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Liberazione cambia giornale, l' Unità cambia direttore. Quella di ieri è stata una giornata alquanto movimentata per i due giornali facenti capo ai due principali partiti della sinistra - l'uno con un rapporto proprietario diretto con Rifondazione comunista, l'altro con un meccanismo indiretto che garantisce alla testata fondata da Gramsci i fondi pubblici per l'editoria dei Ds. Ma mentre il cambio della grafica e del formato di Liberazione era stato annunciato, un po' più a sorpresa è arrivata la soluzione alla lunga guerriglia che da mesi ha contrapposto la direzione dell' Unità all'azionista-ombra dei Ds: il direttore Furio Colombo, difeso dalla stragrande maggioranza della redazione, ha ceduto il passo al suo ex-vice e fedelissimo Antonio Padellaro. «Abbiamo vinto», hanno detto entrambi presentandosi all'assemblea della redazione; lasciando tutti soddisfatti sull'esito della vicenda ma alquanto dubbiosi sulla risposta alla domanda: ma allora chi ha perso? Liberazione è arrivata in edicola in formato «lungo»: l'addio al tabloid per il ritorno a un giornale «più scritto, più da leggere» è proposto dal direttore Piero Sansonetti - ex giornalista de L'Unità, da qualche mese chiamato a rilanciare il giornale bertinottiano in concomitanza con la svolta e il transito del partito verso Unione e governo - come la risposta a un cambiamento di fase e contesto politico. Il tabloid per la battaglia, il «giornalone» per pensare, leggere, portare materiali: una filosofia che ha il suo risvolto pratico-giornalistico più evidente nel ritorno della terza pagina di cultura. A una prima pagina più mobile - con un'apertura, un lungo articolo e due commenti - segue una foliazione più rigida (con la classica partizione tra esteri, politica, economia e lavoro, ecc.). L'articolo scritto in prima pagina ieri dava conto di numeri e schieramenti del congresso di Rifondazione, oggi sarà sulla Cina: «non è di norma legato al `fatto del giorno'», spiega Sansonetti. Che dice di aver avuto ieri solo complimenti, racconta quasi stupito di non aver avuto eccessive ingerenze né pressioni dal partito nelle sue varie correnti e chiede qualche giorno di tempo per fare bilanci.

A qualche chilometro di distanza, nella nuova redazione romana vicino Porta Portese, l'Unità viveva una delle giornate più intense dal 28 marzo 2001, giorno del ritorno in edicola dopo la clamorosa chiusura dell'estate precedente. Il consiglio di amministrazione della Nie (Nuova Iniziativa Editoriale), terminato all'una di notte, aveva emanato il verdetto: Antonio Padellaro è il nuovo direttore dal 15 marzo, Furio Colombo resta come editorialista. Mesi e mesi di braccio di ferro più o meno silenzioso con i Ds, e infine ore e ore di consiglio, per giungere alla più naturale delle successioni? Padellaro ammette che qualcosa non torna: «Eravamo d'accordo per una staffetta, ma non adesso: nel 2006, dopo le elezioni politiche. C'è stata un'accelerazione, il perché non lo so. Oggi Furio scriverà un articolo sul 'perché?', che resta una domanda senza risposta. So però che restiamo tutti e due, che la proprietà ha garantito il rispetto dell'autonomia del giornale, e piena libertà d'azione nella riorganizzazione della redazione a partire dalle strutture di vertice». Il direttore uscente all'assemblea che si è svolta ieri in redazione l'ha spiegata con una metafora: «Per tornare dall'America all'Italia ci vogliano più ore che per tornare dall'Italia in America. Questione di venti contrari». Venti contrari che hanno imposto al direttore che ha riportato in edicola l'Unità un passo indietro.

«Il perché? Chiedetelo ai Ds», ha detto meno diplomaticamente lo stesso Colombo in un'intervista al sito affaritaliani.it. I Ds, insoddisfatti del tono «urlato» del giornale di Colombo-Padellaro già all'indomani della vittoria di Berlusconi, e poi via via più insofferenti nella stagione dei movimenti, quel 2002 dei girotondi cavalcato da l'Unità lancia in resta; i Ds, che per l'Unità (come del resto per l'Unione) temono di essere «portatori d'acqua» senza ricevere niente in cambio; i Ds, che passano all'attacco non appena il vento editoriale cambia un po' e le copie vendute in edicola cominciano a scendere. I Ds, che fino all'ultimo hanno provato a imporre altri nomi, e che alla fine hanno ottenuto la testa di Colombo ma per ritrovarsela solo spostata un po' più in là (come editorialista in esclusiva per il «loro» giornale) e sostituita senza radicali cambiamenti di linea. Che abbiano perso anche stavolta? «In cinque ore di consiglio di amministrazione, non si è parlato mai di Ds», dice Giorgio Poidomani, amministratore delegato della Nie, che ieri sprizzava soddisfazione da tutti i pori. «Il cambiamento del giornale ci sarà, ma con la redazione unita», spiega. Un cambiamento affidato a Padellaro, «che è un ottimo professionista, tutti gli dobbiamo dare l'opportunità di provare la sfida». Dal punto di vista grafico, è pronta una riforma in più tappe, che arriverà al full-color. Quanto ai toni, «già da un po' stavamo sostituendo con un registro più ironico quell'aggressività iniziale che era necessaria per imporci, per far riaffermare l'Unità nelle edicole», spiega Padellaro. Un cambiamento che non sembra una de-colombizzazione. Reggerà? Nella redazione, che è rimasta compatta nella difesa della linea Colombo-Padellaro, serpeggia l'incertezza e il sospetto che tra qualche mese il partito tornerà all'attacco e la proprietà lo seguirà più decisamente. Ma, ammettono in molti, tutto dipende dal verdetto delle edicole. L'idea che il nuovo direttore sia in prova è invece del tutto smentita dal Cdr, che incassa la soluzione trovata ieri come una propria vittoria: «Colombo ha ripristinato all' Unità l'etica di un giornalismo libero, questo resta», dice Enrico Fierro del Cdr, che annuncia anche una «vigilanza» sulla riforma grafica («la fascia rossa resta») e un'iniziativa inedita: l'attivazione di «meccanismi scientifici di controllo sulla diffusione in edicola».

Due settimane fa, esattamente il 16 gennaio scorso, scrissi un articolo pubblicato con il titolo "La lunga battaglia intorno all’embrione". L’occasione era stata la sentenza della Corte costituzionale che, respingendo uno dei quesiti proposti dai promotori del referendum abrogativo della legge numero 40 sulla fecondazione assistita e ammettendone gli altri quattro, ha dato il via alla consultazione referendaria. In quell’articolo facevo alcune considerazioni sulla predetta sentenza e soprattutto sulla controversa questione denominata "i diritti dell’embrione" potenzialmente confliggenti con i diritti dei genitori.

Non tornerò su questo aspetto; tutto ciò che si poteva dire in proposito è stato detto e sarà certamente ripetuto quando si entrerà nel vivo della campagna elettorale referendaria. Ma nel frattempo, il 17 gennaio, si è riunita a Bari la Conferenza episcopale italiana che ha ascoltato e approvato la prolusione del suo presidente, cardinale Camillo Ruini. È proprio di questa prolusione che desidero oggi occuparmi; nelle sue dieci pagine a stampa essa compie una vasta rassegna dei fatti accaduti nei tre mesi trascorsi dalla precedente sessione della Cei toccando temi ardui dal punto di vista teologico e filosofico, per passare a temi di rilevante importanza etica e pastorale, affrontando infine argomenti più propriamente politici sia a livello europeo sia italiano.

Avviene di solito che quando la Cei si riunisce i mezzi di comunicazione, dandone notizia, concentrano la loro attenzione su qualche giudizio, indicazione, prescrizione, concernenti fatti di stretta attualità, trascurando il resto. Raramente la pubblica opinione conosce nella sua interezza gli atti delle riunioni episcopali e il testo della prolusione del presidente.

All’ombra di questo (inevitabile) silenzio della stampa è accaduto nel corso degli anni che l’attenzione della Cei si espandesse quasi senza più confini e coinvolgesse l’attività episcopale in temi del tutto estranei all’evangelizzazione e alla catechesi che sono propri della funzione episcopale.

È anche accaduto che i temi toccati non fossero soltanto estranei ma addirittura preclusi all’intervento della gerarchia ecclesiastica, senza però che tali e a volte macroscopiche interferenze venissero colte per quel che in realtà sono e cioè invasioni di campo da parte della Chiesa di domini di stretta competenza dello Stato e quindi lesivi di quel principio di laicità accettato e solennemente ribadito anche nel concordato che recita infatti: «La Repubblica Italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono nel proprio ordine indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti» e ancora: «La Repubblica Italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione».

Questi sono dunque i temi sui quali la Chiesa esercita il suo magistero, ovviamente in concorrenza con altre religioni e culti presenti sul territorio della Repubblica: evangelizzazione, carità, santificazione. Altre questioni che riguardano l’organizzazione della comunità civile, sono viceversa di pertinenza dello Stato e della società che esso rappresenta. Nulla vieta che la Chiesa fornisca ai suoi fedeli (che sono parte integrante della società civile) tutte le indicazioni di principio giudicate coerenti con la fede e la morale cattolica, mentre le è invece vietato ogni sorta di intervento sui comportamenti e le iniziative politiche, riguardanti una sfera di attività di esclusiva competenza delle istituzioni e dei cittadini, siano essi credenti nella fede cattolica o in altre religioni o non credenti affatto.

* * *

Alla luce di queste elementari distinzioni di campo tra attività religiosa e attività diciamo così temporale, sono rimasto sorpreso, dico la verità, dalla versatilità della Cei su una quantità di temi che non la riguardano.

Mentre la prima parte della prolusione Ruini apre la discussione su un argomento del massimo interesse religioso e cioè quello della sofferenza subita senza colpa dall’umanità e del rapporto tra Dio e gli uomini rispetto alla presenza del male nel mondo; e mentre questo tema eterno viene giustamente riproposto dal cardinal Ruini in concomitanza con il maremoto di recente avvenuto nel sud dell’Asia e delle immani rovine da esso cagionate; subito dopo si passa a discutere della Costituzione europea e in particolare della possibile ammissione della Turchia nella Ue e a quali condizioni una decisione in merito potrebbe avvenire.

Capisco che l’ammissione nella Ue d’un Paese quasi esclusivamente musulmano possa destare preoccupazione nella gerarchia cattolica la quale tuttavia, nel testo di Ruini, si limita a chiedere reciprocità in tema di libertà religiosa. Mi pare che ne abbia pieno diritto e che questa richiesta resti nell’ambito dei suoi legittimi interessi.

Molto più stravaganti sono altri temi. Li enumero citando il testo. «Negli ultimi mesi è stata ancora alta la tensione tra gli schieramenti politici ed anche, a fasi alterne, all’interno di ciascuno di essi come pure non di rado tra le diverse istituzioni... L’approvazione di alcune riforme è avvenuta in questa chiave di conflittualità che condiziona inevitabilmente la loro accoglienza e il loro concreto valore».

Personalmente posso anche condividere questo giudizio, più volte del resto enunciato dal presidente della Repubblica. Ma mi domando a che titolo ne parli il presidente della Cei sulla cui bocca parole di questo genere risultano improprie e stonate. Che cosa direbbe il cardinale Ruini se un ministro della Repubblica nel corso di un dibattito parlamentare si esprimesse in merito ad un conflitto, che so, tra la Curia vaticana e l’Ordine dei gesuiti o tra la medesima Curia e l’associazione degli Ordini delle suore, a proposito delle rispettive iniziative e/o dell’autonomia e/o delle competenze richieste da una parte e negate dall’altra? Non griderebbe, e giustamente, il Vicario del Papa alla violazione dei principi concordatari che vietano allo Stato di occuparsi di questioni attinenti alla vita interna della Chiesa? E non si pongono così le premesse, con l’aria di formulare opinioni di comune buonsenso, al progressivo ampliamento della presenza ecclesiale in campi che non la riguardano affatto?

Così per quanto riguarda la legge finanziaria «tesa a stimolare lo sviluppo» ma «sul versante delle famiglie, pur in presenza di alcune misure apprezzabili, i criteri impiegati rimangono però poco idonei a perseguire quella politica organica che sarebbe meglio promossa dall’adozione del quoziente familiare».

Lo ripeto: non contesto il merito di tali indicazioni; ne contesto l’ammissibilità da parte di un’istituzione ecclesiastica la quale non solo non ha titolo ma alla quale è espressamente precluso di inoltrarsi su questo terreno, anche a salvaguardia dell’autonomia e della laicità degli stessi cattolici politicamente impegnati. Ad essi è lecito che la Chiesa ricordi il suo interesse verso la famiglia ma non che prescriva addirittura le specifiche norme che il Parlamento e il governo dovrebbero adottare per render contento l’episcopato italiano.

Stesse osservazioni mi sento di dover fare sulla legge "salva-Previti" nella prolusione di Ruini esplicitamente citata e criticata. Quando ho letto quelle righe me lo sarei abbracciato, il cardinale; ma poi mi sono detto: io posso scrivere dieci articoli contro quell’obbrobrio di legge, ma la Conferenza episcopale non ha alcun diritto di occuparsene ed è dunque mio dovere di cittadino difendere la separazione del potere civile da quello religioso. In un solo caso quest’ultimo può denunciare una legge dello Stato: quando essa violi il principio della libertà religiosa, i diritti dell’uomo e la sua dignità. Può darsi (non sono lontano dal pensarlo) che la "salva-Previti" leda quei diritti violando in particolare quello dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Ma allora bisogna dirlo esplicitamente e non ripararsi dietro «la diffusa perplessità di una legge che genera il sospetto d’aver di mira situazioni di singole persone». È un giudizio troppo severo o troppo poco per giustificare l’intervento della Chiesa su un provvedimento in discussione nel Parlamento della Repubblica.

* * *

Ma vengo all’aspetto più eclatante della prolusione Ruini, fatta propria da tutti i vescovi della Cei. Riguarda il referendum abrogativo della legge 40. Lo ripeto: non entrerò nel merito della questione ma mi limiterò all’analisi del documento del cardinale.

Egli parte da un’affermazione: la legge 40 non soddisfa appieno le esigenze della Chiesa in materia di fecondazione medicalmente assistita; è troppo permissiva per i gusti della gerarchia ecclesiastica. Tuttavia disegna un impianto apprezzabile che, allo stato dei fatti, è il massimo che si possa raggiungere. Ne consegue che ogni modifica di quella legge non può che peggiorarne la qualità dal punto di vista della Chiesa. Perciò essa non va emendata. Bisogna invece mobilitare le coscienze affinché il referendum abrogativo fallisca. La Chiesa farà di tutto perché ciò avvenga e si riserva di decidere, in prossimità della consultazione, quale sia la via migliore da seguire: se votare "no" oppure disertare dal voto e impedire così il raggiungimento del "quorum" necessario per la validità del referendum.

Eminentissimo cardinale, mi auguro che lei e i suoi confratelli non vi siate resi conto d’esservi inoltrati su un terreno all’ingresso del quale è scritto in caratteri cubitali che a voi, proprio a voi, è precluso l’ingresso.

Voi potete dire e ridire fino alla noia che l’embrione è una persona, così come i vostri confratelli di quattrocento anni fa sostenevano che il sole gira intorno alla Terra e misero in catene il grande scienziato che sosteneva il contrario. Ciò che invece non potete assolutamente fare è di prescrivere agli elettori quale sia il modo più efficace per impedire l’abrogazione (parziale) d’una legge attraverso il legittimo esercizio del voto popolare.

Qualche dubbio deve averlo avuto anche lei, caro Ruini, quando a conclusione del suo testo ha scritto: «Siamo consapevoli delle difficoltà che ci attendono e delle critiche cui potremo essere sottoposti. È però doveroso per noi esprimerci con sincerità e chiarezza e siamo sostenuti dalla coscienza di adempiere alla nostra missione».

Lei sarà pur convinto di adempiere alla sua missione prescrivendo agli elettori se debbano votare o no. Ma sta di fatto che con il documento letto a Bari il 17 gennaio lei, presidente della Cei, ha violato gli articoli 1 e 2 del Concordato Lateranense. Se avessimo un presidente del Consiglio di normale sensibilità per le prerogative e la dignità dello Stato, lei avrebbe già ricevuto una nota di protesta dall’ambasciatore italiano presso la Santa Sede.

Ma noi non abbiamo purtroppo un presidente del Consiglio che senta questo tipo di doveri. E infatti egli è proprio colui che ad una Conferenza episcopale così poco riguardosa dei principi di laicità fa più comodo di avere come frontaliere. Posso capirla, caro cardinale, ma deploro profondamente questo modo di procedere.

A due anni dal crack della Parmalat, con mezzo mondo bancario inquisito per aver piazzato presso i risparmiatori titoli che si sapevano marci, col banchiere difensore dell'interesse nazionale in galera e il suo ex governatore in pensione forzata, il governo Berlusconi-Tremonti detta la sua versione della tutela del risparmio, cioè dei nostri soldi: permettere alle imprese di falsificare i bilanci e al governo di prendersi anche la Banca d'Italia. Appena sparita dalla scena (fuori tempo massimo) la massa ingombrante di Antonio Fazio, ecco riapparire nuda e cruda la massa critica del coagulo di interessi che ci governa. Litigiosa, contraddittoria e in affanno quanto si vuole, ma al momento cruciale sempre cementata dal solido principio proprietario: chi vince (o compra) prende tutto. Ognuno è padrone in casa propria, e pazienza se la «casa» coincide con la cosa pubblica. La questione del falso in bilancio, che aveva inaugurato la legislatura, la chiude simbolicamente e scandalosamente. Sotto il roboante titolo della Tutela del risparmio e sull'onda emotiva dello scandalo che ha travolto l'unica istituzione che era uscita indenne dalla prima repubblica, il governo si presenta alle camere chiedendo di alleggerire la repressione penale per chi trucca i bilanci delle società. E impone la fiducia su un testo che spacca il capello in quattro tra reato di «danno» e di «pericolo», che chiude un occhio su truffe in modica quantità, che salva le società non quotate. Anche se non ci fosse in corso un processo che riguarda il capo del governo e la sua società (non quotata), ci sarebbe da chiedersi con che faccia si possa spacciare tutto ciò per Tutela del risparmio.

