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In poco meno di quattro anni siamo passati dal «siamo senza parole» di fronte alle torri gemelle che crollavano alla limatura delle parole di fronte alla tube che salta. La Bbc non parla di terroristi kamikaze ma di bombers, e li distingue dai criminali irlandesi e dai militanti palestinesi. Giovanni Sartori, sul Corsera di domenica, ha contestato questo codice della tv britannica, che più che di understatement gli sa di manipolazione: inganna i telespettatori, sostiene, e eliminando il nome occulta la cosa, cioè la cruda realtà del terrorismo. Ma lo stesso Sartori conclude ammettendo che qualche problema, sulla parola «terrorismo», c'è: «sulla definizione del termine i giuristi ancora annaspano», e anche se di massima il termine indica l'intenzione di seminare terrore senza limiti di mezzi e di bersaglio, resta la difficoltà di distinguere con diverse parole diversi tipi di terrorismo: suicida e non, locale e globale, resistente, partigiano e via dicendo. Non sono sottigliezze e non riguardano solo il terrorismo. La verità è che, da quando ci sentimmo tutti senza parole, le parole sono diventate tutte controverse e differenziali, come i fatti a cui si riferiscono: un terrorismo diverso da quello che prima chiamavamo terrorismo, una guerra diversa da quella che prima chiamavamo guerra, una democrazia diversa da quella che prima chiamavamo democrazia. Le stesse parole di prima per una realtà che non è quella di prima: un lessico politico usurato per un mutamento che si stenta a interpretare, o si tenta di imbrigliare in parole e categorie note. Altro esempio: c'è in giro un gran parlare di equilibrio fra sicurezza e libertà, e di quanta libertà siamo disposti a sacrificare alla sicurezza. Ma quale sicurezza, e quale, o quali, libertà? C'è un significato evidente per tutti del richiamo alla sicurezza che riguarda le vite; ma quando giro pagina e dalla cronaca delle stragi di Londra o di Sharm el Sheik passo alla cronaca dell'Italia ordinaria e leggo che ogni famiglia spende in media 700 euro all'anno per blindare casa, l'evidenza del termine sicurezza sfuma. Di libertà credo che siamo disposti a sacrificarne pochissima e giustamente, ma anche qui bisognerebbe intendersi: vedere la libertà ridotta a chance, consumo e strafottenza dell'individuo proprietario non era granché nemmeno prima che ce la insidiassero i kamikaze, e quanto ad altre e più nobili connotazioni del termine, anch'esse scarseggiavano già da prima nelle nostre democrazie apatiche, spoliticizzate e largamente abitate dalla servitù volontaria di laboétieiana memoria. Ma chissà perché l'individualismo e il relativismo sono da attaccare, per i nostri neocon, quando c'è di mezzo il referendum sulla procreazione assistita e tornano a essere valori assoluti da difendere quando c'è di mezzo il fondamentalismo islamico.

Come tutte le guerre, anche questa guerra civile globale è anche una guerra di parole. Ma con le parole della tradizione politica occidentale non c'è più tempo di giocare: nella conta quotidiana dei morti il gioco linguistico trova il suo tragico limite. La scoperta - tardiva, data la già lampante impronta degli attentati dell'11 settembre - della formazione occidentale, e in specie europea, di molti kamikaze islamici ha suonato la sveglia per molte analisi troppo sicure di sé: quelle che si figurano uno scontro fra civiltà distinte e demarcate, ma anche quelle, di segno opposto, che credono di spiegare tutto con la spirale guerra-terrorismo. Gli immigrati di terza generazione nelle metropoli europee più sedotti da Allah e dalla jihad che dall'integrazione e dalla democrazia non sono degli alieni ma degli specchi, che ci rimandano la crisi dell'universalismo, della libertà, dell'uguaglianza e di tutte le altre parole d'ordine della modernità politica e dell'individuo politico moderno di cui noi occidentali siamo gli artefici. Prima le passiamo criticamente al setaccio, prima riacquisteranno un senso in primo luogo per noi stessi.

Il Tar Lazio ha respinto i ricorsi del Civ (consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inpdap) e dei consigli di amministrazione degli enti (Inail-Inpdap-Inps) che si sono visti requisire le sedi degli uffici dal governo, conferite al Fip, fondo immobili pubblici appositamente costituito. La prossima tappa di questa partita sulla finanza creativa sarà il Consiglio di Stato.

La “questione immorale” è una miscela esplosiva fatta di svendita del patrimonio pubblico, senza regole e senza certezze, di rendita parassitaria che comprime tutti i settori produttivi del Paese, di azzeramento della legalità, di difesa degli interessi di chi governa, di tolleranza all'assalto alla ricchezza e ai beni del paese, di collusioni negli affari e nella politica con le organizzazioni mafiose. D’altronde, gli incensurati di questi tempi non se la passano bene. Chi delinque o l’ha fatto prima, ha le porte aperte e gode dell'apprezzamento o quanto meno della comprensione di parti significative delle classi dirigenti, nella accezione più estesa.

Il Paese è in vendita. Si vende tutto: case di abitazione, sedi degli enti, e forse domani del governo e del parlamento, caserme e forti, scali e stazioni ferroviarie, terreni del demanio, spiagge. Ma nel turbinio di operazioni illusionistiche di finanza creativa, quelle che riguardano lo Stato sono fittizie e virtuali, mentre quelle che riguardano i privati sono vere e remunerative. Lo Stato ha creato società e le ha chiuse; ha comprato beni che erano suoi e li ha venduti a se stesso. Come qualsiasi faccendiere d'assalto che opera nei paradisi fiscali, ha creato un sistema di finanza pubblica sanzionata da tutti gli organismi internazionali. Tremonti, principe della finanza creativa, per la quale ha un'attrazione erotica, ha presentato il piano di svendita come «la più grande operazione di cartolarizzazione di uno stato sovrano e la più grande emissione di Abs (asset- backed securities) mai realizzata in Europa». Così è nato «Lo Stivale di carta», titolo di un libro, autori i giornalisti Giuseppina Paterniti e Angelo Fodde (Editori Riuniti), ben documentato. A proposito delle cartolarizzazioni versione Berlusconi-Tremonti prendiamo le vicende di Scip 1 e Scip 2, le società inventate e incaricate di condurre in porto le vendite del patrimonio pubblico. La Scip 1 nasce il 23 Novembre 2001, subito dopo l’annuncio di Tremonti in diretta tv sul presunto buco lasciato dal centro sinistra. Nell’atto di nascita è scritto che la società ha come oggetto esclusivo «la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici». Il capitale sociale della srl, che in quanto tale non è soggetta a controlli, è di 10.000 euro, una inezia, anche se la società deve vendere e gestire 27500 unità residenziali e 262 immobili non residenziali. Il meccanismo è noto: la società anticipa al governo una parte del denaro previsto che si fa dare dalle banche le quali guadagnano interessi e commissioni o ricava dai titoli, bond, messi sul mercato sperando che i cittadini li comprino. Nel 2002, nasce la Scip 2, anche perché le cose non hanno funzionato bene e con la rapidità prevista per fare fronte ai buchi di bilancio. L’operazione di vendita programmata è davvero imponente: 62500 immobili tra case, uffici, negozi, terreni dello Stato e di tutti gli enti (Enpals, Inail, Inps, Inpdap, Ipost, Ipsema), valore complessivo 9639 di euro.

Lo Stato vende se stesso. Ma non tutto è chiaro e trasparente. La composizione del capitale sociale della Scip è al 50% di due fondazioni olandesi (Stichting Thesaurus e Stichting Palatium) con sede ad Amsterdam, le quali partecipano al capitale con la somma di 5000 euro. Amministratore unico delle due fondazioni olandesi è un “trust fund” di Amsterdam che ha creato le due fondazioni 18 giorni prima che la Scip nascesse e cioè il 5 Novembre del 2001 («Lo Stivale di carta»). I due autori del libro raccontano di essere andati alla ricerca della sede della Scip ma non hanno trovato nemmeno una targa. Sul palazzo campeggiava la targa di Kpmg, nota società finanziaria multinazionale che amministra il programma di cartolarizzazione, funge da consulente e, naturalmente, viene pagata. L'amministratore delegato della Scip è un certo Burrows Gordon, cittadino inglese, nominato per tre mandati. Solo che quando un gruppo di inquilini che vogliono comprare gli appartamenti dove abitano, vuole chiarimenti, in perfetto stile anglosassone, risponde di rivolgersi direttamente al ministero dell’Economia. Il perché di queste scelte per una operazione di vendita del patrimonio pubblico del nostro Paese, nessuno lo sa. Nemmeno il Parlamento che dovrebbe essere informato dal ministro ogni sei mesi e che invece rimane all'oscuro di tutto. Ma una cosa è certa. Mentre gli immobiliaristi sono riusciti a comprare un pezzo del Paese con il 35% di sconto sui prezzi iniziali, lo Stato ha incassato di meno, le spese per commissioni di collocamento dei titoli, consulenze legali, pagamento degli amministratori ecc sono state di 744 mila euro e quelle necessarie per concludere il contratto con alcune banche estere a copertura del rischio di tasso sono state di 2'5 milioni di euro. Il patrimonio del bel paese, nel solo primo anno di vita della Scip, ha arricchito un sacco di persone che abitano altrove.

Quanto alla vertenza in corso con gli Enti, decisa con la sentenza del Tar Lazio, le imposizioni sembrano una rapina. Infatti, Inail, Inps, Inpdap sono costretti a vendere le sedi, a riaffittarle con un enorme esborso di denaro e come se non bastasse rimangono responsabili della gestione e della manutenzione delle stesse. Cose mai viste nemmeno nel peggiore dei regimi.

La vendita del patrimonio dei beni culturali e degli ospedali al prossimo articolo. Vedremo come anche la famiglia Bush si è data da fare.

DICO subito, per la chiarezza che debbo ai nostri lettori, che il caso Rutelli-Margherita sarà uno dei punti di questa mia predica domenicale (così la definiscono molti miei amici e moltissimi dei miei critici). Uno dei punti ma non il solo e comunque inserito in un contesto che finora è stato trascurato.

Alcuni grandi giornali europei, il Financial Times, l´Economist, hanno definito il nostro paese come il grande ammalato d´Europa e Ezio Mauro ha molto opportunamente fatto nostra quella definizione. La quale si fonda sull´insufficienza della nostra economia reale (che datano da molti anni) e della nostra economia finanziaria (che era stata provvidamente risanata negli anni tra il 1992 e il 2000 e che è stata di nuovo e ancor più profondamente dilapidata nei quattro anni del fantasismo berlusconiano.

Ma il dissesto economico-finanziario è solo uno degli aspetti del malanno italiano. Esso va collocato all´interno di un quadro e di una cornice che danno il tono all´insieme e interagiscono con l´insieme, ne rappresentano la causa prima e al tempo stesso l´effetto più rilevante.

La disgregazione: questo è l´elemento di fondo della crisi italiana. Una disgregazione presente in tutti gli aspetti della vita pubblica, politici, culturali, economici, sociali. Una disgregazione da 8 settembre, contrastata soltanto da poche forze e da pochissime personalità, come avvenne appunto nell´Italia del dopo 8 settembre.

La disgregazione d´un corpo sociale è una malattia di lenta incubazione, che lavora sottotraccia, corrompe e divora i tessuti, alla fine esplode e si manifesta con tutta la sua virulenza. Noi speriamo che ora, di fronte a quella virulenza, gli anticorpi e le difese immunitarie si mettano al lavoro. Noi speriamo che ne abbiano ancora il modo e il tempo, non sembri inutile retorica se ricordo, come del resto ho fatto altre volte, che se c´è un uomo che in questi anni disgregati e disgreganti ha fatto il possibile e l´impossibile per contrapporre coesione e cura del bene comune, quest´uomo è stato Carlo Azeglio Ciampi, che ha iniziato l´altro giorno l´ultimo anno del suo settennato. Non può dunque che esser lui il nostro punto di riferimento.

Non è un punto di riferimento neutrale né tanto meno banale. Operare per la coesione del bene comune in un mondo dominato dall´egoismo, dalla visibilità propria a danno di quella altrui, dall´amor proprio contro l´amore per gli altri, non è neutrale né banale. È, al contrario, l´essenza della laicità responsabile e del cristianesimo testimoniato dal Vangelo. Purtroppo sia l´una che l´altro sono stati abbandonati da gran parte dei loro sedicenti seguaci in una società che si sfascia come una zattera fragile in mezzo a un mare tempestoso.

In questo contesto si colloca il caso Rutelli- Margherita: il rischio è compromettere il cambiamento nella guida del Paese

Il dissesto economico è solo uno degli aspetti del malanno italiano: l´elemento di fondo è la disgregazione di tutta la vita pubblica

Uno degli esempi più recenti e più visibili della disgregazione nazionale si è visto all´opera nelle elezioni al comune di Catania. Se è vero che il linguaggio è la manifestazione di una persona e del suo pensiero, si fa fatica a comprendere il fatto che il 52 per cento dei catanesi si sia riconosciuto nel riconfermato sindaco di quella città. Il linguaggio di quel medico prestato alla politica è scurrile, i suoi lazzi sono quelli delle taverne, ma non è questo l´aspetto più disgregante. Per vincere la sfida quel sindaco rivendica la sua abilità ad aver ottenuto una massa di risorse destinate alla Sicilia e concentrate nel capoluogo occidentale dell´isola con la benevola complicità del ministro di un ministero che ha per nome la "coesione del territorio". Denominazione quanto mai fantasiosa ma comunque stringente, tradita dal fatto d´aver funzionato come una pompa idrovora per irrorare una campagna elettorale altrimenti rischiosa e forse perdente.

Il centrodestra ha vinto a Catania? Neppure questo è interamente vero.

A Catania hanno vinto i sicilianisti di Lombardo con il 20 per cento dei consensi, riducendo Forza Italia dal 26 al 14 per cento, l´Udc dal 9 al 4, Alleanza nazionale dall´8,7 al 7,8. Se a questo si aggiunge che il voto di An è stato in gran parte ottenuto dal co-sindaco Musumeci, anch´egli in aperto distacco dal suo partito, si deve concludere cifre alla mano che le liste locali hanno ottenuto un quinto dei voti espressi e il 50 per cento della maggioranza su cui si regge lo Scapagnini riconfermato.

Non ci sarebbe nulla di preoccupante nella vittoria di liste locali se non fosse che i loro leader hanno dato alla vittoria un significato politico che va molto al di là di Catania. Quelle liste rappresentano infatti il nucleo germinale di una Lega sicilianista che dovrà propagarsi in tutta l´isola e comportarsi politicamente secondo il modello della Lega padana, condizionando l´azione del governo nazionale così come la Lega padana ha fatto in questi quattro anni.

Gli esponenti della Lega padana dal canto loro non sono stati affatto allarmati da questa possibile contrapposizione, anzi se ne sono dimostrati entusiasti. Il ministro delle Riforme, Calderoli, ha già in programma un viaggio in Sicilia per meglio erudire i nuovi compagni di strada. Come togliere il potere a Roma-ladrona, agendo a tenaglia dal Nord e dal Sud: questo è il programma, che si materializzerà in un "arraffa-arraffa" delle risorse disponibili. Ma quali risorse? Quelle esistenti non bastano a soddisfare gli appetiti perché qui non si parla di piani di sviluppo coerenti che abbiano il Mezzogiorno come tema di politica nazionale, bensì di regalie che rafforzino ed estendano clientele e centri di potere locali.

L´alleanza tra clientele di questa natura non può avvenire che con l´obiettivo di rompere le compatibilità economiche e finanziarie del sistema Italia e portarle fuori dai confini dell´Unione europea. Se le Leghe locali, al Nord e al Sud, dovessero essere il modello vincente, la nuova sovrastruttura politica e istituzionale del Paese, la sottostante struttura sarebbe fondata su clientele e "bande cammellate" politicamente nomadi, tallonate e infiltrabili da poteri extra-statuali storicamente presenti in forza in quelle società. La localizzazione della politica denuncia una tragica debolezza dei partiti nazionali e delle istituzioni centrali e locali.

Disgrega un tessuto, non lo articola; consegna i cittadini al dominio delle classi dirigenti locali; moltiplica le leggi e differenzia gli ordinamenti, gli statuti, i servizi pubblici, le retribuzioni e i diritti dei lavoratori.

Le nuove Leghe saranno federate al partito nazionale berlusconiano. Infatti Berlusconi non è affatto preoccupato da queste prospettive. Sarà pur sempre lui il punto di riferimento centrale, il protettore del sistema delle clientele. Leggete sul Giornale di venerdì scorso l´intervista del neoministro Miccichè. Lì è tutto spiegato con una chiarezza che fa paura: l´Italia delle Leghe, alias delle clientele, federate col potere centrale. Per questo ci vuole un partito unico, perché le Leghe non possono convivere con più partiti. Il sistema non è né moderno né postmoderno, ma semplicemente e regressivamente feudale. Un re e uno stuolo di vassalli e di valvassori; i titolari dei feudi sono padroni in casa propria, il re ne riceve l´omaggio e la fedeltà, l´ospitalità nei castelli, l´investitura a regnare e assume in contropartita l´impegno di difendere le prerogative feudali e il sistema che le legittima.

Lo slogan di partenza (ricordate?) fu "meno Stato, più mercato"; lo slogan di arrivo è diventato "niente Stato, niente mercato".

* * *

Un altro esempio, altrettanto recente e altrettanto significativo, di disgregazione emerge dalle vicende dello scontro attorno ad alcuni istituti bancari. Due istituti di credito europei, valendosi delle regole di mercato vigenti in Europa, hanno tentato di acquisire il controllo di banche italiane.

La Banca d´Italia ha cercato di ostacolarle opponendo ogni specie di difficoltà e incoraggiando cordate italiane di difesa.

La qualità, la trasparenza, la solvibilità di tali cordate è estremamente dubbia, al punto che gran parte di coloro che vi partecipano si trovano in questo momento sotto istruttoria giudiziaria per reati che vanno dalla truffa all´insider trading, all´aggiotaggio, alla turbativa di mercato.

Anche qui si acconcia la definizione di "bande cammellate": gruppi di interesse finanziari e palazzinari all´assalto del sistema bancario, banche d´avventura che finanziano i propri azionisti prendendone a riporto i titoli. Sono gli stessi ovunque e gli stessi che ora cingono d´assedio il Corriere della Sera, che già fu vittima appena vent´anni fa del padronaggio della P2.

Non siamo anche qui in presenza d´una disgregazione di forze che nulla ha a che fare con l´emergere di energie nuove e propulsive, bensì con il peggiore affarismo pronto a legarsi con chiunque gli apra varchi e gli offra legittimazione? Asservendo, se gli riuscirà, uno strumento di comunicazione prezioso per poter manipolare i fatti, gli interessi, le immagini, e infine la verità?

