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Il coinvolgimento del vertice Unipol nella speculazione finanziaria del 2005 sta provocando un salutare ragionamento sul mantenimento di un profilo etico da parte della sinistra nei suoi rapporti con il mondo economico e dell’impresa. Speriamo che in tempi brevi anche l’atteggiamento culturale sui problemi delle nostre città sia analogamente sottoposto ad un severo giudizio critico al fine di ritrovare un profilo pubblico nelle trasformazioni delle città non condizionato dalla rendita fondiaria e ricostruire così una cultura riformatrice nuova.

Sono due le motivazioni che impongono questa revisione critica. La prima è di carattere strutturale, poiché la grande saga dell’estate finita in questi giorni sotto il vaglio della magistratura vede protagonisti e alleati spregiudicati finanzieri e operatori del mercato edilizio. Una volta sarebbero stati chiamati speculatori; oggi si chiamano immobiliaristi. Non deve essere un caso che in quest’ultimo periodo si siano crete enormi plusvalenze economiche nel comparto edilizio. Il sistema Italia è come noto caratterizzato da gravi segni di perdita di competitività dei comparti produttivi mentre si riduce la quota di mercato delle aziende incapaci per dimensione e caratteristiche a collocarsi nel segmento dell’innovazione tecnologica.

In questo quadro sconfortante, il comparto del mattone non solo resiste, ma ha fatto incamerare ricchezze così gigantesche da consentire ad alcuni di questi speculatori di ambire a delineare una nuova classe dirigente del paese. E, ricordiamo, è stato solo per un caso che non è riuscita nella scalata al cielo. Chiediamoci dunque quali siano i motivi che hanno consentito alla speculazione edilizia di guadagnare somme vertiginose.

Il primo gruppo di cause risiede nei sistematici provvedimenti legislativi varati dal governo Berlusconi cu cui Carta si è più volte occupata. Riprendiamone solo i titoli, rinviando ai precedenti articoli per gli approfondimenti. Con il provvedimento a favore del rientro dei capitali illegalmente esportati sono stati fatti rientrare oltre 70.000 milioni di euro, un quinto del prodotto interno lordo del sistema italia! Il successivo provvedimento di vendita del patrimonio immobiliare pubblico ha creato una linea di investimento privilegiato a quegli ingenti capitali. Il condono edilizio ha ulteriormente dirottato verso il comparto edilizio le attenzioni degli investitori. Il taglio della finanza locale ha infine irreversibilmente spinto le attenzioni delle amministrazioni locali verso la valorizzazione immobiliare. E’ infatti noto che la legge sulla cartolarizzazione degli immobili pubblici prevedeva espressamente che una parte delle plusvalenze realizzate nel comparto urbano tornassero nelle esangui casse dei comuni.

Ma è il secondo gruppo di cause a preoccupare ulteriormente e a rendere indispensabile l’apertura di una fase di riflessione critica. Insieme al disegno d’insieme delineato dal governo Berlusconi, a livello locale –e la maggior parte dei comuni sono governati dalla sinistra- nel campo del governo del territorio è andata avanti la sostanziale cancellazione dell’urbanistica lasciando spazio al trionfo della iniziativa privata. A parte alcune regioni più rigorose, sono sempre meno i comuni che disegnano il futuro urbano attraverso lo strumento del piano regolatore. La maggior parte ha dato il via ad una vertiginosa fase di contrattazione urbanistica che si basa su una millantata e inesistente impresa privata.

Di quali ingredienti fosse costituita questa impresa ce lo dicono i verbali della Guardia di Finanza che ha indagato sui rapporti tra “l’immobiliarista” Ricucci e il presidente della potentissima Confcommercio Sergio Billè.

La Guardia di Finanza scopre che l’edificio di via Lima a Roma viene valutato il 29 dicembre 2004 12,4 milioni di euro, quando passa dall’Immobiliare Il Corso di proprietà di Fiorani alla Magiste Real Estate di Ricucci. Il valore è basso per la zona, una dei quartieri più signorili della capitale, e viene motivato con il fatto che l’edificio è abitato da inquilini e per averne piena disponibilità bisogna liberarlo. Niente paura, la liberalizzazione selvaggia del mercato dell’affitto ha spianato la strada alla proprietà immobiliare e tempo qualche mese e l’intraprendente e ben introdotto Ricucci riesce a liberare l’immobile. Gli inquilini vengono allontanati il 26 gennaio 2005. Appena due mesi dopo la Magiste R.E vende l’intero edificio alla Magiste Real Estate Property per un valore di 35 milioni. A suggello della spericolata conduzione sempre nel 2005 la Confcommercio firma un contratto di acquisto dell’immobile per un importo (comprensivo del costo di ristrutturazione) di 60 milioni di euro.

Con l’urbanistica fai-da-te la proprietà immobiliare decide la migliore destinazione d’uso a prescindere dai piani regolatori; può cacciare di casa famiglie di residenti in pochi mesi. E in questo modo i trafficanti di immobili possono dunque realizzare in pochi mesi plusvalenze pari a 50 milioni di euro. Plusvalenze di importo simile a quelle guadagnate con la speculazione finanziaria e –come essa- non producono un posto di lavoro aggiuntivo. Durante i cinque anni del governo delle destre l’Italia si è affermata come il paradiso della speculazione. Tocca al fronte progressista dimostrare che c’è un altro futuro.

E’ diffusa l’impressione che il ridimensionamento del progetto del parco del Gennargentu, come previsto dalla legge 394/1991, corrisponda alla rinuncia a farlo davvero (nonostante le assicurazioni che qualcosa di diverso e di meglio è in programma). E’ andata così, dopo decenni di dibattito, guarda caso in una delle migliori stagioni della politica per quanto riguarda la difesa del territorio dell’isola.

C’è chi ha fatto festa. E c’è chi ritiene che le popolazioni di quei luoghi splendidi che sbagliando, contro l’ interesse dei propri figli, hanno rifiutato di aderire a quel progetto, abbiano una linea simile a quella delle comunità che chiamano i “loro” progetti in riva al mare con i nomi degli imprenditori edili, che chiedono libertà di azione per soddisfare rendite senza contropartite.

In ambedue i casi si tratta di posizioni di retroguardia –punti di vista introversi – sia che attribuiscano un valore di scambio alle risorse, sia che si richiamino ai valori d’uso millenari per impedire una scelta da cui verrebbero, come in altri casi, benefici importanti. Le iniziative che puntano a cominciare da capo immaginando una soluzione extra legge 394, hanno rinunciato ad estrarre dall’avversione per il parco una spiegazione, che sarebbe utile– lì e altrove – per fare qualche passo almeno per combattere pregiudizi e mistificazioni. Per ricominciare è indispensabile chiarire cosa c’è prima del punto: non si faranno passi se le ragioni di chi si oppone al progetto resteranno nella nebulosa delle cose mezzo dette, declinando la tiritera del parco “calato dall’alto”, (frutto di una volontà del parlamento e di un’intesa Stato- Regione in almeno tre passaggi istituzionali).

Il dissenso è sembrato spesso una messinscena ideologica. Un riconoscimento privilegiato è stato fatto passare per un castigo, con la parola d’ordine delle autonomie locali sopraffatte e l’evocazione ricorrente e caricaturale dell’uomo-pastore scacciato dai suoi territori, dei diritti espropriati, delle pratiche tradizionali impedite,ecc.

Non è così. C’è nella letteratura sui parchi europei ( e nell’esperienza solida in tanti luoghi) e in tutte le disposizioni di legge, compresa quella italiana, un orientamento che mira a esaltare le attività che si svolgono nei territori protetti, specie quelle pastorali che invece si estinguono lentamente da quelle parti. Sono solo impedite le aberrazioni, gli eccessi che pure negli usi atavici si ravvisano – tanto più con la sensibilità di oggi verso la natura in pericolo – e che una cinquantina di anni fa sembravano ammissibili a fronte di risorse ambientali giudicate inesauribili. Qualcosa nel frattempo è successo: la più evoluta nozione di bene ambientale induce a smettere di considerare comunque buone le attività che nelle campagne si svolgono da secoli, perché non contaminate dalla modernità (che non sempre è un male) o dalla scienza (che aiuta di sicuro), con l’argomento che la vita e le pratiche agropastorali non ammettono troppi cambiamenti perché “così si fa da sempre”. E, d’altra parte, l’isola dove “passavamo sulla terra leggeri”, come nel racconto di Sergio Atzeni, qualche grave manomissione l’ha subita nei secoli, nonostante la bassa densità insediativa. Basta guardare gli incendi che non sono stati e non sono cicliche naturali calamità.

La caccia. Ormai regolamentata dappertutto era ancora negli anni Cinquanta sostanzialmente libera in Sardegna. La sua progressiva limitazione tiene conto di un’accresciuta differente sensibilità e pure delle nette diffuse contrarietà che suscita.

Ma diversamente da quanto si è detto per affossare il parco nemico, neppure nelle aree protette la caccia è del tutto impedita. Sono ammessi prelievi di selvaggina (sotto la sorveglianza dell'Ente, precisa l’art. 11 della legge) che gli strumenti di gestione possono disciplinare a vantaggio dei residenti. Ecco perché la rivolta contro il parco, guidata con clamore da compagnie di cacciatori – soggetti non trascurabili ma parzialmente rappresentativi della società – appare inspiegata.

E a fronte di un dissenso confuso non si è mai saputo nulla del consenso: perché qualcuno che avrà intravisto i benefici del parco ci sarà da quelle parti, magari impossibilitato, diciamo così, a fare sentire la sua voce. Niente ha contato – a proposito di cooperazione nei processi decisionali – l’opinione dei sardi che non stanno sotto il Supramonte. Si è deciso, in pochi, che quel parco non si può fare. Ma non si è chiarito perché ciò che non si può tra Barbagia e Ogliastra è stato fatto senza traumi, anzi con successo, in realtà con caratteri socio-economici simili del sud del Paese, dove gli usi del territorio sono molto radicati.

E’ vero, bisognava spiegare meglio. Ma il confronto nel merito, che avrebbe fatto capire bene le cose, non c’è stato.

Perché solo con la nomina degli organi di gestione si può pervenire alla redazione degli strumenti per il governo del parco ( piano e regolamento) che non si possono, per legge, approvare senza o contro la comunità. Ma a questo punto non si è arrivati – lasciando crescere l’insofferenza per i vincoli provvisori – proprio per la contrarietà alla composizione del consiglio direttivo che non si può fare tutto in casa. Perché la presenza di istranzos nell’organo di gestione è il necessario contrappeso di punti di vista esterni, soprattutto di uomini di scienza, che serve a garantire che le finalità di tutela, finanziate con denaro pubblico, siano rispettate. Non basta autocertificare che tutto va bene se si vogliono attrarre investimenti e visitatori da ogni parte del mondo.

Perché l’idea di parco sottintende una convinta relazione tra locale e globale, tra antichi saperi e nuove economie, tra la difesa della propria identità e le indispensabili proiezioni transnazionali. Questo vale tanto più per una comunità che non può permettersi di restare immobile confondendo l’orgoglio di appartenere a quelle montagne con le piccolissime convenienze di parte a tenere tutto fermo.

E’ il confronto, l’apertura senza pregiudizi, che può determinare il cortocircuito in grado di aprire un nuovo processo: altri sguardi aiutano a vedere, a vedersi meglio ( penso, ad esempio, al beneficio venuto alla Sardegna da esploratori- scienziati come La Marmora che illustrò caratteri di luoghi e costumi dell’isola nel continente sollecitando i sardi a guardare con più attenzione la propria terra).

Si va, sembra di capire, verso un parco più domestico, governato senza intromissioni, e più piccolo ( con chi ci sta) e, immagino,con pochi vincoli. Un proposito che sembra ridursi all’aspetto nominalistico. L’adozione di un marchio- reclame ( che funziona solo a corollario di un progetto più ampio) faticherà per affermarsi, se si guarda al tempo lungo impiegato per promuovere denominazioni di origine illustri (come il Chianti) che alludono all’intreccio di paesaggi e produzioni agricole. E il tempo conta molto. Nessuno impedisce di andare in questa direzione. Ma si tratta proprio un’altra cosa, di una rinuncia che alla resa dei conti apparirà evidente, una piccolissima cosa contro il declino di questi luoghi di cui occorre parlare senza reticenze.

Titolo originale: Plan: All New Orleans could be rebuilt – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Mentre gli uffici compongono un piano per la rinascita di New Orleans, una commissione nominata dal sindaco Ray Nagin doveva esporre entro mercoledì le raccomandazioni per dare agli abitanti il potere di decidere quale forma avranno i loro quartieri.

La “ Bring New Orleans Back Commission” spera così di formare un quadro più chiaro di quali aree saranno ricostruite entro la fine dell’anno.

Le raccomandazioni, che potrebbero essere inerite nel piano generale di ricostruzione, probabilmente susciteranno fuoco e fiamme da parte degli urbanisti, che affermano come molte parti della città non siano sicure da inondazioni future.

La realizzazione di argini in grado di sostenere una tempesta di Classe 3, insieme alla creazione di una Reconstruction Corporation finanziata dal governo per rilevare immobili e terreni, sono elementi essenziali per i piani della Commissione, a parere dei membri del comitato urbanistico.

Doug Meffert, co-presidente del subcomitato per la sostenibilità, dice che sarà anche essenziale acquisire le case dai proprietari a ragionevoli prezzi di mercato. Il subcomitato raccomanderà che la costituenda agenzia acquisisca le proprietà a prezzo pieno, togliendo solo la quota coperta dalle assicurazioni.

”Se non siamo in grado di acquisire gli immobili, sarà difficile ridisegnare la città” osserva Meffert.

Aggiunge che se il futuro della città devastata dovesse essere lasciato alle forze di mercato, New Orleans finirebbe in una “riedificazione a chiazze, con gli abitanti furiosi”.

I membri della commissione sono stati invitati a pensare in grande immaginando scenari, con poco riguardo per il cartellino del prezzo. A quello si penserà poi, quando New Orleans e le altre parti della Costa del Golfo si lanceranno sui 29 miliardi di dollari di aiuti federali per la ripresa e la ricostruzione.

Alcune idee audaci fra quelle esaminate prevedono il ripristino di un jazz district sparito da tempo, la costruzione di una rete di piste ciclabili e ferrovie locali per pendolari, l’organizzazione di un sistema scolastico d’avanguardia.

Ci sono anche raccomandazioni per incentivi fiscali ad attirare nuove attività, e mantenere quelle che già ci sono.

Un’altra idea è quella di usare i crediti fiscali per ricreare Storyville, il quartiere a luci rosse gestito dalla municipalità restato attivo per vent’anni, e chiuso nel 1971. Più tardi, fu raso al suolo.

L’idea non è quella di far rivivere il mercato del sesso, ma di recuperare l’eredità musicale di quel distretto. Molti pionieri del – fra loro Jelly Roll Morton, King Oliver e Manuel Perez – suonavano nei bordelli di quel quartiere.

Si aspetta che la commissione proponga un rilancio del sistema di scuole pubbliche della città, malato di bassi livelli didattici, strutture cadenti, alto turnover e corruzione.

Le raccomandazioni sono per dare alle scuole maggiore autonomia, ridurre la burocrazia, creare più scuole pilota e offrire ai genitori più alternative per dove mandare i figli, ha detto il commissario Scott Cowen.

Le preoccupazioni dei quartieri

Ma la raccomandazione secondo cui tutte le zone della città – anche la Lower Ninth Ward, quella più duramente colpita e a stragrande maggioranza nera – dovrebbero aver la possibilità di ricostruire, probabilmente sarà la più controversa.

Lo Urban Land Institute ha causato tensioni lo scorso anno pubblicando un rapporto che consigliava caldamente alla città di concentrare le proprie risorse per la ricostruzione sulle zone non colpite dall’alluvione. L’istituto avvertiva che se New Orleans avesse tentato di ricostruire ogni cosa, la città sarebbe stata condannata a una ripresa lenta e discontinua.

Questa raccomandazione ha provocato indignazione fra molti abitanti di New Orleans, tra cui l’ex sindaco Marc Morial, ora presidente della National Urban League.

Ha affermato che i gruppi per i diritti civili si sarebbero opposti a qualunque piano di ricostruzione che cancellasse quartieri dove le famiglie hanno vissuto per generazioni. Si esprimeva anche la preoccupazione che alcune delle aree colpite fossero trasformate in zone umide o spazi aperti.

I sette comitati che compongono la commissione pubblicheranno ciascuno un rapporto, e tutti verranno consegnati al sindaco Nagin entro il 20 gennaio. Il sindaco può accettare o respingere qualunque raccomandazione, con decisioni che possono durare settimane.

La forma finale del piano sarà determinata in gran parte dalle decisioni del Congresso e del Presidente Bush, che tengono i cordoni della borsa.

Nota: sul controverso ( e preoccupante) tema del "diritto" di ricostruire ovunque a New Orleans dopo la conferenza stampa della Commissione municipale, si veda tra l'altro anche l'articolo da USA Today proposto dal sito dell'American Planning Association (f.b.)

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Titolo originale: At 150 Edgars Lane, Changing the Idea of Home – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

HASTINGS-ON-HUDSON, New York – La graziosa casa in stile Tudor al 150 di Edgars Lane, costruita con meno di 10.000 dollari nel 1925 sul fianco della collina in questa cittadina sul fiume Hudson, non sembra essere cambiata molto attraverso tutti i suoi proprietari. Ciascuna famiglia la rinnovava, ma in modo modesto, finché non sono arrivati Tom e Julie Hirschfeld.

Gli Hirschfeld hanno acquistato la casa di due piani coi suoi tetti ad abbaini, l’esterno intonacato e le travi di legno a vista, per 890.000 dollari nell’autunno del 2002. Buone scuole, strade sicure, una cittadina pittoresca, vicini con mentalità simile, spostamenti pendolari relativamente brevi verso New York: tutto questo ha attirato la famiglia, così come aveva fatto coi proprietari precedenti.

Ma coi prezzi delle abitazioni tanto lievitati in questi anni, case come questa sono diventate non solo bei posti per abitarci, ma anche validi investimenti. In risposta a questo nuovo valore intrinseco, gli Hirschfeld, come centinaia di migliaia di altre famiglie che vivono nei sobborghi di città come New York, Chicago o San Francisco, hanno trasformato la propria abitazione in qualcosa di più importante e personale.

Ri costruire la storia della casa al 150 di Edgars attraverso i decenni mostra come gli Hirschfeld abbiano rotto col passato: e come sia cambiata l’idea di cosa significhi una casa. Qui hanno abitato otto diverse famiglie, per almeno un anno. La maggior parte aveva un reddito medio per la propria epoca: un direttore di scuola superiore, un tipografo, un ingegnere civile, uno psichiatra, un ambientalista, un piccolo imprenditore.

A differenza dei precedenti proprietari, gli Hirschfeld hanno profuso molte migliaia di dollari nei rifacimenti, rendendo la propria casa più comoda e ben attrezzata di quanto i predecessori ritenessero necessario. E certo molto più degli altri possono permetterselo.

Come coordinatore operativo di una finanziaria di investimenti, il signor Hirschfeld ha guadagni in abbondanza da spendere nei rifacimenti senza far debiti. La coppia non ha risparmiato. Migliorare la casa ai livelli voluti è diventato tanto importante per loro che fra prezzo d’acquisto e investimenti per migliorie, dice Hirschfeld, la somma totale supera l’attuale valore di mercato stimato a 1,2 milioni.

Juliet B. Schor, sociologa al Boston College e autrice di The Overspent American, classifica l’esplosione delle spese in investimenti sul miglioramento della casa come “consumo competitivo che riguarda la fascia del 20% superiore nella distribuzione del reddito”.

Ma molti proprietari, e gli Hirschfeld fra loro, insistono sul fatto che a parte lo status sociale e le comodità, quello che un tempo era principalmente un alloggio in un sobborgo adatto ora assume un’importanza personale maggiore, in un’epoca in cui le famiglie si concentrano sempre più su se stesse.

”La comunità è ancora molto importante” sostiene William M. Rohe, direttore del Center for Urban and Regional Studies all’Università del North Carolina di Chapel Hill. “Ma i proprietari di abitazioni aggi prestano maggiore attenzione alla casa in quanto espressione di sé stessi, nido di vita familiare”.

Per gli Hirschfeld, una nuova e spaziosa ala per la cucina che sporge nel giardino rappresenta il loro senso di come la casa debba migliorare la vita. Completata un anno fa, quella cucina è diventata luogo di incontro non solo per cucinare e per i pasti, ma per fare i compiti, giocare, disegnare, leggere e chiacchierare coi bambini, Ben di 12 anni, e Leila di 8.

”Non abbiamo costruito questa cucina per farne un trofeo o per raggiungere qualche livello di lusso” racconta Hirschfeld, sottolineando che l’arredo, compresi frigorifero e stufa, sono modelli comuni ad appoggio, e non stravaganti oggetti tecnologici. “L’abbiamo fatto per rendere la vita familiare più calda e fluida”.

Ma il giardino non era tanto adatto alla nuova ala della cucina. Così si è dovuto tirar su un muro in pietra di contenimento per ritagliare una superficie piatta dal pendio: aggiungendo migliaia di dollari non previsti ai costi di rinnovamento.

Gli Hirschfeld hanno speso di più anche per rimediare al deterioramento della loro casa vecchia di 80 anni, una delle decine di migliaia costruite durante il primo boom residenziale suburbano, prima della Depressione.

”L’abbiamo comperata davvero perché sia la nostra casa di famiglia” racconta la signora Hirschfeld, “e abbiamo fatto un errore di valutazione non sapendo quanto sarebbe costato rimediare al deterioramento”. Comunque il seminterrato, aggiunge, che “è stato umido per 40 anni, ora non lo è più”.

