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NEL pasticcio mediatico-diplomatico creato da Berlusconi sulla questione del ritiro dall´Iraq, la sola vera notizia che resta in piedi è la "non-notizia". Il presidente del Consiglio, a poche ore di distanza dal cancan sollevato a Porta a porta il 15 marzo, l´ha addirittura teorizzata; ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al presidente della Camera: "Non verrò in Parlamento come chiede l´opposizione. Che cosa verrei a dire? Dovrei forse commentare una non-notizia?".

In un certo senso ha ragione, ma in un altro senso ha invece torto marcio. Resta infatti da chiarire perché sia andato in televisione per lanciare sulle onde dell´etere una non-notizia che ha fatto in pochi minuti il giro del mondo suscitando precisazioni e richieste di chiarimenti da parte di Bush incalzato dalla stampa americana, precisazioni e smentite da parte di Blair dinanzi ai Commons, disagio nel ministro degli Esteri Gianfranco Fini, irritazione vivissima al Quirinale.

Tutto questo bailamme per una non-notizia? Una gaffe madornale (l´ennesima) del premier italiano? Un rischio calcolato a fini elettorali? Oppure l´autentico desiderio di preparare uno sganciamento dall´amico americano senza però la forza di realizzarlo, facendo macchina indietro dinanzi all´immediato richiamo all´ordine da parte della Casa Bianca? Ezio Mauro, il giorno stesso in cui la non-notizia è rimbalzata sui tavoli delle redazioni, ne ha individuato esattamente la natura: uno spot pubblicitario per riassorbire il distacco crescente della maggioranza dell´opinione pubblica dalla presenza italiana in Iraq; un gioco delle tre carte condotto spregiudicatamente su un tema delicatissimo che vede in gioco la stessa incolumità dei militari italiani a Nassiriya; una perdita drammatica di credibilità del nostro paese sulla scena internazionale.

«Ma nel tuo paese c´è ancora tanta gente che crede a queste panzane?», mi ha chiesto un collega inglese che aveva appena ascoltato le dichiarazioni di Blair a Westminster. Spero di no, gli ho risposto, ma francamente non ne sono sicuro.

Il tema dunque è questo: il presidente del Consiglio prepara e lancia spot pubblicitari con la connivenza d´un eminente giornalista del servizio pubblico televisivo (che si guarda bene dal metterlo in difficoltà) nel tentativo di riguadagnare un consenso che sta perdendo, e usa per questa indecente operazione niente meno che il tema della pace e della guerra, incurante del fatto che abbiamo in Iraq più di tremila soldati, blindati in una sorta di fortezza dei Tartari, a rischio di azioni di terrorismo e di guerriglia di cui spot così irresponsabili potrebbero elevare l´intensità e la pericolosità.

Questo tema, secondo me, non è ancora stato ben valutato né dalle forze politiche della maggioranza ma neppure (spiace dirlo) da quelle dell´opposizione.

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Ci voleva poco a capire che l´exit strategy berlusconiana era totalmente inesistente. Bush, che parla per tutta la coalizione dei "volenterosi" l´aveva già detto subito dopo le elezioni irachene del 30 gennaio: «Nessuno più di noi desidera riportare a casa i nostri soldati. Non resteremo in Iraq un giorno di più del necessario, ma neppure un giorno di meno. Ce ne andremo quando le forze della polizia e dell´esercito iracheno saranno in grado di garantire la sicurezza del paese e quando il governo iracheno ce lo chiederà».

Il 15 marzo Berlusconi ha ripetuto questa frase quasi compitandone il contenuto. Ma con una aggiunta: «Ferme queste condizioni, cominceremo a preparare un graduale ritiro entro il prossimo autunno». «Quando esattamente?», ha chiesto il conduttore della trasmissione. «A settembre» ha risposto il premier. «Questa sì che è una notizia», ha chiosato il conduttore adorante.

Invece no, era ovviamente una non-notizia, vincolata a una serie di condizioni molto lontane dall´essere adempiute. Le forze di sicurezza irachene sono ancora scarse, impreparate, inaffidabili, a detta degli stessi generali americani incaricati della loro istruzione.

Guerriglia e terrorismo insanguinano l´Iraq sunnita (e non solo quello) ogni giorno. L´Assemblea nazionale votata il 30 gennaio si sta ancora accapigliando perché sciiti e curdi litigano sul federalismo, sulla legge coranica, sul petrolio di Kirkuk. In più, nel corso dei prossimi mesi, dovrà esser votata la Costituzione e, entro il gennaio 2006, un´altra assemblea che dovrà eleggere un governo definitivo (quello attuale è provvisorio).

In queste condizioni parlare di ritiro dai «volenterosi» cominciando dal prossimo settembre è pura chimera, a meno che non si tratti d´una decisione unilaterale come fecero gli spagnoli di Zapatero e come hanno deciso di fare i polacchi e gli ucraini.

«Presidente, perché ha parlato di settembre?» gli ha chiesto il 16 marzo un cronista dell´Unità. «Perché noi crediamo, anzi io credo, che a settembre le forze di sicurezza irachene istruite da noi saranno pronte ad entrare in azione», ha risposto il premier. Ed è vero, a settembre i militari italiani che a Nassiriya addestrano un contingente di poliziotti iracheni avranno terminato il corso di istruzione di qualche centinaio di unità. Voleva dire il nostro premier che in quel momento ce ne andremo per esaurimento del nostro compito? Neppure per sogno. Bush non ha alcun bisogno "militare" delle truppe italiane a Nassiriya, dove il potere reale è nelle mani delle tribù sciite come in tutto il Sud del paese. Ma Bush ha bisogno "politico" dei soldati italiani. Se ce ne andassimo infatti, i soli "volenterosi" resterebbero gli anglo-americani. Noi non abbiamo nessun compito da svolgere; la preparazione dei poliziotti iracheni poteva essere tranquillamente fatta fuori dal territorio di quel paese, come hanno deciso di fare la Francia e la Germania; l´assistenza alla popolazione potrebbe essere condotta dalla Protezione civile e dai volontari, con molto minore costo.

Noi siamo a Nassiriya soltanto per ragioni politiche che consentono a Bush di mantenere la facciata del multilateralismo e a Berlusconi di sostenere l´esistenza di un rapporto preferenziale tra Usa e Italia e quindi di una crescente importanza del nostro Paese sulla scena internazionale.

Dunque a settembre non esisteranno le condizioni per iniziare l´exit plan che esiste solo nella testa di Berlusconi. Ma la non-notizia lanciata a metà marzo, venti giorni prima delle elezioni regionali, sarà potuta servire a recuperare qualche consenso da parte degli elettori della Casa delle Libertà, indignati dall´uccisione del nostro agente segreto al check-point dell´aeroporto e disincantati dalle tante panzane berlusconiane. «Esiste ancora gente che gli crede?» ebbene sì, esiste ancora. E così uno statista da operetta gioca con la credibilità internazionale del Paese.

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Piero Fassino e Massimo D´Alema hanno capito fin dall´inizio la natura della patacca berlusconiana. Patacca in sé. Noumeno di patacca. Ma non ci hanno insistito quanto quel noumeno avrebbe forse meritato. Prodi ha preferito non parlare, ma forse, a volte, l´eleganza non buca il video. Le altre reazioni si possono suddividere in due categorie.

La prima, della cosiddetta sinistra radicale, ha lo stigma di Sigonella, quando l´allora premier Bettino Craxi coprì un´illegalità del suo governo denunciando l´illegalità eguale e contraria del governo americano, che pretendeva di spadroneggiare nella base militare di Sigonella. La sinistra italiana (allora il Pci) non vide la prima illegalità con la quale furono sottratti dal governo alla magistratura italiana alcuni pericolosissimi terroristi mediorientali, ma applaudì entusiasticamente il premier italiano che una volta tanto aveva messo in riga gli americani. Così nel caso di Berlusconi, lo stigma di Sigonella si è fatto sentire ancora una volta e la sinistra radicale ha puntato sul premier «che sembrava prendere le distanze dalla Casa Bianca».

Il secondo tipo di reazione, del centrosinistra riformista, è stato di prendere sul serio Berlusconi sostenendo che finalmente il premier si spostava sulla linea dell´opposizione rendendo possibile a quest´ultima di convergere con la maggioranza «guardando al futuro».

Pessime entrambe queste reazioni, che avevano capito niente o ben poco della vera natura della patacca lanciata a Porta a Porta.

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Dedico qualche riga finale al prestigio internazionale dell´Italia che deriverebbe dal preteso asse Washington-Roma del quale la nostra presenza militare in Iraq sarebbe al tempo stesso causa ed effetto. A parte il fatto che di special relationship vera e reale con Washington ce n´è una sola ed è quella britannica.

Il filo diretto tra Berlusconi e Bush, se si prescinde dalla cosiddetta politica delle pacche sulle spalle, non ha dato all´Italia nessun vantaggio concreto in termini politici, strategici, economici. Ma per ovvie ragioni ha marginalizzato l´Italia rispetto all´Unione europea e alle nazioni che ne costituiscono il nucleo principale.

Il recente viaggio in Europa di Bush e di Condoleezza Rice, che ha gettato le basi di una ricucitura tra Usa da un lato e Germania e Francia dall´altro, ha del resto diminuito il peso del governo di Roma anche agli occhi dell´amico George. Berlusconi poteva servire per dividere l´Europa, ma serve molto di meno da quando l´America si è accorta d´aver bisogno dell´Unione europea e non di un suo membro soltanto.

Queste considerazioni dovrebbero spingere il nostro governo ad una profonda revisione della sua strategia internazionale. Ma un governo pataccaro non sembra il più adatto alla bisogna.

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Post Scriptum. Miriam Mafai ha benissimo scritto ieri sull´invadenza crescente e non più oltre tollerabile della gerarchia ecclesiastica italiana, cardinal Ruini in testa, nella politica del nostro paese. I continui interventi dei vescovi sulle modalità del voto nel prossimo referendum vanno assai al di là del caso specifico pur importantissimo e violano i rapporti di correttezza tra due entità, lo Stato e la Chiesa, che il Concordato stabilisce indipendenti e sovrani nelle relative sfere di competenza.

Da interventi siffatti viene distrutto il principio stesso della laicità delle istituzioni civili e dei cittadini che esse rappresentano.

Nessuno nega alla gerarchia ecclesiastica il diritto di parlare e di diffondere liberamente i dogmi della sua dottrina e i valori della sua morale. Nessuno le impedisce, nella fattispecie, di sostenere che l´embrione è vita umana e attuale (anche se i padri della scolastica con san Tommaso in testa affermavano diversamente) e che distruggerlo equivalga ad un omicidio. Il Papa è addirittura arrivato a paragonare l´aborto alla Shoah.

Ciò che invece la gerarchia ecclesiastica non può fare senza violare clamorosamente le norme concordatarie è prescrivere il comportamento dei cattolici e in generale degli elettori per quanto riguarda le modalità del voto in una consultazione elettorale prevista dalla Costituzione italiana.

I vescovi sono arrivati al punto di definire «immaturi» quei cattolici che andranno a votare al referendum e invece «maturi» solo quelli che si asterranno dal voto. E così risulteranno immaturi i cattolicissimi Scalfaro e Andreotti. E naturalmente immaturo Romano Prodi che ha detto di essere tenuto ad obbedire alla propria coscienza di cattolico ma non ad obbedire al «non expedit» dei vescovi.

L´arcivescovo di Genova dal canto suo ha prescritto ai cattolici di non leggere il libro "Il Codice da Vinci". I parroci d´un piccolo paese di Calabria nel quale il filosofo Gianni Vattimo si presenta come candidato sindaco, parlano in chiesa dal pulpito vincolando i fedeli a votargli contro.

Tutti questi casi, dal più grande al più piccolo, sono violazioni macroscopiche del Concordato. Alcuni di essi configurano addirittura reati penali per i quali le Procure della Repubblica dovrebbero intervenire.

Spiace che un cattolico democratico come Enrico Letta, figura eminente d´un partito di centrosinistra, annunciando che si asterrà dal voto referendario (cosa che rientra nella sua libera decisione) non spieghi almeno le ragioni che lo inducono a ignorare le motivazioni dei requisiti referendari. Spiace soprattutto che, assumendo lo stesso comportamento raccomandato dal cardinale Ruini, non aggiunga di considerare in debito l´intervento della gerarchia vescovile che getta più di un´ombra sulla laicità dei cattolici quando essi decidono autonomamente di adottare il comportamento dell´astensione.

Quisquilie? Al contrario. Principi essenziali della convivenza civile. Il non expedit cadde con la firma del Concordato del ‘29. Ci si ritorna 76 anni dopo? E i cattolici della Margherita accettano senza fiatare questo rigurgito clericale? Speravamo che fossero usciti di minorità. Ci eravamo dunque illusi?

Non è un atto formale l'adesione immediata della Cgil alla manifestazione di sabato prossimo per la liberazione di Giuliana, Florence, Hussein, tutti i rapiti e il popolo iracheno. Dal momento in cui si è diffusa la voce del rapimento della nostra inviata a Baghdad, i segnali da corso d'Italia non si sono fatti attendere. Già nella manifestazione promossa al Campidoglio dal sindaco di Roma Walter Veltroni, il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani aveva portato la sua solidarietà. Cgil non vuol dire soltanto il suo segretario e il gruppo dirigente nazionale. Cgil vuol dire categorie, come ad esempio la Fiom, i cui segretari sono subito venuti in redazione per dirci: siamo con voi, come possiamo aiutarvi? Cgil vuol dire decine di Camere del lavoro che hanno svolto un ruolo determinante nell'organizzazione di cortei, presìdi, sit-in, fiaccolate. E già da ieri, chi intende partecipare alla manifestazione - speriamo la festa per l'avvenuta liberazione di Giuliana - di Roma, è alla Camera del lavoro della sua città che telefona, per sapere se sono già stati organizzati pullman o treni. Guglielmo Epifani ha contribuito, anche personalmente, a non farci sentire soli in questo momento drammatico per la redazione del manifesto. Per questo gli abbiamo chiesto di spiegare ai lettori come questo momento viene vissuto nella sua organizzazione.

La Cgil sabato sarà a Roma con noi, per la pace e per la liberazione dei prigionieri in Iraq. Con quali contenuti e motivazioni?

E' presto detto: la solidarietà, che ci fa stare vicini a Giuliana, al manifesto e a chi svolge in Iraq il lavoro prezioso quanto pericoloso di raccontare la verità, parlando con la popolazione civile. La seconda ragione è che in questi momenti bisogna fare, tenere sveglia l'attenzione e viva la coscienza di tutti. Non si può restare fermi, dobbiamo mettere in campo tutto quel che possiamo. Anche per questo è necessario che tutte le componenti della società che in questi giorni trepidano per la sorte di Giuliana e gli altri rapiti restino unite e unite manifestino sabato prossimo. E' importante e positivo che l'intero sindacalismo confederale abbia aderito; sia pure con modalità diverse, anche la Cisl e la Uil saranno con noi sabato, e questo per la Cgil è un motivo di soddisfazione. Guai a restringere il fronte, e noi vogliamo contribuire ad allargarlo.

Battersi per la liberazione di tutti i giornalisti e le altre persone rapite non vuol anche dire battersi per la pace e contro la guerra in Iraq che non accenna a diminuire di intensità?

La situazione a Baghdad e in tutto l'Iraq è ben lungi dall'essere normalizzata. Lo dice la cronaca che resta tragica, senza nascondere il valore democratico delle elezioni che in qualche modo, e a prescindere dalla percentuale dei votanti, si sono tenute qualche giorno fa. Persino gli osservatori meno sospettabili di essere di parte ammettono che quel paese non è pacificato. Con un'aggravante: prima il terrorismo in Iraq non c'era, oggi c'è. C'è il terrorismo e c'è una forte resistenza. In questa situazione difficile si muovono anche bande di irregolari, magari interessate all'utilizzo dei rapimenti per estorcere soldi, al punto di colpire a caso.

Forse perché è più facile colpire un giornalista che opera sul campo, interroga la società civile e racconta come le persone vivono tra bombe e autobombe...

Certo, i giornalisti embedded corrono meno rischi dei giornalisti liberi. Ma in tutte le guerre chi fa informazione libera è nel mirino.

Le conseguenze di questa guerra e di quel che i nostri governanti chiamano dopoguerra confermano l'opposizione della Cgil alla soluzione militare, oppure oggi prevalgono altre considerazioni?

Ogni giorno di più è ribadita la fondatezza della nostra posizione: la guerra era una scelta sbagliata e l'Iraq che essa ha svelato conferma ciò che anche due anni fa era evidente: con forme di pressione interne ed esterne si sarebbe potuto far cadere il dittatore senza provocare migliaia di morti e tutti i disastri conseguenti alla guerra e all'occupazione.

Eppure, la politica estera del governo Berlusconi non è cambiata di una virgola.

Il profilo del nostro paese è curioso. Da una parte si fa esattamente tutto quello che Bush decide e pretende venga fatto, dall'altra resta viva la tradizionale apertura dell'Italia verso i paesi arabi. Berlusconi tende a nascondere la subalternità agli Usa per rivendersi l'altra immagine, ma a nessuno sfugge che l'Italia in questa emergenza non ha certo svolto il ruolo della Germania, della Francia e, in un secondo momento, della Spagna. Eppure, questi paesi dovrebbero essere i nostri primi interlocutori.

Dunque, ha fatto bene l'opposizione ad annunciare il voto contrario al rifinanziamento della missione?

Ha fatto una scelta semplicemente coerente e ovvia. Anche se un problema esiste e chiama in causa il ruolo delle Nazioni uniti: non si può lasciare l'Iraq nel vuoto.

Siamo molto contenti dell'adesione della Cgil alla manifestazione di sabato. E per onestà, devo dirti che ci aspettiamo che non si tratti di un atto formale: siete o non siete, anche da un punto di vista organizzativo il più importante sindacato italiano?

Per sabato garantiamo una forte presenza dell'organizzazione e abbiamo dato indicazione alle strutture di impegnarsi in una forte mobilitazione, perché l'appuntamento di sabato - che anche noi speriamo si trasformi in una festa per l'avvenuta liberazione di Giuliana - è un fatto importante per la nostra democrazia.

IL DIBATTITO sul laicismo è stato concluso due settimane fa su queste pagine e già si preannunciano altri qualificati interventi che ospiteremo volentieri e che saranno infine tutti raccolti in un volume che diffonderemo con Repubblica. Ma ora i laici - religiosi e non - sono chiamati a confrontarsi con un appuntamento quanto mai impegnativo: il referendum sulla legge numero 40 che tratta della procreazione medicalmente assistita. Una legge approvata poco più di un anno fa dopo un’incubazione assai lunga da una maggioranza trasversale nella quale al centrodestra, massicciamente favorevole salvo poche eccezioni, si affiancarono quasi tutti i cattolici militanti nello schieramento di centrosinistra.

Quella legge tuttavia, anche dopo la sua entrata in vigore, suscitò una folata di critiche argomentate e aspre, non solo da parte dell’opinione pubblica laica ma in particolare da parte della classe medica, degli scienziati, delle donne. Anche in questo caso dunque un arco trasversale di segno opposto a quello formatosi in Parlamento per l’approvazione della legge.

In queste condizioni fu relativamente facile la raccolta delle firme per l’indizione del referendum abrogativo, anzi di cinque referendum unificati poi dalla Corte di Cassazione e infine trasmessi alla Corte Costituzionale per l’approvazione di merito. Tre giorni fa la sentenza, che ha respinto il referendum mirante all’abrogazione totale della legge ed ha invece approvato gli altri quattro quesiti con i quali i promotori chiedono di cancellare alcuni articoli e cioè quelli contenenti il diritto del concepito equiparato in tutto ai diritti di persone già nate ed esistenti, i limiti posti alla ricerca scientifica sugli embrioni e l’uso delle cellule staminali a scopo terapeutico, i limiti alla procreazione degli embrioni e al loro impianto, il divieto dell’accertamento medico sulla sanità dell’embrione, il divieto alla procreazione eterologa cioè ottenuta utilizzando ovuli o seme forniti da persone estranee alla coppia ma ovviamente con il consenso della coppia stessa. Si tratta in sostanza degli architravi delle legge 40 ed è proprio su di essi che si erano orientate le critiche dell’opinione laica.

Il capo dello Stato, su parere del presidente del Consiglio, dovrà ora fissare la data del referendum che deve aver luogo in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno, a meno che nel frattempo il Parlamento non ridiscuta la legge 40 emendandola in modo da soddisfare i quesiti abrogativi proposti nel referendum.

Il dibattito sul merito è dunque destinato a riaccendersi, anzi si è già riacceso e verte sulle questioni inerenti e pertinenti ai quesiti di abrogazione.