Il resto segue, e va nella stessa direzione. I criteri di nomina del nuovo governatore, che mettono il pallino nelle mani del governo, e più ancora di questi i nomi che circolano in queste ore - tra i quali c'è addirittura un fresco ex-ministro della stessa maggioranza di governo - rischiano di mettere una pietra sull'indipendenza della Banca d'Italia, completando così in pochi giorni il lavoro avviato da Fazio, con la sua ostinata resistenza a muoversi, negli ultimi mesi. Il pasticcio sui poteri in materia di concorrenza tra le banche, attribuiti in comproprietà a Bankitalia e Antitrust, rivela la scelta di non scegliere dopo due anni di braccio di ferro sull'argomento. E le foglie di fico sulla tutela dei risparmiatori, con l'istituzione di un ridicolo garante - un altro dipartimento da istituire in fretta e furia presso la presidenza del consiglio, magari per amministrare quell'altro ridicolo «fondo» che la legge finanziaria mette a disposizione delle vittime dei crack: quali vittime? con che criteri? e con quali soldi? Il riccone che ha speculato e ha perso, o il pensionato che si è lasciato convincere a investire la sua liquidazione in bond Cirio?

La stagione dei crack, degli scandali e dei furbetti sembra così chiudersi con la vittoria dei furboni. Tramontato Fazio, Tremonti si gode la sua rivincita, Berlusconi - il cui ruolo dietro le quinte delle scalate non è ancora ben chiaro, ma il cui atteggiamento pilatesco sulla vicenda Bankitalia è stato chiarissimo - mantiene ferma la cifra di tutta la sua vita politica: l'interesse personale. Forse stanno ancora decidendo se a questi scopi sia più utile piazzare in Banca d'Italia un governatore amico - Ciampi permettendo - o cercare un'intesa bipartisan sul nome del futuro governatore - magari un nome che salvi anche la faccia dell'Italia. Ma nell'attesa del nome resta la sostanza. E resta quel piccolo comma sul falso in bilancio, imposto con voto di fiducia, che illumina l'intera operazione.

Titolo originale: A new left turn for Europe– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Quindici anni dopo la cadute del Muro di Berlino, l’eredità del comunismo sta lasciando un nuovo segno nel panorama politico. Spesso si è trattato di “rinnovarsi o morire”, e rinnovarsi ha significato nuove alleanze, che avrebbero fatto rivoltare nella tomba i padri fondatori.

Ma in molti paesi, una sinistra ibrida sta sviluppando la capacità di riempire il vuoto sempre più ampio che si crea mentre i partiti socialdemocratici come il Labour in Gran Bretagna o la SPD in Germania, adottano alcune politiche della destra. Il cauto ottimismo di Oskar Lafontaine in Germania, uno dei primi a combattere dall’interno questa tendenza, ne è un simbolo.

Lafontaine e il nuovo Linkspartei che guida, si muovono sul palcoscenico europeo. Il partito è stato fra gli organizzatori del primo congresso di questo nuovo animale politico, lo European Left Party (ELP). Ben 360 persone hanno partecipato al congresso tenuto a Atene nello scorso fine settimana. Si andava da protagonisti significativi sulla scena europea, come il Partito della Rifondazione Comunista, partner radicale nell’Unione di Romano Prodi, la coalizione che spera di scalzare Silvio Berlusconi nell’aprile del prossimo anno, sino a piccole formazioni come il Partito Comunista dell’Estonia, liete di “far parte di qualcosa di grande”, per dirla col suo delegato Sirje Kingsepp.

Quello che hanno in comune è l’impegno a rinnovare la sinistra nel quadro di una strategia comune europea. Erano assenti i partiti comunisti ortodossi, come quelli del Portogallo e della Grecia.

Frequentatore abituale delle riunioni all’Internazionale Socialista, Lafontaine è in un’ottima posizione per giudicare la particolarità del nuovo attore politico: “La differenza è che qui i partiti sono impegnati in una strategia di dimensione europea” dice. “Uno degli errori dei gruppi socialdemocratici [nel passato] era che fossero troppo preoccupati delle questioni nazionali. Era molto difficile trovare soluzioni a livello europeo. Qui la situazione è migliore”.

Lafontaine concede che una delle ragioni di ciò è che i partiti riuniti allo Stadio della Pace e dell’Amicizia, poco fuori Atene, sono anche fuori dai governi. “I partiti di governo sono sedotti dalle priorità nazionali. Qui c’è una discussione migliore, senza i pericoli dell’opportunismo”.

Ma che dire, del pericolo di impotenza? Si è discusso di campagne a scala europea: contro la direttiva Bolkestein sulla privatizzazione dei servizi; per i diritti degli immigrati e dei richiedenti asilo; per il ritiro delle truppe dall’Iraq. È stato eletto un esecutivo col compito di coordinare le varie iniziative, non solo fra i partiti componenti, ma anche movimenti sociali e sindacati.

L’intenzione è di creare un attore politico e un’identità europei: qualcosa di più dei blocchi all’interno del parlamento europeo, che sono essenzialmente gruppi di pressione su temi nazionali. Uno dei componenti dell’esecutivo ha ipotizzato che alle prossime elezioni europee i partiti potrebbero presentare candidati sotto il simbolo dello ELP oltre al proprio, e magari scambiarsi i candidati attraverso i confini.

I delegati guardano a questo obiettivo pan-europeo con apparente fiducia. Lo slogan dell’evento era “ Possiamo cambiare l’Europa”. I delegati francesi vantavano ancora la vittoria nella campagna per il NO alla costituzione europea. Secondo loro la vittoria non è stata solo nel numero di voti, ma nel fatto che la maggioranza è stata conquistata senza sollevare pregiudizi antieuropei, con argomenti a favore di una Europa alternativa. Un effetto collaterale è stato la stessa campagna, che ha radicalmente trasformato la sinistra francese, producendo un riallineamento impensabile cinque anni fa.

Un segno di ciò era il presentarsi insieme di Alain Krivine, leader della Ligue Communiste trotzkista e antagonista storico del Partito Comunista francese, e dei dirigente dell’ala sinistra del Partito Socialista che avevano rotto con la linea di maggioranza per sostenere la campagna.

”Questa esperienza ci ha dato la sensazione che potevamo vincere, che non eravamo marginali” spiega Elisabeth Gautier, delegata del Partito Comunista Francese e rappresentante di Espace Marx, fondazione aperta di ricerca e dibattito.

I delegati italiani condividono questa fiducia. Sono arrivati pieni di entusiasmo dopo l’esperimento di tenere le primarie per la scelta del candidato dell’Unione contro Berlusconi. “Ci aspettavamo 2 milioni di partecipanti e invece sono stati 4,3. È un segnale di come la gente parteciperebbe alla politica se ne avesse la possibilità” spiega Salvatore Cannavò del Partito della Rifondazione Comunista.

La stretta collaborazione fra i partiti impegnati nello ELP rende questo tipo di innovazioni attraenti. È l’arricchimento incrociato di culture politiche, uno dei principali risultati del nuovo partito. “Abbiamo imparato molto dagli italiani” dice Christiane Reymann, femminista della PDS tedesca che ha guidato la rivolta al congresso di fondazione ELP contro il dominio maschile nel partito. “La loro influenza è stata vitale nella creazione del Linskpartei”.

L’esperienza italiana dimostra come i partiti hanno rinunciato a considerarsi un’avanguardia, e almeno tentino di vedere sé stessi come “un attore tra molti”, nelle parole di Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione Comunista. Lavorare insieme ai movimenti sociali richiede un cambio di cultura e di linguaggio. Una rete autonoma femminista, per metà nel partito, metà indipendente ma sostenuta con fondi del partito, ha cominciato a portare la realtà un po’ più vicina alla retorica. Le predominanti facce e capelli bianchi maschili del congresso, indicano che c’é molta strada da fare.

Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

Titolo originale: George Bush: God told me to end the tyranny in Iraq – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

George Bush ha affermato di essere in missione per conto di Dio, mentre lanciava le invasioni di Afghanistan e Iraq, secondo un anziano politico palestinese in un’intervista che sarà trasmessa nei prossimi giorni dalla BBC.

Bush ha rivelato l’intensità del suo fervore religioso incontrando una delegazione palestinese durante il vertice israelo-palestinese tenuto nella località turistica egiziana di Sharm el-Sheikh, quattro mesi dopo l’invasione dell’Iraq guidata nel 2003 dagli USA.

Uno dei delegati, Nabil Shaath, a quell’epoca ministro palestinese, ha rivelato: “Il Presidente Bush ci disse: ‘Sono spinto a questa missione da Dio’. Lui mi ha detto, ‘George, vai e combatti questi terroristi in Afghanistan’. E io l’ho fatto. Poi ancora mi ha detto ‘George, vai e metti fine alla tirannia in Iraq’. E io l’ho fatto”.

Bush continua: “E ora, sento di nuovo la parola di Dio che si rivolge a me, ‘Vai a dare ai palestinesi il loro stato, a Israele la sua sicurezza, e fai la pace in Medio Oriente’. E per Dio io lo farò”.

Bush, diventato un Cristiano Rinato a 40 anni, è uno dei leaders più religiosi di tutti i tempi ad occupare la Casa Bianca, e il fatto gli da’ parecchio sostegno tra le media degli americani.

Poco dopo questo incontro, il quotidiano israeliano Haaretz riportò una trascrizione palestinese dell’evento, che conteneva una versione delle parole di Bush. Ma la delegazione palestinese era riluttante a riconoscerne pubblicamente l’autenticità.

La BBC ha convinto Shaath a registrare per la prima volta quella che sarà la prima puntata di una serie di tre sulla diplomazia israelo-palestinese: Elusive Peace, che inizia lunedì.

L’elemento religioso emerge come questione importante anche quando si dice che Bush e Tony Blair avrebbero pregato insieme nel 2002 al ranch di Crawford, Texas, durante il vertice in cui si concordò in via di principio l’invasione dell’Iraq. Blair ha seccamente rifiutato di confermare o smentire la notizia.

Mahmoud Abbas, primo ministro palestinese e componente della delegazione di Sharm el-Sheikh, ha dichiarato al programma della BBC che Bush aveva detto: “Ho un obbligo morale e religioso. Devo darvi uno stato palestinese. E lo farò”.

I commenti di Shaath arrivano contemporaneamente al discorso pronunciato da Bush ieri, allo scopo di rafforzare il sostegno americano alla guerra in Iraq.

Ha rivelato che USA e alleati hanno evitato almeno 10 gravi tentativi attentati da parte di Al Qaeda dopo l’11 settembre, fra cui tre contro gli USA. “Grazie a questi progressi, il nemico è ferito: ma è ancora in grado di sviluppare manovre a livello mondiale” ha detto. Ha poi aggiunto che i gruppi radicali islamici hanno usato una serie di scuse per giustificare i propri attacchi, dal conflitto con Israele alla Crociate di mille anni fa.

“Siamo di fronte ad una ideologia radicale con obiettivi immutabili: mettere in schiavitù intere nazioni e intimidire il mondo” ha proseguito.

Ha ammesso che Al Qaeda, guidata in Iraq da Abu Musab al-Zarqawi, e altri gruppi, hanno guadagnato terreno, ma che gli USA non se ne andranno sinché non sarà ristabilita la sicurezza. “Alcuni osservatori commentano che l’America farebbe meglio ad uscirne, diminuendo il numero delle vittime. È un’illusione pericolosa, da respingere con una semplice domanda: saranno più, o meno sicuri, gli Stati Uniti e le altre nazioni, con Zarqawi e Bin Laden che controllano l’Iraq, la sua gente, le sue risorse?”.

Nota: il testo originale di questo altrettanto originale pezzo, al sito del Guardian (f.b.)

Londra ancora sotto attacco. La stessa scena del 7 luglio: tre bombe nei vagoni della Tube, un quarto ordigno su un autobus, esattamente come due settimane fa. Lo stesso esplosivo. Probabilmente la stessa «rete» locale jihadista. Il significato simbolico è evidente: siamo noi, siamo molti, possiamo colpirvi ancora. E possiamo farlo nello stesso modo. Una sfida che solo l´imperizia dei nuovi stragisti non ha trasformato in una nuova terribile tragedia.

L´intento è evidente: seminare il panico. Colpire in uno dei suoi gangli vitali, il sistema dei trasporti, una metropoli occidentale: riuscire a paralizzare con il terrore chi aveva fatto della frase "Non abbiamo paura", una parola d´ordine sentita e condivisa da tutti.

È il terrore a lungo annunciato da Osama bin Laden nei suoi proclami, quando sosteneva che gli occidentali non sapevano che cosa volesse dire, contrariamente ai popoli musulmani, vivere nella paura. Ora, sembrano dire gli jihadisti di Londra, lo sapete. Il luglio londinese sembra, dunque, il segnale che l´attacco massiccio all´Europa è iniziato.

Piccoli gruppi locali possono causare, con i loro attacchi diffusi, enormi danni e vittime. Un esempio che, purtroppo, può essere seguito da altre cellule. Nel resto d´Europa e in Italia. Il rischio è che questo terrorismo a «bassa intensità simbolica», diventi endemico. La strategia di contrasto è quella più volte indicata dallo stesso Blair: prevenzione, intelligence, integrazione delle comunità musulmane in Europa. Ma il ciclo politico dello jihadismo europeo potrebbe essere solo all´inizio. La sua struttura cellulare ne favorisce la riproduzione. Il XXI secolo si apre con un problema enorme: estirpare le radici dell´odio verso l´Occidente di quanti hanno scelto la strada del radicalismo islamico. La natura della sfida è chiara: solo se si riuscirà a debellare il terrorismo jihadista si riuscirà a evitare che le sirene xenofobe intonino il canto della criminalizzazione dell´intera comunità islamica europea.

In caso contrario il rispettivo richiamo identitario inasprirà il conflitto. Anche questo è l´obiettivo degli jihadisti londinesi: fare dell´Europa il terreno dello scontro tra civiltà all´interno di un medesimo spazio sociale. Una prospettiva terrificante, che va scongiurata con ogni mezzo.

Al terrorismo di Al Qaeda rischia di non mancare la manodopera: c´è una gioventù islamica che si sente umiliata da un senso di inadeguatezza della propria appartenenza religiosa e culturale, che teme ossessivamente la contaminazione con il sistema di valori occidentale. Sensazione che coinvolge anche parte dei musulmani in Occidente, incapaci di vivere una non facile identità plurima. E che di fronte a un integrazione che può apparire, talvolta. soddisfacente sul piano economico e sociale ma non su quello culturale, fanno ricorso, saccheggiandone il repertorio simbolico, alla loro identità originaria. Un´identità di riserva, talvolta inabissata, ma come in un fiume carsico, pronta a riemergere impetuosamente nel momento in cui vi è bisogno di marcare una differenza antagonista. Identità rivisitata non secondo i canoni tradizionali ma attraverso quelli islamisti radicali, capaci di parlare a individui che vivono nella modernità, anche spuria, e di fornire risposte che semplificano la complessità di un ambiente sempre più permeato dal "politeismo dei valori". Quando quei giovani, occidentali o meno, si arruolano nelle file qaediste e decidono di "sacrificarsi" il loro obiettivo non è tanto la nascita o la liberazione di una nazione ma la ricostituzione della comunità. O meglio di una neo-comunità. Una neo-umma continuamente agognata ma impossibile da ricostituire, minata com´è in partenza dal suo essere comunque contaminata dalla quotidianità e dal contatto con l´Occidente divenuto globale. Il "martirio" diventa così, anche, l´inconscio tentativo di sfuggire alla morte della comunità impossibile; di spargere lutto per evitare di elaborare, nuovamente, il lutto. Quando questa "infelicità con desiderio" incontra la filiera organizzativa che la mette in forma, come nel caso londinese, il risultato è devastante. È il terrore.

Anche per questa sua funerea natura, per il suo "essere per la morte", il "martirio" neo-ummista è un alto fattore di rischio. La sua volontà autodistruttiva diventa collettivamente distruttiva. Il solo contrasto poliziesco o di intelligence non è sufficiente a impedire il proliferare e l´attivazione delle bombe umane. La battaglia delle idee, quella per l´interpretazione della tradizione religiosa, la ricostituzione di un senso della vita tra i giovani fedeli di Allah nel mondo islamico e in Occidente, diventa così parte integrante delle esigenze di sicurezza di ciascuno di noi.

Quindici anni e più di spoliticizzazione della società italiana precipitano in quella cristallina cifra del 25,9% di cittadini e cittadine italiani che hanno ritenuto utile esprimersi sulla legge sulla procreazione assistita. Cifra cristallina, e sconfitta cristallina per chi, noi compresi, aveva creduto nel referendum non solo per correggere una pessima legge, ma anche per imporre all'attenzione pubblica un tema importante e i suoi importanti risvolti politici. Tecnicamente, sarebbe stato meglio attendere che la legge venisse bocciata - come prima o poi accadrà - da una pronuncia della Corte. Tatticamente, sarebbe stato meglio affidarsi al solo quesito abrogativo complessivo, quello proposto dai radicali e bocciato dalla Consulta, più chiaro e più comunicabile dei quattro quesiti parziali, troppo oscuri e troppo tecnici. Ma ormai non è questo il punto. E non è nemmeno l'usura dello strumento referendario, che pure c'è e pure domanda una riforma, ma non può diventare un alibi - l'ennesimo alibi da ingegneria istituzionale - per non leggere più spietatamente il risultato. Il punto è che la valenza generale, culturale e politica, del referendum non è passata nell'opinione pubblica, che evidentemente l'ha vissuto come una marginale consultazione su una questione di pochi e per pochi (fatti loro), o peggio, come un sibillino regolamento di conti interno alle due coalizioni che si contendono il governo del paese. Il che vuol dire però che il fronte referendario non è riuscito a comunicare nemmeno al suo elettorato di riferimento l'importanza dirimente delle poste in gioco che la materia della procreazione assistita trascinava con sé: libertà personali, laicità dello Stato, qualità della legiferazione, statuto della maternità, della paternità e della famiglia, rapporto fra politica, scienza e diritto nel governo della vita. S'era già visto del resto negli otto anni di iter della legge: a sinistra mancava un discorso all'altezza della sfida bioetica, non subalterno al moralismo cattolico e non ossessionato dalla contrapposizione o dalla mediazione con le gerarchie vaticane.