Prima degli Hirschfeld, ciascuno dei proprietari precedenti aveva fatto via via qualche miglioramento, diluendo i rinnovi lungo gli anni di residenza anziché concentrarli all’inizio. La maggior parte di questi proprietari precedenti aveva convissuto con i difetti della casa, come la cucina troppo stretta, ora convertita a vestibolo della nuova cucina.

Arrivano gli acquirenti facoltosi

Gli Hirschfeld, entrambi all’inizio dei 40 anni, non hanno particolari problemi di reddito, una caratteristica sempre più comune fra le famiglie che si impegnano nei miglioramenti dell’abitazione. Quelli con almeno 120.000 dollari di reddito annuale contano per il 32% fra chi ha speso in rinnovi di casa nel 2003, ultimo anno per cui sono disponibili dati. È più del 21% rilevato nel 1995, al netto dell’inflazione, secondo il Joint Center for Housing Studies di Harvard. La spesa ha raggiunto i 233 miliardi sempre nel 2003, con un aumento del 52% dal 1995.

Per decenni, una casa nei sobborghi era il sogno familiare dei ceti medi, “una specie di ancora nei mari tempestosi della vita urbana” per dirla con Kenneth T. Jackson, storico della Columbia University, nel suo libro del 1985 Crabgrass Frontier.

Era vero per i proprietari del 150 di Edgars Lane. Ma con l’aumento dei prezzi delle abitazioni, il grosso giardino accanto alla casa assunse valore di potenziale lotto edificabile. Non era più l’amato spazio fiorito a terrazze, curato da tanti ex abitanti e descritto con ammirazione dal giornale locale.

Solo l’opposizione dei vicini fermò la proprietaria del 2001, una signora che aveva avuto la casa a seguito di un divorzio, dall’ottenere una variante al piano regolatore che consentisse di scorporare il vecchio giardino fiorito e vendere separatamente i due lotti, a una somma superiore agli 819.000 che ricavò alla fine.

Con quel passaggio di proprietà, la casa esce dalla portata degli acquirenti a reddito medio. L’acquirente, Matthew Stover, era un operatore di Wall Street, e la rivendette presto a Hirschfel, anche lui di Wall Street.

E pure, gli Stover e gli Hirschfeld, come quasi tutti i proprietari prima di loro, vengono qui a Hastings da appartamenti a New York City, scegliendo la cittadina almeno in parte perché offre una miscela sociale più varia di quella di altri suburbi, oltre a vicini che sono spesso artisti, scrittori, accademici.

L’aura intellettuale è particolarmente presente a Edgars Lane. Margaret Sanger, una delle prime esponenti del movimento per il controllo delle nascite, ha abitato dall’altra parte della strada rispetto al 150, e Lewis Hine, famoso fotografo del realismo industriale, era proprietario della casa due porte più in là. Se ne sono andati da tempo, ma gli Hirschfeld, specializzati a Oxford dopo aver frequentato il college negli Stati Uniti, sono fieri di questa eredità.

”Volevamo davvero abitare a Hastings” racconta Hirschfeld.

Diversificazione suburbana

Le case che hanno fatto di questo posto un suburbio cominciano nelle colline boscose sopra la Broadway. Al di sotto di questa strada di divisione, c’erano operai, molti immigrati italiani e polacchi, in case a schiera e ad appartamenti, vicino agli impianti chimici e alla fonderia di rame dove lavoravano, finché l’ultima fabbrica chiuse nel 1975.

I figli di quei lavoratori andavano a scuola insieme ai bambini delle colline, e “c’è ancora la sensazione che esista una differenza: più una sensazione che una realtà”, racconta David W. McCullough, uno storico locale.

Come comunità, Hastings tenta di resistere alle trappole della ricchezza che si sta diffondendo in tanti suburbi. Il centro è ancora una serie di vecchi negozi e ristoranti, che riflette “un certo orgoglio che abbiamo qui per lo squallore”, per dirla con McCullough.

Pochissimi dei negozi e ristoranti di livello superiore, evidenti altrove, sono arrivati sin qui. Ma quasi certamente faranno aumentare i prezzi delle case, il che limita i potenziali nuovi arrivati a famiglie come gli Hirschfeld, spingendo via gradatamente quelle a reddito inferiore.

Gli Hirschfeld, aggiungendo altro valore alla propria casa, hanno installato l’aria condizionata, ampliato il bagno principale e più che raddoppiato le dimensioni della camera di Leila, realizzando un secondo piano sopra l’ala della cucina. Hanno rifatto il seminterrato, spendendo molto più di quanto previsto per liberarsi di fango e umidità, e tirato giù il muro fra soggiorno e sala da pranzo, a creare quello che Hirschfeld descrive come “uno spazio fluttuante, in modo che si possa conversare dalla cucina con qualcuno che sta due stanze più in là, in soggiorno”. Poi arriveranno le nuove finestre.

”Non si può vivere oggi, in quest’epoca, con finestre che fanno spifferi” dice la signora Hirschfeld. “O si fa lavorare la caldaia al massimo per tutto l’inverno, o si devono avere finestre a doppi vetri”.

Le finestre con gli spifferi non avevano preoccupato Ralph Breiling, che progettò e costruì questa casa nel 1925 sul terreno che aveva acquistato tre anni prima spendendo meno di 10.000 dollari in tutto, ovvero circa 111.000 se facciamo il conto con l’inflazione. Breiling era architetto, ma durante la grave recessione dopo la prima guerra mondiale si adattò all’insegnamento, diventando più tardi vice preside e poi preside della Brooklyn Technical High School.

Un gruppo di insegnanti aveva comperato dei terreni a Hastings, e Breiling si era unito a loro, acquistando uno dei lotti.

”Amava la valle dell’Hudson, e quando le foglie cadevano dagli alberi si aveva una veduta del fiume e delle Palisades” ricorda Robert, uno dei figli. Per anni “si fece un’ora e mezza di viaggio per andare al lavoro”.

Quando la famiglia Breiling si trasferì a Edgars Lane, la parte esterna era terminata – aveva più o meno l’aspetto di oggi – ma le pareti all’interno erano in gran parte non rifinite a intonaco. Da quel momento in poi, fin quando vendette la casa nel 1950, Breiling continuò a rinnovare, con le proprie mani.

Amore per la Valle dell’Hudson

Costruì il garage per una macchina che c’è ancora, e la stanza al di sopra, che è diventata quella da gioco dei bambini. Chiuse una veranda, incorporandola nel soggiorno. Quando nacque il terzo figlio, Clover, ampliò la piccola stanza per cucire facendone una quarta stanza da letto, costruendo verso l’esterno davanti alla porta d’ingresso.

”Diluiva i lavori nel tempo, non poteva permettersi di farli tutti in una volta” dice Robert Breiling, 83 anni, ingegnere ora in pensione. “La Depressione colpì duro. Le scuole di New York City dimezzarono le paghe. Dicevano che avrebbero recuperato dopo la guerra, ma non l’hanno fatto. Mia madre aprì un asilo nella sala da pranzo. C’era un piccolo gruppo di tavolini sedioline; era un’aula scolastica. Credo che le piacesse farlo. Ma ripensandoci, fu per bisogno”.

L’eredità duratura dei Breiling fu il giardino sul lato della casa, curato dalla moglie di Breiling, Leila. In un articolo del 1933 sui “ bei giardini di Hastings" il settimanale Hastings News diceva di casa Breiling: “Dal muro di contenimento lungo la strada con la sua densa siepe di recinzione, fino al terrazzo dei bambini che si appoggia al muro della fattoria nel punto più alto del giardino, si passa, livello dopo livello, attraverso prati erbosi, cespugli fioriti, lunghe aiuole di che brillano di centinaia di boccioli”.

Da quel giardino veniva l’agrifoglio che Duncan Wilson intrecciava a ghirlande e vendeva a Natale. I suoi genitori, Byron e Jane Wilson, comprarono il 150 di Edgars Lane nel 1951 per 25.000 dollari, equivalenti a poco meno di 190.000 dollari attuali, trasferendosi da una casa più piccola nella vicina Dobbs Ferry quando il terzo figlio era ancora piccolo.

”Mia madre decise che la famiglia aveva bisogno di più spazio” ricorda Duncan Wilson, che ora ha 69 anni.

Gli Wilson profusero energie nella manutenzione dell’elaborato giardino, ma fecero poco per la casa vera e propria. Erano danzatori, e così sistemarono il seminterrato, con finiture alle pareti e piastrelle sul pavimento, dice Duncan. Come i Breiling, vendettero la casa dopo che il figlio più giovane aveva terminato le superiori, nel 1963.

I quattro proprietari successivi o si trasferirono rapidamente, trovando lavoro in altre città, o si fermarono solo per far crescere i bambini. Questo rapido turnover aiuta a spiegare perché la famiglia americana possieda una casa per cinque-sei anni, un tipo di gestione che dure per decenni.

Jerome e Carolyn Zinn restano 8 anni, dopo aver comprato la casa nel 1964 da uno spichiatra che ci aveva abitato solo diciotto mesi. Gli Zinn la pagano 40.000 dollari – circa 250.000 adeguati all’inflazione – trasferendosi da un appartamento in città con due gemelli di otto settimane.

”Sapevo che si facevano crescere i bambini in una casa singola” dice la signora Zinn. “Non conoscevo niente e nessuno di Hastings. Cominciammo a cercare a Yonkers, capitammo ad Hastings e ci piacquero alberi e colline”.

Il signor Zinn aveva iniziato da poco come imprenditore di linotype, e la moglie insegnava a scuola, risparmiando a sufficienza sul suo salario per il versamento iniziale di 11.000 dollari. Ne rimanevano 29.000 ancora dovuti sul mutuo contratto dallo psichiatra rilevato dagli Zinn: pratica comune a quell’epoca. Prima di venire a Hastings, Zinn era passato da dipendente e proprietario di un piccolo laboratorio tipografico. Andava bene, e nel 1982 gli Zinn si costruirono una casa più grande a Irvington, una cittadina nelle vicinanze.

”Continuavo a pensare di fare questo e quello alla casa” dice la signora Zinn, “e poi mi sono detta se ci sono così tante cose che voglio fare dovremmo comprarne, o costruirne, un’altra”.

Nel 1974, gli Zinn vendono il 150 di Edgars Lane a 67.500 dollari – al netto dell’inflazione, non molto più di quanto l’avevano pagata – a Gerald Franz, specialista di questioni ambientali che all’epoca lavora nella New York City Planning Commission, e alla moglie, Susan, insegnate di matematica in una scuola. Sono sposati da cinque anni, sperano di avere dei bambini – ne adotteranno due più tardi – e l’acquisto della casa per loro è uno sforzo.

”Mi aspettavo di restare sposata e vivere lì per sempre” ricorda la signora Franz.

Quello che un tempo era un giardino

Gli Zinn concedono ai Franz di posticipare il pagamento del giardino, e aspettano quasi dieci anni prima che venga acquistata questa parte della proprietà a 17.000 dollari. Per allora, con nessuna delle due famiglie ad occuparsi del giardino, questo si era inselvatichito, e comunque Zinn ci stava pensando come a un lotto edificabile di valore. “Avevo sempre sperato sotto sotto di chiedere una variante al piano regolatore” dice.

Il divorzio interrompe questi progetti. La signora Franz, che si è risposata da poco e che ora si chiama Susan Franz Ledley, ottiene la casa nella causa del 1996. All’epoca, è valutata 500.000 dollari. Come insegnante, può a malapena permettersi la manutenzione e nel 2001, quando la figlia minore sta terminando le scuole superiori, la vende per 819.000 – ovvero circa 900.000 al valore odierno – al signor Stover, analista finanziario del Citigroup, e alla moglie Jeanine.

Gli Stover sono sulla trentina e pensano ad una famiglia, come avevano fatto i Franz quasi trent’anni prima. Ma a differenza di questi ultimi, e di tutti gli altri proprietari precedenti, iniziano a progettare degli interventi, e chiamano un architetto.

”Stavamo appena cominciando a prendere slancio, quando sono stato chiamato a Boston” racconta Stover. Aveva trovato un lavoro migliore in quella città.

Ora che i prezzi delle case stanno calando, i vantaggi monetari della proprietà di Edgars Lane 150 sono poco chiari. Ma per gli Hirschfeld il piacere di compiacersi vale di più. Julie Hirschfeld indica i nuovi lavandini dei bagno, per esempio, che sembrano catinelle del XIX secolo, o le piastrelle laterali del bagno principale “ridicolmente costose”.

”Una volta cominciato” dice, “dato che dovevamo fare tante cose, ci è sembrato di dover fare scelte sull’aspetto esteriore”.

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NEW YORK - Il nuovo Iraq nasce con 15 mani alzate nel consiglio di sicurezza dell'Onu a New York, tornato ad assumere rilevanza dopo oltre un anno in cui la crisi irachena era stata gestita quasi sempre lontano dal Palazzo di vetro. Con un voto unanime, i membri del consiglio hanno approvato la risoluzione 1546, messa a punto da Usa e Gran Bretagna, nella quale e' disegnato il futuro iracheno dal 30 giugno 2004 al gennaio 2006.

Il traguardo ha permesso al presidente americano George W. Bush di aprire il vertice del G8 a Sea Island, in Georgia, con in tasca un successo maturato soprattutto nel corso dei colloqui dei giorni scorsi a margine delle celebrazioni per il D-Day, avvenuti in un clima di rappacificazione atlantica. La risoluzione ''e' un momento importante'' che puo' costituire ''un catalizzatore per il cambiamento'' per l'intero Medio Oriente, ha detto Bush accogliendo gli ospiti del G8, senza mancare di sottolineare come ci fosse chi diceva ''che non ce l'avremmo mai fatta''.

L'accordo sulla quinta bozza messa a punto da Washington e Londra, e' stato raggiunto grazie a un compromesso raggiunto in tempo per il G8. La versione finale viene incontro alle residue riserve di Francia e Germania sul peso che il nuovo governo iracheno avra' in futuro nella gestione delle principali operazioni militari da parte della forza multinazionale (MNF) di 160 mila uomini, che restera' sotto il comando americano. Un paragrafo di nove righe ha permesso l'evoluzione verso una risoluzione che prevede un ampia cooperazione tra il governo iracheno e il comando della MNF, senza offrire un potere esplicito di veto a Baghdad sulle questioni militari. La risoluzione approvata alle 16:47 ora di New York (le 22:47 in Italia) nella sala del Consiglio di sicurezza non chiarisce cosa accadra' nel caso, per esempio, di un'offensiva militare americana contro Falluja o Najaf sulla quale il nuovo esecutivo iracheno sia in disaccordo.

Tra lunedi' sera e martedi', uno dopo l'altro da Parigi, Berlino, Mosca e Pechino sono arrivati i via libera al voto, pur senza nascondere le riserve. La Francia, ha detto il ministro degli Esteri Michel Barnier, non e' pienamente soddisfatta, ma ha deciso per il voto a favore ''per trovare in modo costruttivo una via d'uscita politica da questa tragedia''. L'ambasciatore tedesco all'Onu, Gunter Pleuger, ha riconosciuto che Usa e Gran Bretagna hanno avuto stavolta ''grande flessibilita' e accolto molte delle proposte che provenivano dall'approccio creativo e costruttivo di Francia e Germania''. Anche l'Algeria, unico membro arabo in consiglio, ha offerto il proprio appoggio, anche se avrebbe voluto un piu' chiaro potere di veto iracheno sul piano militare. L'Italia, con il ministro degli Esteri Franco Frattini, ha espresso ''viva soddisfazione'' per il traguardo. ''Il popolo iracheno - ha detto Frattini - puo' festeggiare per questo momento. La risoluzione recepisce in pieno i principi che l'Italia ha considerato essenziali per contribuire alla nuova fase della stabilizzazione dell'Iraq: effettivo trasferimento di poteri agli iracheni, ruolo centrale dell'Onu nella transizione politica, trasparenza nel rapporto tra Governo iracheno e forza multinazionale'' L'accordo segna una svolta all'Onu dopo un periodo difficile - cominciato alla fine del 2002 e culminato nella guerra - che il segretario generale Kofi Annan ha definito ''tra i momenti di maggior divisione all'interno del consiglio di sicurezza dalla fine della Guerra Fredda''. Al governo ad interim dell'Iraq viene riconosciuta la ''piena sovranita''' fin da quando il 30 giugno assumera' i poteri dagli americani. Da quel giorno, in teoria, il nuovo esecutivo in base alla risoluzione potrebbe anche chiedere alle forze straniere di andarsene. Ma non lo fara', ha spiegato a New York il ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari, perche' le conseguenze in questa fase ''sarebbero catastrofiche''. C'e' il rischio, ha detto, di creare un vuoto ''che noi iracheni non siamo pronti a riempire: ci sarebbe la possibilita' che torni un Saddam junior''. La forza multinazionale, secondo la risoluzione, se ne andra' invece alla fine del processo politico che prendera' il via ora sotto l'egida dell'Onu e prevede l'elezione entro il 31 gennaio 2005 di un'Assemblea nazionale di transizione, che formera' un governo a sua volta di transizione e redigera' la Costituzione. Entro il 31 dicembre 2005 il primo governo eletto su base costituzionale prendera' il potere e dal primo gennaio 2006 la MNF non sara' piu' legittimata a restare, se nel frattempo non avra' gia' ricevuto la richiesta di andarsene dal governo di Baghdad. Usa e Gran Bretagna hanno cominciato alla fine di maggio a presentare bozze di risoluzione, ma la vera svolta e' arrivata nel fine settimana, con due lettere del primo ministro iracheno Iyad Allawi e del segretario di Stato americano Colin Powell, nelle quale sono indicati i termini della cooperazione militare tra l'Iraq e il comando della MNF. Lo strumento-chiave e' un nuovo organismo che nascera' a Baghdad, il Comitato ministeriale per la sicurezza nazionale, dove lavoreranno insime i vertici del governo iracheno, delle forze armate dell'Iraq, dell' intelligence di Baghdad e della MNF. Trasferire questo meccanismo dalle lettere di Allawi e Powell al testo della risoluzione, e' stata la 'magia' diplomatica che nella notte tra lunedi' e martedi' ha permesso l'accordo.

PENSACOLA, Florida - Robert e Schonn Passmore, lo scorso autunno, hanno portato i loro figli a Disney World e ne sono rimasti molto delusi. Da cristiani che rifiutano la teoria dell'evoluzione, i Passmore hanno disdegnato una delle attrazioni del parco, i dinosauri, che comprendono esemplari di brontosauri, branchiosauri e altre creature dell’era preistorica.

”I miei ragazzi hanno trovato molte imprecisioni nella presentazione”, dice la signora Passmore, di Jackson, in Alabama. “Tutta quella storia che milioni-di-anni-fa-i-dinosaùri-dominavano-la-terra. ..”.

Cosi, in aprile, i Passmore hanno scovato un posto meno conosciuto, in Florida: il Dinosaur Adventure Land, un parco e un museo a tema, ispirati al creazionismo, in cui si invitano i ragazzi “a scoprire la verità sui dinosauri”, con giochi che associano scienza e religione, trasmettendo il messaggio che è la Genesi, non la scienza, a raccontare la vera storia della creazione.

Kent Hovind, il religioso che nel 2001 ha aperto il parco, dice di voler diffondere il messaggio del creazionismo attraverso un classico della tradizione americana - i parchi a tema - anziché difenderlo nel corso di conferenze accademiche o nelle aule dei tribunali. L’obiettivo è di confutare tutti i centri scientifici e i musei di storia naturale che spiegano l’ evoluzione della vita attraverso la teoria di Darwin. Ci sono modelli di ossa di dinosauro accompagnati dalla spiegazione che Dio ha creato i dinosauri il sesto giorno della Creazione, come descritto nella Genesi, seimila anni fa.

Dinosauri creazionisti a Dinosaur Adventure Land

”Ci sono molti creazionisti veramente in gamba che sanno confutare bene gli intellettuali, ma i ragazzi si annoiano dopo 5 minuti”, dice Hovind. “Se si segue solo la strada del dibattito intellettuale, si perde il 98 per cento della popolazione”. Al Dinosaur Adventure Land non ci sono giostre meccanizzate, ma un discovery center, un museo e giochi all’aperto, ognuno dei quali ha, affisse accanto, una “lezione di scienze” e una “lezione spirituale”.

Eugenie Scott, direttrice responsabile del National Center for Science Education, afferma che i creazionisti tradizionali hanno ormai smesso da anni di cercare di costruirsi una qualche credibilità intellettuale: “Non mi sorprende che sponsorizzino gruppi di vacanze, parchi a tema e cose del genere”.

Kent Hovind dice di aver dato 700 conferenze all’anno e che il suo parco è stato visitato da 38.000 persone, che hanno pagato un biglietto di 7 dollari ciascuno. I Passmore sono venuti dall’Alabama con un gruppo formato da 8 minibus carichi di famiglie.

"Siamo stati nei musei e nei discovery center in cui devi stare lì seduto a sorbirti tutte quelle storie sulla teoria dell’evoluzione", dice il signor Passmore, “È stato bello poter ascoltare finalmente qualcosa che rafforza la tua fede”.

Solo per veri appassionati: il sito dei creazionisti italiani

Presentando le «aliquote della libertà» Silvio Berlusconi è raggiante. Dopo l’ultimo (ultimo?) vertice di maggioranza, il centrodestra avrebbe trovato la quadra sulle quattro aliquote Ire (ex Irpef), la mancia sull’Irap (500 milioni), le relative coperture e le relative poltrone di governo, che hanno avuto un ruolo importante in tutta la partita. Il premier annuncia una «svolta storica» un «fatto epocale» per il Paese: una diminuzione della presenza dello Stato che assicura all’individuo «più libertà economica, che equivale alla libertà politica e religiosa». Amen. Venerdì la proposta dovrebbe essere varata dal consiglio dei ministri, dove si profilano nuovi malumori da parte della Lega (sull’Irap) e forse di An sui pubblici. In contemporanea si dovrebbe varare la manovra-ter di fine anno.