Abbiamo purtroppo numerose esperienze di fatti del genere, ma qui la disgregazione del sistema creditizio avviene su un corpo fragile e in un contesto dove gli organi di controllo e le autorità di garanzia periclitano ogni giorno di più. All´erta sentinella! Ma le sentinelle sono ormai poche e molto assonnate.

* * *

Purtroppo è questo il contesto nel quale si pone il caso Rutelli-Margherita. Appassiona il ceto politico, sconcerta gli elettori del centrosinistra, rischia, eccome, di capovolgere la tendenza che sembrava aver guadagnato terreno ad un cambiamento politico alla guida del Paese.

Il racconto e il commento a quanto è accaduto tre giorni fa all´interno del partito di Rutelli, di Marini, di De Mita, sono già stati scritti su questo giornale e ad essi mi resta ben poco da aggiungere né voglio addentrarmi nella ricerca delle intenzioni dei protagonisti. Posso soltanto ordinare i fatti, la loro sequenza, il segno oggettivo che ne deriva, magari a dispetto delle imperscrutabili intenzioni di chi lo ha promosso.

1. L´80 per cento della Margherita ha "sovranamente" deciso che alle prossime elezioni politiche (tra un anno) quel partito presenterà una sua lista con il suo proprio simbolo per la quota proporzionale prevista dalla legge elettorale.

2. La conseguenza tecnica di questa decisione sarà la scomparsa dalle schede elettorali del simbolo dell´Ulivo, del quale nessuna altra lista potrà avvalersi essendo quel simbolo di proprietà comune dei suoi fondatori tra i quali c´è la stessa Margherita. Altri potrebbero usarlo ma soltanto se la Margherita gliene desse il permesso: ipotesi che possiamo escludere con certezza.

3. Rutelli, Marini, De Mita e i loro sodali hanno confermato la loro fiducia nella Federazione dei partiti riformisti, già fondata e già munita di organi e regole, nella leadership di Romano Prodi, nella coalizione dell´Unione che va da Mastella a Bertinotti.

4. La Margherita si autonomizza elettoralmente per intercettare i voti moderati in uscita dalla Casa delle libertà. Si autonomizza altresì perché la lista unitaria della Federazione, voluta da Prodi, segnerebbe una subordinazione del partito Margherita ai Ds, dati i rapporti di forza esistenti.

5. Rutelli, Marini, De Mita, hanno lanciato contro i medesimi Ds accuse di slealtà e di complessi egemonici di natura leninista, con un´asprezza di linguaggio del tutto inusuale tra forze alleate.

6. De Mita ha anche proposto nel suo intervento che il partito si schieri per l´astensione dal voto nel prossimo referendum sulla procreazione assistita, zittendo pubblicamente e ruvidamente una donna partecipante all´assemblea perché – «in quanto donna» – non aveva la capacità di discutere su questioni serie e gravi.

7. Prodi, commentando da lontano le decisioni della Margherita, le ha definite «un suicidio». Non ha però precisato chi si è suicidato o chi è stato suicidato. Ha anche aggiunto che non è disponibile a guidare «un governicchio» composto da partiti rissosi e preoccupati principalmente di accrescere la propria visibilità a danno dell´intera alleanza.

8. In seguito a queste decisioni non si capisce dove potranno collocarsi i partiti minori (socialisti, Udeur, Verdi, Comunisti italiani, Di Pietro) i quali rischiano di non raggiungere la soglia minima prevista dalla legge elettorale, con la conseguenza di scomparire e di rendere inutili i voti da loro raccolti, con grave perdita per tutta l´Unione.

9. I Ds finora hanno emesso un comunicato di "preoccupazione" e aspettano il rientro in Italia di Prodi.

10. Rifondazione comunista, anche in seguito a questi fatti, sembra aver accresciuto la propria immagine di sinistra radicale, scatenando nella città-vetrina di Bologna un´offensiva contro il sindaco Cofferati, reo di "riformismo legalitario" anziché "riformismo movimentista".

Tutta la sequenza che ho qui sintetizzato senza discostarmi dai fatti oggettivi e non contestabili, si iscrive a mio avviso nel quadro della disgregazione. Tutto ciò che era stato con estrema fatica aggregato, soprattutto a opera di Piero Fassino, è stato ora disgregato. Non solo dalle decisioni prese ma ancor più dall´asprezza delle invettive e dalla rivendicazione d´una sovranità di partito che fa a pugni con l´esistenza d´una Federazione creata proprio per limitare la sovranità dei singoli partiti all´insegna di un disegno comune.

Se la Federazione doveva essere l´anima del riformismo e la lista "Uniti per l´Ulivo" il suo corpo visibile; se il corpo è stato ormai seppellito; è difficile capire dove possa esser finita l´animula tremula vagula. Oppure sia il corpo sia l´anima sono ora trasmigrati nella Margherita e in essa soltanto? O sono stati relegati in un limbo dove resteranno in perpetuo?

Queste sono le mie modeste domande di cittadino elettore (non so più per chi). Del cittadino elettore c´è qualcuno che si occupi? La sua rabbia e la sua frustrazione dopo questi deplorevoli accadimenti interessa a qualcuno? Rutelli, con bella eloquenza, ha detto che per tre anni ha mangiato pane e cicoria. È già stata una chance, visto che usciva da una sconfitta elettorale dopo la quale di solito i leader si ritirano dalla gara. Comunque non è certo il solo ad aver mangiato pane e cicoria. La vittoria alle regionali ha molti padri. Politici e anche non politici. Rutelli è certamente uno di loro. Forse anche Marini. Forse anche De Mita. Sicuramente non loro soltanto.

Prodi no? Ha mangiato pane e cioccolata? A me non sembra.

Quanto a me – se interessa – sono a dieta per ragioni terapeutiche. Non di salute ma di igiene mentale. E mi ci trovo benissimo e in ottima anche se piccola compagnia.

ALL'INIZIO sembrava un rebus. Non si capiva perché Follini volesse ritirarsi dal governo insieme a tutti i suoi ministri e sottosegretari. Non si capiva, al di là delle oscure motivazioni ufficiali, quale fosse il vero obiettivo di questa manovra da Prima Repubblica: un nuovo programma? Un nuovo governo dove la Lega contasse di meno e i centristi di più? Il logoramento a fuoco lento di Berlusconi? Le elezioni politiche immediate? E non si capiva perché mai Fini, che per primo aveva preso iniziative “revisionistiche” dopo la batosta elettorale delle regionali, da un certo momento in poi avesse lasciato Follini in mezzo al guado restando indifferente alle peripezie del suo alleato.

Poi il rebus assunse l'aspetto di un'operetta. Trascinato dall'empito vendicatorio di Storace e dal desiderio antico del camerata Alemanno di soppiantarlo nella guida del partito, Fini preannunciò anche lui il ritiro di se stesso e dei ministri dal governo se....

Quel “se” conteneva le stesse ingiunzioni elencate da Follini: nuovo governo, nuovo programma, sospensione della “devolution”, estromissione di Calderoli da ministro delle Riforme, nuova politica economica concentrata su imprese, famiglie e Mezzogiorno, fine della catastrofica strategia di riduzione dell'Irpef.

Nella tenaglia Fini-Follini Berlusconi tentò di giocare d'anticipo: si presentò da Ciampi per dimettersi ma strada facendo cambiò idea: non si dimise affatto, uscì da quell'incontro facendo marameo ai suoi (ex) alleati sfidandoli a negargli la fiducia, forte del conforto di Bossi. Ma poi, dopo averci dormito sopra e temendo il peggio, si pentì del voltafaccia della mattina e ritornò all'idea di accettare la crisi formale. La grandissima e inutile buffonata della crisi formale, come disse in Senato preannunciando le dimissioni che infatti dette mezz'ora dopo.

Un'operetta - dicevo - di cattiva musica suonata e cantata da attori scadenti. Passarono altre ventiquattr'ore e arrivò il giovedì.

La mattina di quel giorno il “premier” dimissionario ottenne da Ciampi il reincarico per formare il nuovo governo. Studia il programma secondo le linee richieste dagli (ex) alleati. Studia la struttura del nuovo ministero. Si mormora di novità importanti, di new entry clamorose. Venerdì sera finalmente il presidente del Consiglio è pronto per l'incontro con il capo dello Stato nella Sala della vetrata. Con in tasca la lista del suo terzo ministero.

A questo punto l'operetta diventa una comica. Ciampi lo accoglie con un impercettibile sorriso (o almeno così racconterà poi il Berlusconi furioso) e gli chiede subito se tra i nuovi ministri ci sia anche l'ex governatore del Lazio, Francesco Storace, battuto pochi giorni prima dal signor “Mi manda Raitre”. Affermativo, risponde il “premier”: alla Sanità.

Hai riflettuto bene sulle ripercussioni di questa nomina? Quali ripercussioni? chiede Berlusconi che comincia a fiutare puzza di bruciato. E Ciampi lo informa d'aver ricevuto pochi minuti prima una telefonata autorevole che lo avverte del profondo malcontento dentro Alleanza nazionale per una nomina così indigesta alla maggioranza del partito. “Almeno metà dei parlamentari di An non darà la fiducia al governo” prevede l'autorevole informatore del presidente della Repubblica. Ma chi è? sbotta Berlusconi.

Maurizio Gasparri, risponde Ciampi, e insiste: “Riflettici, consultati, non avere fretta”.

Ora la comica si fa serrata. Berlusconi ritorna nel suo ufficio e convoca Fini. Lo informa di quanto ha saputo.

Fini trasecola. Convoca Gasparri. Lo ricopre di contumelie e poi lo butta fuori dall'ufficio. Torna da Berlusconi e gli propone di cancellare il nome di Gasparri dalla lista dei ministri. Cercano insieme chi possa prenderne il posto.

Provano con La Russa. Mi piacerebbe, risponde il D'Artagnan dei poveri, ma non posso fare uno sgarbo a Maurizio. Allora Landolfi. Il quale accetta.

Tutto a posto? Non ancora. Berlusconi si sente ora più forte di fronte alla figuraccia del ministro degli Esteri.

Gli comunica d'aver deciso l'ingresso di Tremonti come vicepresidente del Consiglio al posto di Follini che per propria scelta resta fuori dal ministero.

Fini oppone una timida resistenza ma capisce che ormai la sua forza negoziale è ridotta a zero, con un partito diviso e disfatto.

Il “premier” taglia corto. Sabato mattina al tocco ritorna al Quirinale. Le “new entry” oltre a Tremonti sono quelle di Giorgio La Malfa e del socialista Caldoro, riesumato dalle catacombe del centrosinistra Prima Repubblica. E Micciché, per il quale viene inventato un ministero chiamato “Sviluppo e coesione territoriale”. Fantastico.

Spara il cannone dal Gianicolo. L'ufficio stampa dell'Udc diffonde un comunicato per annunciare che il partito valuterà in Parlamento se il programma e la struttura del governo meriteranno la fiducia oppure no. Il ministro leghista Maroni, dal canto suo, dichiara che con il ritorno di Tremonti nel governo la Lega passa da tre ministri a tre e mezzo. Altro che liquidazione dell'asse nordista.

La comica per ora termina qui. Martedì alla Camera si vota la fiducia.

Oppure no?

* * *

Questo Paese si merita pagliacciate di questo infimo livello in un momento in cui incertezza e preoccupazione per il futuro sono al loro massimo e problemi gravi incombono non solo su di noi ma sull'Europa e sul mondo intero? Sarebbe diplomatico rispondere no, il Paese non merita uno spettacolo così avvilente. Ma la verità non è questa. La verità, per sgradita che sia, è che ogni paese ha la classe dirigente che si merita. La maggioranza degli italiani credette nel maggio del 2001 alle cervellotiche e miracolistiche ricette di un Dulcamara da strapazzo e affidò il potere a lui e ad una banda di dilettanti.

Dilettanti per imperizia a guidare lo Stato, ma fior di professionisti nel calcolare, difendere e amministrare i propri interessi usando a tal fine le pubbliche istituzioni.

Questa accolita discende direttamente da Tangentopoli, è costola e figlia di Tangentopoli. Le sue radici sono cresciute in quell'humus e hanno tratto alimento da quel concime. I frutti si vedono: un disastro morale, un collasso economico, un mucchio di rovine politiche e istituzionali.

Questo governo bis è nato col forcipe e ne mostra tutti i segni e le malformazioni. Sarà seppellito dalle risse interne e dalla disistima internazionale. Arrecherà all'Italia danni ulteriori e ulteriore disdoro.

Per rilanciare l'economia dovrebbe chiedere sacrifici severi ai ceti più abbienti e snidare il “sommerso” con pugno di ferro. Ma chi parla più del “sommerso”?

Ricordate? Doveva essere uno dei grandi temi del nuovo miracolo. L'Italia ha un vantaggio sui concorrenti: un quarto della sua economia sfugge ai controlli, alle regole sindacali, al fisco. E' come avere una piccola Cina in casa. E' il nostro tesoro nascosto e la riserva per quando finalmente emergerà.

C'era soltanto follia e predisposizione al malaffare in questo ragionamento. La Cina non ha un'economia sommersa; alla luce del sole le sue aziende operano con costi bassissimi nei settori produttivi di scarso valore aggiunto, ma con costi di mercato nelle tecnologie avanzate e avanzatissime.

Noi siamo inesistenti nei settori avanzati. Tra poco lo saremo anche nella grande industria matura. Ma nelle produzioni tradizionali con basso valore aggiunto neppure il nostro sommerso regge alla concorrenza asiatica. Nel frattempo, negli ultimi quattro anni la nostra economia che lavora in nero è passata da un quarto ad un terzo del totale. Si può andare avanti così? Consumi fermi, investimenti fermi, esportazioni in discesa.

Il cavallo non beve. Lo credo: è un cavallo moribondo. Ci vorrebbe un'alimentazione forzosa.

Secondo i calcoli più attendibili le dimensioni della manovra destinata a rimettere il sistema in moto ad un ritmo accettabile ammontano a 35 miliardi di euro, 47 miliardi di dollari, 70 mila miliardi di vecchie lire.

Chi glieli darà a Siniscalco? Dove pensa di prenderli? Bisognerebbe tassare severamente i patrimoni, quelli immobiliari e quelli mobiliari. Infatti hanno già cominciato a farlo alla chetichella, sperando che la gente non se accorga. Ma ben presto la gente se ne accorgerà.

Una manovra da 35 miliardi di euro l'Italia non se la può permettere dopo quattro anni di dissipazioni mascherate a colpi di condoni.

Siniscalco pensa infatti ad una manovra dimezzata, da 18 miliardi di euro.

Ma anche questa non sarà indolore e probabilmente servirà a ben poco. Non potrà essere totalmente espansiva con un debito pubblico al 106 per cento del Pil. Diciamo che sarà espansiva per 6 miliardi e restrittiva per 12. Con un saldo netto deflazionistico e tassi sul debito in aumento.

No, non è un bel periodo quello che ci aspetta. Meglio sarebbe stato chiudere subito la partita, prima che degradi in una rissa tra piccoli uomini sulla pelle del Paese.

Richiedeva coraggio e dedizione allo Stato e ai cittadini.

Ma uomini di questa fatta non si trovano più da un pezzo nella destra italiana che perciò è destinata ad andare a fondo. La speranza è che non ci si porti dietro.

GD’Avanzo L’ingenua illusione

Anche il bravo giornalista de la Repubblica (25 marzo 2005) è tra quei moltissimi che pensano che con Berlusconi e la sua truppa occorre aprire uno scontro serio, e non una serie di scaramucce da corridoio

ANCORA oggi c’è chi pensa che della riforma della Costituzione, alla fine, non se ne farà nulla. Il referendum la cancellerà, si dice con avventatezza. Nel mondo politico, della cultura e dell’informazione, per non parlare dell’opinione pubblica, c’è chi è - ancora oggi - fiducioso che "il limite" non sarà oltrepassato. L’ingenua illusione può provocare disastri imponenti se non si affronta con realismo quel che è accaduto al Senato con l’approvazione della "Riforma dell’ordinamento della Repubblica" (primo firmatario Silvio Berlusconi). Ha vinto una cultura politica che crede sia la forza il reale fondamento della convivenza umana. L’idea è antica.

Fu di Machiavelli, è stata aggiornata nel ventesimo secolo da Max Weber e Carl Schmitt. Nella sua naiveté Berlusconi ne è, nel mondo occidentale, l’interprete più nitido. Egli si riconosce un’eccezionale autorità personale che può illuminare soltanto chi ha, per la politica, una vocazione. Vive per essa e non di essa (come, al contrario, quei "funzionari di partito" che gli sono avversari). Egli vuole esercitare il potere per realizzare, a vantaggio della comunità, la propria capacità di dare valori, significato e indirizzo alla vita secondo una "concezione del mondo" maturata con successo «in azienda» e in ogni altra "impresa" affrontata. È naturale, è coerente - a pensarci - che questa volontà e questo potere carismatico abbiano voluto consolidarsi in una Costituzione. Nell’humus istituzionale di un sistema democratico pluralista e pluripartitico, Berlusconi è a disagio. Incontra ostacoli, lungaggini, barriere, balances che gli fanno venire (ammette) «l’orticaria». Burocrazie, partiti, governo, Parlamento, organi di garanzia, magistrature, calcoli elettorali, lo condizionano, lo appesantiscono. Avviliscono i suoi poteri a "mediazione dei conflitti". Li riducono soltanto alla snervante direzione dell’agenda di governo.

Se questo è vero, pare un errore pensare che la nuova Costituzione sia il frutto di una congiuntura politica che ha voluto (dovuto) concedere a ognuno dei partiti di governo una bandierina da sventolare in questa, e nella prossima, campagna elettorale. Berlusconi ha bisogno di questa Costituzione per "cambiare passo", dopo la prima stagione legislativa. Si prepara ad esercitare più concretamente la forza che rimane, nella sua cultura politica naif ma quanto consapevole, lo strumento essenziale per l’organizzazione della società e l’esercizio del potere politico.