E' in questo vuoto che i fondamentalismi attecchiscono, non solo in Italia; è in questo vuoto che le «guerre culturali» prosperano, seminando certezze sull'Embrione, la Vita, Frankenstein, e gettando nel discredito l'intera tradizione critica della modernità. Non è l'antico conflitto fra laici e cattolici, Repubblica e Vaticano, Peppone e Don Camillo. E' una nuova mappa delle appartenenze in cui il tradizionalismo cattolico si salda con la rivoluzione conservatrice dei teo-con: una miscela aggressiva che consente alla Cei di cantare vittoria contro «l'assioma modernizzazione-secolarizzazione», spalleggiata dai nuovi intellettuali atei che recitano cinicamente il Verbo di Dio.

L'America che ha premiato Bush è arrivata in Italia? Si direbbe di sì, ma con molta convinzione in meno e molta indifferenza in più: lì si contavano voti con le percentuali di partecipazione in salita, qui contiamo astensioni con i quorum in discesa. Il nuovo fondamentalismo germoglia nel deserto dell'apatia e del disincanto. Malgrado la convinzione spesa nella campagna referendaria dalle principali testate nazionali della carta stampata, segno inequivocabile di una rottura allarmante nel circuito di formazione dell'opinione pubblica, forse ormai irreversibilmente prigioniera dell'audience televisiva. E segno altresì di una crisi di rappresentazione, prima che di rappresentanza, della società, diventata imperscrutabile nei suoi umori e nelle sue oscillazioni. Quand'è così, è da un paziente lavoro culturale che la politica deve ripartire: preoccupandosi di incollare le parole all'esperienza, prima che i leader alle sigle di partito e di coalizione.

L’Europa sta tornando a combattere per il proprio Lebensraum, il suo spazio vitale? Al tempo dei nazisti Lebensraum voleva dire espansione, assoggettamento e annientamento di altri popoli: un processo culminato con il programma di schiavizzazione degli slavi e di annientamento "scientifico" di ebrei e zingari. Oggi la rivendicazione di uno spazio vitale significa barriere sempre più alte contro l’immigrazione di uomini e donne (non popoli, né nazioni; e meno che mai eserciti o Stati in armi); e poi, segregazione; internamento; cacciata e deportazioni, che sempre più spesso si concludono con l’eliminazione delle persone coinvolte: a volte fisica (in un naufragio o in un abbandono in mezzo al deserto); quasi sempre civile e umana.

Si associa alla rivendicazione del nostro Lebensraum, e della sua legittimità, proprio come allora, una vantata superiorità, etnica e culturale, della "civiltà" occidentale (su cui ci richiama, con martellante ripetizione, un’aspirante senatrice della Repubblica); o, più banalmente, la difesa oltranzista di un benessere, vero o presunto, fatto coincidere con il nostro stile di vita; stile di vita "non negoziabile", per usare un’espressione di Bush; anche se per lo più sotto attacco da parte di quegli stessi Governi che se ne dichiarano paladini.

Al posto dei forni verso cui venivano convogliati come mandrie gli "uomini di troppo" che i nazisti dovevano annientare, ecco ora aprirsi le discariche del deserto, verso cui risospingere, senza alcuna preoccupazione per la loro sopravvivenza, gli "uomini di troppo" che l’Europa, e per suo conto l’Italia, non vuole accogliere (Rimandiamo chi trova questo paragone eccessivo ai reportage sul tema che Claudio Gatti ha pubblicato recentemente su L’Espresso). Certo per ora si tratta di poche migliaia di refoulés, deportati in Libia e in Egitto, contro i milioni annientati nei campi di sterminio nazisti o sovietici. Ma quanto a misura, i profughi provvisoriamente sistemati in campi da cui non possono più uscire sono ormai oltre 20 milioni; alcuni dei quali da ormai tre e più generazioni. Che ne sarà di loro?

Per gli ebrei caduti sotto il tallone del Terzo Reich non c’era via di fuga possibile; le frontiere erano chiuse e la disponibilità ad accoglierli degli Stati che mantenevano con i territori di provenienza dei canali aperti si faceva di giorno in giorno più stretta: di qui la forza assunta dal sogno di Israele, di un territorio fisico dove ricostruire la propria Gerusalemme: un sogno dalle radici tanto forti, profonde e legittimate, da resistere al peggiore logoramento; fino a costituire probabilmente l’elemento di maggiore continuità tra il disordine dell’Europa di ieri e quello del mondo di oggi. Ma gli immigrati deportati perché per loro non c’è posto nel Lebensraum europeo magari dopo essere fortunosamente scampati a un naufragio, essere stati accatastati e violati come topi in un centro di permanenza temporanea (CPT), essere stati imbarcati in un viaggio verso il nulla dentro velivoli sigillati, sorvolando le coste da cui si erano imbarcati per un percorso di sola andata, perché il loro paese di origine non li vuole, non li sa nutrire, li massacra, li usa come carne da cannone – quegli "immigrati", dove troveranno mai la loro Gerusalemme?

D’altronde non è difficile immaginare che le dinamiche che si sviluppano in una barca che affonda, in un CPT sottratto a qualsiasi ispezione, o ai piedi della scaletta di imbarco per un volo di deportati, non siano molto differenti da quelle che si potevano innescare in un lager o in un gulag: mors tua, vita mea. La dottrina dell’annientamento dei clandestini non è ancora stata enunciata e forse non lo sarà mai (anche se già nella recente campagna elettorale c’è stato chi si è fatto raffigurare con la spada in mano, sopra un mucchio di cadaveri con su scritto "immigrati, terroristi, centri sociali, criminalità"); ma la pratica, quella sì, è già iniziata.

E’ merito di Zygmunt Bauman (Vite di scarto, Laterza, 2005) aver dato risalto, affrontando questo problema centrale del nostro tempo, all’analogia tra i rifiuti materiali dei processi di produzione e di consumo e i "rifiuti umani" generati dai processi storici. Le successive modalità di smaltimento dei rifiuti umani si rivelano in questo saggio una potente chiave di interpretazione della storia: lo sviluppo capitalistico, durante la fase di accumulazione originaria, aveva creato un "esercito industriale di riserva" (è il termine utilizzato da Marx), cioè una massa di popolazione "superflua" che il colonialismo e l’imperialismo classico si erano incaricati di "smaltire", almeno per la parte eccedente il fabbisogno potenziale di una fase espansiva del ciclo economico, in territori conquistati in continenti lontani (per rendere più problematico il ritorno) e considerati "vuoti", solo perché abitati da popoli cui non si voleva riconoscere il titolo di membri del consesso umano.

Ma oggi il mondo è "pieno". Come non esiste più una noman’s land in cui abbandonare gli scarti della produzione e del consumo, perché la popolazione è cresciuta, si è sparpagliata e le infrastrutture hanno saturato il territorio – e per questo il problema dello smaltimento dei rifiuti, quasi ignorato agli albori dell’era industriale, ha acquistato un’importanza crescente – così non esistono più "frontiere", West, continenti, paesi, territori "spopolati": cioè privi, più ancora che di abitanti, di attività economiche e di presenze istituzionali (siano esse Stati legittimati dalla cosiddetta Comunità internazionale, ovvero "Signori della guerra" locali) verso cui convogliare la popolazione eccedente. Eccedenze che oggi e questa è la novità del nostro tempo si generano a ritmi molto più rapidi nei paesi già coloniali che nei paesi già colonizzatori. La discarica permanente, come sistema di smaltimento dei rifiuti, non è più praticabile. E’ stata sostituita, per ora, e in attesa di una soluzione definitiva, dal "deposito temporaneo", di cui i CPT, in Italia o all’estero, sono un esempio emblematico. Ma si tratta di un palliativo, perché all’orizzonte si delinea con sempre maggiore chiarezza la prospettiva del campo di sterminio: possibilmente gestito da una schiera di stati "ascari" – gli stessi verso cui alcuni servizi segreti inviano i sospetti che non possono torturare in patria disponibili a fare i kapo in conto terzi.

E noi? Il popolo dei non refoulés? Ci ritroviamo beneficiari, se non anche difensori, del nostro Lebensraum protetto contro le torme degli immigrati "invasori": pronti ad accettare i costi di questa protezione, per lo meno finché a pagarli saranno altri e a noi sarà data la possibilità di ignorarli. Sappiamo però come è finita in altri tempi la storia del Lebensraum; non solo per le sue vittime designate, ma anche per chi ne avrebbe dovuto beneficiare; e quali costi abbia comportato per tutti la pretesa superiorità di un popolo. Così, il parallelismo tra rifiuti umani e rifiuti materiali sviluppato da Bauman (la cui visione artigianale e preindustriale del riciclaggio, tuttavia, ancora legata più allo stato dell’oggetto dismesso che alle sue potenzialità, poco ci aiuta in questa ricerca) lascia comunque, intravedere una possibile via di uscita.

Sono stati i costi di smaltimento (non solo economici, ma anche ambientali, sociali e politici) sempre più alti, e non certo il desiderio di mantenere integre le risorse della natura, a sospingere, seppure con molta ritrosia, industria e governi lungo la strada del recupero e del riciclaggio, strumenti essenziali di salvaguardia del pianeta. Una valutazione rigorosa dei costi economici, ma soprattutto sociali, culturali e umani della difesa del Lebensraum europeo potrebbe sospingerci verso atteggiamenti più rispettosi delle "risorse umane" che la globalizzazione sta mettendo in circolazione in tutto il pianeta.

Crepuscolo del Cavaliere

Da Titano a Titanic. Da la Repubblica del 16 aprile 2005

IMPALLINATO come un qualsiasi governo Forlani, impastoiato nei riti peggiori della Prima Repubblica, Silvio Berlusconi conosce la seconda crisi della sua alterna parabola ultradecennale da presidente del Consiglio. Nel ‘94 lo affondò Umberto Bossi, urlando contro i «porci democristiani» che osarono minacciare le «pensioni padane», propiziando la lunga e dolorosa traversata nel deserto del governo Dini. Nel 2005 lo affonda il post-democristiano Marco Follini, rompendo con "il fronte del Nord" leghista che ha preso in ostaggio la coalizione, snaturando irreparabilmente il progetto di un centrodestra responsabile e presentabile.

Manca il sigillo "tecnico" delle dimissioni del primo ministro. Ma dopo il ritiro della delegazione Udc dal governo, per Berlusconi è già, a tutti gli effetti, crisi politica. Il Cavaliere avrebbe un solo dovere. Recarsi dal Capo dello Stato per riferirgli l´esito negativo del vertice della Cdl, come aveva promesso di fare nell´incontro al Quirinale di tre giorni fa. Rimettere nelle mani di Ciampi il suo mandato. E poi chiedere immediatamente le elezioni anticipate. Sarebbe la soluzione più corretta e lineare sul piano istituzionale. E invece Berlusconi la rifiuta, confermando la sua natura "aliena", al sistema di regole e alla prassi costituzionale: la crisi di governo non è un suo affare personale, che può regolare nei modi e nei tempi che gli convengono di più, come se si trattasse di un consiglio di amministrazione della Fininvest.

Ma a questo punto, il voto sarebbe anche la soluzione più sensata e conveniente dal punto di vista politico. Il Cavaliere non può governare senza l´Udc. Non si può illudere nemmeno di tirare a campare con l´appoggio esterno dei centristi. Sarebbe uno stillicidio estenuante per quel che resta della Cdl, e un´agonia insopportabile per il Paese. Senza Udc e Nuovo Psi il perimetro del centrodestra si riduce a 298 seggi alla Camera (rispetto a una maggioranza di 309) e a 140 seggi al Senato (rispetto a una maggioranza di 161). Con le riforme, il Dpef e una Finanziaria delicatissima da varare, in appena 59 giorni utili di lavori parlamentari, il governo sarebbe costretto al Vietnam quotidiano dei franchi tiratori.

Pur nel suo incurabile delirio di onnipotenza, anche il premier, almeno di questo, si deve essere convinto. Tenta di recuperare Follini anche a costo di sottostare a quello che gli deve apparire come un «ricatto intollerabile». Ma cerca di farlo a modo suo. Nascondendo la verità, a se stesso e al Paese. Manda Letta sul Colle, e si dichiara pronto ad andarci a sua volta, dimissionario, solo con la soluzione "chiavi in mano" della crisi. Con un Berlusconi-bis che finga di recepire le richieste programmatiche dell´Udc (le stesse scritte inutilmente un anno fa sul famoso "preambolo", che avrebbe dovuto chiudere la verifica). E che finga di esaudire la pretesa di «discontinuità» con correzioni marginali alla squadra di governo. Marco Follini non ci sta. E per ora tiene duro. Gli va dato atto, questa volta, di aver dimostrato coraggio e coerenza. Un "partitino" del 5%, per salvare almeno in apparenza la tradizione dorotea ma più nobile del cattolicesimo democratico, ha fatto saltare gli ingranaggi di quella che fu la felice "fabbrica del consenso" berlusconiana. Il coraggio e la coerenza che invece, ancora una volta, sono mancati a Gianfranco Fini. Ha le stesse perplessità di Follini sulla gestione "padronale" del Polo. Coltiva la stessa idiosincrasia politica rispetto al frontismo dittatoriale dell´asse Forza Italia-Lega. Ma di nuovo si è sfilato dalla resa dei conti. Confermando la cultura gregaria di An. Un "partitone" del 12%, immobile e imprigionato tra il suo passato (che lo risucchia nel gorgo impresentabile della destra sociale post-missina) e il suo presente (che lo costringe a un´adesione puramente utilitaristica alla "catena di comando" del premier). Una forza inutile, che risulta sdoganata per la storia (anche se con tanta, troppa fretta), ma non ancora per la politica. Una forza debole, che non riesce quasi ad esistere se non come sbiadito "correntone" del partito azzurro.

Su quali gambe potrà mai camminare allora una maggioranza del genere, quand´anche riuscisse a uscire da questa crisi? È questa la domanda vera, che oggi dovrebbe guidare le scelte del Cavaliere. Molto più che lo spirito di vendetta, sempre più dannoso per il Paese. O il falso mito dell´invincibilità, ormai offuscato da troppe cadute. Quello che è successo ieri, in fondo, era insieme inevitabile e impensabile. Inevitabile, perché il tracollo delle regionali ha solo sancito la fine conclamata di un modello politico, il berlusconismo, che in realtà era in stato comatoso già da un pezzo, e che solo l´irriducibile vocazione al combattimento del Cavaliere e l´ingestibile "vincolo di coalizione" dei suoi alleati tenevano ancora artificialmente in vita. Impensabile perché solo tre anni e mezzo fa questo stesso centrodestra, sotto le insegne trionfali dell´Imprenditore d´Italia, aveva conquistato nel Paese e in Parlamento la più ampia maggioranza della storia repubblicana, e aveva sbaragliato un centrosinistra costretto a vagare tra le macerie post-uliviste. In quel giugno del 2001, nell´opposizione lacerata da una sconfitta rovinosamente subìta e nell´altra metà dell´Italia inebriata dal "sogno azzurro" finalmente compiuto, il dibattito ruotava intorno a un unico dubbio: Berlusconi al governo durerà "solo" dieci anni, oppure andrà avanti per non meno di tre legislature?

Non è inutile ricordarlo, nel giorno in cui quella maggioranza si sfascia tra le spinte rivendicative di un´identità irrisolta e quel sogno naufraga sugli scogli di una leadership inaridita. Comunque vada a finire questa crisi, resta un dato politico, che pesa fino quasi a schiantarla sulla biografia berlusconiana: il Cavaliere ha fallito. È costretto a rinunciare alla sua grande ambizione (restare negli annali come il primo premier di un governo durato l´intera legislatura) perché ha dilapidato un patrimonio politico enorme. Ha demeritato per le ragioni esattamente opposte a quelle che Angelo Panebianco gli ha riconosciuto qualche giorno fa sul Corriere della Sera: non ha creato «una destra di governo», non ha «dato a questa destra un´ideologia spendibile contro la sinistra», non ha contrapposto «la visione dinamica e ottimista di chi scommette sul liberalismo economico, sulle virtù dell´individualismo, sulla moralità del profitto, sulla centralità, civile e non solo economica, dell´impresa e del mercato». Con lui è salita alla guida del Paese una destra avventurista e populista, totalmente diversa e "altra" rispetto a tutte le destre al governo in Europa. Con lui, attraverso il patto di ferro con il Senatur, si è affermato un ideologismo socialmente "contundente" e politicamente radicale, nel quale non si può riconoscere quell´area "di mezzo", quell´elettorato moderato senza il quale non si governa un Paese in eterna transizione come l´Italia.

Con lui è andato al potere un premier che, attraverso l´esasperazione del suo conflitto di interessi, ha fatto strame del liberalismo economico. Un premier che, attraverso la pubblicizzazione della sua vicenda giudiziaria privata, ha ridotto fin quasi ad annullarla la soglia della moralità del profitto. Un premier che, come ha ripetuto proprio ieri il leader della Confindustria, non si è mai occupato seriamente della "centralità dell´impresa" (se non della sua Mediaset) e non ha mai praticato davvero le virtù del mercato (dove sono le privatizzazioni, dove sono le liberalizzazioni e le riforme degli ordini professionali?). Inchiodato a una formula improduttiva che Luca Lanzalaco (nel suo libro appena uscito dal Mulino, "Le Politiche istituzionali") chiama "riformismo declamatorio", Berlusconi non ha saputo rispondere alla domanda di modernizzazione che arrivava proprio dai suoi elettori. Di fatto, ha tradito il "blocco sociale" che lo aveva mandato a Palazzo Chigi, come ha riconosciuto perfino Sandro Bondi, sul Riformista di ieri.

Adesso, per uscire dalla crisi, il Cavaliere potrà anche farsi tentare ancora una volta dalle soluzioni più estreme. Potrà anche ricadere nell´azzardo, in puro stile dannunziano, di cui ieri scriveva Giuliano Ferrara sul Foglio («c´è un anno di contratto ancora, e via, fino in fondo, fino al fondo»). Potrà anche rinchiudersi un´altra volta in trincea, sfidando tutto e tutti insieme alla Lega e ad An, fino alla fine della legislatura. Da solo, come ha sempre fatto, nella sua visione titanica, messianica e irrimediabilmente egotistica della politica. Ma ormai niente sarà più come prima. «Non vi libererete tanto facilmente di me...», ha tuonato ieri, all´apice della sua rabbia di monarca autocratico e spodestato. Per l´Italia è più una minaccia che una rassicurazione. La metafora è usurata, ma stavolta ci sta tutta: questo non è più Titano, è solo Titanic.