I numeri più che a una liberazione somigliano a una condanna. Prima novità: in tre anni i dipendenti pubblici (escluso il settore scuola e sicurezza) saranno ridotti di 75mila unità «grazie» al blocco del turn-over. «Ogni cinque pensionati si assumerà un solo lavoratore», dichiara Berlusconi, entusiasta di tagliare posti di lavoro. «Il back office (cioè le spese di funzionamento, ndr) dello Stato è troppo pesante», spiega ancora il premier. Bella prospettiva di libertà. Seconda novità, scritta sulla bozza di emendamento ma taciuta in conferenza stampa: la scuola subirà una riduzione di organico del 2% (14mila unità) nei prossimi due anni scolastici. Tradotto: meno insegnanti, meno bidelli, meno personale per i servizi pubblici. Eppure il premier, spalleggiato dal fido Domenico Siniscalco, assicura: «Non si toccano i servizi pubblici». Della serie: quando la realtà supera la fantasia. Spetta a Siniscalco elencare le «macro-cifre». La manovra «costa» 6,5 miliardi di euro nel 2005, ma sono state reperite coperture (sulla carta) solo per 4,3 miliardi, cioè solo per la parte di cassa. La somma sale a 7,07 nel 2006 e a 6,89 nel 2007. Sembra un po’ poco se si vogliono recuperare i due miliardi mancanti dell’anno prossimo. Inoltre non si vede traccia dell’altro modulo di riforma annunciato da Berlusconi, che ha ssicurato mezzo punto di Pil di qui al 2008 (a elettori piacendo).

Chi pagherà tutto questo? A parte l’alto prezzo sociale delle strutture pubbliche, il resto si inscrive nel mondo delle buone speranze. Quasi la metà delle risorse per il 2005 (4,3 miliardi) arriva dalla proroga del condono edilizio (2 miliardi) e un’altra buona fetta (400 milioni) dall’autocopertura, voce «lafferiana» che convince solo il premier e Bush. «Io non avrei “bollinato” la manovra (il bollino è l’imprimatur della Ragioneria, ndr) - dichiara Vincenzo Visco - Non solo per l’autocopertura, ma anche per i tagli indicati, che sembrano tutti falsi». Invece la Ragioneria non ha avuto esitazioni a dare l’ok, assicurano Berlusconi e Siniscalco. Nessuna resistenza? «Nessuno ha usato violenza ad alcuno», interviene il titolare dell’Economia riferendosi a quei tecnici messi sotto accusa dalla Lega. La voce meno credibile è il taglio dei consumi intermedi, valutato in 600 milioni, mentre altri 400 milioni provengono dalla riduzione degli stanziamenti nelle tabelle della Finanziaria. Che tradotto vuol dire finanziamenti a leggi di spesa, come per esempio le erogazioni per la cassa integrazione (altroché non si toccano i servizi). L’unica cosa certa sono le maggiori tasse su bolli e concessioni per 550 milioni. Una vera beffa. Il blocco del turn over dei pubblici dipendenti non dovrebbe finanziare gli sgravi fiscali nel 2005, ma sarà «dirottato» sugli aumenti contrattuali. «Non si darà meno del 3,7%, ma non si arriverà al 5,1», ha spiegato Siniscalco. Secondo fonti di maggioranza, il governo sarebbe orientato verso il 4,8% in più.

Una spallata alle strutture pubbliche per ridisegnare le aliquote Ire: il 23% fino a 26mila euro, il 33% da 26.00 a 33.500, il 39% oltre quella soglia, un contributo di solidarietà del 4% (dunque un’aliquota al 43%) per i redditi oltre i 100mila euro. La «maggiorazione» per i ricchi è destinata a finanziare le deduzioni (non più detrazioni) per la famiglia.Saranno pari a 3.200 euro per il coniuge a carico e di 2.900 per ciascun figlio a carico. Saliranno a 3.450 euro per i figli con meno di 3 anni e a 3.700 euro per figli con handicap. Il loro valore calerà con l'aumentare del reddito fino ad azzerarsi a 78.000 euro. Di fatto per una famiglia con 2 figli a carico ci sarà un' esenzione dall' Irpef fino a 14.000 euro. Gli effetti medi della manovra saranno pari a un risparmio attorno ai 570 euro per chi guadagna 25.000 euro aunnui, per salire sui 860 euro per i redditi attorno ai 35.000 euro. Si prevede anche una deduzione specifica di 1.820 euro, decrescente al crescere del reddito, delle spese per la badante per i soggetti non autosufficienti.

Penalizzate su tutti i fronti escono le imprese, a cui è destinato un mini-sconto di 500 milioni sull’Irap. Tre gli interventi: la totale detassazione della spesa per i ricercatori; interventi per i neo assunti; il raddoppio degli sconti per i neo assunti al Sud

Le dimissioni di Lucia Annunziata segnano un punto di non ritorno. E’ vero che la Rai ha avuto molte crisi, molte dimissioni, e molti cambiamenti, anche in rapida successione, in passato. Che cosa c’è adesso di diverso? C’è l’idea che aveva avuto il Presidente della Camera, Pierferdinando Casini, di sperimentare un accordo fra gentiluomini.

Consisteva in questo. Alla Rai c’è una maggioranza che occupa tutti gli spazi. Ma può esistere una occupazione capace di autolimitarsi, confrontandosi di volta in volta, di problema in problema, con un presidente di garanzia, la cui presenza vuol dire l’impegno ad ascoltare voci che la maggioranza non rappresenta. Il Consiglio di amministrazione invece si è comportato in modo incomprensibile, se si pensa alla reputazione e visibilità di due dei suoi componenti (Alberoni e Rumi).

Ha scelto di dare sempre e solo via libera al braccio armato della occupazione politica, un tal Cattaneo che, avendo diretto senza gloria, in una carriera non favolosa, soltanto un Ente Fiera, ha creduto di usare maniere dure, tipo “calci in culo” (è una citazione) per mettere in riga la radio e la televisione di Stato al solo scopo di sottometterla commercialmente all’azienda concorrente Mediaset e politicamente al padrone di quella stessa azienda Silvio Berlusconi.

Resterà la memoria di un Consiglio di amministrazione che assiste tranquillamente a liti e aggressioni volgari e anche violente, iniziate e portate a termine dal loro direttore generale contro Lucia Annunziata, la presidente di garanzia di quello stesso Consiglio di amministrazione, senza avere neppure un moto di cortesia formale. Ma tutto ciò è finito per sempre.

Il Consiglio di amministrazione che ha costretto l’Annunziata a dimettersi non ha più valore e deve andarsene subito. È quanto sostiene - a noi sembra con fondamento logico e legale - il presidente della Commissione di Vigilanza Petruccioli.

Non ci sono gentiluomini - e neppure persone legate a vaghe forme di buone maniere - nella Rai occupata. C’è solo occupazione e volontà di più occupazione. Quando Lucia Annunziata ha visto l’elenco un po’ ridicolo e fantasioso (ma anche dotato di chiare intenzioni persecutorie) dell’ultima lista di “nuove nomine” si è resa conto che il “mobbing” contro di lei stava diventando un vero e proprio attacco a lei e alla azienda, condotto in modo brutale e persino deliberatamente teatrale. Conseguenze? Le dimissioni.

Non erano evitabili perché sono l’ultima garanzia che Lucia Annunziata poteva tentare di offrire e anche l’ultimo avvertimento per quel che resta delle istituzioni italiane, il Presidente della Camera e il Presidente della Repubblica. Ma c’è un avvertimento anche per tutto il centro-sinistra, per lo schieramento di coloro che si presentano alle trasmissioni televisive, dette di approfondimento giornalistico. È un appello all’intera opposizione. Una situazione di emergenza così grave - la completa espropriazione della Rai - deve essere resa ben visibile all’opinione pubblica italiana, attraverso la mancanza di ogni rappresentante del centro-sinistra e della sinistra in ogni trasmissione. Quella assenza sarà un messaggio poderoso. Sarà la più chiara testimonianza di ciò che sta accadendo, senza alcuna finzione di una normalità che non esiste.

Coloro che fossero incerti sulla necessità di una simile iniziativa (astenersi da ogni partecipazione in video almeno fino a che il Consiglio di amministrazione, ormai illegale, non si sarà dimesso) potranno trovare una evidenza drammatica dello stato di emergenza nelle dichiarazioni di personaggi come l’On. La Russa, l’On. Cè, l’On. Bondi. Essi salutano con insulti, maleducazione e sarcasmo, grida di “finalmente” le dimissioni di Lucia Annunziata, usando apertamente il gergo e le minacce dei regimi.

Noi crediamo di rappresentare l’opinione di tutti coloro che si oppongono in questo momento a Berlusconi non solo nell’arco del centro-sinistra e della sinistra, ma anche di molti che in passato hanno votato a destra, dicendo insieme: nessuno partecipi al gioco della televisione occupata fino a quando un minimo di legalità - attraverso nuove nomine - sarà stato restituito alla televisione di Stato.

La tenuta di San Rossore, quattromilaottocento ettari di pregiato bosco dentro il parco che da Viareggio si stende fino a Livorno, è il cuore di una disputa che schiera da una parte gli ambientalisti, dall´altra l´amministrazione comunale di Pisa. Due progetti tengono sulle spine le associazioni di tutela. Il primo riguarda un porto che dovrebbe ospitare cinquecento barche, con negozi, ristoranti e alberghi, più appartamenti per centocinquantamila metri cubi: sorgerebbe sulla foce dell´Arno, lungo i bordi del parco, in un lembo delicatissimo, soggetto a un´erosione che ha consumato centinaia di metri di arenile. Il secondo progetto riguarda invece l´ippodromo che da centocinquant´anni è in funzione nella tenuta. Ha strutture inadeguate, sostiene la società che lo gestisce, e ha bisogno di ampliamenti. E pazienza per gli alberi che verranno sacrificati e per gli ettari di terreno compromessi.

Per entrambe le vicende si sono mobilitate Legambiente, Wwf, Lipu e Lav. Sul porto il conflitto dura da alcuni anni. È stato costituito un coordinamento che ha raccolto un centinaio di firme (dal botanico Carlo Blasi al filosofo Remo Bodei, dagli storici dell´arte Lina Bolzoni, Antonio Pinelli e Giacinto Nudi agli storici Ernesto Galli della Loggia, Adriano Prosperi e Paolo Pezzino, dal soprintendente Antonio Paolucci agli urbanisti Pier Luigi Cervellati, Enrico Falqui, Francesco Indovina ed Edoardo Salzano). Ma il sindaco di Pisa, il diessino Paolo Fontanelli, non ha tentennamenti: «Nel mio programma elettorale il porto era un punto cruciale e la maggioranza dei pisani l´ha sostenuto».

La tenuta di san Rossore fino al 1995 era di proprietà della Presidenza della Repubblica, come fino all´Unità lo era stata dei Savoia e prima ancora dei Lorena (ora è della Regione ed è gestito da un Ente Parco). È un territorio paesaggisticamente compatto, celebrato da scrittori e poeti (da Montaigne a D´Annunzio), luogo di colture e di allevamenti biologici. Tutto il parco - che prende i nomi di san Rossore, Migliarino e Massaciuccoli - è dominato da enormi pini marittimi e pini domestici e solcato da cordoni paludosi, le lame, e poi da stagni, fossati e canali che si spingono fino alle dune e agli arenili. È percorso da daini, volpi, aironi cinerini e rossi e da duecento specie di uccelli.

Ma veniamo ai progetti. Il porto sostituirebbe il rudere di uno stabilimento industriale di proprietà della Fiat fino ad alcuni anni fa e poi passato di mano (attualmente è dell´immobiliarista Danilo Coppola). Le case si innalzerebbero alle spalle e intorno alle banchine - sono palazzi e villette - in un terreno che appartiene alla stessa società, dove resistono alcuni edifici bassi, ormai abbandonati. Il viale Gabriele D´Annunzio, che da Pisa porta a Marina di Pisa, verrebbe tagliato e passerebbe alle spalle dell´insediamento.

L´intervento è compatibile con il parco che lo lambisce? È possibile trovare soluzioni alternative? «No», è la risposta secca del sindaco di Pisa. «Il Comune non ha i soldi per espropriare l´area e dunque deve trovare un´intesa con i privati su una soluzione urbanisticamente accettabile, concordata con il Parco. D´altronde lo stabilimento diroccato è grande trecentocinquantamila ettari ed è in condizioni di degrado e di costante pericolo. Non possiamo restare con le mani in mano. E poi siamo convinti che lì un porto serva, se ne parla da decenni, riqualificherà l´area e attirerà più turismo». Il presidente del parco, Giancarlo Lunardi, è in carica da pochi mesi. Il suo predecessore, Stefano Maestrelli, aveva caldeggiato con fervore sia il porto che le case. Attirandosi l´ostilità delle associazioni di tutela e di buona parte della cultura pisana. Lo stabilimento diroccato inquieta anche gli ambientalisti, che sottolineano sia comunque obbligo della proprietà bonificare l´aera impregnata di scarichi nocivi. È il passaggio successivo che li trova contrari. «Il Comune fa dipendere l´opera di risanamento, che è urgente, da un intervento di carattere speculativo, il porto e le case, che produce profitti solo per i privati», sostengono gli esponenti del coordinamento.

La questione è una delle più delicate fra quelle che affollano la scena urbanistica. Non solo pisana, ovviamente. Cosa fare dei grandi stabilimenti dismessi, come recuperarli, come restituire loro una dignità architettonica e farne parte integrante di una città? Soldi i Comuni non ne hanno per acquisirli, e ne avranno sempre meno, si sente dire. Talvolta interviene la mano pubblica, le università per esempio, che acquista e ristruttura. Ma spesso le trasformazioni sono solo quelle più remunerative per la proprietà. E quindi: centri commerciali, residenze, alberghi, parcheggi. Con ingombranti carichi urbanistici.

A Boccadarno, sostengono Fausto Guccinelli e Tiziano Raffaelli, due esponenti del coordinamento, il paesaggio verrebbe sfigurato. Il colpo d´occhio della foce radicalmente alterato. Estensore, una decina d´anni fa, del piano territoriale del parco è stato Pier Luigi Cervellati, che aveva previsto una stazione marittima e non un porto. «Sono due cose molto diverse», spiega l´urbanista. «La stazione marittima deve servire il parco e ospitare solo barche con motori a tre cavalli per visitare il suo complesso sistema di acque. Il porto trasforma quel territorio in una villettopoli. Il parco rappresenta un plusvalore per il porto. Ma il porto è un disvalore per il parco».

Nell´aprile scorso, intanto, è stato presentato anche un progetto alternativo, curato da due architetti fiorentini, Luisa Trunfio e Lorenzo Tognocchi, coordinati da Enrico Falqui e Giorgio Pizziolo. Prevede di ristrutturare le parti pregiate dello stabilimento e di collocarvi un cinema, attività culturali, sportive, congressuali e commerciali. Ma il progetto del porto, superati molti passaggi, va avanti. Attualmente ne discute una conferenza di servizi a livello regionale. «Abbiamo fissato prescrizioni», assicura il sindaco Fontanelli, «vigileremo sulla qualità del progetto».

L´altra iniziativa che allarma gli ambientalisti, l´ampliamento dell´ippodromo, è a un punto cruciale. La società che lo gestisce, l´Alfea, ha preparato un progetto, accompagnato da uno studio di impatto ambientale, per ricostruire gli spalti, attrezzare una struttura sotterranea, ingrandire una curva, allestire una pista di ottocento metri che si spinge dentro il bosco. Il progetto è giunto sulle scrivanie del Comitato scientifico del Parco. Che a metà novembre ha emesso un verdetto negativo: i lavori provocherebbero la distruzione di circa quattro ettari di bosco e la compromissione di altri sette; disturberebbero la vita di molte specie animali; arrecherebbero danni agli ambienti umidi e ai boschi. Sarebbero insopportabili per un ambiente designato come Sito di Importanza Comunitaria e, dall´Unesco, come Riserva della biosfera. E che soffre già troppe aggressioni per poterne tollerare una di quella portata.

Sul Comitato scientifico si è scatenata una bufera (fra i più duri il sindaco Fontanelli). Ma i vertici del parco si sono schierati al suo fianco, e stavolta hanno aderito alle proteste degli ambientalisti bocciando gran parte del progetto, di cui hanno salvato solo l´ampliamento della curva e la ristrutturazione degli spalti. La partita non è conclusa. Fontanelli giudica quella del parco una scelta equilibrata, che consente all´ippodromo di migliorare le strutture e di tutelare «almeno un migliaio di persone che lavorano intorno all´ippodromo, un´attività storica per il territorio pisano». L´Alfea prende tempo. Mentre le associazioni di tutela giudicano positivamente la decisione del parco, ma non demordono: troppi quegli ettari di bosco, da sei a otto, troppi gli alberi sacrificati per la curva di un ippodromo.

A Isola Capo Rizzuto, dove perfino molte cappelle del cimitero sono abusive e le forze dell'ordine hanno appena sequestrato ( sulla carta) 250 nuove case fuorilegge tirate su nel 2004 nella scia del condono, qualcosa è stato demolito: la capanna del Bambin Gesù del presepio vivente. Buttata giù da chi voleva dire: qui gli abbattimenti li decidiamo noi. Tanto è vero che le gare per appaltare le 800 demolizioni già decise prima vanno a vuoto da anni.

Per carità, il centro calabrese è forse un caso limite. Fatto sta che, se gli altri due condoni avevano visto diluviare 5.000 domande ( nove su dieci ammuffite nei cassetti), stavolta le richieste non arrivano a 160. Su almeno 2.000 case abusive costruite dal ' 94, più migliaia di violazioni varie. Auguri.

Dice ottimista il sottosegretario Giuseppe Vegas che la prima rata del condono « ha prodotto incassi per 962 milioni di euro » . E che di questo passo l'obiettivo dei 3,1 miliardi, che dovrebbero per metà coprire i tagli alle tasse, sarà addirittura superato.

Dicono le opposizioni che non si tratta di numeri ma di auspici, che i dati in arrivo da tutto il Paese sono sconfortanti e che la prova del fallimento sta proprio nella scelta del governo d'impugnare, dopo quelle di Emilia Romagna e Toscana, non solo le leggi di Campania, Marche, Umbria ma anche di Veneto e Lombardia che certo « rosse » non sono e che ( come la Liguria) han cercato di contenere gli effetti perversi della legge sul loro territorio. Una scelta che per il lucano Erminio Restaino, coordinatore di tutti gli assessori regionali all'ambiente, « vuol dire una cosa sola: al Tesoro cercano una scusa per fare un'altra proroga » . Si vedrà.

Il braccio di ferro sul condono, col governo che contesta ad esempio all' Emilia del diessino Errani di essersi messa di traverso fissando un tetto condonabile dieci volte più basso dei parametri massimi statali ( 300 contro 3.000 metri cubi, ma addirittura 150 nei centri storici), è in realtà solo uno degli scontri tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome che inondano la Corte Costituzionale. La quale, dopo aver dato ragione all'una o agli altri sui casinò, la vivisezione o l'assegno ai secondogeniti, si trova alle prese con centinaia e centinaia di ricorsi sui conflitti di competenza che, a metterli in fila titolo dopo titolo, occupano complessivamente 97 pagine. Cosa possa voler dire, per la buona salute della Suprema Corte, è facile immaginare.

Ciò che appare scontato è che i conflitti, via via che il processo federalista andrà avanti, sono destinati ad aumentare. E ad assumere un peso sempre più politico in grado di condizionare l'agenda dei partiti, i lavori parlamentari ( come nel caso dell'abolizione del blocco del turnover nelle assunzioni), le strategie finanziarie del governo e quelle degli enti locali. Dopo di che, al di là delle questioni di principio sulle competenze, resterà comunque il tema di cui dicevamo: se è vero, come riconosceva solo due anni fa Sandro Bondi, che il condono è un atto forse ( forse) obbligato ma « profondamente immorale, destinato a premiare i comportamenti illegali e a scoraggiare quelli virtuosi » , può lo Stato passare all'incasso senza allo stesso tempo far rispettare la legge in quel pezzo di Paese dove una casa fuorilegge ha lo 0,97% di probabilità di essere abbattuta anche dopo una sentenza esecutiva? Quanto ai soldi, scrive il Sole- 24 Ore , su dati Legambiente, che solo in Sicilia sono state costruite in dieci anni 70.047 case abusive. Dalle quali dovrebbero arrivare ai Comuni, col condono, 770 milioni di euro contro spese in oneri d'urbanizzazione per un miliardo e 681 mila euro. La metà di quanto ( se va bene) sarà incassato in tutta Italia.

Se è così, proprio un affare.

La missione militare italiana in Iraq è stata presentata così il 15 aprile 2003 dal nostro ministro degli esteri Franco Frattini.

"Quella dell'Iraq è una missione che ha scopo emergenziale e umanitario"

E infatti il governo italiano finanzia un ospedale della Croce Rossa a Bagdad e invia ben 27 carabinieri per difenderlo...

... poi già che c'è invia altri 3000 militari a Nassiriya.

Ecco le cifre: l'ospedale a Bagdad costa...

21 milioni 554 mila euro.

Il nostro contingente a Nassiriya costa...

232 milioni e 451 mila euro.

La domanda è: ma perché il nostro intervento umanitario in senso stretto è a Bagdad e invece i nostri soldati e le nostre risorse stanno a Nassiriya? Che c'è lì di così tanto umanitario?

Il 22 ottobre 2003 i parlamentari italiani della commissione difesa vanno a Nassiriya.