È quel che annuncia la "Riforma dell’ordinamento della Repubblica" che frantuma il sistema costituzionale come sistema di equilibri e di reciproche garanzie. Semplificato e irrigidito, il sistema "riformato" concentra e personalizza il potere politico. Nasce un vertice monocratico del potere, eletto plebiscitariamente. È dotato di strumenti che gli consentono di governare senza mediazione e di controllare la maggioranza condizionando con voti bloccati la volontà parlamentare perché dispone liberamente della "vita" della legislatura. Come ha avuto modo di dire già due anni fa il presidente (ora emerito) della Corte Costituzionale Valerio Onida, questo scenario "non significa democrazia più immediata, ma meno democrazia". Il passo successivo non è difficile immaginarlo perché in controluce già affiora di tanto in tanto. Le categorie del "politico" che quel vertice monocratico e cesarista maneggerà saranno "il bene" e "il male", "l’amico" e "il nemico", "l’uguale" e "il diverso"…

Conviene, come sollecita Mario P irani, "svegliarsi", rimboccarsi le maniche, riflettere, cercare di capire, al di là dello sconcerto e dell’indignazione. Nessuno deve pensare che sia facile, capire. Ancora ieri, era complicato venire a capo di quanti articoli della Carta siano stati riscritti dal Polo. Per Michele Ainis ne sono stati "modificati 52 e aggiunti altri 3 di sana pianta". Per Andrea Manzella ne sono stati "cambiati 53". Per Sergio Bartole, presidente dell’Associazione costituzionalisti italiani, "la Costituzione cambia in ben 48 articoli". Altre riviste (come Questione Giustizia 1/2005) sostengono che il testo "sostituisce o modifica 49 degli 80 articoli della seconda parte della Costituzione".

52, 55, 53, 48 o 49? Si tratta della Carta costituzionale. Non è irrilevante che neppure addetti eccellenti sappiano concordemente dirci quanti sono gli articoli riscritti o aggiunti. Questa incertezza non è muta. Sono contraddizioni che ci svelano quanto debole e affrettato sia stato il dibattito culturale e politico intorno a una faccenda decisiva per il futuro della democrazia italiana. Forse è utile chiedersi perché questo è accaduto e azzardare anche una risposta.

Il falso mito delle riforme costituzionali, come una malattia, ha contagiato l’intero quadro politico. Tutti. Laici e cattolici. Destra, centro e sinistra. Il contagio, si può dire, dura da vent’anni e ha un suo primo epilogo con il referendum sul sistema proporzionale. Quel giorno, la nostra democrazia cambia pelle. Da "democrazia organizzata", come spiega Mario Dogliani, (organizzata perché fondata sulla mediazione dei partiti) si trasforma in "democrazia individualistica" (perché fondata sul rapporto immediato tra singolo e rappresentanti). In questo slittamento la Costituzione, approvata il 22 dicembre del 1947, entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, sembra deprezzarsi, svalutarsi. Appare "invecchiata". Ma le Costituzioni, se vitali, non invecchiano. La più antica delle Costituzioni scritte, quella degli Stati Uniti d’America, nacque il 17 settembre del 1787; fu integrata con i dieci emendamenti del Bill of rights (carta dei diritti) l’anno dopo (1788) e da allora, in 217 anni, dei 10.000 emendamenti proposti ne sono stati approvati soltanto 17 (l’ultimo nel 1992).

La nostra Costituzione, messa sotto pressione, ha dovuto mostrare in questi anni tutta la vitalità dei suoi verdissimi 57 anni. Se non ci si lascia acceccare dal falso mito, lo si può constatare a occhio nudo. E’ stata accusata di indebolire il sistema decisionale del governo troppo esposto agli umori del Parlamento. Al contrario è il Parlamento a vivere un’infelice crisi di ruolo mentre le pratiche in uso - i tempi garantiti della discussione in aula; l’ampio uso della questione di fiducia; i maxiemendamenti governativi… - offrono all’esecutivo un vigoroso potere decisionale. È stato detto che la Carta impedirebbe la stabilità e la continuità dei governi. In realtà, da quando il Parlamento è stato eletto, prevalentemente con il maggioritario (dal 1994), sono stati in carica sei governi, ma si sono succedute al governo quattro maggioranze di cui tre scaturite dal voto. È stato detto che la Costituzione offre al "potere partitocratico" il modo di allungare le mani sulle istituzioni. È sempre più evidente che il ruolo di mediazione dei partiti tra istanze sociali e istituzioni è quasi del tutto venuto meno. Si dice che è colpa della Costituzione se abbiamo un sistema politico così frammentato. Un sistema politico, però, non è il frutto delle regole del sistema costituzionale, ma delle regole del sistema elettorale (che nulla hanno a che fare con la Carta).

Si può dire allora che - da quando il "mito" delle riforme costituzionali è diventato invasivo e vincente - il sistema politico in tutti i suoi segmenti ha preteso di ottenere, come sostiene Onida, "attraverso le regole costituzionali, la coesione interna delle coalizioni politiche" che è appunto il lavoro, la quotidiana "fatica" dell’azione politica. Quel che la politica non è riuscita a conservare o proteggere o innovare, lo ha chiesto alla rigidità della Costituzione. È il passo laterale che ha sfigurato l’idea della Costituzione. Da motore della politica è diventata cornice. Da tabernacolo di valori e di programmi per realizzarli si è trasformata in strumento tecnico per dare robustezza al potere politico. Non si può negare che in questa interpretazione svalutativa della Carta è rimasta intrappolata anche l’opposizione di oggi (il governo di ieri). Le preoccupazioni che il centrosinistra propone in queste ore possono esserne una conferma. L’allarme maggiore sembra riguardare "i diritti", come se la Costituzione si rinchiudesse soltanto nel rapporto tra i singoli e i diritti costituzionali. Sembra quasi che la Carta debba essere affare di Corti Costituzionali, di giudici, di garanzie e non anche l’impegno comune che custodisce un modello di società condiviso, la rappresentazione di un fine e di un futuro collettivo. È proprio vero che bisogna «svegliarsi». Quel che attende il Paese con il referendum è un confronto tra culture politiche. Della cultura "cesaristica" di Berlusconi si sa e si è detto, ma quella che ha ispirato la Costituzione del 1947 dov’è? È ancora viva? Se è viva, perché tace, perché non si mostra?

«Venerdì e sabato erano giorni di novità. Di sabato avevo fatto il video, di sabato avevo scritto la lettera. Così venerdì aspettavo che dicessero qualcosa, anche perché lui, il carceriere che si mostrava più disponibile, sembrava allegro. E l'altro a un certo punto era uscito. 'Vabbè, mi sono detta, per chiedere aspetto `». E' il racconto di Giuliana Sgrena, il giorno della grande paura e della gioia che dura mezz'ora, fino alle raffiche che ammazzano il suo liberatore, Nicola Calipari, il poliziotto che dirigeva le Operazioni internazionali del Sismi. La nostra inviata è ancora all'ospedale militare del Celio, aspetta di essere operata e ha male alla spalla ma sta meglio, anche gli ematomi sul volto stando andando via. Ci accoglie seduta, con lei c'è Pier. Giuliana sapeva già dei contatti in corso, sabato 19 febbraio aveva scritto di suo pugno la lettera ai familiari, la prova che il Sismi cercava. E per due volte l'avevano fatta parlare al telefono, sabato 25 e ancora lunedì 28: una cassetta è finita alla Croce rossa italiana, l'altra chissà. Domenica 27 le avevano detto che sarebbe stata liberata e il giorno è arrivato di venerdì, un mese esatto dopo il rapimento alla moschea Al Nahrein di Baghdad. Era venerdì anche il 4 febbraio.

«Quando l'iracheno mi ha portato il pranzo gli ho chiesto: `Sei felice perché resto o perché me ne vado?'. 'So che te ne andrai ma non so quando, chiedi all'altro...'. E poi: `Te ne andrai domani, Inshallah, se Dio vuole'. `Giorno più giorno meno', così ho pensato. E invece dopo qualche ora, non so quante, sono entrati tutti e due. Ero a letto come al solito - ricorda Giuliana - e ho notato che non portavano il consueto camicione lungo, si erano quasi vestiti eleganti, camicia e pantaloni. Ho provato a scherzare: `Che è? Un matrimonio?'. E loro: `Complimenti, te ne vai a Roma, la tua roba dov'è?'. Avevano fretta. Mi chiedevano: `Sei pronta? Sei sicura?'. Volevano prepararmi: `Guarda che sarà una cosa difficile... Abbiamo promesso alla tua famiglia - perché loro parlavano sempre della famiglia - di rimandarti a casa sana e salva, ma se qualcosa va storto ci ammazzano tutti'. Sapevo già che era il momento più delicato. `Se ci fermano, sia gli americani che la polizia irachena, non fare segni, non dire che sei un'occidentale».

Sull'auto dei rapitori

«Mi sono messa la felpina nera con la zip, che nel primo video sembrava verde. Jeans neri e sopra il mio vecchio cappottino molto anonimo, che in un paese arabo va sempre bene. Mi hanno ridato la mia roba - dice ancora Giuliana - ma non tutto. C'erano gli accrediti, i documenti e i soldi, quasi tutti. Erano mille dollari e ne ho riavuti ottocento, hanno voluto fare il gesto... Non mi hanno restituito tutti i blocchetti, né i telefoni, né la macchina fotografica digitale. Prima di uscire dalla casa mi hanno fatto mettere un'imbottitura sotto gli occhiali da sole, non se fosse giorno o già notte».

«Mi hanno fattoo salire in macchina, sono saliti anche loro due e, pur non vedendo, mi sono accorta che alla guida c'era un altro. Hanno parlato al cellulare, forse altri ci precedevano o ci seguivano. Non lo so. Abbiamo girato un po' ma non molto, una ventina di minuti. Finalmente siamo arrivati, non so dove perché ero bendata, e ci siamo fermati. Mi hanno detto `aspetta' e sono rimasta lì, con una fifa pazzesca. Sempre nella stessa macchina. Ero lì da sola con il terrore. Ho capito che era un punto di passaggio, c'erano automobili che si fermavano. `Sarà questa?', pensavo. A un certo punto ho sentito da fuori voci concitate. No, non è durata più di mezz'ora, ero agitata ma non è durata di più». C'è stato un ritardo di due ore nella consegna ma Giuliana esclude di aver passato così tanto tempo ad aspettare. «Sentivo sirene della polizia e soprattutto un elicottero americano sopra di me. Mi sono ricordata di Mogadiscio, quando ho intervistato Osman Atto che era ricercato: sopra di noi c'era un elicottero americano. `Se va bene, mi sono detta, non mi beccano neanche stavolta'».

«Sono Nicola, sei libera, vieni»

«Quando è tornato, uno dei miei carcerieri mi ha detto: `Dieci minuti'. `E ora che faccio?', ho pensato. Così ho cominciato a contare, 'quando arrivo a sessanta sarà un minuto'. Per arrivare a seicento ci avrò senz'altro messo meno di dieci minuti. E intanto mi domandavo: 'Chissà chi verrà?'. Sapevo che sarei potuta finire in mano ad un altro gruppo. Finché non è arrivato Nicola, che ha aperto la portiera di destra mentre io ero seduta dall'altra parte: `Sono un amico di Pier e di Gabriele, sei salva, libera, vieni con me'. Gli occhiali non li tolgo, non ci penso nemmeno. `Abbandonati a me', dice Nicola. La loro macchina doveva essere lì, la raggiungiamo subito. `Mi siedo vicino a te', dice Nicola. Alla guida c'è il suo collega, il posto accanto è vuoto. Ho ancora le bende, solo dopo qualche minuto Nicola dice: `Puoi toglierle'».

«La prima cosa che vedo? Una strada periferica di Baghdad, però non sto a fissarla: se quando mi hanno rapita cercavo di fissare ogni dettaglio, in quel momento di gioia guardavo lui, non mi interessava guardare fuori. E poi Nicola mi ha travolto di parole, ha fatto un sacco di nomi di amici: `Mi hanno detto di non tornare senza Giuliana'. Allora ho capito di essere libera, mi sembrava di essere rinata». A bordo non c'era nessun altro, il quarto uomo Giuliana non l'ha visto. «Non posso escludere che ci fosse un'altra auto, una staffetta, ma non ho avuto questa sensazione».

Le telefonate dall'auto

«Quando mi sono tolta le bende l'autista ha telefonato, secondo me a Baghdad: `Siamo in tre, stiamo arrivando'. Ho intuito che qualcuno ci aspettava in aeroporto, forse un loro collega, ma nessuno me l'ha detto, neanche dopo, l'ho solo intuito. Nel frattempo Calipari mi ha detto: `Ora chiamiamo Roma'. Ma non trovava i suoi occhiali, non riusciva a chiamare. Ha buttato un telefono sul sedile davanti perché non funzionava. Con l'altro telefono è riuscito a chiamare il capo del Sismi a Roma e me l'ha passato, non so cosa gli ho detto: 'Grazie', senz'altro ho detto `grazie'. 'Ti richiamo', gli ha detto poi Nicola. Non so se ha detto `ti richiamo quando siamo in salvo', non ricordo, ma certo non era una situazione di sicurezza assoluta. Lo stesso anche dopo, quando l'autista ha detto `da qui sono 700 metri all'aeroporto' e subito sono arrivati gli spari. In una situazione normale avrebbe detto: 'Siamo quasi arrivati'».

«Non ho visto il faro dei soldati»

«Non ho visto posti di blocco. Certo io parlavo, guardavo Nicola, ero euforica, però mi sarei accorta se ci avessero fermato, perché avrei avuto paura. Calipari e il suo collega hanno acceso la luce interna: forse per poter telefonare, forse proprio per motivi di sicurezza, perché la prima cosa è farsi vedere in faccia. Il viaggio sarà durato venti minuti o mezz'ora, non di più. Ricordo un sottopassaggio, però non ho seguito la strada: di sicuro non era la strada principale, sarebbe stato da pazzi, ma una strada alternativa fuori dalle zone abitate. Comunque siamo arrivati su questa strada, tutta allagata, la macchina ha sbandato e ho detto: 'Ma guarda tu se ora andiamo a sbattere'. Poi quella frase, `ancora settecento metri', e subito i colpi».

«C'è una curva a destra, le raffiche sono arrivate mentre la macchina girava, sempre dal lato destro dove era seduto Nicola. Non ho visto nessun fascio di luce, ho solo sentito le raffiche». Il maggiore che guidava l'auto invece l'ha visto, ma i colpi, ha spiegato, sono arrivati contemporaneamente, in violazione di tutte le procedure, subito sull'abitacolo e non al motore. «Non so - dice Giuliana - se fosse un'arma sola o di più, era buio. So che i colpi hanno investito subito l'auto, nessuno ha sparato in aria, l'ufficiale al volante ha gridato: `Ci stanno attaccando' e mi pare abbia cercato di telefonare, però ce l'ha fatta solo dopo, da fuori. E' uscito gridando: `Siamo italiani'. Nicola invece non ha detto più niente, si è buttato addosso a me che intanto cercavo di scivolare più giù che potevo, tra i due sedili. Mi ha salvata».

«Sono ancora viva, Nicola è morto»

«L'autista era sceso, mi sembrava impossibile che gli americani ci attaccassero. Sono rimasta in macchina, con un fanale hanno illuminato la zona e allora ho visto un mezzo blindato a una decina di metri dalla strada, sulla destra. E' la dinamica del fatto che fa pensare a un agguato, voi cosa avreste pensato? Faccio in tempo a sentire l'ufficiale, che era sceso e da lì telefonava, credo a Roma, mi è sembrato che si fidasse più di chiamare Roma che non Baghdad: `Nicola è morto, lei è lontana ma ha gli occhi aperti...'».

«Sento Nicola sopra di me, cerco di spostarlo e non ci riesco. In quel momento si avvicinano i soldati, sette otto. Aprono la porta sul lato destro, capiscono che Nicola è morto e lo tirano su. Mi sembrano interdetti, forse a uno sfugge un'imprecazione, poi chiama: `C'è un morto'. Allora vengono dalla mia parte, a sinistra. Aprono. Ma sono bloccata, incastrata. Vicino a me, sul sedile, sento un mucchio di proiettili: ci saranno state anche le schegge dei vetri dei finestrini ma a me sembravano proiettili. E quelle che ho nella spalla non sono schegge di vetro».

Con gli americani all'ospedale

«'Sono ancora viva', ho pensato. Sentivo la ferita alla spalla ma non ero morta. I soldati mi hanno tirata fuori, sono rimasta sdraiata per terra mentre uno di loro mi tagliava i vestiti. Pensavano fossi messa peggio. Un altro ha provato a mettermi una flebo, ecco il risultato», e mostra una tumefazione sul polso. «Non so cosa sia successo all'autista, io sono rimasta con i soldati, mi hanno portato all'ospedale sul blindato. Erano americani, giovani. Americani e non d'origine latinoamericana. Non respiravo più, il polmone si stava stringendo, chiedevo continuamente acqua. Lì per lì mi hanno solo chiesto il nome e la nazionalità, più tardi in un'orecchio uno mi ha chiesto: `Ma tu sei la giornalista che avevano rapito?'. Non sapevo che dire, poi ho detto sì. `Mica mi potrà ammazzare qui dentro', ho pensato».

«Nel frattempo, su mia richiesta, era arrivato l'ambasciatore De Martino. L'ambasciatore ha chiamato Gianni Letta e me l'ha passato. Poi mi hanno fatto l'anestesia totale per togliere il proiettile. Quando mi sono svegliata ho chiesto della collana che avevo, la collana della resistenza apparsa nel video. Gli americani non l'hanno più trovata».

È stato un incontro difficile, atteso da giorni e non per questo meno carico di tensione. E di grande emozione. L’argomento all’ordine del giorno fissato dal direttore Furio Colombo e dal condirettore Antonio Padellaro era uno soltanto: il cambio di direzione dell’Unità. Dopo due mesi di indiscrezioni e trattative alla fine è arrivata una decisione della società editrice: sarà Antonio Padellaro il nuovo direttore dell’Unità e firmerà il suo primo numero il 15 marzo prossimo, mentre Furio Colombo sarà l’editorialista del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Perché? «Questa è l’unica domanda a cui non posso dare una risposta perché non mi è stato spiegato - ha detto Furio Colombo -. Ancora oggi non so esattamente per quale motivo era necessario cambiare il direttore di questo quotidiano. Ma a conclusione di un periodo di grande incertezza, posso dire che questo è un buon risultato». Colombo ricorda la vicenda del «totonomi» sul suo successore, i silenzi a domande che per ora non trovano risposte e poi ammette: «Non dico, come fanno i politici , che sono sereno. Non sono sereno, anzi sono anche un po’ incavolato, ma detto questo aggiungo che questa è una decisione razionale, ragionevole, giusta perché sarà Antonio a condurre questo giornale. E la sua direzione era una condizione che avevo posto per poter continuare ad avere un rapporto con l’Unità».