Preliminare però all’analisi di tali questioni è l’esame della sentenza della Corte, possibile fin d’ora a lume di logica anche in assenza delle motivazioni che non sono ancora note. Ma il dispositivo ha una sua eloquenza e, se si può dir così, parla da solo.

Prima di inoltrarmi nell’esame delle suddette questioni sento tuttavia il dovere, come cittadino, di ringraziare le forze politiche che si sono impegnate nella raccolta delle firme per l’indizione del referendum e segnatamente il Partito radicale. Dai radicali mi dividono molte cose, a cominciare dal loro abuso di richieste referendarie che ha avuto il negativo effetto di logorare l’istituto e quasi di renderlo inviso agli elettori. Salvo nei casi in cui una consistente parte di essi rivendichi quei diritti che una legge può in ipotesi aver loro sottratto e voglia legittimamente riappropriarsene. I promotori del referendum adempiano in tal caso utilmente al ruolo di dare sbocco completo a quella volontà popolare, quale che ne sia poi l’esito istituzionale.

* * *

Comincio con il preliminare, la sentenza della Corte.

Ha giudicato improponibile il referendum sull’abrogazione totale della legge 40, ma ha invece ritenuto validi e ammissibili i quattro quesiti miranti ad abrogare alcuni articoli della legge stessa. Perché? Quale può essere la "ratio" di questa complessa sentenza che al tempo stesso nega e concede? Secondo me la "ratio" è abbastanza chiara. Il Parlamento ha approvato una legge che detta criteri su una questione, la procreazione assistita, fino a quel momento priva d’una normativa e quindi soggetta ad abusi gravi, lesivi della salute e fonte anche di discriminazioni vistose tra abbienti e non abbienti nel ricorso alle risorse che la medicina genetica mette oggi a disposizione.

L’abrogazione totale della legge 40 avrebbe riportato a zero il faticoso iter parlamentare rinviando a chissà quando il recupero del suo impianto.

Ma continuiamo l’esame della sentenza. L’ammissibilità dei quesiti referendari accolti dalla Corte consente, almeno sulla carta, che il Parlamento intervenga subito, entro la scadenza referendaria, modificando la legge in modo tale da soddisfare i quesiti referendari. La Corte cioè ha tenuto conto, come doveva, sia dell’autonomia delle richieste di chi ha promosso il referendum abrogativo sia della sovranità legislativa del Parlamento e ha sentenziato di conseguenza.

In questo quadro la domanda se ora sia opportuno oppure no che il Parlamento modifichi la legge evitando il referendum mi sembra di secondario interesse. Se il referendum si farà e se dovessero vincere i "no" o se il quorum del 50 più 1 per cento non fosse raggiunto, la legge attuale risulterà confermata senza emendamenti. Se invece vincesse il "sì" o se la legge fosse emendata prima del referendum e allo scopo di evitarlo, avrebbero vinto in entrambi i casi i promotori del referendum stesso.

Queste sono le diverse possibilità teoriche.

Personalmente penso che il tempo disponibile per un intervento parlamentare immediato e soprattutto la voglia di farlo non vi siano. Andare al referendum mi sembra dunque la scelta più chiara e più rispettosa della sovranità popolare.

Il tema sovrastante su tutti gli altri quando si esamini il merito della questione sta comunque nella natura dell’embrione e se esso sia fin dalle prime ore di vita una "persona" titolare di diritti oppure un grumo di cellule evolutive, una persona "potenziale" ma una non-persona "attuale" e che quindi non possa usufruire di diritti soggettivi.

Le opinioni su questo punto capitale sono molto divise. Io non credo che l’embrione sia una persona e penso che la sua capacità evolutiva non sia un dato sufficiente ad attribuirgli diritti autonomi e conflittuali con altri diritti. Penso che l’embrione, prima che la sua capacità evolutiva da potenziale divenga attuale dotandolo di un minimo di organi biologici che lo configurino come soggetto, sia ancora interamente confuso con il corpo della madre e non distinguibile giuridicamente da lei e dalle sue determinazioni. Il legislatore può entro certi limiti condizionare tali determinazioni in funzione di un pubblico interesse, badando però a non annullare quel diritto soggettivo in nome d’un altro diritto conflittuale ma secondo me inesistente.

Mi rendo conto che questa opinione è, appunto, opinabile.

Legittima ma opinabile. Ci sono però altre considerazioni che vanno prese in esame. Le seguenti.

Chi decide di ricorrere alla fecondazione medicalmente assistita non avendo altre possibilità di procreare, desidera evidentemente dar vita ad un nuovo essere. Agisce dunque in favore di una nuova vita. Non si comprendono perciò le limitazioni che vengono poste a questa pulsione creativa e gli ostacoli che giocano obiettivamente contro la nascita di nuove vite e nuove persone. Nello scontro fin troppo aspro tra le varie opinioni, i cosiddetti "movimenti per la vita" di ispirazione cattolica hanno tacciato i loro avversari come "partito della morte". Non si rendono conto che una definizione del genere, oltre ad essere settaria, si presta ad essere rovesciata. Il partito della vita è quello che favorisce la realizzazione d’un desiderio che può condurre alla nascita di nuove creature o quello che pone ostacoli a quella realizzazione? E ancora: l’uso terapeutico di cellule staminali per combattere malattie mortali e quindi per salvare vite esistenti è un gesto in favore della vita oppure un gesto mortifero quando riceva quelle cellule preziose da embrioni in soprannumero?

Si tratta di questioni estremamente complesse e non risolvibili se si attribuisce al concepito, fin dal primo istante del concepimento, una personalità attuale e gli si attribuiscono diritti di intensità pari a quelli di cui sono portatrici le persone attualmente esistenti. Non solo.

L’attribuzione di tali diritti a una non-persona fa sì che il suo unico possibile delegato sia lo Stato. Ecco l’ultimo paradosso di questo modo di pensare: lo Stato, attraverso le norme da esso formulate, si attribuisce il diritto di decidere in nome del concepito contro il diritto soggettivo della madre e della coppia genitoriale. Lo Stato cioè distrugge diritti soggettivi arrogandosi la rappresentanza di un diritto soggettivo attribuito per legge ad un soggetto potenziale ma inesistente allo stato dei fatti.

A me sembra chiaro che lo Stato abbia un rilevante interesse a regolamentare i diritti soggettivi genitoriali in materia di procreazione medicalmente assistita; ma un interesse non è un diritto soggettivo e lo Stato non può esercitarlo per delega d’un gruppo di cellule vive ed evolutive quanto si voglia. Lo Stato può agire sulla base di un interesse proprio e della collettività che rappresenta, ma quell’interesse non giustifica in nessun caso la confisca e la soppressione di un diritto soggettivo senza che ciò configuri un gravissimo abuso di potere.

* * *

Io non credo che le osservazioni sopra esposte siano superabili né credo che in questa discussione siano coinvolti e lesi principi religiosi. La religione difende il principio della vita, ma anche i non-religiosi lo difendono se non altro seguendo l’impulso alla sopravvivenza della specie. I religiosi difendono la vita dell’embrione, ma anche i non religiosi la difendono; si è mai visto o udito qualcuno che auspichi una sistematica strage di embrioni? Il problema nasce quando, in nome di persone potenziali si inventano diritti confliggenti con quelli di persone esistenti e si fanno soggiacere i secondi rispetto ai primi. Questo, appunto, è il paradosso contenuto nella legge 40 e a questo paradosso vogliono porre rimedio i quesiti referendari che la sentenza della Corte ha giudicato ammissibili. In nome della vita. In nome dei diritti intangibili della persona. In nome del dovere di curare persone ammalate di morbi mortali. In nome della libera ricerca scientifica.

Lo Stato può regolamentare l’esercizio dei diritti inalienabili degli individui, ma non può sopprimerli né confiscarli e non può attribuirsene la rappresentanza senza trasformarsi in uno Stato totalitario. Quanto alla religione, essa può raccomandare ai credenti comportamenti ritenuti coerenti con i principi della fede ma non può neppure tentare di imporli a una libera comunità senza con ciò violare quella "laicità" che dovrebbe rappresentare il terreno comune di tutti coloro che hanno a cuore la civile e ordinata convivenza.

ADESSO dunque il programma c’è. Sia quello lungo sia quello breve, i primi cento giorni collocati nello sfondo d’una intera legislatura. I provvedimenti e gli interventi da effettuare per recuperare l’unità del paese nel solco di principi e di convinzioni morali condivise da tutta l’Italia democratica e riformista. E c’è anche la squadra che dovrà guidare la campagna elettorale e – se il risultato sarà quello atteso – la nuova maggioranza parlamentare e il nuovo governo.

Chi vorrà analizzare i contenuti di quanto è emerso dalle due assemblee, della Margherita a Milano e dei Ds a Firenze, potrà consentire o dissentire nel merito ma dovrà ammettere che il quadro d’insieme è chiaro, la direzione di marcia è stata nettamente indicata e l’appuntamento con il futuro partito democratico ne rappresenta lo sbocco finale realizzabile entro un termine ragionevolmente prossimo.

Ho, purtroppo per la mia anagrafe, un’esperienza di campagne elettorali di oltre mezzo secolo, quasi sempre come osservatore, talvolta come partecipante. Posso dunque testimoniare che l’Italia riformatrice non si è mai presentata ai nastri di partenza così preparata e matura come questa volta.

Comunque vada la sorte elettorale, questo è già un primo obiettivo raggiunto; lo si deve, secondo me, a due cause: l’uscita definitiva delle forze riformiste dagli involucri che le hanno trattenute per molto tempo, le hanno soffocate all’ombra di pregiudizi e interessi, e le hanno contrapposte.

L’involucro democristiano da un lato e quello comunista dall’altro. Le ingessature ideologiche e i bendaggi mummificati sono durati lungamente sotto la forma degli ex e dei post, ma ora finalmente sono stati rotti. Ne è uscita una vitalità nuova, una convergenza di propositi e un’alacrità di proposte da mettere in opera per i cittadini e con i cittadini. Non l’arcaico politichese degli apparati e neppure il distillato pseudo-modernista dei tecnocrati, ma il senso compiuto della «polis», una comunità partecipe senza la quale è diventato impossibile governare un mondo sempre più complesso e più variegato di interessi e di idee.

L’avanguardia di questa nuova stagione l’abbiamo scoperta e vista all’opera due mesi fa: quei quattro milioni e mezzo di italiani che hanno affollato i gazebo delle primarie dando vita ad un evento mai verificatosi prima di allora. Romano Prodi, ricordando quell’eccezionale fenomeno, ha detto a Firenze che in quella giornata del 6 ottobre scorso è stato costruito un ponte che collega la classe politica alla società. E D’Alema ha aggiunto che quel giorno è stata chiusa la fase dell’antipolitica e del politichese.

La penso anch’io allo stesso modo. Il potere degli apparati crolla quando i cittadini rivendicano la loro sovranità ed esercitano attivamente il loro diritto di partecipare; nello stesso momento e per le stesse ragioni crolla il qualunquismo che è l’altra faccia del politichese e degli apparati.

Gli stimoli venuti da Firenze e da Milano sono il primo risultato di forze liberate. Dovranno costruire il futuro prendendo nelle loro mani il presente. Le premesse finalmente ci sono.

* * * * *

Guardiamole più da vicino queste premesse.

All’assemblea diessina di Firenze ha preso la parola, portando il saluto della Margherita, Dario Franceschini, uno dei dirigenti di maggior rilievo del suo partito. Il suo intervento è stato centrato su una parola-chiave, ripresa subito dopo da Fassino: la laicità. Se ne è fatto fin troppo abuso di quella parola, fino ad annacquarne e addirittura a stravolgerne l’essenza, sicché Franceschini ha dovuto chiarirne l’autentico significato. La laicità costituisce l’essenza della democrazia moderna ed è il diritto di ogni individuo, gruppo, comunità, insomma soggetto singolo o collettivo, di sostenere i propri diritti e di essere ascoltato con attenzione e rispetto.

Reciproci. Senza imposizioni e sopraffazioni. Senza imporre la propria verità a chi non la condivide.

La democrazia è il contenitore di queste parziali verità e parziali interessi. La volontà della maggioranza si costruisce attorno alla sintesi delle diverse tesi. Le istituzioni della democrazia hanno il compito di attuare quella volontà garantendo che essa non potrà trasformarsi in un sistema chiuso ma ampliare lo spazio pubblico che include e non esclude.

Questa è la laicità ed è ai nostri occhi della massima importanza che un concetto così alto sia stato posto dai principali rappresentanti dei due partiti riformisti costituendo perciò stesso il fondamento del costruendo partito democratico.

* * * *

Dalla laicità discende la politica dei diritti. Lo Stato di diritto. Il rispetto delle garanzie. L’eguaglianza delle posizioni di partenza e quindi la massima attenzione verso i deboli affinché non siano esclusi.

Il punto nevralgico dell’esclusione o dell’inclusione è collocato nel mercato del lavoro, nella disoccupazione duratura, nel precariato permanente.

Anche su questo punto l’approdo cui sono arrivati i due partiti dell’alleanza riformista è comune: flessibilità mirata a costruire processi professionali stabili e sorretta da una solida rete di ammortizzatori sociali.

I critici osserveranno (hanno già osservato) che flessibilità e occupazione duratura sono affermazioni contraddittorie, un ossimoro se vogliamo usare il lessico della retorica. Per certi aspetti anche libertà ed eguaglianza raffigurano un ossimoro. La vita sociale è costellata di ossimori, la modernità ne ha accresciuto il numero, la globalizzazione l’ha moltiplicato. Il più celebre che aprì appunto l’era moderna lo pronunciò Colombo quando salpò dal molo di Siviglia per le Americhe: «Buscar el levante por el ponente», raggiungere il levante facendo rotta a ponente. Non fu questo il più felice degli ossimori? Diventò un risultato perché la terra era rotonda. Così molte contraddizioni si risolvono quando si scopre che i percorsi sociali non sono mai rettilinei ma circolari, circostanza troppo spesso ignorata dai qualunquisti e dai tecnocrati. La democrazia non può che avere un impianto circolare nel quale tutti i valori e gli interessi legittimi sono collocati sulla linea della circonferenza sentendosi ciascuno il centro della propria circonferenza.

* * * *

Noi - è stato detto da Prodi - non diremo come Berlusconi che il fisco è un nemico, proprio mentre il suo governo quinquennale si conclude con l’aumento della pressione fiscale, la decurtazione del potere d’acquisto, la stagnazione del reddito e la crescita esponenziale del deficit e del debito pubblico. Noi diciamo invece che un fisco amico deve servire a sostenere le fasce deboli della società, a premiare le imprese innovatrici, a migliorare la competitività, a penalizzare le rendite e i profitti di speculazione e a stanare l’evasione e l’elusione.

Questi aspetti della questione fiscale sono stati ampiamente descritti nella relazione programmatica di Bersani e ripresi nella conclusione di Fassino. Specifici provvedimenti in materia sono stati indicati da un lavoro di équipe cui Vincenzo Visco ha fornito il contributo d’una lunga esperienza alle Finanze e al Tesoro. Analoghe proposte erano state illustrate a Milano da Enrico Letta per la Margherita.

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Non sembri idilliaca questa sintesi dello schieramento di battaglia con il quale la «lista grande» del centrosinistra ha aperto la sua campagna elettorale. D’Alema ha detto che la vera lotta, lo sforzo più arduo, comincerà dopo la vittoria, quando le parole dovranno cedere il posto ai fatti concreti.

Esattamente, la vera lotta comincerà allora. Né sarà idilliaca la nascita del partito democratico proprio perché le resistenze degli apparati non mancheranno, le legittime ambizioni all’interno dei gruppi dirigenti neppure, le vie di fuga, le tentazioni, le antipatie stratificate si faranno sentire per un pezzo.

Di qui una fretta eccessiva da un lato, una lentezza altrettanto eccessiva dall’altro, due difetti simmetricamente opposti ai quali non bisogna cedere. Chi dice che per tenere a battesimo il nuovo partito ci vorranno cinque o addirittura dieci anni in realtà non lo vuole. E chi afferma (ce ne sono) facciamo subito prima delle elezioni, neppure lui lo vuole.

L’esempio di Sharon, che ha creato il suo nuovo partito in poche settimane ed è accreditato della vittoria, non calza affatto perché l’incubazione di quell’iniziativa è durata anni, l’evoluzione dell’opinione pubblica israeliana in favore della pace è cominciata solo nel momento in cui fu varato il progetto di sgombero degli insediamenti di Gaza e della Cisgiordania, la morte di Arafat ha sgomberato il campo e spento la seconda Intifada.

Non poche settimane, ma anni di logoramento del Likud e di esaurimento dei laburisti.

Un elemento importante per quanto riguarda il caso italiano sarà l’esito elettorale della «lista grande» e, al Senato, i risultati del voto ai partiti in lizza. Se la «lista grande» arriverà al 35 per cento o addirittura lo supererà, sarà stato compiuto un passo decisivo verso il partito democratico e la sua formazione potrà procedere in fretta. Il propulsore di questa spinta è inevitabilmente Romano Prodi. Prese più del 70 per cento dei voti alle primarie, in un campione rappresentativo di metà del corpo elettorale. Quel 70 per cento equivale appunto al 35 cui può aspirare la «lista grande» da lui capeggiata.

Gli elettori che gli hanno dato il voto sanno che Prodi sarà il propulsore d’un riformismo forte come egli stesso ha detto più volte. Forte non è un aggettivo generico.

Significa un più su tutti gli elementi dei vari ossimori: più libertà e più eguaglianza, più sviluppo e più rigore, più flessibilità e più sicurezza di lavoro, più tecnologia e più ecologia, più rispetto per la Chiesa e più autonomia delle coscienze e rispetto delle loro singole decisioni, più indipendenza della magistratura e più responsabilità dei magistrati, più scuola di formazione e più preparazione del corpo docente, più autonomia degli enti locali e più responsabilità dei loro amministratori.

Infine più cultura, più politica, meno politichese.

Si tratta come si vede di compiti che richiedono l’impegno di una squadra di talenti numerosa e, come ora si usa dire, coesa. La squadra c’è e sarà arricchita da più giovani leve che per fortuna non mancano. La coesione è ancora, almeno in parte, un dover essere.

Una cosa è certa: il partito democratico non sarà un partito di moderati.

La moderazione è un concetto positivo e valido per tutti, i moderati invece sono una parte con connotati specifici. Hanno sicuramente altri strumenti per esprimersi, specie se l’anomalia berlusconiana sarà spazzata via dal corpo elettorale.

Certo l’alternativa Casini è deboluccia. Comincia ad effondere un sentore polveroso di vecchie sacrestie. Il passato non depone molto a suo favore, cinque anni di fedeltà alla causa berlusconiana non sono un «atout».

Diciamo che Casini guida la cavalleria leggera. Un punto di partenza, sapendo però che poi ci vorrà la fanteria.

Cercherà un ticket, ma con chi? Quali sono le divisioni di fanteria disposte a battersi per l’ex presidente della Camera? Il cardinale? I cardinali lanciano messaggi di pace e chiedono appoggio in nome della fede.

L’appoggio è benvenuto da qualsiasi provenienza. Lo accettarono perfino da Mussolini e per undici anni sembrò incrollabile. Finché sarà utile blandiranno Casini, se non servirà più lo lasceranno a godersi un po’ di vacanza.

Noi laici queste cose le conosciamo. Proprio per questo ci piace la laicità: piena libertà a tutti di parlare e proporre, rispetto per tutti e ognuno faccia da solo la sua strada. Nel rispetto della legge e, nel caso della Chiesa, dei Trattati stipulati con lo Stato. Non più né meno di questo.

CAGLIARI - La scrivania di Quintino Sella? A rischio imminente di sequestro per pignoramento. Magari con tutto il palazzo umbertino nel quale ha sede il ministero dell’Economia, ammesso che si salvi Palazzo Chigi, lasciando tranquillo Berlusconi fino al prossimo aprile, quando si prevede che dovrà lascialo a Prodi. Giulio Tremonti, che dinanzi a quella storica scrivania selliana siede, non ha ancora capito bene in quale guaio si è cacciato prendendo di petto mercoledì sera a Palazzo Chigi Renato Soru, governatore della Sardegna, con il quale ha rischiato addirittura lo scontro fisico.

Aduso al codice barbaricino, che vige tra Oliena e Dorgali e che difficilmente perdona, il governatore sardo è ancora furibondo per l’arroganza con la quale è stato trattato da Tremonti - con Berlusconi impacciato paciere - e annuncia, con lampo barbaricino negli occhi, ricorsi alla Corte Costituzionale, pignoramento di beni di Stato, persino l’applicazione dell’articolo 51 dello Statuto regionale che prevede la sospensione di leggi dello Stato "lesive dell’interesse della Regione", come lui ritiene la finanziaria di Tremonti.