Elettra Deiana, deputata di Rifondazione Comunista, faceva parte della delegazione e ha ascoltato uno strano discorso.

"Abbiamo incontrato l'ambasciatore presso il governo provvisorio di Bagdad Antonio Armellini, il quale ci ha detto che vi sono degli interessi italiani in gioco in questa vicenda"

Interessi in gioco!

"Di conseguenza il calcolo è che i benefici saranno all'altezza dell'impegno militare"

Benefici in cambio dell'impegno militare!

Ora in Iraq in generale e a Nassiriya in particolare ci sono importanti giacimenti di... benefici.

Ne sa qualcosa Benito Li Vigni, un'ex dirigente dell'Eni.

"Il governo iracheno accordò all'Eni lo sfruttamento di un giacimento sul territorio di Nassiriya, nel sud del Paese, con 2,5 / 3 miliardi di barili di riserve, un giacimento quinto per importanza tra i nuovi che l'Iraq voleva avviare a produzione. Nel suo territorio c'è una grande raffineria ed un grande oleodotto"

Guarda un po', l'Eni aveva contratti petroliferi con l'Iraq che riguardavano i pozzi proprio di Nassiriya! Che coincidenza!

Ancora Li Vigni.

"I contratti che regolavano i rapporti tra la parte pubblica e quella privata delle compagnie concessionarie, seguivano una formula che nel settore era considerata la più vantaggiosa di tutte, che di solito i Paesi produttori mediorientali fanno di tutto per evitare. E' un contratto che consente di considerare come propria riserva una quota della produzione. Di fatto la riserva accertata tra 2,5 e 3 miliardi di barili poteva essere iscritta in bilancio Eni"

Contratti vantaggiosi. Un peccato rinunciarvi!

In parlamento la senatrice Tana De Zulueta, del gruppo Occhetto - Di Pietro, ha presentato un'interrogazione proprio su questa vicenda.

"Il fatto è che quando i soldati italiani sono arrivati a Nassiryia, la loro prima base militare era ubicata proprio di fronte alla raffineria che consentirebbe all'Eni di poter raffinare proprio lì il petrolio estratto.

Altra condizione che si aggiunge a un contratto che in sé era estremamente vantaggioso.

Dico "era" perché quel contratto è in forse, nel senso che l'occupazione dell'Iraq e la caduta di Saddam Hussein hanno fatto sì che le tre grandi concessioni siano congelate. Noi abbiamo chiesto al governo se la scelta di mandare i nostri militari in Iraq fosse motivata da un desiderio di tutelare quella concessione, di garantircela per il futuro"

E noi ci siamo procurati la risposta del governo all'interrogazione della parlamentare.

"La nostra presenza in Iraq è frutto di prioritarie considerazioni di carattere politico e umanitario"

Prioritarie considerazioni di carattere politico e umanitario.

"La scelta di dislocare un contingente a Nassiriya non è stata in alcun modo legata agli interessi dell'Eni"

Ah, no?

"Le bozze di accordo per lo sfruttamento dei campi petroliferi a Nassiriya tra Eni e le autorità competenti irachene non sono mai state perfezionate attraverso la firma di un testo vincolante"

E intanto il governo ammette gli accordi. Il 23 febbraio 2003, un mese prima dell'invasione, l'agenzia Ansa dà notizia dell'esistenza di un dossier circa gli affari italiani in Iraq.

"L'Italia, che e' già presente con le iniziative dell'Eni ad Halfaya e Nassiriya, può giocare anch'essa un ruolo"

Ecco cosa dice l'amministratore delegato dell'Eni, un mese dopo la caduta di Saddam.

"L'amministratore delegato dell'Eni Vittorio Mincato ricorda agli azionisti come già nel passato il gruppo aveva messo gli occhi sull'area irachena di Nassiriya"

Nassiriya!

Il nostro dubbio a questo punto è il seguente: è un caso che i nostri soldati siano finiti a Nassiriya?

Ecco il sottosegretario alla difesa Filippo Berselli.

- Non posso essere d'aiuto, né confermando, né smentendo una notizia che non so.

- Allora posso chiederle quest'altra cosa, più in generale: perché siamo andati proprio a Nassiriya?

- Beh, a Nassiriya perché a Bagdad c'erano gli americani, c'erano delle aree d'influenza ed è stata scelta Nassiriya, sarà una coincidenza. Per quanto mi riguarda è assolutamente una coincidenza.

- Ah, una coincidenza.

Nel Guinness della Barbarie, recentemente aggiornato con la decapitazione islamica e le torture cristiane in Iraq, suggerirei di inserire anche la testa mozza, lo sparo in faccia e l´esecuzione in ambulanza, nuove delizie della criminalità nostrana. Vanno ad aggiungersi agli incaprettamenti, ai genitali recisi e ficcati in bocca al morto "infame", alle nostre piccole Due Torri (Falcone e Borsellino) rase al suolo col tritolo, ai bambini strozzati e sciolti nell´acido, ai parenti di secondo e terzo grado sgozzati per faida familiare (ah, la famiglia, che pilastro della società?).

Come sbudellano e arrostiscono, come uccidono e torturano la nostra mafia, camorra, ?ndrangheta, decine di migliaia di morti (sì, decine di migliaia) nell´ultimo mezzo secolo, ce lo siamo dimenticati. La prepotenza sordida, il possesso materiale di persone e vite umane, il ricatto, la violenza ripugnante, il disporre dei corpi come roba, delle anime come merce di scambio: tutto passato in secondo piano, da qualche anno. I famosi professionisti dell´antimafia, quei rompicoglioni politicizzati, sono stati tutti più o meno congedati. Ma via, almeno qualche contabile di Stato che continui a classificare i morti, e le maniere di morire, quello dovrebbero pure assumerlo, in qualche ministero.

L’espressione massima del lusso? Avere un tetto sopra la testa. Difficile descrivere altrimenti l’emergenza casa in Italia, dove l’affitto medio di un appartamento ha ormai raggiunto la parità con lo stipendio percepito dalla maggioranza dei lavoratori dipendenti. Tra il 2002 e il 2003 i canoni di locazione sono saliti del 17%, facendo schizzare a 1.025 euro la cifra media richiesta per un’abitazione. Più o meno quanto guadagna un qualsiasi operaio o impiegato.

L’allarme viene dall’ultima indagine del Sunia, il sindacato inquilini della Cgil, che ha passato in rassegna gli andamenti del mercato immobiliare su tutto il territorio nazionale: Venezia, Milano e Roma si confermano le città più care, con affitti da 1.500 a 1.260 euro al mese, seguono Firenze e Bologna, intorno ai 1.150 euro, mentre si fermano sotto quota mille solo Torino, Genova e le città del sud, tra gli 800 e i 600 euro mensili.

Affitti d’oro o in nero

Cifre che salgono ulteriormente per metrature ampie o per appartamenti in zone centrali e che, anche per chi fosse di moderate pretese, non tengono conto di spese condominiali, riscaldamento ed elettricità che finiscono con l’assorbire la totalità di uno stipendio da lavoro dipendente. A questa situazione va poi aggiunto il dilagante fenomeno dei canoni in nero, che rappresentano ben il 50% di tutto il mercato delle locazioni: «Questo è l’unico dato che si è mantenuto costante nel tempo - ha affermato il segretario generale del Sunia, Luigi Pallotta - era il 50% prima della liberalizzazione ed è il 50% ora».

Il risultato è netto alquanto drammatico: solo le famiglie con redditi superiori ai 30mila euro all’anno possono serenamente accedere al mercato ed affittare una casa adeguata alle proprie necessità. Gli altri dovranno accontentarsi di piccole stanze sovraffollate. Per le fasce più basse, che guadagnano fino a 7.500 euro annui, il canone di un monolocale incide per l’81%, mentre bilocali o trilocali restano inaccessibili con livelli di onerosità dal 127% al 147%. Non va meglio per i redditi da 15mila euro: l’affitto di un monolocale incide per il 40%, tra il 63% e il 73% quello di bilocali e trilocali, oltre il 90% quello di tipologie maggiori.

Redditi così così…

La strada inizia a farsi più agevole solo per redditi medi intorno ai 22.500 euro annui: l’incidenza è inferiore al 30% per case piccole, varia dal 42% al 49% per quelle medie, ma balza fino al 75% per abitazioni con più di quattro stanze. Se la cavano senza preoccupazioni eccessive solo le famiglie con redditi elevati di 30mila euro annui, le uniche a potersi permettere un’abitazione ampia che non incida sul bilancio di casa oltre il 57%.

... e redditi bassi

Con un reddito medio-basso, invece, una coppia con due figli che scelga di vivere in periferia a Milano dovrà accontentarsi di un’unica camera da letto per tutti (l’onerosità di un bilocale è del 61%): perchè marito e moglie possano avere una stanza tutta per sè, ci vuole almeno un reddito medio (l’incidenza di un trilocale è del 66%). «Le persone normali - ha commentato Paola Modica, segretario confederale della Cgil - non ce la fanno a tirare a fine mese. L’affitto, i cui aumenti sono decisamente superiori all’inflazione, incide pesantemente sul reddito, che già si sta progressivamente spostando verso il basso come ha fatto notare la Banca d’Italia. Come movimento sindacale, e questa è una idea unitaria di Cgil, Cisl e Uil, riteniamo indispensabile rilanciare la politica abitativa modificando la legge sugli affitti, rilanciando l’edilizia pubblica e stanziando più risorse a sostegno del fondo sociale per gli affitti».

All’edilizia pubblica, che attualmente copre solo il 7-8% della richiesta d’affitto, dovrebbe invece essere stanziato almeno un miliardo di euro all’anno, mentre almeno 500 milioni dovrebbero essere destinati al fondo sociale per gli affitti. Secondo la Cgil è inoltre necessario modificare la legge sugli affitti prevedendo solo il canale del concordato ed abolendo la libera contrattazione.

E tu chiamali investimenti

«La casa è diventata sempre più un bene d’investimento e non d’uso - ha precisato Modica - visto che in questa fase di declino e di stagnazione l’unico settore che tira è quello immobiliare, dove si registrano rendite altissime e dove confluiscono parte delle risorse che potrebbero essere destinate ad investimenti produttivi. Tutto questo è il frutto della sciagurata politica del governo, che attraverso le cartolarizzazioni, la costituzione di Patrimonio Spa, la svendita del patrimonio pubblico ed i regali fiscali, si è dimostrato pronto a tagliare il welfare ed a consentire una crescita senza precedenti degli utili nel settore degli immobili».

«C’è poi il problema della terziarizzazione dei centri storici - ha concluso Paola Modica - in Parlamento è infatti in discussione una proposta sulla nuova legge urbanistica che toglie ai comuni la pianificazione per darla in mano ai privati. Dobbiamo recuperare il patrimonio edilizio che abbiamo adattandolo alle nuove esigenze».

Titolo originale Megachurches As Minitowns – traduzione di Fabrizio Bottini

Patty Anderson e suo marito, Gary, hanno trovato la fede dove meno se l’aspettavano: lui su una linea di tiri liberi, e lei fasciata in una tuta al corso di aerobica.

È successo nei 5.000 metri quadrati del centro di attività varie alla Southeast Christian Church, dove il sollevamento pesi e le lodi al signore vanno mano nella mano. Le offerte per le attività fisiche comprendono 16 campi da basket e un centro salute Cybex, gratis per i fedeli, dove la musica è cristiana e le regole proibiscono di imprecare, anche durante gli esercizi.

”A dire il vero io non avevo intenzione di entrare a far parte di una chiesa” ricorda Gary Anderson, professore di fisiologia alla Scuola di Medicina dell’Università di Louisville. Ma i lanci in questa megachiesa con 22.000 membri l’hanno portato verso il santuario. E dopo tre anni, dice, come un canestro da distanza “le prediche hanno fatto centro”.

La Southeast Christian è un esempio della nuova generazione di megachiese: servizio completo 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in un villaggio suburbano, che offre molti dei servizi e annessi della vita secolare, avvolti attorno a un cuore spirituale. É possibile mangiare, fare shopping, andare a scuola, in banca, in palestra, fare arrampicata su roccia e pregare, tutto senza uscire dal villaggio.

Queste chiese stanno diventando un elemento civico in modi inimmaginabili, almeno da XIII secolo delle grandi città-cattedrali in poi. Non più semplicemente luoghi di preghiera, sono diventati in parte spazi per il tempo libero, in parte shopping mall, in parte famiglia estesa e in parte piazza cittadina.

A Glendale, Arizona, la Community Church of Joy, con 12.000 membri, scuola, spazio conferenze, libreria e camera mortuaria sui quasi 100 ettari della proprietà, si è impegnata in un progetto da 100 milioni di dollari per costruire un insediamento residenziale, albergo, centro congressi, spazi per il pattinaggio e i giochi acquatici, trasformando sé stessa in quello che il pastore decano Dr. Walt Kallestad chiama “ destination center”.

Queste chiese sono anche diventate possibilità alternative di lavoro. Alla Brentwood Baptist Church di Houston, tra un mese aprirà un McDonald’s, completo di servizio drive-in e piccoli archi dorati. Parte sei suoi obiettivi è di creare posti di lavoro per giovani e anziani, offrendo contemporaneamente a una congregazione soprattutto di middle-class nera un’occasione in più per stare negli spazi della chiesa.

Rendendo possibile abitare la chiesa dal mattino alla sera, dalla culla alla tomba, queste strutture a servizio completo possono attirare fedeli da “una società più ampia che appare insicura, imprevedibile e fuori controllo, caratterizzata dalle armi nelle scuole o dal terrorismo”, come dice il Dottor Randall Ballmer, professore di Religione Americana al Barnard College.

Se alcuni studiosi e città sono preoccupati per le enormi dimensioni di queste chiese, e le responsabilità civiche che si assumono, questi centri “24 su 24/7 su 7” riflettono un più ampio desiderio culturale di radicamento, agio, famiglia estesa. In vivo contrasto con i temi che attraversano le grandi chiese tradizionali, questi centri, in gran parte evangelici, offrono sollievo dallo stress della vita familiare americana, incluso lo sprawl suburbano, con i suoi lunghi tempi pendolari, e “droghe, crimini, e latre tentazioni giovanili”, nell eparole del Dottor Joe Samuel Ratliff, pastore battista di Brentwood. È stato lui a chiamare McDonald’s, come occasione di “creare uno spazio controllato e protetto per i nostri bambini”.

Le chiese esprimono un desiderio dei fedeli, per “un universo dove tutto, dalla temperatura alla teologia, è controllato e sicuro” dice il Dottor Ballmer. “Non devono preoccuparsi di trovare scuole, reti sociali, o un posto per mangiare. È tutto preconfezionato”

Nonostante molte di queste chiese, in gran parte al Sud e nel Midwest, siano impegnate nella predicazione, i loro fedeli possono isolarsi dal resto della comunità, e chiudersi in una specie di “bozzolo cristiano” afferma il Dottor Bill J. Leonard, decano e professore di storia della chiesa alla Wake Forest University di Winston-Salem, North Carolina.

Ma, come dicono i leaders delle chiese, lo scopo non è l’isolamento ma la ricerca della pace e tranquillità per famiglie inquiete. Con le tante possibilità di ingresso, dalle palestre ai caffè per persone sole, le chiese a servizio completo rendono semplice entrare, e restarci.

L’aspetto del restarci, è quello che si è dimostrato critico per le istituzioni religiose. I frequentatori adulti, in proporzione di uno su sei, sono frequentatori molto occasionali della chiesa, “in base ai bisogni del giorno”, dice David Kinnaman, vice presidente di Barna Research, una delle nuove imprese di consulenza che assistono queste chiese nel loro sviluppo. Un fedele su sette abbandonerà la chiesa entro un anno.

”La gente guarda alle chiese con lo spirito dell’analisi costi-benefici che userebbe per qualunque prodotto di consumo”, afferma Kinnaman. “C’è poca fedeltà al marchio. Molti cercano il più nuovo e il più grande”.

Dave Stone, assistente ministro della Southeast, chiama la sua chiesa, aperta tutti i giorni dalle 5,30 del mattino alle 11 di sera, “una stazione di rifornimento”

”Se possiamo far venire le persone alla nostra palestra” spiega “è solo questione di tempo, fargli visitare il nostro santuario”

La chiesa è stata deliberatamente progettata come uno shopping mall (il santuario funge da spazio anchor). Ingressi ampi quasi dieci metri con superfici curve enfatizzano “il flusso di persone”, afferma Jack Coffee, anziano della chiesa e presidente del comitato per la costruzione. Bambini in età prescolare pasticciano in uno spazio da gioco disneyano, con labirinti. C’è un’ala di tipo scolastico per lezioni sulla Bibbia, un atrio con dimensioni da sala concerto con ascensori di vetro, scale mobili incrociate e schermi giganti che elencano leofferte della giornata: incontri per aiutare a smettere di fumare, una mini-maratona di allenamento, corsi dedicati a bambini di sei mesi che insegnano a toccare la Bibbia.

Cose del genere, di solito, sono pagate dalla congregazione con campagne di sottoscrizione triennali, oltre il bilancio corrente che è spesso finaziato con le decime, dice Malcolm P. Graham, presidente della divisione chiese per la Cargill Associates, impresa di consulenze per il fund-raising. Uno studio dello Hartford Institute for Religion Research allo Hartford Seminary, ha calcolato le entrate annuali di una megachiesa 4,6 milioni di dollari. I contributi annuali alla Southeast Christian sono più di 20 milioni.

I fedeli della Southeast Christian sono una famiglia di 22.000 persone family, e i visitatori sono calcolati dalle statistiche: la caffetteria che serve 5.000 tazze l’ora, i 403 bagni. Le dimensioni stesse della Southeast Christian hanno generato l’invenzione della Greenlee Communion Dispensing Machine, progettata dal settantanovenne fedele Wilfred Greenlee. Puù riempire quaranta communion cups in due secondi.

Alla Fellowship Church di Grapevine, Texas, l’attirare giovani fedeli e riuscire a trattenerli ha aiutato a crescere, da 30 famiglie a 20.000 membri in dodici anni. Appartenere alla chiesa mette a disposizione un centro giovani di 4.000 metri quadrati con una palestra dir roccia, una galleria video, e si sta realizzando un lago per incoraggiare la pesca al persico in comune tra padri e figli.

La chiesa battista di Prestonwood di Plano, Texas, ha un centro giovani tanto elaborato che qualcuno l’ha chiamato “Preston World”: 15 campi da gioco, un ristorante stile anni Cinquanta e un fitness center, insieme ad aule e a un santuario con 7.000 posti a sedere. Si stanno aggiungendo una scuola da 19 milioni di dollari, un coffee shop, uno spazio sosta ristorazione, un centro di studi per giovani pastori, un edificio dedicato alla gioventù, una passeggiata all’aperto dedicata alla preghiera, una cappella e uno spazio comune modellato sulle forme di una strada principale di villaggio. “Non siamo una grande chiesa” afferma Mike Basta, pastore responsabile. “Siamo una piccola città”.

Anche la chiesa battista Brentwood di Houston offre una gamma completa di opzioni familiari, spesso fondate su criteri politici e sociali. Accanto ai corsi di canto corale e di studi biblici, ha spazi per pazienti malati di AIDS e il credito agevolato.

In questa chiesa formato gigante, il nuovo McDonald’s non è solo un investimento conveniente per la congregazione — che ha investito 100.000 dollari nel franchising — ma anche un modo per creare posti di lavoro e generare profitti da reinvestire in borse di studio e programmi comunitari (McDonald’s si prende il suo 4 per cento standard dei guadagni).

Non è certo per caso, se si dà una scusa ai crica 2.000 fedeli che vanno alla chiesa per oltre 80 attività ogni sera (teatro per bambini, corsi di computer per adulti) una scusa per restare nei paraggi. “Se devi tornare a casa per cena, certo poi non tornerai qui”, dice il pastore Ratliff, riferendosi ai vasti bacini di pendolarismo.

Ma alcuni studiosi e amministrazioni municipali sono preoccupate per la crescita del ruolo civico di queste chiese “24 su 24/7 su 7”. Stanno diventando “un universo parallelo cristianizzato”, nelle parole del Dottor Scott Thumma, sociologo delle religioni allo Hartford Institute.

Wade Clark Roof, professore di religione e società alla University of California di Santa Barbara, si preoccupa che queste chiese a servizio completo siano “una versione religiosa delle gated communities. È un tentativo di creare un mondo dove ci si rapporta con persone dello stesso orientamento. Si perde il dialogo con la cultura generale”.

Marci Hamilton, professore di diritto costituzionale alla Benjamin Cardozo Law School di New York, afferma che questa crescita delle chiese, e in certi casi l’espansione di mega-sinagoghe, templi Mormoni temples e altre congregazioni, è diventata localmente conflittuale, specialmente nei quartieri residenziali preoccupati per la “intensità d’uso”. Le chiese a servizio completo virtualmente non dormono mai, attirano macchine, folle, emanano raggi di luce brillante a tutte le ore di tutti i giorni.

Queste tensioni fra stato e chiesa sono state evidenziate dal Religious Land Use and Institutionalized Person Act, approvato dal Congresso due anni fa, che impedisce a organismi pubblici, compresi gli uffici urbanistici locali, di bloccare progetti di chiese a meno che siano in gioco prevalenti interessi di tipo pubblico. Le municipalità in tutto il paese stanno “districando il problema di cosa le nuove leggi consentano o impediscano di fare” dice Jim Schwab, ricercatore della American Planning Association di Chicago.

