “una zavorra capace di trascinare a fondo Trenitalia e tutto il gruppo”, il punto cruciale del suo piano di risanamento. Catania individua nello sviluppo della logistica come capacità di integrazione di diverse modalità di trasporto, di fare alleanze anche internazionali, di realizzare infrastrutture (valichi, porti, terminali) il fronte della sfida per il risanamento di Trenitalia (obiettivo il pareggio di bilancio anticipato al 2006). E a fare in parte le spese della “ottimizzazione” dell’ Amministratore delegato sarà proprio il sogno dell’alta velocità: a fronte dell’accelerazione dei lavori sulle tratte Torino-Novara e Roma-Napoli, resta infatti incerto il destino dei finanziamenti per le non meno strategiche linee Milano-Verona-Padova e Milano-Genova. Con tanti saluti ai decantati destini strategici del “corridoio 5” attraverso il norditalia e del “corridoio dei due mari” fra Genova e Anversa.

Come dire che l’alta capacità rischia di somigliare al comunismo: il paradiso delle generazioni future, l’inferno di quelle presenti. Tanto più se, come è lecito supporre, le cifre già drammatiche del trasporto stradale dovessero aumentare fra qui e il 2012 (entrata in esercizio prevista dell’Alta capacità MilanoPadova): un calvario di cantieri autostradali, ritardi sulle linee, carenze di servizio, che viene raccontato con sempre maggior frequenza sui giornali alla voce “rivolte dei pendolari”. Siamo disposti al sacrificio, in nome di un futuro che renda integrato e competitivo in Europa il sistema del trasporti italiano? Certo che sì, anche se qualche problema emerge anche nell’ipotesi del paradiso della Tav realizzata. “La vera criticità - avverte ancora Sergio Bologna - è la questione dei terminal: una volta liberate le linee e snellito il trasporto su rotaia non avremo dove ricoverare i treni. Il desiderio di avere più merci su rotaia, si traduce nella necessità di costruire più terminai: in questo senso la situazione è destinata ad aggravarsi”. In effetti per le operazioni di carico e scarico di un grande convoglio merci possono essere necessarie anche sei ore. Non solo, è ormai acquisito che il trasporto intermodale (trasporto di container che possono essere trasferiti su diversi supporti: rotaia, gomma, acqua) supera ormai quello convenzionale (treni merci): e questo richiede terminali adeguati. Rfi ne prevede tre, nelle aree di Milano, Roma, Napoli, ma non si sa per quando. “La Germania - dice Bologna - ha lo stesso tipo di problemi che abbiamo noi, legati a un sistema industriale diffuso sul territorio che intasa la viabilità. Ma si è attrezzata, e oggi ci insegna ciò che avremmo potuto fare: potenziare i porti con infrastrutture ferroviarie. Fra il 2000 e il 2002 Amburgo, ma anche Rotterdam e Anversa, hanno costruito megaterminal da 55, 60 treni al giorno. E con questo hanno sottratto al nostro Paese quello che doveva essere il suo business naturale, il traffico dal lontano Oriente. Dalla Cina arrivano navi da 5000 container: bene, o c’è qualcuno che li porta via in fretta, e solo il treno può farlo, o i porti si intasano. In questa situazione, per le navi che escono dal canale di Suez fermarsi nei nostri porti è impossibile. Per non perdere tempo gli conviene sobbarcarsi altri 5 giorni di navigazione e puntare al mare del Nord”.

Mentre la politica italiana nutre i cittadini con l’idea dei “corridoi” e sogna soluzioni a 300 kmh, il mondo si sta in somma attrezzando in un’altra direzione. È giusto credere che l’Alta velocità, o Alta capacità che dir si voglia, sia una delle misure indispensabili per risolvere il grande ingorgo che è diventata l’Italia. Ma senza dimenticare la legge ricorsiva che il matematico Douglas Hofstadter formulò così: “Ci vuole sempre più tempo del previsto, anche tenendo conto della legge di Hofstadter”.

TORINO -"Non chiamamolo Mi-To perché quello è abortito molti anni fa". Enrico Salza preferisce invertire le sigle e parlare di Torino-Milano. Da presidente del Sanpaolo, torinese e gran sostenitore del progetto si possono capire anche le ragioni. Ma la sostanza non cambia. To-Mi o Mi-To, ciò che conta è l´obiettivo del progetto - sarà presentato a Cernobbio il 15 ottobre - ovvero la creazione di un´area forte unica sull´asse Torino-Milano, sensibilmente "accorciato" dall´alta velocità, lungo il quale distribuire quanto si riuscirà a fare di nuovo e di meglio in campo scientifico, artistico, culturale, commerciale. Dunque fine dell´eterna rivalità tra le due capitali del Nord Ovest. Ci avevano provato negli anni Sessanta e poi negli anni Ottanta ma senza risultati. Allora a tenere le fila era la politica oggi è l´economia.

"Torino e Milano" spiega Salza "hanno esaurito il loro ruolo, non sono più centrali come un tempo, non sono in declino ma si debbono guardare intorno e ripensarsi, non hanno un grande progetto, non hanno imprese proprie ad alta tecnologia, non sono centri di servizi che siano un esempio di eccellenza". Tutto questo, collocato in una dimensione europea, gli fa dire che "le due città hanno bisogno di una scossa, devono unirsi per esaminare e affrontare un problema che è reale e sempre più serio". Anche perché la competizione allargata fa emergere i più bravi, quelli che hanno capito per tempo la lezione. Un esempio? La quota annuale di attività congressuali di Barcellona da sola è superiore alla somma di quelle di Torino e Milano.

L´operazione gioca su dieci idee base corrispondenti ad altrettanti campi di possibile collaborazione e non limitati nel tempo a Torino e Milano. L´alta velocità del "corridoio 5" destinato a collegare Lisbona a Kiev, passando per Lione-Torino-Milano-Trieste e incrociando a Novara la Genova-Rotterdam, interesserà, indirettamente ma non tanto, la Liguria e Bologna. È proprio l´alta velocità, ovvero la soluzione dell´antico problema delle comunicazioni, il fattore che oggi "rende credibile il progetto, unitamente alla nuove regole di governo delle autonomie e alla sempre crescente propensione dei cittadini alla mobilità".

Il modello di riferimento è quello del "Diamante fiammingo" tra Anversa e Lovanio o del Bacino della Ruhr in Germania. Quando tra non molto tempo in 45 minuti si potrà andare in treno da Torino a Milano e in eguale tempo da Caselle a Malpensa, l´alleanza tra le due città diventerà una grande opportunità. Si calcola infatti che nell´arco di un trentennio essa produrrà una crescita di 2 milioni di abitanti con un reddito complessivo che da 376 salirà a 552 milioni di euro con un aumento del 47 per cento e un incremento dell´occupazione del 55 per cento.

Lo scenario di questo asse Torino-Milano comprenderà una stretta collaborazione nel campo della formazione finalizzata a una "fabbrica unica" per il Nord Ovest grazie all´alleanza dei Politecnici delle due città, un grande distretto medicale con servizi di eccellenza in comune, una stretta cooperazione tra poli museali, attività di export, congressuali e fieristiche che avranno come riferimento il Lingotto di Torino e la Fiera di Milano nella sua nuova sede di Rho, un collegamento diretto tra l´hub di Malpensa e lo scalo di Caselle. Il presidente del Sanpaolo è convinto che "se si lavorerà con impegno i primi benefici di questa rivoluzione si potranno avvertire tra il 2010 e il 2011".

E spiega così il fatto che questa volta i protagonisti sono cambiati: "Le Camere di Commercio sentono di essere classe dirigente e dispongono di un territorio che va al di là di quello amministrativo e, in quanto rappresentanti dell´economia, avvertono di favorire interessi orizzontali. E poi, indipendentemente dai colori di governi e municipi, possono garantire la continuità". Costo dell´operazione? "Bisogna chiedersi che cosa costa a non ragionare in questi termini, rinunciando cioè alla realizzazione di una forza economica paragonabile a quella di Singapore. E , in quel caso sì, andando verso un sicuro declino".

I terreni agricoli più apprezzati d'America travolti dall'«urban sprawl»

Un mare di case grandi, con giardino e doppio garage, ha occupato le terre che producevano le migliori cipolle di New York

Cinque ore nel traffico per andare e venire dal lavoro sono il prezzo pagato per la fuga. In agguato psicopatie, crisi coniugali, caroprezzi

Da Smith & Wollensky, nella terza Avenue, all'incrocio con la 49a strada, la steak Wollensky arriva profumata di cipolle fritte e champignon. Assaporo la cipolla e mentre il cameriere versa il cabernet della Napa Valley nel grande bicchiere, oso appena: sono cipolle di Warwick? Si scusa. Non ha capito. Ripeto la domanda e la sua risposta tronca ogni mia possibilità di dialogo: Warwick che...? Il mio uomo non sa, non conosce la patria delle cipolle. Come la Kings Country era stato il paniere della città di New York, perché pane, latte e carne venivano da lì, così le cipolle venivano da Warwick. Oggi Warwick, cinquantacinque miglia da Manhattan, è parte dell'intera area metropolitana di New York, che si incunea tra il New Jersey, lo stato di New York e il Connecticut, fino a Warwick, contea di Orange.

Vi arrivo in autobus, partendo dal terminale dei bus, tra l'ottava e la quarantatreesima, un viaggio che potrebbe essere una sorta di attraversamento della galassia dell'urban sprawl verso un margine urbano che si va sempre più dilatando, un ecotono umano di autostrade e case unifamiliari che si assesta in maniera definitiva su tre stati. Il viaggio di andata dura due ore, una corsa prima accelerata, poi al rallentatore con immediata partenza dal Lincoln tunnel. Dopo la prima mezz'ora sulla Interstate, nel cono di atterraggio degli aerei verso l'aeroporto di Newark, rallentiamo per infilarci nell'area di Wayne, nel Willowbrook Mall Park Ride, tra Bloomingdale, Macy's e Sears. Chi scende si avvia con decisione verso il grande parcheggio di migliaia di auto, mentre il bus riparte subito per gettarsi nell'immenso sprawl di Wayne, assedio infinito di piccole case, aggregati insediativi, centri commerciali, funeral homes, centri chiropratici e salutisti, banche e residui di boschi.

Segnali di storia e di vita

Solo dopo novanta minuti di viaggio, prima di Pompton Lakes e Wanaque, si rintraccia qualche segnale di storia e di vita in edifici di fine ottocento, un lampo nella monotonia subito cancellato dall'irreparabile macchia espansiva di case-giardini-parcheggi-banche-centri commerciali. Il disegno equilibrato della diga del grande lago artificiale, un terrapieno primo novecento dai profili ben assestati, dove la pietra è segnale e funzione, appare come una liberazione. La città in espansione muore solo in maniera apparente nel parcheggio scambiatore di Ringwood, ricavato nel bosco, la cui presenza già chiama cartelli inneggianti ai futuri lots nel bosco, intatto per ora, sacro alla futura tutela della qualità dell'acqua del bacino.

Si continua nel bosco lungo il lago artificiale, nell'area naturale di protezione, e l'atmosfera è quella del parco, il Long Pand Ironworks State Park. Avanti fino al Greenwood Lake e siamo a Warwick.