Presidente Soru, col governo di Roma finirà come in Catalogna nel 1640, quando ci fu una sollevazione contro il duca Olivares per il taglio delle risorse finanziarie? O come in Scozia nel 1978, quando ci fu la ribellione contro una devolution un po’ tirchia?

«In Sardegna c’è uno spirito di ribellione, di irredentismo ben noto, ma noi ci riteniamo un pezzo dello Stato italiano e lo Stato lo rispettiamo. Ma lo Stato deve rispettare noi».

Non lo fa?

«No. Il ministro Tremonti ed io siamo due servitori dello Stato. Lui deve capire che chi ha queste responsabilità non può essere così arrogante».

Cosa le ha fatto esattamente?

«E’ stato poco rispettoso. Io gli ho detto che rivendico il diritto di essere ascoltato e possibilmente non in piedi».

Solo una questione di cerimoniale o di villania?

«Neanche per idea, una questione assolutamente sostanziale».

Ce la spieghi bene.

«Semplicissimo: chiediamo la corretta applicazione delle norme del 1948. Lo Stato incassa l’Irpef e sette decimi, in base alla legge, li deve dare alla Sardegna. Negli ultimi dodici anni lo Stato ha dato solo i quattro decimi. Per l’Iva, invece, è prevista una quota variabile, da negoziare ogni anno. Nel ‘91 avevamo i quattro decimi. Da allora l’Iva dello Stato è aumentata dell’82% e la nostra è diminuita dell’11%».

Risultato?

«La Sardegna nel 1999 aveva 250 milioni di debiti, ora ne ha 3 miliardi, uno squilibrio strutturale di bilancio certificato dalla Ragioneria generale dello Stato, che ha recepito le nostre ragioni. Ma lo Stato è moroso con noi per almeno 4,5 miliardi di euro per le quote di tasse che non ci ha versate».

E Tremonti?

«Mi ha assolutamente sgomentato il comportamento strumentale di un ministro della Repubblica. Un signore che non vuol sentire ragioni e trova scuse. Uno che non vuole affrontare i problemi per portare a casa chissà quale finanziaria, per il resto "chissenefrega". Uno che non conosce le leggi. La sua tesi era che la Sicilia ha trattato i dieci decimi dell’Iva e delle altre imposte in varie sedi e nella sede della Conferenza Stato-Regioni. Gli ho spiegato, che il nostro caso è diverso e che quella Conferenza di cui lui parlava è nata ben dopo lo Statuto sardo. Quel signore crede di essere andato a scuola solo lui. Nei confronti della Sardegna, in realtà, è in atto una malversazione. Noi non chiediamo nuove condizioni, come la Sicilia, ma il rispetto di norme già chiare e precise. Chiediamo soltanto quello che ci spetta. La legge finanziaria dello Stato deve, sottolineo deve, prevedere il pagamento della quota di tributi che ci spetta per legge. Altrimenti si tratta di risorse trattenute indebitamente, per usare un eufemismo».

Figli e figliastri, presidente Soru, tra regioni di centrodestra e di centrosinistra?

«Capisco le difficoltà del paese, ma io non posso indebitarmi per 500 milioni di euro per coprire parte del disavanzo di un solo anno, mentre la Lombardia di Formigoni accende mutui per soli 18 milioni di euro».

Ma Berlusconi ha detto che siete tutti suoi figli e che i figli vanno trattati equamente.

«Altroché. Io non posso fare il bilancio 2006 senza i soldi che mi spettano per legge e li rivendico in tutti i modi possibili. Userò tutti gli strumenti consentiti dalla legge».

Pignorerà il tavolo di Quintino Sella dinanzi al quale siede Tremonti?

«Spero di no, ma se occorre lo farò, ricorrerò alla Corte Costituzionale e a tutti i possibili gradi di giudizio».

Compreso il rigetto della finanziaria di Tremonti?

«Sì, il nostro Statuto dice all’articolo 51 che possiamo chiedere la sospensione delle leggi gravemente lesive degli interessi della regione. E’ ciò che faremo per la finanziaria di Tremonti, per una legge gravemente lesiva».

Capisce che creerebbe una crisi istituzionale senza precedenti?

«Lo capisco benissimo, solo Tremonti pensa che io non capisca. Lui magari prenda atto che noi, che abbiamo a cuore il paese, abbiamo tagliato del 52% il disavanzo, cancellati 50 tra enti, consorzi e comunità montane, 600 o 700 posti di consiglieri d’amministrazione, tagliato fondi a tutti. La Sardegna fa il suo dovere. Lui può dire lo stesso?».

Il governo dice che voi fate shopping.

«Ma quale shopping. Capisco che Tremonti, come dice, non abbia i soldi per pagare le pensioni, ma cerchi almeno di avere rispetto per una regione come la Sardegna che con il 2,5% della popolazione sopporta l’80% delle bombe che ogni anno scoppiano in Italia. Una regione nelle cui miniere volevano mettere tutte le scorie nucleari. Una regione che dopo 33 anni sopporta i sommergibili nucleari americani in base ad accordi secretati. Ci dica Tremonti, ci dica Berlusconi, ci dica chiunque sia responsabile, chi mai ha autorizzato la triplicazione della base americana della Maddalena. E’ abnorme, c’è qualcosa che non va nella democrazia italiana».

Governatore, si dice che lei sia talmente infuriato che vuole mettere una tassa su villa Certosa e sulle altre innumerevoli ville sarde del nostro premier. E’ uno scherzo?

«Bisogna che i sacrifici siano fatti con equità. Ma prima di tagliare i fondi per le politiche sociali, io penso che si possano aumentare le tasse sulle plusvalenze, sulle rendite finanziarie, sul fortissimo incremento del valore degli immobili e persino sul soggiorno. Chiederemo altri sacrifici ai nostri cittadini, ma useremo la leva fiscale anche con gli altri. In questi anni che plusvalenze hanno avuto i proprietari di immobili in Costa Smeralda? Quanta gente s’è arricchita? Che cosa hanno lasciato qui da noi, se non metri cubi di cemento? Ci sono 500 mila seconde case. Se le occupano per tre mesi l’anno siamo felici, ma pagano le loro tasse? Se le pagano in altre parti d’Italia perché non qui?».

Ma allora ha ragione Tremonti quando dice che voi sardi piangete sempre?

«Io non piango mai, se piango lo faccio per ben altro, non per Tremonti. Figurarsi se chiedo l’elemosina a uno come lui. Chiedo solo il rispetto dei diritti acquisiti dallo Statuto del 1948, che noi difenderemo oltre le nostre forze. Quei diritti nacquero con la guerra del ‘15-’18 nella quale lasciarono la vita 60 mila sardi. Da lì nasce la specialità che io ho il dovere di difendere, Tremonti o non Tremonti.

Chissà se il presidente Ciampi avrà inserito la parola «piazza» nel suo Dizionario della democrazia, che da domani va in libreria? C'è da dubitarne, conoscendo l'ex governatore della Banca d'Italia. Eppure la storia democratica di questo paese - ma vale anche per buona parte dell'Europa - con la «piazza» come spazio della politica ha avuto molto a che fare. Non solo nel bene, ma anche nel male, come ci ricordano il primo fascismo, la polizia di Scelba, qualche bomba non troppo lontana. Era una «dialettica» che oggi qualcuno può considerare primitiva, ma che ha segnato il nostro Novecento. Cancellarla non è un bene. Come non è un bene trasformare la «piazza» in qualcosa d'altro, da luogo della politica a teatro di una rappresentazione malefica. E' ciò che è accaduto ieri a Roma - e qualche giorno fa a Milano - con un'esercitazione antiterrorismo utile solo come promemoria per un inevitabile domani. Perché i veri protagonisti delle manovre di ieri non sono stati i poliziotti, gli infermieri, i vigili del fuoco: loro erano solo comparse mandate in strada per convincere gli spettatori - cioè tutti noi - a prepararsi al peggio. Una simulazione che non è servita a testare l'efficienza dei soccorsi dopo un attacco terroristico ma a rendere «normale» e «plausibile» la vita quotidiana in guerra. «Ecco il futuro che vi attende», questo è il messaggio. Che ammette una duplice resa: la politica non può risolvere i conflitti in corso, intelligence e uomini in armi non possono prevenire la violenza. E che, nelle sue punte estreme, rivendica la giustezza della scelta - questa sì profondamente politica - della via militare che non vuole nemmeno prendere in esame l'idea di disertare la guerra, pena la bolla di traditori dell'Occidente. Quasi fossimo nel 1571 a Lepanto, o nel 1683 a Vienna.

Povera piazza, riempita di figuranti e manichini, attorniata da paure e belliche grida. Ridotta a luogo delle passività, a rappresentazione del peggio. In perfetta continuità con lo spirito berlusconiano che fa appello alle insicurezze più profonde per esorcizzare il pericolo (sempre un po' comunista) dei barbari pronti a sbranare la dolce vita dei lustrini televisivi su cui il presidente del consiglio ha costruito le sue fortune e la sua popolarità. Violentata - la piazza - nella sua concretezza di corpi in movimento che possono produrre un agire comune - cioè la politica - per diventare il luogo del contrasto al male o l'annuncio del male stesso quando non si riempie a comando ma come prodotto di un sentire comune.

E quanta fatica costa ridarle vitalità, quanti dubbi incontra, anche a sinistra, considerarla un luogo positivo, una risorsa. Come è difficile per la nostra opposizione pensare di scendere in strada senza la paura che qualcosa possa sfuggire al controllo degli stati maggiori. Perché tra le virtù della piazza - quella non simulata - c'è l'imprevidibilità di chi la riempie e le dà vita. Nutrendo la pratica della democrazia. Come dovrà accadere domenica prossima e, poi, alla manifestazione dei sindacati contro la finanziaria. Affinché non si tratti di altre esercitazioni.

Nella torbida confusione di questa fine d'estate s'avanza all'orizzonte uno strano guerriero. Non è detto che venga avanti e tanto meno che vinca, ma la sua ombra c'è. Anche altri - penso al Riformista e anche a Libero - ne avvertono la presenza. Si tratta del «terzo polo», che potrebbe nascere dalla dissoluzione dell'armata di Berlusconi e da una frattura dell'Unione di centro-sinistra. I segni di questo possibile esito sono già nelle cronache giornalistiche. Da una parte il diffuso convincimento che Berlusconi ha perso e la conseguente polemica senza esclusione di colpi all'interno del suo campo, soprattutto da parte dell'Udc e di quella parte dell'elettorato che non ha gli impedimenti di An o della Lega a cambiare fronte. Dall'altra parte l'attacco - soprattutto con l'uso e l'abuso della questione morale - contro i Ds.

Siamo arrivati al punto che i Ds debbono chiedere a Prodi non tanto una solidarietà, ma una conferma della sua appartenenza al loro fronte. Finora Prodi tace, in ogni modo evita affermazioni nette. La risposta di Giulio Santagata («se uno dei due chiede che gli si dica "ti amo", vorrà dire che lo diremo») suona quasi un insulto. E si potrebbe aggiungere il sospetto che il rinvio al dopo primarie del programma possa voler dire che Prodi si vuole lasciare le mani libere. Anche il riavvicinamento, dopo le recenti polemiche, tra Prodi e Rutelli dà da pensare.

Tutto questo - è quasi inutile scriverlo, ma non va dimenticato - nella attuale situazione di profonda crisi economica, con imprese fortemente indebitate (a cominciare dalla Fiat) e con banche fortemente esposte con crediti non dico in sofferenza, ma di non semplice rientro.

Insomma in una situazione di diffusa e ragionevole paura. Una situazione nella quale, riducendosi il potere del capitale cresce quello dell'opinione e della stampa scritta: le tv aiutano certamente a vincere le elezioni come Berlusconi insegna, ma valgono meno nell'orientamento dell'opinione di quelli che contano, che pesano sul governo degli affari.

Così il fattore di accelerazione o addirittura di scatenamento dei mali che covavano è stato il tentativo di scalata di Ricucci e soci al Corsera, poi, ma con effetti analoghi, c'è stata la Unipol con la Banca Nazionale del Lavoro. Avere messo in gioco il Corriere ha determinato lo stato di emergenza.

Normalmente, ma tanto più in una situazione di emergenza il Corriere della Sera è importante, lo è storicamente tanto che si dice che nella prima guerra mondiale fosse Luigi Albertini a ordinare a Cadorna le famose offensive sull'Isonzo. Oggi (forse c'è anche Cadorna) siamo in una situazione di massima precarietà e il Corsera diventa ancora più importante. Il tentativo di scalata di Ricucci e soci, magari con il consenso di Berlusconi, era evidentemente pericoloso e andava bloccato. Qualcuno aveva suggerito un modesto intervento della guardia di finanza, ma si è trasformata in una guerra generale, che ha investito duramente Bankitalia con evidente danno per il sistema paese.

Su Ricucci e soci c'è poco da aggiungere a quel che abbiamo scritto e riscritto. Ma questo non significa che il sindacato di controllo di Rcs sia un sancta sanctorum (sarebbe interessante sapere per quale ragione Cesare Romiti e Alessandro Profumo se ne sono usciti) e neppure che Luca di Montezemolo sia l'Arcangelo Gabriele, con tribunale a Cortina d'Ampezzo.

Il punto è - così può sembrare - che in questa situazione di emergenza il Corriere viene assunto come arma decisiva e che la lotta diventa senza quartiere. E si accelerano le divaricazioni degli schieramenti finora esistenti.

Berlusconi è un re sconfitto che va abbandonato, ma non ci si può nemmeno fidare dei Ds che (nonostante tutte le loro ritrattazioni) hanno sempre un'origine comunista e poi potrebbero anche usare le cooperative. Il terzo polo può nascere, per aiutare lor signori, proprio perché malmessi: sarebbe la soluzione per sopravvivere e magari ricominciare. Archiviando il bipolarismo sotto le insegne di Casini.

A questo punto Romano Prodi deve parlar chiaro e non rinviare il suo programma a dopo le primarie. Il fantasma del terzo polo si sta materializzando..

IL PROFESSOR Buttiglione non è contrario a un candidato leader prelevato fuori dalla politica: porterebbe, dice testualmente, "un soffio di moralità". L´espressione è strepitosa. Ricorda, nella raffinata svenevolezza, la "lacrima di latte" che le signore desiderano nel loro té, appena un´impressione, un´ombra, un quasi niente. Il soffio di moralità è gozzaniano, intenerisce e insieme strugge, e ci rammenta che il ruvido vigore delle idee antiche (penso alla "questione morale" di Berlinguer, sono passati solo vent´anni ma pare il Gioberti, o Quintino Sella) è ormai sfiorito: oggi si attende un soffio, un refolo, un rigo appena, e già sarebbe – diciamolo – grasso che cola. Il bello, poi, è che perfino questa nuance di rettitudine, timidamente invocata in un´intervista estiva, è più che sufficiente a turbare gli animi. Nel centrodestra saranno in molti a leggere in quel soffio un siluro contro il premier, che di doti ne possiede a bizzeffe, ma ha costruito il suo successo soprattutto sul suo allegro e disinibito immoralismo, che tanto piace agli italiani. È sul dosaggio, dunque, che si aprirà il classico rovente dibattito: se di moralità ce ne vorrebbe un chilo, un etto o basterebbe un grammo, e soprattutto se pesa più un chilo di moralità o un chilo di voti. E patti chiari, poi: se uno porta la moralità, a un altro tocca portare il vino, e a un terzo (non Buttiglione) sua sorella.

Per una volta do' ragione a una battuta di Tony Blair: bisogna estirpare le radici del terrorismo. E sono profonde. La prima viene da un atto incontrovertibile: prima della guerra del Golfo il terrorismo non c'era. C'era l'Islam, c'era il Corano, c'erano i wahabiti, c'era un forte insediamento musulmano in Europa, ma non c'era lo scontro fra civiltà, quello che oggi riempie le bocche da una parte e dall'altra. Non che nel Medio Oriente mancasse l'attentato politico, ma era mirato - come da noi - ai singoli e ai potenti o, nel caso dell'Algeria, al proprio interno dopo l'esclusione del Fis dalla vittoria elettorale. Non c'era lo spargimento di sangue e paura fra la gente semplice di un altro paese, quella che va al lavoro ogni mattina, perché senta sulla propria pelle gli effetti più o meno collaterali della guerra voluta dai soli capi contro questo o quello stato del Medio Oriente. Questa radice primaria viene regolarmente rimossa malgrado che negli anni `90 fosse annunciata da Al Qaeda. Per prenderla sul serio c'è voluto il massacro alle due Torri.

Seconda radice certa, la risposta degli Stati Uniti con un'altra guerra, in Afganistan e in Iraq, non poteva essere più stupida e arrogante: il terrorismo si è esteso ben oltre Al Qaeda, come arma specifica della guerra asimmetrica. In Palestina colpisce solo gli israeliani e necessita di kamikaze, travolgendo quei disgraziati paesi in uno scontro senza fine. Ma quello che è definito terrorismo internazionale ha morso, dopo un primo attentato a Parigi, ben più aspramente Madrid e Londra (e domani, ci ha promesso il nostro premier, probabilmente morderà noi). Gli attentati ai trasporti nelle ore di punta sono facili, al posto del kamikaze c'è qualcuno che se la può anche filare fidando nel timer e in ogni caso, se è preso, viene preso dopo e ha in conto la morte o la galera o la tortura.

Terza radice: la demenza di fare una guerra al terrorismo colpendo uno stato, come se si trattasse di un esercito regolare al di là di una frontiera. Non solo non lo colpisce, colpisce degli innocenti e ne moltiplica gli adepti. Non prenderne atto è stupido. Li cattureremo, ha assicurato Blair. Già, chi? dove? come? Ha più buon senso l' intelligence quando dichiara che prevedere uno di questi attentati è impossibile. Non si possono perquisire tutti gli autobus, i metrò, i tram. E poi magari tutti i passanti. Questo genere di rimedi stanno colpendo perversamente le libertà civili delle nostre contrade.

In conclusione s'è fatto un errore dopo l'altro. Per estirpare il fondamentalismo terrorista occorre chiudere con le guerre in Medio Oriente. Bisogna affogarlo nella pace. Nella pace, quella che tutte le genti preferiscono, non avrebbe più terra per allignare, acqua dove nuotare. Che sia intrinseco all'Islam volere la distruzione dell'Occidente è una bufala, vi è convissuto per secoli e se mai ne è stato attaccato: la distruzione degli infedeli è stata la bandiera delle crociate papaline.

Queste verità, che sono di evidente buon senso, sfuggono soprattutto al dibattito italiano. Dal repulisti di tutti i musulmani in Europa gridato dalla Lega, alla moltiplicazione di un' intelligence che li dovrebbe sorvegliare, auspicata da Fassino, alla concessione di un diritto di esistere fra noi soltanto quando avranno denunciato un arabo (tesi della delazione tanto cara a Giuliano Ferrara) è tutto una variazione sul mostrare i muscoli nello scontro di civiltà - perfino il Corriere vi ha messo, anche se sottovoce, la sua elogiando dei Ds il realismo dell'invito a scordare il passato.

Se c'è una politica insensata è questa. Se ci fosse un vero ruolo autentico per l'Europa dovrebbe essere quello di sciogliersi dai vincoli con l'amministrazione Bush, la più incapace delle presidenze americane del secolo, e far sentire con un'unica voce la crudele inefficacia delle strade seguite finora. E' già tardi, ma è meglio tardi che mai.

di Rina Gagliardi

Quel 4 giugno 1989 qualcuno, chissà, non aveva ancora capito che eravamo nel pieno dell'Ottantanove - e che da quell'anno in poi il mondo sarebbe stato diverso. A Tienanmen, già illuminata dai riflettori della globalizzazione, venne consumato uno dei massacri più feroci e crudeli del mondo contemporaneo: almeno diecimila ragazzi immolati sull'altare del nuovo ordine di Deng Hsiao Ping, i mucchi di corpi schiacciati dai carri armati, sepolti sotto un fiume di sangue, poi buttati via, chissà dove, come spazzatura umana di cui liberarsi al più presto. Ancora, oltre tre lustri dopo, quelle immagini di morte ce le portiamo dentro: non le abbiamo rimosse, non le abbiamo riposte nell'archivio polveroso dei tanti crimini della storia, o della politica. Moriva un sogno, a Tienanmen: quello di un socialismo capace di rinnovarsi davvero, di "riformarsi" senza rinunciare ai suoi orizzonti ultimi, di far diventare protagonisti i suoi giovani. Ma chi si ricorda oggi che quei fragili e resistentissimi studenti andarono incontro ai carri cantando l'Internazionale? E che, oltre loro, in altre grandi città della Cina c'era un grande movimento di operai che rivendicava, anch'esso, un socialismo diverso? Anche questa radice di classe fu arsa viva. Tutto potevano permettersi, i governanti cinesi, fuorché l'ingombro dei soggetti, in carne ed ossa, che speravano di poter dire la loro sul futuro della Cina. Tutto potevano capire, del "vento occidentale", fuorché parole come «diritti», «democrazia di massa», «partecipazione». L'ordine regna a Pechino, fu l'approdo logico e glaciale della vicenda. Le cancellerie dell'Occidente non trassero solo un sospiro di sollievo: non nascosero, più di tanto, la loro incondizionata ammirazione.