La città nella città proposta dalla Community Church of Joy nell’area suburbana di Phoenix consente ai fedeli di vivere costantemente su terre della Chiesa, e anche si essere sepolti lì, avventurandosi all’esterno solo per lavorare o fare qualche spesa. Anche il parco acquatico, parte di un centro di sport a dimensioni olimpiche, ha un tema cristiano, con immagini al laser che rappresentano Giona, la Balena, Davide e Golia. Il quartiere residenziale, che non è dedicato in esclusiva ai membri della chiesa, avrà un cappellano a tempo pieno. Nonostante non voglia imitare Disneyland, è un’utopia disneyana con motore cristiano.

”La gente vuole morale, valori, e principi etici” dice il Dottor Kallestad, “Non è isolamento. È vivere su un’isola”.

Nota: per chi è interessato, è scaricabile direttamente da Eddyburg il testo originale del Religious Land Use and Institutionalized Person Act (fb)

Una forzatura al giorno, a volte due, una continua mortificazione del Parlamento da parte del governo e della maggioranza. Ieri l'altro, la decisione di mandare in aula al Senato la riforma dell'Ordinamento giudiziario, senza nemmeno attendere la conclusione dell'esame in commissione, ieri quelle di modificare il calendario, anteponendo, sempre a Palazzo Madama al decreto sulla Bossi-Fini, per discuteree subito, l'esame del maxi emendamento che riscrive, in negativo, l'articolato del ddl delega sulla legislazione ambientale, approvato alla Camera, e di porre sul testo la questione di fiducia a tempi contingentati. Cosa che il ministro Carlo Giovanardi ha fatto immediatamente, qualche minuto dopo che il vicecapogruppo di Fi, Lucio Malan, aveva chiesto e ottenuto l'inversione dell'odg.

Un maxiemendamento che è peggiore, se possibile, di quello che l'opposizione temeva. "Praticamente - commenta Fausto Giovanelli, capogruppo ds in commissione Ambiente - ci troviamo di fronte al quarto condono edilizio, dopo che la Corte costituzionale aveva demolito il terzo, il primo nelle aree a tutela paesistica". E di "condono edilizio a tutti gli effetti" parla anche Giuseppe Vallone della Margherita. Il tutto, come ricorda il capogruppo Ds, Gavino Angius, annunciando il voto contrario all'inversione dell'odg, "in quattro e quattr'otto", con una fretta sospetta, che nasce probabilmente dalla necessità non solo di condonare abusi niente di meno che dal 1939 al 30 settembre di quest'anno, ma anche qualcosa che riguarda direttamente il Presidente del Consiglio. "Una sanatoria perpetua - incalza il verde Sauro Turrone - a cui si è messo un poco di belletto".

Il testo, giunto alla quarta lettura, tra Camera e Senato, era stato modificato a Montecitorio, con l'introduzione di una norma che sanava le costruzioni abusive nelle zone paesistiche del Paese. Norma che aveva sollevato dure critiche, tanto da costringere la commissione Ambiente del Senato a cercare di modificare l'articolo, decisione che provocava però, forti dissensi tra i gruppi della maggioranza, tanto da costringere il relatore a chiedere continui rinvii del dibattito in aula, per trovare un qualche accordo nella Cdl. Dissensi (ancora ieri il relatore An, Giuseppe Specchia dichiarava che lui il condono non ,lo avrebbe fatto) coperti, infine, come ormai avviene molto spesso, con il voto di fiducia. Ieri, però, come sottolinea Angius "all'ultimo momento, dopo una serie di ripensamenti e il silenzio totale alla conferenza dei capigruppo, piove la fiducia su un provvedimento vergognoso, che non ha niente a che fare con la semplificazione e il riordino della legislazione del settore". Di fatto si condonano, nelle aree protette, comprese i parchi nazionali e regionali, le coste entro i 300 metri e le costruzioni oltre i 1.200 metri, gli aumenti di cubatura e tutto il resto, per quel che riguarda il passato, mentre per il futuro si permette di tutto, anche i cambi di destinazione d'uso nelle aree protette e a tutela paesistica, tranne l'aumento di cubatura. È evidente - per Giovanelli - la volontà di condonare villa Certosa di Berlusconi.

Ma se il premier - ironizza - aveva questo problema, si poteva fare una norma ad hoc per la sua villa sarda, non c'era bisogno di approvare una norma che devasterà tutto". Con la fiducia, come rammenta Angius, "il Senato non ha alcuna possibilità di discutere nel merito di questo provvedimento, che incoraggia l'illegalità e lo scempio dell'ambiente: tutto il lavoro finora svolto dalla commissione viene così azzerato". "Siamo di fronte ad un'altra legge vergogna-conclude- all'ennesimo schiaffo al ruolo e alla dignità del Senato, ridotto a terminale telefonico di Palazzo Grazioli: non è pensabile che qualunque bizzarria venga pensata a Palazzo Grazioli o a Palazzo Chigi, diventi poi oggetto di procedimento legislativo inusuale". Esponenti di centrodestra si stanno vantando delle norme del maxiemendamento che prevedono l'abbattimento degli ecomostri, compresa la famosa Punta Perotti di Bari, dimenticando però di ricordare che erano state le amministrazioni locali, anche quelle di centrodestra, a chiedere queste misure e che il comuni e di centrosinistra di Bari ha già pubblicato il bando di gara, pere l'affidamento delle opere di demolizione dell'ecomostro. "Belletto", "foglia di fico, "patetico tentativo di coprire la messa a regime di una norma che prevede sanatorie e abusi importanti" così dal centrosinistra risponde a chi si vanta delle norme sui grossi abusi, dimenticando - lo segnala Vallone - che "attraverso le integrazioni del maxiemendamento all'art.181 del codice Urbani il governo getta finalmente la maschera: dopo aver sostenuto da sempre che non avrebbe mai condonato gli abusi sulle aree protette, introduce un comma che condona gli abusi senza alcun limite, addirittura per materiali impiegati in difformità dall'autorizzazione paesistica, come, per esempio, è capitato per l'anfiteatro di villa Certosa". Proteste contro il maxiemendamento sono state sollevate anche Italia Nostra e il Wwf

Ricordate la villa abusiva di Berlusconi? Eccola qui

LAS VEGAS - Nella parte sud del Las Vegas Boulevard, ben oltre lo skyline della città disegnato dai casinò, c’è un hotel a tre piani, raramente frequentato da turisti. Il parcheggio è disseminato di camion di traslochi e roulotte. Davanti al gabbiotto c’è la fermata di uno scuolabus. Un cartello sul prato promette sconti per soggiorni di una settimana o più. Le camere disadorne (coperte e lenzuola si pagano a parte) vedono regolarmente messe alla prova le promesse di un nuovo inizio offerte da questa città nel deserto.

Questo frequentatissimo hotel e gli altri appartenenti alla catena Budget Suites of America sono l’ equivalente in calcestruzzo delle carrozze disposte in cerchio del vecchio West : una comunità di sognatori; pionieri e individui in lotta per sopravvivere, in breve sosta lungo il cammino verso qualcosa di migliore.

“Quando siamo arrivati ho dormito avvolta nelle camicie di mio papà”, racconta Jamie Rose Galloway, trapiantata qui dalla California, che ha recentemente festeggiato con la famiglia il suo diciassettesimo compleanno in un alloggio di due stanze sul retro. È avvezza alle difficoltà: “Siamo stati anche peggio. Un tempo eravamo senza tetto e vivevamo nel camion di mio padre”.

Molti al loro arrivo a Las Vegas utilizzano i Budget Suites in attesa di trovarsi un alloggio in questa insidiosa città, occhio di un ciclone demografico che negli ultimi trent’ anni ha trasformato il deserto americano da frontiera dimenticata a terra del desiderio. La metamorfosi non ha mutato solo l’arido paesaggio (Las Vegas e i suoi sobborghi nella Contea di Clark si estendono oggi su seicento chilometri quadrati di deserto, contro i 100 del 1970); ha comportato anche un costo sociale che molti nuovi arrivati giudicano insostenibile.

L’ufficio delle imposte stima, sulla base delle dichiarazioni dei redditi, che lo scorso anno circa 55.000 persone hanno rinunciato al sogno di vivere nel sud del Nevada trasferendosi altrove. Uno studio condotto nel 2003 dal Fordham Institute for Innovation in Social Policy ha definito il Nevada e i confinanti Arizona e New Mexico stati oggetto di “recessione sociale” perché afflitti da problemi cronici come criminalità, povertà infantile, suicidi tra adolescenti e anziani, uso di droghe e alte percentuali di abbandono dell’istruzione obbligatoria.

“Questa città sta crescendo troppo rapidamente”, commenta Sarah S., barista 25enne del Missouri, in sosta al Budget Suites diretta a Dallas insieme al marito e alla figlioletta di sei anni, dopo due anni trascorsi a Las Vegas.

“Non do il nostro cognome a nessuno L’ho imparato vivendo qui”.

Aspettando la ricchezza

Al Budget Suites non ti chiedono di esibire contratti né carte di credito.

Se questo significa poco per gli ospiti dotati di risorse finanziarie, spalanca però le porte a legioni di americani che non hanno accesso al credito. Arrivano con l’unico desiderio di trovare un buon lavoro e una casa, incuranti degli ostacoli incontrati sulla strada che li ha portati qui.

“La gente una volta era solo di passaggio qui, adesso sono sempre più quelli che restano”, spiega Hal K. Rothman, docente di storia all’Università del Nevada di Las Vegas, autore di numerosi saggi sulla città. “Chi viene qui in maggioranza ha in programma di andarsene, la considera una sosta. Ma che cosa succede quando questa città ti ama, e ti mette davanti un furgone portavalori lasciandoti prendere tutto ciò che vuoi”?

La madre di Jamie Rose, Lori Galloway, quel furgone lo sta ancora aspettando. Lei è l’eterna ottimista della famiglia, quella che vede per loro un futuro rose e fiori, benché abbia collezionato una disavventura dopo l’altra.

In un momento particolarmente duro della loro vita in California si infilava sotto la camicetta salsicce e formaggio, quando andava all’ alimentari a comprare il pane. “Che cosa avrebbe fatto lei se i suoi figli avessero avuto fame?”, chiede senza mezzi termini. “Potevo permettermi solo il pane”.

Le cose qui vanno già meglio. Lori riesce a mettere un pasto in tavola facendo il giro delle mense gestite dalle chiese e i frequentando i buffet a basso costo dei casinò. Ha recuperato le semplici stoviglie bianche rovistando nelle discariche, i suoi figli lo considerano un gioco. “Credo che i miei figli avranno una vita migliore”, dice. “A Jamie Rose piace cucinare e qui c’è un’ottima scuola per cuochi”.

Lori, 44 anni, si lascia andare alle recriminazioni solo sul fatto che continua ad ingrassare per via della medicina che prende per il cuore, e che il governo non sembra granché interessato ad aiutare le famiglie come la sua, anche se ogni due settimane la donna riscuote un assegno di invalidità. Ma si frena subito.

“Certo mi piacerebbe un alloggio un po’ più grande”, dice e aggiunge poi in tono più allegro: “Siamo più di una famiglia qui”.

Denny Cowie, che ha preso una stanza nell’edificio dietro i Galloways dopo un divorzio, guarda con cinismo alle centinaia di migranti sognatori che ha incontrato. Dice che neanche a lui è mai capitato di trovare il metaforico furgone portavalori dispensatore di facili al ricchezze.

Molti sogni qui si infrangono, spiega Cowie tra un sorso di birra e l’altro fuori dalla sua stanza al secondo piano, e i suoi vicini inevitabilmente vengono a elemosinare -alcool, sigarette, cibo e denaro. La spirale negativa può diventare pericolosa, spiega.

“Non c’è niente di peggio che tornare a casa dal lavoro e vedere una macchina della polizia nel parcheggio che preleva qualcuno”, racconta Cowie, lui stesso immigrato qui dall’Iowa.

Sedotti e abbandonati

Ma Cowie, 63 anni, nasconde un lato tenero. Nell’angolo cottura della sua stanza ha un armadietto colmo di scatole di pasta e di salsa di pomodoro che distribuisce agli altri ospiti dell’hotel quando sono a corto di cibo.

“Si può finire sbranati in questa città”, commenta Cowie, impiegato in una tipografia che stampa volantini pubblicitari per l’industria pornografica, distribuiti agli angoli delle strade.

“Chi si ferma qui magari è in cerca di casa o di un appartamento oppure in fuga da qualcosa. Chissà, non c’è modo di scoprirlo”. Questa è Las Vegas, dopo tutto, un luogo di seduzione e disillusione che premia i residenti al pari dei visitatori, coronando i sogni di alcuni e rifiutando ostinatamente di mantenere le sue promesse nei confronti di un infinità di altri.

Jeff Hardcastle, demografo dello stato del Nevada, afferma, basandosi sulle stime di alcuni studi, che dei nuovi arrivati a Las Vegas e nella contea di Clark, uno su due riparte. “Gente che viene, gente che va”, commenta. Non importa. Sono comunque di più quelli che vengono, da tutti gli angoli degli Stati Uniti, in maggioranza con l’unico scopo di comprare casa.

“In questa città c’è da far soldi”, spiega Rita Pina, 46 anni, di Oakland, California, che si è stabilita in un Budget Suites vicino all’aeroporto di Las Vegas nord con il marito Israel. “L’idea è di trovarci tutti e due un lavoro e, nel giro di due anni, comprarci una casa”.

Le legioni di speranzosi coloni sono talmente numerose che gli amministratori hanno difficoltà a tenere il conto. Una previsione ufficiale elaborata dal demografo dello statoJeff Hardcastle vuole la popolazione del Nevada in crescita di 1,3 milioni di unità nell’arco dei prossimi vent’anni, per arrivare a 3,6 milioni di abitanti.

I nuovi residenti sono solo gli ultimi di una processione umana che si snoda da decenni, molto più estesa di Las Vegas. Più di sette milioni di persone si sono trasferite in quattro stati dell’arido sud ovest dal 1970, trasformando dune sabbiose in cemento urbano da Tucson a St. George, Utah.

Una casa ogni 20 minuti

Las Vegas e i suoi sobborghi sono diventati una destinazione privilegiata a causa dell’abbondanza di lavoro legata all’industria del gioco d’azzardo e ad una riserva in espansione di alloggi a basso costo. I casinò dello Stato hanno ricavato dal gioco d’azzardo 930 miliardi nel mese di marzo, battendo il record stabilito nel gennaio 2001.

Intanto ogni venti minuti qui viene costruita una nuova casa ma non basta ancora a tenere il passo con il convoglio di camion dei traslochi che entra in città. Ma una generazione di immigrazione ha infranto molte illusioni circa i costi del patto col deserto. La gente trova ancora case e posti di lavoro qui ma anche aria inquinata, densa di polvere di cantiere, una rete idrica sovraccarica, servizi sanitari carenti, traffico impossibile, un tasso di suicidi tra gli adolescenti e di abuso di stupefacenti in rapida crescita, e una cultura di gioco d’ azzardo e sesso ventiquattrore su ventiquattro che dalla Strip filtra all’esterno, considerata alla fine intollerabile da molti nuovi arrivati con figli.

Niente illusioni qui

“Nessun genitore di buon senso che desidera un futuro per i suoi figli vuole restare qui”, dice Ann Sheets, 31 anni, madre single di tre bambine in procinto di tornare nel Michigan, dove è cresciuta.

Un’analisi economica realizzata per il governatore del Nevada nel 2002 , mostrava che i nuovi arrivati tendenzialmente versavano in condizioni economiche peggiori rispetto agli altri cittadini dello stato. Lo studio evidenziava che il reddito lordo dei nuovi arrivati era del 30% inferiore a quello degli altri residenti.

Secondo le stime del Centro per la ricerca economica e imprenditoriale dell’Università del Nevada di Las Vegas, più di un quarto dei nuovi ingressi nella Contea di Clark dispone di un reddito familiare inferiore ai 25.000 dollari l’anno.

Intanto i prezzi delle case si sono impennati, con aumenti del 20% sulle nuove costruzioni e del 30% su quelle già esistenti nei primi tre mesi di quest’anno, rispetto ai dati relativi allo stesso periodo nel 2003.

“Non ho idea del perché la gente continui a venire”, commenta Ann Sheets. “Io ho tentato per tre anni, facendo anche due lavori insieme. Non c’è spazio per i sogni qui. Vedo la gente al lavoro con addosso gli stessi vestiti del giorno prima”.

Ann Sheets occupa una stanza al terzo piano del Budget Suites fino a tutto luglio, quando, finita la scuola, potrà andarsene per sempre. È stata lei a mandare la seconda delle sue figlie, Amber, 11 anni, a portare ai Galloway due coperte. Non li conosceva ma aveva sentito parlare di loro e delle speranze che riponevano in questa città, speranze che lei ormai aveva abbandonato.

“Sa qual è il mio sogno?”, dice la signora Galloway nella stanza occupata dalla sua famiglia al Budget Suites. “Vorrei poter andare al supermercato e non dover rinunciare a nessun acquisto”.

“Io vorrei una stanza e un letto tutti per me”, si inserisce Jamie Rose.

“Una casa con un giardino intorno da curare”, aggiunge la madre.

Poco dopo la signora Galloway, rassettata la scolorita maglietta di cotone senza maniche, chiede un passaggio in macchina fino ad una chiesa nei pressi dell’aeroporto che quel giorno distribuisce zuppa, carne in scatola e riso. Continua a parlare di quanto sia grata di poter iniziare una nuova vita, ma per tutto il viaggio non fa che piangere.

Per più di tre anni, da quando Silvio Berlusconi è ritornato al potere dopo la pessima esperienza durata sette mesi nel 1994, una cantilena ossessiva ha percorso le pagine dei quotidiani e quelle dei telegiornali legati direttamente al presidente del Consiglio o quelli che si definiscono più o meno “terzisti” ovvero neutrali ma solo in apparenza tra i due schieramenti e, guarda caso, sempre intenti a criticare il centro-sinistra e ad esaltare le felici trovate berlusconiane.

La cantilena che abbiamo sentito in lungo e in largo in questi anni è stata pressappoco la seguente: non bisogna dire a Berlusconi che è antidemocratico, truffaldino nelle sue operazioni politiche come l’ultima finanziaria, che sta smantellando la Costituzione repubblicana, la legalità pubblica e lo Stato sociale, cioè i diritti fondamentali dei lavoratori. Se si fa così, secondo questo modo di vedere, lo si demonizza e si disgustano quei fantomatici elettori di centro che hanno votato per lui ma che lo aspetterebbero al varco di fronte ai suoi errori e alle sue gaffes (ma non ce ne sono stati già centinaia? Deve fare un colpo di Stato in piena regola per convincerli a disertare l’attuale maggioranza appena ricompattata dai posti distribuiti con larghezza ai soci dissenzienti della Casa delle Libertà?).

Peccato che, a guardare i risultati elettorali e non i sondaggi, i movimenti che hanno riempito le strade e le piazze nel biennio 2002-2003 e che hanno detto di Berlusconi tutto il male sperimentato in questi anni, hanno rafforzato il centro-sinistra e lo hanno condotto a numerose vittorie nelle elezioni parziali di questi anni.

Ma ora siamo al più assurdo dei paradossi. Appena Romano Prodi, leader riconosciuto della coalizione di centro-sinistra che per cinque anni ha presieduto la commissione europea, vedendosi riconoscere anche dagli avversari la correttezza politica e democratica, definisce mercenari i volontari pagati di Forza Italia, viene assalito dalla gran parte dell’universo mediatico che ci circonda e gli si chiede di offrire le scuse, di ammettere di aver sbagliato e di aver travalicato il limite estremo. Insieme ai soliti convertiti Bondi e Cicchitto - che hanno sepolto, per motivi che non vogliamo sapere, la loro precedente fede comunista e socialista - rispondono all’appello anche tutti i giornalisti che hanno scritto editoriali nella domenica di ieri, e non importa che alcuni di loro abbiano difeso nelle tribune televisive la loro terzietà o che abbiano diretto fino a pochi anni fa giornali di opposto colore prima di incontrare sulla via di Damasco l’ombra del Cavaliere.

È come se da parte loro, in nome non si bene di quale concezione politica, si sottintenda che l’avversario va bene solo se non affonda i fendenti di fronte alle gaffes più mirabolanti dell’attuale presidente del Consiglio.

All’indomani dell’approvazione in Parlamento di una riforma dell’ordinamento giudiziario che, se attuata, non risolverà in nessun modo i problemi effettivi della Giustizia in Italia, non farà diventare i processi più rapidi ed efficienti ma che in compenso porrà una parte rilevante della magistratura alle dipendenze dell’esecutivo, spaccherà in due il Consiglio superiore della magistratura e spingerà la maggior parte dei magistrati a inseguire la carriera piuttosto che a dedicarsi al proprio mestiere, Berlusconi non può essere criticato duramente, perché così lo si demonizza.

Di fronte a una legge di revisione costituzionale che, una volta approvata e magari confermata da un successivo referendum, conduce a distruggere insieme la prima e la seconda parte della Carta, a far della maggior parte degli organi costituzionali, dal Parlamento alla Presidenza della Repubblica, istituzioni essenzialmente decorative a vantaggio di un premier che disporrebbe di poteri quasi assoluti, bisogna stare attenti a non ferire la sensibilità delicata di chi ci governa.

Né si può reagire con asprezza di fronte alle recenti dichiarazioni di Silvio Berlusconi che, controllando sei televisioni su sette e la maggioranza del mercato pubblicitario, annuncia di voler abolire la legge sulla par condicio per disporre di un potere assoluto e rafforzato dalle risorse finanziarie di cui dispone (quelle pubbliche cui si aggiunge un patrimonio personale che è tra i primi quattro del mondo) perché così facendo si rischia la demonizzazione.