Il suo discorso l’ha iniziato ricordando un altro incontro, quello che ha preceduto la riapertura del giornale fondato da Antonio Gramsci e miseramente affondato dai debiti. Dopo quattro anni ci sono una redazione più che raddoppiata e 66mila copie (i dati Audipress parlano di 409mila lettori quotidiani).«Un risultato che è stato possibile raggiungere grazie ad ognuno di noi, al lavoro di questa redazione e di questa direzione». Furio Colombo è emozionato. La redazione anche. Quello che doveva essere un «ciclo naturale con i suoi tempi ha avuto una brusca accelerazione». Federica Fantozzi gli chiede: «Perché hai accettato di fare l’editorialista per l’Unità?». «Avrei potuto per uno scatto d’orgoglio dire “lascio e vado via”, ma - risponde - ho pensato ai lettori, al rapporto speciale che si è creato in questi anni, alle centinaia di lettere che ho ricevuto in questo periodo e allora lo scatto d’orgoglio l’ho avuto decidendo di restare qui». Antonio Padellaro sottolinea: «La prima condizione che ho posto è stata: o resta Furio o ce ne andiamo insieme. La seconda è stata quella di poter continuare il nostro lavoro con il massimo dell’autonomia e la terza di non avere interferenze sulle scelte che spettano, come prevede il contratto, ad un direttore». Antonio Padellaro, prendendo la parola ringrazia anzitutto la Nie, (Nuova iniziativa editoriale) per la nomina: «So - ha detto - che sul mio nome c’è stato il pieno accordo del consiglio di amministrazione». Poi dice: «Spero di non avere soltanto il nome in comune con il fondatore di questo giornale». Sorrisi e tensione spezzata. Aggiunge: «Adesso dobbiamo pensare alla cosa che più ci sta a cuore: il giornale. Basta chiedersi cosa sarà di noi, quale nuova indiscrezione arriverà sul nostro futuro. Dobbiamo pensare a lavorare a un giornale che avrà una sua continuità con il passato ma saprà anche rinnovarsi e offrire novità al lettore, il nostro vero e unico proprietario». Arriverà un nuovo piano giornalistico, annuncia Padellaro, ma l’Unità continuerà ad essere alimentata dallo stesso spirito con cui è nata 4 anni fa, perché «l’Unità di Furio Colombo per noi è un patrimonio». Aggiunge anche: «E pazienza se già da domani alcuni giornali ne diranno di tutti i colori». Ha ragione: Polito e il Riformista sono già al lavoro.

Soddisfazione per l’esito di questa vicenda è stata espressa dal Cdr, che, nei giorni scorsi, in una lettera aperta alla Nie aveva sostenuto che «troncare il rapporto con l’attuale direzione giornalistica sarebbe un errore gravissimo». Enrico Fierro ha ricordato anche le «inaudite pressioni al Cdr dal 22 dicembre ad oggi». Umberto Di Giovannangeli precisa che questo risultato è arrivato anche grazie allo scatto di orgoglio della redazione che ha «difeso con le unghie e con i denti la propria autonomia». Il primo ringraziamento dal mondo della politica a Furio Colombo e l’augurio di buon lavoro a Antonio Padellaro arriva da Antonio Di Pietro: «A titolo personale, e a nome del partito faccio gli auguri di buon lavoro al nuovo direttore Antonio Padellaro, che saprà raccogliere con onore l’eredità di Colombo e, come ha dimostrato in questi anni, proseguire con spirito di servizio per la professione la battaglia per una informazione ed un giornalismo migliori». «Chiunque abbia a cuore le sorti della libertà dell'informazione non può che ringraziare Furio Colombo per quanto ha fatto e per quanto continuerà a fare a tutela delle libertà individuali e collettive»: scrivono Federico Orlando e Giuseppe Giulietti, rispettivamente presidente e portavoce dell'associazione Articolo 21. «Non abbiamo dubbio alcuno che Antonio Padellaro e l'intera redazione proseguiranno questo comune cammino».

Prima del cda di lunedì le redazioni de l'Unità di Roma, Milano, Firenze e Bologna si erano riunite e avevano discusso e votato quasi all'unanimità una Lettera aperta ai soci della Nie

L´INDIGNAZIONE non serve a capire. Può infiammare l´opinione pubblica, forse. Per il resto lascia le cose come sono. Al più le confonde. I sentimenti non servono a capire che cosa e perché è accaduto a Milano dove sono stati prosciolti cinque maghrebini accusati di aver reclutato, alla vigilia dell´attacco americano, combattenti da inviare nel nord dell´Iraq. La decisione del giudice milanese risponde a due questioni ancora aperte, dopo l´11 settembre, dopo la creazione di norme antiterrorismo più adeguate a fronteggiare una minaccia che, rispetto al passato, è non convenzionale e caotica.

Quali sono i comportamenti e le attività che ci permettono di dire che un uomo faccia parte di un´associazione terroristica? È sufficiente che raccolga del denaro o falsifichi un passaporto per poter dire quell´uomo un terrorista? E ancora: che cos´è il terrorismo? È terrorismo quello che insanguina l´Iraq? La decisione di Milano propone una risposta. Parziale. Discutibile. Da discutere comunque, e non da liquidare, soprattutto nel giorno dell´addio a Simone Cola, con lo sdegno di Fini o con il furore demagogico di un Calderoli dallo stomaco debole.

Fossimo negli Stati Uniti, quei dubbi sarebbero fuffa. Come si sa, gli Stati Uniti, obiettivo primo dell´offensiva terroristica, hanno tagliato con la spada il nodo dei problemi regredendo a uno stadio pre-giuridico il concetto di pericolo. Non è più prioritario dimostrare l´inevitabilità e la concretezza del pericolo. È sufficiente che ci sia un sospetto di pericolosità per trasformare chiunque in enemy combatant. Nemico combattente. La formula soffoca il processo full and fair e quel che lo costituisce: presunzione d´innocenza, diritto al contraddittorio e al silenzio. La vera finalità delle procedure americane non è accertare i fatti e definire le responsabilità, in realtà.

fatti non hanno più alcun rilievo o importanza. Il nemico combattente è una "risorsa", è uno "strumento informativo" utile a colmare il vuoto di "intelligenza" dei governi. «In tutta la storia della penalità moderna ? sostengono gli addetti ? nessun processo ha avuto meno garanzie». Ma gli americani si considerano "in guerra" e "di guerra" è la loro interpretazione della "legalità" tutta giocata nella logica dei rapporti amico-nemico.

Non siamo però negli Stati Uniti. Siamo in Italia. Anche il nostro Paese, consapevole di dover svolgere la sua parte nella guerra globale al terrorismo, ha adeguato ritoccandole alcune regole per favorire l´iniziativa poliziesco-giudiziaria contro le "cellule" di Al Qaeda impegnate in Italia ? come in una retrovia ? nel reclutamento, nel finanziamento, nel proselitismo e nella propaganda ideologica. Per dare più spazio e profondità alle indagini e ai processi è nato l´ambiguo reato di "associazione terroristica internazionale" (articolo 270 bis) che ancora cerca una giurisprudenza condivisa. Le interpretazione che finora ne sono state date sono divergenti. È utile qualche esempio. Il giudice delle indagini preliminari di Milano, Renato Bricchetti, il 16 settembre 2003, ha assolto dall´accusa di terrorismo il tunisino Mekki Ben Imed Zarqawi con queste parole: "La prova della sussistenza del delitto associativo di terrorismo internazionale impone la dimostrazione dello scopo terroristico. Esige che venga esternato un proposito serio, preciso, circostanziato di porre in essere atti di violenza determinati, idonei a mettere in pericolo l´incolumità sociale e a diffondere il terrore nella collettività. (?) Né la prova di questo proposito non può desumersi dal coinvolgimento degli imputati nell´attività di contraffazione di documenti perché resta la possibilità che queste attività siano finalizzate a realizzare altri scopi". Per contestare, dunque, l´associazione terroristica internazionale non è sufficiente documentare che un passaporto è falso e lo ha falsificato l´imputato. Bisogna provare che l´imputato lo ha falsificato nella consapevolezza che sarebbe stato utilizzato dall´organizzazione del terrore. Questa interpretazione è stata capovolta due mesi dopo, da un altro giudice. 25 novembre 2003. Guido Salvini ha disposto la cattura di alcuni presunti "kamikaze" di Al Ansar argomentando così: "Per configurare la sussistenza del reato di terrorismo internazionale è sufficiente che una struttura organizzata, costituita anche solo in parte in Italia, si prefigga con mezzi adeguati di eseguire atti di terrorismo anche al di fuori del territorio nazionale. Nel nostro Paese può avvenire quindi solo parte della condotta e, in ipotesi, neanche la più grave, quale il mero supporto logistico degli associati destinati ad agire all´estero".

Siamo all´oggi. Il supporto logistico offerto dallo sceicco Abderrazac ad Ansar al Islam è terrorismo? Clementina Forleo, giudice delle indagini preliminari accetta l´interpretazione più "colpevolista", per dir così, di Salvini. Il giudice non ha dubbi che falsificare un passaporto, proteggere l´immigrazione clandestina dei combattenti, favorire il viaggio di un combattente verso i luoghi del conflitto definisca la partecipazione degli imputati alla lotta armata di quel gruppo. "Gli imputati ? scrive Clementina Forleo ? avevano come precipuo scopo il finanziamento e, più in generale, il sostegno di strutture di addestramento paramilitare in Medioriente presumibilmente nel nord dell´Iraq". Si chiede, però, il giudice: la battaglia che combatte Ansar al Islam è terrorismo o guerriglia? Che cos´è il terrorismo? Ora si può cadere dalle nuvole, in buona o cattiva fede, ma il problema c´è, è solido, ha molte contraddittorie interpretazioni. Prima dell´11 settembre la definizione universalmente accettata di terrorismo era stata messa insieme dall´Fbi e recitava: "Terrorismo è l´uso illegale della forza e della violenza contro persone o proprietà per intimidire o costringere un governo, la popolazione civile e ogni loro segmento, nel perseguimento di obiettivi politici o sociali".

Con l´attacco alle Torri, questa definizione è apparsa un arnese senza significato. È stata riscritta per creare le premesse alle azioni di contrasto. Oggi la definizione americana più attuale è: "Il terrorismo impiega l´uso calcolato della violenza e della minaccia di violenza per conseguire obiettivi generalmente politici, religiosi e ideologici attraverso l´induzione della paura, l´intimidazione o la coercizione".

Si può stringere in questo confine quel che accade in Iraq? Evidentemente no, si è risposto il giudice di Milano. Che dovendo definire il fatto per decidere delle responsabilità ? insomma per fare il suo mestiere ? ha guardato in alto alla definizione di terrorismo offerta dalla convenzione delle Nazioni Unite. C´è chi può dire che è stata una mossa avventata? L´Onu scava un discrimine tra il terrorismo e la guerriglia a partire dalla violenza e la morte indiscriminata della popolazione civile. "Le attività violente di guerriglia in contesti bellici ? conclude infatti il giudice ? sono diverse da quelle di tipo terroristico, dirette a seminare terrore indiscriminato verso la popolazione civile in nome di un credo ideologico e/o religioso, ponendosi dunque come delitti contro l´umanità". Se si combatte non contro civili inermi ? come a New Yok l´11 settembre ? ma contro truppe armate, eserciti, addirittura coalizione di eserciti e soprattutto con armi infinitamente meno potenti e distruttive, appare al giudice che quella lotta non può definirsi terrorismo, ma guerriglia.

Si può credere che non tocchi a un giudice definire la qualità o il significato di quel che accade in Iraq, ma gli si deve concedere che lo ha fatto per fare il suo lavoro appellandosi alle convenzioni internazionali. Quasi una scelta obbligata. A chi doveva appellarsi, altrimenti? Al dibattito politico? Alla nozione attuale di "legalità" del Patriot Act? Può non piacere, ma non servono anatemi e scomuniche. Occorre buon senso, testa fredda, disponibilità al dialogo per affrontare quel che accadrà in Iraq e saperlo guardare, valutare, comprendere. L´ipocrisia della "missione di pace" ha fatto il suo tempo. Come prima delle ragionevoli parole di un giudice, ci ricorda il destino di Simone Cola.

Fassino, ripensaci: guarda le prove di questi crimini

di Piero Sansonetti

Leggete l'articolo di Sabina Morandi, che pubblichiamo qui sopra e a pagina 2, e provate a restare calmi. Come si fa? Questi hanno raso al suolo Fallujah e arrostito la sua popolazione, e in quegli stessi giorni i loro capi, dalle Tv di tutto il mondo, tuonavano sulla democrazia da esportare, sui valori dell'Occidente, sul cristianesimo, sulla libertà, sui diritti dei bambini e delle donne, sulla legalità internazionale, sul Burqa, sull'arretratezza dell'Islam. Va bene il cinismo della politica, ma c'è un limite oltre il quale il cinismo diventa ributtante, e l'indignazione supera gli schieramenti, i punti di vista, le divisioni tra destra e sinistra. Possibile che i capi politici degli Stati Uniti, a cominciare dal presidente, non sapessero quale operazione militare si stesse svolgendo a Fallujah? Non sapessero che gli Stati Uniti stavano usando le armi chimiche - illegali, illegalissime - contro la popolazione civile, bambini, donne, persone inermi e indifese, esattamente come le aveva usate Saddam, atrocemente, contro i curdi?

Il documentario che la televisione italiana manda in onda stamattina, di nascosto, poco dopo l'alba, non lascia spazio a nessun dubbio. L'esercito degli Stati Uniti, a Fallujah, si è macchiato di gravissimi crimini di guerra e ha usato, senza parsimonia, le armi di distruzione di massa. Capite il paradosso? Gli americani hanno spiegato al mondo che andavano in Iraq per smantellare le armi proibite di Saddam - armi feroci, illegali, inumane - ma invece quelle armi Saddam non le possedeva (e gli americani sapevano che non le possedeva) e le possedevano invece gli americani, che le hanno portate in Iraq e le hanno usate per sterminare gli iracheni di Fallujah.

I crimini di guerra perpetrati dall'esercito degli Stati Uniti ci rimandano indietro di anni e anni. Ai momenti peggiori del Vietnam, alla famosa strage di May Lay (1968) alla seconda guerra mondiale, alle atrocità dei tedeschi, a Hiroshima. Saranno giudicati da qualche tribunale internazionale? No, gli Stati uniti non riconoscono tribunali internazionali.

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Questi documenti agghiaccianti arrivano in Italia negli stessi giorni nei quali, inopinatamente, una parte del centrosinistra, e precisamente il segretario dei Ds Piero Fassino, torna a mettere in discussione la linea del ritiro immediato delle truppe italiane dall'Iraq. Fassino lo ha fatto con una intervista alla Stampa nella quale ha assunto una posizione appena un po' più filoamericana di quella dell'ultimo Berlusconi (quello che sostiene che lui è stato sempre contrario alla guerra....). Ha detto che il ritiro delle truppe italiane sarà possibile solo se concordato con le autorità britanniche e statunitensi.

Io spero che Fassino stamattina si svegli presto e possa vedere la televisione alle sette e mezzo (terza rete). La certezza che le truppe di occupazione americane hanno commesso gravissimi crimini di guerra, la certezza che si sono macchiate degli stessi delitti dei quali hanno accusato Saddam, la sfrontatezza con la quale hanno tentato di coprire tutto ciò, rendendo inaccessibile Fallujah ai giornalisti, persino ai giornalisti amici, tutto questo servirà a un ripensamento? Voglio dire: in che modo, con la costituzione italiana alla mano, si può ritenere legittima la partecipazione del nostro esercito a una forza di occupazione militare di un paese straniero, sotto il controllo americano, e cioè degli ufficiali responsabili di atroci crimini?

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Abbiamo discusso in redazione se pubblicare alcune delle immagini terrificanti che dimostrano il massacro compiuto dagli americani. Abbiamo deciso di pubblicare una sola fotografia (mettendo altro materiale sul sito di Liberazione online) per un motivo semplice: gli americani continuano a negare di avere usato gli ordigni al fosforo bianco, mentre queste foto dimostrano il contrario: si vedono i corpi di alcune vittime, squagliati dal fosforo, senza che i loro indumenti siano neppure bruciati, perché questa è la caratteristica del fosforo: annientare la vita e non le cose.

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Complimenti alla Rai che ha prodotto un pezzo straordinario di vero giornalismo. Ma al tempo stesso viva protesta nei confronti della Rai per la decisione di mandare questo documento in onda in modo quasi clandestino. E' chiaro che ci sono state pressioni politiche fortissime, e anche comprensibili; però ci sono delle volte che di fronte al gran lavoro dei nostri giornalisti la politica deve passare in seconda linea.

Evviva! Vince l'Italia! Impregilo ha trionfato nella gara internazionale del general contractor per il Ponte sullo stretto di Messina. Ed era una gara vera, aperta a tutti, con l'espressione general contractor a mostrare la buona volontà dei proponenti di essere veramente cosmopoliti, gente globale. Ma nessun costruttore straniero ha gareggiato: paura, evidentemente. Nel testa a testa con l'unico concorrente, Astaldi, Impregilo ha avuto la meglio, ma nessuno del ramo aveva dubbi che sarebbe finita così. Impregilo ha molto bisogno di contratti e anche quello, soprattutto cartaceo, relativo al progetto per il Ponte, fa comodo. Da qui il maxi ribasso del 16% operato sul prezzo base di tutta l'opera, mentre Astaldi, con il suo ribassetto del 2% mostrava di non avere una vera intenzione di vincere. Non tutti sono interessati alle gatte da pelare. Quanto poi alla costruzione vera e propria, si tratta di un altro paio di maniche. Per ora verrà apprestato un ulteriore progetto, detto definitivo, poi si vedrà. La previsione generale è che abborracciato un progettone, si darà luogo a un paio di pose di prime pietre, con la gradita partecipazione del presidente Silvio Berlusconi. Le immancabili malelingue mettono in relazione la campagna con le prime pietre, come se queste ultime ne facessero parte integrante.

A elezioni concluse, si vedrà. Le solite malelingue di prima insinuano che sarà difficile strappare in anticipo all'Unione un chiaro impegno a non farne niente. A dire con precisione: né un uomo né un soldo per quell'opera sbagliata, per quell'inutile e pericoloso monumento che è il Ponte sullo stretto di Messina. Probabilmente c'è qualcuno, che pensandosi furbo, ragiona così: i voti di quelli contro li abbiamo già; ora si tratta di agganciare qualcuno di quelli a favore. Ma non è così che si vincono le elezioni; e sarebbe comunque una vittoria senza onore.

Soldi per il Ponte, come si capirà nella finanziaria, non ce ne sono. La società del Ponte è tutta pubblica, tutta del Tesoro, tutta di Tremonti. (Fintecna + Rete ferroviaria + Anas). Dovrebbe anticipare tutto l'importo, aumenti compresi, nel deserto creditizio formato dalle banche che rifuggono dall'impresa di finanziamento del Ponte, considerandola sballata. E poi aspettare un tempo indefinito - cinquant'anni? - perché i quattrini anticipati ritornino. E' un Ponte fatto così.