La Cina imboccò da allora la strada del definitivo «grande balzo in avanti», che l'avrebbe portata a ritmi incredibilmente veloci a diventare una grande potenza economica mondiale. A differenza di Mikhail Gorbaciov - che stava ingenuamente tentando di uscire dalla crisi del socialismo sovietico attraverso la "democratizzazione" e la "trasparenza" - Deng Hsao Ping aveva capito che tutto, in Cina, poteva mutare, tranne il sistema politico - tranne il dominio del Partito comunista e dello Stato centrale. E infatti, dopo Tienanmen, il nuovo Moloch della Cina si chiama Mercato: crescita produttiva, iniziativa privata, apertura alle multinazionali, ritmi frenetici di sfruttamento del lavoro vivo. Con il portato "naturale" dello sviluppo - come l'espansione smisurata smisurata delle diseguaglianze sociali, la disoccupazione, l'insicurezza sociale. Ma senza quell'essenziale "correttivo" che il movimento operaio, e le sue lotte, hanno saputo esercitare nei confronti del capitalismo: in Cina, a tutt'oggi, non c'è libertà di organizzazione sindacale, e ogni tentativo è anzi duramente stroncato, trattato sotto la voce "atti eversivi contro la sicurezza dello Stato", che riempie ogni anno le prigioni cinesi di migliaia di rei non sappiamo quanto confessi. Non ci sono partiti, certo. Non ci sono giornali indipendenti. Non c'è alcuna libertà di culto religioso. Non ci sono associazioni, o aggregazioni libere, che configurino la crescita di una "società civile" degna di questo nome. C'è, sì, un miracolo economico che il resto del mondo invidia - eo teme. Il miracolo che coniuga la spietatezza e l'illibertà della politica con la spietatezza e l'efficacia dell'economia - del capitalismo.

Chi ha detto, sull'onda di quella lontana ubriacatura, che la libertà (questa parola così difficile da definire, eppur così chiara, quando la vediamo negata e calpestata) è elargita ai popoli soltanto dal Mercato? Che soltanto lo sviluppo, anzi un grande sviluppo capitalistico, si accompagna storicamente con la democrazia, quantomeno la democrazia rappresentativa? Il potere cinese ha realizzato sul campo una smentita clamorosa proprio di questa "legge della storia": lo sviluppo neoliberale e il capitalismo prosperano nell'illibertà, da essa sono anzi alimentati e favoriti. Dopo Tienanmen, dopo quel fatidico 89, anche questo paradosso è diventato possibile. Come hanno capito i giovani no global di tutto il mondo, gli eredi veri di quei ragazzi massacrati il 4 giugno.

Il rapporto dei membri italiani definisce la versione americana una «apodittica auto-assoluzione» 1. Il blocco non era segnalato. 2. L’auto andava a bassa velocità. 3. Gli Usa sapevano della missione. 4. I soldati, stressati e inesperti, hanno fatto fuoco subito. 5. La scena della sparatoria è stata alterata

Pentagono sotto accusa per gli omissis decrittati: reso noto anche il nome del soldato che ha sparato



È un rapporto che accusa pesantemente i militari e le stesse autorità americane quello che ieri sera è stato consegnato dai due membri italiani nella commissione sull’uccisione di Nicola Calipari. In primo luogo - sostengono l’ambasciatore Ragaglini e il generale Campregher - l’organizzazione del posto di blocco sulla strada per l’aeroporto di Baghdad era «a dir poco carente». Nessun segnale avvertiva dello stesso posto di blocco. L’auto su cui viaggiavano Calipari e Giuliana Sgrena procedeva a «una velocità non rilevante». È verosimile che i militari abbiano sparato per stress e inesperienza. Le autorità americane erano a conoscenza della missione italiana, anche se non nei dettagli. La scena dei fatti, infine, non è stata preservata.

L’Italia accusa: quel check point era illegale

Il rapporto italiano su Calipari denuncia l’autoassoluzione Usa: l’auto non correva, hanno sparato per stress e inesperienza

Toni Fontana

Con una relazione di 52 pagine l’Italia ribatte e contesta la versione dei fatti accaduti a Baghdad il 4 marzo. Le autorità americane di Baghdad sapevano «indiscutibilmente» dell’arrivo di Nicola Calipari per un’«attività istituzionale», il posto di blocco era stato allestito «senza la più elementare misura precauzionale» e non vi era alcuna segnalazione, l’auto degli italiani procedeva a bassa velocità, i militari americani hanno agito «in uno stato di tensione» e in assenza di «regole chiare». Per tutte queste ragioni non si giustifica «l’autoassoluzione» decretata dai comandi americani. Sono questi i titoli principali della «controrelazione» diffusa ieri a Roma ad termine di una lunga giornata segnata da inspiegabili ritardi e attese.

La relazione, redatta dall’ambasciatore Cesare Ragaglini e dal generale Pierluigi Campregher, i due rappresentanti italiani in seno alla commissione mista formata con gli Usa, appare una dettagliata requisitoria che contesta punto per punto la versione americana dei fatti accaduti la sera del 4 marzo a Baghdad. Nessuna delle valutazioni espresse dai comandi statunitensi coincide con quella degli italiani che, nel dossier, descrivono l’improvvisazione dei militari, decritti come soldatini stressati, impreparati, ossessionati dalla paura e agli ordini di comandi che non si sono curati di segnalare il passaggio dell’auto. Se, da un lato viene esclusa la «volontarietà» dell’uccisione del dirigente del Sismi, dall’altro nella relazione diffusa ieri si mette l’accento sul fatto che, dopo la sparatoria al posto di blocco volante, la scena del delitto è stata rapidamente ripulita. In tal modo, pur essendo stati sparati decine di colpi, non è stato possibile effettuare un’adeguata investigazione sull’accaduto, non sono stati contati così i proiettili partiti dal fucile mitragliatore del soldato Mario Lozano e la sua arma non è stata prontamente sigillata per permettere successivi accertamenti.

La parte nella quale il giudizio implicito nei rilievi tecnici appare più duro e accusatorio nei confronti dell’operato dei militari Usa è quella relativa ai presunti accertamenti satellitari che, si fa notare,- non facevano parte del materiale esibito dalla controparte. Ciò - sostiene il dossier italiano - «potrebbe far considerare l’ipotesi, che i rappresentanti italiani rifiutano e non ritengono verosimile, che taluno abbia voluto alterare, o occultare, dei mezzi di prova». Ragaglini e Campregher spiegano di aver «accuratamente preso visione di tutto il materiale» che gli americani hanno consegnato nel corso dei lavori, ma che «null’altro esisteva se non ciò che è stato consegnato».

Sulla diffusione del rapporto con quattro ore di ritardo si è innestato un giallo che ha alimentato ogni sorta di voce. Verso le 20,30 il sottosegratario alla presidenza Gianni Letta si era spinto ad affermare ai giornalisti che lo interrogavano, che «non c’è alcun ritardo». Erano tuttavia passate ormai quasi tre ore dall’orario previsto per la consegna del documento alla stampa via Internet. Il sorprendente ritardo sarebbe stato causato da due ordini di motivi. Tra i dirigenti del Sismi, palazzo Chigi e la Farnesina vi è stata ieri una lunga mediazione per limare le frasi della relazione. In particolare si è discusso a lungo sulla risposta da dare alla frase contenuta nella relazione Usa che recita: «Gli Stati Uniti considerano l’intero Iraq zona di combattimento». Da questa considerazione consegue il fatto che anche i tremila militari italiani schierati a Nassiriya sono dentro un teatro di guerra, ma l’Italia ha sempre negato l’esistenza di questo contesto che obbliga i nostri soldati ad agire sotto comando britannico anche se, ufficialmente, sono impegni in una «missione umanitaria». Non solo. Quando gli americani affermano che tutto l’Iraq è zona di guerra e che «Baghdad è una città di 6 milioni di persone e di un gran numero di resistenti e terroristi che operano sia in città che nelle vicinanze» ricordano tra le righe all’Italia che gli 007 dovevano tener conto del contesto e comportarsi di conseguenza, adottando quelle che, secondo il comando Usa, sono le precauzioni che si debbono prendere e che i funzionari del Sismi non hanno seguito quella sera. L’altra ragione che ha ritardato la diffusione della relazione è più tecnica, ma pur sempre politica. Si trattava infatti di decidere quale sito avrebbe diffuso sul Web la versione italiana. Anche su questo Sismi, palazzo Chigi e Farnesina hanno espresso valutazione diverse. Sul portale della Farnesina l’annuncio della divulgazione del materiale era apparso fin da sabato, ma ieri pomeriggio è misteriosamente spartito. Poi si è pensato di affidare il dossier a vari siti non ufficiali del governo e, alla fine, si è optato per quello del governo che però, quattro ore dopo l’orario stabilito, non aveva ancora pubblicato nulla. Nel frattempo la relazione consegnata dall’ambasciatore Ragaglini e dal generale Campregher era stata limata fin nelle virgole e quindi consegnata alla presidenza della Repubblica, ai presidenti dei due rami del Parlamento, Pera e Casini e al presidente del Copaco, il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, Bianco. A quel punto il ministro degli Esteri Fini e il sottosegretario Letta si sono consultati ed hanno deciso che il primo passo da compiere era la consegna della relazione all’ambasciatore Mel Sembler, ricevuto in serata a Palazzo Chigi. Poi il presidente del Senato Pera ha annunciato che tutti i presidenti dei gruppi parlamentari avrebbero ricevuto il dossier per poterlo consultare. A tarda sera Letta ha tentato di mettere a tacere la girandola di voci facendo sapere che il ritardo era stato determinato dalla necessità di completare il testo e recapitare quindi il dossier alle massime cariche dello stato.

Massimo Cacciari

Tra la gente che affolla l'atrio di Ca' Farsetti, viene avanti una signora di mezz'età. Lo guarda estasiata, e dice: « Caro Massimo, il mio sì che è un voto consapevole... » . Il filosofo ringrazia, stringe la mano all'ammiratrice, mentre flash e telecamere lo bersagliano.

I cronisti premono, e via con la prima domanda: se lei fosse un elettore del centrodestra, andrebbe a votare al ballottaggio? « Assolutamente sì, e voterei Cacciari » . Non è che l'inizio. Lui, il professore, è abilissimo nel dribbling, e, quando, ripetutamente, gli si fa notare che per battere l'amico avversario Felice Casson dovrà avere dalla sua la Casa delle Libertà, ribatte, un po' stizzito: «Io chiedo voti ai veneziani» . E precisa: «Qualunque cittadino del centrodestra sa benissimo chi è Cacciari, forse non lo sanno nel centrosinistra».

Apparentamenti? « Non voglio sentire neanche la parola » . Poi, sbotta: «Nella logica del meno peggio, è ovvio che tra me e Casson, quelli del Polo scelgono me» . Già.

Ma se i seguaci di Berlusconi e compagnia, al ballottaggio, resteranno a casa? La partita è dura, anzi durissima, per il filosofo. Eppure a vederlo, con il suo fisico asciutto da asceta che neppure l'ampia piega del loden riesce a rimpolpare, con il ciuffo e la barba nera a dispetto degli anni che passano, a sentirlo parlare con la sua verve e le sue certezze, Massimo Cacciari conserva l'appeal dell'inossidabile star. Al di là delle percentuali («potevo prendere qualche punto in più, ma amen») , al di là dei sussurri colti al volo tra galoppini, segretari e supporter che gremiscono il piano nobile del Municipio ( « questa volta Massimo non ce la fa») , al di là, insomma, di come andrà a finire l'anomala e perfino bizzarra scommessa elettorale veneziana.

Cacciari, dunque, afferma: «Il distacco tra me e Casson è notevole; del resto, era nelle previsioni. Intendiamoci, tra noi non c'è alcuna differenza di orientamento politico generale, ma un confronto sereno e aperto sull'amministrazione della città. I veneziani si esprimeranno su chi ritengono più in grado di gestire i problemi, di affrontare le sfide future, segnando la discontinuità con la giunta uscente». Attacco frontale a Paolo Costa (i due, un tempo sodali, ormai hanno rotto i ponti), il sindaco ulivista che ha amministrato Venezia, nel passato quinquennio. E che ora tifa apertamente per il candidato Casson. La critica di Cacciari al primo cittadino che si congeda da Ca' Farsetti si riferisce soprattutto alla gestione delle grandi opere, in primis il Mose, annoso pomo della discordia sulla salvaguardia della Laguna. Costa ha dato il via libera al progetto, «riuscendo perfino — ironizza il professore — a tacitare il riottoso (e da sempre contrario) polo rosso verde di Gianfranco Bettin» .

«Se sarò eletto — spiega Cacciari — chiederò una moratoria, per valutare progetti alternativi al Mose, che non sono stati discussi» . È solo un accenno al suo programma che — promette il candidato sindaco — svilupperà durante i prossimi quindici giorni di campagna elettorale. Ma adesso, inutile nasconderlo, sono gli umori politici, le alleanze palesi e sotterranee, che animano il dibattito in Laguna.

Senza trascurare lo scenario post elettorale delle Regionali. Granitico, dice: «Io sono il centrosinistra, così come si presenta nel quadro nazionale. Unito, e sotto la guida di una personalità come Prodi, che di sicuro non è l'espressione di un polo rossoverde». Incalza: «Chi, però, mi accusa di aver fatto un' operazione neocentrista è un mascalzone» .

E Cacciari, senza tanti giri di parole, annuncia che, se uscirà vincitore, di sicuro manderà all' opposizione l'ala più radicale della sinistra, che annovera anche i gruppi no global guidati da Luca Casarini. E da Beppe Caccia, che, nella giunta Costa, era assessore alle Politiche sociali. Sono, assieme a Bettin, gli stessi fan dell'ex pm Felice Casson.

Gianni De Michelis

L'ex (molto ex) doge di Venezia Gianni de Michelis l'aveva detto: «Se Cacciari va al ballottaggio con Casson, non ho dubbi: scelgo il filosofo». Adesso che l'ipotesi è diventata realtà, il segretario del nuovo Psi non cambia idea.

Ha votato per un candidato della Casa delle Libertà, ma poiché il centrodestra è rimasto al palo, lui conferma che tra il pm e il professore non c'è partita. «Lasciamo perdere il suo passato recente, lasciamo perdere quel Massimo che ha rappresentato il nuovismo della Seconda Repubblica — dice —. Oggi Cacciari sostiene una piattaforma riformista credibile, e dunque va votato, per dare a Venezia un'amministrazione dignitosa» . Certo, fa effetto sentire dall'ex potente De Michelis giudizi lusinghieri all'indirizzo di chi, narra la leggenda, lo liquidò, durante l'epoca di Tangentopoli, con la battuta: «No, Gianni, non mi metto con i socialisti, sono già ricco di famiglia» .

«Balle — taglia corto il segretario del Nuovo Psi — Massimo non ha mai pronunciato quelle parole... ».

Sta bene, ma Cacciari oggi è cambiato politicamente? «No, no; è sempre stato un riformista. La verità è che, quando decise per la prima volta di candidarsi a sindaco di Venezia, si unì all'area politica più estrema. Quindi, si è incatenato al giro di Gianfranco Bettin, con contorno di ragazzi dei centri sociali. Poi, ha fatto un altro percorso. Oggi, paradossalmente è stato costretto a candidarsi per smontare quell'intreccio perverso da lui stesso creato. E' la nemesi. Comunque, ribadisco: Casson è improponibile, sto con Massimo».

Ride David Lane corrispondente dall’Italia dell’Economist dall’altra parte della Manica e dalla sua casa di Londra. Dove riusciamo a bloccarlo per telefono, distogliendolo da un «report» che deve consegnare subito al giornale. E ride con sibilo british. Quando alla fine di quest’intervista tiriamo in ballo il «modello Westminster». Per chiedergli se l’opposizione a Berlusconi debba essere «bypartisan» e costruttiva: «Westminster? Ma è proprio il contrario! Vuol dire contrasto duro e giorno per giorno al governo in carica». Ma non è solo stupore «politologico» quello di Lane. La verità è che il collega dell’Economist - coautore nel 2001 con Tim Laxton della celebre inchiesta sul Berlusconi unfit a guidare l’Italia - pensa che quel famoso modello bipolare sia stato letteralmente violentato dall’anomalia del modello Berlusconi. Anomalia mediatica, finanziaria, politica e istituzionale. Inassimilabile a qualsivoglia forma di governo conosciuta. Perciò Lane - baffi da ex ufficiale di carriera in Marina e ingegnere elettrico prima che giornalista - s’è presa la briga di spiegare ai suoi concittadini lo strano caso in questione. Con un volume dettagliato di pura storiografia giornalistica che ora giunge ai lettori italiani per Laterza: L’Ombra del potere (pagine 429, euro 19, traduzione di Fabio Galimberti, titolo originale è Berlusconi’s Shadow. Crime, Justice and the Pursuit of Power). Ovvero, fasti, nefasti, antecedenti e ascesa del signor B. Inquadrati nel famoso passaggio d’epoca dalla vecchia repubblica alla nuova, che nel giudizio di Lane conferma il trasformismo italico come autobiografia della nazione. Storia inverata nel miracolismo e nell’antropologia di un leader a cui tanta parte degli italiani ha dato il suo consenso. Per stanchezza, ingenuità, cinismo e mancanza di meglio... Morale: ce n’è per tutti, governo e opposizione, nell’analisi del «conservatore» Lane. Sentiamo.

David Lane, sono passati quattro anni dalla clamorosa inchiesta dell’«Economist» su Berlusconi «inadatto a guidare l’Italia». Ora il suo ultimo libro conferma la diagnosi, e in modo ancora più drastico. Perché?

«I risultati che gli italiani e non solo hanno potuto verificare, confermano che quella diagnosi centrava il bersaglio. E lo vediamo in tanti campi, dalla giustizia, all’economia, allo stile di governo, alle relazioni internazionali. Berlusconi ha deluso innanzitutto gli italiani più che gli stranieri, che peraltro non hanno mai riposto eccessive aspettative in lui, e nemmeno patiscono eccessivamente le sue scelte politiche. Sì, mi pare che siano proprio gli italiani i più delusi, o almeno dovrebbe essere così».

Ma dal suo osservatorio internazionale qual è la percezione che si ha del governo Berlusconi?

«L’abbiamo toccata con mano proprio in questa settimana. Con le ambigue e sfumate dichiarazioni sul ritiro delle truppe italiane dall’Iraq. Immediatamente seguite da una retromarcia di Berlusconi, che ha accampato il pretesto d’essere stato frainteso».

Sarebbe concepibile in Gran Bretagna, su tali argomenti, esternare in tv e tacere invece in Parlamento?

«No, e non solo in Gran Bretagna. Come minimo da noi verrebbe considerato un fatto molto anomalo, se non inconcepibile. Ma le anomalie come è noto sono ben altre...».

C’è il semestre europeo, pieno di gaffe, aggressioni e scontri, come sul caso Buttiglione...

«Infatti, e ho cercato di raccontare tutto questo nel mio libro. Guardi, per tagliar corto, voglio ripeterle a riguardo quel che ha detto Grahm Watson, capogruppo liberale britannico a Strasburgo. Ha parlato di fallimento personale di Berlusconi alla presidenza italiana del semestre. E ha detto che non aveva mai assistito, nei suoi nove anni e mezzo in Europa, a una presidenza preparata così male. Mentre negli altri casi il programma veniva allestito con anticipo di settimane, Berlusconi ha presentato il suo programma a semestre già iniziato, e per di più solo in italiano. Watson narra poi dei suoi colloqui romani di quel periodo con Berlusconi, ufficiali e a cena. Il premier diceva che tutti i giornalisti e i giudici erano dei “comunisti irriducibili”. E passò il resto di una serata a “raccontare barzellette come un piazzista di polizze assicurative”. Watson riferisce inoltre di essere uscito dal colloquio pensando che Berlusconi era completamente inadatto al compito».

Qualcuno potrebbe dire: i soliti inglesi snob e prevenuti contro l’Italia...

«Non c’entra lo snobismo. Sono solo i giudizi di Watson su certi comportamenti, riportati per filo e per segno nel mio libro».

Torniamo alle anomalie strutturali. Qual è a suo giudizio l’aspetto più preoccupante e senza precedenti del caso Berlusconi, e del modello politico che incarna?