Mario Pirani Costituzione sfasciata

Non tutto è perduto; a condizione che l’opposizione cambi strada. Das la Repubblica del 23 marzo 2005

OGGI è una giornata tra le più nere per la nostra Patria da quando essa è risorta a vita democratica. Il Senato approverà, infatti, in queste ore, così come ha già fatto la Camera, una riforma costituzionale devastante. Entro tre mesi, quindi, il Parlamento potrà procedere alla seconda lettura, poco più di una formalità, poiché non saranno ammessi emendamenti e un rapido voto a maggioranza sancirà un esito scontato in partenza. Resterà, come ultima speranza, il referendum popolare che, peraltro, Berlusconi vorrebbe far slittare a una data posteriore alle elezioni politiche.

Quando in un discorso ai capi gruppo dell’Unione (11 marzo us) Romano Prodi mise in guardia gli astanti, ma altresì l’opinione pubblica, contro l’incombente pericolo di un testo che conteneva le premesse di una dittatura della maggioranza e, ancor più, di una dittatura del premier, non mancò chi considerò il suo intervento eccessivo e allarmistaPurtroppo Prodi aveva perfettamente ragione non solo per l’impianto dirompente di una riforma alla cui discussione e approvazione sono state imposte poche ore contingentate di dibattito parlamentare ma per la sostanziale timidezza e disattenzione con cui il centro sinistra ha affrontato un passaggio istituzionale di una gravità senza precedenti. È pur vero che a palazzo Madama i senatori del centro sinistra avevano durante tutto l’iter della legge esercitato una tenace azione di contrasto, ma questa non aveva trovato alcun riscontro esterno. In questo contesto persino i cartelli di protesta e la bagarre di ieri a palazzo Madama danno ormai solo l’impressione di un tardivo risveglio all’ultima ora dell’opposizione.

Esaminerò più avanti quelle che a me appaiono le colpevoli motivazioni di un simile comportamento. Ora vorrei partire dalla via d’uscita suggerita in extremis da Michele Salvati (Corriere del 19 us), a mio avviso del tutto improponibile. Il prestigioso economista (ormai anche politologo di valore) reputando fondato lo "sconcerto di fronte a un altra Costituzione, né più né meno... radicalmente riscritta... che modifica in profondità le funzioni e i poteri di tutti gli organi dello Stato... attraverso tempi strettamente contingentati, tanto che il maggior partito di opposizione si è visto assegnare un’ora e mezza per discutere i 57 articoli del testo", suggerisce all’Ulivo di giocare una carta: approvare con voto bi-partisan gli articoli sulla devoluzione e mettere così al riparo la Lega dal pericolo di un referendum abrogativo, chiedendo, in cambio, il rinvio del resto della riforma a una futura assemblea costituente, in concomitanza con la prossima Legislatura. Se questa idea, peraltro tecnicamente del tutto problematica, dovesse trovare uno sbocco, magari alla vigilia delle riletture al Senato e alla Camera, l’Ulivo non giocherebbe una carta "illuministica", come crede Salvati, ma si giocherebbe la faccia, per usare un eufemismo gentile.

La devoluzione, nella nuova formulazione, approfondisce le crepe all’unità d’Italia già inferte in una stagione di pulsione suicida dal centro sinistra al termine della passata Legislatura, allorquando modificò unilateralmente il Titolo V della Costituzione. Ora il nuovo testo non solo assegna la competenza legislativa esclusiva alle Regioni in settori decisivi quali la scuola, la sanità, l’assistenza (con la disarticolazione della scuola pubblica e del servizio sanitario nazionale), con allegata la costituenda polizia regionale, ma vi aggiunge tutte quelle materie non comprese fra quelle riservate esplicitamente allo Stato, e, cioè, commercio, agricoltura, artigianato, turismo, industria (con eccezione per l’energia). Or bene, nei grandi e piccoli Stati federali, dalla Germania alla Spagna, dal Belgio al Canada la competenza non è mai esclusiva delle regioni ma è sempre mitigata da qualche clausola che legittima la potestà d’intervento federale anche nelle materie attribuite alla legislazione decentrata. La Costituzione tedesca, ad esempio, afferma che il Parlamento federale ha diritto di legiferare in ogni campo qualora questo sia necessario per tutelare l’unità giuridica o economica del Paese e l’eguaglianza nell’esercizio dei diritti dei cittadini. Negli Stati Uniti sono indicate solo le competenze federali esclusive, ma quando Washington lo ritenga necessario la Casa Bianca e il Campidoglio le estendono a piacimento: così, pur non essendo la Sanità compresa fra le materie federali, le fondamentali leggi sull’assistenza sanitaria (Medicaid e Medicare) sono approvate e finanziate su scala federale.

Tralascio altri esempi solo per ragioni di spazio. Comunque non vi è una costituzione federale paragonabile a quella che l’Italia si appresta a darsi e che ci trasformerà, se le cose andranno nel senso voluto da Berlusconi e Bossi, con l’acquiescenza imperdonabile dei loro alleati, in una specie di confederazione di regioni indipendenti. Basta riflettere ai contenuti della devoluzione per respingere, quindi, ogni idea di scambio che, oltretutto, determinerebbe un affievolimento del deterrente referendario, privato del potente anelito a salvare e ricomporre l’unità d’Italia.

Quanto al resto della cinquantina di articoli riscritti essi sconvolgono e in buona parte annullano la Costituzione repubblicana del 1947: definiscono una nuova forma di governo, cambiano la struttura del Parlamento, modificano i caratteri dello Stato, rivedono al ribasso i poteri degli organi di garanzia (Presidenza della Repubblica, Magistratura, Corte costituzionale, ecc.), rendono quasi ingestibile la formazione delle leggi. Non è poi vero che la riforma lasci integra la prima parte della vecchia Costituzione che riguarda i diritti fondamentali del cittadino. Questi diritti, formulati in linea di principio nella prima parte, formalmente non toccata, della Carta costituzionale, trovano concreta applicazione nella legislazione corrente che è regolata attraverso la cosiddetta riserva di legge. Il suo depotenziamento mette ora a rischio il diritto di famiglia, compresa la disciplina del divorzio e dell’aborto, il diritto del lavoro, compreso lo sciopero, le libertà sindacali, ecc, il diritto penale e quello civile, l’ordinamento giudiziario e la giustizia amministrativa. D’ora in avanti, se la riforma non verrà affossata dai cittadini, le leggi in moltissimi casi saranno il prodotto della volontà della sola Camera dei deputati, nella quale il premier, in forza del sistema maggioritario (costituzionalizzato dal nuovo art. 92) avrà, comunque, una maggioranza sicura (anche nel caso non abbia ottenuto la maggioranza dei voti). Le disposizioni del nuovo art. 94 forniscono al premier uno strumento fortissimo di ricatto sulla sua stessa maggioranza. Egli, infatti, è in grado di esigere l’approvazione in blocco di una legge da lui proposta, abbinandola alla questione di fiducia che, se negata, condannerebbe la Camera all’automatico scioglimento anticipato. Neppure una eventuale maggioranza sostitutiva, con l’apporto dell’opposizione, eviterebbe il decreto di scioglimento, anche se è pur vero che questa spada puntata contro eventuali dissenzienti ha due lame: in una coalizione con ali estreme riottose (ad esempio la Lega, ma analogo discorso può farsi per un governo dell’Ulivo con Rifondazione) se una di queste vuol far saltare il banco, le basta votare anche da sola la sfiducia per ottenere lo scioglimento del Parlamento. Come si vede ad occhio nudo è un testo che trasuda prepotenza e diffidenza, accompagnate da uno scambio improprio tra speculari poteri di ricatto.

Il tutto in un quadro che assomma il massimo della destrutturazione dello Stato unitario al massimo del centralismo autoritario. Berlusconi, se i suoi piani avranno successo, godrà dei poteri congiunti di Bush e di Blair senza le garanzie e i contrappesi che condizionano l’operato del presidente americano e del premier inglese.

Il primo, infatti, non dipende dalla fiducia del Congresso, può opporre il suo veto alle leggi, nomina i giudici della Corte suprema, ma, in cambio, non può sciogliere le Camere, mettere la fiducia sulle leggi, emanare decreti, far passare le sue nomine senza il severo vaglio del Senato; il secondo è sottoposto alla sua maggioranza che può mandarlo a casa e sostituirlo, come è accaduto alla Thatcher ed anche impedirgli di sciogliere i Comuni senza il suo consenso.

Si potrebbe continuare a lungo nell’analisi di questo osceno rifacimento costituzionale. Resta da chiedersi perché il centro sinistra sia rimasto tanto inerte e perché l’opinione pubblica sia stata lasciata praticamente all’oscuro (si è arrivati al cambio della Costituzione senza neppure chiedere un dibattito a Porta a porta, a Ballarò o a l’Infedele). Le spiegazioni potrebbero essere più di una: in primo luogo il complesso di colpa, senza il coraggio di una salutare autocritica, per aver, con la modifica del Titolo V, aperto il varco allo sfascio successivo, nel vacuo proposito di agganciare la Lega o di tagliarle l’erba sotto i piedi: in secondo luogo la speranza balorda che la CdL non avrebbe portato fino in fondo il disegno, una sottovalutazione che dimostra come non si sia pienamente afferrato quanto congeniale ad ambedue i soggetti sia l’alleanza tra Berlusconi e Bossi; in terzo luogo uno scadimento culturale che ha condotto, sia durante la Bicamerale che dopo, ad affrontare i temi del necessario aggiornamento della Carta senza un forte e coerente impianto costituzionale in testa, concependo i punti fondamentali come oggetto di possibile e fortuito scambio politico (così si è arrivati, ad esempio, da parte di autorevoli esponenti del centrosinistra ad abbracciare l’idea del premierato); qualche inespresso pensiero sui vantaggi, comunque, di una Costituzione "forte" nel caso di un futuro cambio di governo; infine l’idea sbagliata che della questione poco importi alla gente (i successi di pubblico delle iniziative volontarie dei Comitati per la Costituzione animati dalla Fondazione Astrid, da "Libertà e Giustizia", dai Gruppi Dossetti con l’adesione convinta delle tre Confederazioni sindacali provano come, viceversa, siano sensibili i cittadini non appena messi in condizione di percepire quale nefandezza si stia compiendo quasi all’insaputa).

Se fino a oggi le battaglie costituzionali sono state tutte perdute dal centro sinistra, è ancora possibile rovesciare le sorti finali del confronto. A condizione di svegliarsi e di cambiare linea.

Non credo che chi detiene Giuliana Sgrena sia così addentro alle cose italiane da aver voluto intervenire con il video e la sua supplica: «lasciate l'Iraq», quattro ore prima del voto al Senato sul rifinanziamento al contingente italiano. Saprebbe che in quella seduta ci sarebbe stata comunque una maggioranza per mantenere le truppe. Eppure la prima interpretazione dei giornali e delle tv è stata quella d'una super operazione preparata a fini italiani. Con quale fondamento? Nessuno. Tanto più se è vero che la consegna del video non è avvenuta ieri l'altro all'hotel Palestine, ma per strada a un giornalista che lo consegnò al comando americano e che questo l'ha passato, non senza esaminarlo, ai servizi italiani. La verità è che dei sequestratori non si sa nulla. E non si vuole ammetterlo, né ammettere che il ritiro sarebbe del tutto ragionevole, come hanno capito altri tredici paesi. Si preferisce discettare sull'abilità della nostra intelligence, scordandosi che quella che fa parte della «missione di pace» si guarda bene dal tenere d'occhio i nostri pochi giornalisti che sbarcano a Bagdad. Forse non ne chiedono l'assistenza, ma che intelligence è se non sa vigilare con discrezione? Certo non vigilava l'uscita dell'università da cui sarebbe necessariamente emersa Giuliana Sgrena, non ha notato le due auto ferme con otto uomini armati dentro, né è intervenuta mentre sequestravano la nostra compagna e le guardie di quel democratico paese sparavano in alto. Se - dice il governo - il contingente deve restare in Iraq per garantire la sicurezza, certo non è quella dei nostri concittadini. Che pure è il primo obbligo dello stato, quello per cui in cambio si sta alle sue leggi e si pagano le tasse. E' sciocca la battuta virtuosa: «Dai terroristi non ci si fa dettare la politica». Nessuno lo pretende. Dai terroristi lo stato deve proteggerti e se non ci riesce deve riscattarti. Lo pensava Moro, lo penso anch'io.

Ma nel pianto della nostra Giuliana c'era l'angoscia di chi non spera che il suo paese la ascolterà. E assieme l'amarezza del capire che qualunque cosa abbia fatto per il popolo iracheno ai suoi sequestratori non importava niente. Perché hanno sicuramente veduto Al Jazeera e sentito la condanna degli Ulema e di Al Sistani, ma lei resta per loro una occidentale e basta. Questo Giuliana ci ha detto: più forte di tutto è l'odio per gli occupanti. E questo dicono tutti quelli che testimoniano dell'Iraq, incluso gli ultimi mercenari americani - nella privatizzazione crescente della guerra sono, secondo Le Monde, oltre 30.000.

E' in questo quadro che, anche a non sentire pietà per la nostra amica, mantenere le nostre truppe in Iraq è privo di senso. Accresce l'odio e basta. Possono riempirsi la bocca di missioni di pace i nostri governanti, coprendosi sotto l'ala del poco glorioso comunicato 1.546 dell'Onu, di fatto avallante una guerra che aveva condannato. L'Italia è andata in Iraq soltanto per essere gradita a George W. Bush. La scarsa quantità dei nostri militari rende loro impossibile far altro che tenersi acquartierati, con scarse sortite per timore degli spari della guerriglia. Alle molto più numerose truppe americane non va molto meglio. I nostri uomini non servono né come pacificatori né come mediatori in una nazione sconquassata fra gli sciiti dell'iraniano Al Sistani, i curdi pieni di rancore, i sunniti esclusi o autoesclusi. In quel tumulto di furore e sangue l'occupazione unifica le etnie soltanto nell'odio che nutrono per essa, del quale il governo Allawi ha pagato il prezzo alle elezioni.

A che serve dunque il nostro contingente se non a garantire all'Italia uno spazietto nel bottino del dopoguerra, sul quale è ormai scesa la zampata americana? Andarsene non è soltanto salvare la vita di Giuliana. Se quel paese potrà risorgere e vincere le sue frange terroriste, lo potrà fare solo a occupazione finita.

Caso Sicilia, la Rai sconfessa Report

di ALESSANDRA ZINITI

PALERMO - Ora la patata bollente passa nelle mani di Giovanni Masotti e Daniela Vergara. Trasmissione "riparatrice" sulla Sicilia quella di "Punto e a capo" della prossima settimana su Rai 2 promessa dal direttore generale della Rai Flavio Cattaneo per placare l'ira del presidente della Regione siciliana Salvatore Cuffaro, indignato per l'immagine dell'isola venuta fuori dall'inchiesta sulla mafia mandata in onda sabato sera da "Report" su Rai 3. Così almeno ha raccontato ieri Cuffaro ai giornalisti chiamati anche per annunciare l'invio di una lettera di protesta al presidente della Repubblica Ciampi e la richiesta di immediata convocazione della commissione di vigilanza della Rai.

Tanto indignato Cuffaro da resistere a stento alla tentazione di lanciare una sorta di rivolta del canone: "Certo, non potrò mai dire ai siciliani di non pagare il canone, ma mi rendo conto che dopo la trasmissione faranno un grosso sforzo nel continuare a pagare il servizio pubblico".

"Dire che la Sicilia di oggi è quella in cui l'80 per cento degli imprenditori pagano il pizzo o se ne vanno e quelli che restano sono costretti a vivere sotto scorta è un falso - ha detto il governatore - . Che ci provoca un grosso danno di immagine proprio in un momento in cui decine di grossi imprenditori del nord vengono ad investire nell'Isola e non certo perché sono collusi con la mafia. Quelli che pagano il pizzo saranno il 5-10 per cento. I magistrati dicono cose diverse? E io non ci credo. I dati veri dicono che il prodotto interno lordo in Sicilia nel 2003 è cresciuto dell'1,8 per cento, ben di più della media nazionale dello 0,4 per cento, e questa è la riscossa di un territorio, della sua voglia di impresa, della cultura della legalità".

Alle proteste di Cuffaro si aggiungono anche quelle dei ministri La Loggia e Giovanardi (ieri a Palermo) e quelle degli imprenditori. In una lettera al direttore di Rai 3, il vicepresidente di Confindustria con delega al Mezzogiorno Ettore Artioli stigmatizza gli "odiosi luoghi comuni secondo i quali tutta la Sicilia sarebbe governata dalla delinquenza organizzata e tutti quelli che si ostinano a vivere e a lavorare in questa regione sono inevitabilmente complici e collusi con la criminalità". E mentre il sindaco forzista di Catania e medico personale di Berlusconi Umberto Scapagnini annuncia "la sospensione di ogni rapporto ufficiale con il servizio pubblico" e un fitto scambio di telefonate Palermo-Roma ventila anche una "ospitata" di Cuffaro in una delle prossime trasmissioni mattutine della Rai, il direttore della terza rete Paolo Ruffini respinge gli attacchi: "Questa polemica proprio non la capisco. Io sono siciliano e la Sicilia la amo veramente. E il programma della Gabanelli, che era assolutamente antiretorico, ha dato voce alla Sicilia perbene, mostrando proprio il contrario di quello che gli viene imputato, ovvero che esistono molti siciliani che si battono contro la mafia. Non è che vietando di parlarne si sconfigge la mafia, la si sconfigge anche denunciandola e dando voce a chi la combatte e la denuncia. Dando voce alla Sicilia perbene".

E a fianco della redazione di Report scende anche il segretario della Fnsi Paolo Serventi Longhi: "Un reportage giustamente e fortemente impegnato ad analizzare la recente evoluzione del fenomeno mafioso in Sicilia. Solo fatti e realtà, per qualcuno forse scomodi".