«Al punto in cui siamo - dice Andrea Monorchio, con un senso dello stato che gli fa onore - è impossibile non fare il Ponte. Lo stato pagherebbe a causa delle penali cifre equivalenti alla costruzione del Ponte». Monorchio, che dello stato era un tempo ragioniere generale è ora il presidente di Infrastrutture spa, una delle società pubbliche coinvolte nel finanziamento delle grandi opere. Noi non crediamo che questo sia vero, non crediamo che lo stato debba pagare penali enormi per dei pezzi di carta. Ma se anche fosse, la dignità vale di più dei miliardi di euro. In ogni caso, basterebbe una dichiarazione ferma, da fare subito di fronte a tutti, senza equivoci: «Nessun ponte sul mare tra Scilla e Cariddi».

Le primarie dovrebbero limitare il potere dei partiti, ma vi concorrono i segretari di quattro dei nove partiti dell'Unione. Dovrebbero servire a designare all'esterno un candidato; in questo caso, il candidato c'è, e vuole le primarie per rafforzarsi all'interno della coalizione. Servono — secondo il regolamento — ad affidare al candidato la responsabilità del programma, ma, intanto, si svolgono tra concorrenti senza programma (salvo credere alla storia per cui essi definiscono le priorità nell'ambito di quel calderone che si chiama «progetto dell'Unione»). Insomma, queste primarie, magnificate come «grandissimo esempio di democrazia», «straordinario evento democratico», «esplosione della democrazia», appaiono un artificio.

Le primarie — quelle vere — si fanno negli Stati Uniti per scegliere i candidati alla presidenza. Ma lì alle primarie non si sceglie il candidato, bensì delegati che, riuniti in convenzioni, scelgono il candidato. Le primarie americane sono lo strumento di polarizzazione di un sistema che tenderebbe tutto al centro. La necessità di mantenere l'appoggio che ciascun candidato ha ottenuto, con le primarie, nel suo partito, evita il collasso verso la zona mediana, che sarebbe prodotto dalla ricerca del centro propria dei sistemi bipartitici. In Italia, le primarie servono a uno scopo opposto, perché introducono una logica «monarchica» in un bipolarismo di coalizione. Negli Stati Uniti, le primarie sono la prima tappa per le elezioni presidenziali. In Italia, servono a indicare un candidato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Dunque, innestano un meccanismo tipico del presidenzialismo in un sistema parlamentare.

Se le primarie italiane si chiamano come quelle americane, ma sono cosa ben diversa da esse, perché, dunque, vi si è ricorsi? E perché il candidato ha bisogno di rafforzare la sua posizione all'interno della sua coalizione? La spiegazione sta nel timore che l'«azionista di maggioranza» del governo possa chiedere, un giorno, di assumerne direttamente la gestione o che l'«azionista di minoranza» marginale possa, un giorno, minacciare di uscire dalla coalizione, facendo cadere il governo. Insomma, le primarie sono suggerite dalle delusioni del passato, non dalla prospettazione del futuro.

Se questo è il loro vero scopo, è ragionevole chiedersi se le primarie servano davvero o non siano, invece, una protezione di cartone. In altre parole, primarie alle quali si presentano segretari di partito sono davvero il crogiuolo nel quale possano fondersi le diverse parti della coalizione? Un mandato personale riuscirà a imporsi a quello dei partiti? Come ci si assicura che chi perde accetti il candidato vincente? E il candidato vincente, responsabile della elaborazione del programma, non deve avere «cura di consultare e coinvolgere tutte le componenti dell'Unione», come dispone il Regolamento delle primarie? Le primarie, infine, possono supplire al «deficit» di capacità federativa necessaria per mantenere in piedi una coalizione (che si definisce l'Unione, ma appare, per ora, in assenza di un programma, un condominio sempre pronto a dividersi)?

In conclusione, queste primarie non mi paiono tanto una prova di democrazia, quanto una prova di debolezza.

Vedi anche le posizioni di Ida Dominijanni e di Giuseppe Chiarante

Perché Standard & Poor's (S&P) si è improvvisamente svegliata e l'8 agosto ha cambiato il proprio giudizio sull'Italia? In fondo nell'ultimo mese le cose non sono andate poi così male. Il dato di ieri sulla produzione industriale (scesa ancora rispetto a maggio) è negativo, ma servizi e costruzioni vanno meglio e le prime stime fanno prevedere che il Pil (prodotto interno lordo) nel secondo semestre dell'anno abbia ripreso, seppur lentamente, a crescere. I conti pubblici tengono: il fabbisogno rimane elevato ma tra gennaio e luglio è stato uguale a quello del 2004, nonostante il venir meno di alcune entrate una tantum, solo in parte sostituite dalla seconda rata del condono edilizio incassata a gennaio. Oggi probabilmente la Fed alzerà di nuovo i tassi di interesse, la miglior prova che l'economia americana continua a crescere. Il dollaro è forte e la Cina ha abbandonato il dogma del cambio fisso, due buone notizie per le nostre imprese. Persino la Fiat ha ricominciato a guadagnare.

Per capire la decisione di S&P occorre mettersi nei panni di un investitore che ieri, lunedì 8 agosto, è tornato dalle vacanze. Perché mentre l'Italia chiude, il resto del mondo ricomincia a lavorare e dopo la pausa di luglio i mercati finanziari riprendono a pieno ritmo, con l'occhio alla Fed oggi e alla Banca centrale europea il 1˚ settembre. Che immagine hanno dell'Italia questi signori, che posseggono la metà del nostro debito pubblico? Quella efficacemente riassunta dal titolo dell' ultimo numero dell'«Economist»: Italia: un altro anno, un altro scandalo.

Il crack della Parmalat è stato il maggior scandalo finanziario avvenuto in Europa negli ultimi anni, un avvenimento, ha scritto la Banca dei Regolamenti Internazionali, «che ha messo in luce carenze ad ogni possibile livello: amministratori, revisori, banche, promotori finanziari, nonché i responsabili della vigilanza su ciascuna di queste attività». Che cosa abbiamo fatto in due anni? (Ricordo che negli Stati Uniti il Sarbanes-Oxley Act, una legge scritta per affrontare problemi simili, è stata approvata il 30 luglio 2002, cinque mesi dopo il fallimento di Enron). Nulla, non una norma, non una legge. Ma è anche peggio, perché nel frattempo è scoppiato un altro scandalo che ha evidenziato carenze forse ancor più gravi nell'attività di vigilanza sulle banche. Scrive S&P: «Eventi recenti hanno danneggiato, almeno temporaneamente, il prestigio della Banca d'Italia, finora una delle istituzioni più autorevoli del Paese». E il governo che fa? Se la prende con i giornalisti che pubblicano le intercettazioni e poi va in vacanza, sperando che l'agosto faccia dimenticare tutto. Che devono fare gli investitori internazionali dei titoli italiani che posseggono?

Sulla vicenda Banca d'Italia le opinioni si sprecano, ma i nostri grandi banchieri tutti zitti. Chiedo: vi va bene così? È questo il mondo in cui vi piace lavorare? Dal vostro silenzio devo concludere che lo sia.

S&P teme che le elezioni non risolveranno nulla: «Entrambi gli schieramenti sono divisi, è difficile che chiunque vinca abbia la forza per raddrizzare la situazione». Mi colpisce che questo si dica dell'Italia e non della Germania che vota fra un mese, in mezzo a contraddizioni simili, un segnale che dovrebbe preoccuparci.

Il centrosinistra pensa alle primarie di ottobre, il programma, dice Prodi, verrà dopo. È un lusso che non si può permettere. Più tardi illustrerà il suo programma, più difficile sarà la situazione che, se vincerà, si troverà a dover affrontare.

giavazzi-f@yahoo.com

Dieci anni fa un mio amico iniziò una storia con una giovane cinese cresciuta nella periferia londinese. Ambedue erano molto innamorati. Lui però era sposato con due figli piccoli.Lei accennava a un matrimonio combinato dalla sua famiglia. Convinto che l'amore avrebbe avuto la meglio, il mio amico abbandonò la moglie. Per sei mesi vissero insieme felici. Poi, quando l'uomo scelto dai genitori della ragazza arrivò da Hong Kong, lei se ne andò per sposarlo. Quello che sconvolse il mio amico fu che lei non soffriva per il sacrificio del loro amore. «Sembra un'altra persona», mi disse.

Si dice che il modo migliore di produrre il bilinguismo è di far sì che un bambino parli sempre e solo una lingua a casa e un'altra fuori. Così cresce sotto due incanti diversi, due visioni del mondo nettamente separate. Ognuno di noi sa quanto è facile, specialmente durante l'adolescenza, essere una cosa per i nostri genitori, un'altra per gli amici. Ma quelli che passano costantemente da una cultura a un'altra sono quasi costretti a costruirsi due personalità. A noi mostrano quella costruita tra di noi, nella nostra lingua, in linea con la nostra visione, ma non possiamo concepire come essi siano nella loro altra cultura d'origine. Tutto questo è una ricchezza, finché i due mondi non entrano in collisione.

Supponiamo che in ogni famiglia la personalità dei figli si formi anche in rapporto a quelle che sono le preoccupazioni maggiori dei genitori, degli zii, dei nonni. Una famiglia che a tavola ogni giorno descrive il mondo in termini del bene e del male costringerà i figli a occupare una posizione tra queste due polarità. La famiglia dei fratelli Karamazov di Dostoevskij è l'esempio più famoso, forse fin troppo schematico. Un figlio è apertamente dissoluto, uno è santo, e uno si arrovella, terribilmente diviso tra l'una e l'altra posizione. Tutti è tre sono simili, però, in quanto non riescono a pensare alla vita se non in questi termini.

Non è difficile immaginare che per la famiglia musulmana che si trasferisce in Occidente una delle preoccupazioni dominanti sarà come e quanto adattarsi a una società laica e liberale, come e quanto mantenere le tradizioni, la «purezza» della cultura d'origine. I figli si costruiranno un' identità anche in rapporto a queste due polarità. Si vedono situazioni simili anche in un romanzo come «Il giardino dei Finzi Contini», dove l'io narrante, ebreo, in contrasto con un padre che vuole integrarsi con la società italiana, fascismo compreso, viene fortemente attratto verso un'altra famiglia ebrea che vuole isolarsi totalmente.

Uno dei terroristi che si è fatto esplodere a Londra il 7 luglio era figlio di un pachistano che ha fatto di tutto per integrarsi nel mondo inglese, padrone addirittura di un Fish n' Chip Shop. Più inglese di così, non si può. Il figlio adolescente a un certo punto assume una posizione in contrasto col padre, comincia a studiare intensamente il Corano. Hanif Kureishi aveva previsto un rapporto simile tra padre e figlio nel suo romanzo «The Black Album». Ma non aveva previsto che, durante l'inevitabile viaggio in Pakistan per riscoprire le proprie radici, il giovane sarebbe venuto in contatto con quelli per cui il rifiuto dell'Occidente è anche la molla del terrorismo.

Tornato trasformato in Inghilterra, in conflitto in casa con l'Islam liberale del padre, fuori casa il giovane mantiene lo stesso la sua altra personalità tutta inglese, la personalità costruita accanto a persone che non pensano al mondo in termini di una scelta tra Occidente o Islam. Così non dobbiamo meravigliarci se pochi mesi prima di commettere un' atrocità si trova a godersi un'uscita in rafting facendosi fotografare vicino a una bionda inglese con i capelli sciolti che tiene il timone e comanda — cosa scandalosa — tutti i maschi nel gommone. Non c'è niente di strano in tutto ciò, anche se si può immaginare che l'esplosione del 7 luglio avrà messo fine a tante tensioni e contraddizioni.

Che fare? Come con il global warming, il surriscaldamento del pianeta, scopriamo il problema dopo che il danno è fatto. Ci saranno migliaia di persone cresciute in questa dinamica che possono essere vulnerabili rispetto a chi, cresciuto in tutt'altra realtà, vuole manovrarle.

«Se volessi arrivare dove vuole andare Lei — amano rispondere gli irlandesi a chi gli chiede delle direzioni — non partirei da dove Lei è adesso». La strada semplice non c'è. Se c'è una via possibile, però, passerà senz'altro attraverso una lunga riflessione sulla vita dei giovani immigrati nei nostri Paesi. Ci sarà anche bisogno, forse, di rivedere il significato della parola identità.

SOLO dieci giorni dopo il naufragio del referendum contro una legge ideologica e integralista sulla fecondazione assistita, è Carlo Azeglio Ciampi a offrire una scialuppa di salvataggio all´Italia laica uscita umiliata da quel non-voto, dettato da un´oggettiva difficoltà di comprensione di molti, e da una fuga pilatesca dalla ragione e dalle responsabilità di alcuni. Con poche parole, pronunciate davanti al Papa in visita al Quirinale, il presidente della Repubblica ha ristabilito una gerarchia funzionale tra i valori costituzionali e i principi religiosi. Ha rimarcato il confine tra lo «Stato civile» (nel quale tutti si possono riconoscere, in nome del pluralismo delle fedi e delle convinzioni) e lo «Stato etico» (al quale tutti devono aderire, in nome di un pensiero unico imposto dall´alto). «Con orgoglio – ha detto – affermo come presidente e come cittadino la laicità della Repubblica italiana... L´articolo 7 della Costituzione italiana recita: "Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani"...».

«La necessaria distinzione tra il credo religioso di ciascuno e la vita della comunità civile regolata dalle leggi della Repubblica – ha proseguito Ciampi – ha consolidato nei decenni una profonda concordia tra Stato e Chiesa... La delimitazione dei rispettivi ambiti rafforza la capacità delle autorità della Repubblica e delle autorità religiose di svolgere appieno le rispettive missioni...». Meglio di così non si poteva dire. A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. Sarebbero affermazioni scontate in qualunque altra democrazia del mondo. Ma in questo Paese, evidentemente, non lo sono mai abbastanza. E come accadde a Oscar Luigi Scalfaro nel lontano 1998 (quando, in un´altra visita di un Pontefice sul Colle, disse a Papa Wojtyla che «la laicità dello Stato è presupposto di libertà ed eguaglianza per ogni fede religiosa...» e «nella nostra diretta responsabilità è la scelta politica e l´amministrare la cosa pubblica... ») queste parole potevano arrivare solo da Ciampi. Il praticante che va a messa tutte le domeniche, ma che il 13 giugno è andato a votare alle 8 e 30 insieme alla moglie. Proprio mentre su di lui, sui partiti e sulle istituzioni, sui cattolici adulti e su quelli adolescenti, sugli astensionisti sistematici e sugli apatici anti-politici, pendevano l´appello di Ruini e la fatwa degli atei-devoti, dei teocon alle vongole, dei "cristianisti" di casa nostra. Tutti mobilitati, questi ultimi, a trasformare un confronto civico su una legge dello Stato in uno scontro di civiltà sulla vita e sulla morte. In un conflitto simbolico, titanico e quasi definitivo, tra l´elité sbandata e autoreferenziale dei miscredenti del "politicamente corretto" e la massa spaurita ma ansiosa di ritrovare, tra le braccia aperte di Madre Chiesa, la "risposta forte" che manca. Non solo al bisogno di fede, ma anche al deficit di politica.

Ciampi fa piazza pulita di questa nuova forma di manichiesmo, che ha sfruttato mediaticamente Wojtyla e che oggi strumentalizza politicamente Ratzinger. Spazza via questa malintesa idea di un "neo-illuminismo" occidentale, accidioso e agnostico, che usa tutto quello che trova, da Galileo e Barsanufio, da Bertrand Russell a Jurgen Habermas, per snocciolare i suoi anatemi da moderna Ecclesiaste: ogni laico è un relativista, ogni relativista è un ateo, ogni ateo è un disperato. Senza morale, senza cultura, senza ideali. «Un pozzo che guarda il cielo», per dirla con le parole di fine Anni 20 di Fernando Pessoa. «Un ghetto di soggettività», per dirla con le parole dell´agosto 2004 (ancora una volta strumentalizzate) dell´ex prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede.

Ciampi ridà voce a quell´Italia che dice «non ci sto». A quell´Italia che rifiuta l´inesorabile logica, binaria e apocalittica, dei nuovi Torquemada folgorati sulla via di Damasco. Che respinge insieme gli scontri di civiltà e le guerre di religione. Ridà voce a quell´Italia che non contesta alla Chiesa il diritto di fare la sua parte, con orgoglio e a viso aperto. E anche di condurre le sue «battaglie di rievangelizzazione», con gli strumenti che ha e con gli argomenti che vuole. Ma a quella Chiesa, e ai troppi politicanti che per pavido cinismo o per opportunistica convenienza ne hanno mutuato i messaggi, ricorda che anche la laicità (e non il laicismo) è un valore statuale da difendere, perché è il caposaldo della democrazia e l´antidoto contro tutti gli integralismi. Perché è esattamente quel valore che permette al Pontefice di professare sul campo (possibilmente senza invaderlo) i suoi richiami: il primato della vita, la coppia fondata sul matrimonio e sui figli, la scuola privata. È esattamente quel valore che consente alla Conferenza episcopale la libera scelta di "svilirsi", giocando sul territorio in competizione e su un piano di pari dignità con tutte le altre componenti della società civile: istituzioni, partiti, sindacati, agenzie culturali, confessioni religiose.

Allo Stato compete l´onere della decisione politica. Se è il caso, e là dove è possibile, anche sulla base di quel «bene comune dei cittadini» e di quella «condivisione dei valori fondamentali» che il capo dello Stato ha voluto rammentare a Benedetto XVI: «Il rispetto della dignità e dei diritti di ogni essere umano, la famiglia, la solidarietà, la pace». È un modo, anche questo, per riscattare quanti hanno vissuto con disagio la disfatta sulla procreazione. Quando è sembrato che, nella lotta impari tra il sacro e il profano, tra il drammatico «sulla vita non si vota» e il pragmatico «decide la scienza», si stessero confrontando il valore vero (strenuamente gridato dagli strani "cristiani rinati" sotto le insegne vaticane) e un valore zero (timidamente balbettato dai flaccidi laici riuniti sotto le insegne referendarie). Ed è un modo, anche, per fissare qualche serio paletto in vista delle discussioni future, in Parlamento e fuori. Sulla stessa fecondazione, dove non sarà inutile tentare di rivendicare ancora una volta i diritti delle coppie sterili, anche rispetto agli embrioni. E poi, se serve, anche sull´aborto, dove non è mai inutile riaffermare il diritto alla salute della donna, anche rispetto al feto.