«La cosa che più preoccupa politici e giornalisti stranieri sta proprio nel potere mediatico che Berlusconi esercita. Un filtro che gli consente di controllare l’informazione, privando gli italiani degli elementi per giudicare quel che accade. Da noi sarebbe una realtà inconcepibile, anche perché, da voi come da noi, la maggior parte della gente non legge i quotidiani politici per formarsi un’opinione, ma si abbevera alla tv».

Ritiene che ciò possa configurare un regime o qualcosa di simile?

«Non sono l’unico a pensarlo, ci sono tanti italiani a dirlo e a scriverlo. Il predominio sui media è inconcepibile e inspiegabile in una logica democratica. Per non parlare delle ricadute finanziarie e pubblicitarie del Berlusconi imprenditore, e insieme presidente del Consiglio: il famoso conflitto di interessi. Che il vostro premier non ha fatto nulla per dissipare. È un’anomalia davvero straripante, che esercita il suo peso anche nei confronti della magistratura. Aspetto tanto più rilevante se si pensa che l’ordine giudiziario indipendente è una colonna portante del vostro ordinamento costituzionale. Qui il pericolo è che si vada oltre i confini dell’ordinamento democratico».

Nel suo libro scomoda anche Mussolini. Non teme l’accusa di forzatura storica?

«No. I miei rilievi si riferiscono essenzialmente a ciò che Berlusconi stesso ha detto di Mussolini. Non è stato lui a dire che il Duce mandava la gente in vacanza? Che non è stato feroce e che non ha ammazzato mai nessuno? E poi tutte le sue imprecazioni contro i comunisti e contro il centrosinistra contengono sempre anche una vera e propria falsificazione storica, nei confronti dell’antifascismo e del suo ruolo storico. Trovo molto allarmante la svalutazione dell’antifascismo e della Resistenza, unita alla parificazione tra fascisti e comunisti in Italia. Qui non sono ammissimibili equivoci. I fascisti stavano con Hitler, erano dalla parte del torto».

E i comunisti?

«Senza alcun dubbio in Italia i comunisti hanno lottato per la libertà e per la democrazia. E i partigiani, anche quelli comunisti, hanno grandi meriti. Nessuna equiparazione è possibile con i ragazzi di Salò».

Insomma, lei denuncia un rischio molto forte di involuzione culturale e politica nella nostra democrazia. Una degenerazione già in atto. Ma lei sottolinea anche il ruolo del consenso degli italiani a tutto questo. Come lo spiega?

«Vorrei intanto precisare che non do giudizi moralistici o aprioristici. Mi limito a fotografare la situazione sulla base delle evidenze di fatto, raccontate in un volume analitico di oltre trecentocinquanta pagine. Quanto al consenso, è indubbio che la maggioranza degli italiani ha voluto questo governo. Anche perché l’influsso del potere mediatico è stato tale da convincere tanta gente per bene della bontà della politica di centrodestra. Certo, ci sono anche aspetti di mentalità ben precisa in Italia, per spiegare il credito concesso a Berlusconi. Penso al ruolo del perdono, tipico del costume cattolico. Nei paesi protestanti viene prima la punizione e poi il perdono. In Italia è il contrario. Beninteso, non è una questione antropologica o genetica. Scolpita nel carattere nazionale italiano. Il potere di Berlusconi è frutto di tante cose, dei media in primo luogo. E forse anche di una certa stanchezza sulla questione morale, dopo i traumi di Tangentopoli e le tragedie di Falcone e Borsellino. Allora l’Italia si trovava al bivio: ripulire la vita pubblica oppure rifluire, rinunciare. Purtroppo le grandi agenzie di opnione, dalla Chiesa ai media, non hanno insistito abbastanza su questa sfida davvero decisiva all’illegalismo».

Anche l’opposizione però avrà avuto i suoi demeriti, divisa come è stata e incapace di colpire al cuore l’anomalia berlusconiana per tempo...

«Il centrosinistra ha sbagliato a sottovalutare l’ingresso di Berlusconi in politica. E a non contrastare a fondo il conflitto di interessi nel periodo 1996-2001. Hanno pesato molto le divisioni e i personalismi. E poi la mancanza di un giusto equilibrio tra ragionevolezza e rigore. Credo che la coalizione di centrosinistra non abbia mai conseguito un buon punto di mediazione tra spinte estremiste e tendenze moderate, e lo abbia pagato».

Davvero ravvisa dell’estremismo, nel centrosinistra di oggi?

«Ci sono elementi che vanno ancora in questo senso, e che a mio avviso incarnano il passato e non il futuro»

Allora eccole servita la domanda delle domande, quella su cui molti litigano nel centrosinistra: con questo governo è possibile convivere in una logica bypartisan e costruttiva?

«Il bipolarismo modello Westminster? Significa posizioni polarizzate e contrapposte. Ogni giorno!».

I temi della legalità, del regime e del conflitto di interessi restano perciò irrinunciabili contro questo governo?

«Direi proprio di sì»

E sulla riforma istituzionale, sul premierato e quant’altro, sono auspicabili intese?

«Si può votare secondo coscienza su certi temi. Ma ora, se permette, le faccio io una domanda: il tentativo di intesa sulla Bicamerale ha prodotto qualche buon risultato?»

Berlusconi ha rovesciato il tavolo...

«Appunto

Unfit to lead Europe, l'articolo dell'Economist (maggio 2004)

«Questo è l´Iraq, questa è Bagdad, questa è la guerra».

Così Bernardo Valli ha concluso ieri il suo commento sulla drammatica sequenza per metà gioiosa e per metà luttuosissima che ha scandito tempi ed eventi nel giorno della liberazione di Giuliana Sgrena.

Rivediamola ancora quella sequenza, oggi che le informazioni sono un poco più ampie e tuttavia ancora incomplete e riprendiamola fin dall´inizio della vicenda, cercando di spogliarci il più possibile dalle troppe frasi fatte e dall´inevitabile retorica che le accompagna. A cominciare dalla parola «professionalità» che è stata sparsa a piene mani su tutti i protagonisti.

L´inizio è la visita della Sgrena e dei suoi due accompagnatori al recinto dei rifugiati di Falluja con al centro una moschea, dove sono da mesi attendati centinaia di iracheni scampati alla battaglia che ha semidistrutto quella città che era diventata la piazzaforte della guerriglia baatista e del terrorismo di Al Qaeda. Tra quei rifugiati ce n´è di tutte le specie: famiglie che lasciarono Falluja nell´imminenza dell´attacco americano, famiglie rimaste intrappolate nella battaglia e poi scappate alla spicciolata mentre tra le macerie ancora si combatteva, guerriglieri confusi tra i civili, tagliagole e bande di criminali comuni in cerca di prede.

Per i giornalisti coscienziosi che vogliano documentare la realtà guardandola con i propri occhi una visita a quell´accampamento di disperati è quasi un dovere professionale e la Sgrena è una di loro.

Ma è altrettanto professionale sostarvi non un minuto di più di quanto sia strettamente necessario per vedere, interrogare, prender nota e andarsene. Non più di mezz´ora al massimo dicono gli esperti. Prima che i criminali in cerca di prede possano avvertire i loro complici che stanno fuori dal recinto e siano in grado di preparare il colpo e rapire l´incauto visitatore.

Giuliana Sgrena è rimasta in quel caotico e rischiosissimo accampamento per oltre quattro ore. E´ entrata nella moschea, ha girato per l´attendamento, è passata e ripassata per quei sentieri. Molti l´hanno vista, alcuni ne hanno soppesato il valore di scambio e ne hanno informato i loro complici i quali hanno avuto tutto il tempo di organizzare l´agguato indossando financo divise militari e posteggiando giusto fuori dal cancello dell´accampamento.

Lì l´hanno presa senza nessuna difficoltà e di lì è cominciato il suo calvario che ha emozionato e mobilitato l´intera nostra nazione senza distinzioni di parte: pacifisti e interventisti, governo e opposizione, concludendosi tragicamente dopo un mese con la morte del suo liberatore e il ferimento della stessa Sgrena. Poteva perfino andar peggio, potevano restare uccisi tutti sotto i colpi del «fuoco amico», a settecento metri di distanza dall´aeroporto di Bagdad.

Forse la giornalista del «Manifesto» pensava che le sue idee di pacifista a oltranza le fornissero una sorta di salvacondotto; non sapeva quel che avrebbe dovuto invece sapere e cioè che quelle sue caratteristiche «politiche» accrescevano se mai il suo valore di scambio. La vicenda che ne è seguita ha dunque purtroppo inizio con un deficit di professionalità.

Ma purtroppo c´è un altro deficit di professionalità che chiude la tragica sequenza: quella corsa in auto al buio, sotto la pioggia, fino allo scontro fatale vicino alla base americana «Victory» a meno di un chilometro di distanza dal recinto dell´aeroporto.

Bernardo Valli ha descritto con scrupolo la pericolosità delle due strade che collegano la capitale con l´aeroporto internazionale. E´ pericoloso percorrerle di giorno, ma è assolutamente sconsigliabile avventurarvisi di notte. I rischi, gli agguati, gli errori, rendono quelle strade praticamente impercorribili nelle ore notturne. Una professionalità affinata dall´esperienza dei luoghi avrebbe consigliato di passare la notte nella «green zone» di Bagdad, meglio se ospiti dell´ambasciata italiana, e solo al mattino raggiungere l´aeroporto con le necessarie cautele. Lo avrebbero dovuto sapere i dirigenti del Sismi a Roma e gli agenti del servizio a Bagdad. E se da Roma ci fossero state sollecitazioni politiche a fare in fretta e a partire subito, gli operatori a Bagdad avrebbero dovuto rifiutarsi per tutelare la vita della persona liberata oltre che la propria e l´esito della missione loro affidata. Purtroppo così non è stato. Non sapremo mai il tenore dei colloqui tra Roma e Bagdad sulle modalità della partenza, neppure la Sgrena può esserne al corrente, ma questo è certamente un punto-chiave di tutta la sequenza.

Infine il drammatico e inspiegabile paradosso finale da parte americana. Si è saputo ieri che l´automobile che portava la Sgrena verso la salvezza non correva affatto all´impazzata ma procedeva a velocità ridotta; si è saputo anche che durante l´avvicinamento i militari americani erano stati avvertiti dell´auto italiana in transito. Come mai l´avviso non è stato fornito o è stato disatteso proprio vicino all´aeroporto? Ecco un altro punto oscuro che non sarà mai chiarito, ammesso che chiarirlo possa avere un qualunque effetto sulle vittime di questa drammatica avventura.

E´ difficile, anzi impossibile immaginarsi nei panni dei familiari di Nicola Calipari e anche nei panni di Giuliana Sgrena così terribilmente provata da tanti giorni di prigionia e soprattutto dall´aver visto morire il suo liberatore riverso su di lei per fare del proprio corpo lo scudo del suo.

Il tempo cancella di solito le più crudeli ferite, ma questa è di quelle che non si scordano da chi ne è stato partecipe e movente. Una ragione di più per tutti noi di voler bene all´ «uccellino ferito» nel corpo e nell´anima e ai familiari di Nicola che l´hanno perduto per una sequenza di errori sboccati in un dramma insensato.

* * *

«Questa è Bagdad, questa è la guerra». Non c´era bisogno dell´episodio Sgrena-Calipari per saperlo, ma esso ne è la tragica conferma. Non è questione di pro-americani e di anti-americani, etichette improprie e desuete. E non è questione se mantenere o ritirare le truppe italiane da Nassiriya. Nassiriya somiglia sempre di più alla fortezza nel deserto dei Tartari: un ridotto blindato da dove non si esce, che non serve a nulla, che ci sia o non ci sia.

Serve soltanto a mantenere la benevolenza di Bush nei confronti di Berlusconi, punto e basta. L´Italia in quanto nazione non ne ritrae né vantaggi né svantaggi se non il costo finanziario non indifferente di mantenere in quel deserto tremila soldati e sul rischio della vita cui ciascuno di loro è comunque esposto.

Una cosa è chiara: la guerra continua, l´instabilità irachena è evidente, l´autogoverno di quel paese non è affatto a portata di mano, la pacificazione ancora meno.

Quanto agli effetti positivi della guerra irachena nella regione mesopotamica e nel Medio Oriente, gli effetti sul Libano, sull´Egitto, sull´Arabia Saudita, in Siria, in Iran, penso che dovremmo essere molto cauti a cogliere nessi tra fatti disgiunti. Le speranze e i passi avanti nella situazione palestinese dipendono principalmente dalla morte di Arafat e dal coraggio politico di Sharon da un lato e di Abu Mazen dall´altro. La rivoluzione dei cedri in Libano covava da tempo, molto prima della guerra irachena, ma resta da vedere se l´unità tra cristiani, drusi, laici, sunniti, sciiti, resterà quando (speriamo presto) l´occupazione siriana cesserà.

Sulla conversione democratica di Mubarak c´è di che dubitare. Concedere elezioni presidenziali con più candidati è formalmente un passo avanti, ma pensare che il raìs egiziano possa essere sconfitto o meglio che si lasci sconfiggere da un libero voto popolare è una scommessa da dare a cento contro uno.

Certo, otto milioni di iracheni hanno votato nonostante le minacce e le intimidazioni. Hanno votato gli sciiti e i curdi. Questi ultimi per consolidare la loro indipendenza; gli sciiti seguendo la volontà della loro massima autorità religiosa e di mostrare con il voto di essere usciti dal vassallaggio esercitato ai loro danni per quarant´anni dalla minoranza sunnita. La quale, essendo predominante nelle province centrali e più popolose del paese e utilizzando la guerriglia a proprio vantaggio, aspetta di vedere le condizioni che le saranno offerte in termini di garanzie, con dominio del potere, quote petrolifere a loro beneficio.

I terroristi dal canto loro massacrano la popolazione sciita sperando che reagisca con pari violenza scatenando una guerra civile generale. Finora Al Sistani è riuscito a trattenere la sua gente da una contro-insorgenza. Se questa linea reggerà si potrà sperare in un´evoluzione pacificatrice che ha come sbocco uno Stato guidato dai coranici di Najaf e di Kerbala, con propaggini iraniane inevitabili.

Lo ripeto, l´anti-americanismo non c´entra. Ma c´è un punto fermo da considerare e lo ha esposto con grande chiarezza, proprio su queste pagine, lo storico inglese Timothy Garton Ash: di nuove guerre come quella irachena l´Europa non vorrà mai sentir parlare. Chiamatela lungimiranza o chiamatela viltà, cambia ben poco. Il dato è quello.

Le guerre producono effetti non valutabili preventivamente.

Effetti innovatori, distruttivi, ricostruttivi. Quella del 1914 sfasciò quattro imperi, quello degli Asburgo, quello germanico, quello russo, quello turco. Provocò la nascita del nazismo, del comunismo leninista e staliniano, del fascismo e del franchismo. E pose le premesse per il sorgere dell´impero americano.

Quella del ´39 distrusse il nazismo e l´impero giapponese, avviò la fine dell´impero britannico, di quello francese e delle altre nazioni europee coloniali; consentì lo sviluppo socialdemocratico dell´Europa occidentale e per conseguenza l´evoluzione democratica del capitalismo.

La guerra fredda si è conclusa con l´implosione del regime sovietico e l´espandersi incontrastato del pensiero unico e della democrazia imperiale degli Usa.

Ora siamo alla quarta tappa della storia contemporanea. Ha scritto qualcuno con paradossale ironia che il miglior agente di questa evoluzione storica è stato Bin Laden. E´ un paradosso che rientra perfettamente nell´eterogenesi dei fini. Ma nessuno sa dove ci porterà. Io non credo affatto che ci porterà in un aumento di democrazia nel mondo. Al contrario. Si vedono per ora riflussi antidemocratici e aumento di forza del potere economico rispetto alla democrazia politica proprio nei siti di più antica tradizione liberaldemocratica.

Queste comunque sono opinioni e non fatti. I fatti sono, per quanto riguarda l´Iraq, che la guerra continua ed è una guerra non solo crudele ma stupida. Da quando è cominciata fino ad oggi. E chissà ancora per quanto.

Sull'interdizione delle svastiche e della falce e martello richiesta al ministro Frattini da una trentina di parlamentari del Partito Popolare europeo, si misurano molte cose. La sfacciataggine di Vytautas Landsberghis, che minimizza come il suo paese abbia accolto l'arrivo della Wehrmacht con una delle più paurose stragi di ebrei della guerra. Si misura lo spessore storico del ministro Frattini, che sembra accogliere la richiesta poiché, scrive, comunismo e nazismo, pur diversi, erano retti da identica spinta distruttiva, l'uno voleva lo sterminio degli ebrei e l'altro lo sterminio (sic) della borghesia come classe. E aggiunge, dopo l'inevitabile uso improprio del concetto arendtiano di totalitarismo, che mentre dall'immediato dopoguerra di Hitler si sapeva tutto, di Stalin si seppe pochissimo fino al 1989. Avrà saputo pochissimo lui. Ma sarebbe inutile chiedere conto delle sue letture al ministro d'un governo il cui premier parla come neanche il defunto senatore Mc Carthy, sostenendo che tutta l'opposizione è comunista e porterebbe all'Italia «miseria terrore e morte».

Che vale discutere con chi ignora o oscura che l'idea del comunismo nasceva per rendere effettiva l'eguaglianza fra gli uomini, quella del fascismo e del nazismo per affermare il superuomo e la razza, e ogni ricerca sulle colpe e degenerazioni dell'uno e dell'altro ha un senso soltanto se parte di qui? Piuttosto è da chiedersi come mai sia così debole la reazione, giacché soltanto due articoli restituiscono la serietà del metodo storico, quello di Piero Sansonetti per Liberazione e quello di Davide Bidussa, ospitato (forse con fatica) sul Riformista. E perché l'anticomunismo non è mai stato così rozzo come oggi, quando l'Urss è implosa e di partiti comunisti non ce n'è che due, forse uno e mezzo in Italia e pochissimi in Europa, e molto meno estesi di quanto sia la destra razzista? Sembra che per il comunismo valga quello che vale per l'antisemitismo in Polonia: di ebrei non ce n'è più, l'antisemitismo prospera.

I motivi, credo, sono due. Il comunismo è stato la denuncia dell'ineguaglianza fra gli uomini costitutiva del meccanismo del capitale, ha animato più d'un secolo di conflitti sociali e ne restano da distruggerne le tracce nell'idea di società che ha dominato l'Europa keynesiana del dopoguerra. E' questo che muove le uscite della destra; per Berlusconi il Bene è la proprietà privata e il Male qualsiasi, non dico sua contestazione, ma limitazione. Per gli Stati Uniti, dove neanche Keynes fece breccia salvo per breve tempo nel modello rooseveltiano, la libertà è inseparabile dalla assoluta libertà dell'impresa e dalla fungibilità del lavoro come merce. Obiettivo ancora da raggiungere del tutto nella vecchia Europa.

Una seconda causa è il rifiuto del marxismo da parte della vecchia e delle nuove sinistre. E' un fenomeno non solo generazionale - quello per cui le vangate di merda gettate sulle vite e il senso dei più vecchi fra noi neppure toccano i più giovani. Esso indica una cesura culturale avvenuta anche con il 1968, che aveva ragione di avvertire ostili i partiti comunisti, ma per qualche tempo fece propri i paradigmi marxisti estendendoli all'insieme di quel che chiamava «sistema». Questa origine se l'è scrollata di dosso, come l'ha rigettata, con motivi più consistenti, il movimento delle donne. Perché, se non una poderosa rimozione, mette nello stesso sacco l'esperienza sovietica, per di più ridotta ai gulag, Stalin, Lenin e Marx? Quest'ultimo citato ormai di regola non senza le nefandezze che avrebbe provocato? Il conflitto sociale sparisce o trasmuta in forme diverse dallo scontro capitale-lavoro (l'altro giorno uno stimato amico definiva comica sul nostro giornale la questione della classe operaia). Fa parte dell'attuale «ideologia italiana» questa mutazione, che isola quelli di noi che criticarono l'Urss oltre trent'anni fa, mentre molti leader che allora su questo tacevano tumultuavano alla nostra sinistra. E oggi sono insediati nell'establishment in veste di storici e moralizzatori.

La legge per le coste sarde ora al vaglio della Consulta

Soru difende la sua creatura: «Ci proibiscono di far bene» La Corte costituzionale avrà tre mesi per decidere sul ricorso

Cinque minuti prima delle 13 il Consiglio dei ministri si è messo di traverso alla legge sulle coste voluta, primo fra tutti, da Renato Soru. Come anticipato ieri dall'Unione Sarda, il Governo Berlusconi, a dieci giorni dalla decorrenza dei termini per opporsi alla legge regionale 8/2004 ("Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica"), ha sollevato la questione di legittimità.