Da sinistra il commento sconsolato dell'eurodeputato ds Claudio Fava: "Da presidente della Regione siciliana è accusato di aver favorito Cosa nostra, da spettatore televisivo si indigna per un documentario di denuncia sulla mafia. La psicologia del signor Totò Cuffaro è davvero bizzarra...".

Scoppia lo scandalo: parla di mafia

di CURZIO MALTESE

UNA bella inchiesta di Report su Raitre ha interrotto per una sera gli anni di omertà televisiva sulla mafia, con l'eccezione di qualche buona ma innocua fiction.

Puntuale è scattata la censura della maggioranza. Tutti in prima fila, gli esponenti siciliani di Forza Italia, il presidente della Regione Cuffaro, il sindaco di Catania Scapagnini, non per combattere la mafia ma il giornalismo anti-mafia.

Per difendere la "loro" Sicilia "diffamata e offesa" con "vecchie storie", frutto di pregiudizio politico. Senza neppure rendersi conto di usare gli argomenti, il linguaggio, le frasi fatte di un Totò Riina o di tanti mafiosi da film.

In verità i legami fra Cosa Nostra e politica erano stati appena sfiorati dal programma di Raitre, forse nell'illusione di scampare alla mannaia. Ma ormai nella maggioranza dei "61 collegi su 61" basta la sola parola "mafia" per scatenare reazioni isteriche, violente e a volte ridicole. Come la richiesta di ottenere una "trasmissione riparatrice" su Raidue per "mostrare l'altro volto della Sicilia", avanzata da Cuffaro e prontamente accolta dallo spaventapasseri di destra piazzato alla direzione generale della tv pubblica, Flavio Cattaneo. Che ci faranno vedere, carretti e balli folcloristici? Sono anni che in tv, Rai o Mediaset, ci fanno vedere l'altro volto della Sicilia, quello falso, dove la mafia non esiste.

Il torto di Milena Gabanelli e degli inviati di Report è di aver ricordato che la mafia invece esiste ed è tornata a controllare il territorio. Non si sono visti scoop o rivelazioni clamorose nella puntata dell'altra sera.

Soltanto l'ostinato, intelligente racconto di che cos'è la nuova criminalità organizzata, attraverso episodi piccoli e grandi. I tre incendi al locale gestito dal capo dei commercianti anti racket del siracusano, scanditi ogni nove mesi esatti, nell'incredibile impotenza delle forze dell'ordine. Le strane fughe a un passo dall'arresto di Bernardo Provenzano, che dev'essere da trent'anni l'uomo più fortunato del pianeta oppure uno che ha buoni informatori nelle istituzioni. Un'inchiesta seria, documentata, equilibrata, che ha dato voce per una volta alla Sicilia del coraggio e dell'onestà, l'ha fatta sentire meno sola. Un ottimo esempio di quel servizio pubblico che tutti, a parole, invocano dalla Rai.

La censura a Report è l'ultimo episodio di una lunga storia di televisione di regime, cominciata nel 2001 con la vittoria di Berlusconi e il proclama di Sofia contro Biagi e Santoro, proseguita con l'epurazione della satira e dell'informazione indipendente, fino alla grottesca sospensione del Molière di Paolo Rossi domenica scorsa. Ma è anche l'episodio più grave e triste, nella sua cinica prevedibilità.

E' prevedibile ma deprimente che un personaggio come Totò Cuffaro, che deve rispondere alla giustizia dell'accusa di favoreggiamento alla mafia, scateni pubblicamente l'ennesima campagna contro l'antimafia. E' altrettanto scontato ma triste che Forza Italia, il cui fondatore Marcello Dell'Utri è stato condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, metta alla gogna chi indaga sulla mafia. Possibile che nessuno, nel centrodestra, provi imbarazzo per questo processo alla rovescia? Non ci aspettiamo grandi prove di senso dello Stato dalla maggioranza. Ma se è vero che "la Sicilia non è soltanto mafia" neppuro lo è tutta l'Udc o Forza Italia.

E dunque perché lasciar parlare su questi temi soltanto una compagnia di indagati o condannati?

Quanto al danno che queste inchieste e perfino alcuni sceneggiati produrrebbe all'immagine della Sicilia e dell'Italia, vecchia accusa di Berlusconi, bisogna mettersi d'accordo. Un episodio come questo è destinato a fare il giro del pianeta, portando l'immagine più desolante di un'Italia omertosa, governata da amici degli amici.

Qualche mese fa le Monde ha rappresentato una vignetta con Berlusconi che presentava la sua squadra. Da una parte un gruppo di ciechi col bastone e i cani: "I miei elettori". Dall'altra un pugno di ceffi con coppola e occhiali da sole: "I mie collaboratori". La battuta è stata ripresa da tutte le televisioni del mondo, tranne una. Davvero un bel colpo d'immagine, altro che "La Piovra".

Dunque lo Scandalo. Lo scrivo con la maiuscola perché è grosso. Grave. Ma non si deve considerare come uno scandalo che riguarda le banche intese come sistema. Le più grandi ma anche le medie e le piccole ne sono fuori. E quindi tirarcele dentro è improprio e pericoloso.

Riguarda invece due operazioni pubbliche di acquisto (Opa) tentate una su Antonveneta e l´altra su Banca Nazionale del Lavoro che ne sono state oggetti (passivi) e Banca Popolare di Lodi e Unipol che ne sono stati invece i soggetti (attivi). Ma ciò che lo rende grave, anzi gravissimo, deriva dal coinvolgimento evidente della Banca d´Italia, del governatore Fazio, del capo della Vigilanza e (per omissione) del Consiglio Superiore e del Direttorio dell´Istituto. E questo è il primo aspetto della questione.

Il secondo aspetto da considerare è l´inesistenza del governo protrattasi per quasi sei mesi fino ad oggi. Il ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, ci ha fatto sapere l´altro ieri che questa inspiegabile e colpevole inesistenza cesserà martedì prossimo quando si riunirà un Consiglio dei ministri straordinario, tutto dedicato all´argomento e finalizzato all´approvazione di una norma da inserire nella legge sul risparmio, che è rimasta insabbiata per due anni nelle aule parlamentari perché la maggioranza aveva altro da fare.

Questa norma dovrebbe introdurre il mandato a termine del governatore per cinque anni e contenere anche un´appendice transitoria in forza della quale Fazio potrebbe essere licenziato istantaneamente dal governo unito per la prima volta del potere di nomina e di revoca sul governatore e sul Direttorio.

Il terzo aspetto riguarda alcuni partiti, con diverse gradazioni di responsabilità. Nell´ordine: la Lega, il partito trasversale pro-Fazio, Forza Italia, i Ds.

Ciascuno di questi aspetti merita un´analisi attenta che cercheremo di fare con la massima chiarezza e obiettività. Ma prima di addentrarci nel groviglio che si è creato è necessario cominciare da un preliminare che riguarda la magistratura.

Su questo tema osservo una (sospetta) uniformità di giudizio da parte dei politici, sia quelli di governo a cominciare dal presidente del Consiglio sia gran parte di quelli dell´opposizione. Quasi tutti concordano nel sottolineare che la magistratura di oggi

Insomma non è quella di Mani pulite, con l´evidente sottinteso che non commetterà analoghi errori, non sarà analogamente faziosa e giustizialista, non farà tintinnare manette.

Quella triste stagione (aggiungono) che fece tanto male all´Italia si è chiusa per sempre. Questo dicono i politici e ad essi fanno coro molti e importanti giornali, anch´essi "rinsaviti" rispetto ad allora.

Ebbene, io penso onestamente che i magistrati oggi all´opera sullo scandalo delle Opa non facciano altro che muoversi sul tracciato di Mani pulite, che poi non fu altro che un più incisivo funzionamento delle Procure e della magistratura giudicante dopo anni di fin troppo evidente sonnolenza della giurisdizione nei confronti dei reati contro la corruzione pubblica elevata a sistema di governo.

Errori e forzature furono certo commessi nelle inchieste di tredici anni fa e potranno esser commessi anche nello scandalo che abbiamo ora sott´occhi. Ma non tali da inficiare il risultato complessivo e finale. La magistratura di allora bonificò un terreno che la politica aveva lasciato imputridire per tutto il decennio degli anni Ottanta. Così oggi, perché anche oggi dobbiamo ai procuratori di Milano e di Roma e non certo alle forze politiche e al governo, se lo scandalo è emerso in tutti i suoi connotati e se il personaggio che ne è al centro si trova ormai in un angolo dal quale sarà assai difficile che possa uscire.

La magistratura italiana dunque una volta ancora ha reso un servizio al paese il quale deve avere sempre più a cuore la difesa della sua indipendenza.

E questa è la prima conclusione che lo scandalo ci suggerisce.

***

Sul primo aspetto, quello delle due Opa, esiste un tratto unificante e un altro che le fa invece radicalmente diverse una dall´altra.

Il tratto unificante deriva dalla circostanza che le prime Opa sulle due prede furono lanciate da due banche europee non italiane: la Abn Amro (olandese) su Antonveneta, la Banca di Bilbao sulla Bnl. Ad entrambe si oppose il governatore Fazio con affannato moltiplicarsi di appelli, incontri, incoraggiamenti, affinché si formassero cordate e intervenissero "cavalieri bianchi" a difesa dell´italianità del sistema, passando allegramente sopra alle direttive europee in materia di Opa.

In ossequio (interessato) alla difesa del tricolore bancario, nacquero due iniziative: si fece largo la Popolare di Lodi per Antonveneta e la Unipol per Bnl. Fazio fece tutto quanto gli era possibile fare per favorire sia l´una che l´altra, manipolando il calendario delle autorizzazioni e chiudendo tutt´e due gli occhi quando "l´italianità" gli suggeriva di chiuderli.

Qui però finisce il tratto comune e cominciano le differenze tra le due operazioni. Quella promossa da Fiorani si è configurata fin dall´inizio come un´azione truffaldina di manipolazione del mercato, uso di fondi illeciti, ruberie vere e proprie a danno dei depositanti, uso di prestanome e di società offshore e di complici.

Insomma, come si dice un po´ alla greve, un porcaio nel quale Fiorani e soci hanno inzuppato abbondantemente il pane a vantaggio di se stessi oltre che della banca di Lodi della quale da anni avevano fatto il centro delle loro malversazioni.

Niente di paragonabile è accaduto nell´operazione Unipol. Se ne possono non condividere gli obiettivi e l´adeguatezza delle garanzie, ma sulla liceità dell´operazione nessuno finora ha avanzato dubbi. E del resto l´atteggiamento della Bilbao è stato molto diverso da quello della Abn Amro, penalizzata quest´ultima con ben altra durezza dalle scorrettezze del concorrente e dalla complicità della Banca d´Italia.

Quando alcuni esponenti dei Ds difendono il diritto del movimento cooperativo a operare sul mercato alla pari con gli altri soggetti economici «nel rispetto delle regole», sostengono dunque una tesi perfettamente legittima, impugnabile solo per ragioni animate da faziosità politica.

Diverso tuttavia è il caso personale dell´amministratore delegato di Unipol. Risulta dall´inchiesta giudiziaria in corso su di lui che Consorte abbia ottenuto favori personali da Fiorani e lucrato vantaggi illeciti e personali da tali favori. Siamo ancora ben lontani dal rinvio a giudizio e ancor più da un processo vero e proprio, ma queste prime risultanze dovrebbero indurre i dirigenti Ds alla massima cautela e lontananza dal soggetto incriminato.

C´è di più. Già nello scorso agosto in un articolo sull´argomento avevo scritto che un dirigente politico deve osservare un rigoroso silenzio di fronte ad operazioni lanciate sul mercato e regolate da apposite norme, come è il caso di un´Opa. In questi casi la politica deve solo controllare che le norme in vigore siano rispettate e poi, come nelle gare di qualunque tipo, vinca il migliore scelto come tale dal mercato. Quando questo metodo non viene rigorosamente osservato ne derivano soltanto confusione e coinvolgimenti che, essi sì, costituiscono inframmettenze e recano danni di sostanza e di immagine. Ciò vale per tutti i politici, per tutti i partiti. Non capisco perché comportamenti così elementari siano troppe volte ignorati e contraddetti.

***

Sulla grave latitanza del governo durata oltre sei mesi non c´è altro da aggiungere. Fecero eccezione sia Tremonti sia Siniscalco, che chiesero per motivi diversi le dimissioni di Fazio. Ambedue ci rimisero il posto e questo dice già molto sull´intera questione.

Ora si annuncia un provvedimento che dia al governo il potere di nominare e revocare il governatore, a cominciare da subito. E si profila in materia un accordo tra governo e opposizione, ovviamente senza che sia posta la questione di fiducia che renderebbe impraticabile quell´accordo.

Tutto bene perché se c´è un tema bipartisan è quello che riguarda la Banca d´Italia e la sua credibilità scesa ai più bassi livelli, che dev´essere senza ulteriore indugio recuperata.

Tuttavia un provvedimento che dia al governo poteri di nomina e revoca sulla più alta istituzione monetaria nazionale nel quadro, addirittura, della Banca centrale europea, investe una materia delicatissima sulla quale le forze politiche debbono osservare la massima attenzione.

Finora la nomina del governatore è stata un atto "plurimo"; ha implicato infatti il concorso sostanziale di tre distinte autorità: il Consiglio superiore della Banca, il governo, il presidente della Repubblica la cui firma del decreto di nomina non è (ripeto non è) un atto burocraticamente dovuto.

E´ buona l´idea che si individui nel governo anziché nel Consiglio superiore l´organo di iniziativa e di proposta.

Buona anche l´idea di sottoporre la proposta all´approvazione delle Commissioni parlamentari competenti, le quali dovrebbero votare con maggioranza qualificata associando quindi alla nomina e alla revoca anche l´opposizione. Ma è evidente che dev´essere altresì mantenuto il peso specifico della firma del capo dello Stato, cioè della più alta autorità di garanzia esistente nel nostro ordinamento. Il capo dello Stato rappresenta il garante di tutte le altre autorità di garanzia; per quanto riguarda la Banca d´Italia il suo ruolo deve perciò restare determinante dal momento stesso in cui comincia a prender corpo la scelta da compiere.

* * *

Concludo. A differenza di Tangentopoli, dove l´intero sistema pubblico era entrato in crisi deformando la struttura stessa della democrazia, lo scandalo di oggi poteva e doveva essere evitato. Bastava l´azione preventiva degli organi di controllo; invece è stata necessaria quella repressiva della magistratura.

Auguriamoci che serva di lezione. A chi governa oggi e a chi governerà domani. Auguriamoci la sconfitta dei furbi e la vittoria degli intelligenti.

Finora è troppo spesso accaduto il contrario. Il vero cambiamento che attendiamo è proprio questo e speriamo che avvenga.

Cominciamo con l’eliminare le bassezze. Un esponente della comunità ebraica romana ha dichiarato che chiunque non sarà al suo fianco a manifestare davanti all’ambasciata dell’Iran giovedì sera non soltanto è nemico di Israele ma di tutti gli ebrei, e deve sapere che sarà tenuto sotto osservazione. Il saggio amico Amos Luzzatto ha cercato di rimediare osservando che qualcuno sarà impedito di esserci perchè ammalato o all’estero. Io sono in questa condizione. E però non a Pacifici, che una voltami ha additato come terrorista alle sassate dei suoi seguaci, ma a Luzzatto voglio dire che non sarei andata alla fiaccolata neanche se fossi a Roma e sana come un pesce. Primo, perchè nessuno mi farà andare o non andare a una manifestazione sotto minaccia di essere schedata, e non preciserò che cosa questo mi ricordi; secondo, perchè non vedo ragioni di essere a fianco di Calderoli e di Fini e sotto l’egida del Foglio. E con ciò chiuso. Che qualcuno della comunità ebraica possa definirmi per questo antisemita è un problema della medesima comunità. Delle intemperanze del Foglio, che sta varcando il limite tra provocazione e stupidità, non meriterebbe parlare se troppi e troppe non fossero frementi di frequentarne la scena.

E veniamo alle cose serie. Politicamente grave è stata l’uscita di Ahmadinejad sulla necessità di cancellare Israele dalla carta geografica, e miserrimo il rattoppo: ´Ma non sarà l’Iran a cominciare, e del resto sono cose che Khomeini e Khamenei hanno detto per vent’anniª. Grave che una folla di giovani emeno giovani e financo di donne, trattate come sono da quel regime, si sia inebriata per le strade di Tehran di questaminaccia simbolica.

Perchè è un mero simbolo, ancorchè pessimo. Non solo Israele è uno degli stati più difesi, più armati e per certi versi più aggressivi del mondo, e quindi non è certo messa in pericolo dall’Iran, ma quel che gli ebrei hanno subito nel ‘900 fa dell’esistenza di una terra loro, dove non possano mai sentirsi perseguitati o indesiderati, il minimo che l’umanità deve a se stessa. Se c’è qualcosa da cancellare è l’incapacità di molte comunità della diaspora di liberarsi dal senso di essere in un ghetto, di essere isolata e perseguitata, e la parallela incapacità di Israele di presentarsi come in stato d’assedio e quindi di agire in modo conseguente per uscire da quel conflitto in medioriente, nel quale sia ebrei sia palestinesi, spossessati della loro terra, hanno perduto troppe vite e stanno dando il peggio di sé. Non è vero che un forsennato presidente iraniano voglia cancellare lo stato di Israele mente il saggio Sharon riconosce pienamente l’esistenza di uno stato palestinese. Ambedue rifiutano di riconoscersi, si rilanciano minacce di sterminio che fortunatamente non possono mettere in atto, svicolano dai loro problemi reali e danno corda ai reciproci fondamentalismi.

Su questo l’appello a partecipare al presidio di giovedì non dice nè solo nè tutta la verità. E’ una manovra che fa comodo alla destra, viene da uno dei suoi uomini, pretende di misurare la temperatura democratica della sinistra di fronte a uno dei problemi più dolorosi del tempo nostro. Soprattutto è una misera cosa davanti al vero problema di civiltà dal quale è impossibile stornare ormai lo sguardo. Da tutte le parti del mondo ci viene infatti un’analoga immagine: al venir meno di un conflitto civilizzato come è stata e vissuta nel ‘900 la lotta di classe e quella di emancipazione dei popoli, sono conseguite da parte della sinistra l’abbandono di ogni principio, e nei paesi terzi la retrocessione dalla emancipazione all’identità di sangue e terra. È giocoforza constatare che alla fine di un messianesimo terrestre per ingenuo che fosse, dai primi illuministi all’ambizione di creare un soggetto sociale rivoluzionario internazionalista, è sopravvenuta non altro che una regressione dell’una e dell’altra molto al di qua del punto da cui si era partiti.