La laicità non è morta, con il 13 giugno. Lo Stato costituzionale è la casa di tutti, non una cattedrale per pochi. La sinistra lo sa, perché quello Stato ha concorso a costruirlo. E come ci ricorda Norberto Bobbio, anche in tempi di identità confuse e rimescolate, ha frecce al suo arco, da lanciare nel cielo dei valori che ora sembra abusivamente occupato dalla destra neo-clericale: giustizia, solidarietà, uguaglianza. I diritti non sono la sterile vetrina del formalismo giuridico kelseniano, sulla quale l´Occidente moderno rispecchia il suo vuoto interiore. Ma sono la frontiera sulla quale ogni giorno, attraverso un bilanciamento faticoso ma fruttuoso, si difendono allo stesso tempo la libertà e la democrazia, e si tutelano allo stesso modo le maggioranze e le minoranze. Insieme alla Chiesa, se si può. Ma senza la sua benedizione, se si deve.

Sede di potere

Un commento su una questione che non è solo di costume. A proposito della “apertura” di Villa Certosa, da il manifesto del 19 maggio 2005

Non è bello che la maggior parte dei giornali scrivano da anni Palazzo Grazioli e Villa Certosa, tutto maiuscolo, lasciando intendere a chi non ci fa caso che siano sedi istituzionali o pressappoco. Non si capisce se per pigrizia o per compiacenza più o meno consapevole verso Berlusconi, si continui nei tg a ripetere la frase convenzionale «il premier ha ricevuto questo e quello a Palazzo Grazioli»; al posto di quella meno elegante «Berlusconi ha convocato a casa sua un vertice di maggioranza ecc». E' servita anche quest'ambiguità a Berlusconi. Il messaggio come nelle accorte pubblicità scorre e arriva: qualcuno potrà pensare che si fa così, che è una fortuna avere un presidente molto ricco che mette a disposizione le sue case per le attività di governo. Per altri, si provi a chiedere in giro, quel palazzo è di proprietà dello Stato, un po' come la residenza di Blair a Downing Street. Ma almeno ora che il berlusconismo è in crisi sarebbe opportuno lasciare a Berlusconi tutta la regia di questa farsa. Non è irrilevante che si dica chiaro che a casa sua - non a palazzo Grazioli: a casa sua - si prendono le decisioni che a Palazzo Chigi e in parlamento si ratificano. Se si dà un'occhiata al rapporto tra architettura e potere si vede che è stato a lungo gestito senza un preciso confine tra edifici di proprietà privata e sedi istituzionali, spesso coincidenti. Il principe aveva poca convenienza a fare qualcosa fuori dalle mura domestiche. Il suo palazzo era splendido, a prova di sorprese. Oltre alle stanze private vi erano ambienti destinati alle cerimonie e agli appuntamenti solenni. Ma è noto che spesso in privati o intimi incontri (un banchetto o una notte d'amore) capitava di decidere il futuro dei sudditi. Serviva al principe dare l'idea che tutto fosse sotto la sua supervisione che era continuamente rafforzata. (Cosimo dei Medici, realizza gli Uffizi come estensione del vecchio palazzo per trasferirvi il suo studio e le magistrature che così potrà controllare più agevolmente).

Per le moderne forme di governo, è stato obbligatorio abbandonare queste pratiche e dotarsi di sedi istituzionali. Non solo per ragioni connesse ad un nuovo ordine simbolico, protocollare ma per ammettere un agevole accesso alle informazioni da parte del pubblico, senza rinunciare alle riunioni riservate, sempre sottaciute.

Berlusconi ripristinando antiche consuetudini ostenta le sue case come i motori di ogni iniziativa, dando corpo alla sua idea di riforma in senso presidenzialista in tanti modi confusi e provocatori. Una condotta che ha superato ogni misura ed è arrivata al punto di ottenere la secretazione sulla sua residenza nel mare di Sardegna. Costringendo i magistrati sardi a chiamare in causa la Corte Costituzionale che nei prossimi giorni dovrà decidere sulla legittimità di questa forzatura che mira a impedire alla Procura ogni indagine su lavori che hanno poco a che fare, come sanno tutti, con le ragioni della sicurezza delle istituzioni.

Dal giudizio è lecito attendersi un po' di chiarezza. C'è ragionevole ottimismo, perché si pensa che la Corte non convaliderà l'idea balzana che la casa di vacanza di un privato cittadino, temporaneamente capo del governo, si possa trasformare senza renderne conto alle autorità di una Regione autonoma. Forse per questo Berlusconi, per una volta pessimista, ha finalmente deciso di ammettere l'accesso degli inquirenti a casa sua rinunciando al segreto.

Scalfaro: sessanta anni fa, cadeva un onnipotente...

Vincenzo Vasile

Oscar Luigi Scalfaro è uno di quelli che ancora riescono a collegare il presente al passato. Da l’Unità del 23 aprile 2005

ROMA Non è solo un impagabile siparietto. Sono la passione civile e l'arguzia di un padre Costituente che irrompono nel rito delle consultazioni («non inutili», dirà alla fine Ciampi in tono di sobria, implicita risposta a Berlusconi). Il protagonista dell'ultima giornata di rassegna di pareri sulla crisi al Quirinale che qualche ora dopo si concluderà con l'incarico per un governo Berlusconi balneare, è l'ex-inquilino di questo palazzo-simbolo, Oscar Luigi Scalfaro, cui tocca di essere l'ultimo a chiudersi per un'ora insieme a Ciampi nello studio della Vetrata. A conclusione Scalfaro, esce dalla porta presidiata da due corazzieri immobili e impettiti, e fa rapidamente i tre passi che lo separano dalla Loggia dov'è provvisoriamente installata la sala stampa, riconosce i "quirinalisti" di lungo corso, scruta i volti dei più giovani, poi sistema i due microfoni flessibili vicini alla bocca.

Piglio spigliato

Inizia in tono colloquiale: «Vi rivolgo un saluto, rivedo una serie di amici, ma anche qualche volto nuovo, perché è giusto che ci sia un'alternanza». Il piglio è persino spigliato e, si direbbe, giovanile; la «forma» di Scalfaro salta agli occhi dopo la breve apparizione, un'ora prima, di Francesco Cossiga, reduce da una pesante operazione. Scalfaro prosegue parlando del prossimo 25 Aprile, che cadrà all'indomani dell'insediamento di un balneare governo Berlusconi III, destinato a rapido e convulso tramonto: «È la grande ricorrenza dei 60 anni della libertà e quindi della caduta della dittatura, con un uomo che era onnipotente». E non c'è chi non colga il parallelo tra gli onnipotenti di diversa risma cui allude il presidente, che fu assediato sul Colle in un'Italia in bilico, nella fase più rampante e aggressiva dell'escalation berlusconiana. L'altro effimero «onnipotente» di cui si parla ebbe, aggiunge, una «caduta definitiva». La simmetria storica tra diverse vicende non si ferma qui: «Questo è quel che ci impegna in questo momento, soprattutto nel riflesso della riforma costituzionale», ricorda Scalfaro. E conclude abbandonando il registro ironico con un «augurio», soprattutto all'Italia: «...all'Italia che ne ha davvero bisogno». Saluta e se ne va.

Riflessi condizionati

Ovviamente si scatenano le polemiche. Un po' perché quel delirio di onnipotenza che accomuna diversi «regimi» assume in questa fase tra l'altro una connotazione jettatoria. Un po' perché il 25 Aprile fa scattare una specie di riflesso condizionato della maggioranza appena rappattumata, specie dopo la dissociazione di An e Lega dalla manifestazione di Milano. Un po' perché proprio Berlusconi, dopo avere finora disertato ogni anno il Quirinale (dove Ciampi anche stavolta radunerà in una solenne cerimonia rappresentane di comuni martiri, militari e partigiani), ha concesso contro voglia, invece, stavolta di fare atto di distratta presenza. Fatto sta che alle sferzanti frasi di Scalfaro rispondono - diciamo così - alcuni esponenti delle seconde e terze file, Fabrizio Cicchitto l'accusa retrospettivamente di «faziosità» durante la passata presidenza; Alfredo Biondi di vilipendio al premier e riferimenti storici poco appropriati; persino Daniela Santanché da un salotto lo minaccia: «Non passerà alla storia».

Il riferimento velenoso

Dal passato remoto emerge una vecchia storia, rivangata da un esponente di As, Antonio Serena. «Dovrebbe portare i fiori alla tomba dei fucilati di Novara». Si tratta di un riferimento velenoso al brevissimo periodo in cui Scalfaro, giovanissimo, fu pubblico ministero davanti alla Corte d'Assise straordinaria di Novara, e chiese la condanna a morte per un repubblichino, Salvatore Zurlo, autore di omicidi, rapine e rastrellamenti di partigiani. Si sentì «mandato allo sbaraglio» - disse una volta, intervistato da Marzio Breda per il Corriere della sera - «dagli eterni colleghi di Ponzio Pilato, i colleghi anziani che mi buttarono sulle spalle quel peso... Passai giorni e notti a studiare il caso per vedere se i fatti mi offrivano qualche scappatoia. Niente, i fatti erano lì, precisi, implacabili». Arrivato il giorno del dibattimento, Scalfaro affermò che su quei fatti poggiava la richiesta della pena capitale, ma continuò dichiarando la sua opposizione ad essa. Aggiunse anche non avendo trovato una strada giuridica per evitarla, si appellava alla Corte perché non venisse applicata. In seguito al suo discorso, il condannato ebbe salva la vita, più tardi tornò in libertà - beneficiando anche di diverse amnistie - e poté in seguito ringraziarlo.

È impossibile nascondersi la gravità di quanto è accaduto ieri al Senato. Dopo la Camera, infatti, l’assemblea di Palazzo Madama ha approvato definitivamente in prima lettura una riforma della Costituzione italiana che distrugge alcuni aspetti caratterizzanti dell’organizzazione dello Stato repubblicano e modifica in profondità il funzionamento dei massimi organi del suo potere politico nonché lo schema dei loro rapporti. Il panorama delle rovine è presto descritto. Viene estesa a dismisura, anche a campi delicatissimi come quello dell’istruzione e della sicurezza pubblica, la capacità legiferatrice delle Regioni: lo Stato centrale mantiene sì formalmente l’esercizio di un potere d’interdizione, ma in misura attenuata e così ambigua che l’unico risultato prevedibile è una crescita esponenziale del contenzioso Stato-Regioni, già oggi ben oltre il limite di guardia. Nell’ambito del potere centrale, poi, la fine dell’attuale bicameralismo perfetto serve ad installare un Senato di nuovo tipo - presentato come «federale» ma in realtà non eletto in rappresentanza delle Regioni in quanto tali, e con competenze ridotte rispetto ad una vera camera politica - e una Camera dei deputati sovrastata da un primo ministro eletto dal popolo ma che, in barba ad ogni logica costituzionale, potrà a certe condizioni essere sfiduciato dalla stessa ed avrà, insieme, il potere di scioglierla quando gli piacerà. Ciò che in conclusione la riforma costituzionale realizza - per giunta non subito ma, tanto per accrescere la confusione, in varie tappe scaglionate nel tempo - sarà un incrocio contraddittorio e micidiale di accentramento e decentramento, all’insegna dell’istituzionalizzazione della paralisi e dell’apoteosi del ricatto.

Del resto è solo per il ricatto continuo e minaccioso della Lega che l’onorevole Berlusconi e la destra hanno dato il via a un progetto simile. È esclusivamente, cioè, per il proprio immediato tornaconto politico che il presidente del Consiglio e altre forze della sua maggioranza, che al pari di lui non hanno mai manifestato alcun interesse per il federalismo, e anzi sono ideologicamente ai suoi antipodi come Alleanza nazionale, lo hanno improvvisamente abbracciato, accettando così cinicamente di mettere mano al disfacimento del Paese.

Perché di questo si tratta: la riforma della Costituzione voluta dal governo e dalla sua maggioranza costituisce forse il più grave pericolo che l’unità italiana si trova a correre dopo quello terribile corso sessant’anni orsono nel periodo seguito all’armistizio dell’8 settembre. Mentre in misura altrettanto forte sono in pericolo la funzionalità e l’efficienza della direzione politica dello Stato da un lato, e dall’altro alcuni valori di fondo della nostra convivenza, non più garantiti da una tutela pubblica affidabile.

Di fronte a questa prospettiva inquietante, non ci sembra che abbia molto senso unire la nostra voce al coro di quelli che, sia pure con qualche ragione, mettono sotto accusa le responsabilità anche della sinistra per aver aperto la porta al disastro attuale approvando, con una ristrettissima maggioranza, le modifiche del Titolo V della Costituzione nella scorsa legislatura. Anche nelle responsabilità c’è una gerarchia, e oggi quello che appare in modo indiscutibile è il primo posto guadagnato dalla destra e dal suo capo nella corsa a fare il male del Paese. Per realizzare il misfatto hanno bisogno però del consenso dei cittadini nel referendum confermativo da qui ad un anno o quando sarà: vedremo allora se gli italiani sono davvero stanchi di avere una Costituzione e una patria.

Se dovessimo dar retta a Ricardo per regolare l’ economia italiana e quella mondiale, come propongono alcuni economisti e le maggiori organizzazioni internazionali, non dovremmo esitare un istante: constatato che i cinesi ormai producono merci nel settore del tessile e abbigliamento a un costo assai più basso dell’ Italia, questa dovrebbe uscire di corsa da tale settore, e cercare di occupare i lavoratori che così perdono il posto nella produzione di merci che alla Cina convenga comprare. In questo modo sia l’ Italia che la Cina ne trarrebbero vantaggio. Mentre cercare di fermare alla dogana di Gioia Tauro, o di Genova, le merci cinesi nuocerebbe ad ambedue le economie.

Ricardo aveva forse ragione quando suggeriva - nel 1817 - ai portoghesi di comprare panno in Inghilterra, dove lo producevano a minor prezzo, ed agli inglesi di acquistare vino in Portogallo invece che farselo in casa. Purtroppo, trasferita ai giorni nostri, e applicata alle relazioni commerciali Italia-Cina, la sua teoria dei "costi comparati" presenta vari inconvenienti. Il costo del lavoro in Cina è 20-25 volte inferiore a quello italiano. Nelle manifatture delle principali zone industriali il salario medio cinese è di circa 1.200 euro l’ anno, e gli orari molto lunghi; quello italiano si aggira sui 1.200 euro al mese, guadagnato con orari più umani. Inoltre i prelievi obbligatori per l’ assistenza e la previdenza raddoppiano il costo del lavoro in Italia, mentre poco aggiungono in Cina, dove il comunismo capitalista ha soppresso quel che esisteva del vecchio stato sociale, e si è ben guardato dallo svilupparne uno nuovo. Dal che deriva la disuguaglianza indicata. Quanto basta per dire, tra l’ altro, che i cinesi non stanno affatto facendo del dumping, che significa vendere in massa prodotti sottocosto; vendono a prezzi bassi perché i loro costi sono bassissimi.

Di fronte a simili disparità, forse nemmeno Ricardo avrebbe consigliato ai portoghesi di fabbricare vino e comprare panno, e agli inglesi di fare il contrario. Né il problema si chiude con le disuguaglianze salariali. Va infatti notato che anche se volessimo procedere con lo scenario socialmente intollerabile di qualche centinaio di migliaia di lavoratori disoccupati per mesi o per anni, in attesa di essere gradualmente rioccupati in settori più produttivi, in realtà noi non sappiamo più quali prodotti di massa potrebbero oggi interessare alla Cina. I prodotti di massa se li fabbricano sul posto, pure quelli con contenuti tecnologici elevati. In altre parole il trasferimento di grandi quantità di manodopera dal tessile ad altri settori, oltre ad essere impraticabile, sposterebbe soltanto il problema un po’ più a lato, o a un tempo un poco più lontano.

Allora, dazi italiani sulle merci cinesi? Prima di soffermarsi su questa domanda, bisognerebbe formulare altre risposte. Cominciando dal notare che alle migliaia di imprese europee e americane operanti in Cina i bassi salari e le cattive condizioni di lavoro delle zone industriali, che diventano pessime nelle zone franche di lavorazione ed esportazione dove lavorano per loro trenta milioni di persone, in fondo vanno benissimo. Infatti permettono di fare grandi profitti. E vanno bene anche a noi come consumatori, perché senza il lavoro di giovani donne pagato due dollari al giorno, nelle zone franche, noi non avremmo il piacere di comprarci, ad esempio, un PC superdotato per meno di mille euro. Bisognerebbe quindi chiedere alle imprese in questione se non sarebbero disposte a pagare salari un po’ più elevati nelle tante fabbriche cinesi che a loro, in una forma o nell’ altra, fanno capo, come sussidiarie o fornitrici; e magari a permettere addirittura l’ ingresso nelle fabbriche di rappresentanze sindacali. Mentre ciascuno di noi, come consumatore, potrebbe magari ragionare sul fatto che se si pagassero un po’ di più i prodotti che attraverso molte vie vengono dalla Cina, favorendo l’ aumento dei salari in quella parte del globo, si difenderebbero meglio i posti di lavoro da questa parte del medesimo.

Nel caso che le imprese europee fossero disposte a concedere qualcosa in merito ai salari che pagano e alle condizioni di lavoro che offrono in Cina, l’ Italia, o meglio la Ue, sarebbero in una posizione migliore per discutere con i cinesi dei tanti aspetti dei rapporti commerciali che non si esauriscono nel rapporto prezzo/qualità delle merci. Oggi si parla molto di investitori socialmente responsabili, quelli che acquistano azioni di un’ impresa soltanto se essa soddisfa determinati parametri sotto il profilo economico, sociale e ambientale. Sembra difficile negare che i paesi Ue, non in ordine sparso ma con un disegno collettivo, peserebbero di più nella regolazione del commercio mondiale se cominciassero ad agire come partners commerciali socialmente responsabili. Capaci di chiedere alla Cina - o all’ India, o ad altri - il rispetto di diritti umani, sociali, sindacali nell’ industria dei loro paesi. E capaci di chiederlo in modo non ipocrita perché le loro imprese per prime si sono adoperate a rispettare quei diritti non solo in patria, ma anche nelle zone dell’ Asia sud-orientale da cui importano fiumi di materie prime, semilavorati, componenti e prodotti finiti.

E i dazi sui tessili, e perché no sulle mele o i giocattoli provenienti dalla Cina? Per avanzare una simile proposta bisogna veramente non avere alcuna idea di come è organizzata oggi la produzione nel mondo di qualsiasi manufatto, tramite infinite catene transnazionali di creazione del valore. Le merci che, colpite da pesanti oneri doganali, non sbarcherebbero più a Gioia Tauro o a Genova, arriverebbero da Tarvisio o dal Sempione. Senza pagare dazio, perché porterebbero un’ etichetta europea o magari americana. Al confronto, per quanto al momento possa apparire utopistica, è molto più concreta l’ idea di discutere con i cinesi, a livello Ue, di salari, diritti dei lavoratori e condizioni di lavoro. Senza però pretendere di chiedere a loro di introdurre quei mutamenti che tante imprese europee operanti in Cina finora si sono ben guardate dall’ attuare.