Uno scontro vero e proprio tra poteri dello Stato. L'articolo 127 della Costituzione affida alla Corte costituzionale il compito di dirimere la controversia. L'altro giorno erano stati tredici sindaci della Sardegna (in testa i primi cittadini di Olbia e Cagliari, Settimo Nizzi ed Emilio Floris) a sollecitare una presa di posizione del Governo. Per il ministro per gli Affari regionali Enrico La Loggia, che ha proposto il provvedimento, approvando la legge sulle coste la Regione è andata oltre le sue competenze.

Il ministro. A chi ci vede uno scontro politico bello e buono il ministro di Forza Italia replica sostenendo che «il Governo non poteva fare diversamente che impugnare la legge, così come si è fatto per qualunque altra materia e per qualsiasi altra Regione di qualunque colore. Semplicemente», afferma La Loggia, «abbiamo fatto un'analisi molto scrupolosa di decisioni prese dalla Regione che presentavano evidenti aspetti di illegittimità costituzionale perché sforavano di molto le competenze dello statuto regionale della Sardegna e abbiamo agito di conseguenza».

La notizia, già prima dei lavori del Consiglio dei ministri, era data per scontata, ma nessuno ha voluto fare commenti prima dell'ufficialità. Alle 15.06 un flash dell'Ansa scatena le reazioni del centrosinistra e degli ambientalisti, per lo più a livello nazionale. Parla solo Soru. La maggioranza alla Regione si astiene dal fare commenti. Poco prima delle nove di sera la replica è in un comunicato del presidente della Giunta.

«Dalla lettura delle motivazioni non si capisce che cosa vuole dire il Governo. La Regione», scrive Renato Soru, «tutela troppo o troppo poco il suo territorio? Può disporre di una delle sue risorse fondamentali, l'ambiente, oppure non deve farlo perché il Governo pensa di poterne fare una tutela migliore? E in attesa che lo faccia, dobbiamo assistere impotenti alla distruzione definitiva di questo bene?». Il presidente della Giunta aggiunge: «Credevo che il compito del Governo fosse quello di sopperire a una mancanza di tutela, e non di proibire a una Regione di farlo bene e per proprio conto. Mettono in discussione i poteri e la nostra autonomia speciale in maniera anacronistica, quando una Regione a statuto ordinario, la Toscana, solo pochi giorni fa ha avuto riconosciute le competenze in materia di tutela del patrimonio artistico e culturale, e ha ottenuto questo risultato nonostante l'opposizione del Governo. Questo ci incoraggia nella rivendicazione del nostro diritto di programmare responsabilmente l'uso delle nostre risorse in funzione dello sviluppo».

Ancora Soru: «Credo che siamo dalla parte giusta e a leggere le motivazioni non mi viene nessun dubbio su quello che abbiamo fatto. Il ricorso è così singolare in quella prima parte, che spinge a pensare che l'intento del Governo sia quello di bloccare la norma che impedisce che la Sardegna diventi la piattaforma eolica del Mediterraneo. Dopo le servitù militari non può esserci imposta anche la servitù eolica nazionale. E dopo, cos'altro?».

La legge. Dopo un primo vincolo imposto dalla Giunta con una delibera del 10 agosto, i provvedimenti sulle coste sono diventati legge con un voto del Consiglio il 25 novembre scorso, arrivato dopo un aspro confronto in aula. Il centrodestra, prima ancora del dibattito, aveva contestato la legittimità del provvedimento. Per la Giunta il provvedimento è nato dall'esigenza di riempire il vuoto normativo determinato dall'annullamento da parte del Tar e del Consiglio di Stato di 13 dei 14 Piani paesaggistici territoriali.

Stando alla legge 8, la Giunta dovrà approvare entro un anno il Piano paesaggistico regionale. Il terzo di dieci articoli dispone il blocco degli interventi nella fascia costiera dei 2 chilometri, ad eccezione dei Comuni con il Puc approvato e del Ptp del Sinis. La legge fissa limiti anche per l'installazione di nuovi impianti eolici.I tempi.

Il Governo ha dieci giorni per depositare il ricorso nella cancelleria della Corte costituzionale. La Consulta fissa l'udienza in discussione entro novanta giorni dal deposito del ricorso stesso. Solo nel caso in cui la Corte ritenga che «l'esecuzione dell'atto impugnato possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico», accorcia i tempi. Nel caso la discussione viene fissata in 30 giorni e il dispositivo della sentenza depositato entro 15. Per la legge sarda si seguirà certamente la prassi ordinaria.

Pioggia di commenti

Gli ambientalisti: uno scandalo Pili: legge dannosa

Il mondo ambientalista è in subbuglio, a Cagliari e a Roma. «La decisione del Governo è semplicemente scandalosa», afferma Ermete Realacci, dirigente di Legambiente e membro dell'esecutivo della Margherita. «Il Governo dei condoni e della sanatoria dell'abusivismo edilizio impugna una legge che tutela il paesaggio, la bellezza e l'identità dell'Isola. Chiederemo un immediato confronto in Parlamento».

Non è più tenero Alfonso Pecoraro Scanio, presidente del Verdi. «Siamo al salva-cantiere, ovviamente quello di casa Berlusconi. Il centrodestra mostra, ancora una volta, una straordinaria miopia nei riguardi della questione ambientale». Parla di «vergogna» anche Sergio Gentili, esponente della direzione nazionale Ds e portavoce di Sinistra Ecologista. «È un atto di prepotenza che colpisce l'autonomia di una Regione a statuto speciale». Per il segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, ieri a Cagliari, «non sarebbero intervenuti se avessero deciso di devastare le coste con la speculazione. Il loro federalismo è laissez faire, la devastazione dell'economia e della società. La nostra difesa dell'autonomia è la difesa della terra».

Il ministro per gli Affari regionali Enrico La Loggia parla di «polemiche strumentali e becere». Per il leader del centrodestra sardo, Mauro Pili, «è un atto dovuto per una legge fatta dal centrosinistra contro la Sardegna e contro i sardi. I personaggi che si ergono a difensori della Sardegna sono gli stessi che hanno imposto il parco del Gennargentu fatto di vincoli capaci solo di bloccare lo sviluppo contro le popolazioni locali. Ai signori del centrosinistra nazionale che si occupano della Sardegna solo per le vacanze», aggiunge Pili, «dico che non ci saranno oasi di Stato, così come hanno sempre pensato di trasformare la Sardegna in questi anni».

Per Eugenio Murgioni, sindaco di Castiadas e consigliere regionale di Fortza Paris, «la Giunta, nonostante i proclami e le belle parole, ha operato in questo campo con troppa fretta e superficialità. Al nuovo esecutivo manca un progetto globale e anche la capacità di perseguire singoli obiettivi». Diversa la posizione di Linetta Serri, presidente dell'Anci Sardegna: «Non conosco le motivazioni, anche se mi sembrano difficili da trovare. Un'impugnativa all'Alta corte può avvenire solo per un eccesso di potere. Non mi sembra che questo sia avvenuto. Parlerei piuttosto, anche per la competenza esclusiva della Regione in materia urbanistica, di una volontà centralistica che non è condivisibile. Un rigurgito di centralismo che giudichiamo in modo del tutto negativo».

Settimo Nizzi, sindaco di Olbia, si gode il momento: «Siamo assolutamente felici, soprattutto perché si farà finalmente chiarezza. Da subito noi abbiamo sollevato il problema dell'incostituzionalità della legge. Quando un Governo impugna un provvedimento, non lo fa a cuor leggero, ma con il supporto degli uffici, che non danno una lettura di parte. Sarà la Corte costituzionale, nella quale riponiamo la massima fiducia, ora, a poter decidere liberamente».

Vincenzo Tiana e Roberto Della Seta, presidenti regionale e nazionale di Legambiente, pongono la stessa fiducia nella Consulta, «affinché venga garantita, come impone la Costituzione, la tutela del territorio e del paesaggio». Per Wwf Italia «si è scatenata la pretestuosa polemica di tutte quelle forze politiche che hanno rifiutato qualsiasi seria limitazione alla politica del cemento».

Ma per Giorgio La Spisa, capogruppo di FI in Consiglio regionale, «l'impugnazione è un atto che il Governo nazionale ha sicuramente valutato con la massima attenzione, per verificare la fondatezza dei rilievi di illegittimità da più parti segnalati. Adesso la competenza a giudicare passa dalle sedi politiche a quelle della giurisprudenza costituzionale: una sede autorevole e neutrale rispetto alla dialettica tra i partiti».

Per Gianni Biggio, presidente di Confindustria Sardegna, «il Governo si è preso un bel rischio. Se la Consulta dovesse dar ragione alla Regione, per Soru sarebbe un colpo eccezionale. Non sono comunque sorpreso dalla decisione del Governo, troppi i dubbi sollevati da più parti. Di sicuro», conclude Biggio, «questo gran parlare non ci giova. Servono dialogo e serenità. Per il bene di tutti». (e. d.)

Le motivazioni del Consiglio dei ministri: nel mirino il blocco della fascia costiera e l'eolico

«Quelle norme sono illogiche e irrazionali»

Il Governo mette all'indice, al primo punto del provvedimento di impugnazione, alcuni passaggi degli articoli 3 (Misure di salvaguardia) e 4 (Interventi ammissibili), commi 1 e 2, della legge regionale 8/2004. L'articolo 3 stabilisce il blocco di 18 mesi nella fascia di 2 chilometri dalla battigia, che scende a 500 metri nelle isole minori. Fanno eccezione i Comuni con i Puc approvati e il Ptp 7, nel Sinis. Il divieto (articolo 3) riguarda «nuove opere soggette a concessione ed autorizzazione edilizia», nonché «quello di approvare, sottoscrivere e rinnovare convenzioni di lottizzazione».

Per il Governo queste norme «risultano illogiche e manifestamente irrazionali», in contrasto con l'articolo 3 (tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge) e 97 (imparzialità dell'amministrazione) della Costituzione. «I criteri adottati», si legge nel provvedimento del Consiglio dei ministri, «che non trovano giustificazione in alcuna valutazione paesistica, non sono tali da soddisfare le finalità di tutela perseguite, sia per quanto riguarda i limiti fissati entro i quali è vietata la realizzazione di nuove opere, sia per la previsione delle deroghe ad esclusione da tali divieti».

Per gli stessi motivi «è censurabile» l'articolo 7: dice che gli interventi pubblici possono essere autorizzati dalla Giunta. Contestato, al punto 2 del provvedimento, il comma 3 dell'articolo 8: dispone che fino all'approvazione del Piano paesaggistico regionale, «è fatto divieto di realizzare impianti di produzione di energia eolica, salvo quelli precedentemente autorizzati», nel caso in cui, però, lo stato dei lavori abbia già comportato un'irreversibile modificazione dello stato dei luoghi. In caso contrario, anche se autorizzati, gli impianti devono essere sottoposti a valutazione di impatto ambientale.

«Tali disposizioni», sostiene il Governo, «eccedono dalla competenza statutaria di cui agli articoli 3 e 4 dello Statuto speciale di autonomia, ponendosi in contrasto con l'articolo 117, comma 2, lettera s, della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell'ambiente e dei beni culturali». La legge regionale 8 viola il decreto legislativo 387/2003, che recepisce una direttiva europea sulla promozione dell'energia prodotta da fonti rinnovabili, «laddove prevedono che tali fonti sono considerate di pubblica utilità». (e. d.)

BARI – L’esercito degli ecomostri è ancora in piedi. Ferito a morte Punta Perotti, crollato per un terzo, a Bari, domenica mattina, restano da demolire decine di brutture e scempi sparsi un po’ ovunque. Per uno che cade, insomma, almeno sedici ne restano in piedi: sedici emergenze che Legambiente ha sottolineato con ,’evidenziatore, in un dossier intitolato «I complici di Punta Perotti». Sedici mostri che sfidano il tempo e la legalità, oltre che il paesaggio e la bellezza di luoghi mozzafiato. Ma c’è di più.

Se il sindaco di Bari, ex pm antimafia, dichiara che ,’abbattimento di Punta Perotti è stata «la battaglia giudiziaria più difficile della sua vita », mentre i costruttori minacciano la richiesta di un risarcimento milionario, a Licata, in Sicilia, accade esattamente il contrario: è la ditta di demolizioni Scirè a chiedere un risarcimento al comune. Il perché? L’amministrazione comunale non adempie alla demolizione dei mostriciattoli cresciuti a ridosso del mare, demolizione che è stata addirittura definita per contratto. E. una storia che risale al Duemila, spiega Giuseppe Arnone, avvocato e responsabile della segreteria di Legambiente, che sta curando personalmente la causa di risarcimento: «Nel 2000- spiega Arnone - anche per via di Ciro Lomastro che era un prefetto molto energico, si giunse finalmente alla chiusura di un contratto tra una ditta di demolizioni - ,’unica che aveva dato la propria disponibilità - e il comune di Licata. La ditta avrebbe dovuto demolire gli immobili, definiti "insanabili", sulla costa. In altre parole: centinaia di costruzioni escluse dalla sanatoria edilizia.

Il contratto si chiuse, e cominciarono le prime demolizioni». Iniziarono, ma terminarono presto: «La ditta riuscì a effettuarne soltanto cinque. Il prefetto fu trasferito e da allora non s’è mosso più niente. E. cambiato anche il sindaco, ora c’è Angelo Biondi (An), e ,’impresa ha sollecitato più volte ,’amministrazione, affinché si potesse ultimare ,’operazione. Ora il contratto è scaduto. L’impresa ha affrontato molte spese per la demolizione e, il 25 aprile, ha fatto causa al comune per ottenere il risarcimento dei danni: 50mila euro».

Le costruzioni di Licata non sono tra le mostruosità più ingombranti del paese, non figurano tra i sedici ecomostri censiti da Legambiente nel suo dossier, ma spiegano bene come sia difficile far piazza pulita del,’abusivismo edilizio in Italia. E in particolare al Sud, specialmente in Sicilia e Campania, che si contendono il primato della sfregio al paesaggio, e dove spesso ,’abusivismo non collima soltanto con ,’inerzia delle amministrazioni, ma soprattutto con la forza militare e intimidatoria di mafia e camorra. La valle dei tempi di Agrigento, per esempio, costruita nel bel mezzo di un.area archeologica: in parte sono state abbattute, con un lunga battaglia vinta, in parte, nel 2001, quando le prime ruspe iniziarono a stritolare il cemento, varcando per la prima volta la soglia della valle. La prefettura di Agrigento e il Genio militare diedero il via libera: sei scheletri andarono giù. Ma molti altri restano ancora in piedi e Legambiente denuncia ,’inerzia della regione guidata dal forzista Totò Cuffaro. Oppure le ville abusive di Pizzo Sella, cresciute su quella che a Palermo, ormai, tutti chiamano la «collina del disonore». Sono ormai patrimonio del comune, ma nonostante la Cassazione abbia definitivamente stabilito ,’illiceità della loro lottizzazione, restano lì come se nulla fosse. Per intendersi: tra le concessioni, ne figurava una intestata alla sorella di Michele Greco, boss conosciuto come «il papa». «Per noi, in Sicilia, conclude ,’avvocato Arnone, «in questi anni il problema principale non è stato quello di abbattere: abbiamo dovuto invece contrastare la nascita di nuovi mostri, di sanatorie e nuove concessioni». Insomma, una vera e propria resistenza.

In Campania è emblematica la storia del,’albergo Castelsandra, detto anche «,’hotel della camorra ». «E. stato costruito nel 1971 su un promontorio stupendo da un imprenditore belga - spiega Michele Bonuomo, responsabile regionale di Legambiente - Poi ceduto a famiglie che, a quanto pare, erano legate alla camorra. C.è chi dice che sia stato costretto a farlo dopo forti pressioni. Queste famiglie ampliarono la struttura, costruirono villette tutt.intorno, costruzioni che in realtà erano dipendenze del,’albergo stesso.

E come se non bastasse costruirono anche un orribile ascensore sulla spiaggia, nonostante, si badi bene, l’albergo non sia esattamente sulla spiaggia. Fu una sorta di prova di forza». L’ascensore, almeno quello, fu abbattuto tre anni fa. A colpi di dinamite. «Però ,’albergo è ancora in piedi», continua Bonuomo. A quanto pare a causa della ferma opposizione del comune di Casltellabate. «La Regione, il parco del Cilento e il ministero del,’Ambiente sono per ,’abbattimento - spiega Bonuomo - ma il comune si oppone e propone un progetto di riqualificazione: ,’albergo, quello costruito dal,’imprenditore belga, non era abusivo, ma per le villette si può procedere tranquillamente al,’abbattimento». E invece non si procede. Un braccio di ferro che dura almeno da tre anni.

Nel frattempo s’è scoperto che, sebbene non abusivo, ,’albergo è comunque illegittimo: «Nella zona sulla quale è stato costruito esistevano usi pubblici e inalienabili. Purtroppo siamo in un’area rappresenta ancora l’impunità - conclude Bonuomo - in Campania si segnalano 20 casi di abusivismo al giorno. Molti dei quali sulla costiera amalfitana». E anche la Toscana, benissimo. Uno scandalo chiamato «Elbopoli», per spiegare che intorno all’ecomostro di Procchio, sull’isola d’Elba, erano coinvolti anche nomi insospettabili: furono rinviati a giudizio due ex prefetti, un magistrato, un sindaco, costruttori e tecnici privati e pubblici. Fu sequestrato nel 2003, non è ancora stato demolito. E ancora: 11mila metri cubi di cemento armato che sovrastano ,’insenatura dello lo «spalmatoio», a Giannutri, un’isola che fa parte dell’arcipelago toscano. In Liguria hanno sfregiato persino le Cinque Terre: lo «scheletrone» di Palmaria, alto trenta metri, costruito su un isolotto di fronte a Portovenere.

Una vicenda iniziata nel 1975 che ancora non trova una soluzione, dopo un’infinita serie di rimpalli che, forse, soltanto ora potrebbero portare la giunta regionale e ,’amministrazione comunale al tanto sospirato abbattimento. Il paesaggio, insomma, continua a subire abusi senza sosta. Gli ultimi cinque anni sono stati da record: nel 2004, soltanto nel Lazio, sono stati registrati 2936 casi di abusi edilizi. E a Licata c’è un’impresa coraggiosa che non riesce a far partire le ruspe.

Dall'organizzazione appello ai 21 paesi che si affacciano sul bacino

"Danni enormi se non si sceglie la strada dello sviluppo sostenibile"

ROMA - Un metro di spiaggia e poi un metro di cemento, cento centimetri di scogli e altri cento di asfalto. E' il drammatico destino delle coste del Mediterraneo da qui ai prossimi venti anni se i 21 paesi che si affacciano sul vecchio Mare Nostrum non cambieranno drasticamente i loro comportamenti, imboccando in maniera decisa la strada dello sviluppo sostenibile. A lanciare l'allarme è l'Unep, il programma ambientale delle Nazioni Unite, che ha creato un'apposita sezione, la Map (Mediterranean action plan), per la tutela del Mediterraneo.

Il Blue Plan, il dossier realizzato dall'organizzazione per fotografare lo stato di salute ambientale delle coste mediterranee e i rischi ai quali vanno incontro, è stato presentato a Roma in occasione dell'apertura di Park Life, il "Salone dei parchi e del vivere naturale". Il quadro è a tinte fosche, anche se il coordinatore del progetto, il maltese Paul Mifsud, si è premurato di precisare che "comunque negli ultimi 15-20 anni moltissimo è stato fatto".

Le minacce per il Mediterraneo, uno dei 25 hotspots mondiali per la biodiversità, si chiamano cemento, traffico marittimo, turismo di massa, sovrappopolamento. "Attualmente - si legge nel dossier dell'Unep - il cemento sottrae alla natura il 40 per cento dei litorali dove vive il 7% di tutte le specie marine mondiali. Ma questa cifra è destinata a crescere: entro il 2025 oltre il 50% delle coste sarà cementificato". Si tratterebbe dell'inevitabile risultato della pressione demografica che in riva al mare ogni anno cresce a un tasso dell'1 per cento. "E' facile immaginare - prevede ancora il Blue Plan - che la popolazione che abita le città costiere raggiunga la cifra di 90 milioni di abitanti entro il 2025 rispetto ai 70 milioni registrati nel 2000".

A farne le spese non sarebbe ovviamente solo il piacere romantico di una passeggiata a piedi nudi sul bagnasciuga. L'Unep, oltre a temere gravissime ripercussioni ambientali, soprattutto sulle fragili e fondamentali zone umide presenti in corrispondenza con i grandi estuari dei fiumi, quantifica il danno in termini monetari. "Il valore strettamente economico di questi ambienti - ricorda il dossier - è di gran lunga superiore a quello di laghi, fiumi, foreste e praterie e può arrivare ai 2,4 milioni di euro per chilometro quadrato".