La fine dei laicismi arabi Ë una catastrofe per quei paesi: davvero solo gli ayatollah potevano liberare l’Iran dalla modernità poliziesca e filoamericana dello scià? Davvero solo la disperazione dei kamikaze può ormai far fronte a Sharon? O Al Qaeda e la sue ramificazioni al venire meno di ogni progressismo arabo? E sono lo sette fondamentaliste, musulmane o indu, che si danno reciprocamente fuoco ma convincono e spesso organizzano i reietti della crescita indiana. Ma anche in occidente sembra che alla mera forza della tecnica del mercato non possa opporsi che la mera visceralità. Non è questa che ha dato spazio negli Stati Uniti ai neocons, in Francia a Le Pen, a Bossi in Italia, ai Kaczynski in Polonia, e si potrebbe continuare? Il modello occidentale trionfante moltiplica i reietti, e i reietti non sono - su questo ha ragione Dahrendorf - il terreno delle rivoluzioni. Sono terreno del populismo.

Così quel che potrebbe essere stato, anche nel caso del presidente iraniano, un dibattito serio nel conflitto politico italiano degenera di colpo in una brutta commedia. Bisognerà pure che qualcuno si decida a dirlo.

Ma davvero è stato il Generale Agosto a sconfiggere l’appello di Paolo Flores d’Arcais e di altri intellettuali a candidare alle primarie un esponente della «stagione dei movimenti»? E davvero di quella stagione non è rimasto quasi più niente, poche gocce di benzina e basta per un centrosinistra destinato a vivere ormai di apparati di partito? Antonio Padellaro ha già dato la risposta fondamentale: il popolo protagonista di quella stagione ha scelto di votare Romano Prodi.

Ma è utile aggiungere qualche altra nota su passato e presente per dare un senso più preciso agli scenari attuali; e per aiutarci a non consegnare né a Berlusconi né alle oligarchie di partito l’immagine di un’Unione senza ossigeno civile.

Torniamo dunque per un attimo all’origine: all’urlo di Moretti, ossia al canonico punto di svolta (e di lancio) di quella stagione. Quella sera di febbraio del 2002 a Piazza Navona le migliaia di persone presenti non erano venute a sentire il regista, il cui intervento fu in realtà uno spettacolare fuori programma. Avevano invece raccolto l’invito alla mobilitazione per una «legge uguale per tutti» di quaranta parlamentari dell’Ulivo. I quali da mesi percepivano il rischio di farsi risucchiare da quello che Gramsci chiamava il «cretinismo parlamentare», ossia la conta imbelle di maggioranze e minoranze mentre la democrazia viene spolpata. Una risposta all’altezza della prima sequenza di leggi della vergogna, così si pensava, sarebbe stata possibile solo con il sostegno di un movimento di popolo. Era il ritorno sulla piazza (come a Firenze e Milano nelle stesse settimane) dopo una lunga stagione di latitanza. Per quei tempi fu un successo, che si avvalse anche dell’aiuto organizzativo di una sezione Ds del centro di Roma. Sul palco venne dato ampio spazio agli esponenti della società civile. Chiuse Moretti con la sua frase iconoclasta («Con questi dirigenti non vinceremo mai»). E suscitò un’ovazione ed effetti tonificanti. Ma resta il dato di fatto: sin dall’inizio parlamentari e società civile procedettero appaiati (nelle loro espressioni più vitali) nell’impegno per difendere le ragioni della democrazia e della decenza istituzionale.

La stessa manifestazione di piazza San Giovanni nacque sull’onda di una forte mobilitazione intorno al Senato (anche allora era agosto...) in cui, dopo un’occupazione notturna dell’aula della commissione Giustizia, si realizzò una indimenticabile fusione tra rappresentanti delle istituzioni e movimento. Di più: l’appuntamento del 14 settembre vide un impegno diretto di tutta l’opposizione (che saggiamente rinunciò a promuoverlo in proprio per facilitare una partecipazione dei cittadini trasversale agli schieramenti politici).

Come dimenticarlo? Per preparare la manifestazione in molte città vennero messe a disposizione le sedi politiche, le feste de l’Unità brulicavano di banchetti per l’organizzazione del viaggio a Roma, non ci fu associazione vicina a questo o quel partito che non si sentisse direttamente impegnata a portare almeno «un pullman a Roma». Non ci fu insomma, quella volta, la nascita di un popolo alla ricerca di una nuova rappresentanza politica. Semplicemente, da un lato si mobilitò un’Italia più incline all’associazionismo civile; dall’altro si espresse al meglio la nuova natura dei partiti, assai più fluidi e sciolti di una volta. Più disposti a «stare nei movimenti» in virtù di una somma di convinzioni individuali e in virtù di direttive centrali.

Non fu l’unico grandioso momento di quella stagione. Il sabato primaverile dei tre milioni di Cofferati, il febbraio successivo con altri tre milioni per la pace, segnarono un ciclo di partecipazione senza precedenti nella storia d’Italia, con cifre da fare impallidire il pur mitico Sessantotto.

Poteva durare all’infinito? Certamente no. I grandi movimenti si formano per combinazioni chimiche irripetibili allestite dalla Storia (da noi, pare, a cicli quasi decennali: ’68-’72, ’77, ’90-’93, 2002-’03). Questo spiega perché, fuori da quelle combinazioni chimiche, una nuova san Giovanni oggi non sia pensabile neanche per la SalvaPreviti, che pure è dieci volte peggio della Cirami. E perché oggi, diciamo dal lodo Schifani in poi, si lamentino vuoti politici su una sponda o sull’altra.

Talvolta con i cittadini più attivi che si sentono privi di una adeguata rappresentanza politica. Altre volte con i parlamentari più sensibili che si percepiscono, nei vuoti di attenzione dell’opinione pubblica, alla stregua di liberi professionisti dell’opposizione. E tuttavia sarebbe sbagliato non cogliere il dato di fondo di questa quiete apparente dell’agosto 2005. Essa in fondo si è prodotta anche perché, da quel 2002, il centrosinistra ha infilato una vittoria elettorale dopo l’altra così che oggi il popolo dei movimenti guarda soprattutto a come potrà, dopo quella dura fase di resistenza, portare al governo i propri valori.

Certo, se qualcuno scommise, dopo il Palavobis, all’interno e all’esterno dei movimenti, sulla frana dei partiti del centrosinistra e dei suoi gruppi dirigenti anziché su un rapporto dialettico tra partiti e movimenti, puntò cioè su un processo di sostituzione affinché su un processo di scambio e osmosi, allora la delusione è legittima. Perché quei famosi dirigenti, nonostante tutto, anche grazie alla (provvidenziale) spinta critica dei movimenti, hanno vinto per ora tutte le prove. Non solo, ma proprio uno dei protagonisti del Palavobis, Roberto Zaccaria, è stato recentemente eletto a Milano nel collegio di Bossi a testimonianza che il rapporto dialettico c’è stato e ha funzionato anche a distanza di tempo.

Ma se la delusione nasce dall’atteggiamento attuale verso le primarie, essa davvero non appare giustificata. Per il semplice e solare fatto che quel popolo dei movimenti che per decine di manifestazioni ci ha chiesto unità (e rispetto per il patrimonio di entusiasmo che ci offriva) ha già deciso di votare Romano Prodi. Perché lo considera il punto di unità più avanzato possibile e dunque, anche per questo, il candidato che offre più possibilità di vittoria. E perché vuole, con il proprio voto alle primarie, metterlo al riparo da eventuali, sempre possibili, «congiure di palazzo» o pretestuose divisioni una volta che dovesse andare al governo.

Quanto alla presenza, nella competizione di ottobre, di esponenti della «stagione dei movimenti», essa, per onore di cronaca, ci sarà comunque. Ivan Scalfarotto (e gliel’ho detto con sincera chiarezza) non avrà il mio voto. Ma è indubbio che con «adottiamo la Costituzione» è stato attivo in tutta l’esperienza milanese nei momenti dell’onda alta e ha poi continuato a Londra con «Libertà e Giustizia»; non avrà notorietà o influenza mediatica, ma mi sembra onesto riconoscergli i titoli acquisiti sul campo, fra cui quello di averci messo almeno la faccia direttamente.

Su un punto decisivo Flores ha però ragione. Ed è che occorre fare di tutto perché gli elettori del centrosinistra sentano che il loro voto non servirà solo a battere Berlusconi. Che sentano che «vale la pena» votare per l’Unione. È questa una preoccupazione condivisa da molti, anche nei partiti, se è vero che iniziano a essere un po’ troppe, sia in sede locale sia in sede nazionale, le docce fredde che arrivano addosso a chi non aspetta altro che una svolta nei valori e nei metodi della politica. Che le primarie siano dunque il luogo giusto per dire che il popolo del centrosinistra c’è, partecipa ed è attento. Dopo sarà più facile, o meno problematico, ottenere che le scelte delle candidature esprimano una domanda di cambiamento.

Dopo sarà più facile, o meno problematico, avere un governo in cui possa riconoscersi il popolo che in quel cruciale 2002-2003 ha chiesto a voce più alta un’Italia civile, libera e pulita.

Titolo originale: Knowing me, knowing you – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

George Orwell sarebbe rimasto scioccato dal sostegno popolare alla diffusione delle tecnologie della sorveglianza.

non c’è dubbio sul fatto che il mondo sia entrato nell’era della sorveglianza: con il Regno Unito in testa. La Gran Bretagna ora ha oltre 4 milioni di telecamere CCTV operanti, angeli custodi della società secolarizzata. Se si tenesse un referendum sulla scia degli attacchi terroristici per sistemare telecamere in ogni strada, probabilmente vincerebbe a soverchiante maggioranza. Ciò sorprende lievemente, non solo per le implicazioni di lungo termine riguardo alle libertà civili, ma perché le videocamere non sembrano aver agito come deterrente per i terroristi, anche se hanno reso più facile identificarli dopo, vivi o morti.

Il metodo principale per rintracciare i sospetti di terrorismo è stato il monitoraggio delle conversazioni sui telefoni cellulari. Non solo gli operatori possono localizzare gli utenti con un margine di qualche metro “triangolando” il segnale da tre stazioni base, ma – secondo un’indagine del Financial Times – gli operatori (autorizzati dalla magistratura) possono installare da postazione remota un software sull’apparecchio, che attiva il microfono anche quando l’utente non sta chiamando. Chi ha più bisogno di una carta d’identità, se possono far questo?

Al vertice di tutta questo scrutamento ufficiale, c’è la moda crescente della sorveglianza personale da milioni di telefonini “ smart” dotati di telecamera e funzioni video, che diventano più potenti ogni settimana. Non passerà molto tempo, indubbiamente, prima che vengano inserite telecamere miniaturizzate dentro occhiali, con riprese che poi saranno spedite a un sito remoto per l’archiviazione.

La tecnologia ha indubbiamente aiutato i terroristi ad organizzarsi. Internet è uno strumento per il proselitismo dei fondamentalisti, per informazioni su attività come costruirsi le bombe, per tenersi in contatto con persone con gli stessi orientamenti, mentre i telefoni mobili offrono comunicazione costante e, in alcuni casi, un detonatore.

La tecnologia offre anche metodi senza precedenti per rintracciare i criminali. Ma ogni avanzamento nelle indagini tecnologiche genera una contro-reazione da parte dei terroristi. Nello stesso modo in cui c’è stato uno spostamento dal riciclaggio di denaro attraverso il sistema bancario internazionale (verso le transazioni in contanti) a causa dei migliorati controlli governativi, così gli eventi dello scorso mese potrebbero persuadere i terroristi ad abbandonare i telefonini a favore di forme di comunicazione più primitive, come le conversazioni dirette faccia a faccia.

Mentre la tecnologia continua a progredire a grande velocità, il modo di sapere chi siamo diventa spaventoso. Il numero in edicola di Business Week elenca i modi attraverso cui possiamo essere identificati esattamente a partire dal DNA e dalle schede di identificazione per frequenze radio (RFID) all’odore del corpo, al respiro, alla saliva. Ci sono anche scienziati al lavoro sul “riconoscimento da andatura”, in modo tale che in futuro le videocamere ci possano individuare in mezzo alla folla dal modo in cui camminiamo.

Il pericolo di tutto ciò è che poche persone obiettano, finché esiste una seria minaccia di terrorismo. Ma una volta (se?) passato il pericolo, l’infrastruttura della sorveglianza resterà. E allora potrebbe non essere la polizia a ricostruire un’immagine sfocata dalla folla per catturare un terrorista, ma un dipendente dell’impresa responsabile delle immagini a estorcere denaro da qualcuno trovato in situazioni compromettenti. Come osserva un redattore di Business Week “Traiamo la maggior parte della nostra sicurezza dalla libertà”. Se George Orwell fosse vivo oggi (21 anni dopo la Londra che aveva descritto in “ 1984”) rimarrebbe esterrefatto vedendo che il tipo di sorveglianza che temeva è sostenuto non da un governo che lo impone a milioni di abitanti ignari, ma da una spontanea approvazione popolare. Questo non costituisce un problema al momento. Ma lo sarà in futuro, sia che accettiamo di rinunciare alle libertà civili in modo permanente come risposta ad un’emergenza temporanea, sia che il costo di installazione delle infrastrutture divenga tanto enorme da erodere la nostra ricchezza personale. In ogni caso, Bin Laden avrebbe vinto.

Nota: qui il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

Chi crede che Marcello Pera, con un attacco che non ha precedenti nella storia repubblicana, abbia voluto colpire l´odiata «lobby» delle toghe, non ha capito nulla. Il Consiglio superiore della magistratura è solo un finto bersaglio. L´obiettivo vero di questa violenta offensiva del presidente del Senato, stavolta sorprendentemente spalleggiato dal presidente della Camera, sta molto più in alto. Si chiama Carlo Azeglio Ciampi. Contestando il diritto costituzionalmente e giuridicamente garantito del Csm ad esprimere un parere «tecnico» sulla riforma dell´ordinamento giudiziario, il più alto rappresentante delle assemblee degli eletti del popolo delegittima il Capo dello Stato. Di fatto, lo accusa di attentare alla Costituzione.

Secondo Pera, il Csm non può valutare e discutere gli effetti dei provvedimenti di legge discussi o approvati dal Parlamento. Se lo fa, si pone fuori dal perimetro della Costituzione. Si trasforma in una «terza Camera». Si eleva, in quanto potere giudiziario, allo stesso livello del potere legislativo. Viceversa, com´è ormai tristemente noto e come dimostra la rovinosa campagna contro le toghe ingaggiata in questi quattro anni dal Polo, la magistratura è poco più che un «ordine professionale» (come pretendono gli azzeccagarbugli della destra) e non certo un «potere dello Stato» (come invece prevede l´ordinamento costituzionale). Dunque, con i pareri negativi emessi sulla riforma Castelli, e da ultimo con la decisione di mettere all´ordine del giorno anche il cosiddetto «emendamento Bobbio» (aggiunto alla riforma solo per impedire a Giancarlo Caselli di concorrere alla nomina di procuratore nazionale anti-mafia) il Consiglio superiore della magistratura ha compiuto un atto sedizioso. Uno strappo eversivo dell´ordine costituzionale.

Il presidente del Senato sbaglia due volte. Sbaglia la prima volta perché, mentre richiama in chiave restrittiva le competenze attribuite al Csm dall´articolo 105 della Costituzione, si guarda bene dal menzionare l´articolo 10 della legge istitutiva dell´organo di autogoverno dei magistrati, che nel 1958 ha conferito allo stesso Consiglio la facoltà di esprimere pareri su leggi e decreti al ministro Guardasigilli. A questa grave e quanto mai singolare «amnesia» ha dovuto porre rimedio, con tanto di nota ufficiale, il vicepresidente del Csm. Ma Pera non si accontenta. E sbaglia la seconda volta perché, accusando le toghe di aver violato la Carta del ´48, fa finta di dimenticare che è stato proprio Ciampi, appena una settimana fa, ad autorizzare con tanto di firma autografa l´inserimento del parere sull´emendamento Bobbio nell´ordine del giorno della riunione del Csm. Anche a questo ennesimo e inquietante svarione ha dovuto rimediare Rognoni, rammentando un paio di questioni dirimenti che il presidente del Senato non poteva certo ignorare. Quell´emendamento rappresenta un «nuovo innesto» nel corpo di una riforma della giustizia che il Capo dello Stato aveva già rinviato alle Camere per quattro, fondati e rilevanti motivi di incostituzionalità. La discussione del Csm su quell´emendamento, proprio per questo, ha ricevuto «l´assenso formale» del Capo dello Stato.

Nella sortita di Pera si nasconde un sillogismo velenosissimo: 1) il parere del Csm viola la Costituzione; 2) Ciampi ha autorizzato il parere del Csm; 3) Ciampi viola la Costituzione. Non serve essere un cultore di Aristotele per seguire la logica devastante di questo ragionamento. Non serve essere un dotto filosofo della scienza per capire la portata destabilizzante di un´accusa del genere. Semmai c´è da chiedersi perché, in un momento così incerto sulle prospettive del Paese e in una fase così complessa per i suoi equilibri politici, il presidente del Senato accetti il rischio di aprire un conflitto istituzionale irreparabile. C´è da chiedersi perché, dopo aver fatto da sponda misurata e responsabile al Quirinale in questi tormentati quattro anni di legislatura, stavolta persino Casini si sia schierato con Pera, lasciando che sul Colle piovano gli schizzi di fango della delegittimazione. C´è da chiedersi perché, dopo aver incarnato anche sulla giustizia l´anima «moderata» in una coalizione di destra radicale, sfascista e populista, adesso anche l´Udc di Marco Follini abbia cominciato a cantare nel coro insieme a Pera. Alla stessa stregua degli sguaiati «professionisti dell´anti-giustizia». Dei Castelli o dei Cicchitto. Degli Schifani o dei Bondi.