Non molto tempo fa, parlo degli anni `60, Warwick era area agricola. La città ora è modellata dall'urban sprawl: le antiche aree agricole sono ora suburbia e torrenti di case compongono lottizzazioni sempre più sovradimensionate. Qui, su queste colline, mi diceva Barry Commoner, si produceva il latte destinato alla città di New York e si coltivavano le famose cipolle, su quelle aree umide drenate e bonificate dagli immigrati polacchi, un'industria della cipolla che esplose alla fine dell'800.

Oggi, a Warwick, le attività legate all'agricoltura sono in netto declino. Se ne prevede, a breve termine, la scomparsa. Le fattorie, che nel 1966 erano ancora 180, oggi sono poco più di 10. Capisco il perdersi stupito del cameriere di Smith & Wollensky ed il suo non raccordare Warwick alle buone cipolle del piatto: finiti i tempi in cui Warwick produceva cipolle per New York, per quanto questa produzione sia protetta da una legge dello stato che impone un freno all'espansione edilizia per mantenere questa attività considerata una sorta di tradizione storica da tutelare. I numeri però parlano chiaro: i 181 produttori di cipolle del 1978 sono ora solo 65. Il terreno viene mangiato dall'urban sprawl. Negli anni '90 a Warwick sono state costruite 740 nuove case unifamiliari e, dal 2000, sono stati approvati progetti per altre 141 case.

Una grande casa nuova

La popolazione, 3000 abitanti nei primi anni novanta, si è moltiplicata per dieci: ora ha raggiunto i 30.000. Gente beata, in fuga da New York, che ha centrato il proprio obiettivo: una casa grande e nuova con un giardino in un tranquillo cul de sac. Purtroppo quest'uomo suburbano dalla nuova dimensione territoriale, con la grande casa, il grande giardino, il grande prato, il grande doppio garage dovrà impiegare più di tre ore per raggiungere Manhattan e tornare in auto. Cinque ore in autobus. Questo è il prezzo quotidiano del sogno periurbano incarnato da Warwick, con le sue 104 miglia quadrate di territorio, una delle città più estese dello stato di New York, sulle quali gli amministratori sembrano prevedere il galoppo dello sprawl, cancellando il piano territoriale del 2001 con una moratoria per i nuovi insediamenti residenziali.

Basta guardare la città dall'alto per vedere l'avanzata dello sprawl, dell'area dello sci, con il suo impianto di risalita presso Farm Market: una valle disegnata per la speculazione edilizia e lo sprawl: le case unifamiliari il cui prezzo era di 178.000 dollari nel 1996, costavano 234.000 nel 2000. La soglia di 400.000 dollari, considerata invalicabile negli anni '90, ora viene superata sempre più spesso.

Si apre un altro problema: quello del prezzo delle case. La gente fugge o si ripara nella valle di Warwick anche perché i prezzi della Grande Mela stanno diventando proibitivi: +18% a Brooklyn, +10% al Queens, +15% al Bronx, + 14% a Staten Island, +28% a Manhattan per appartamento, in un solo anno. I calcoli della classe media sono semplici. Escludendo Manhattan, dove non si trova più nulla a meno di un milione di dollari, restano, decrescendo, Brooklyn con 438.000 dollari in media, il Queens con 355.000, l'East Bronx con 350.000 e Staten Island con meno di 300.000. In questo mercato una casa a Warwick, ai margini del bosco o affacciata sul lago, con grande giardino e doppio garage diventa appetibile, soprattutto per le giovani coppie con figli piccoli, che necessitano di spazio e libertà.

Inchiodati al volante

Si fugge dalla rumorosa prigione della metropoli e si viene subito incatenati dalla dimensione senza limite dello sprawl, che comporta 4-5 ore al giorno inchiodati al volante o al sedile di un autobus, la nevrosi delle poche ore in famiglia, il mito della resurrezione del week-end, la crisi coniugale. Alle volte il risultato è drammatico. I fuggiaschi in affitto dal Bronx e da Brooklyn non reggono i tassi di interesse bancari del nuovo investimento, divorziano o si vedono requisire la casa più piccola. L'incidenza del fenomeno è al 25% nella grande area metropolitana di New York, al 30% nella dolce, apparentemente serena e scintillante Warwick.

Prima di lasciare la valle, osservando il paesaggio in progressiva fase di sprawl, con ben 5 punti di nuove espansioni residenziali, non è difficile ipotizzare che la grande valle delle cipolle, nel suo apparente scintillare di felicità, sarà presto un continuo urbanizzato, con le sue piccole tragedie indotte dello sprawl.

New York mi aspetta con il suo skyline che a lungo osserverò dall'autobus immobilizzato dal traffico all'ingresso del Lincoln Tunnel. Sarò anch'io per qualche ora, prigioniero dello sprawl, in questa nuova frontiera del Suburbia, di cui parlava anche David Brooks sul New York Times di qualche tempo fa. Sarò prigioniero di un dilemma che fa discutere l'America quanto la agita il problema dei morti quotidiani in Iraq: la gente lascia le grandi città per fuggire alle tasse, per scuole migliori e più sicure, per una maggior privacy, per case più grandi, per trovare parcheggio, chiudendosi in una nuova dimensione medievale, allontanandosi dai grandi centri della popolazione e della cultura, in terre spianate dai bulldozer per una monotona e medievale architettura. I risultati, oltre allo stress della continua mobilità, sono un decremento, un rimpicciolimento della capacità culturale, la xenofobia ed un falso senso di sicurezza. Questo nuovo modello urbano sembra, purtroppo, il nuovo paradigma del sogno americano.

Nota: il sito di FARM AID, per salvare altre cipolle (fb)

La fatica di cercare e di trovare casa per chi è privo di altre risorse finanziarie oltre al suo lavoro (massime ora che si parla sempre più spesso di rischio povertà per i ceti medi) può con- figurarsi come un'allegoria della nostra società, non solo perché, come un campione stratigrafico, nei suoi percorsi ne svela, insieme a durezze nei rapporti d'interesse e d'affari che l'innervano e la sospingono, anche inefficienze e incertezze delle istituzioni: ma soprattutto per la continua scoperta della scarsa attenzione che la comunità urbana pare ancora dedicare alle varie specificazioni dell'esclusione abitativa, e alle loro oggettive interferenze con la cifra demografica delle città.

Questa condizione è resa più evidente in molte città d'arte, o turistiche, o in certi quartieri degli affari, o cittadelle della cultura di grandi città, precipuo oggetto di marketing urbano, dove si assiste al cosiddetto processo di de- abitazione, consistente nella sostituzione, in quei luoghi, di abitanti originari con abitanti sopravvenuti, in gran parte a loro volta provvisori, portatori di radici culturali e spirituali diverse e pertanto non in grado di conservare il preesistente ambiente urbano, né di fondersi in una nuova comunità funzionante ed efficiente.

La figura-chiave di questo fenomeno è il residente non presente e non rappresentato, che, se non fosse vera, non sfigurerebbe nel repertorio delle invenzioni letterarie di Italo Calvino, accanto a cavalieri inesistenti e a visconti dimezzati.

Sono quei nuovi proprietari che alloggiano in città per pochi giorni al mese, o all'anno, o quelle persone molto importanti che amano viverci in incognito: e che pertanto non esprimono bisogni, né interessi urbani, né esigenze di rappresentanza istituzionale, preferendo modi individuali di fruizione che non implicano rapporti con altri nella città.

Viene alla mente il soggetto di molti quadri di Rene Magritte: "l'homme au chapeau melon", cioè quell'uomo in bombetta, ma dal volto nascosto o assente, e insieme l' aforisma magrittiano "ceci n 'est pas une pipe" a significare che ciò che appare non sempre è quel che è: che qui diventa "ceci n'est pas un habitant".

La non coincidenza tra abitante formale e abitante reale, cioè la disgregazione dell'equivalenza di significato tra abitante e "colui che risiede abitualmente in un luogo" a favore di altre sintassi urbane, assume nelle moderne società forme diverse.

Nelle città non caratterizzate esistenzialmente dal fenomeno delle seconde case oda prevalente residenzialità turistica stagionale, o poli d'attrazione culturale o economica, la difficoltà di far quadrare il conto tra abitanti formali e abitanti reali si manifesta, per così dire, in eccesso rispetto alla capacità insediativa: gli invisibili, cioè la fascia non censita, quelli che il Comune fatica a intercettare e a rappresentare sono in sovrappiù rispetto ai residenti.

Nelle città oggetto di marketing urbano, specie se a scala internazionale, il fenomeno della de-abitazione pare realizzare, invece, l'effetto opposto, in quanto la residenzialità stimata deve essere sempre valutata al netto delle numerosissime seconde case, e dei vuoti abitativi per inabitazione o per invenduto: gli invisibili cioè quelli che il Comune fatica ad intercettare e a rappresentare non "abitano qui".

Questo effetto, che pare intrinseco al disegno commerciale di mettere sul mercato esterno ed estero fruizioni temporanee o permanenti di una città, o di suoi quartieri, pone il problema, finora non esplorato, del limite di questa funzione profit: se cioè essa debba rallentare dinanzi a segni di inequivocabile smobilitazione demografica dei luoghi, o se invece questi possano essere benissimo considerati un habitat d'impiego, per così dire tecnico, indifferente agli stessi fondamenti biologici necessari per l'esistenza di una communitas urbana.

Di questa condizione problematica Venezia insulare, contenitore di pregio in cui si producono opere e eventi che sembrano avere rapporti sempre meno diretti con le vicende e la sorte della sua popolazione, appare insieme caso di studio e laboratorio in divenire.

La lenta trasformazione della città insulare in luogo per terzi (in atto già molto prima della locuzione urban marketing) fa capo a un modo d'intendere e di agire di retaggio privato e individualista geneticamente analogo allo spirito commerciale risalente ai tempi antichi, ma, a differenza di quello ostensivamente indifferente a qualsiasi dubbio etico su guadagni a scapito della vita nella città d'acqua, e della sua stessa sopravvivenza.

Chi oggi vende case veneziane sul mercato nazionale e internazionale dello status-symbol o del buen retiro, o le trasforma incessantemente in multiformi strutture di turismo di visitazione, di sosta, di studio, congressuale, di shopping, ecc. ripete, non solo simbolicamente, il gesto mercantile dei veneziani di un tempo: anticamente commercianti di spezie, o di viaggi in Palestina, o di reliquie di santi, via via fino a dealer di arredi e di servizi di famiglia, e oggi, the last business, di muri vuoti.

La vendita di alloggi e di edifici sul mercato nazionale e internazionale non rappresenta, in sé, un problema: tutte le belle città del mondo, impronta dell'intelligenza creativa dei loro architetti, pervase di storia e di cultura, sorgente continua d'urbano stupore, sono da sempre oggetto di desiderio di viverci: e il mercato delle residenze che nasce da questo amore è una legittima fonte di ricchezza per la città, e anche buona occasione di continua manutenzione edilizia.

Si tocca il livello di guardia quando questo mercato, come a Venezia insulare, nel suo progredire mostra d'indurre o sostenere effetti mutageni sui supporti socioeconomici e sul capitale demografico della città, anche in rapporto alle dotazioni di servizi essenziali.

Più che in altre città antiche, la forzosa compresenza in Venezia insulare di differenti modi d'impiego della città e la progressiva obliterazione degli abitanti originari (dei quali permane soltanto un'esigua colonia, o riserva) hanno reso possibile l'ingresso di nuovi usi e stili di vita. Questa mescolanza, pèle-mèle, di persone e di gruppi, anche in forme di micro-invasioni (come quella dall'estremo oriente) rende difficile una reductio ad unum culturale e spirituale, e ostacola i tentativi d'identificazione e di quantificazione di una koinè urbana, confermando lo stereotipo e alimentando la condizione di "veneziani che non partecipano", di "città che non risponde", o come si dice: della "Venezia che non c'è".