L´amnistia ad personam

Un paradosso che illustra la follia della situazione nella quale il potere dei malandrini ha gettato lo Stato. Da la Repubblica del 24 febbraio 2005

Se la soluzione fosse un´altra, a portata di mano e tagliente come l´ascia che trancia di netto il nodo troppo stretto? Se la soluzione fosse una legge d´un solo articolo che reciti: «Con la presente legge si estinguono i reati, quali che siano, commessi dal signor Cesare Previti e dai suoi complici. Entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e si applica ai fatti commessi anteriormente a tale data e ai procedimenti e ai processi pendenti alla medesima data». Sì, un provvedimento legislativo di carattere dichiaratamente personale con cui lo Stato rinuncia all´applicazione della pena nei confronti di un solo uomo, l´avvocato Cesare Previti

Un´amnistia ad personam che salva uno e protegge tutti; invece, di leggi ad personam che, per rispettare il carattere generale e astratto proprio delle leggi, mettono in pericolo tutti per salvare uno solo.

É un paradosso? Sì, lo è. Ma, in fondo, che cosa significa paradoxon se non «oltre l´opinione comune»? L´opinione comune è spesso sbagliata e i paradossi sono quasi sempre delle elementari verità che il tempo nasconde. Si potrebbe dire che quel tempo - il tempo di risolvere finalmente questa assurdità - sembra giunto. Se, dimenticando l´articolo 3 della Costituzione («Tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge»), ragionassimo in modo concreto e pragmatico; se azzittissimo le tirate sui principi e sulla poliarchia del potere; se tenessimo conto di un responsabile equilibrio costi/benefici, non c´è dubbio che sarebbe questa strada - l´amnistia ad personam - la migliore, la meno pericolosa per gli italiani e la meno tragica per l´equilibrio costituzionale che regge la Repubblica.

Osservate che cosa ci può accadere se ci facessimo imprigionare dalla Costituzione e dalla ostinata petulanza di un capo dello Stato che pretende di proteggere la Carta dagli assalti all´arma bianca. Accadrebbe questo. Il Parlamento, subalterno al governo e al suo Capo, approva una legge che schiere di avvocati e pattuglie di penalprocessualisti hanno definito «criminogena». Non scoraggia il delitto, lo istiga. Approvata la legge (che gli ipocriti chiamano Cirielli-Vitali e non "Salva Previti!") usurai, ladri, pirati della strada, lenoni, corrotti, contrabbandieri legati a mafie e camorre, millantatori, bancarottieri - per dire di qualche categoria di lestofanti beneficiati dal provvedimento - avrebbero la rassicurante garanzia che, beccati con le mani nel sacco, lo Stato non si concede il tempo necessario per processarli. O, per dirla al contrario, concede a loro - ai lestofanti - il tempo di farla franca attraverso l´uscio largo della prescrizione del reato. La prescrizione è il tempo oltre il quale viene meno l´interesse dello Stato ad accertare il reato e a infliggere la pena. É prederminato per legge e la Cirielli-Vitali-Previti questo fa. Definisce il tempo della prescrizione. Lo dimezza. Quel reato che era cancellato (perché prescritto) in quindici anni ora lo si butta via in sette anni e mezzo. Tutti i reati che oggi si puniscono con la pena massima di otto anni sono destinati così ad essere prescritti con le accorte mosse dell´imputato. Buon per lui. Ma per noi? Se non si è usuraio, ladro, pirata della strada, lenone, corrotto eccetera eccetera non c´è nulla di che essere soddisfatti. Si annunciano soltanto pericoli e frustrazioni (se vittime di quei reati). Non basta. Se malauguratamente un reato lo si è già commesso e si è in galera, si può dire addio a ogni speranza di vedere osservato il carattere rieducativo e non punitivo della legge (articolo 27 della Costituzione). La legge che libera Previti condanna quei dannati - recidivi in semilibertà, agli arresti domiciliari, già ammessi al lavoro esterno - a un carcere organizzato come discarica sociale di sconfitti che non meritano un´altra opportunità, che non la meriteranno mai più. É il perverso risultato della manovra che, avvitata intorno al destino di un uomo solo (l´avvocato Previti), deve rendere liberi i delinquenti del futuro e schiacciare senza alternative i deliquenti del passato, qual che sia oggi lo stato della loro «rieducazione».

Ora bisogna sapere che la maggioranza approverà questa legge in Senato entro il 18 marzo (quel giorno il Parlamento chiude in attesa delle elezioni regionali). E il dado sarà tratto. Il gioco comincia e annuncia altre distruzioni questa volta non della nostra sicurezza collettiva, ma dell´equilibrio delle istituzioni che regola la vita collettiva.

Dopo la Cirielli-Vitali-Previti verrà la riforma dell´ordinamento giudiziario che, corretta dalle quattro incostituzionalità rilevate da Ciampi, dovrà restituirci la magistratura di cinquant´anni fa, impiegatizia, burocratizzata, conformista, soprattutto obbediente al potere politico. Questa legge è stata presentata dal governo e dall´imperito ministro della Giustizia come «epocale». Ma, se «epocale», perché ha lasciato il passo alla «Salva Previti!»? É già pronta, è già stata corretta, Ciampi può soltanto approvarla, dice il Guardasigilli. E allora perché non approvarla rapidamente visto che, per la propaganda manipolatoria, risolve tutti i problemi e la lentezza della giustizia italiana? Risolti i problemi della macchinosità della giustizia, si potrebbe forse anche "vendere" meglio i tempi dimezzati della prescrizione e, dunque, non è ragionevole licenziare prima la riforma dell´ordinamento e poi la Cirielli?

Sono domande ragionevoli che non tengono conto della ratio delle riforme. Quella ratio non la si rintraccia nell´organizzazione della giustizia che è disgraziata, nell´ordinamento giudiziario che si può correggere, nelle contorte procedure del processo penale e civile, nell´ipercriminalizzazione, ma nel destino di Cesare Previti. Come liberarlo dal buco nero in cui le scorciatoie professionali lo hanno cacciato? È il nodo: il processo a Previti (sono due, sono in appello, in primo grado è stato condannato a 15 anni di reclusione). Se si tiene ferma la convinzione che quel che conta per il governo (e il suo Capo) è sollevare Previti dalla minaccia del carcere, questa storia istituzionale la si può raccontare in un altro modo e ha il profumo della minaccia o del ricatto, fate voi.

Il governo, di diritto e di rovescio, sopra e sotto il banco, sta dicendo alla magistratura italiana: vedete, signori in toga, ho la forza per proteggere Previti dalle vostre sentenze. Costi quel che costi, sono disposto a farlo, anche al prezzo di rendere l´Italia l´Eldorado dei farabutti. Posso fare di peggio e di più. Posso deformare lo stesso ordine giudiziario piegando la Costituzione. Voi giudici, eravate soggetti soltanto alla legge e l´intera magistratura autonoma e indipendente: bene, diventerete dipendenti dal giudizio del governo. Non volete affrontare queste forche caudine, sapete che cosa fare? Quel che c´è da fare è assolvere Previti in appello o annichilire i processi di primo grado in un modo o in un altro, «tanto il cavillo lo si trova sempre?». Tra il minaccioso oggi e l´approvazione definitiva della "Cirielli" e della riforma «epocale» c´è questa opportunità: distruggere come fossero castelli di carte i processi a Previti. É questo, al di là di ogni tentativo, l´unico terreno di "mediazione" possibile. Perché mettere a repentaglio l´intero sistema giudiziario e, dei magistrati, il lavoro di ieri e le carriere di domani per l´ostinazione di considerare un obbligo che tutti i cittadini siano uguali dinanzi alla legge?

Costi/benefici, si diceva. Dunque. Nella colonna dei costi c´è la deformazione della Costituzione; la subalternità di un potere di controllo all´esecutivo; una giustizia a doppia faccia: crudele con i deboli e generosa con i forti; un magistrato di ridotta imparzialità sia che accusi sia che giudichi. O, nulla di tutto questo, ma una magistratura umiliata, nel caso in cui i giudici cedano alle pressioni. Nella colonna dei benefici c´è soltanto che Cesare Previti è stato giudicato (e condannato) come uguale tra uguali. Vale la pena? In assenza di un Parlamento capace di ritrovare le ragioni del suo ruolo di contrappeso al potere dell´esecutivo, nel deserto di un Palazzo vuoto di spiriti liberi, il paradosso si riaffaccia. Amnistia ad personam per Previti. E´ la migliore delle peggiori soluzioni che vengono proposte.

Che la vittoria in Puglia di Nichi Vendola sia un segnale ottimo è certo. Che abbia dato una scossa più che salutare ai gelidi e perdenti bilancini elettorali dei vertici del centronistra pure. Altrettanto certo è che la decisione di Fausto Bertinotti di candidarsi alle cosiddette primarie nazionali del centrosinistra abbia dato un’altrettanto salutare scossa ai minuetti di riassetto della coalizione e delle sigle del centrosinistra, e che pertanto essa vada mantenuta ferma. Non è altrettanto certo però che da queste premesse - politiche - consegua che le primarie siano la chiave di volta per un radioso futuro - istituzionale - della democrazia italiana e di una rappresentanza com- promessa dalla crisi terminale dei partiti.

Allo stato attuale, com’è evidente, esse sono piuttosto il paravento di conflitti poco trasparenti, anche se decifrabilissimi, fra i leader del centrosinistra, fra diverse concezioni della (e diversi gradi di convinzione sulla) leadership di coalizione fin qui assegnata a Romano Prodi, fra diverse visioni strategiche della cosiddetta Fed riformista e del peso specifico che al suo interno dovrebbero avere Margherita e Ds. E in questa irritante opacità è difficile dividere con un taglio netto torti e ragioni. Bertinotti ha ragione a non recedere dalla sua decisione e ad affidarle un meritato guadagno di peso politico nella coalizione; ma ha torto a coprire questo ragionevole calcolo con una irragionevole mitizzazione delle primarie come decisiva cartina di tornasole del grado di democrazia del paese. I Ds hanno torto a volere delle finte primarie a candidato unico, cioè un’iniezione di sostegno popolare a un candidato deciso dai vertici e senza alternative; ma hanno ragione a temere che delle primarie in cui tutti i leader di partito si candidano tranne un leader Ds, e i Ds figurano solo come grandi elettori di un leader di coalizione della Margherita, finirebbero con lo stritolare quel che resta del loro partito (e, in un solo colpo, con l’assegnare alla Margherita, Prodi o Rutelli, la leadership politica della Fed oltre che quella della coalizione e del governo). Romano Prodi ha ragione a voler essere rincuorato dal consenso popolare; ma ha torto a voler risolvere il suo storico handicap di leader senza partito con una iniezione di plebiscitarismo che lascerebbe comunque un’impronta sulla vicenda futura del centrosinistra e del paese.

E qui siamo al punto. Al di là - ammesso che ci sia un al di là - di questi incastri tattici e di queste tattiche di potere (nessuno si meravigli, come fa Adriano Sofri su Repubblica di ieri, che non ci sono candidate donne: in queste condizioni va da sé), come si prefigurano, sul piano istituzionale, queste primarie all’italiana? E perché dovrebbero essere un sicuro rimedio ai mali della partitocrazia, della crisi della rappresentanza e della democrazia - come su queste colonne ha sostenuto pochi giorni fa Paolo Flores d’Arcais?

Intendiamoci. Può darsi che la degenerazione partitocratica in Italia sia arrivata a un punto tale da rendere obsolete le obiezioni di principio che molti fautori della democrazia dei partiti portano a questo strumento proprio di una democrazia senza partiti come quella americana (le ha illustrate limpidamente, qualche settimana fa, sempre su queste colonne Enrico Melchionda). Mettiamo pure che la crisi dei partiti sia arrivata in Italia a un punto di non ritorno; e che delle consultazioni dal basso aiuterebbero a sbloccare la deriva di autoreferenzialità in cui il ceto politico è caduto. Ma se così fosse, lo strumento delle primarie andrebbe quantomeno approntato e regolato in modo plausibile e convincente, senza le solite, improvvisate e confuse imitazioni di modelli altrui in cui la fantasia istituzionale italiana eccelle. Esempio, già portato alla discussione da Walter Veltroni: si possono importare le primarie americane, che servono a scegliere fra più candidati dello stesso partito in un sistema bipartitico, nella situazione italiana, dove servirebbero a scegliere fra i leader dei diversi partiti in un sistema a due coalizioni? Non si può. Come non si può non vedere la differenza fra le primarie pugliesi, che si sono svolte per decidere fra due possibili candidati sulla base di una platea di volontari, e quelle calabresi, dove la platea era convocata su base rappresentativa.

Quale platea voterebbe alle primarie nazionali? Si può sostenere che una platea convocata dall’alto su base rappresentativa sarebbe troppo controllata dai partiti. Ma si può anche sostenere che una platea di volontari sarebbe priva di qualunque potere legittimante. In tanta confusione solo due elementi sono relativamente chiari. Il primo è l’iniezione di plebiscitarismo che da uno strumento così indefinito di investitura popolare inevitabilmente verrebbe al sistema italiano, che poco ne ha bisogno dopo anni di berlusconismo. Il secondo è la deriva di deregulation istituzionale, se non di de-costituzionalizzazione, in cui questa innovazione andrebbe a collocarsi, assieme ad altre in corso di sperimentazione (giova ricordare che alle prossime regionali si voterà con sistemi diversi da regione a regione, sulla base dei nuovi statuti). Deriva sulla quale converrebbe mettere il freno piuttosto che l’acceleratore. Sostenere che le primarie non vanno più fatte equivarrebbe, a questo punto, a mettere il tappo su un’istanza di partecipazione e sabotaggio dal basso dei giochi di vertice che non può e non deve essere frustrata. Ma sostenere che possano essere fatte come capita, o come risultante dei giochi e dei rapporti di forza all’interno del centrosinistra, sarebbe devastante per la già devastata democrazia italiana. Il minimo che si possa fare è regolarle in maniera non politicamente conveniente, ma istituzionalmente plausibile. Il massimo, sarebbe di azzerare almeno formalmente tutte - tutte - le candidature e ripresentarle da capo, sulla base di qualche idea riconoscibile.

Sta montando una nuova mussolineide, con l’avallo del Cavaliere che, dopo una dittatura fascista “bonaria”, ce ne segnala una senza “disegno criminoso”: non bastano i 28.000 anni di carcere e di confino irrogati dai Tribunali Speciali, gli assassinii mirati ed eccellenti, le decine di migliaia di perseguitati e di esuli, l’estinzione di ogni libertà, i morti della guerra, ecc. Dopo i reiterati saluti romani del calciatore Paolo Di Canio (difeso o giustificato da tanti giornalisti sportivi, anche della Rai) davanti ad una curva di tifosi con simboli celtici e altri armamentari, punibili ai sensi di una legge che vieta l’apologia del fascismo, ci si mette la nipote Alessandra in cerca di nuova/vecchia notorietà politica. E tira di mezzo Bruno Vespa nei panni di un possibile “zio”.

Intanto, Predappio, paese natale del duce, rischia di diventare un supermercato per i nostalgici del ventennio: ricordi, gagliardetti, divise, immagini del duce, manganelli, cartoline con Benito in mille pose, shampoo “Menefrego” e altre lugubri scemenze. Che tali sarebbero se la “bonaria” dittatura fascista (Pansa ci perdoni) non avesse seminato di lutti l’Italia e se i pellegrinaggi cimiteriali predappiesi non finissero con cori, grida, saluti romani, slogan deliranti. Di recente, la rubrica delle lettere del “Corriere della Sera” ha ospitato una certa polemica in materia, conclusa dalla rassicurazione offerta dalla signora Anna Teodorani (dell’omonima famiglia del federale Vanni Teodorani Fabbri forse): quel supermercato della nostalgia mussoliniana dà lavoro a non poche famiglie e ciò basti. Valore dominante: se il commercio va, tutto va, il resto non conta.

In anni ormai lontani il locale Comune, governato dalle sinistre fin dal ’46, era stato ben più restrittivo in proposito e con esso la Prefettura. Fra l’altro, di Predappio è pure la famiglia degli Zoli, cattolici popolari e antifascisti, il cui esponente più in vista, il presidente del Consiglio, Adone, è sepolto con grande sobrietà nello stesso cimitero di San Cassiano. Fu lui a rendere la salma alla vedova Rachele verso la quale il paese mantenne un rispetto esemplare. Soltanto quando le venne l’idea di aprire un ristorante alla Rocca della Caminate, volò qualche sassata contro i vetri e la Rachele ebbe il buon senso di chiudere l’impresa.

La Rocca torna ora d’attualità per l’ennesimo progetto di riuso, promosso stavolta dall’Amministrazione Provinciale. La casa natale del duce è stata anni fa opportunamente riscattata dal Comune, restaurata ed adibita a mostre periodiche di storia e di costume. Per la Rocca – “liberata” dai partigiani e dalle truppe alleate il 28 ottobre 1944 (ricorrenza fatidica) con l’attiva partecipazione dell’ufficiale Giorgio Spini, lo storiografo fiorentino – la Provincia avanza una ipotesi che ha destato critiche assai forti fra gli intellettuali forlivesi. Vi dovrebbe infatti trovare spazio un Museo dell’Idea di Romagna, tutto virtuale, dove rivivrebbero i personaggi più famosi di questa area storica, da Artusi a Pascoli, a Fellini, passando naturalmente per Mussolini ma pure per Secondo Casadei. Il kitsch sembra garantito. Posso immaginare l’orrore che ne proverebbe, se potesse, il nostro povero amico Federico Fellini (e tanti altri con lui). Lo dico da romagnolo che ama la Romagna: se questa nostra area storica, distinta certamente dall’Emilia con cui peraltro è integrata da secoli, ha un nemico è il romagnolismo. Cioè un localismo enfatico, banale, folklorico che mette insieme la struggente poesia pascoliana con “Romagna mia”, che mescola Amarcord con la “valorizzazione dei prodotti tipici”. La quale è infatti il punto forte del progetto da poco presentato: vini e formaggi tipici, piade e piadine, grigliate e arrosti misti, ecc. ecc.

La forza della Romagna è invece il rigore praticato nell’affrontare la propria storia. Con musei, come quello (ma quando sarà ordinato in modo degno?), di Pergoli e Spallicci a Forlì, forse la più grande raccolta etnografica d’Italia, o come il recentissimo Museo della Marineria di Cesenatico. Con Fondazioni e Società di studi, con Biblioteche secolari attorno alle quali – si pensi soltanto alla Classense di Ravenna o alla Malatestiana di Cesena – è ruotata la cultura locale (e nazionale) . La stessa gastronomia ha avuto specialisti e storici del livello di Pellegrino Artusi e di Piero Camporesi troppo presto scomparso.