Altro problema sarebbe poi quello legato all'erosione delle coste, da un lato minacciate dall'innalzamento dei mari dovuto al riscaldamento globale, dall'altro sempre meno rifornite di sedimenti di origine fluviale. "La cementificazione del letto di fiumi e torrenti assieme alla costruzione di dighe e la deviazione artificiale dei corsi d'acqua - denuncia ancora il Blue Plan - ha infatti diminuito del 90 per cento la quantità di sedimento che raggiunge il mare negli ultimi 50 anni".

Il dossier, realizzato in occasione del trentennale della Convenzione di Barcellona, primo tentativo di collaborazione internazionale per la salvaguardia del Mediterraneo, cerca anche di proporre delle linee di azione per invertire la rotta. La parola magica è naturalmente "sviluppo sostenibile", con tutto il suo corollario di scelte nella gestione del territorio, nello sfruttamento delle risorse idriche, nella valorizzazione dell'eco-turismo, nelle scelte strategiche in materia di trasporti.

L'Unep spera di imporlo ai 21 paesi che si affacciano sul Mediterraneo attraverso una rete sempre più vincolante di Protocolli. Sei di questi già esistono, ma il più importante deve ancora vedere la luce. Entro il 2007 dovrebbe essere fissato infatti uno stringente quadro normativo, che si spera gli Stati vogliano assumere anche come vincolo legale, per fissare i criteri di sfruttamento del territorio costiero.

Una materia nella quale una volta tanto l'Italia (o per meglio dire una sua regione) è all'avanguardia, visto che uno dei modelli ai quali questo Protocollo potrebbe ispirarsi è la legge varata recentemente dalla giunta regionale della Sardegna per tutelare le sue coste dallo sfruttamento edilizio.

Appello a Romano Prodi, a Bologna e a Roma, di un folto gruppo di intellettuali, di addetti ai lavori nell’ambito dei beni culturali e ambientali: in tv, nei comizi, negli incontri, parli di più di cultura e di ambiente come valori fondativi della nostra identità nazionale, come investimento pubblico strategico per conservare, tutelare e far conoscere il grande e minacciato patrimonio storico-artistico-paesistico. Glielo rivolgono da mesi oltre trecento esperti e specialisti di questa materia. Glielo hanno ripetuto martedì scorso a Bologna in una tavola rotonda (con Ezio Raimondi, Felicia Bottino, Pier Luigi Cervellati, Marco Cammelli, Andrea Emiliani, Ennio Riccomini e altri) e giovedì scorso a Roma, nel corso di un convegno dal titolo di per sé significativo: “Beni culturali: una politica da ricostruire”, organizzato da Assotecnici, Bianchi Bandinelli e Comitato per la Bellezza. Un dibattito intenso, quest’ultimo, coordinato da Maria Serena Palieri e animato da Irene Berlingò la quale ha ribadito i punti di vista della associazioni. Alla maggioranza degli intervenuti nel vivace dibattito piace in realtà di più la dizione spadoliniana: beni culturali e ambientali. Indebolito, con un errore storico, il rapporto fra loro, in realtà il territorio italiano risulta sgovernato e con esso il paesaggio. Specie dopo il confuso, mediocre Codice Urbani che in poco tempo ha subito già due rimaneggiamenti ministeriali. Per non parlare della nuova legge sull’ambiente: un vero smantellamento della tutela.

Qual è la “missione” del Ministero oggi? “Dobbiamo studiare, lavorare per conservare, per tutelare, o per vedere qual è il maggior reddito possibile ricavabile da quel bene?”, si è chiesto il soprintendente di Pompei, Piero Guzzo. In campo ambientale non va meglio, come ha osservato Gaetano Benedetto segretario generale aggiunto del Wwf: “Difendere la natura sembra diventato un corollario della politica ambientale, non la missione fondamentale degli Enti parco”. Su questo punto strategico è stato molto preciso l’ex ministro dei BC, senatore Domenico Fisichella: “Siamo di fronte ad una questione nazionale che è tutt’uno con la statualità. Io non sono statalista e però c’è stata una deriva economicistica che rischia di snaturare il carattere del bene culturale che è bene pubblico. Esso è irriproducibile e quindi unico, mentre il bene economico è riproducibile, anzi seriale. Certo, anche il primo può avere ricadute economiche, ma il suo valore di fondo è pubblico”. Fisichella ha criticato in profondità l’attuale situazione del Ministero (“Mischia contraddittoriamente privatizzazione e burocratizzazione”) e la secca riduzione dei fondi. Un altro ex ministro, Giovanna Melandri, ha rivendicato la scelta di un Ministero della Cultura, “alterato però dalla riforma interna, con le direzioni regionali che, da organismi di coordinamento e da interfaccia delle Regioni, sono diventate organismi di gestione svuotando le Soprintendenze territoriali”. Melandri ha chiesto la cancellazione della “Arcus SpA”: così com’è configurata oggi, essa è una sorta di cassaforte per i ministri delle Infrastrutture e dei Beni Culturali. “Bisogna restituire finanziamenti stabili e adeguati alla mano pubblica. Se essa non è forte, neppure i privati vengono attratti”. Sul possibile allargamento delle competenze al turismo ha messo un punto interrogativo.

La maggioranza degli intervenuti ha però detto no a questa prospettiva: il turismo è un indotto del patrimonio storico-artistico-ambientale, è altra cosa; certo esige un centro di coordinamento nazionale e però non va mescolato con la tutela del patrimonio stesso, né la deve influenzare. “Nel 1870”, ha esemplificato Mario Torelli, archeologo e rappresentante del Pdci, “il grande Theodor Mommsen andò a Firenze ad incontrare il ministro dell’Istruzione, Pasquale Villari, e gli disse: “A Roma si va solo con idee universali”. E Villari di rimando: “E noi l’abbiamo: la Scienza”. Poteva essere ingenua utopia, ma la spinta ideale era assai forte. Ne vediamo poca invece nel programma dell’Unione per la cultura”. Un’opinione piuttosto condivisa. “Certe impostazioni liberiste e privatizzatici del patrimonio artistico e ambientale c’erano già nei gioverni di centrosinistra”, ha sottolineato Gaetano Benedetto. “Il centrodestra le ha estremizzate in modo becero. Il maquillage non basta certo”. “Dopo le elezioni”, è stato l’appello dell’assessore verde all’Ambiente della Regione Lazio, Angelo Bonelli, “dobbiamo ritrovarci per creare un fronte di intellettuali, di forze politiche che credono ancora ai beni culturali e ambientali come a valori costitutivi del Paese e della sua identità, che li considerano, per principio, inalienabili”. “La separazione fra beni culturali e beni ambientali è stata un grave danno”, gli ha fatto eco Patrizia Sentinelli di Rfc. “Bisogna ridefinire in tal senso l’orientamento di fondo del Ministero, mirando a ricostruire una strategia di conservazione e di tutela.” Che fare allora del Codice Urbani e della legge ambientale Matteoli? “Con un decreto il nuovo governo Prodi potrebbe sospenderne l’efficacia”, ha chiarito Sauro Turroni, vice-presidente della commissione Ambiente del Senato e protagonista dell’affossamento della disastrosa legge urbanistica del centrodestra. “La direzione di marcia dev’essere quella”.

Certo, il Ministero non funziona e sembra in stato confusionale. Pio Baldi, direttore generale, ha evidenziato le “criticità gestionali”: “Dieci anni fa, i passaggi di una pratica di restauro erano quattro. Oggi sono sette. Salvo complicazioni. Una catena di comando che non funziona più”. Ci sono ampi vuoti nelle file dei custodi (nella frequentatissima Pompei appena 360 sugli 872 previsti) e in quelle degli stessi dirigenti: “Ne mancano ormai una sessantina, e i più giovani hanno 50 anni”, ha denunciato il segretario della Uilbac,Gianfranco Cerasoli. “La spesa ordinaria del Ministero prevede 23 centesimi a testa per la formazione dei dipendenti...” A Villa Adriana, per 80 ettari, la vigilanza è ridotta a 40 persone, ha fatto presente Anna Maria Reggiani, direttore centrale.“Viviamo tutti un grande disagio”. I rappresentanti degli archivisti (Ferruccio Ferruzzi) e dei bibliotecari (Mauro Guerrini) hanno portato cifre agghiaccianti: fra dieci anni non ci saranno più archivisti professionali, bisognerà chiedere all’Unesco di occuparsene? L’ultimo concorso per archivisti risale al ’74, quello per bibliotecari all’84, il personale della Nazionale di Firenze si è, in pratica, dimezzato. Il declassamento dell’alta dirigenza è stato sottolineato anche da Marisa Dalai, presidente della “Bianchi Bandinelli”, insieme allo svuotamento operato dei Comitati di settore e dello stesso Consiglio Nazionale, organismi tecnici e democratici come devitalizzati. Anche così nascono leggi e regolamenti mediocri e confusi. Bisogna ripristinare un rapporto forte con l’Università, hanno concordato Dalai e Giovanni Sassatelli, preside di Lettere a Bologna. “Il Ministero ha smarrito il senso, lo scopo della propria esistenza. L’aspetto fondativo va recuperato, come il rapporto col territorio, un rapporto praticamente tagliato,” ha osservato il direttore regionale di Puglia e Molise, Ruggero Martines, “così il territorio non lo governa più nessuno”. Siamo al disastro. Coi piani paesistici della Galasso finiti nel dimenticatoio; col Codice Urbani che li prevede ma non si sa quando; con leggi regionali (vedi Storace nel Lazio) che li subordinano alle trasformazioni urbanistiche. “Di paesaggio non si parla quasi mai”, ha rilevato l’ex sottosegretario, Giampaolo D’Andrea, “il paesaggio è scomodo, per tutti”. Il divorzio fra norme paesistiche e norme urbanistiche deve cessare al più presto, in tutte le regioni. Altrimenti, a contare è il geometra del piccolo Comune, sub-delegato dalla Regione (anche in Toscana, errore mortale) a vigilare sulla compatibilità fra piani e progetti. Il controllato è diventato controllore di se stesso. “La deroga urbanistica poi”, ha denunciato Paolo Berdini, urbanista, “è ormai una pratica costante, distruttiva”. Bisogna davvero voltare pagina, su tutta la linea. Appuntamento a dopo le elezioni del 9-10 aprile. Per una forte azione programmatica in tal senso.

Delle questioni che riguardano il governo del territorio le sinistre si occupano poco e talvolta in modo contraddittorio. Non mancano le dichiarazioni di principio, belle e un po’ generiche, scritte nelle sedi romane, spesso senza riscontri nelle concrete situazioni locali. Dove i se e i ma, sempre incombenti, si addensano e gli enunciati restano nello sfondo fino a scomparire.

Succede che alcuni casi si proiettino finalmente al di là delle dispute locali, com’è accaduto – grazie anche a Berlusconi – per le trasformazioni delle aree litoranee della Sardegna. Questi quattrocento chilometri di coste sono parte essenziale del paesaggio del bel Paese,del quale rischia di restare solo l’etichetta di un formaggio: basta un altro condono. L’ultimo sistema costiero italiano che conserva grandi tratti ancora intatti ha subito, pure con qualche tentativo di impedirlo, un processo di sperperi iniquo. Con un lauto ritorno economico per pochi e infime contropartite per la stragrande maggioranza dei sardi ( per usare una chiave di lettura apparentemente ideologica).

Negli ultimi anni si è temuto il peggio: il precedente governo regionale di centrodestra aveva deciso di sferrare l’ultimo assalto, anche approfittando della distrazione degli altri schieramenti ( il vuoto di legge data 1997).

Ci voleva Renato Soru – un imprenditore arrivato per caso alla politica – per rimettere con fermezza la questione all’ordine del giorno e convincere la sua maggioranza a non cedere alle forti pressioni provenienti da più parti.

Con l’approvazione della nuova legge è oggi possibile arrestare un processo che rischiava di consegnare alle future generazioni un paesaggio inservibile, improponibile nel mercato turistico prossimo ( già ora molti turisti propendono per luoghi del tutto diversi dai villaggi di cartapesta e dagli scenari in stile billionnaire).

I danni arrecati sono tanti e non serve recriminare. Ma uno sguardo retrospettivo consente di vedere la disattenzione di decenni specie anche da parte delle forze politiche più attente e che non hanno colto del tutto l’importanza della questione ambientale nonostante le teorie appunto (si pensi al discorso di Enrico Berlinguer sull’austerità).

La decisione della maggioranza di centrosinistra che sospende questo svolgimento, indicando un altro modello di sviluppo, ha provocato scomposte reazioni specie tra i sindaci di centrodestra (e qualche esitazione tra esponenti del centrosinistra) specie in Gallura, laddove notoriamente la rendita è più elevata. Ma il rigetto del disperato ricorso al Tar proposto da questi sindaci ridimensiona molto la propaganda.

Un pezzo di strada è fatta e ora si apre la fase delicata della pianificazione ed è evidente che non mancheranno le occasioni di duro confronto sullo sviluppo.

Come in tutte le pratiche politiche le proposte di governo innovatrici vanno sostenute. In casi come questi serve che chi vuole battere le destre invece di stare nelle retrovie porti avanti il dibattito; come i cittadini che non hanno case al mare da vendere si aspettano.

Quella legge non gli piace. L'ha detto nei giorni scorsi e l'ha ribadito ieri. Gianni Nieddu, sindaco diessino di Budoni, sembra un po' imbarazzato quando Mauro Pili, Matteo Sanna e Fedele Sanciu sparano a zero sulla maggioranza di centrosinistra che governa la Regione. Il primo cittadino del centro gallurese arriva alle 10.45 nell'aula consiliare, ma non si avvicina ai tre consiglieri del centrodestra che hanno scelto Budoni come prima tappa di una protesta contro le nuove norme approvate pochi giorni fa dal Consiglio regionale in materia di urbanistica nelle zone costiere. Nieddu prende posto nelle ultime file. Poi quando Pili e soci concludono i loro interventi si avvicina al microfono e tuona parole pesantissime contro la Giunta Soru, contro la legge appena approvata e contro i consiglieri regionali che definisce «ostaggi del presidente, che non si rendono conto che stanno facendo male ai sardi». Parole uscite dalla bocca di un diessino che l'ex sindaco di Iglesias accoglie con misurata gioia.

«Non posso che esprimere il mio apprezzamento per quanto sta facendo l'amministrazione comunale di Budoni ? dice Pili ? abbiamo voluto iniziare in questo paese un viaggio che ci porterà in tanti altri centri della Sardegna. Budoni è un paese-simbolo. Sindaco e consiglieri si sono svincolati dai partiti per portare avanti una battaglia importantissima, per denunciare una legge che blocca lo sviluppo». L'ex presidente della Regione è convinto che dietro la legge approvata dal Consiglio nei giorni scorsi si nasconda una grande speculazione. Non dice chi ci sarebbe dietro, ma fa capire che nei prossimi giorni - carte alla mano - renderà pubblici una serie di documenti (atti notarili compresi) relativi a operazioni «nei 300 metri dal mare dove le ristrutturazioni sono sempre state vietate». Nell'aula consiliare c'è tanta gente. Segno che a Budoni l'argomento è particolarmente sentito. C'è anche qualcuno che chiede a Pili chiarimenti su come fare i ricorsi. «A chi si deve rivolgere un privato che si vede bloccata la lottizzazione?», domanda. «In primo luogo al Tar, poi al Consiglio di Stato e infine al presidente della Repubblica», risponde il consigliere regionale di Forza Italia. Poi la parola passa a Gianni Nieddu

Il sindaco è un po' emozionato. Da qualche settimana ha preso le distanze dal suo partito e non lo nasconde. «Nessuna segreteria politica ci condizionerà ? dice ? io sono di sinistra, ma allo stesso tempo sono anche uno spirito libero. Non prendo ordini da nessuno. Sono convito che la vera risorsa è l'edilizia. Noi avevano delle convenzioni che devono essere rispettate. Ne va di mezzo lo sviluppo di questa zona. Servono posti letto, alberghi. Con questa legge si blocca tutto. Bisogna modificarla. Non ci tireremo indietro se ci sarà da presentare un ricorso al Consiglio di Stato». Gianni Nieddu in questi giorni ha pensato anche alle dimissioni dalla carica di sindaco. «Ma non è giusto nei confronti della gente che ci ha votato ? sottolinea ? noi siamo con la gente in questa battaglia. Vogliamo invitare il relatore di questa legge, gli chiediamo di venire qui a Budoni per darci delle spiegazioni. Non si capisce bene cosa si voglia salvare».

Pechino - L’autostrada urbana a dieci corsie è tappezzata di cartelloni pubblicitari che sfacciatamente fanno il verso all’iconografia della Cina comunista. I personaggi scimmiottano le pose eroiche in voga sotto Mao Zedong. Vent’anni fa il paese era ancora pieno di manifesti e monumenti con statue titaniche di gruppi di operai e contadini uniti nella lotta. Qualcuno impugnava la bandiera rossa, altri falce e martello, piccone e badile, lo sguardo proteso verso il sol dell’avvenire e la costruzione del socialismo. Nei manifesti di questa campagna invece i soggetti sono top model e giovani attori, signorine in minigonna con scollature e ombelico al vento, teenager in jeans e bandana. Falce e martello sono sostituiti da borse e accessori di lusso. Verso il sol dell’avvenire una ragazza sospinge il carrello del supermercato stracolmo di roba, un’altra brandisce una flûte di champagne. La terza top model agita davvero una bandiera rossa, ma sopra c’è il logo del costruttore edile che in questo quartiere vende appartamenti a schiera attorno alla nuova attrazione di Pechino: il più grande shopping mall del mondo.

Se credete di aver già visto i King Kong urbanistici del consumismo moderno negli Stati Uniti, patria dei giganteschi centri commerciali, vi sbagliate. Gli shopping mall americani scompaiono in confronto a questa Cosa che è sorta dal nulla nella zona nord-ovest di Pechino: è Jin Yuan, il Mall delle Risorse d’oro, la madre di tutti gli shopping center del pianeta. Soprannominato anche The Great Mall of China perché le sue dimensioni inaudite evocano The Great Wall, la grande muraglia. Per definire questo colosso gli architetti hanno dovuto coniare il nuovo termine di shopping city. In effetti la scala di grandezza è proprio quella di una città: nelle giornate di maggiore affluenza vi fanno la spesa 400mila consumatori, più degli abitanti di Bologna o Firenze.

Con 650mila metri quadrati di superficie coperta, il centro Jin Yuan ha polverizzato i record storici che appartenevano al West Edmonton Mall di Alberta (Canada) e al Mall of America del Minnesota. L’edificio-mostro di Pechino occupa lo spazio di sessanta campi di calcio, copre oltre cinque volte il Pentagono di Washington, finora la più larga costruzione del mondo. L’altezza media varia dai dieci ai cinque piani, e sono piani molto alti per via dei grandi magazzini e delle sale cinematografiche. Contiene mille fra ipermercati, supermercati, negozi e boutique, duecento ristoranti, cinema multiplex da 1.300 posti, club privati con night club, discoteche, karaoke-bar, sale per fitness e massaggi, molti esercizi aperti sette giorni su sette fino alle dieci di sera o anche giorno e notte, 365 giorni all’anno vacanze incluse. Il parking sotterraneo da diecimila posti auto è annesso a un’altra città invisibile e interrata: lo stadio del ghiaccio dove i genitori possono lasciare i figli a pattinare mentre vanno a fare la spesa.

In questo tempio faraonico del nuovo consumismo cinese lavorano ventimila dipendenti a tempo pieno più un esercito di avventizi delle ditte di pulizie, manutenzione, vigilanza, trasporti e consegne. Tutto intorno il costruttore continua ad allargare il complesso: ha comprato 1.800.000 metri quadrati dove innalza 110 grattacieli di appartamenti residenziali, uffici e scuole. Il terreno va a ruba perché questa non si può più definire periferia. È la zona hi-tech di Pechino, dove hanno sede i campus universitari, fra il terzo e il quarto anello dei "raccordi anulari interni". In tutto i 17 milioni di abitanti della capitale si estendono entro il perimetro di sei tangenziali urbane, grande quanto l’intero Belgio. Il solo "quartiere" che gravita nelle vicinanze dello shopping mall Jin Yuan ha un milione di abitanti.

Visitare interamente The Great Mall of China è un’impresa impossibile. Camminando a passo di gara, dalla mattina fino a notte fonda, si riesce a vederne solo una piccola parte. Le distanze sono tali che si possono affittare macchinine elettriche a due posti per spostarsi con anziani e bambini piccoli. Gli adolescenti per recarsi da un punto all’altro sfrecciano nei corridoi coperti su pattini a rotelle o skateboard. La zona dei grandi magazzini eleganti è una divertente mescolanza di vero lusso per ricchi - reparti Fendi, Gucci, Geox, Dupont, Dunhill, Pierre Cardin, Guy Laroche - e di "quasi vero" che è l’alternativa legale alla pirateria, cioè la moltitudine di marche cinesi che adottano nomi italianeggianti dal suono evocativo come Galace e Versino.