A nessuno può sfuggire, per contro, come l'ordinario svolgersi della vita dei veneziani sia la ragione dell'acquisto di case, assicurando, con quella dell'alloggio, la proprietà di un pezzo di città vitale, e custodita in ogni stagione.

Non casualmente, nella réclame di un'immobiliare del gruppo Toscano, "Casa a Venezia non è più un sogno" esposta, con un certo sense of humour, proprio dentro gli autobus dei pendolari, si specifica più avanti che trattasi di un"'occasione unica a prezzi irripetibili" e, proprio: "nella Venezia dei Veneziani".

Ma nel contempo a nessuno sfugge come la progressiva alienazione degli alloggi a, o per, gente di fuori a prezzi insostenibili per persone a medio reddito che vivono o lavorano nella città antica ("Casa, un lusso irraggiungibile per i veneziani" titola il Gazzettino del 2 marzo u.s.!) riduce fisicamente le possibilità di permanenza e di sviluppo familiare degli autoctoni, costretti ad emigrare, con la conseguente progressiva erosione e dispersione di quella venezianità, supporto e presidio, appunto, dello stesso effetto città.

Tutti sembrano concordare, comunque, che Venezia insulare, come qualsiasi altro luogo in corso di de-abitazione, se letta riduttivamente soltanto come tracce murarie in funzione profit, non potrebbe aspirare se non ad un futuro da cenotafio urbano: cioè un monumento vuoto.

Il punto di rottura di un sistema bipolare come quello veneziano, già per molti aspetti compromesso nella condizione urbana della parte antica, sembra quindi collocarsi nell'imperativo della permanenza al suo interno di una membratura sociale consolidata, autosufficiente e in grado di progettare il proprio futuro.

Pare difficile credere che, in Venezia insulare, nella stessa ora in cui a S. Pietroburgo un solo esercizio commerciale vende trentaseimila libri al giorno, si leggano avvisi come: " la libreria è lieta di invitare la sua clientela più affezionata domenica 15 febbraio alle ore 11 per festeggiare (!) insieme il rinnovo del contratto d'affitto e il proseguimento dell'attività".

Forse è il momento d'escogitare qualche risposta alla domanda (immanente in molti pubblici e privati silenzi) se qualsiasi soluzione alla condizione antropologica di Venezia insulare (ma anche di ogni altra città oggetto di marketing urbano) debba essere attesa soltanto come il fall-out spontaneo della convocazione e dell'impianto di eventi straordinari, di opere rinomate e di impieghi internazionali e d'eccellenza, secondo l'implicito nel detto "prima i grandi affari, il resto seguirà".

O se piuttosto sia necessario un intervento della collettività per non affidare unicamente all'invisibile mano del mercato anche la cura residuale dell'assetto e del divenire della popolazione delle tanto concupite città storiche e turistiche.

Nel frattempo potrebbe essere utile e prudente, a Venezia come altrove, il preventivo utilizzo, nell'approvazione di progetti di opere e di strategie, di una prassi di procedura d'impatto sociale, anche soltanto sul tipo del questionario tuttora usato da Clifford Stoll (il padre putativo di internet) alla vigilia dell'adozione di nuovi codici: "Cosa si perde" si chiede Stoll "quando s'adotta una nuova tecnologia ? Chi viene emarginato? Quali preziosi aspetti della realtà rischiano di venire calpestati?".

Si veda l'articolo Il flop degli alloggi a metò prezzo, di Silvio Testa, , per comprendere alcuni elementi della dinamica analizzata da Pace

Opere: lungo 120 chilometri, dovrebbe costare 250 miliardi di Euro. Idea di un architetto romano

Si poteva supporre che nel museo degli orrori delle cosiddette “grandi opere” non ci fosse più posto. Tra ponti sullo stretto, trafori, superstrade e via cementificando pensavamo che oramai, nonostante il ministro ingegnere, avessimo raggiunto il top. Eravamo degli inguaribili ottimisti. Infatti oggi ad Ancona, presso la sala del rettorato del Politecnico delle Marche, verrà presentato un progetto che se non fosse terribilmente vero, sembrerebbe una storiella su cui riderci sopra. Si tratta di un ponte che dovrebbe collegare Ancona con Zara, in Croazia, lungo 120 chilometri, alto 200 metri, disposto su tre piani dove dovrebbero trovare posto due larghe autostrade, una per ogni senso di marcia, e due binari ferroviari. Inoltre un sottopiano cablato garantirebbe ogni tipo di servizi di collegamento, compresi acquedotti e oleodotti. Costo dell’opera: 250 miliardi di euro.

Ideatore della brillante idea, l’architetto romano Giorgio De Romanis, che in una intervista al giornale Il mondo del Lavoro nelle Marche, rivelava il folle progetto. Sembrava una boutade da non prendere troppo in considerazione. Ed ecco invece che la rivista rilancia alla grande la cosa e promuove questo convegno in collaborazione con il rettore dell’Università, e il diessino Marco Pacetti. L’equipe dei tecnici messi al lavoro da De Romanis garantisce sulla fattibilità del super ponte visto che la profondità del mare nel tratto in questione non supererebbe i 60 metri.

I progettisti, con scarso senso dell’umorismo, dichiarano che il ponte stesso potrebbe produrre energia pulita tramite l’installazione di pannelli fotovoltaici, lo sfruttamento del moto ondoso e di impianti eolici. Insomma si tratterebbe di un’opera a fini ecologici.

Da parte sua il rettore afferma, senza arrossire, che l’Università ha ritenuto opportuno ospitare il convegno “per aprire un dibattito interessante per la città e le Marche”. Gli ha risposto il capogruppo dei Verdi in Regione Marco Moruzzi, stroncando, ovviamente, la mostruosa proposta: “Credevamo che l’ansia di lasciare il segno nel tempo con opere faraoniche conoscesse il pudore. Evidentemente sbagliavamo. Il progetto del ponte Ancona - Zara, ma sarebbe più opportuno parlare di autostrada sul mare, dimostra dove può arrivare una logica che ignora le più elementari norme di tutela ambientale. Perché investire soldi pubblici per un collegamento stradale al cui confronto il ponte sullo stretto di Messina è una “passerella fluviale?”.

Già perché? Si parla di un forte interessamento da parte di gruppi aziendali. Gli amministratori locali che fino ad oggi hanno espresso un parere, hanno bollato il tutto come “una provocazione” o un “progetto utopistico”. È probabile, e auspicabile, che a Zara si continuerà ad andare con uno dei tanti traghetti che è possibile prendere dal porto di Ancona.

Nota: per chi volesse entrare nei particolari tecnici, un link con le immagini e la relazione al sito dell'architetto progettista Giorgio De Romanis

Per qualche informazione in più, e anche per sorridere se si ha voglia, un articolo da un periodico locale e un commento vernacolare dalla rubrica "Petegole e cumari, chiachiere in libertà sui fati de sta cità", da sito www.anconanostra.com (fb)

El ponte sul’Adriatigo

"Il progetto titanico di un collegamento per auto, Tir e treni con la Croazia - Il grande sogno del ponte per Zara"

dal Curiere Adriatigu del 26 febraro 2004

Un sogno ad altissima tecnologia gettato sull'altra sponda dell'Adriatico. Un'opera colossale. Il ponte Ancona-Zara per ora esiste solo sul progetto firmato dall'architetto Giorgio De Romanis e nei desideri di chi ama le sfide titaniche. Ma si può fare. Ci crede chi lo ha disegnato sulla carta, e previsto modi di costruzione, tempi, costi. E ha provato ad apprezzare i vantaggi di un continuum di traffici dalla direttrice Bologna-Ancona verso i Balcani. In particolare Grecia e Turchia a sud, Romania e Ungheria a est, Polonia e Russia a nord. Un serpente che si snoda per 120 chilometri a 40 metri sul pelo dell'acqua, con un'autostrada e una ferrovia che corrono nel suo ventre. Auto e tir sopra, i treni sotto. Qualche cifra tanto per quantificare il ritorno economico: il traffico commerciale e quello privato risparmierebbero un bel po' di miliardi di euro - circa 55 - per quattro ore di viaggio in meno. Il pool di professionisti è pronto a scommettere su una sfida davvero affascinante. Tempi - si parla di più di cento anni - e costi previsti (20 miliardi di euro, mica bruscolini) farebbero scorgere all'orizzonte dell'Adriatico i contorni di un'utopia. Ma anche la battaglia economica potrebbe non essere persa in partenza. Il pedaggio potrebbe permettere di ammortizzare lo sforzo finanziario. Il resto potrebbe arrivare da un project financing e da operazioni ad hoc. C'è chi ipotizza l'emissione di un'obbligazione della Banca europea per gli investimenti. Il porto di Ancona è la porta aperta verso l'oriente, e verso il futuro. L'ennesima dimostrazione della centralità e del prestigio di una posizione strategica che il capoluogo dorico può trasformare in occasione di ricchezza e di sviluppo. Perché davvero l'Adriatico possa essere un mare non solo di pace, ma anche di dialogo, di scambi e di benessere tra le genti."

Avé capito??? Nun era miga na presa pe'l culu? C'era davero 'n genio che ha penzato da fà 'n ponte longo qualche centinaro de chilometri in mezo al mare, alto na setantina de metri dal'aqua per nun fà 'rivà i sghizi dele londe ntéi vetri dele machine, pugiato nun ze sà indó, nun ze capisce se galegiante o cui piloni infilzati in fondo al mare.

Ero io tropo scetigo, perché iu se vede che nun ciò fiducia ntéi prudigi dela techenulugia muderna,'nzzoma sò antigo!!!

Ma perché nun te vai a fate dà .....'n tragheto?

(se sta nutizia la lège "el cavagliere" dà subito l'incarigo per fà al prugeto!)

Ve saluto a tuti, gente

el Zumaro che raja

9 marzu 2004

FIRENZE La prossima settimana la commissione ambiente e lavori pubblici della Camera inizierà a votare la legge di riforma dell'Urbanistica firmata dall'azzurro Lupi, definita «testo unificato». In realtà di unificato, cioè condiviso, c'è ben poco. Anzi niente. È un testo deciso dal centrodestra, più volte rimaneggiato, sintomo di una grande approssimazione che via via ha trovato sempre maggiori oppositori, le Regioni anzitutto. Ieri a Firenze se ne è discusso a lungo, al convegno nazionale dei Ds «Dall'Urbanistica al governo del territorio». La distanza fra i due poli su un argomento come questo è notevole. Da Alfredo Sandri a Fabrizio Vigni, passando per l'urbanista Paolo Urbani, tutti d'accordo su un punto: oggi la gestione del territorio è un argomento centrale nella politica del paese. Ieri alla fine del convegno ci si è salutati con un impegno: un tavolo di lavoro con amministratori regionali e Ds per seguire il percorso della legge di riforma. A lanciare il monito è Pier Luigi Bersani, responsabile economico Ds: «Preferiamo nessuna legge di riforma ad una legge sbagliata, fatta male e dannosa per il paese. Il centrodestra non può pensare di continuare a legiferare a colpi di maggioranza».

I Ds dicono no alla proposta del centro destra di riforma della legge sull'urbanistica.