Ogni sospetto è legittimo. Non mancano spiegazioni plausibili, se si volesse limitare la posta in gioco al solo tema della giustizia. Sulla riforma dell´ordinamento siamo alla vigilia di un confronto parlamentare durissimo. Il governo Berlusconi ha appena annunciato la richiesta del voto di fiducia sul provvedimento. Ciampi l´ha già bocciato una volta, per palese incostituzionalità. Da qualche tempo sul Colle trapela anche l´eventualità di un secondo rinvio alle Camere, proprio per la dubbia costituzionalità dell´emendamento Bobbio, nel frattempo inserito nel testo dai falchi della Cdl. L´altolà di Pera, condiviso non più solo da Forza Italia An e Lega ma ora anche dai centristi, potrebbe essere un avvertimento lanciato al Capo dello Stato: se rifiuti per la seconda volta di promulgare la legge, stavolta rischi l´impeachment, perché hai attentato alla sovranità del Parlamento.

L´ipotesi ha una sua indubbia consistenza. Ma vi si colgono i segni di una qualche sproporzione. La riforma Castelli, anche dentro il Polo, non interessa più a nessuno. A parte il ministro-ingegnere che ci si è giocato il cognome, nessuno sembra convinto della sua impellente necessità. Se è così, la sensazione è che Pera, e Casini che gli è andato dietro, abbiano sparato con un cannone per colpire un passerotto. Per capire meglio, è forse più utile ampliare l´orizzonte. E valutare la posta in gioco in una prospettiva più lunga. Ciampi, con la sua saggia fermezza e la sua credibile equidistanza, si è rivelato alla fine della legislatura come il più solido argine alle scorrerie politiche e alle forzature istituzionali del Cavaliere e i suoi «bravi». Ha manifestato una ferrea determinazione a tenere duro fino all´ultimo giorno del suo settennato. Ha palesato una convinta intenzione di sciogliere le Camere a febbraio, per portare l´Italia la voto il 9 aprile e dare al Paese un governo nel pieno delle sue funzioni già a giugno del 2006. Berlusconi è un leader in declino. Umanamente annoiato e politicamente azzoppato. Se ha ancora una chance di sopravvivenza, dopo Palazzo Chigi e oltre la Casa delle Libertà, quella chance si chiama Quirinale. Dietro di lui, chi nutre la speranza di succedergli nella leadership è disposto a dargli una mano, per cercare di sfrattare anzitempo il riottoso inquilino del Colle.

Le ragioni del naufragio laico

Un ragionamento a tutto campo sui risultati dei referendum. Da la Repubblica del 14 giugno 2005

Il risultato del referendum non è solo una sconfitta: è il naufragio di un´Italia laica che si proponeva di cambiare una legge ideologica, per regolare poi diversamente in Parlamento la materia della fecondazione assistita. Questo era il senso della chiamata alle urne, fuori dagli schieramenti, dagli integralismi, dalla retorica apocalittica che ha trasformato assurdamente il voto in uno scontro di civiltà. Le urne sono rimaste deserte. Chi ha trasformato il confronto in uno scontro tutto italiano tra il Bene e il Male, ha poi chiesto ai difensori del Bene di non scendere in campo, per mandare a vuoto la battaglia. Non sappiamo dunque chi sarebbe prevalso, in uno scontro aperto di valori contrapposti, tra il "sì" e il "no". Un dato solo è certo: ha perso chi (come questo giornale) voleva cambiare la legge. Ha vinto chi voleva conservarla e per prevalere ha affondato con ciò che resta del laicismo anche il vecchio istituto del referendum, che per molto tempo scomparirà dalla scena italiana.

Molto era prevedibile, in questa vicenda, tutto era stato annunciato. Proviamo a vedere come, quando e perché. Passata in minoranza, per ammissione dei vescovi, nel Paese «naturalmente cristiano», la Chiesa italiana negli ultimi dieci anni ha preso coscienza di trovarsi «in una terra di missione» e dunque ha deciso di impegnarsi «a rievangelizzare una società che è stata colpita da una vera amnesia della sua storia e della sua identità cristiana». Da qui, un cambio non soltanto di metodo e di strategia, ma di sostanza. La Chiesa, come dice Ruini, «non fa più leva su un soggetto politico di riferimento, ma sui contenuti», dunque agisce politicamente alla luce del sole, senza mediazione. La si "vede" cioè far politica, senza lo scudo dc, che tra le altre cose serviva evidentemente anche a questo.

Fuori dal corridoio protetto in cui scambiavano il partito-Stato democristiano (con le sue autonomie, e le sue obbedienze) e la Curia, nel mondo scoperto di oggi la Chiesa passa da essere tutto a essere parte, in una sorta di moderna "lobbizzazione" che la porta a competere nel confronto politico-culturale come una grande agenzia di valori e di tradizioni, in competizione e in concorrenza con le agenzie che già occupavano il mercato.

Non riuscendo più a parlare all´insieme maggioritario della società, la Chiesa italiana si rivolge alle sue parti sensibili, prima fra tutti la politica che legifera muovendosi tra interessi legittimi e valori di riferimento, e che ha in mano le cinque leve dell´organizzazione sociale che nel febbraio 2001 il Cardinale Segretario di Stato fissò come essenziali per giudicare dal Vaticano la politica italiana: si tratta delle leggi «sulla vita, la famiglia, la gioventù, la libertà scolastica, la solidarietà».

Davanti a sé la Chiesa ha trovato i partiti della Seconda Repubblica, tutti nati o trasformati nel corso dell´ultimo decennio, senza un deposito di storia e di tradizione, un portato di valori consolidati a cui far riferimento. Una politica dove molto è prassi, tutto è contemporaneo, l´identità è incerta. A sinistra, per la tragica eredità del comunismo, la tradizione è inservibile, come se fosse tutta radioattiva. Nel nuovismo, non mancano solo i nomi, ma anche i riferimenti culturali della sinistra europea moderna e risolta, e dunque la battaglia delle idee diventa insicura, senza visione e senza certezza, con il rischio di essere in ogni momento gregaria delle mode culturali dominanti. A destra, il berlusconismo ha fallito l´unica vera ricerca dell´immortalità, che non sta nelle ricette antirughe del dottor Scapagnini, ma nel progetto di dare alla destra una moderna cultura conservatrice in un Paese che non l´ha mai avuta, democristiano com´era.

In questo quadro, arriva il Dio italiano predicato dalla Cei, una sorta di via italiana al cattolicesimo che non c´era mai stata, nella nazione della "totalità" democristiana e della surroga papale. Fatalmente, o almeno facilmente, la Chiesa a questo punto viene vista da una parte del mondo politico come l´ultima e l´unica agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie terrene del Novecento e il deperimento fisico delle storie politiche che le avevano incarnate. Dall´altro lato, Chiesa e Vaticano vedono l´Italia improvvisamente come un gregge senza guida e senza rotta, soprattutto senza più idee forti, incapace di tradurre la laicità dello Stato in uno spirito repubblicano libero e autonomo: il terreno ideale per sperimentare - ed è la prima volta in cinquant´anni - una sorta di "protettorato dei valori", l´esercizio di un potere non più temporale ma culturale della Chiesa.

Due elementi in più rafforzano questo quadro. Da un lato, come fa notare Habermas, il ritorno in tutta Europa della religione dal dialogo privato al dibattito pubblico, un ritorno che prende in contropiede il laicismo e che papa Ratzinger aveva già annunciato da cardinale, negando che il cattolicesimo sia solo un sentimento privato: «È una verità proclamata in ambito pubblico, che pone per la società delle norme e che, in una certa misura, è vincolante anche per lo Stato e per i potenti di questo mondo». Dall´altro lato, l´avanzare nel nostro Paese di quel nuovo soggetto che tre anni fa ho chiamato "lo strano cristiano", l´ateo clericale che cerca di saldare la destra politica italiana ad un pensiero forte che non ha, e lo trova nel deposito di tradizione della Chiesa, ignorando sia i suoi comandamenti che la sua trascendenza che la sua predicazione sociale, cavalcando però la sua legge morale tradotta in norma, come creatrice di un´identità collettiva e di una società del Bene.

È il rifiuto della distinzione tra la legge del Creatore e la legge delle creature, che sta a fondamento di ogni moderna concezione della laicità. È il rifiuto ratzingeriano del relativismo tradotto dal linguaggio culturale nel linguaggio politico, persino legislativo: superando l´idea del Parlamento come luogo dove le leggi si fanno con l´unica regola della maggioranza, e dove ogni verità è parziale, come ogni credo in democrazia. Al fondo, c´è la denuncia della nuova religione europea del "politicamente corretto", dell´adorazione "pagana" per i diritti subentrati ai valori, del cuore socialdemocratico del Novecento che ha messo per troppo tempo in circolo lo statalismo e la laicità, mentre la nuova cultura cristiana di destra è la vera interprete di un senso comune del post-moderno. È l´idea di Ruini del cristianesimo come seconda "natura" italiana: che può dunque essere trasgredito e rinnegato solo da leggi in qualche modo contro natura, quindi contestabili alla radice.

Ecco il quadro in cui è nata non la legge sulla fecondazione artificiale, ma "questa" legge, che ha un valore ideologico e di bandiera ben superiore al valore d´uso. Ed è lo stesso quadro in cui è fallito il referendum. Sarebbe certo sbagliato dare alla Chiesa e ai nuovi atei clericali il potere di mobilitare nel silenzio il 75 per cento degli italiani, ed è ridicolo pensarlo. Da dieci anni i referendum non raggiungono il quorum, l´astensionismo fisiologico è altissimo. In questo caso, c´è probabilmente un riflesso automatico in più, che esce dalle logiche della politica: la legge sulla fecondazione è stata vista dagli italiani come una complicata questione di piccola minoranza, che non li riguardava e che non riuscivano a padroneggiare nei suoi aspetti etici e scientifici. Se questo è vero, l´astensionismo più che difendere la legge ha voluto lasciare la parola al Parlamento, dove oggi dovrebbe riaprirsi un confronto finalmente non più propagandistico.

Ma detto questo, non si è detto tutto. Nel disorientamento degli italiani davanti alla materia del referendum, le parole della Chiesa, dei neo-con italiani, degli atei clericali hanno pesato di più delle parole di quel pezzo di sinistra che ha sostenuto il "sì", dei suoi leader, dei suoi scienziati. Il centrosinistra, tutto insieme, dovrebbe riflettere: o trova un´identità culturale, visto che è incapace di trovare quella politica, oppure perderà le grandi sfide di questa fase, che nascono tutte dalla battaglia delle idee, più che dagli schieramenti. Non si può reggere una partita in cui la sinistra parla di sé, mentre la destra parla della vita e della morte. Esistono valori, esistono diritti che la sinistra può testimoniare a testa alta nel mondo di oggi, anche dopo la sconfitta del referendum, perché fanno parte della sua storia: sfidando la destra ad una vera battaglia culturale in campo aperto, senza l´aiuto pagano di Ponzio Pilato.

Franz Muntefering, presidente del Partito Socialdemocratico tedesco, intervenendo nel dibattito sul Capitalismo e riferendosi in particolare al funzionamento della finanza, ha descritto gli operatori finanziari come “sciami di locuste che piombano sulle imprese spogliandole prima di spostarsi altrove”. Commentando criticamente quell'uscita e quel dibattito “The Economist” arriva a confrontarli con la retorica nazista contro il Capitalismo. Tanta violenza sorprende in una pubblicazione di orientamento liberale che, pur manifestando sempre con nettezza il proprio pensiero, usa in genere, moderare i toni.

Un paio di anni fa Claud Bèbèar, gran Patron di Axa e principe della finanza mondiale, ha rilasciato una lunga intervista in un libro dal titolo “Uccideranno il Capitalismo”.

E non si riferiva ai comunisti ma proprio ai capitalisti ed in particolare al mondo della finanza, che conosce benissimo e della quale narrava tutte le storture e le nefandezze.

Ma per trovare una critica così dura del capitalismo contemporaneo gli uomini di “The Economist” non avevano bisogno di andare lontano bastava leggessero… “The Economist”, ed in particolare il supplemento del Giugno del 2003 dal titolo “Capitalism and Democracy”. In esso venivano anche citati una serie di testi di orientamento liberale, i titoli di alcuni dei quali - “Salvare il Capitalismo dai capitalisti”, “Stato prigioniero”, “Fine del Governo”, “Ricchezza e Democrazia” - di per sé danno conto di una critica del Capitalismo contemporaneo non meno radicale del riferimento alle locuste.

In quel supplemento “The Economist” sottolineava una serie di fenomeni - “Un mucchio di scandali societari, risentimento per una straordinario ampliamento delle ineguaglianze di reddito e di ricchezza nei paesi ricchi, un terrificante buco nei conti pensionistici di milioni di persone e, più cruciale di tutto, una montante disillusione sulla capacità delle Istituzioni democratiche di fare rispondere i colpevoli delle loro colpe” - che, a suo parere, rimettono in discussione il rapporto tra Capitalismo e Democrazia. È cambiato così tanto il Capitalismo in questi ultimi mesi secondo “The Economist”?

Ciò detto bisogna anche dire che un problema per la Sinistra probabilmente esiste e sta nel divario tra una critica del capitalismo contemporaneo, che diventa sempre più dura, e la capacità di portare avanti proposte di riforma adeguate. Si potrebbe anche dire che c'è il rischio di passare da un atteggiamento di riformismo debole e, tutto sommato, subalterno, incapace di mobilitare il consenso di persone afflitte da un crescente senso di insicurezza, alla semplice denuncia demagogica e populista.

Per riformismo debole si può intendere l'accettazione dell'idea che le “riforme strutturali” si riducano a quella del mercato del lavoro e a quella dei sistemi pensionistici. Non per dire che questi problemi non esistono. Ma già a tal proposito bisognerebbe distinguere nettamente la strada seguita per la riforma del mercato del lavoro da Thatcher e Reagan da quella seguita, con successo, per esempio, dai socialdemocratici svedesi.

Per quanto riguarda le pensioni bisognerebbe tener presente che proprio i paesi che per primi hanno avviato e predicato la riforma attraverso la parziale privatizzazione dei sistemi pensionistici, sono ora costretti a riformare la riforma anche a causa dei famosi “buchi terrificanti”. Bush tenta di farlo puntando a demolire definitivamente il sistema di sicurezza sociale seguendo una concezione della democrazia per la quale, come diceva la Thatcher, la società non esiste ed esiste soltanto l'individuo. Ma non è detto che il Governo inglese non segua un'altra strada che fa leva sulla ridefinizione ed il rilancio del ruolo redistributivo della componente pubblica del sistema.

In ogni caso non è su queste questioni che si focalizzano le spietate analisi di orientamento liberale ma su fenomeni quali l'aumento delle disuguaglianze e la concentrazione della ricchezza, il modo come vengono governate le imprese, i meccanismi di incentivazione degli executives, il distacco tra finanza e economia reale e la tendenza ad operare con un'ottica di breve periodo, i conflitti di interesse, lo scarso bilanciamento del potere nella struttura economica e la conseguente tendenza del mondo degli affari a prevaricare la politica dalla quale scaturisce la menomazione della democrazia. A questo complesso di problemi, dei quali la Sinistra sta prendendo consapevolezza con un certo ritardo, si può rispondere non semplicemente con la riforma delle pensioni o del mercato del lavoro ma con una riforma del Capitalismo.

Per la Sinistra sarebbe importante ora definire una teoria positiva dell'impresa e del mercato che vada oltre il riconoscimento del loro ruolo, quasi come un male necessario, fatto decenni fa a Bad-Godesberg dalla socialdemocrazia tedesca. Il mercato è uno spazio di libertà, luogo insostituibile dove gli individui possono promuovere e convalidare, nel rapporto con la società, le proprie aspirazioni ed i propri talenti ed è perciò in grado di produrre incessantemente innovazione. Ma la misura in cui esso può esercitare una tale funzione dipende dalla volontà di porre limiti alla concentrazione della ricchezza e del potere. Formulare una tale teoria dell'impresa e del mercato implica perciò la consapevolezza che essa risulterà opposta a quella dominante da un paio di decenni, che riduce l'impresa ad una semplice sommatoria di contratti individuali governati dalla proprietà, il cui unico scopo sarebbe quello di produrre profitto.

Il grande merito del Riformismo del Novecento è stato di dimostrare che l'alternativa “il Capitalismo o si gestisce così come è o si abbatte” era infondata. Il Capitalismo si può riformare. E se il motore della riforma nel Novecento fu la Sinistra politica e sindacale, personaggi liberaldemocratici quali Keynes e Beveridge dettero un contributo di idee determinante. E non è detto che un tale incontro non possa ripetersi nella risposta ai problemi di oggi.

la società non esiste ed esiste soltanto l'individuo. Ma non è detto che il Governo inglese non segua un'altra strada che fa leva sulla ridefinizione ed il rilancio del ruolo redistributivo della componente pubblica del sistema.

In ogni caso non è su queste questioni che si focalizzano le spietate analisi di orientamento liberale ma su fenomeni quali l'aumento delle disuguaglianze e la concentrazione della ricchezza, il modo come vengono governate le imprese, i meccanismi di incentivazione degli executives, il distacco tra finanza e economia reale e la tendenza ad operare con un'ottica di breve periodo, i conflitti di interesse, lo scarso bilanciamento del potere nella struttura economica e la conseguente tendenza del mondo degli affari a prevaricare la politica dalla quale scaturisce la menomazione della democrazia. A questo complesso di problemi, dei quali la Sinistra sta prendendo consapevolezza con un certo ritardo, si può rispondere non semplicemente con la riforma delle pensioni o del mercato del lavoro ma con una riforma del Capitalismo.

Per la Sinistra sarebbe importante ora definire una teoria positiva dell'impresa e del mercato che vada oltre il riconoscimento del loro ruolo, quasi come un male necessario, fatto decenni fa a Bad-Godesberg dalla socialdemocrazia tedesca. Il mercato è uno spazio di libertà, luogo insostituibile dove gli individui possono promuovere e convalidare, nel rapporto con la società, le proprie aspirazioni ed i propri talenti ed è perciò in grado di produrre incessantemente innovazione. Ma la misura in cui esso può esercitare una tale funzione dipende dalla volontà di porre limiti alla concentrazione della ricchezza e del potere. Formulare una tale teoria dell'impresa e del mercato implica perciò la consapevolezza che essa risulterà opposta a quella dominante da un paio di decenni, che riduce l'impresa ad una semplice sommatoria di contratti individuali governati dalla proprietà, il cui unico scopo sarebbe quello di produrre profitto.