Nei boulevard coperti che ospitano le centinaia di boutique sono strapiene di pubblico le gioiellerie - i cinesi fanno incetta di oro e diademi -, le agenzie di viaggi che cavalcano il boom del turismo all’estero, i rivenditori telecom dove anche le bisnonne vanno a comprarsi il cellulare. La zona casa è un’altra città nella città, centinaia di negozi di cucine design ed elettrodomestici, compresa la Ariston, per arredare gli appartamenti in stile occidentale della middle class urbana. Una vasca da idromassaggio made in Germany arriva a 169.000 yuan, 17.000 euro, lo stipendio di un anno di un impiegato di medio livello.

Dove i prezzi sono così cari non c’è gran folla. La calca raggiunge il suo massimo nell’altra shopping-city semi-interrata che è il regno degli ipermercati alimentari. Lì la folla invade i corridoi dei prodotti di largo consumo. Assalto gioioso ai reparti gastronomici dei cibi freschi, montagne di anatre pechinesi alla faccia della febbre aviaria, ogni sorta di leccornia come i ravioloni dim-sum ripieni, fritti o bolliti, le focacce le frittelle gli spaghetti, i tè pregiati, i funghi preziosi in vasi di porcellana, le uova nere macerate e stagionate: un pezzo della vecchia Cina dei mercati rionali si è impadronito delle viscere dello shopping-moloch.

Il cibo domina anche un altro settore della città-satellite. All’ultimo piano del centro commerciale ci sono vialoni coperti destinati ai ristoranti. Ogni locale esibisce insegne al neon dai colori accecanti, cameriere in abito lungo attirano i clienti alla porta. Sono strapieni e offrono il patrimonio umano della cucina, asiatica e non: da Canton al Sichuan, dalla marmitta tartara alla grigliata coreana, dal sushi all’Australia alla Russia. In mezzo alle file infinite di ristoranti i corridoi del mall ospitano bancarelle di libri e dvd, una caotica accozzaglia di corsi di inglese, di management e yoga, fianco a fianco film porno e documentari su Mao e Deng Xiaoping. I club di sauna fitness e massaggi chiedono una tassa d’iscrizione minima di mille euro, diecimila euro per il trattamento vip (chiedendo spiegazioni sulla differenza ottengo sorrisi radiosi dalle impiegate). Nei cinema multisala straripa Hollywood ma curiosamente si proietta anche una storia dell’Opera di Pechino. Se mi spingessi più avanti, sempre più lontano, forse raggiungerei in futuro quell’altra ala della città coperta, sperduta laggiù all’orizzonte, dove cominciano i concessionari di automobili. Ma la giornata sta per finire.

Geng Kai e Yu Jie tirano il fiato dopo cinque ore di shopping, sono seduti a mangiare spaghetti di riso comprati da un fast food. Fidanzati, lui ha 28 anni e lavora per una tv via cavo, lei 26 ed è impiegata in un’assicurazione: «Da quando hanno inaugurato Jin Yuan ci veniamo molto spesso, almeno tutti i weekend, e qui incontriamo anche la maggior parte dei nostri amici. Compriamo da mangiare, i vestiti, le Nike e le Adidas, andiamo al cinema. Come minimo spendiamo 200 yuan (20 euro) ogni volta che veniamo, senza contare i vestiti. È il posto ideale, c’è tutto quello che ci serve: cibo, moda, divertimenti, elettronica. Questa zona di Pechino ha cambiato volto, ora Jin Yuan è il centro della vita del quartiere».

Moltiplicata per la scala demografica cinese, questa è la ricetta americana: lo shopping mall come calamita della vita quotidiana, luogo d’incontro nella città moderna, centro di gravità del tempo libero e delle relazioni sociali. In questo posto sono ben visibili le tracce dell’evoluzione dei costumi nella Cina contemporanea. I consumi status symbol dei nuovi ricchi sono qui: negozi di articoli da golf, supermercati di elettronica con i televisori ultrapiatti al plasma, tapis roulant per la fitness, un’orgia di prodotti cosmetici L’Oréal e Shisheido. Giovani coppie entrano a far compere in negozi di biancheria intima sexy stile Victoria’s Secret, ed è un paese dove vent’anni fa un bacio in pubblico era scostumato. Ma il più grande shopping mall del mondo non è soltanto il paradiso della middle class benestante. Ci sono signore di mezza età che si accontentano di stare sedute sulle panchine a guardare la gente che passa, nonni che portano i nipotini come fosse lo zoo. L’ambiente moderno, i grandi spazi, la pulizia, le luci potenti, le vetrine sfavillanti: tutto trasuda modernità e comfort. Passeggiare a Jin Yuan è già uno status symbol. Un modo di affermare la propria appartenenza sociale. Farsi vedere in un luogo di lusso. Assomigliare un po’ a quella Cina pop e postmoderna dei cartelloni pubblicitari, delle top model miliardarie che spandono ironia sui padri maoisti.

Jin Yuan è solo la punta dell’iceberg. In tutta la Cina dilaga la febbre degli shopping mall. Ne sono stati costruiti quattrocento in pochi anni, la dimensione media è sei-sette volte superiore rispetto a quelli che si costruiscono oggi negli Stati Uniti. Entro il 2010 la Cina avrà sette dei dieci shopping mall più grandi del pianeta. A Dongguan, nella Cina meridionale, ne hanno inaugurato uno che include una sorta di Disneyland con repliche di Parigi, Hollywood e Amsterdam. Nel business si sono lanciati anche colossi stranieri come la banca americana Morgan Stanley, alleata con gli ipermercati Wal-Mart e i cinema Warner, e il gruppo alberghiero Raffles di Singapore. C’è chi teme che sia una bolla speculativa destinata a scoppiare malamente, perché centri di queste dimensioni hanno bisogno come minimo di un’affluenza quotidiana di 70mila visitatori, al di sotto rischiano il fallimento. Ma i cinesi hanno una formula per "spalmare" il rischio: tutti gli spazi vengono affittati a miriadi di commercianti, se gli affari vanno male sono in molti a perderci, non è il crac di un singolo colosso.

Per il momento la dinamica del consumo rimane forte. In quattro anni le spese dei cinesi sono cresciute del cinquanta per cento. Il capodanno lunare 2006 (fine gennaio) ha registrato il quindici per cento di aumento dei consumi rispetto all’anno scorso. «Entro cinque anni», prevede l’economista Jonathan Garner del Crédit Suisse First Boston, «questo paese avrà superato gli Stati Uniti per gli acquisti di personal computer». Per i beni di lusso secondo la Goldman Sachs la Cina è già il terzo mercato mondiale. Radha Chadha, studioso di psicologia dei consumi, ha diviso i ceti medioalti cinesi in tre categorie. I veri ricchi che possono permettersi tutto. I colletti bianchi in ascesa sociale che sono disposti a fare sacrifici per esibire status symbol costosi. Infine la terza categoria è quella che si combina meglio con la cultura made in Usa dello shopping mall: sono gli scatenati giovani sotto i venticinque anni che non badano a spese perché hanno già scoperto l’altra grande invenzione su cui si fonda l’America: i debiti.

Ho passato molte estati della mia vita in un bellissimo paese della riviera Ligure occidentale, tra Alassio e Imperia: Cervo Ligure. E le rare volte in cui penso al mio passato, mi accorgo che è l´unico luogo che conservo, intero o quasi intero, nella mente. Il paese risale all´undicesimo secolo: quando ero ragazzo, conservava il suo profumo medioevale. Strade che risalivano ripidissime, interrotte da fitti gradini: vicoli, vicoli e vicoli, portici, gallerie, sottopassaggi, archetti e arconi, case che aprivano le persiane nelle persiane della casa di fronte, antiche fontane, davanti alle quali le donne facevano conversazione dalle otto alle dodici di ogni giorno, grosse sbarre di ferro che salvaguardavano i muri contro il terremoto. Ogni tanto, una panchina permetteva agli anziani di riprendere fiato: mentre i bambini correvano follemente, risalendo in quattro minuti tutto il paese, presi dalla gioia e dall´ebbrezza della salita.

Il paese sapeva di pietra: salvo i luoghi dove innumerevoli gatti semiselvaggi alzavano la coda, spiavano, si intrufolavano, si azzuffavano, si contendevano furiosamente i resti del pesce abbandonato per loro nell´angolo di un giardino. Nella parte alta di Cervo, durante le giornate limpide, si scorgeva dal vasto sagrato l´ombra tenue della Corsica. A metà del sagrato, c´era una scalinata grandiosa come quelle di Roma secentesca. E lì sopra una chiesa barocco-rococò, con la facciata concava e un intreccio di frontoni, statue, stucchi, finestre, colonne, pilastri, che sembrava lavorata a mano da una ricamatrice laboriosa, mostrava le pallide creme dei suoi rosa e dei suoi verdini.

Fino agli inizi del Settecento, il paese era assalito dai pirati saraceni: forse gli stessi che nel medesimo periodo arrivarono fino alle coste dell´Islanda. Dappertutto furono costruite torri e torrette, che annunciavano con messaggi di fuoco l´arrivo dei pirati e preparavano le difese. Una di queste torri era diventata la terrazza di casa mia. Sulla facciata della casa, un modesto pittore di Porto Maurizio aveva effigiato, all´interno di una finestra cieca, un pirata barbaresco che stringeva tra le braccia una timida vergine ligure. Oggi i colori dell´affresco sono quasi cancellati, come se tutto fosse scomparso: i pirati, le difese, le flottiglie dei pescatori di corallo, e la storia di Cervo Ligure, che in quel tempo era così attiva, ricca e vivace.

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Non parlerei di Cervo Ligure, se non fosse, per me, il paese dove ho scoperto i "nomi". Tutte le cose avevano un nome: ogni casa, ogni vicolo, ogni fontana, ogni giardino, ogni piccolo orto, uno slargo, un ciuffo di ulivi o di carrubi, le magre colline dove gli antichi capitani di mare coltivavano il pomodoro e il basilico, e nella pianura le serre con le primizie e i fiori.

Sopratutto, avevano un nome le spiagge. In fondo al paese, c´era il "Pilùn", una spiaggia di sassi quasi rotondi, suddivisa in nomi ulteriori. Nella "Mainetta", al riparo di una grande roccia rossastra, facevano il bagno i bambini di due o tre anni. Dopo i sei o i sette anni si avventuravano al largo. Scivolavano presso uno scoglio coperto di erbe e di alghe, la "Pulce", e presso il "Cascìn", del quale non riesco a ricordare niente. La meta era la "Ciappa", uno scoglio sottomarino a trenta o quaranta metri da riva, che dava l´impressione di stare sempre per uscire dalla superficie del mare. I bambini raggiungevano la "Ciappa": posavano i piedi sopra un foltissimo tappeto di alghe; e di lì salutavano trionfalmente la madre e i fratelli rimasti a riva. Era una specie di iniziazione. Chi aveva posato i piedi sopra la "Ciappa", apparteneva già al mondo dei veri nuotatori.

Verso Oriente, il "Porteghetto" distendeva le sue lastre rossastre, spaccate in due da un´insenatura: di lì si gettavano in acqua i virtuosi dei tuffi. Era il luogo dell´orgoglio virile e dell´esibizione. Quattrocento metri più avanti, discendevano le scogliere grigie delle "Ciappellette", circondate da decine di piccoli scogli, pieni di patelle, di granchi e specialmente di grossi granchi pelosi chiamati "fangulle". Lì la pesca diventava la caccia. Con un coltello o un robusto filo di ferro tra i denti, i ragazzi salivano le rocce, si insinuavano tra gli scogli, balzavano da una pietra all´altra. Avevano una meta: le fessure dove si nascondevano le "fangulle". In fondo alle fessure, si intravedevano il pelo, gli occhi loschi e brillanti, le grosse chele che attendevano, semiaperte, una preda invisibile. Bisognava tirarle fuori col fil di ferro, inseguirle se fuggivano in un altro nascondiglio, scovarle e riscovarle, o colpirle all´improvviso con un colpo spietato di coltello.

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Ora che ripenso a quell´infinito intrico di nomi, a volte non riesco a ricordarli, li confondo e non so cosa darei per ritrovare il vero nome di una macchia o di un sasso. Chi aveva inventato quei nomi, non voleva certo appropriarsi della natura, marchiandola con un segno umano. Allora tutti sapevano che gli alberi e gli orti e le fontane e le spiagge erano "individui", e nascevano, vivevano e morivano obbedendo alla propria identità e al proprio nome. Nessuno cercava di abolire queste identità: una pianta di fichi fiore o di fichi "brigiassotti" aveva quasi il carattere individuale di un essere umano, e andava preservata con attenzione. Il bello dell´esistenza era proprio questo. L´universo era gremitissimo di creature viventi, tutte diversissime tra loro, e noi, uomini, portavamo soltanto una piccola parte dei nomi del mondo. Giravamo, guardavamo, ci intrufolavamo tra le creature: qualche volta le uccidevamo o ci perdevamo nel loro intrico; ma non cercavamo mai di inglobarle nel mondo umano.

Poi avvenne il disastro. Nella pianura, dove prima nasceva ogni specie di primizia, il terreno fu venduto, suddiviso, scavato, violato dalle ruspe, e persino sulla spiaggia, a cinque metri dal mare, sorsero orribili casamenti scuri: i "piemontesi" vennero a immergere i pallidi piedi nelle acque timorose del Mar Ligure. Moltissime cose furono abolite e scomparvero: ma il vecchio paese medioevale riuscì a salvarsi. Arrivò all´improvviso la grande epoca turistica, che devastò l´Italia e la Francia. Intere regioni furono immolate alle divinità delle vacanze.

Passarono molti anni. Le leggi italiane sull´ambiente vennero migliorate, poi peggiorate, poi di nuovo migliorate; e ora, a quanto pare, peggioreranno definitivamente, con la Riforma Regionale. Ma, da dieci o quindici anni, gli italiani (o vaste minoranze di italiani) stanno riscoprendo i nomi della natura e delle cose. Hanno compreso che le cose non sono sostituibili, come non sono sostituibili gli esseri umani. Nessuno esclude che un pino o un ulivo abbia un´anima: che essa ci protegga teneramente; o che una pietra possa avere un significato sacro. Il mondo degli individui torna a sembrare infinito: alberi, vecchie o nuove case, macchie, pomodori, spiagge, isole, fiumi, colline, e persino cose modernissime come un orologio o una giacca, hanno diritto allo stesso rispetto che chiediamo per noi. O maggiore, perché la natura e le cose sono indifese.

Mi sembra che questa sensibilità si diffonda sempre di più: in parte in modo segreto, in parte in modo pubblico, attraverso una miriade di piccole associazioni che si propongono di difendere un castello o una chiesa. Per un albero mozzato o vilipeso, qualcuno prova lo stesso dolore che sente per una creatura umana ferita. Molti obbietteranno che questi sentimenti finiranno per arrestare il progresso. Per conto mio, il progresso può addormentarsi o almeno assopirsi per qualche tempo, visto i disastri che ha combinato negli ultimi due secoli.

Postilla

La speranza non è che il progresso si addormenti o almeno si assopisca per qualche tempo, ma che invece si torni a un’idea umana, e non mercantile, di progresso. Il furto che è stato commesso ai danni della civiltà umana è stato questo: rovesciare ilsignificato delle parole, manipolando le cose. Oggi “progresso” non è misurato dalla crescita delle capacità di comprensione, di godimento, di saggezza degli uomini, ma aumento del Prodotto interno lordo (che aumenta due volte se costruisci una casa abusiva e poi la demolisci, che aumenta se fai una guerra e non aumenta se fai la pace).

NAPLES (FLORIDA) – Si chiamerà «Ave Maria» la città simbolo dell'utopia cattolica che aprirà i battenti nell’estate del 2007 a poco più di 130 km da Miami, presso una cittadina dal curioso nome di Naples, vale a dire Napoli. Gli Stati Uniti si riscoprono terreno fertile per l’edificazione della «Città ideale»; hanno già ospitato, soprattutto nel XIX secolo, numerosi esperimenti (fallimentari) da parte di pensatori per lo più europei impegnati a creare la comunità umana perfetta, felice e ugualitaria, da Charles Fourier e il Falansterio a Robert Owen e la sua «Nuova Armonia». Solo gli Amish, protestanti anabattisti allergici al progresso tecnologico e all’uso delle armi, sono riusciti a dar vita a comunità «arcadiche» in grado di sopravvivere al passaggio dei decenni, ma presto potrebbero dover dire addio a questa sorta di monopolio.

IL PAPA DELLA PIZZA – I lavori di edificazione di Ave Maria sono già a buon punto, essendo partiti nel 2002, e stanno trasformando radicalmente un’area di 5mila acri presso le paludi delle Everglades. Nel 2007, il grosso delle opere sarà completato e il sogno visionario di Tom Monaghan diverrà realtà. Stiamo parlando del «Papa della pizza», così soprannominato per la sua religiosità e per aver creato dal nulla (lui orfano cresciuto dalle suore e divenuto poi marine, prima di lanciarsi nell’imprenditoria) la seconda catena americana di pizzerie da asporto, «Domino’s pizza». Attività che gli ha reso molti denari (con cui ha finanziato numerose attività filantropiche, come la costruzione di asili, orfanotrofi e stazioni radio), ceduta peraltro nel 1998 per un miliardo di dollari. Quindici anni fa Monaghan ebbe un risveglio religioso, abbracciò uno stile di vita più morigerato (vendette per esempio il suo aereo e il suo yatch) e decise di fare qualcosa di più per arginare la «decadenza morale dell’Occidente».

LA CITTA’ IDEALE DEI CATTOLICI – Monaghan ha deciso di investire una montagna di denaro (inizialmente 100 milioni di dollari, già saliti a circa 500) nella creazione di Ave Maria, Città Ideale retta da principi cristiani e sede della prima Università cattolica costruita negli Usa da 40 anni a questa parte. La città sarà la prima al mondo a nascere in simbiosi con un ateneo (già foraggiato con 250 milioni di dollari e attivo in una sede provvisoria a Naples). Avrà circa 30mila abitanti, di cui almeno 5mila saranno studenti universitari. Quando la città verrà inaugurata nel 2007 ci sarà posto per circa 650 di loro, nonché per attività commerciali e residenze per famiglie, destinate ad aumentare gradualmente in vista del completamento del grandioso progetto, in almeno 40 anni. Il 45% dei 5mila acri occupati da Ave Maria sarà costituito da aree verdi, laghetti e corsi d’acqua. Al centro del complesso sorgeranno una chiesa alta oltre 30 metri e una piazza sul modello di quelle italiane, concetto semisconosciuto negli States.

LE REGOLE – La città offrirà ai suoi abitanti una condotta di vita «morigerata». Le farmacie non potranno vendere contraccettivi. Le edicole e i negozi di videocassette non potranno commerciare materiale pornografico, ovviamente bandito anche dal canale tv via cavo che nascerà in città. Negli ospedali di Ave Maria non sarà neanche possibile abortire. In tal modo, stando alle parole del rettore dell’Università di Ave Maria, Nicholas Healy, verrà ricostruita «la Città di Dio», in un Paese che «soffre di un catastrofico crollo culturale». Stando ai dati forniti dalla Fondazione Ave Maria, già 7mila persone hanno chiesto di poter andare a vivere nel «nuovo Eden», e il 60% delle attività commerciali è già stato assegnato.

LE PROTESTE – Alcuni attivisti dei diritti civili hanno manifestato l’intenzione di denunciare il progetto per violazione delle leggi sulla separazione tra stato e chiesa. Vero è, però, che nessuno è obbligato a trasferirsi ad Ave Maria, e chi lo vuole fare sa a cosa va incontro. Qualche protesta, che appare più sensata, arriva dai movimenti ambientalisti, che ritengono che la costruzione di Ave Maria ridurrà l’ambiente naturale della pantera della Florida, una specie di piccolo puma di cui ormai esistono meno di 50 esemplari; ormai, però, il progetto è in fase avanzata di realizzazione. I suoi promotori promettono il massimo rispetto per l’ambiente e la creazione di aree agricole destinate a coltivazioni biologiche. Sia quel che sia, a febbraio di quest’anno è stata posata la prima pietra del futuro ateneo, che ha ricevuto anche la benedizione (è proprio il caso di dirlo) del governatore (protestante) della Florida, Jeb Bush, che ha ringraziato Monaghan per la scelta del suo Stato. Forse non gli è stato detto che il «Papa della pizza» aveva scelto inizialmente il Michigan, le cui autorità gli avevano però negato il permesso di edificazione di Ave Maria.

Nota: grazie alla lettrice Laura Zumin per la segnalazione; il sito della comunità "mariana" per chi fosse interessato è http://www.avemaria.com (f.b.)

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