Il loro testo nella sua ultima stesura denota dei passi in avanti, perché si sono resi conto di essere partiti con un'impostazione di retrogardia. Malgrado ciò non risulta affermata in modo coerente l'ispirazione del titolo V della Costituzione, tanto che il governo del territorio viene ridotto all'urbanistica e ad un po' di mobilità. Nel meccanismo della negoziazione e della sussidarietà, poi, vi è una palese sottostima della forza conoscitiva e definitoria di una pianificazione pubblica. Dal punto di vista della individuazione dei protagonisti della pianificazione, invece, c'è molta approssimazione e una forte carenza nel livello intermedio di pianificazione, che diventa facoltativo, individuandolo intorno ad enti non meglio definiti.

Quali sono i punti qualificanti della proposta dei Ds?

C'è un approccio pienamente consapevole della nozione di governo del territorio che per noi significa mettere a connessione e a sintesi elementi che sono riferiti agli assetti fisici, urbanistici e ambientali, della mobilità e dei servizi. Si tratta di una visione largamente mutuata dalle migliori esperienze già adottate nelle regioni governate dalla sinistra, come l'Emilia, la Toscana e l' Umbria. Noi diamo indicazioni piuttosto chiare di chi fa che cosa ai diversi livelli istituzionali come regioni, province e comuni. E questo non significa pianificazione dirigistica perché si tratta di pianificazione di indirizzo in sede regionale, mentre riguarda quella comunale in doppia chiave: il comune fa un piano strutturale e un piano operativo di cinque anni, cioè della durata dell'amministrazione, superando in questo modo il piano regolatore nella sua fissità. Il piano operativo deve essere compatibile con quello strutturale ma ha una ampia flessibilità per poter essere realizzato attraverso progetti, che possono essere proposti anche dai privati, secondo meccanismi di negoziazione dove nel negoziato, però, si è in due e il pubblico ha un suo punto di vista codificato, chiaro. Non si può permettere di negoziare soltanto a chi porta i soldi. Certo, la nostra legge è più complessa, più lunga, la loro è più corta, non per incuria o incompetenza, ma per lassismo verso un'idea della sussidiarietà al rovescio.

Come mai fino ad oggi non è stato possibile riuscire a formulare una legge di riforma?

Perché è una materia di una complessità enorme. Credo che il motivo di fondo vada cercato nell'idea che c'è stata per decenni dell'urbanistica intesa come definizione dei particolari a livello comunale, mentre a livello centrale si dovevano fare le grandi politiche di settore. Di fatto chiunque decideva qualsiasi cosa, sull'acqua o sull'uso del suolo. La seconda fase è arrivata con l'affermarsi del ruolo delle regioni e quindi anche la legislazione nazionale ha fatto dei passi avanti. Adesso, anche dopo le esperienze maturate nelle regioni governate dalla sinistra , saremmo pronti a lavorare a una legislazione nazionale più coerente con l'idea di governo del territorio.

Titolo originale: The New American Dream Looks Familiar – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il new urbanism sta prendendo piede a St. Louis, con nuovi progetti che riecheggiano temi delle città tradizionali.

Dall’ex campagna di St. Charles all’affollato Brentwood Boulevard, fino al vecchio centro di Kirkwood, i costruttori fanno a gara ad adottare i principi new urbanism.

L’idea, abbozzata negli anni ’80 come alternativa allo sprawl suburbano, è diventata la moda del momento. E gli esperti che osservano queste trasformazioni affermano che la tendenza è in crescita, sia qui che a livello nazionale.

Il concetto generale è quello di capitalizzare quanto c’era di meglio nei quartieri tradizionali.

Pensare a spazi compatti, con case vicine le une alle altre e alle strade, con vicoli di servizio e parcheggi posti sul retro, marciapiedi alberati che portano verso parchi, negozi, chiese, biblioteche, scuole.

”Se solo la gente prendesse in considerazione quello che c’è nei loro vecchi quartieri, capirebbe” ci dice Marina Khoury, project manager dello studio Duany Plater-Zyberk & Co. di Miami.

Questo studio di architettura e urbanistica, noto come DPZ, è stato pioniere del concetto di new urbanism, e ha collaborato a tre progetti nella regione di St. Louis.

Ma gli esperti stanno ancora dibattendo su quanto davvero certi progetti col marchio new urbanism rafforzino il nucleo tradizionale dell’area regionale, e frenino lo sprawl.

A St. Louis e altrove, costruttori che si autodefiniscono new urbanists stanno strappando foreste e ricoprendo terre agricole, e ci costruiscono nuove strade e fognature per i propri progetti.

A Richmond Heights, un’impresa vuole demolire un vecchio quartiere, spostando gli abitanti, per fare spazio a un insediamento new urbanism progettato per attirare nuovi residenti.

Ci sono anche degli ibridi. WingHaven a O’Fallon, Missouri, ha un centro cittadino e altri elementi new urbanism. Ma nella stessa città ci sono anche sistemi di strade a cul-de-sac, case di stile suburbano, e altre caratteristiche che i puristi aborriscono.

”Qualche volta si vedono progetti dove si è fatta metà della strada, usando alcuni elementi di new urbanism” dice Stephen Filmanowicz, portavoce del Congress for the New Urbanism a Chicago.

”Ma è comunque meglio del classico sprawl”, aggiunge. E anche se sta su spazi aperti consuma meno terreni, se la gente può andare a lavorare o a fare shopping a piedi ... fa parte dei nostri scopi”.

La vera questione

Due dei più grossi progetti in corso nell’area di St. Louis sono degli ibridi: i 600 ettari di WingHaven, della McEagle Development, con altri progetti da 150 per la vicina BaratHaven, o quello da un miliardo di dollari and su 900 ettari a Belleville.

La Tamar Properties sta realizzando la prima fase del quartiere di Belleville, Reunion, con alcune case in stile new urbanist vicino a un lago, con percorsi pedonali e ciclabili. Ma la maggior parte delle case sono di tipo classicamente suburbano.

New Town a St. Charles, su 320 ettari a nord della zona storica, è una faccenda diversa. L’ha progettata lo studio DPZ e la Whittaker Homes la sta costruendo come autentica comunità new urbanism.

”Non ci sono cul-de-sacs” ci diceil vice presidente della Whittaker, Tim Busse. “Mescoliamo le abitazioni per i vari livelli di reddito, e il 90 per cento degli abitanti starà ad un raggio di cinque minuti a piedi da un centro servizi di quartiere.

Come Seaside, Florida, il celebrato modello di centro new urbanism progettato da DPZ nei primi anni ’80, anche New Town a St. Charles si sta realizzando su aree libere.

E come Seaside, non è progettata per essere più densa dei soliti suburbi. Le case sono raccolte in gruppi attorno a centri di tipo urbano con negozi, uffici e servizi.

DPZ ha anche dotato New Town di un sistema di 95 laghi e canali a contenere lo scolo dell’acqua piovana, ed essere un carattere distintivo della zona. Alcune case si affacciano sull’acqua, con moli per barche in stile veneziano. Tutte le case, con prezzi da circa 100.000 a 500.000 dollari, sono al massimo ad una distanza di due isolati da un lago o da un canale.

Khoury della DPZ afferma che New Town è di gran lunga più efficiente del solito quartiere suburbano, che ha insediamenti separati, e poi centri per il commercio, e per gli uffici, e obbliga la gente ad usare l’auto per andare ovunque.

Busse ci dice che lui e il suo presidente alla Whittaker, Greg Whittaker, hanno discusso di come tentare un progetto del genere per anni.

”Ammiravamo Seaside” dice “e abbiamo avuto la sensazione che i tempi fossero a St. Charles, particolarmente coi prezzi dei terreni che andavano alle stelle ... Volevamo anche costruire qualcosa di diverso e più sostenibile”.

Busse ci racconta che quasi tutte le case del primo lotto (400 su 600) sono vendute. E il gruppo degli acquirenti è misto, e comprende “gente da Soulard e University City, che non pensavano avrebbero mai attraversato il fiume (per entrare nella St. Charles County) a comprarsi una nuova casa.

In-Fill

Nel frattempo, altri costruttori hanno portato il new urbanism ai vecchi quartieri. Stanno riempiendo spazi in aree degradate o in zone vuote, aggiungendo una varietà di nuove case, negozi, ristoranti e altre amenità.

L’obiettivo – un elemento importante per i nuovi urbanisti – è quello di rivitalizzare i vecchi quartieri.

”Non siamo contro l’edificazione in aree nuove, ma penso che in generale i nostri membri siano più soddisfatti di praticare lo infill” nei vecchi quartieri, ci dice John Norquist, un ex sindaco di Milwaukee, ora presidente del Congress for the New Urbanism.

La MLP Investments ha quattro progetti di questo tipo, in corso o pronti a partire, per l’area di St. Louis.

Chris Ho, vice presidente di MLP per il settore costruzioni, dice che il primo esempio di intervento è Station Plaza, nel cuore di Kirkwood. Lavorando con architetti di Suttle Mindlin a St. Louis, e con la Parker Associates di Tulsa, Oklahoma, la MLP sta costruendo 215 condomini ad appartamenti, 24 townhouses, negozi al livello strada e un ristortante affacciato su una piazza. I garages sono nascosti sul retro. Il quartiere si sta realizzando in una zona morta: il sito di un ex punto vendita Target, di fronte a City Hall.

A Florissant, MLP prevede altre abitazioni in stile new urbanism e negozi al pianterreno per rivitalizzare la storica arteria commerciale. A Creve Coeur, una cittadina senza un vero e proprio centro di tipo urbano, la MLP sta costruendo King's Landing. Situato ad un isolato dal municipio, avrà appartamenti con negozi al pianterreno. I marciapiedi metteranno in collegamento con la zona del municipio e gli altri negozi e ristoranti della zona.

A Brentwood, MLP pensa ad un insediamento più grosso, nella parzialmente abbandonata Hanley Industrial Court. Ci saranno “veri isolati urbani” dice Chris Ho, “residenze e uffici sopra negozi, un’arteria principale, ristoranti, piazze”. Sono previsti una multisala a diciotto schermi e altri negozi in un secondo tempo. Ho aggiunge che sta per arrivare una stazione del MetroLink, in modo che gli abitati possano “saltar su e andare a Clayton per lavoro, all’aeroporto, in centro”

Nella vicina Richmond Heights, la THF Realty ha proposto di rimpiazzare circa 200 case con un quartiere di abitazioni più alte, negozi, un albergo e uffici. È progettato in stile new urbanism attorno a un percorso attrezzato a verde, con vicoli di servizio dietro alle abitazioni. La municipalità ha chiesto ad altri costruttori di presentare proposte alternative.

Norquist, del Congress for the New Urbanism, dice che l’idea di abbattere un quartiere per realizzarne uno nuovo deve essere valutata attentamente, “specialmente visto che St. Louis ha già avuto abbondantemente la sua parte di demolizioni, di case di valore”. La demolizione “sembra controproducente ... ma potrebbe non esserlo se l’insediamento new urbanist aggiungesse valore alla città”.

Un progetto a sé stante

La Pace Properties Inc. sta lavorando a un progetto isolato, a Richmond Heights, di fronte alla St. Louis Galleria. Nella prima fase, Boulevard-St. Louis avrà un magazzino Crate & Barrel, Bombay Co. e altri negozi, un garage parcheggio e 74 appartamenti. Il terreno sta lungo Brentwood Boulevard, ma il progetto sarà affacciato verso l’interno, con una strada commerciale, una piazza, fontane e alberature.