Così accade che Prodi, di fronte all’annuncio di mille volontari pagati, cioè veri e propri mercenari, parli delle migliaia di giovani che lavoreranno gratuitamente per l’Ulivo e per il centro-sinistra e viene accusato soltanto per questo di aver valicato ogni limite e invitato a chiedere scusa. E questo sarebbe un dibattito democratico in cui i due contendenti si collocano su un piano paritario e rispetto ai quali l’opinione pubblica deve poter giudicare in modo equanime chi ha ragione e chi ha torto?

Dove la partita si gioca, come deve essere, sul giudizio che si dà della politica economica, di quella sociale, di quella estera, del destino della scuola e dell’università, della separazione dei poteri e dell’autonomia della magistratura e magari dei giornali e delle televisioni?

A chi scrive pare che qui si vogliono truccare le carte e presentare il contrasto tra maggioranza e opposizione come di un duello in cui chi governa ha per principio la ragione dalla sua parte e l’opposizione è legittima soltanto se attacca con garbo, sorvola le gaffes antidemocratiche del premier e si affanna per trovare prima o poi un accordo con la parte avversa.

Ma così si passa da uno scontro democratico a una bagarre impari e disuguale, seguito ogni ora da un coro servile che applaude la maggioranza e segna i punti a chi si oppone. Sarebbe questa la democrazia di cui parla la Casa delle Libertà insieme con i suoi corifei?

TRA le molte motivazioni dei successi elettorali di Berlusconi nel 1994, nel 2001 e anche nel ´96 quando l´Ulivo ebbe la meglio ma i voti raccolti da Forza Italia realizzarono comunque un record, ci fu l´elemento dell´antipolitico.

La sbronza del politichese, l´arroganza dei partiti, l´autoreferenzialità degli apparati, l´ipocrisia ideologica utilizzata come copertura del malaffare e del malgoverno, avevano generato un movimento di rigetto della politica che del resto aveva in Italia una sua tradizione secolare.

Berlusconi fu l´immagine-simbolo dell´antipolitico, nei comportamenti, nel linguaggio, nell´immagine che aveva di sé e che proiettava sulla gente, mille volte amplificata dalla potenza mediatica di cui disponeva.

Quest´immagine di un´Italia antipolitica è stata travolta dallo stesso Berlusconi venerdì 22 luglio con la nomina di Rocco Buttiglione nella Commissione europea, al posto di Mario Monti. Un uomo intriso di politichese, immerso da dieci anni fino al collo nel teatrino della partitocrazia, completamente digiuno della cultura economica necessaria per ricoprire l´incarico cui è stato destinato e per di più preferito a un tecnico di fama internazionale a causa d´uno scontro virulento all´interno del governo: questo è avvenuto due giorni fa sotto gli occhi stupefatti dei milioni di italiani che ancora credevano in un leader immune dalle manovre degli odiati partiti, portatore delle virtù del nuovo qualunquismo, fautore delle competenze e dell´eccellenza dei tecnici rispetto ai professionisti di partito.

Buttiglione al posto di Monti, l´intrigo politico vincente sulla qualità professionale universalmente riconosciuta, non è stata una sorpresa per chi non è mai caduto nella rete seduttiva berlusconiana, ma per quanti ci avevano creduto in buona fede e per dieci anni di seguito. Per isolare e colpire Follini si premia il suo avversario interno abbassando a un avvilente mercato un incarico europeo di primaria importanza. Questa scelta ha ferito a morte la residua fiducia che molti milioni d´ingenui ancora riponevano in un venditore d´illusioni preso purtroppo sul serio ancora fino all´altro ieri.

Il primo a esser messo a conoscenza di quella scelta - narrano le cronache - è stato il cancelliere tedesco Schroeder con il quale il nostro premier era a cena la sera di quel giorno "fatidico". Riferiscono le cronache "autorizzate" che tra le qualità del nuovo commissario italiano appena scelto, Berlusconi abbia decantato al Cancelliere la perfetta conoscenza, di Buttiglione, della lingua tedesca. Sembra che il Cancelliere se ne sia molto compiaciuto.

È fantastico. Questa roba viene riferita nei telegiornali con assoluta serietà, dai mezzibusti della Rai e di Mediaset senza una piega, un soprassalto di ironia o di stupore: Buttiglione sa il tedesco, informa Berlusconi, e Schroeder manifesta il suo contento. C´è mai stato nella storia d´Italia un primo ministro di questo conio? È mai stata calpestata e resa comica agli occhi del mondo intero una nazione che, pur nei suoi limiti storici, ha avuto al vertice delle istituzioni uomini di notevole e alle volte grande qualità morale, intellettuale, politica?

E Rocco Buttiglione non sente vergogna per esser stato strumento attivo di questa cialtronesca rappresentazione? «Debbo la mia nomina esclusivamente alla generosità del presidente del Consiglio», ha dettato alle agenzie il neocommissario europeo. Come se si trattasse d´una mancia, sicuramente generosa, e non dell´interesse dell´Italia in Europa! Lo ripeto, tutto ciò ha del fantastico. Raffigura un incubo dal quale finalmente ci stiamo risvegliando. Almeno così si spera. Non senza trovarci alle prese con un inventario di rovine che sono il risultato di tre anni di malgoverno affidato a una banda di dilettanti, di saltimbanchi, di clown e, diciamolo, di imbroglioni.

* * *

Che fossero imbroglioni lo si diceva da tempo. Ma ora c´è la prova autentica, la prova provata, fornita dal neoministro Siniscalco, già direttore generale del Tesoro nei tre anni di Tremonti all´Economia e da un paio di settimane suo successore.

Dice Siniscalco (in Consiglio dei ministri e nel Documento di programmazione finanziaria approvato dallo stesso Consiglio) che: c´è un buco da ripianare di 24 miliardi; senza una manovra di quella dimensione il nostro deficit viaggerebbe a 4 punti e mezzo in rapporto col Pil; il medesimo Pil, che nell´anno in corso avrà sì e no un progresso dell´1,3 per cento, non si schioderà da un magro 2,2 nei tre anni successivi; in quei tre anni ci vorranno ulteriori manovre correttive pari a un totale di 27 miliardi, più quella appena effettuata di 7,5 miliardi. Il totale generale nel quadriennio 2004-2008 sarà dunque di 51 miliardi di euro, pari a 110mila miliardi di vecchie lire, più almeno 12 miliardi se si vogliono ridurre le imposte secondo il progetto Berlusconi. E siamo a 63 miliardi di euro, ma ancora non sono nel conto i soldi (molti) mancanti alla scuola, alla sanità, al rilancio delle imprese, alla formazione e agli ammortizzatori sociali; il tutto stimabile a un minimo di altri 15-20 miliardi (i soli ammortizzatori sociali pesano, ridotti al minimo, per 7 miliardi, dei quali ne erano stati stanziati nel bilancio 2004 soltanto 800 milioni ridotti a 300 dopo la stangatina votata l´altro ieri dalle Camere).

E siamo a 81 miliardi (160 mila miliardi di lire). Ma non è ancora finito.

Il debito pubblico sarà a 106 miliardi nel 2005 secondo l´ottimistica valutazione di Siniscalco. Il quale stima indispensabile ridurlo a 100 entro il 2008 per far fronte agli impegni europei e alle richieste delle agenzie di rating. Come? Con alienazioni di patrimonio (immobili e privatizzazioni) dell´ammontare di 75 miliardi nel triennio 2005-2008.

È possibile? Secondo me no, sulla base dell´esperienza passata e considerato che, salvo disfarsi delle azioni dell´Eni, dell´Iri e della Finmeccanica e di pochi immobili di pregio da cartolarizzare, non c´è trippa per gatti.

Insomma una rovina, un abisso finanziario per colmare il quale non si vedono le risorse disponibili salvo una cura da cavallo da imporre ai contribuenti di tutte le classi di reddito, con ripercussioni inevitabilmente depressive sul ciclo economico.

E dire che ancora un mese fa gli speaker della maggioranza, suffragati dal premier e da Tremonti, davano del farneticante a chi dai banchi dell´opposizione e dalle colonne della libera stampa avvertiva dell´incombente catastrofe. Distraendo l´opinione pubblica con ridicoli diversivi teleguidati.

Urge una domanda al buon Siniscalco: lui, direttore generale del Tesoro, che cosa ha fatto in questi tre anni? Chi ha avvertito del disastro? Perché è rimasto a condividere questa vera e propria rapina della pubblica ricchezza? E che cosa ha fatto (o non fatto) il Ragioniere generale dello Stato cui spettava il compito di registrare una tale rovina di giorno in giorno crescente?

Una risposta sarebbe non solo opportuna ma assolutamente dovuta.

* * *

Follini si batte coraggiosamente per modificare alcune norme sciagurate della "devolution" e del premierato. Il partito sembra con lui, ma i nomi che contano no e gran parte dei gruppi parlamentari neppure.

Difficile prevedere come finirà. Finora pensavo che fosse una tigre di carta. Mi ravvedo e mi scuso con lui: non è di carta, è un carattere duro e serio e va dritto per la sua strada. Non è di carta, ma non è neppure una tigre poiché non ha dietro di sé le forze che potrebbero renderlo tale. È un onest´uomo che si è - forse tardivamente - accorto di stare dalla parte sbagliata, su un treno che viaggia senza controllo verso il nulla con crescente velocità.

Di fronte alle cifre sopra ricordate, che non sono le nostre ma del ministro dell´Economia, Follini dovrebbe portare il suo partito fuori dall´alleanza. Che ci sta a fare in quella compagnia? Bossi, una volta incassata la "devolution" si staccherà dal convoglio, tornerà nelle sue valli a coltivare quel po´ di potere che gli sarà stato regalato sulla pelle della Repubblica "una e indivisibile".

E Follini, ancora lì a battersi con i suoi Baccini, i suoi Lombardo, i suoi Buttiglione, che per una carica venderebbero - come stanno facendo - la dignità del paese e di se stessi? Non ho alcun titolo per dar consigli a Follini, ma fossi in lui salterei in corsa dal predellino finché è ancora in tempo.

* * *

Il sociologo De Rita, celebrato autore delle ricerche del Censis, ha posto giorni fa una domanda interessante al centrosinistra: qual è il blocco sociale di cui volete assumere la rappresentanza? Ha avuto varie risposte tra le quali la migliore mi è sembrata quella di Piero Fassino: un lungo elenco di motivazioni civiche che spingono oggi un numero crescente di italiani a dissociarsi da Berlusconi. Ma De Rita ha replicato: la risposta regge finché c´è contro di voi Berlusconi; regge in negativo. Ma ci si aspetta da voi che vi candidate a governare un disegno positivo.

Penso anch´io che sia urgente un programma positivo. Non una filosofia, ma quattro o cinque punti concreti di che cosa fare e come, cominciando dal come gestire il disastro che si andrà - si spera - a ereditare. Secondo me non c´è molto tempo.

Prodi pensa di cominciare a novembre una sorta di giro d´Italia «per ascoltare gli umori, i bisogni, i desideri dei concittadini». Sarà certamente utilissimo, ma individuare i punti da risolvere e il modo per affrontarli è un compito che spetta al leader e al gruppo dirigente che lo affianca. Perciò faccia pure il giro d´ascolto ma prima o nello stesso tempo formuli il programma completo, il "che fare" e vada con quello a confrontarsi con il paese. Sarà quella la sua vera investitura da leader, ma faccia presto. Le travi del tetto sono marcite e non tengono più.

È una proposta indecente

di Giovanni Sartori

Le Costituzioni non sono né di destra né di sinistra. Pertanto l’elettore di destra non si deve sentire obbligato a sostenere il progetto di revisione della costituzione proposto dal governo Berlusconi, così come l’elettore di sinistra non si deve sentire obbligato a combatterlo. Una Costituzione è la casa di tutti, e tutti la dovrebbero accettare se abitabile (se migliora quella che c’era), o respingere se inabitabile (se la peggiora). E dunque la domanda è se la Costituzione già approvata in prima lettura al Senato sia buona o cattiva, funzionale o disfunzionale.

A questa domanda ho già risposto nello scritto «Una Costituzione incostituzionale?» pubblicato in appendice alla 5 edizione del volume «Ingegneria Costituzionale Comparata». L’interrogativo è retorico. La mia risposta non è soltanto che si tratta di una cattiva Costituzione, ma addirittura di una Costituzione incostituzionale. Possibile? La dizione può sembrare contraddittoria o comunque paradossale. Ma nell’ottica del costituzionalismo non lo è.

È vero che molti giuspositivisti guardano soltanto alla effettività di una Costituzione e si dissociano dal costituzionalismo reso «impuro» dal suo contenuto assiologico. Certo, il costituzionalismo è assiologico. Però è anche teleologico; accantonare la teleologia è più difficile che rifiutare l’assiologia. Il diritto ha uno scopo? Ha una ragion d’essere? A cosa serve? Nemmeno il giuspositivista si può sottrarre a queste domande. Alle stessa stregua è tenuto a chiedersi quale sia il telos delle Costituzioni. Domanda alla quale il costituzionalismo dà una risposta unanime. La parola Costituzione viene riesumata sul finire del 700 per disegnare una nuova realtà: la creazione di un sistema di governo «limitato» , di un sistema di «garanzia della libertà» (come scriveva Benjamin Constant). Al tempo di Cromwell non si diceva ancora «Costituzione»; si diceva covenant, pact, frame, fundamental law. E quando questi termini vennero riassorbiti nella parola Costituzione, la parola non denotava una qualsiasi organigramma di esercizio del potere; designava soltanto la sua forma garantistica. E dunque una Costituzione che non garantisce la libertà può essere detta incostituzionale.

Ciò posto, dobbiamo essere in chiaro a quale pubblico ci rivolgiamo: se a quello degli specialisti (i costituzionalisti), a quello dei parlamentari, oppure al più largo pubblico dell’opinione pubblica. In questo mio intervento io guardo, soprattutto, all’opinione pubblica, e così vado a distinguere tra opposizione ed oppositori. La prima è l’opposizione istituzionale, l’opposizione gestita nelle sedi istituzionali (nel Palazzo) dai partiti di opposizione: oggi l’opposizione di sinistra. Gli oppositori sono invece tutti i cittadini (tra i quali il sottoscritto, che certo non ha titolo per parlare in nome dell’opposizione), ovunque si trovino lungo l’asse destra-sinistra, che si oppongono, o potrebbero opporsi, al cambiamento costituzionale in corso. E in questa chiave il problema è di come l’opposizione istituzionale possa sensibilizzare e mobilitare l’universo (anche di destra) degli oppositori possibili.

Così vengo al punto. La controproposta dell’opposizione si riassume nella «bozza Amato». È una controproposta che va bene? Forse sì per gli interna corporis del Palazzo: concilia le varie anime del centrosinistra, dialoga con la maggioranza offrendole aperture, smussa i punti spinosi. Ma non bene, mi permetto di osservare, per gli oppositori in cerca di autore, in cerca di bandiera. Se l’interlocutore è l’opinione pubblica, allora una proposta «terzista» è controproducente, fa più male che bene. Una battaglia non si combatte con i «ni»; si combatte con i no. E a un progetto che snatura il costituzionalismo si deve rispondere con un rifiuto chiaro e netto.

L’obiezione è che non basta dire no. Io rettificherei così: non basta dire no e basta. Vale a dire che ci occorre un no sostenuto da una alternativa. Quale? È noto che in passato io ho sostenuto il semipresidenzialismo di tipo francese. Ma oggi non ci possiamo permettere di offrire all’opinione pubblica una formula complicata che non può capire. Aggiungi che sul semipresidenzialismo non siamo mai stati tutti d’accordo, e quindi che ci torneremo a dividere. L’unica alternativa a tutti nota è quella del sistema parlamentare. Non sarà la nostra prima preferenza. Ma siamo nella peste, e perciò dobbiamo rinunciare alle prime preferenze che ci dividono per ripiegare su una seconda preferenza, un second best, che ci può unire, e che può essere rivenduta (migliorata) all’opinione del Paese.

Dico di proposito «rivendere», per dire, che dobbiamo risalire una china, che dobbiamo rivalutare un sistema politico che abbiamo troppo svalutato. Perché mai, chiediamoci, il sistema parlamentare resta il sistema praticato (con una sola eccezione, la Francia) in tutta l’Europa occidentale? Perché solo noi ne chiediamo il superamento e il ripudio? Se rivisitiamo le critiche che hanno bersagliato la nostra prima Repubblica, le colpe che le vengono attribuite sono solo marginalmente colpe costituzionali, colpe della Costituzione del 1948. Occorre ristabilire questa verità. Ripeto: se quasi tutta l’Europa occidentale resta fedele al modello parlamentare, perché noi no? Perché noi siamo passati a un sistema elettorale maggioritario? È una vulgata di moda. Ma è una sciocchezza. L’Inghilterra è ferreamente maggioritaria e ferreamente parlamentare.

Comunque sia, non abbiamo altra alternativa. Beninteso, la formula parlamentare va ripresentata con miglioramenti (in chiave di governabilità) che il grosso dei costituzionalisti propone da tempo: voto di sfiducia costruttivo, fiducia votata soltanto al primo ministro (che così diventa un primus super pares), più un sistema elettorale idoneo. Con il che tornare a difendere un difendibilissimo sistema parlamentare sarebbe intelligente e possibile. Ma qui ci imbattiamo in uno strano incaglio: la strana dottrina (ignota in tutto il mondo) del ribaltone.

Questa strana dottrina fece presa nel 1994 per sostenere la richiesta di Berlusconi, dopo lo sgambetto di Bossi, di nuove elezioni. Dopodiché dilagò anche nella sinistra, sempre pronta a proporre e a sposare cattive cause. Tanto è vero che la ritroviamo nella bozza Amato, dove si legge che «per garantire il rispetto della volontà popolare degli elettori... è giusto che non siano legittimati i cosiddetti ribaltoni». Amato soggiunge che «in caso di sfiducia, e su proposta (del premier) vi sarà lo scioglimento del Parlamento, a meno che una mozione costruttiva votata dalla maggioranza iniziale, comunque autosufficiente, anche se integrata o eventualmente ridotta, non proponga un diverso candidato».

Amato è davvero il nostro dottor sottile. Qui si destreggia per salvare capra e cavoli. Da un lato nega l’elezione diretta («si conviene che si debba rendere noto... il nome del candidato alla guida del governo, senza tuttavia farne oggetto di separata menzione sulla scheda elettorale»), ma poi ne accetta, anche se in modo attenuato, l’implicazione che la maggioranza iniziale non può essere cambiata. Insomma, l’elezione diretta non c’è, ma è come se ci fosse. Per me è troppa bravura. E, bravura a parte, l’argomentare resta viziato da questa contraddizione: che se il nome del candidato sulla scheda non c’è, allora non si può invocare «il rispetto della volontà popolare degli elettori», visto che questa volontà non è stata espressa dal loro voto.

Il punto importante è però un altro. È che non possiamo sostenere il sistema parlamentare, e al tempo stesso sostenere il divieto di ribaltone. Perché quel divieto distrugge, inceppandola, l’essenza stessa di un sistema di governo caratterizzato dalla flessibilità. Non è più tempo di tatticismi. La dottrina del ribaltone non esiste nel costituzionalismo europeo ed è assurdo che diventi, da noi, una ossessione dominante della nostra riforma costituzionale. O la rifiutiamo senza quisquiliare, oppure chi si oppone al premierato assoluto resta senza retroterra, senza controproposta di ricambio. Perché, ripeto, non si può difendere un sistema parlamentare e negare a quel sistema il diritto di cambiare maggioranza.

Vengo ai rispettivi punti forti e punti deboli del dibattito tra i due schieramenti. Il punto di maggior forza dei difensori del «Silvierato» (il premierato disegnato su misura per Berlusconi) è di ricordare che tutte le cattive idee che l’opposizione sta attaccando oggi, sono state partorite in passato dalla sinistra (a cominciare dal premierato elettivo, lanciato da D’Alema). Purtroppo è largamente così. E la sinistra lo deve ammettere: abbiamo sbagliato e abbiamo cambiato idea (dopotutto Berlusconi le idee le cambia tutto il tempo). Nascondere i propri errori fa cattiva impressione, è cattiva politica.

La maggioranza dispone di un secondo argomento: che il suo premierato non è assoluto, perché sarà fronteggiato dal contropotere di un Senato «forte». Ma se sarà così, allora il nuovo sistema diventa più disfunzionale e assurdo che mai. Disfunzionale perché il contenzioso con il Senato diventerebbe davvero paralizzante. Ma sarà davvero così? Il Senato paralizzante non appartiene al disegno di Lorenzago; risulta da concessioni ottenute dall’opposizione. Non è detto, pertanto, che in itinere quelle concessioni non vengano rinnegate. Quanto più verranno esibite come bloccanti, e tanto più rischiano il veto di Berlusconi. Un’altra possibilità è che i «saggi» berlusconiani escogitino un sistema elettorale che produca anche al Senato federale una maggioranza schiacciante e fedele. Ma in ogni caso una rotella che non gira, ingigantita e fuori posto, non dovrebbe soddisfare nessuno, nemmeno l’opposizione. Un motore costruito per grippare non è un motore «costituzionale»; è soltanto un cattivo motore.

E l’opposizione? Il suo punto di forza dovrebbe essere di denunciare con forza che il «Silvierato» è in grado di conquistare e di occupare tutte le posizioni di potere del sistema politico. La bozza Amato non denunzia niente con forza; il che indebolisce la natura inderogabile delle «garanzie democratiche» che Amato delinea nel suo testo: alzare il quorum per l’elezione del capo dello Stato, dei presidenti delle Camere, e per l’approvazione delle regole del gioco. Sia chiaro: il mio lamento sulla forza argomentativa non toglie che questa parte del testo Amato sia ottima. Sorprende soltanto una omissione: che il Nostro non sembra avvertire che anche la Corte Costituzionale è conquistabile, e che la difesa della sua autonomia non può essere assicurata da quorum (che assicurano soltanto che la minoranza ottenga la debita fetta di lottizzazione) ma invece da una radicale depoliticizzazione delle procedure di nomina e anche dei corpi nominati. Perché un organo giurisdizionale di ultima istanza non deve essere fabbricato dalle parti sulle quali è tenuto a giudicare.