Anche per la Rocca delle Caminate – la cui foresteria e il cui parco sono ben gestiti dagli scout dell’Agesci – pareva fattibile a breve uno splendido e rigoroso (insisto) progetto: riportare in Romagna le straordinarie collezioni naturalistiche di Pietro Zangheri, specialista noto in tutto il mondo (gli telefonavano da Berkeley per avere notizie sullo stato di salute delle pinete ravennati). Scomparso nel 1983, finì per lasciare tutto alla città di Verona non trovando risposte affidabili in loco. Il ritorno di quei 150 mila reperti sarebbe possibile e si sposerebbe magnificamente con la dolce collina della Rocca e con la cultura dell’ambiente che già l’Agesci vi coltiva. Una soluzione alta, educativa, ricca di futuro e di pubblico potenziale, giovanile. Non la solita “valorizzazione” che, fra una bevuta e un rutto, magari ammicca al mercatino mussoliniano giù a valle, ormai al di là della decenza e della legalità. Lo studio preliminare parla un linguaggio ambiguo e sottolinea, ad esempio, come la Rocca venne donata nel 1927 “al capo del governo Benito Mussolini in seguito ad una sottoscrizione che ha raccolto ben 70.000 adesioni” e che essa “pare destinata a riassumere il destino fascista dell’intera area forlivese”, ecc. “Se questo è il risveglio della Rocca delle Caminate, molto meglio l’oblio”, ha commentato Carlo Giunchi, uno degli intellettuali protestari. Nei sotterranei della Rocca delle Caminate venne ucciso il partigiano Antonio Carini (Orsi). A Predappio è trascorso invano l’80° anniversario della morte, avvenuta nel ‘25 a seguito delle ripetute percosse squadriste, dell’ultimo sindaco prefascista, il socialista Ciro Farneti. Intanto il supermercato della nostalgia prospera e monta una grottesca mussolineide. Di Canio assicura che ci riproverà, Alessandra Mussolini pure, Bruno Vespa si limita, per ora, a parlare di Resistenza, di guerra civile e del suo ultimo libro, mentre fa la pasta con Antonella Clerici su Raiuno. Servizio pubblico, tv di qualità.

LezioniBolognesi

La legalità, quale, a quali condizioni va difesa: un altro contributo alla discussione di un tema difficile. Da l’Unità del 7 novembre 2005

C’è un tale polverone, mediatico e di bombe, attorno a Bologna, che rintracciare i fili di un ragionamento si è fatto molto difficile. Ma Bologna e il suo sindaco sono così importanti, per il centrosinistra e per tutto il Paese, che non arrendersi ai polveroni è urgente e necessario: senza lasciarsi invischiare dai «cui prodest?», ma anche senza alzare i toni di una riflessione che può affermare le proprie ragioni solo pacatamente. E magari sollevando lo sguardo un po’ sopra le beghe quotidiane per tentare di rivolgerlo alla politica, nella sua accezione più ampia. Nessuno, in nessuna sinistra, pensa o sostiene che l’illegalità sia un valore in sé, e dunque le affermazioni sull’obbligo di applicare le leggi trovano una indiscussa concordia.

Ma molti hanno in testa l’idea che compito della politica - cioè di tutti e di ciascuno - sia forzare l’esistente e le sue leggi in una direzione di progresso. Ricordano, per esempio, che sono stati necessari decenni di scioperi «illegali» perché lo sciopero diventasse un diritto. Per esempio, è grazie a quattro scapestrati radicali, che cominciando a praticare aborti medicalmente assistiti e sicuri si posero al di fuori delle norme allora vigenti, che l’interruzione volontaria della gravidanza ha trovato accoglienza in una legge dello Stato, la 194. Per esempio, è grazie al gesto semplice ed eversivo di una donna che si mise a sedere in una zona dell’autobus che le era interdetta, che il movimento dei neri d’America ebbe impulso, e provocò modificazioni anche legislative dell’assetto esistente. E, dando spazio ai ricordi e alle storie, si potrebbe parlare di occupazione delle terre, di rifiuto delle cartoline-precetto, di una miriade di episodi che hanno mutato le leggi e il costume. Quando ancora non esistevano i «disobbedienti», abbiamo chiamato tutto questo «disobbedienza civile»: e l’aggettivo faceva largamente aggio sul sostantivo, definendo una qualità e un valore. E se è vero che oggi tutto è più confuso, anche il linguaggio, e che molte parole d’ordine di un tempo non funzionano più, bisognerà pur fare uno sforzo per non fermarsi al primo e più piatto significato della parola «legalità».

Una dozzina d’anni fa (sembra un secolo), nacque un Coordinamento delle città per la lotta all’esclusione sociale, che aveva come primo obiettivo lo scambio di esperienze innovative in un settore che stava crescendo in progressione geometrica, e stava diventando esplosivo. Quel Coordinamento fu poi incongruamente accantonato dai governi di centrosinistra, ma forse sarebbe utile tornare ad individuare uno strumento analogo di informazione e conoscenza: perché ancora un esempio il problema oggi scottante a Bologna delle convenzioni fra Enti locali e centri sociali, cioè gruppi informali che rifiutano di assumere una qualsiasi personalità giuridica, fu oggetto di un percorso lunghissimo e difficile già ai tempi della giunta Rutelli, risolto infine con una famosa «delibbera» che ancora oggi, credo, potrebbe fornire indicazioni utili per analoghi problemi. Anche, eventualmente, per evitare scontri e manganellate sulla soglia delle sedi comunali.

Insomma nessun disaccordo sul bisogno di legalità, ma avendo ben chiaro che i percorsi di applicazione delle leggi possono essere diversi. In una metropoli come Roma, che pure ha problemi di sicurezza non certo inferiori a quelli di Bologna, sono stati fatti sgomberi e sono state bonificate baraccopoli senza che cronisti fotografi e teleoperatori trovassero materia di arrembaggio: perché il percorso faticoso e articolato che ha portato a quelle iniziative le ha poste in un ambito di normalità, di condivisione, di consenso. E a proposito di consenso: se è indubbio che, per governare, la politica ne ha bisogno, credo debba essere altrettanto indubbio che non possa essere il consenso l’unità di misura delle scelte. Altrimenti

- per dire - la Democrazia Cristiana dei tempi d’oro non ne avrebbe sbagliata una, e ogni dittatore populista avrebbe diritto al proprio altare. Si può ottenere consenso vellicando gli istinti più oscuri e consolidati dell’elettorato, o si può costruirlo rischiando ogni giorno, costruendo il futuro, immaginando il nuovo, forzando l’opinione pubblica verso obiettivi più alti, di maggior respiro, e per questo sempre scomodi.

Quanto più la situazione complessiva peggiora, tanto più appare chiaro che al centrosinistra, come ad ogni coalizione di progresso, spetta necessariamente il compito degli obiettivi più alti, di maggior respiro, scomodi, diversi: senza di che, si dà spazio inevitabilmente al qualunquismo di chi dice «destra o sinistra, non c’è differenza». È uno spazio ancora inopinatamente ampio, pur in presenza degli errori macroscopici, della diversità davvero antropologica di chi ci governa: sta a tutti noi, e anche al sindaco di Bologna, fare in modo che non cresca ancora

L'aria che tirava ieri pomeriggio alla «veglia per la democrazia» indetta da Arturo Parisi contro la riforma elettorale proporzionalista di Berlusconi & co. è la migliore risposta alla domanda che imperava l'altro ieri sulle prime pagine sia della Repubblica (Ilvo Diamanti) che del Corriere della Sera (Angelo Panebianco) sul clima di archiviazione degli anni Novanta che fa da sfondo al ritorno al proporzionale. Lo sparuto e immalinconito manipolo di eroi del maggioritario (Mario Segni, Achille Occhetto, Willer Bordon, Giovanna Melandri, e con loro Romano Prodi) riunitosi in piazza Montecitorio per vegliare sulla «rivoluzione tradita» del `93 in nulla somigliava alle masse speranzose che dodici anni fa seppellirono il proporzionale con un voto referendario dell'87,1%, illudendosi con ciò di seppellire tutta la cosiddetta Prima Repubblica e di dare la nascita alla cosiddetta Seconda. Solo che a nulla vale prendersela con il colpo di mano di Berlusconi, come fanno i leader del centrosinistra, o con il desiderio di archiviazione del passato decennio «di grandi attese e grandi speranze», come fa Diamanti. Quante delle sue false promesse ha mantenuto la «rivoluzione del maggioritario», peraltro già bocciata dall'elettorato nell'altro referendum, quello del `99, che avrebbe dovuto completarla abolendo la quota proporzionale? Nessuna. Lo stesso Panebianco, che pure annovera fra le «luci» del decennio maggioritario il primato del governo sul parlamento, deve elencare fra le «ombre» la mancata riforma costituzionale che avrebbe dovuto adeguare il sistema delle garanzie alla logica maggioritaria, e la mancata compattazione delle due coalizioni al loro interno, che ha fatto sì che il maggioritario convivesse con una esasperata frammentazione dei partiti. E Diamanti, che nel bipolarismo, nel federalismo e nella personalizzazione tutt'ora vede i tre cambiamenti virtuosi che avrebbero potuto e dovuto portare alla democrazia dell'alternanza, al rinnovamento della classe politica e dei partiti, a un buon rapporto fra istituzioni e società, deve d'altra parte constatare che se per un verso questo passaggio si è incarnato nell'elezione diretta dei sindaci e dei governatori, per l'altro ha avuto la sua apoteosi nella discesa in campo dell'«uomo nuovo» Silvio Berlusconi e del Polo da lui creato e assemblato. Segno evidente che non era tutto oro ciò che luccicava nelle aspettative verso la rivoluzione del maggioritario, del bipolarismo, del federalismo e della personalizzazione.

Così come oggi non è solo di resurrezione del vecchio che si nutre il ritorno al proporzionale (cosiddetto, perché non si torna affatto al proporzionale di un tempo e la nuova legge riesce a sommare svariati inconvenienti del proporzionale e del maggioritario). Il fatto è che il vecchio non ha mai smesso di scorrere nelle vene del nuovo, malgrado la retorica del nuovo che nei primi anni Novanta imperversava. Quando Diamanti lamenta che oggi ci si illude di superare i problemi dell'ultimo decennio senza affrontarli ma semplicemente rimuovendoli e mettendoli in parentesi ha ragione; a patto di aggiungere che anche con la «rivoluzione» del `93 ci si illuse di seppellire i guai della «Prima Repubblica», e in specie degli anni Ottanta, senza affrontarli e con una insana rimozione. Su una cosa invece concordo con lui: che questo modo di procedere ci lascia ancora una volta in sospeso, a mezz'aria, impigliati in un processo che più che una transizione è un avvitamento. Di rimozione in rimozione sta andando a finire proprio così, con un volo nella nebbia «mentre la terra sotto di noi non si vede più perché non esiste più». Con altre parole si chiama «declino italiano», ma non entra mai, neppure per sbaglio, nelle esauste dispute sulle regole del sistema politico.

SAREBBE un grave errore e un’insopportabile manifestazione di faziosità prendere occasione dal disastro della Louisiana per dare sfogo a sentimenti antiamericani o anche a critiche settarie all’imprevidenza e alla disorganizzazione dell’amministrazione di George W. Bush.

I devoti dell’infallibilità del presidente, più rumorosi in Italia che in qualunque altro paese d’Europa, tuonano da sei giorni contro quest’inesistente fiammata antiamericana della quale non v’è traccia alcuna.

Tuonano contro un bersaglio che non c’è, ma quel cannoneggiamento ha tuttavia un senso: serve ad impedire una riflessione pacata su alcuni problemi di fondo che interessano non solo l’America, ma anche l’Europa e tutto il grande universo mentale che chiamiamo Occidente, cultura e politica liberal-democratica, solidarietà, eguaglianza degli individui e delle comunità di fronte alla legge, di fronte al mercato, di fronte al potere ovunque collocato e gestito.

Serve anche, quel cannoneggiamento preventivo apparentemente privo di bersaglio, a "tentar di" evitare una domanda-chiave che domina dal 1989 il panorama internazionale e cioè la compatibilità di un Impero con il mondo del XXI secolo, con lo stato di diritto, con la globalità della tecnologia, con la convivenza sempre più difficile tra la ricchezza e la povertà.

Eppure quella domanda si è posta e si ripropone con una forza pari all’uragano Katrina che ha seminato morte e rovine su tutta la costa americana che si affaccia sul golfo del Messico.

Questa catastrofe naturale, oltre a scoperchiare migliaia di case, ha messo sotto gli occhi dell’America e del mondo intero una realtà sociale di disuguaglianza estrema, di degrado estremo, di rabbia e frustrazione diffuse tra le moltitudini di colore degli Stati americani del sud e dei ghetti urbani del nord e dell’ovest. Ha messo in evidenza la fragilità profonda del paese-guida dell’Occidente e dei valori che vuole esportare e dei quali si ritiene depositario ma che risultano vistosamente traditi e assenti in casa propria ad un secolo e mezzo di distanza dalla guerra di secessione.

Gli Stati Uniti d’America sono un grande e generoso paese verso il quale l’Europa ha debiti inestinguibili come altrettanto inestinguibili sono i debiti dell’America verso di noi. Sono, al tempo stesso, la più grande potenza economica, tecnologica e militare del mondo, almeno per ora e sicuramente per i prossimi cinquant’anni. L’impero americano, la "pax" americana, sono una comprensibile tentazione. Comprensibile quanto rovinosa.

Almeno metà del popolo americano ne è perfettamente consapevole, ma il terrorismo internazionale con la sua criminale strategia l’ha resa impotente.

Il terrorismo internazionale ha temuto che George W. Bush perdesse il potere, non ottenesse il suo secondo mandato. Il terrorismo internazionale vuole che l’America sia sedotta dal fantasma dell’Impero, dedichi ad esso tutta la sua attenzione, la sua strategia, le sue risorse, contrapponga il dio cristiano al dio dell’Islam, arruoli un esercito di colore contro promesse di cittadinanza e di benefici giudiziari. Questo vuole il terrorismo internazionale, per poter diffondere l’antiamericanismo in tutto il mondo povero, per sollevare le periferie povere del mondo contro il privilegio della ricchezza e del potere.

L’uragano Katrina non è certo colpa di Bush, ma mette a nudo una realtà che conoscevamo sui libri e nei film ma non avevamo ancora mai visto in queste dimensioni con gli occhi impietosi della televisione.

L’America salvò Berlino dal blocco sovietico attraverso il più gigantesco ponte aereo che in quarantott’ore e poi per alcuni mesi tenne in vita centinaia di migliaia di persone altrimenti isolate dal resto del mondo.

L’America ha trasportato in poche settimane un’armata di centinaia di migliaia di soldati in Arabia per la prima guerra del Golfo. Altrettanto ha fatto undici anni dopo per l’invasione dell’Iraq. L’America nel 1969 portò la sua bandiera sulla luna.

Ma sei giorni dopo la catastrofe di Katrina non è ancora riuscita a seppellire i morti di New Orleans, a domare i saccheggi, a sgombrare decine di migliaia di persone abbandonate in un’immensa palude, a far arrivare viveri e medicinali. Ancora ieri il sindaco della città imprecava, piangeva, implorava e bestemmiava di fronte alle telecamere denunciando il caos e l’abbandono. Metà della polizia urbana scomparsa, dileguata, liquefatta, niente autobus, niente soccorsi. «Requisite gli autobus, mandatemi la Guardia Nazionale, se non l’avete mandatemi i caschi blu della fottuta Onu, mobilitate tutti gli elicotteri. Siamo sott’acqua da sei giorni, quanto ancora dobbiamo aspettare?».

È un’invenzione dei giornali antiamericani? Delle tv antiamericane? Del New York Times, del Los Angeles Time, del Washington Post, di tutta la stampa americana convertita improvvisamente al partito antiamericano? Oppure il dio degli eserciti assiste solo i combattenti ma non i volontari della Protezione civile?

* * *

La verità è che gli imperi non sono compatibili con la democrazia.

Deformano la democrazia. Ne concedono il simulacro soltanto a chi faccia atto di sottomissione all’impero e debbono mantenere quel simulacro ponendovi a guardia eserciti permanenti e necessariamente mercenari.

Considerando barbari i popoli che vivono fuori dai confini dell’impero e quelli che, dentro quei confini, non accettano i mores e non pagano il tributo dovuto al centro dell’impero. La storia è piena di esempi e non se ne conoscono eccezioni, da Cesare a Napoleone, passando per Filippo di Spagna, per la Compagnia delle Indie, per le colonie inglesi, olandesi, portoghesi, francesi, belghe, tedesche. Per l’impero ottomano. Per la dominazione russa sulle terre del Caucaso e dell’Asia centrale. Per l’impero asburgico.

Roma non fa eccezione: dalla dinastia Giulio-Claudia fino agli Antonini la guerra ai confini e la repressione dentro i confini fu una costante che accompagnò l’espansione. Poi cominciò il declino. Erano tollerantissimi con gli altri culti, ma non con chi rifiutava il culto alla divinità dell’imperatore. La democrazia negli imperi, quelli antichi ma anche quelli moderni, è stata un lusso riservato ai cittadini di serie A. La libertà privata è stata ampia dentro i confini, ma quella politica è stata di fatto azzerata. Azzerato l’autogoverno. Imbrigliata l’opposizione.

Bisogna dunque maneggiare con estrema cautela il concetto e la pratica dell’impero. Bisogna esser consapevoli che la disparità delle ricchezze inocula virus terribili, tra i quali predomina quello del fanatismo. Dal fanatismo al terrorismo il passo è brevissimo. Il nazionalismo militarista è sempre servito a esportare fuori dai confini i problemi che all’interno non si sapevano o non si volevano risolvere. Il nazionalismo militarista applicato su scala imperiale moltiplica all’ennesima potenza la gravità e l’insolubilità di quei problemi.

Tutto ciò detto, oggi bisognerebbe che il mondo benestante desse una mano alla benestante America per aiutarla a ricostruire New Orleans. Perfino Fidel Castro si è quotato malgrado l’embargo che pesa su Cuba. Siamo tutti louisiani, non è vero?

Ma risolvere il problema delle terribili diseguaglianze della società americana e soprattutto afro-americana non può essere certo compito dell’Europa. Gli amici dell’America possono soltanto segnalarne la gravità.

L’America vive in tutti i sensi con l’Africa in casa. Ma non sembra che questa situazione rappresenti una priorità per la classe dirigente americana.

Questa trascuranza, essa sì, preoccupa fortemente i veri amici dell’America.

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