Rob Sherwood, direttore operativo della Pace Properties, afferma che le corsie laterali aggiunte lungo Brentwood e la Galleria Parkway miglioreranno il traffico.Più tardi si aggiungeranno anche uffici, altri appartamenti, e forse un albergo.

Sherwood dice che la Pace segue i principi new urbanism. Questo insediamento dovrebbe rivitalizzare anche altri quartieri, ed è “un modo efficiente di utilizzare terreni di valore”.

John Hoal, professore alla School of Architecture della Washington University, ci dice che il progetto della Pace sembra più un insediamento commerciale con componenti residenziali, che un vero quartiere new urbanism.

Ma anche così “Stanno realizzando una ottima miscela di funzioni, un ottimo ambiente stradale ... e bisogna rispettare i costruttori che seguono qualcuno dei principi new urbanism”.

Caratteristiche del NEW URBANISM:

Nota: qui il testo originale (con un utile elenco delle imprese costruttrici sedicenti new urbanist) (fb)

Dato che si tratta di un testo piuttosto lungo, chi fosse interessato alla fine troverà anche (per una volta) il file PDF della traduzione scaricabile direttamente da Eddyburg, oltre al solito link con la collocazione dell'originale al sito del Boston Globe (fb)

Titolo originale: Closed for Business. Energy Bill a special-interests triumph – traduzione di Fabrizio Bottini

WASHINGTON - Robert Congel ha grandi piani, e una visione chiara per il suo complesso commerciale nel nord dello stato di New York. Etichettato come il più grande mall del mondo, l’ancora da costruire DestiNY USA ospiterà 400 negozi di varie dimensioni, migliaia di stanze d’albergo, un parco di 30 ettari chiuso in un involucro di cristallo, e poi una parete di roccia e ghiaccio da scalare, o un teatro in grado di ospitare gli spettacoli di Broadway.

E se i suoi sostenitori nel Congresso troveranno il modo, il mega-mall sarà parzialmente finanziato dall’Energy Bill federale, che fornirà 100 milioni di dollari di denaro pubblico. La febbrile campagna di lobbying condotta da Congel paga i suoi dividendi a Capitol Hill. Quando i membri dell’assemblea legislativa lo scorso inverno hanno votato l’aumento dei prezzi della produzione di petrolio interna, hanno anche votato per aiutare Congel a costruire il suo mall gigante, attraverso le “obbligazioni verdi” - greenbonds - esentasse.

L’iniziativa dei greenbonds – chiamati così perché i progetti che finanziano dovrebbero essere energeticamente efficienti – è stata una delle numerose aggiunte cacciate dentro all’ energy bill da legislatori che si incontravano a porte chiuse. Questi provvedimenti non hanno sostenitori ufficiali, e non facevano parte della documentazione originale approvata da camera e Senato, ma sono state aggiunti più tardi da mani sconosciute, quando le 816 pagine del documento sono state redatte in riunione segreta.

Pensato per delineare un apolitica energetica nazionale per la prima volta in più di dieci anni, lo energy bill è diventato una cuccagna di finanziamenti per gli interessi legati alle imprese, dentro e fuori il campo energetico. Il progetto, fermo per una serie di manovre al Senato ma ancora in cima alle priorità legislative del Presidente Bush, prevede iniziative per incoraggiare la produzione di energia da fonti esistenti e nuove. Ma è anche diventato un simbolo, spesso quanto un elenco telefonico, del modo attuale di fare le leggi a Washington, dove la politica è indirizzata da chi ha soldi, potere, e accesso ad un gruppo relativamente ristetto di decisori.

Un’analisi condotta dal Boston Globe su migliaia di pagine delle pratiche di lobbying mostra che i vari soggetti con interessi consolidati nelle politiche energetiche hanno speso in attività di lobbying 387.830.286 dollari a Washington lo scorso anno. Hanno anche pagato decine di migliaia di dollari in contributi elettorali agli incaricati che hanno costruito il documento tra la Casa Bianca e Capitol Hill.

L’analisi del Globe dimostra che le grandi corporations e altri, comprese alcune Università, sono stati premiati dal progetto di legge attraverso riduzioni fiscali, progetti di costruzione, deroghe ai regolamenti che risparmieranno loro molto più di quanto non abbiano speso per rendere note al governo le proprie esigenze.

In alcuni casi, i beneficiari sono specifiche compagnie come Home Depot, che ha speso 240.000 dollari in lobbying nella speranza di guadagnarne decine di milioni in risparmi. Home Depot – il cui PAC ha contribuito il massimo di 5.000 dollari alla campagna di Bush del 2004, e i cui dipendenti ne hanno versati 226.400 a Bush e al Republican National Committee – è beneficiata da una sezione in due paragrafi del progetto di legge, che elimina le tariffe sui ventilatori da soffitto cinesi. Questa modifica farà risparmiare a Home Depot a ad altre compagnie un totale di 48 milioni, secondo i calcoli del bipartisan Joint Committee on Taxation.

Detto in altre parole, gruppi di imprese hanno investito milioni di dollari in poressioni per ottenere miliardi in finanziamenti governativi e in deregulation.

L’industria nucleare, che ha speso ben 71.405.955 in lobbying a Capitol Hill, avrà 7,37 miliardi fra tasse e progetti, compresi finanziamenti federali per costruire un impianto nucleare da un miliardo in Idaho. Questo impianto, che sarà il primo commissionato in decenni, avrà anche ripercussioni benefiche sull’industria dei carburanti all’idrogeno, dato che l’installazione nucleare dovrà produrli.

Parecchie grandi compagnie in campo energetico, che hanno speso decine di milioni in lobbying, hanno ottenuto una storica deregulation nel proprio campo, che toglierà di mezzo controlli che risalgono all’epoca della Depressione, su come spendono i propri soldi, e consentirà loro di diventare conglomerate – con poche possibilità di recupero per i piccoli investitori se gli investimenti speculativi delle compagnie andranno male.

I principali sostenitori di Bush guadagneranno profumatamente dall’ energy bill. Sessanta dei 400 cosiddetti Pioneers e Rangers – quelli che si sono impegnati a raccogliere rispettivamente almeno 100.000 o 200.dollari per sostenere la rielezione di Bush-Cheney – saranno beneficiati dalle riduzioni fiscali, dai sussidi, dal ridimensionamento di regole e controlli, secondo un calcolo del Sierra Club.

La Massey Energy del West Virginia – il cui direttore, James H. “Buck” Harless, è uno dei principali raccoglitori di fondi per Bush – avrà centinaia di milioni di dollari in prestiti garantiti per un impianto di gasificazione del carbone. Harless ha lavorato nella squadra per la trasformazione energetica del Presidente Bush, che ha preceduto la Energy Task Force del Vice President Dick Cheney, la quale a sua volta ha sviluppato il progetto centrale del progetto di legge a Capitol Hill.

”Il problema è che tutto si sta trasformando in un progetto di interessi particolari”, dice Charlie Coon, esperto in questioni energetiche alla Heritage Foundation, think tank conservatore. “Il problema di base, è che non risolverà il problema di fornire l’energia necessaria alle attività economiche, o perché la gente possa accendere la luce. Si sta trasformando tutto in una farsa”.

Dietro le porte chiuse

La costruzione del progetto di legge riflette il modo in cui sono condotti gli affari a Washington nel 2004. Coi Repubblicani che godono del controllo di entrambe le Camere, più la Casa Bianca, i leaders del Grand Old Party mettono insieme enormi programmi dietro porte chiuse, escludendo il partito di minoranza e schiacciando il dissenso da parte di Repubblicani moderati e lobbisti i cui programmi non coincidono con gli scopi del partito, a parere di membri di entrambi gli schieramenti e ex parlamentari.

E anche se altri progetti hanno avuto la loro parte di programmi privilegiati e distribuzione di risorse a varie imprese o gruppi di interesse, lo energy bill è considerato dai gruppi ambientalisti e dalle associazioni dei consumatori uno degli esempi più estremi di eccesso nella distribuzione ai privati.

”La cosa davvero sorprendente è come una combinazione di persone dell’industria energetica, del gas e petrolio, dei grandi servizi pubblici, del carbone, attraverso un’ampio raggio di decisioni politiche (che siano la Environmental Protection Agency o l’energy bill) ottengano letteralmente miliardi di dollari come pagamento in cambio di milioni di dollari” in contributi e spese di lobbying, afferma Mark Longabaugh, vice presidente anziano per le questioni pubbliche della League of ConservationVoters.

Il progetto di legge ha iniziato a definirsi dapprima come prodotto collaterale della task force sull’energia di Cheney, un comitato di funzionari di Washington che si incontrava in provato per redigere un documento di politica energetica nazionale, poco dopo che Bush era stato eletto.

Uno studio dello scorso anno dell’indipendente General Accounting Office ha rilevato che la task force sull’energia era informata da “interessi energetici” di tipo privato, principalmente imprese legate al petrolio, carbone, nucleare, gas naturale, industrie elettriche. Il rapporto afferma che non si è stati in grado di determinare l’estensione dell’influenza di queste imprese sulle decisioni politiche, a causa delle limitate informazioni messe a disposizione del General Accounting Office.

Ma altri documenti, forniti dietro ordine di un tribunale, mostrano come quindici soggetti connessi al campo energetico abbiano avuto contatti con la task force, contatti che si sono risolti in provvedimenti di politica energetica a proprio favore.

Lo Edison Electric Institute, che aveva avuto contatti con la task force 14 volte, spendendo 12 milioni in lobbying a Washington lo scorso anno, si è assicurata una storica deregulation riguardo all’impresa energetica che gli analisti calcolano di un valore di miliardi di dollari.

Il Nuclear Energy Institute, che ha ottenuto miliardi in riduzioni fiscali e progetti, aveva avuto 19 contatti con la task force, e sborsato1.280.000 dollari in azioni di lobbying nel 2003. Anche l’industria nucleare trarrà beneficio dall’estensione e ampliamento, nello energy bill, del Price Anderson Act, che blocca la solvibilità finanziaria di un impianto di energia nucleare in caso di incidente. Anche se non è stato commissionato alcun nuovo impianto nucleare in decenni, il progetto prospetta una rinascita di questa discussa fonte di energia.

La Southern Company, impresa elettrica che ha speso 990.000 dollari in lobbying, trarrà beneficio da regole più lasche sull’emissione di mercurio, sostanza tossica rilasciata dagli impianti energetici. Il vice presidente della Southern e un lobbista si sono incontrati con la task force, secondo documenti messi a disposizione a seguito di una citazione in giudizio del Natural Resources Defense Council. La Environmental Protection Agency, che deve emanare i regolamenti definitivi il prossimo anno, stima che la deregulation sulle emissioni di mercurio farà risparmiare agli impianti energetici degli USA un totale di 2,7 miliardi.

L’American Petroleum Institute, che ha avuto contatti con la task force sei volte, e ha speso 3.140.000 in lobbying lo scorso anno, avrà miliardi di riduzioni fiscali e sussidi per incoraggiare la produzione interna.

Gli ambientalisti, esclusi dalla task force, hanno ottenuto poco nel pacchetto definitivo, dopo aver speso una piccolissima parte di quanto speso dall’industria energetica in lobbying. La League of Conservation Voters, per esempio, ha speso 46.516 dollari in lobbying l’anno scorso; il Natural Resources Defense Council 920.000, e la Union of Concerned Scientists 150.000, come emerge dai rapporti sulle attività di lobbying.