Mi fermo a questo punto. Come già avvertito in premessa, io non mi immedesimo con l’opposizione istituzionale; sono un oppositore quidam de populo, reso tale (e il caso si ripete, direi, per il grosso dei costituzionalisti) da una cattiva Costituzione. È anche di tutta evidenza che qui non torno a spiegare, nel merito, perché la Costituzione che ci viene proposta sia cattiva (l’ho fatto nell’altro testo che ho citato). Qui mi interessa la strategia atta a trasformare una minoranza istituzionale perdente (nei numeri parlamentari) in un universo di oppositori vincenti (al referendum; ma meglio se già prima). E in questa ottica mi appare sbagliata e controproducente la strategia (o mancanza di strategia) sinora perseguita dall’opposizione. Chi negozia resta coinvolto; e chi risulta coinvolto non è più in grado di combattere una battaglia frontale. Che invece è necessaria. Perché ci viene proposta una Costituzione viziata nell’impianto, viziata ab imis.

Come dicevo, le Costituzioni non sono né di destra né di sinistra. Pertanto il criterio per approvare o disapprovare una riforma costituzionale non deve essere di appartenenza ideologica. Se lo sarà, peccato. E sarà un danno per tutti.

Il 1° dicembre 2004, giorno in cui il Parlamento, ma forse sarebbe meglio dire la maggioranza di centrodestra ha approvato, in via definitiva, la legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario, segna una svolta, non certo positiva nella vita democratica del nostro paese.

L’approvazione dell’ordinamento giudiziario, infatti, non è che l’ultimo atto della politica giudiziaria posta in essere dalla maggioranza di centrodestra.

Detta politica, com'è noto, non è stata indirizzata alla soluzione dei veri problemi della Giustizia quale quello dei tempi assolutamente inaccettabili della definizione dei processi sia penali che civili, ma è stata invece indirizzata verso il tentativo di risolvere, per via legislativa i problemi giudiziari del Presidente del Consiglio.

Il primo tentativo fu posto in essere con la legge sulle rogatorie, che avrebbero dovuto rendere inutilizzabile l'intero quadro probatorio dei noti procedimenti pendenti a Milano a carico dello stesso Presidente del consiglio e dell'on. Previti, la cui prova era fondata quasi esclusivamente su documenti acquisiti per rogatoria internazionale.

Il secondo tentativo fu posto in essere con la legge sul falso in bilancio che con la diminuzione delle pene ed il conseguente dimezzamento dei termini di prescrizione avrebbe dovuto far dichiarare estinti per prescrizione tutti i relativi reati ascritti al Presidente del Consiglio.

Il terzo, quando questi primi due tentativi fallirono, fu posto in essere con l'approvazione della legge Cirami, quella sulla remissione dei processi per legittimo sospetto. Quando anche questo tentativo fallì, perché le Sezioni Unite della Cassazione respinsero le istanze presentate da Berlusconi e Previti al fine di ottenere che i processi a loro carico, per legittimo sospetto, venissero trasferiti da Milano a Brescia, venne dato il via all'approvazione del disegno di legge delega per la riforma dell'ordinamento giudiziario.

Non credo quindi si possa fare a meno di sospettare che, con la riforma dell'ordinamento giudiziario, si volesse dare sfogo ad un desiderio, più o meno conscio di controllare, in un qualche modo, la magistratura.

Significativo a tal proposito è il contenuto del maxiemendamento messo a punto nella seduta fiume del Consiglio dei Ministri, tenutasi appena un mese dopo la pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite.

Con detto emendamento non solo si gettavano i presupposti per la separazione delle carriere ma si poneva una seria ipoteca sull'autonomia e l'indipendenza della magistratura. Si prevedeva, infatti, che per accedere al concorso in Magistratura gli aspiranti avessero l'obbligo di indicare nella domanda se intendevano accedere alla funzione giudicante o a quella requirente del Pubblico Ministero, che le prove d'esame fossero distinte e diverse a seconda che si fosse chiesto l'accesso ad una o all'altra delle funzioni e che per passare da una funzione all'altra il magistrato dovesse attendere cinque anni e dovesse trasferirsi in una diversa sede di Corte d'appello.

Si prevedeva poi che il Procuratore Capo divenisse unico responsabile dell'ufficio di Procura; potesse delegare ai sostituti singoli atti o l'intera indagine, rimanendo sempre responsabile di tutti gli atti da questi compiuti.

Si prevedeva ancora che l'interpretazione del giudice che si discostava nettamente dalla lettera della legge e dalla volontà del legislatore costituisse illecito disciplinare (il riferimento alla interpretazione data dai pubblici ministeri e dai giudici in occasione della nuova legge sulle rogatorie era sin troppo evidente, posto che pubblici ministeri prima, e giudici dopo, erano stati, senza perifrasi, accusati di rifiutarsi di applicare quella legge contro il volere del Parlamento).

Com'è facile intuire la diversità delle prove d'esame, i numerosi ostacoli da superare per passare dall'una all'altra funzione, la previsione di complessi meccanismi che rendevano praticamente impossibile dopo cinque anni il passaggio da una all'altra funzione, avrebbero comportato, almeno di fatto, la separazione delle carriere. E ciò nonostante che la Comunità Europea, il 2 ottobre 2000 avesse raccomandato agli stati membri di adoperarsi perché venisse assicurata non solo l'indipendenza del Pubblico Ministero, ma anche l'interscambiabilità dei due ruoli: quelli di giudice e di Pubblico Ministero. Nonostante che gli Stati della Comunità a noi più vicini per tradizioni giuridiche, Spagna, Francia e Germania, quella interscambiabilità avessero sempre avuta e neppure lontanamente si fosse mai discusso di abolirla.

Quelle norme quindi, avrebbero potuto costituire il primo passo per sottoporre di nuovo il P.M. all'esecutivo, come richiesto d'altra parte, esplicitamente, da autorevoli esponenti di partiti del centro destra e dagli stessi rappresentanti dell'avvocatura.

È sin troppo facile rilevare che l'Italia, aveva già vissuto l'esperienza della subordinazione del P.M. all'esecutivo durante il ventennio della dittatura fascista e proprio per quelle esperienze, certamente non positive, per tutelare i principi fondamentali della democrazia appena nata, i nostri padri costituenti si preoccuparono di fissare, nella Costituzione, il principio dell'indipendenza dell'intera magistratura, del P.M. oltre che della giudicante, da ogni altro potere e di creare, per il governo della stessa magistratura, un organo di rango costituzionale: il Consiglio Superiore della Magistratura.

Ciò nonostante, c'erano voluti decenni perché alcuni Capi degli uffici di Procura si scrollassero di dosso i condizionamenti nei confronti dell'esecutivo.

Non a caso le sedi più importanti delle Procure, per essere gestite da Capi di ufficio in perfetta sintonia con il potere, erano state definite “porti delle nebbie”.

La sottoposizione del P.M. all'esecutivo, poi, avrebbe reso superflua la tutela dell'indipendenza del giudice.

A che sarebbe servito, infatti, un giudice indipendente, se il Pubblico Ministero, che è l'organo promotore dell'azione penale, seguendo i desiderata dell'esecutivo, non gli avesse sottoposto i casi in cui l'indipendenza avrebbe dovuto essere esercitata? Se le notizie di reato fossero state trattenute nel cassetto dal P.M., anziché trasmesse al GIP per l'archiviazione o, peggio ancora, archiviate con la corrispondenza ordinaria “al protocollo”, sul quale esercitano il controllo solo funzionari dello stesso Ministro di Giustizia, com'era avvenuto in passato ?

I rilievi mossi al testo del disegno di legge delega, ed al testo del maxiemendamento in particolare, da parte della Magistratura Associata, dalle forze dell'opposizione in parlamento, da autorevoli esponenti del mondo universitario e da eminenti costituzionalisti, alcuni dei quali avevano anche ricoperto la carica di Presidente della Corte Costituzionale, indussero la maggioranza a modificare, prima della approvazione del testo definitivo da parte dei due rami del parlamento, i punti maggiormente presi di mira.

Le modifiche non hanno però riguardato l'organizzazione verticistica, organizzazione che, comportando la possibilità per il Procuratore della Repubblica di gestire in prima persona tutte le notizie di reato e di imporre la sua volontà ai sostituti, anche con la revoca della delega, suscita non solo perplessità, ma desta serie preoccupazioni.

Né è stata abolita la progressione anticipata in carriera, per concorso per esami e titoli, progressione che crea i presupposti perché i magistrati che si dedicano ai concorsi siano predestinati a diventare i capi degli uffici. E ciò è particolarmente pericoloso posto che l'esperienza insegna che proprio coloro che privilegiano la carriera sono più sensibili alle lusinghe o alle pressioni dell'esecutivo.

Con i concorsi poi, si rischia non solo di spostare preziose energie dall'amministrazione della Giustizia di primo grado, la più importante certamente, in quanto una sentenza sbagliata allunga i tempi di definizione dei processi, ma anche di incentivare i magistrati a preoccuparsi più della carriera che del valore intrinseco delle proprie decisioni, inducendoli ad appiattirsi sulle interpretazioni della legge che sono state esplicitamente gradite dal governo e dalla maggioranza.

Con questo non voglio dire che l'ordinamento giudiziario non dovesse subire alcuna modifica. Ci mancherebbe altro. Quando nella precedente legislatura fu avanzata dal centro sinistra una prima proposta di modifica dell'Ordinamento Giudiziario che prevedeva, tra l'altro, una netta separazione delle funzioni, fui il primo a dichiararmi favorevole. Come condivido molti punti della nuova legge delega quali, l'istituzione della scuola superiore della Magistratura, la nuova composizione dei Consigli Giudiziari, la temporaneità degli incarichi direttivi, il controllo periodico della quantità e della qualità del lavoro svolto dai magistrati.

Intendo solo dire che una riforma così importante non doveva essere approvata, ignorando non tanto le osservazioni della magistratura, ma quelle dell'opposizione, alla quale o si è impedito di proporre ulteriori riforme all'originario disegno di legge, ricorrendo alla fiducia, com'è avvenuto alla Camera nel giugno 2004 o assegnando tempi di discussione ristrettissimi, come è avvenuto al Senato nel novembre successivo e di nuovo alla Camera da ultimo.

Non si può, insomma, procedere a colpi di fiducia quando una riforma deve essere fatta, e non può non essere fatta, nell'interesse di tutti i cittadini, perchè sia loro assicurata una una giustizia molto più rapida e giusta. Ed in tale direzione sarebbe stato certamente utile prevedere la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, dettando i criteri direttivi per individuare le dimensioni minime a renderli funzionali in relazione alla struttura accusatoria del processo. Sarebbe stato utile affidare le funzioni monocratiche, il potere cioè di decidere da soli, non ai magistrati di prima nomina come è stato fatto, ma a magistrati che avessero svolto per almeno tre anni funzioni collegiali, dando prova di professionalità, equilibrio e rispetto delle idee degli altri e delle funzione delle altre parti del processo.

Questo atteggiamento della maggioranza ci rende naturalmente diffidenti sulla volontà di destinare maggiori risorse ed attenzioni alla Giustizia e ci induce a ritenere che saranno ancora approvate ulteriori disposizioni legislative ad personam, quale la riduzione dei termini di prescrizione.

Carlo Petrini, inventore dello "slow food", è stato eletto da Time tra gli eroi d'Europa. Rivolta contro l'imperialismo della polpetta McDonald's, s'è detto. Desiderio di nutrimento che non sia soltanto bruta necessità biologica. Voglia di recuperare sapori e saperi di antiche cucine cancellate dal cibo di plastica dell'era global. Non c'è dubbio. Il fatto, che non a caso ha suscitato ampio scalpore, dice tutto questo. Ed è un segnale non da poco, tanto più che la nomination avviene col voto di tutti i lettori. Ma forse la lentezza invocata per i nostri pasti dice anche altro. In una società in cui - a sentire i sondaggi - la gente lamenta la mancanza di tempo più che di ogni altra cosa, compreso il danaro, forse si affaccia il rifiuto di vite costrette a ritmi sempre più affannati. Forse insieme al gusto di "slow food" sta nascendo la voglia di "slow life". E questo non può non significare critica radicale, anche se non chiaramente esplicitata, di una forma produttiva come quella dominante, e di quel drastico mutamento nell'organizzazione del tempo, nella sua percezione, nel suo uso, che (come mirabilmente Le Goff ci ha detto) il mondo industriale capitalistico ha imposto al mondo, e che tuttora dura, trovando anzi un andamento via via più celere. E' stata una netta cesura tra la lentezza delle società contadine, scandite dagli eterni ritorni di un tempo fisico, misurato sui processi biologici naturali, sulla ciclicità delle stagioni, sulla parabola vitale del corpo, e l'improvvisa accelerazione della storia e del vivere umano, obbligata dalla crescente velocità del macchinismo e dalla vincente filosofia del progresso. Un brusco passaggio da un tempo circolare, sempre uguale a se stesso, quasi un non-tempo, a un tempo evolutivo, lineare, astratto, teso a bruciare l'istante, proiettato verso il futuro. Tempo che - soprattutto - si scopre come qualcosa da potersi spendere e monetizzare, da potersi oculatamente impiegare e amministrare e mettere a frutto, secondo un preciso calcolo di profitti e perdite. Qualcosa che può essere venduto e comprato.

E' il tempo-danaro, che si impone con l'inevitabilità di una categoria universale quando il rapporto di lavoro salariato apre, accanto al mercato dei prodotti, il mercato dei produttori, dove di fatto si vende e compra tempo umano trasformato in merce, scambiabile alla pari di ogni altra. E diventa norma comune parlare e scrivere di "mercato del lavoro", nulla più che una variable economica. Da quel momento i tempi del lavoro comandano anche i tempi della vita. Il lavoro si afferma come regolatore dell'esistenza di tutti, anche di quanti non vi sono direttamente addetti, a scandirne gli orari, a predisporne l'impiego, a delimitare gli spazi di riposo e di svago. E se via via l'aumento di produttività consente la riduzione delle mostruose giornate di quindici, dodici, dieci ore, la giornata lavorativa va però dilatandosi assai oltre la sua durata contrattualmente prevista, negli spostamenti che l'urbanizzazione crescente comporta. Mentre lo stesso tempo libero sempre più massicciamente ridotto a consumo, si trasforma anch'esso in tempo di produzione, governato dalle stesse leggi. E' così che tutti si trovano a dover onorare la frenesia di programmi quotidiani, che prevedono il rispetto degli orari di lavoro e la lotta con il traffico bloccato e i ritardi dei mezzi pubblici, i bambini da accompagnare a scuola e poi a lezione di nuoto, inglese, danza classica, judo, la grossa spesa settimanale e le infinite commmissioni minori quotidiane, le mille operazioni burocratiche da soddisfare, le bollette le tasse le multe da pagare, qualcuna delle tante macchine e macchinette domestiche da riparare, il guardaroba da rinnovare, ecc. ecc. Il tutto da sommare, per lei, alla dura fatica di curare una famiglia e, per lui, agli straordinari spesso obbligati, ma anche ai piccoli e meno piccoli secondi lavori, e al weekend da non mancare, le vacanze da organizzare, i compleanni da non dimenticare, ecc. ecc. Il tutto all'insegna della velocità, della nostra civiltà simbolo e vanto, che sempre più prodigiose tecnologie vanno spingendo oltre l'immaginabile, e di cui ognuno doverosamente ma anche orgogliosamente si sente partecipe. All'interno di un impianto esistenziale, in cui far quadrare i tempi quotidiani diventa spesso più difficile che far quadrare i conti mensili, e di cui il "fast food" non è che una delle tante aberrazioni cui tutti si adeguano.

E' l'inevitabile portato di un modello produttivo che da sempre va assimilando a sé, in piena coerenza di modelli e segni, ogni aspetto della realtà antropologica in cui agisce, fino all'identificazione della razionalità sociale con la razionalità economica. Così, mentre per un lungo periodo il capitalismo industriale (sia pure con tutte le iniquità e gli sfruttamenti tremendi che sappiamo) andava oggettivamente migliorando le condizioni di vita dei lavoratori, al contempo si diffondeva e metteva radici un'ideologia che concepisce progresso e benessere solo in base alla quantità di merci prodotte, e all'incremento del reddito che ne consenta il consumo. I doveri dell'efficienza e del rendimento, i valori dell' utilitarismo, del carrierismo, del successo, della competitività, dilagavano assai oltre i territori dell'operare economico, in un processo al quale masse appena emerse dalla peggiore miseria non potevano che opporre debolissime resistenze, e le stesse organizzazioni dei lavoratori andavano via via adeguandosi. Di fatto accettando che il tempo industriale, così come va ritmando materie e corpi all'interno dell'universo produttivo, riduca alla propria misura l'esistenza di ognuno, prima come tempo-lavoro, poi come tempo-consumo. Fino a che la giornata - la vita - non basta più. E un tramezzino o un sacchetto di patatine trangugiati all'in piedi è quanto ci si può far entrare prima di ricominciare a correre.

Non so a che epoca risalga la popolare massima "Il tempo è danaro", ma certo è stato il capitalismo industriale a deciderne la fortuna, impossessandosi delle nostre vite. Perché dopotutto che altro è la nostra vita se non una certa quantità di tempo, un certo numero di anni mesi giorni ore minuti che ci è dato trascorrere su questo pianeta? E davvero merita considerare la nostra vita solo danaro, e venderla in toto alla produzione (o al consumo, che è lo stesso) accettandone senza discutere i modelli, gli imperativi, il senso e i ritmi? Non sarebbe il caso di provare a ritagliarci qualche pezzo di tempo (di vita) per il nostro uso, da impiegare liberamente al di fuori di ogni utilitaristica finalità, semplicemente da vivere? Oggi, è vero, interrogativi del genere incominciano a circolare, e a trovare spazio e ascolto più che non appaia. E forse anche il premio allo "slow food" significa più di quanto non dica letteralmente. Forse, appunto, è voglia di "slow life".

Una postilla: La qualità del tempo

Riconquistare il valore del tempo come durata, il tempo come vita, pone un altro problema, che da tempo (pardon) mi intriga: la qualità del tempo. Senza dilungarmi troppo in una considerazione abbastanza ovvia, sostengo che, ad esempio, passare dieci minuti sballottati in un autobus urbano o chiusi nel buco di una metropolitana è molto molto peggio che trascorrere mezz’ora o più in un vaporetto che solca i canali di Venezia. Questa è una delle ragioni per le quali sono nettamente contrario alla proposta (tenacemente caldeggiata dal sindaco Paolo Costa, uno dei peggiori che la città abbia avuto) di realizzare una metropolitana sublagunare per portare più rapidamente i turisti nella città storica. E questa è una delle ragioni per le quali penso che l’urbanistica sia una dimensione importante della società; essa puà consentire infatti (se orientata verso questi obiettivi) a organizzare la città in modo che la distribuzione delle funzioni e lo studio delle modalità di connessione tra loro renda i percorsi il più piacevole possibile. (es)

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"Abbiamo vinto", ha annunciato il comando americano da Falluja. Davvero? Migliaia di case distrutte, centinaia di migliaia di cittadini in fuga, un rapporto di 40 a uno dei morti iracheni rispetto agli americani e i conti finali non sono ancora stati fatti. Una vittoria o un massacro che danno una nuova feroce svolta alla guerra nel Medio Oriente?

Di certo Falluja rappresenta una svolta nella propaganda e nella retorica di questa guerra. Scompare uno dei grandi temi dell'intervento: la ricostruzione. Già difficile da capire alla vigilia della guerra, già paradossale, prometteva la ricostruzione di distruzioni che i ricostruttori si accingevano a compiere. E cercava di coprire i buoni affari che le ditte americane si ripromettevano di fare appaltando lavori. Lucrosi secondo le direttive degli esperti economici che seguivano l'armata.

La distruzione di Falluja, pare 50 mila edifici distrutti o danneggiati dai bombardamenti aerei e terrestri, dimostra che agli occhi del comando militare la distruzione è più importante della ricostruzione, dimostra che il futuro di una città di 300 mila abitanti conta meno che la lezione del terrore.

Questa svolta sul campo di battaglia apre interrogativi sul rapporto negli Stati Uniti fra politica ed esercito, fra la Casa Bianca e il Pentagono, che forse spiegano le dimissioni di Colin Powell, il generale che non amava la guerra. Ci si chiede se il massacro e la distruzione di Falluja siano stati imposti dal comando militare contro il parere del governo o se ormai il vero governo sia il gigantesco apparato di guerra che non sopporta di essere colpito e umiliato dalla ribellione.

Il no alla ricostruzione significa anche il no alla favola della democrazia che la virtuosa America voleva donare all'Iraq. Non è certo una tale barbara presentazione che può invogliare gli iracheni e in genere i popoli del Medio Oriente ad accettare un sistema politico e civile che gli è sconosciuto, ma che ostenta un totale disinteresse per le vite umane.

Falluja conferma agli occhi degli arabi e dell'Islam che i 'cristiani' d'America concepiscono la pace come una conquista, l'occupazione come un protettorato in cui l'occupante ha diritto di vita e di morte. Il primo ministro collaborazionista Ayad Allawi è andato oltre il comando militare americano nel giustificare il massacro, ha detto che a Falluja è stato ristabilito l'ordine mentre continua l'eliminazione dei superstiti sospetti di terrorismo, cioè di chi capita capita, cadaveri lasciati nelle strade perché su chi si avvicina sparano i cecchini con i fucili di alta precisione.

Falluja lascia il suo segno pesante anche sulla scelta politica del governo Bush appena rieletto e sui suoi rapporti con l'Europa. L'attacco a Falluja a lungo rinviato è scattato a rielezione avvenuta, segno che il potere politico si è allineato con quello militare per la continuazione di una politica aggressiva ed espansionista.

Lo conferma il rimpasto del governo da cui escono colombe come Powell e in cui entra un superfalco come Paul Wolfowitz e cresce la Condoleezza Rice, quella che alle obiezioni dei moderati risponde "me ne frego e tiro diritto". Una scelta che aumenta la distanza fra gli Stati Uniti e l'Europa, come dimostra il no parlamentare degli ungheresi al mantenimento del loro contingente.

Che dire di questa scelta che appare contraria a ogni ragione e che potrebbe aprire la strada a una catastrofe dell'umanità? Che la ragione non ha mai trattenuto gli aspiranti al dominio mondiale, non ha impedito a Napoleone di cacciarsi con la sua grande armata nei pantani spagnolo o russo, o l'imbianchino di Monaco di sfidare tutte le grandi potenze o al nostro Mussolini di entrare in guerra senza i soldati e i mezzi per farle. E non impedisce agli Usa di ripetere, a Falluja una pagina vergognosa.

Bianchi Bandinelli e la morte di Gentile

Luciano Canfora

la Repubblica del 12 agosto 2004

Caro Direttore, l´estate è sempre stata favorevole ai tormentoni parastoriografici. A volte ritornano gli stessi episodi, forse perché stimati più sapidi. La morte di Giovanni Gentile è uno dei preferiti. Così quest´anno abbiamo appreso (Corriere della sera dal 6 al 10 agosto) che Ranuccio Bianchi Bandinelli avrebbe da semplice «simpatizzante» del PCI, il 15 aprile del 1944, mandato nientemeno che un commando gappista, la più segreta delle organizzazioni militari comuniste nella Resistenza, ad ammazzare Gentile. (Solo vari mesi più tardi, il 7 settembre, Bianchi Bandinelli si candidò ad essere accettato nel partito). Che qualcosa del genere potesse accadere lo può credere chi sia del tutto ignaro della storia di quei mesi.

Quando Gentile fu ucciso, appunto il 15 aprile del ´44, tre professori furono presi in ostaggio «per rappresaglia»: Calasso (il padre dell´editore), Codignola e Bianchi Bandinelli. Furono rilasciati dopo circa un mese per intervento fermo ed efficace della famiglia Gentile. Il 10 maggio Bianchi Bandinelli, che era legato loro da antica data, scrisse a Federico Gentile questa lettera che solo un dietrologo alquanto banale può ritenere frutto dell´ipocrisia di un criminale incallito: «Caro Federico, nella tragedia acerbissima che si è abbattuta sulla vostra famiglia (e che posso ben valutare conoscendo quanto uniti tutti voi foste sempre a Vostro padre e quanto Egli vi dava di se stesso) unica notizia di qualche consolazione fu quella del tuo ritorno». (L´ha pubblicata, in un eccellente saggio sul grande archeologo, Marcello Barbanera, Skira, Milano, 2003, pag. 170: in fondo i libri è meglio leggerli).

Suisola, uno dei componenti il commando, dichiarò il 12 maggio 1981 al Giornale di Montanelli: «L´ordine di colpire Gentile ci venne via Radio dal comando alleato». Benedetto Gentile, figlio del filosofo, nel 1951 pubblicò un importante saggio sulla fine di suo padre, pieno di dignità e di concretezza, dove si legge (pag. 55): «Avvenuto per mano dei gappisti fiorentini, il fatto ha naturalmente radici più lontane. Notizie attendibili pervenute dopo l´arrivo delle truppe ?alleate´ in Firenze accennarono a istruzioni esplicite fatte giungere da ufficiali di collegamento presso il Servizio Informazioni delle truppe britanniche operanti in Italia ai centri della Resistenza in Toscana». Non c´è nulla di più inedito dell´edito.

Chi si schierava, rischiava la morte" Simona Poli intervista Claudio Pavone

la Repubblica dell’11 agosto 2004, edizione di Firenze



Non era a Firenze durante i giorni della Liberazione. Il partigiano Claudio Pavone, classe 1920, in quell´agosto di lotta si trovava nel carcere di Castelfranco in Emilia, tra Bologna e Modena, poco distante dalla linea del fronte. Studioso del periodo bellico, autore di saggi e libri sulla Resistenza, già docente di Storia contemporanea all´università di Pisa, Pavone ricorda oggi che cosa significò per lui, chiuso in prigione, la notizia della liberazione di Firenze.

Quell´11 agosto pensò che la fine della guerra fosse più vicina?

«Sì, fu un passaggio importante perché Firenze poteva segnare una delle tappe finali dell´offensiva estiva che si doveva concludere nella valle Padana. Poi invece seguì la grande delusione, ci aspettavano altri mesi difficili. Alla fine di agosto riuscii ad uscire dal carcere e andai a Milano, quindi vissi quella fase altalenante tra speranze e disillusioni un po´ più da lontano».

Nei suoi scritti lei ha spesso sottolineato come la lettura degli eventi storici si arricchisca sempre di elementi diversi, di nuove interpretazioni. Come trasmettere allora la memoria di quei fatti senza tradire lo spirito che vi animava allora?

«E´ normale ed è anche giusto, direi, che l´interpretazione che si dà di grandi fatti storici cambi via via che ci si allontana da quegli eventi. I passaggi importanti sono quelli generazionali. Noi, testimoni e protagonisti della Resistenza, siamo ormai i nonni e quindi sarebbe assurdo pensare che le domande che ancora pone a noi la nostra memoria fossero le stesse di quelle che si pongono i giovani».

Rileggere la storia non sempre è un´operazione neutra.

«Certamente. Come esiste il rischio della mummificazione così esiste anche quello della revisione, realizzata non studiando i fatti ma capovolgendo i giudizi che sono stati dati. E´ bene mettere in luce episodi che erano stati taciuti ma senza per questo indurre a credere che in fondo le parti in lotta si equivalessero, quasi che ci fossero in campo due minoranze di faziosi che si combatteveno per le loro fedi. I morti vanno rispettati tutti ma da morti. Da vivi erano su fronti opposti».

Come nel resto d´Italia anche a Firenze la Resistenza fu vissuta, fiancheggiata, partecipata dalla gente.

«Questo è un aspetto importante, che è stato travisato e strumentalizzato. Non è vero che "la gente non stava da nessuna parte", che "il buon popolo italiano" non parteggiava né per i fascisti né per i partigiani. Si trattava di stare dalla parte della libertà, non esisteva solo la Resistenza armata di chi imbracciava il fucile. Non si può dimenticare quanti rischiarono la vita offrendo il loro aiuto e la loro opera senza armi in pugno. Questa sorta di "indifferenza della gente" è un modo offensivo di raccontare il popolo italiano, mentre in tutta l´Europa è stato valorizzato il concetto di Resistenza civile. Da resistente ho vissuto quella sensazione, sapevo che le probabilità di incontrare persone che non mi avrebbero denunciato era superiore a quella contraria».

Fascismo e comunismo sono due parole che non hanno più riferimenti concreti nell´attualità. Sarà più difficile per i ragazzi di domani capire cosa accadde in quegli anni?

«Forse sì, se si continua a pretendere di raccontare la storia di un popolo tutto in armi. Ma non se si farà comprendere la tragicità della situazione e le scelte dolorose di fronte a cui si trovarono gli italiani. Lasciando intatte nella ricostruzione tutte le sfumature di quel periodo, evitando di affondare in una gelatinosa uguaglianza sotto cui si introduce una rivalutazione della Repubblica Sociale. Ovviamente c´era una vasta varietà di atteggiamenti, molta gente non si esponeva e tirava a campare, anche questo scenario va rappresentato. Ma una domanda che i giovani potrebbero fare è: che cosa distingue la violenza dei fascisti dalla violenza partigiana? Bisognerà rispondere spiegando che da una parte c´era la libertà, dall´altra il nazifascismo. Nessuna pretesa di buona fede può essere tirata in ballo per chi si schierava a fianco di Hitler e Mussolini».

Eppure la decisione del Comune di Firenze di intitolare una strada a Bruno Fanciullacci, il partigiano che uccise il filosofo Gentile, ha suscitato molte proteste da parte di An.

«In una guerra civile - anche se questa definizione è stata bandita dalla sinistra -nessuno che si schieri con grande nettezza è immune dal rischio di essere ammazzato. Personalmente provo ripugnanza a credere che se si uccide un grande intellettuale si fa qualcosa di male mentre invece se si ammazza un qualsiasi ragazzo di diciotto anni non è così. Gentile si è schierato ed è morto di morte violenta come tanti altri. Ha torto chi condanna quell´uccisione».

L´Italia che nacque dalla Resistenza fu quella che aveva sognato?

«Chi aveva visto la Resistenza come un´utopia è sicuramente andato incontro a molte delusioni, ma non tutta la Resistenza è stata tradita, anche i moderati hanno combattuto e vinto. La scelta della Repubblica e la Costituente furono due conquiste gigantesche. Allora della nostra Costituzione ero incline a vedere i difetti, adesso che vogliono stravolgerla ne apprezzo tutti i pregi. Teniamocela cara quella Carta».

L´indicibile orrore della strage di bambini nella scuola di Beslan provoca tre diversi tipi di reazione: la rassegnazione, l´anatema e la chiamata alle armi, l´analisi dei fatti.

Prima di entrare nel merito di quanto è accaduto, del come e del perché dell´orrore e anche del che fare esattamente tre anni dopo l´11 settembre 2001, voglio esaminare quelle tre diverse reazioni che agitano l´animo di ciascuno e di tutti gli uomini e le donne che abitano il pianeta e che hanno il privilegio di poter sollevare la testa dalle ciotole di riso e dalla brocca d´acqua inquinata che sostentano la loro breve e devastata esistenza. Perché per quei due miliardi di dannati non c´è orrore che possa scuoterli dall´incombente agonia che grava su di loro e sui loro già condannati bambini.

La rassegnazione. E l´assuefazione. Chi vi dice che porteremo per sempre negli occhi le immagini di quei bambini seminudi, sporchi di sangue, con la morte negli occhi o già scomposti cadaveri ammucchiati l´uno sull´altro o feriti e gettati sui camion in corsa verso inesistenti ospedali come gli appestati buttati sulle carrette dei monatti; chi vi dice che non saranno mai dimenticati e che serviranno almeno da monito affinché i fatti orribili non si ripetano, mente e sa di mentire.

Anche l´orrore si cancella, anzi soprattutto l´orrore. Per sopravvivere la gente lo rimuove. Lo elabora. Lo digerisce. Lo dimentica. O ci si abitua.

Impara a conviverci. Chi pensa ancora ai morti di Hiroshima e Nagasaki? Chi ai lager staliniani? Chi ai forni dell´olocausto? La sera di venerdì, dopo le raccapriccianti immagini della strage dei bambini, le televisioni di tutto il mondo hanno cambiato registro e noi con esse. Varietà, serate estive al suono di cariocas o di languide canzoni. Da noi si discettava su questa o quella attricetta in transito a Venezia e Amadeus riproponeva con diligenza i suoi quiz demenziali.

L´orrore? Certo, ma a dosi omeopatiche. Se è fatale conviverci rassegniamoci perché contro la fatalità non c´è che opporre la rassegnazione.

Israele insegna. I palestinesi di Gaza insegnano. I superstiti di tutte le guerre insegnano. Dopo il mattatoio delle trincee esplode l´età del jazz. Così va il mondo. Bisogna pur sopravvivere, non è vero? L´anatema e la chiamata alle armi. Tutti insieme contro l´immonda, diabolica, disumana genia terrorista. «Li inseguiremo anche nei cessi e li stermineremo» ha detto Putin quando lanciò la seconda guerra cecena cinque anni fa. «Questa è la quarta guerra mondiale, durerà più delle altre, ma vinceremo anche questa» ha detto Bush alla sua folla plaudente. Le cose non stanno andando così, ma sono passati solo tre anni, siamo ancora al preludio, l´orchestra suona, i lutti e le stragi si moltiplicano, ma il sipario non si è ancora aperto. Dalle montagne afgane la metastasi del terrore globale si è diffusa in tutto l´universo musulmano. Può darsi che qualche errore sia stato commesso, ma ora bisogna guardare al futuro e chi non salta terrorista è. Si vuole forse cambiare il timoniere mentre infuria la tempesta? Noo. Più forte, non ho sentito. Noooo. Dunque avanti e senza quartiere. Verso dove? Non si sa.

Contro quale quartiere? Non si sa. È una guerra senza frontiere. Appunto.

Senza eserciti tranne quello attaccante. Appunto. Globale. Appunto. Il nemico può essere il tuo vicino di casa. Ma «non c´è uomo più capace di proteggerci tutti di mio marito»: parole di Laura Bush. Lei sì che se ne intende.

L´analisi dei fatti. Si può ancora avventurarsi su questo periglioso sentiero sempre più stretto? Si può ancora distinguere? Personalmente non sono mai stato favorevole al «senza se e senza ma» e neppure al punto di indifferenza del «né con questo né con quello». Mi piace sapere dove sto e con chi. E sto con la democrazia, con la libertà, con lo spirito critico. E sto per mia fortuna in buonissima compagnia. Sto con la ragione, perciò distinguo.

A Milano quando si vuol dare del matto a qualcuno si dice che la sua testa è andata insieme, cioè ha perso la capacità di distinguere.

Questo è lo spirito critico, liberale e democratico, da Montaigne a Voltaire, da Kant a Bertrand Russell. Una buona compagnia, non vi pare?

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Il terrorismo nazionalistico è cosa diversa dal terrorismo ideologico e globale. Ha un obiettivo preciso e lotta per realizzarlo. Si deve presumere che se vi riuscisse si placherebbe. Le prove ci sono. In Algeria si placò quando la Francia si ritirò da quella terra che nel frattempo era diventata un dipartimento francese. In Irlanda si è placato, salvo reviviscenze sporadiche alimentate da fanatismo religioso e di clan. Nei paesi baschi forse si placherà se Zapatero riuscirà ad attuare il suo programma federale.

In Palestina non ci si è mai provato seriamente, non si è mai riusciti a vincere le resistenze dell´estrema destra israeliana e dei gruppi radicali palestinesi. L´ultimo tentativo fu quello della «roadmap» proposta da Usa, Europa, Onu. Ricordate Bush e Blair l´indomani dell´11 settembre? Spegnere l´incendio in Medio Oriente è la priorità numero uno dissero; prima ancora di dare inizio concreto alla guerra contro il terrorismo quella sarà la nostra prima preoccupazione.

Parole sagge, alle quali tutti consentirono con rinnovato entusiasmo e speranze. Parole che rimasero parole. La guerra scoppiò in Afghanistan e il governo talebano fu smantellato in un mese. Troppo poco e troppo debole militarmente il nemico per soddisfare il legittimo (?) desiderio di vendetta del popolo americano. Troppo poco politicamente per dare base duratura al consenso di massa conquistato da Bush sul cratere di Ground Zero.

Ci voleva una guerra vera, una guerra seria, anche se preventiva. Anzi, meglio se preventiva purché motivata da buone ragioni (che purtroppo si rivelarono inesistenti). E meglio se solitaria, insieme a qualche ascaro volenteroso, per dimostrare che l´Onu era un arnese arrugginito e inutile e che la vecchia Europa era un salotto pieno di tarli e di pretenziosi professori che spaccano il capello in quattro pur di non mettersi in riga e non battersi agli ordini del Presidente. Sissignore, signore.

Così ci fu la guerra irachena, che durò addirittura meno di quella afgana.

Miracolo. Ma anche guaio. Venti giorni di battaglia contro il nulla che guerra è? Con un paio di dozzine di morti tra le truppe americane e altrettanti uccisi da «fuoco amico». In compenso le perdite tra i civili iracheni furono qualche migliaio e tra loro parecchi bambini. I bombardamenti erano mirati ma qualche volta la mira era sbagliata. In compenso il comando americano chiedeva scusa. Non basta?

Il fatto non previsto fu una notevole ribellione diffusa nella popolazione.

Ringraziavano di essere stati liberati dal tiranno, ma non volevano essere terra d´occupazione. Volevano ricostruzione e sviluppo ma non i «Marines» tra i piedi. Invece ebbero i Marines ma pochissima ricostruzione e niente sviluppo. Qualcuno cominciò a innervosirsi, qualcun altro mise mano ai fucili (ce n´erano in abbondanza) alle mine, alle bombe.

I Marines fecero il loro mestiere che non è propriamente quello delle suore di San Vincenzo. Ma come sempre accade in simili frangenti, per ogni facinoroso ribelle ucciso ne sorgevano altri dieci. Si infiammò il problema sunnita. Si lacerò il fronte sciita. Apparvero bande di tagliaborse e di tagliagola.

Dalle frontiere colpevolmente incustodite arrivò un fiume di uomini di mano e di coltello e tra loro - oh, sorpresa - gli adepti di Bin Laden. Il resto è cronaca attuale. Signori della guerra in Afghanistan, signori della guerra in Iraq. Terrorismo globale intrecciato con terrorismo locale. Tirannia e ordine con Saddam, libertà (?) e disordine sotto Bremer, proconsole di Bush.

Governi-fantoccio a Kabul e a Bagdad. Due dopoguerra catastrofali. Scrivemmo allora: hanno scoperchiato il vaso di Pandora, hanno liberato i venti devastanti di Eolo.

Questo è accaduto e questo perdura. Uniamoci tutti, siamo tutti sulla stessa barca. Ma si vorrebbe anche sapere chi deve stare ai remi e chi al timone. «Non daremo deleghe per la sicurezza dell´America» parola di Bush.

Appunto. Kofi Annan l´ha capito subito, infatti da Bagdad se n´è andato e non mostra di volerci tornare. Per fare che cosa?

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Il terrorismo di tipo Al Qaeda non ha ancora conquistato l´Iraq e non lo conquisterà perché gli iracheni sono orgogliosi come tutti gli arabi. Per di più sono in maggioranza sciiti, come gli iraniani, mentre Al Qaeda insegue il sogno del califfato sunnita e wahabita.

Però Al Qaeda è riuscita a costruire una sua piattaforma operativa in Iraq dalla quale condiziona non poco le vicende irachene. Allawi, il presidente del governo-fantoccio, fa il resto. Deve essere l´uomo forte per conto dell´America. Portare il paese alla democrazia entro due anni. Con la mano di ferro.

Dieci giorni fa ha toccato con mano che Al Sistani, la guida spirituale sciita, conta molto più di lui. E che Al Sadr, il ribelle da quattro soldi che l´ha tenuto in mano per settimane, ora vuole «scendere» in politica. In una democrazia «religiosa» non c´è posto per Allawi.

Bernardo Valli ha spiegato ieri perché i prigionieri francesi non sono ancora stati liberati. Perché Allawi non schiera la sua truppa per render sicura la strada che da Falluja porta all´aeroporto di Bagdad. Perché i soldati Usa stanno combattendo l´ennesima battaglia contro il fortilizio sunnita di Falluja. La Francia, appoggiata da tutta la sua comunità islamica, da tutti i governi moderati della regione, ma perfino dalle organizzazioni terroristiche palestinesi che non si vogliono confondere con Al Qaeda, perfino dai Fratelli musulmani egiziani e dagli Hezbollah libanesi, ha dimostrato di quale prestigio goda nel mondo arabo. La Francia non ha seguito gli Usa sul terreno iracheno, ma non ha ceduto di un palmo alle richieste ultimative dei sequestratori.

Perché mai Allawi dovrebbe facilitare il rilascio degli ostaggi francesi? Per lui sarebbe un´altra sconfitta. Risulterebbe che esiste un altro modo per combattere il terrorismo e non cedere ai suoi ricatti. Allawi non ha interesse a far risultare che esiste un altro modo. Neanche Bush ha interesse. E Putin?

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Putin è un´altra cosa ancora. L´ha spiegato molto bene ieri su queste pagine Sandro Viola.

Putin ha legato la sua fortuna politica alla normalizzazione della Cecenia.

In una Russia democraticamente inesistente il potere di Putin si basa sul segreto irresponsabile. Di quel che fa non risponde a nessuno. I morti del teatro Dubrovka, i morti del sommergibile atomico nello stretto di Bering, i morti dei Tupolev fatti esplodere da due kamikaze cecene che avevano occultato l´esplosivo nelle vagine. Crimini orrendi dei terroristi. Insufficienza totale e disprezzo della vita degli ostaggi da parte delle squadre speciali Alfa e Beta.

Putin non parla, nessuno glielo impone né in Russia né nel mondo democratico. Bush solidarizza con lui e lo assolve da ogni errore e peccato.

Berlusconi segue a ruota. La Cecenia è un cimitero? Grozny è un ammasso di rovine? La tortura è prassi abituale delle truppe russe? La disoccupazione al 90 per cento?

Poco importa. Trecentoventi ostaggi ammazzati, di cui la metà ragazzi e bambini. «Li inseguiremo nei cessi».

Oggi Putin ha interesse ad accreditare la tesi che nella scuola di Beslan c´erano anche terroristi di Al Qaeda. Prove non ci sono, ma Bush gli crede sulla parola e rilancia. Se è Al Qaeda a perpetrare la strage dei bambini non si tratta più di Cecenia. La questione cecena viene cancellata dall´agenda.

Come accadrebbe se al posto di Hamas in Palestina ci fosse Bin Laden.

Putin vuole internazionalizzare la questione cecena ma riservare esclusivamente a sé il ruolo di timoniere. In Iraq non ci vuole andare neanche lui, ma è un assente giustificato. Infatti ha altro da fare.

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