Le imprese che avevano contatti con la task force di Cheney ottenevano vantaggi strategici, afferma Larry Noble, analista del Center for Responsive Politics, perché potevano sostenere le proprie ragioni già dalle prime fasi di sviluppo delle politiche energetiche.

”Hanno ottenuto quello che volevano sin dal primo giorno” dice Noble. “Tutti i lobbisti sanno quanto sia importante essere presenti quando si preparano i documenti, prima che si scrivano le leggi. Quando il progetto di legge è pronto, è tardi. Si gioca solo in difesa”.

Il comitato congiunto

Dopo che la task force di Cheney aveva redatto le sue raccomandazioni, il compito di stendere il progetto di legge passò a camera e Senato, dove i membri della maggioranza Repubblicana mantennero immutate molte delle proposte. Poi, nella speranza di realizzare un accordo fra Camera e Senato, i leaders nominarono un comitato congiunto.

Ma questo comitato cominciò ad aggiungere parti che non erano mai comparse in nessuna versione del progetto. E i lobbisti subissavano i membri di richieste per includere qualcosa o qualcuno, compreso il mall di Congel, nella legge.

L’aggiunta di progetti del genere fa rizzare particolarmente il pelo dei cani da guardia degli sprechi governativi. Anche se DestiNY USA prometteva di essere un modello di efficienza energetica, i critici si chiedevano cosa avesse a che fare un centro commerciale con la definizione di una politica energetica nazionale.

L’iniziativa dei greenbonds non faceva parte dei progetti originali di camera e Senato passati attraverso udienze pubbliche e la discussione in aula. Era stata aggiunta dal comitato congiunto, un gruppo che aveva escluso i Democratici del tutto, salvo per due delle riunioni di redazione del documento. La massiccia versione definitiva fu resa pubblica un sabato, lasciando ai Democratici e a quei Repubblicani non inseririti all’interno dei gruppi di negoziazione a malapena tre giorni per studiarsela, prima che fosse chiesto di votarla in aula.

Il deputato Edward Markey, Democratico di Malden veterano dello Energy and Commerce Committee, racconta che fu obbligato a seguire gli sviluppi del documento del suo comitato parlandone coi lobbisti di Washington.

”Non potevamo stare dietro a quello che stava succedendo” dice Markey. “Tutto quello che avevamo erano fughe di notizie. Quello che hanno fatto su questo disegno di legge per l’energia non ha precedenti. Non hanno avuto rispetto per i Democratici, ma - cosa più importante – nemmeno dei gruppi ambientalisti e di consumatori del paese.

Congel è un costruttore, di successo anche se discusso, il cui valore economico è stimato dalla rivista Forbes di circa 700 milioni. Congel e la sua impresa, la Pyramid Management, sono stati citati a giudizio nel 2000 da ex soci in affari per frode, e il caso è ancora aperto. La Pyramid ha ripagato più di 800.000 dollari a un’impresa affittuaria, la Limited, che affermava come si fossero gonfiate le cifre delle bollette telefoniche. Gli organi giudiziari statali e federali non hanno ritenuto di procedere nei confronti dell’impresa.

Sia Congel che la DestiNY USA non hanno risposto a ripetute richieste di commentare questo fatto.

Altri tre progetti di centri commerciali - uno in Georgia, uno in Louisiana (patria di un ex presidente dello House Energy and Commerce Committee, il deputato Repubblicano Billy Tauzin), e uno in Colorado – trarranno benefici dalle proposte dei greenbonds, anche se ci vuole qualche capacità speciale per capirlo dal linguaggio del progetto di legge.

Chiamata “programma dimostrativo per i siti industriali inquinati, per edificazione ambientalmente qualificata e progetti a orientamento sostenibile”, la sezione greenbonds del programma non fa menzione di particolari progetti o stati. Ma le linee guida si adattano esattamente a questi, sia secondo i rappresentanti del Congresso, sia secondo i gruppi di osservatori che hanno studiato il documento.

”Non sono nominati, ma tutti sanno quali sono, basandosi sul linguaggio” dice Keith Ashdown, vice presidente per le questioni politiche al Taxpayers for Common Sense. “Un senatore Repubblicano scherzava sul fatto che il documento avrebbe potuto anche richiedere che uno dei progetti fosse collocato in un luogo il cui nomignolo è Cajun State”, a sottolineare come uno di questi casi particolari stia a Shreveport.

Congel è stato aggressivo sostenitore dei finanziamenti pubblici al suo progetto. Ha formato un comitato di azione politica, il Green Worlds Coalition Fund, che ha raccolto 82.897 dollari, la maggior parte dei quali sono andati a contributo della campagna elettorale di Bush, e dei deputati nei posti chiave riguardo allo energy bill. In più Congel, la sua famiglia, e i dipendenti di DestiNY USA e della Pyramid, hanno contribuito con altri 69.084 dollari a campagne per il Congresso e per Bush, secondo le analisi dell’indipendente Center for Responsive Politics.

I proponenti del progetto hanno fatto anche grossi investimenti in lobbying, spendendo 140.000 dollari lo scorso anno e 60.000 quest’anno per convincere il Congresso – che ha già dato a DestiNY USA 1,7 miliardi l’anno scorso per la trasformazione delle aree circostanti il sito del progetto – ad approvare la proposta dei greenbonds.

Nel frattempo, Congel lavorava per aiutare alcuni decisori chiave. Lui, la sua famiglia, i suoi soci, hanno dato molto al deputato Bob Beauprez, una matricola del Colorado che vorrebbe anche assistenza finanziaria per un progetto di costruzione nel suo distretto. Congel ha anche ospitato un’iniziativa di raccolta fondi a cui ha partecipato Cheney.

Anche se la gran parte dei contributi elettorali di Congel e di DestiNY USAsono andati ai Repubblicani, i sostenitori del progetto non hanno trascurato i senatori Democratici di New York, Hillary Rodham Clinton and Charles Schumer, i quali entrambi hanno ricevuto contributi da Green Worlds e dallo stesso Congel.

Schumer, secondo una tattica apparentemente contraddittoria piuttosto comune a Washington, ha lottato decisamente per inserire i greenbonds nello energy bill, anche se stava anche lottando per la sconfitta del progetto nel suo insieme.

”Pensavo che fosse una buona iniziativa” ha detto Schumer a proposito dei 2,2 miliardi di dollari a DestiNY USA, che i costruttori affermano porterà più di 100.000 posti di lavoro fissi legati al turismo, nell’area di crisi economica del nord New York.

Schumer afferma anche di essersi opposto allo energy bill perché liberava dalla responsabilità i produttori di un additivo della benzina che ha avvelenato le acque sotterranee a New York e in altri stati.

Sul versante dei deputati, James Walsh, Repubblicano di Syracuse, è stato un campione nel sostegno al progetto DestiNY, localizzato nel suo distretto. Walsh, che dice di essere stato compagno di scuola di Congel al liceo, difende il progetto coma valido prototipo di come si possa realizzare un mall sostenuto da energie rinnovabili come quella solare.

E aggiunge che i posti di lavoro sarebbero importanti nel suo distretto.

”È l’unica persona che bussa alla mia porta e vuole spendere due miliardi” dice Walsh.

Ma i deputati che stanno all’erta contro gli sprechi, e gli ambientalisti, si chiedono perché mai il governo federale dovrebbe aiutare un costruttore multimiliardario a realizzare un complesso commerciale e turistico.

”È evidente che l’unico verde a cui è mai stato interessato Bob Congel è quello che sta nelle sue tasche” dice Chuck Porcari, direttore per le comunicazioni alla League of Conservation Voters.

Quando lo energy bill era fermo a dicembre, Pete Domenici, Repubblicano del New Mexico a capo del Senate Energy and Natural Resources Committee, l’ha modificato per renderlo più accettabile a un Senato poco convinto. Una diversa versione, che ufficialmente non ha rimpiazzato il bill originale, non comprende l’istituto dei greenbonds.

Ma con l’aiuto di Schumer, DestiNY USA può dare un altro morso alla torta dei fondi federali. Schumer e il Senatore Zell Miller, un Democratico il cui stato – la Georgia – è in corsa per un progetto da greenbonds, hanno inserito un emendamento che accorpa i progetti a un disegno di legge per le tasse di impresa, con più alta probabilità di guadagnarsi l’approvazione. Un comitato congiunto inizierà la stesura del progetto da oggi.

”È come un’arma a testate multiple. Proviamo con il progetto di legge sull’energia, o quello sui trasporti, o quello sugli stanziamenti. Se spariamo tutte queste testate, riusciremo a colpire qualcosa” commenta David Williams, dell’indipendente Coalition Against Government Waste.Far ingrassare un documento

Il progetto di Congel non è stato l’unico a trovarsi un nuovo veicolo di finanziamento, nonostante il blocco del disegno di legge.

Il Senatore Charles Grassley, Repubblicano dello Iowa a capo del Senate Finance Committee, e il cui sostegno allo energy bill era critico per le questioni fiscali, voleva 50 milioni di dollari per una foresta pluviale artificiale nel suo stato coltivato a granturco. I sostenitori dicevano che il progetto sarebbe stato educativo, ma è stato cancellato prima che lo energy bill andasse alla discussione in aula.

Ma Grassley ha avuto quello che voleva in gennaio, quando il suo progetto è stato fatto scivolare in un decreto omnibus di spesa per il finanziamento di azioni delle agenzie federali per il 2004. “La maggior parte dei progetti straordinari, se sostenuti da politici potenti, hanno nove vite” dice Ashdown.

I sostenitori dell’ energy bill riconoscono che sia stato imbottito di programmi locali, ma dicono che queste inclusioni spesso ernao necessarie per cucire insieme una coalizione di voto. “È una delle funzioni del processo di formazione delle leggi” afferma Frank Maisano, un lobbista dell’industria energetica per il marchio Brace and Patterson.

E la battaglia sul pacchetto energetico certamente ha aspetti filosofici. Quelli che lo appoggiano sostengono che la nazione deve produrre più energia da sola per liberare il paese dalla dipendenza dal petrolio estero. Alle imprese devono essere offerte riduzioni fiscali e sussidi, affermano uomini delle imprese e alcuni politici e analisti, perché la ricerca e sviluppo di nuove fonti energetiche è una cosa costosa.

Anche se agli ambientalisti piace demonizzare i profitti dell’industria petrolifera, dice Maisano, queste imprese hanno bisogno di incentivi finanziari per cercare nuove riserve in zone inesplorate. Per esempio ci sono potenziali riserve petrolifere particolarmente costose, perché stanno ad alta profondità; senza riduzioni fiscali, la maggior parte delle imprese non si prenderà il rischio finanziario di trivellare in quei luoghi.

Ma i critici, tra cui anche parecchi Repubblicani conservatori in fatto di tasse, insieme ai Democratici, insistono nel sostenere che le riduzioni sono sfuggite di mano nel corso delle riunioni a porte chiuse, con moltissimi beneficiari ridotti di fatto a singole imprese. Una volta finita, la versione originale dell’ energy bill conteneva circa 20 miliardi fra crediti fiscali e sussidi all’industria energetica.

Ma gli analisti ritengono che il principale colpo per le aziende siano i provvedimenti di deregulation, per assicurarsi i quali le compagnie energetiche hanno speso centinaia di milioni di dollari.

Il primo punto sulla lista delle cose da fare era l’eliminazione di una vecchia regola, chiamata Public Utility Holding Company Act. Poco conosciuta al di fuori del mondo energetico e finanziario, è una questione critica per l’industria elettrica, la cui vasta squadra di lobbisti è riuscita a persuadere i negoziatori al Congresso a rimuovere quella legge. Nelle centinaia di memorie dei lobbisti inoltrate per tentare di influenzare i lavoro sullo energy bill, la necessità di togliere di mezzo le regole sull’industria elettrica compare 98 volte.

Gli interessi legati all’elettricità hanno investito milioni di dollari nel tentativo di abbattere quella legge.Lo Edison Electric Institute, che rappresenta l’industria elettrica, ha speso 12.540.000 dollari per una squadra di 35 lobbisti nei propri uffici e in dodici altre imprese per fare pressioni sul Congresso, la Casa Bianca, e le agenzie federali, contro il Public Utility Holding Company Act e su altre questioni energetiche. Singole imprese del settore, insieme ad altre contrarie a questa legge fondamentale, hanno sborsato altri 56.420.670 in lobbying lo scorso anno, secondo i documenti archiviati dagli uffici di camera e Senato.

E l’industria non è stata spilorcia nemmeno nei contributi elettorali. Dirigenti e responsabili delle industrie elettriche hanno dato un totale di 7.733.941 dollari per la tornata elettorale del 2004, facendo del settore il 19° maggior contribuente, secondo i calcoli del Center for Responsive Politics. Tauzin, potente ex presidente dello House Energy and Commerce Committee, è stato particolarmente beneficiato, ricevendo più di 150.000 dollari per la sua campagna dall’industria dell’energia nel suo complesso, compresi i circa 76.000 dal solo settore elettrico.

Lo sforzo ha avuto successo: passaggi tesi ad abbattere la legge spartiacque di regolamentazione sono inclusi in tutte le versioni dello energy bill presenti ora a Capitol Hill. Se il disegno diventerà legge, sia i favorevoli che gli oppositori prevedono un’esplosione negli investimenti nel settore energetico.

Ma là dove i finanzieri vedono opportunità di investimenti, i difensori dei consumatori vedono futuri casi Enron in via di costruzione, perché quella legge era stata approvata per isolare gli impianti di produzione dal tipo di scambi nel settore energetico che hanno causato il crollo della Enron di Houston, con la più grossa bancarotta della storia. Liberatevi delle regole che limitano gli investimenti incrociati delle compagnie, dicono i rappresentanti dei consumatori, e il paese si troverà di fronte a una crisi energetica e finanziaria molto simile a quella che ha portato all’approvazione del Public Utilities Act.

La radici di questa legge stanno nell’era della Grande Depressione e della crisi del 1929. L’allora nascente induatria elettrica era in gran parte di proprietà di un piccolo gruppo di holdings, che utilizzavano i proventi delle vendite di energia per investire in modi più rischiosi.

Quando quegli investimenti iniziarono a vacillare, le holdings implosero, e 53 imprese elettriche andarono in bancarotta; questo collasso rese più grave la Grande Depressione. Il consolidamento del settore consentì anche alle compagnie di manipolare il mercato e scaricare prezzi più alti sui consumatori.

Dopo un’indagine e una serie di audizioni, il Congresso approvò le norme del Public Utility Holding Company Act nel 1935, imponendo controlli senza precedenti sulle holdings energetiche. Ma ora, dicono i portavoce dell’impresa energetica, quella legge è superata, e così onerosa da scoraggiare gli investitori dal mettere risorse nell’elettricità.

”Si tratta di un settore capital-intensive. L’abolizione del PUHCA servirà a incoraggiare potenzialmente i capitali a tornare a scorrere verso il merecato dell’energia” afferma Pete Sheffield, portavoce della Duke Energy, impresa che aveva tra i suoi dipendenti Andrew Lundquist, direttore della task force sull’energia di Cheney, a fare lobbying per la soppressione della legge.

Le amministrazioni Clinton e Bush hanno già indebolito alcune regole, consentendo alle imprese di aggirare alcuni punti del PUHCA. Ma l’eliminazione completa della legge potebbe avere effetti catastrofici sia sui mercati finanziari che sui consumatori, osservano i critici.

”È l’unica cosa che sta tra noi e un monopolio” dice Lynn Hargis, ex avvocato della Federal Energy Regulatory Commission, che ora lavora per il gruppo di osservatori Public Citizen.

Cancellare il PUHCA dal corpo delle leggi metterà in gioco una cifra stimata in un trilione di dollari energy in titoli elettrici, continua la signora Hargis, con implicazioni enormi sia per il settore energetico in particolare che per i mercati finanziari in generale.

La deregulation, prevede, consentirà altri episodi come il caso dello scandalo Enron, dato che le compagnie potranno muovere capitali in ogni direzione, e mettere a rischio la solidità finanziaria dei fornitori di energia.

Deregulation aggiuntiva

Ma i lobbisti degli interessi energetici sono riusciti ad andare anche oltre l’allentamento delle regole finanziarie.

L’attuale progetto di legge auspica una deregulation anche delle norme che proteggono la qualità dell’aria. Una delle proposte allenterebbe i limiti sull’ozono, che produce smog. Questi passaggi, che non si trovavano in nessuno dei progetti originali usciti da camera o Senato, non solo abbasserebbero gli standards del Clean Air Act per la produzione di ozone, ma allungherebbero i tempi a disposizione dell’industria per adeguarsi. Queste modifiche, inserite in sede di comitato congiunto, andrebbero a grosso vantaggio delle raffinerie.

Sono stati inseriti nel progetto anche passaggi che esentano le imprese di prospezione per gas e petrolio da alcune regole del Clean Water Act; secondo queste modifiche, le imprese non potrebbero essere accusate di contaminare acque pubbliche. Sarebbe fornito alle compagnie del settore gas e petrolio un “ free pass” che le liberi dalle leggi sull’acqua, rendendole le uniche imprese non soggette a queste regole, come osserva Bob Filner, deputato Democratico della California.

I lobbisti energetici hanno anche convinto l’amministrazione Bush ad allentare i controlli sul mercurio, un agente tossico rilasciato nell’atmosfera dagli impianti di produzione elettrica a carbone. Le nuove regole proposte alzerebbero o limiti delle emissioni, dando anche più tempo agli impianti per adeguarsi: nell’insieme una combinazione – dicono gli ambientalisti – che non fa molto per proteggere la gente dall’inquinamento da mercurio di acque e pesci.

Il punto di vista dell’amministrazione Bush sui pericoli da mercurio è molto più tranquillo di quello dei suoi predecessori.

Quando sotto la presidenza Clinton l’EPA emanò un comunicato nel dicembre 2000 annunciando che per la prima volta sarebbero state richieste riduzioni alle emissioni di mercurio, la sostanza veniva descritta come “nociva”, che “è stata associata a danni sia neurologici che allo sviluppo degli esseri umani. Il feto in fase di crescita è il più sensibile agli effetti del mercurio, che comprendono danni alla formazione del sistema nervoso”.

Ma l’EPA della presidenza Bush ha assunto un punto di vista più rilassato, e sul suo sito web descrive il mercurio come “elemento naturale ampiamente diffuso nell’ambiente”. Anche se l’esposizione a mercurio deve essere “trattata seriamente” prosegue il sito “i problemi di salute causati dipendono da come entra nei corpi, quanto si resta esposti, quale è la risposta degli individui”.

Gli interessi energetici e i loro sostenitori al Congresso affermano che il nuovo progetto di legge emerge da questioni filosofiche, non da pressioni di lobbying; i portavoce dell’industria dicono che troppe regole mettono pastoie finanziarie alle imprese e rendono più difficile aggiornare i processi con strumenti più efficaci rispetto all’ambiente. Ma chi aveva accesso agli ambienti del Congresso è entrato molto nella formazione del pacchetto, secondo le nostre analisi dei fascicoli di lobbying, contributi elettorali, e dibattito legislativo.

A Capitol Hill, leggi complicate come l’ energy bill tendono ad essere redatte da più gruppi di lavoro, che a loro volta possono rivolgersi a persone esterne all’ambito governativo per consulenze sul linguaggio legale, ci dice un senatore Repubblicano che chiede di restare anonimo. Gli specialisti sono di solito lobbisti, dicono i rappresentanti dei consumatori, il che crea una situazione dove essi hanno un’influenza accresciuta sulla formazione delle leggi.

Gli specialisti esterni, lobbisti o meno, spesso sono dotati di valide capacità. Il prblema, dicono alcuni lobbisti e legislatori, è che il processo tende a favorire coloro che hanno già entrature alla Casa Bianca, sia perché ci hanno già avuto qualche incarico, sia perché hano raccolto denaro per la campagna elettorale Bush-Cheney.

I lobbisti dell’industria energetica dicono che non è un problema di ripagare i favori, ma solo una situazione in cui gli ambientalisti si stanno scontrando con una maggioranza democraticamente eletta che non ha particolarmente a cuore i loro interessi. Gli ambientalisti – proseguono i lobbisti – dovrebbero essere più flessibili e riconoscere di aver a che fare con un’amministrazione che desidera aumentare la produzione energetica.

”Penso che i gruppi ecologisti si siano emarginati da soli, al punto di non avere l’effetto che potrebbero invece ottenere, concentrandosi solo sugli attacchi a Bush” afferma Maisano. “Non sono interessati al tipo di politiche, sono solo contrari alla persona”.

I lobbisti ad orientamento ambientalista, da parte loro, dicono di scontrarsi con porte chiuse quando cercano di pare pressioni su Capitol Hill. Se riescono a incontrare qualche legislatore favorevole al loro punto di vista, va a finire che questa prospettiva è schiacciata dalla maggioranza Repubblicana che vuole solo vedere più ricerche e produzione nel campo del petrolio, gas, energia nucleare.

”Sul versante della Casa Bianca, la situazione è decisamente Orwelliana” ci dice Marchant Wentworth, lobbista della Union of Concerned Scientists. “I rappresentanti Repubblicani mi hanno detto in faccia che semplicemente non si confronteranno col presidente su nessun punto. Non ho mai visto niente del genere”.

Nota: qui il link alla versione originale dell'articolo di Susan Milligan, sul sito del Boston Globe. Qui il file PDF scaricabile della mia traduzione (fb).
closed for business

MILANO. All’OM facevano i camion. All’Innocenti le Mini. Alla Falck l’acciaio. A Pero raffinavano la benzina. Era la Milano della grande industria. La Milano che non esiste più. E che ha lasciato alle sue spalle aree gigantesche, distese sterminate di capannoni, di altoforni, di catene di montaggio inghiottiti dalla ruggine e dal degrado. Su queste aree si gioca ora una i partita che ha sul tavolo una posta di centinaia di milioni di euro. Una partita dove le regole non sono chiare. Anzi, dove l’unica regola sembra essere la mancanza di regole.



Basta con i lacci e i lacciuoli dell’urbanistica programmata, utopia degli anni Sessanta e i Settanta. Libertà di affari, libertà di mattone. A rivendicarle sono, con toni simili, due protagonisti di questa strana stagione della rinascita milanese. Uno è Paolo Caputo, architetto, professore, divenuto improvvisamente il più richiesto progettista di Milano: «Una città che ha perso vent’anni: dieci per colpa di Mani pulite, dieci per colpa di un piano regolatore sbagliato». E, di sponda Giuseppe Pasini, costruttore, che ha in mano i destini della vecchia Falck di Sesto San Giovanni: «I piani regolatori sono uno strumento del passato. Troppo lento per stare dietro alla realtà. Ora che arriva un piano regolatore, i bisogni sono già cambiati». A Giorgio Oldrini, sindaco di Sesto, che cerca di impedire in qualche modo che sulla vecchia fabbrica sbarchi il cemento di un gigantesco quartiere dormitorio, Pasini manda a dire senza tanti giri di parole: «Se uno vuole il verde, può andare a cercarlo in campagna». La storia della Falck è esemplare, per capire il caos che regna nel settore. La vecchia acciaieria occupava più di un milione di metri quadrati, Pasini la comprò sicuro di convincere Banca Intesa a trasferire qui i suoi uffici, un insediamento terziario che avrebbe portato con sé soldi, verde, qualità del tessuto urbano. Ma Banca Intesa ci ha ripensato. E adesso l’intera operazione non si capisce più dove andrà a finire, Pasini è oberato dai debiti, ha cestinato il progetto dell’architetto Mario Botta e pretende di costruire 750 mila metri cubi di case dove il vecchio piano ne prevedeva la metà. Libertà di affare, libertà di mattone: questo è l’unico slogan che risuona nelle vecchie aree industriali di Milano. Se si va a curiosare, area per area, si scopre uno schema quasi sempre uguale. La vecchia fabbrica viene comprata da questo o quell’imprenditore, famoso od oscuro. L’imprenditore dà l’incarico per la progettazione a un big dell’architettura: i Foster, i Fuksas, i Pei. Poi, però, a gestire i progetti arrivano, associati ai big, professionisti meno blasonati. Un esempio per tutti: quello della “Città della Moda”, il colosso che sorgerà dopo decenni di abbandono sul vecchio terrapieno delle ferrovie Varesine. A firmare il progetto, per conto del colosso americano Hines, è il grande Cesar Pelli. Ma a lavo rare con Pelli si dice che arriverà Alessandro Foresti, collega di Gianni Verga, assessore all’Urbanistica del Comune di Milano. Lo stesso accade alla OM, dove al posto dei capannoni nasce un nuovo quartiere firmato da Fuksas. Accanto spuntano i nuovi dormitori dell’Università Bocconi: li firma il giovane Saverio Valsasnini, che insieme al suo collega Marco Cerri è l’architetto “di riferimento” del vero soggetto forte di questa stagione del mattone: la Compagnia delle Opere, l’associazione imprenditoriale che è diretta emanazione di Comunione e liberazione. È la Compagnia che con i suoi uomini controlla alcuni passaggi chiave di questa stagione. Primo tra tutti, quello che ruota intorno alla Fiera.



Intorno alla Fiera si giocano due partite decisive. Una è la realizzazione del nuovo polo , espositivo sull’area della vecchia raffineria di Pero. Il secondo, parallelo, è la riconversione ad edilizia residenziale della vecchia, preziosa area storica della Fiera. In vista di questa partita, Cl ha occupato con due suoi uomini l’ufficio chiave dell’Ente Fiera, l’ufficio tecnico. Il progetto della nuova fiera è già andato a Fuksas, progettista assai amato dalla Compagnia. Ad assegnare l’incarico per il recupero della vecchia fiera sarà invece una commissione che coincide con il consiglio d’amministrazione della società Sistema Sviluppo Fiera. Anche qui, qualcuno si era preoccupato di piazzare l’uomo giusto al posto giusto: Maurizio Filotto, ex brigadiere dei Carabinieri, personaggio enigmatico legato tanto a o quanto all’universo dei servizi segreti, nominato ai vertici del la Fiera su designazione non si sa bene di chi. Peccato che Filotto sia finito in galera per corruzione una manciata di setti mane fa. E molti, a Milano, dicono che la sua uscita di scena potrebbe riaprire i giochi. Al punto di mettere in discussione l’esito della gara che veniva considerato fino all’altro ieri scontato: la vittoria del progetto della cordata Risanamento Chestfield-Astaldi, firmato da Norman Foster.



Chi oggi, in un giorno qualunque, percorresse le tangenziali che circondano Milano vedrebbe a occhio nudo le gru, le impalcature, gli scheletri di cemento armato che sono il segno concreto del nuovo che avanza. Dietro, ci sono cervelli vecchi e nuovi. A Rogoredo, nella piccola città disegnata da Paolo Caputo insieme con Norman Foster che sorgerà sulle vecchie aree della Montedison, pochi sapranno che dietro c’è il genio finanziario di Giuseppe Garofano, detto “il Cardinale”, già protagonista dell’epopea dei Ferruzzi e di Raul Gardini, diventato il regista degli affari di Luigi Zunino, piccolo costruttore piemontese divenuto uno dei nuovi ras del mattone meneghino. E ancora meno, tra i nuovi inquilini dell’area Innocenti, sapranno che a progettare le loro case era stato Andrea Balzani, grande vecchio dell’Urbanistica socia lista negli anni Ottanta, l’epoca della “Milano da bere”.

«I grandi architetti, vengono catapultati qui quasi per caso», raccontava Balzani a Repubblica poco prima di morire, «Il dramma vero è che dietro a tutto quello che sta nascendo non c’è un progetto complessivo. E il dramma nel dramma è che questa è un’occasione irrimediabilmente persa».

Da Nord a Sud il recupero è d’oro

È grande 90 milioni di metri quadrati la fetta d’Italia in cerca di un nuovo futuro. A tanto ammontano le aree industriali dismesse, intorno alle quali si muovono interessi poderosi e partite senza esclusione di colpi. A Torino, per esempio, è stato abbastanza semplice recuperare un’area tutto sommato ridotta come il Lingotto. Ma sul futuro dell’area ben più vasta della Fiat Avio, quando tra due anni saranno smantellate le installazioni delle Olimpiadi Invernali del 2006, lo scontro è aperto. Scontro già aperto anche a Genova, sul domani dell’acciaieria di Cornigliano: posizione strategica, di fronte al mare. Appartiene al demanio, ma Emilio Riva, l’imprenditore che ha rilevato I’ltalsider dallo Stato, punta a impadronirsene a titolo definitivo. Qui il business riguarda la logistica portuale. Alcune operazioni di recupero sono già avviate sulla buona strada. Come quella dello stabilimento Montedison di Mori, in Trentino, capolavoro di archeologia industriale. O della “Darsena di città” di Ravenna. Ma ci sono grandi aree sul cui futuro il buio è ancora fitto: come quella del Porto Vecchio di Trieste, 600 mila metri quadrati che hanno visto bocciare un progetto dopo l’altro. E aree su cui aleggia persino un po’ di mistero: è il caso dell’insediamento della Marina Militare a Taranto, trasferitasi da Mare Piccolo a Mare Grande. I pacifisti dicono che starebbero per arrivare 500 milioni di dollari per portare sull’area una base militare americana, che ingloberebbe anche la stazione di ascolto Echelon, oggi a San Vito dei Normanni.

Il governo, per ora, ha smentito.

"Governare la città, rilanciare la modernità", questo il tema di un seminario promosso a Roma dalla Facoltà di Architettura-Valle Giulia e dal Comune e che ha visto la partecipazione di alcuni fra i maggiori urbanisti italiani ed europei. Da noi questa disciplina è entrata in crisi con il venir meno dell´afflato innovatore del primo centrosinistra, quando il "Progetto ´80" (elaborato dall´équipe della Programmazione, diretta da Giorgio Ruffolo con Antonio Giolitti come ministro e Giuliano Amato tra i principali collaboratori), che disegnava gli sviluppi programmatici dell´Italia prossima ventura, venne riposto e bollato come un libro dei sogni, lasciando campo libero a una deregulation selvaggia e irrazionale del territorio, cui si è contrapposta non la razionalità riformista ma il fondamentalismo agitatorio di stampo massimalista, tutto incentrato sulla conservazione immobilistica dell´esistente. L´urbanistica italiana, ripiegata, tranne qualche eccezione, a studiare le realizzazioni che da Barcellona a Siviglia, da Parigi all´asse Rotterdam-Amsterdam dimostravano che in Europa essa restava vitale, ha cercato con il seminario di Roma di riproporsi alle istituzioni come asse portante di una politica riformistica delle città.

Anche se molto schematicamente val la pena elencare alcuni temi che ho potuto cogliere.

1) La contrapposizione non è più quella degli anni ´50 e ´60 tra chi difendeva gli interessi della rendita fondiaria e chi, invece (legge Sullo) voleva piani urbanistici obbligatori, resi possibili dal diritto pubblico di esproprio generalizzato.

2) Oggi lo spartiacque passa in primo luogo all´interno della sinistra, tra riformisti, propugnatori di una "città possibile", frutto di una "perequazione" tra interesse pubblico e interessi privati, e i fondamentalisti della conservazione a oltranza, abbarbicati, laddove accettano si costruisca qualcosa, all´esercizio dell´esproprio. In questo braccio di ferro paralizzante si è inserito Berlusconi con la nuova legge sulle grandi opere, in bilico tra progetti indispensabili da riavviare e sprechi mostruosi quanto inutili e dannosi come il ponte sullo Stretto.

3) La legge sulla elezione diretta dei sindaci ha, peraltro, ridato spazio e tempo a una progettazione urbanistica che, dove la cultura riformista ha prevalso, può vantare risultati straordinari. Il caso più esemplare è Genova, una città ieri depressa dalla crisi delle aziende Iri e del porto e che, dalle Colombiadi del ´92 al Vertice del G8 nel 2001, al Festival della Scienza e alla proclamazione di capitale europea della cultura per il 2004, è riuscita a cambiare radicalmente volto, a «riconquistare il mare» con le opere di Renzo Piano, la trasformazione dei magazzini del cotone, la costruzione dell´Acquario, dei musei della Navigazione e dell´Antartide, a riqualificare una buona parte del suo splendido centro storico, a proiettarsi verso il futuro con il progetto Leonardo e annesso Tecnology Village e l´annunciato Istituto italiano di Tecnologia. La passione di un bravissimo sindaco, Giuseppe Pericu, e del suo assessore all´urbanistica, il prof. Bruno Gabrielli che sulla base di un «piano strategico» hanno saputo infondere la loro «visione» alla cittadinanza, ha reso possibile il miracolo.

L´altro grande esempio, richiamato nel dibattito, è Roma. Nella Capitale sia la giunta Rutelli che quella Veltroni hanno operato un riuscito rilancio dell´immagine culturale della città (musei, mostre, recuperi e restauri ecc.). Ma il punto forse più qualificante è stato il varo del nuovo piano regolatore che si articola, da un lato, sull´idea delle «nuove centralità» nelle periferie e su una rete di trasporti che prevede 4 linee di metro e 3 di ferrovie urbane, dall´altro, su un compromesso «perequativo» con i privati che in cambio dei permessi di edificabilità, secondo progetti urbani definiti, in talune zone, cedono gratuitamente al comune grandi spazi verdi dove, a loro spese, vengono creati nuovi parchi o altre infrastrutture di interesse generale. Su questa base, in cambio di una zona edificabile oltre l´Eur, sono in fieri due grandi parchi sulla Cassia e al Nomentano. I fondamentalisti del «tutto o niente» che, assieme ai riformisti, fanno parte della maggioranza, hanno però imposto ultimamente l´accantonamento della «perequazione», sostenendo che si deve procedere per esproprio, senza nulla concedere. Non spiegano, però, dove si possono reperire i 4000 miliardi di vecchie lire occorrenti per gli eventuali espropri. È evidente, quindi, che il nucleo del piano regolatore si gioca sul ripristino di questa premessa. La rosa riformista ha molte spine.

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