Il grande merito del Riformismo del Novecento è stato di dimostrare che l'alternativa “il Capitalismo o si gestisce così come è o si abbatte” era infondata. Il Capitalismo si può riformare. E se il motore della riforma nel Novecento fu la Sinistra politica e sindacale, personaggi liberaldemocratici quali Keynes e Beveridge dettero un contributo di idee determinante. E non è detto che un tale incontro non possa ripetersi nella risposta ai problemi di oggi.

EScalfari Perché vogliono un Papa subito

Il commento di un laico con il senso del religioso. Da la Repubblica del 10 aprile 2005

IL GIORNO dopo la vita continua e ci mancherebbe che non continuasse. In San Pietro si celebra la seconda messa dei Novendiali in suffragio del Papa morto. Il Comune di Roma informa che in due ore sono state sgomberate 250 tonnellate di rifiuti (e sarebbe una bellezza se miracoli del genere accadessero tutti i giorni). Non ci sono stati per tutta la giornata e la notte dei funerali né furti né atti di violenza. Il presidente dello Stato di Israele ha dato la mano all´iraniano Khatami e al siriano Assad, ma nessun fotografo è riuscito purtroppo a immortalare l´avvenimento.

La vita continua. Appena tornati in patria sia Khatami sia il ministro degli Esteri di Israele hanno vigorosamente smentito che la supposta stretta di mano sia mai avvenuta e comunque – precisano a Gerusalemme – l´Iran degli ayatollah resta il nemico numero uno dello Stato ebraico. Bush, attraverso il suo portavoce, ha censurato Clinton per aver rilasciato a Roma un´intervista sul Papa defunto. Carter dal canto suo attacca Bush per non averlo incluso nella delegazione americana ai funerali.

La vita continua. Berlusconi spedisce a Fini una lettera redatta da Gianni Letta e da Matteoli (ministro di An), rivista preventivamente dallo stesso Fini e letta al telefono anche a Bossi per averne l´approvazione.

Tutti contenti: il presidente del Consiglio promette ai riottosi alleati tutto quanto essi domandano e considera perfino l´ipotesi di una meditazione sulla devolution. Seguiranno gli atti alle parole? Riprende la telenovela della verifica permanente? Quello che sembra purtroppo certo è che il Paese continuerà ad essere sgovernato.

La vita continua. Le televisioni mandano in onda le immagini del matrimonio tra Carlo d´Inghilterra e Camilla.

Dopo i paramenti rossi dei cardinali sono di scena i deliziosi cappellini multicolori delle dame invitate alla cerimonia reale.

Nel frattempo in Vaticano si moltiplicano i contatti tra i porporati in vista dell´imminente Conclave. Sembra che il cardinal Tettamanzi perda terreno come pure il brasiliano Hummes e l´arcivescovo di Vienna.

Guadagna invece qualche posizione Ratzinger, settantottenne con molti acciacchi e principe di dottrina della fede. Il "totopapa" dilaga.

Alcuni giornali interpellano e stampano i responsi dei propri redattori sul nome del successore di Wojtyla. Il Foglio scrive che la risposta alla sconfitta della destra nelle elezioni regionali è data dai tre milioni di pellegrini accorsi a Roma per rendere omaggio a Wojtyla; l´articolo è ironico ma il nesso resta incomprensibile.

La vita, per grazia di Dio, continua.

* * *

La settimana che si è chiusa ieri è stata densa di emozioni e di premonizioni.

Quella che si apre domani non lo sarà di meno perché l´orbe cattolica aspetta il Papa nuovo.

Il funerale di Giovanni Paolo II ci ha dato uno spettacolo liturgico irripetibile, una dimostrazione di forza spirituale e temporale senza eguali, il senso plastico di un´autorità con duemila anni di storia alle spalle che ora è arrivata all´incontro-scontro con la modernità.

Appuntamento suggestivo, di dimensioni planetarie, dominato dal messaggio evangelico del "Dio c´è" e del "Christus regnat" in contrasto con il contromessaggio latente del "Dio è morto" e dell´assunzione della coscienza individuale di guidare le proprie azioni e dare un senso alla vita e alla morte prescindendo dalle verità rivelate delle religioni.

Al di là della forza liturgica che ribadisce la continuità della tradizione e del cambiamento, al di là della premonitrice tempesta di vento che ha sconvolto e ravvivato i mantelli purpurei dei cardinali e le pagine del Vangelo deposte sul feretro del Papa morto, il tocco conclusivo di quella giornata è stato il coro di centomila voci in gran parte giovani che hanno scandito per tredici minuti «Santo subito», rimbalzando su un miliardo di persone incollate ai teleschermi in tutte le parti del mondo.

«Santo subito». La richiesta cozzerà contro le norme canoniche che richiedono, per beatificare e santificare un Papa, procedure ancora più complesse e lente di quanto previsto per una semplice persona in odore di santità. Ma non è questo il punto.

Karol Wojtyla sarà proclamato beato e santo molto rapidamente rispetto ai tempi finora in uso nella Chiesa.

Il punto è quello di capire perché sia stata scandita e gridata quella richiesta da un coro immenso propagatosi dovunque e dovunque condiviso. A quale bisogno urgente e profondo quella richiesta corrisponda. Quale vuoto essa debba colmare. Perché una cosa è certa: l´invocazione del «Santo subito» denuncia un vuoto immenso che Giovanni Paolo II ha cercato di colmare con la sua predicazione itinerante e che si è immediatamente riaperto nel momento della sua morte, vissuta dalla moltitudine come un abbandono.

«Santo subito» per colmare quel vuoto, per superare quell´abbandono, per indirizzare verso di lui il flusso delle preghiere. Ma non c´è Dio cui i fedeli possano rivolgersi? Non c´è Cristo, suo figlio "che vive e regna nei secoli dei secoli"? Non c´è la madre di Gesù, assunta immacolata in cielo, possente intermediaria tra mondo e paradiso? Perché dunque una richiesta così martellante, così imperativa, così disperatamente gridata verso i porporati allineati in perfette composizioni geometriche sul sagrato della Basilica e verso un cielo gravido di pioggia e di vento? Ho letto l´articolo pubblicato ieri di Pietro Scoppola, che conosco come cattolico d´intensa fede e dottrina. Ne riporto un passo che mi ha molto colpito.

"Dopo l´ossessione mediatica dei giorni della malattia e poi di fronte alla solenne celebrazione in piazza San Pietro e alla città invasa dai pellegrini di ogni parte del mondo, sentivo un inconfessabile desiderio alternativo e ho tentato di realizzarlo. Sono andato a messa nella mia parrocchia; in una chiesa quasi deserta un giovane prete ha letto il Vangelo di Giovanni nel quale si narra il famoso episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

«La gente diceva: questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo. Ma Gesù, capendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo». Mi pare che quel «tutto solo» sia lo spazio della coscienza, del rapporto interiore con il mistero di Dio; mi pare quello sia l´antidoto alla tentazione di trasformare una manifestazione di fede spontanea, bella e vissuta, in un segno di potenza".

Questo è, se andiamo al nocciolo della questione, il bivio di fronte al quale si trova ora la Chiesa dopo Wojtyla: come porsi di fronte alla modernità del mondo di oggi. Come riempire il vuoto di tante anime colpite da un sentimento di abbandono del quale la morte di Giovanni Paolo è soltanto l´ultimo segnale, ma che è nato molto prima di lui.

La risposta dei laici è nota e non starò qui a ripeterla ancora una volta.

Ma la risposta degli uomini e delle donne di fede qual è? Morto un Papa se ne fa un altro. Dopo un santo se ne fa un altro ancora e da questo punto di vista Giovanni Paolo ha creato santi e beati in tale quantità da aver intasato i recessi del Paradiso. Ma qui, nel caso che direttamente lo riguarda, la questione è diversa. Giovanni Paolo si è identificato con Cristo al punto di averne rivissuto il calvario in tutte le sue stazioni. Nell´omelia funebre pronunciata in presenza della sua bara ancora insepolta il cardinale Ratzinger ha portato questa identificazione fino al punto estremo, configurandolo affacciato alla finestra che dal paradiso si apre sul mondo, insieme alla Madonna cui la Chiesa lo affida. A pochi metri di distanza dal sagrato della basilica il gruppo michelangiolesco della Pietà raffigura nel marmo la madre di Gesù che stringe tra le braccia il corpo straziato del Figlio senza vita.

In realtà il popolo di Dio sente il vuoto della coscienza e invoca, per riempirlo, il ritorno d´un Cristo incarnato.

«Subito». Questa in realtà è la sfida che la Chiesa del dopo Wojtyla ha dinanzi a sé. Per la salute delle anime c´è da augurarsi che non cada in tentazione e segua piuttosto l´esempio del Gesù del Vangelo di Giovanni che di fronte alla folla osannante si ritira sulla montagna tutto solo a pregare il Padre.

Non si cura il vuoto delle coscienze creando altri idoli, ma svegliando nelle persone il senso della responsabilità di fronte alla vita, che la morte restituisce come cenere alla cenere.

Caro Direttore,

la questione, posta da un intervento di Franco Cardini sul vostro giornale, della trasversalità di alcuni intellettuali italiani, che non si capisce se sian di destra, di sinistra o di nulla, ha varie cause fra loro intrecciate.

In Italia esistono due nodi prepolitici, che attengono all’essenza stessa delle liberaldemocrazie, che riguardano, o dovrebbero riguardare tutti i cittadini in quanto tali e quindi di qualunque ispirazione politica.

La liberaldemocrazia, com’è noto, rinuncia, a differenza della democrazia socialista, all’uguaglianza sociale, anzi la aborre, ma è ferma, come un macigno, su quella formale, cioè sull’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, che del resto è la premessa di ogni Stato di diritto. Il governo Berlusconi ha varato numerose leggi «ad personam», per salvare il premier e i suoi amici da quelli che, eufemisticamente, vengono chiamati i loro «guai giudiziari», instaurando così un doppio diritto, uno per lorsignori l’altro per i poveracci, com’era in epoca feudale. Già solo per questo si può dire che noi non viviamo più in una democrazia.

La seconda questione riguarda l’assetto dell’informazione televisiva. In un’epoca in cui tutti si dichiarano liberali e liberisti, fanno visite genuflesse alla City londinese a Wall Street, inneggiando al libero mercato anche in settori in cui gli si dovrebbe tagliare un po’ le unghie, il libero mercato manca proprio nel ganglio più delicato e decisivo per una moderna democrazia: quello televisivo. Da anni esisteva un oligopolio che, nel corno pubblico, era occupato, del tutto arbitrariamente, da partiti, e che dalle elezioni del 2001 è diventato un monopolio sotto il diretto controllo del premier.

Una mostruosità che esiste solo nelle dittature e che dovrebbe far rizzare i capelli in testa innanzitutto ad ogni animuccia liberale e liberista. E invece abbiamo visto liberali patentati, come Angelo Panebianco, Ernesto Galli della Loggia, Piero Ostellino, non fare un plissé.

Ma anche l'establishment di sinistra è stato debole, debolissimo, sia sulla questione della concentrazione televisiva sia su quella delle leggi «ad personam». Ad opporsi sono stati piuttosto i cosiddetti «girotondi». In piazza San Giovanni, contro la Cirami eravamo a un milione di persone che non appartenevano certo tutte al «popolo della sinistra». Si trattava di cittadini, di varie ideologie o di nessuna, che ritenevano umiliante ed inaccettabile essere considerati dei paria invece che dei pari. Eppure ho sentito più volte autorevoli esponenti della sinistra parlare con disprezzo dei «girotondini» («Non mi avrà mica preso per un girotondino?»). A costoro, come alle destre, va ricordato che si può, ovviamente, non essere d’accordo con i «girotondi», ma che «il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi» per manifestare le proprie opinioni (art. 17 Cost.) è un diritto politico primario del cittadino, più importante ancora del voto, perché vi agisce direttamente, in prima persona, mentre col voto indirettamente, attraverso rappresentanti che, spesso, per non dir quasi mai, lo rappresentano.

E qui ci avviciniamo alle altre cause di quella che viene definita «trasversalità» e che io chiamo piuttosto «distanza» sia dalla destra che dalla sinistra. Nella «democrazia reale», che sta a quella ideale come il socialismo reale sta a quello ideale, le leadership dei partiti politici si sono venute configurando come delle minoranze organizzate, delle oligarchie, che schiacciano e opprimono proprio quel cittadino singolo, libero, che non accetta umilianti assoggettamenti feudali di cui il pensiero liberale voleva valorizzare, capacità, meriti, potenzialità e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata. Le oligarchie politiche democratiche sono delle aristocrazie senza qualità (l’unica loro qualità è quella, tautologicamente, di fare politica) e senza nemmeno gli obblighi delle aristocrazie. Divenuto il grosso dell’elettorato un indifferenziato ceto medio, quella politica è l’unica classe rimasta su piazza e il suo interesse primario, e quasi unico, è autotutelarsi, con i privilegi connessi (si pensi ai vergognosi salvataggi in Parlamento di Previti e Dell’Utri).

Infine destra e sinistra, liberalismo e marxismo, con le varie declinazioni, sono categorie vecchie ormai di due secoli e non più in grado di comprendere, nè tantomeno di gestire, la realtà e le mutate esigenze degli individui. non che siano del tutto obsolete. Io faccio l’esempio del treno. Noi siamo su un treno che va a 800 all’ora e che è costretto, per esigenze interne al suo meccanismo, ad aumentare costantemente la velocità. Su questo treno c’è chi è seduto su comode poltrone (ma anche costui è sballottato e frastornato dalla velocità del treno), chi in seconda classe, chi sugli strapuntini, chi sta nei corridoi, chi nei cessi, chi mezzo fuori dai finestrini mentre molti rotolano giù nella scarpata. Per cui una migliore e più equa sistemazione dei viaggiatori ha ancora un senso. Ma la domanda di fondo è diventata un’altra: dove sta andando il treno? Dove ci sta portando la missilistica locomotiva chiamata Modernità, con le sue stritolanti esigenze produttiviste, economiciste, globalizzanti? Destra e sinistra, figlie entrambi della Rivoluzione industriale, non sono in grado di mettere in discussione la Modernità perché in essa sono nate e in essa si sono affermate e quindi per loro significherebbe tagliare le proprie radici. Io sto invece proprio all’interno di quella domanda, oltre la destra e la sinistra. E non credo di essere il solo se devo dar retta al successo «trasversale» dei miei libri e al pubblico, trasversale, che è venuto a vedere a teatro il mio Cyrano, se vi pare..., che questi temi tratta.

Poiché, in Italia, pressocché tutti i giornali sono schierati, a destra o a sinistra, sono costretto ad essere «trasversale», accettando di scrivere per chiunque mi dia ospitalità. Come, in questo caso l’Unità. Cosa di cui ti sono grato.

Drammatizzare. Bisogna drammatizzare la posta in gioco, il conflitto, il risultato che si vuole ottenere, se si ha a cuore la qualità della democrazia italiana: bocciare col referendum la riscrittura della Costituzione che il centrodestra sta facendo in parlamento. E che porterà a compimento, perché sua è la maggioranza, suo il calendario, sua la scelta di quando approvare in senato il testo emendato alla camera - prima delle regionali, se la Lega ne ha bisogno - e di quando fissare il referendum - magari non prima ma dopo le politiche del 2006.

In parlamento, l'opposizione è impotente: «in commissione noi contestiamo ogni articolo, loro tacciono e votano», questa è la situazione descritta dal capogruppo ds Gavino Angius. Seminario fra costituzionalisti e politici organizzato dal Centro studi per la riforma dello Stato: due ore di discussione intensa e senza rete. Alla drammatizzazione invita già il presidente del Crs, Mario Tronti. Tutti gli altri, giuristi e senatori, accettano l'invito senza riserve. Unanime è infatti il giudizio sul progetto di revisione della Cdl: un' aggressione alla storia e alla pace costituzionale, secondo Andrea Manzella; un mutamento di regime in cui ne va della democrazia, secondo Luigi Ferrajoli; una svolta in senso non democratico e non liberale, secondo Umberto Allegretti. Meno unanime, si capirà via via, è l'idea di come argomentare la battaglia referendaria: perché se gli argomenti contrari alla riforma sono comuni, sul che fare della Costituzione del `48, se difenderla e basta o proporne una revisione diversa da quella del centrodestra, e quale, a sinistra ci si divide come ormai da una quindicina d'anni in qua.

Perché la riforma sia da respingere in toto si sa, e comunque Manzella ne illustra uno per uno tutti i punti che, presi insieme, fanno saltare ogni garanzia costituzionale: un bipolarismo «feroce», un parlamento derubricato a mera funzione consultiva del governo come nel Medioevo, un premier che assomma tutti i poteri («quelli del presidente americano e quelli del cancelliere tedesco», sintetizza Leopoldo Elia), un presidente della Repubblica e una corte costituzionale alterati, la magistratura privata della sua autonomia. Massimo Luciani sottolinea: con questa riforma il potere di revisione passa anch'esso nelle mani della maggioranza; il procedimento legislativo diventa impraticabile; i diritti fondamentali, regionalizzati, diventano ineguali. Vere e proprie frane dell'equilibrio sociale, oltre che istituzionale, che non dovrebbe essere difficile «comunicare» all'opinione pubblica nella battaglia referendaria. Purché ci si arrivi, dice Elia, «con meno ingegneria costituzionale e più costituzionalismo».

Il che vuol dire con una sana autocritica, domanda senza mezzi termini Ferrajoli, di come il problema della Costituzione è stato affrontato nell'ultimo quindicennio anche nella parte maggioritaria del centrosinistra. Che non solo ha via via partorito progetti di revisione simili anch'essi improntati alla governabilità e alla personalizzazione della leadership. Ma più in profondità, argomenta Mario Dogliani, ha subordinato la revisione dell'ordinamento alla risoluzione del problema della forma della coalizione, dei rapporti fra i partiti al suo interno, della costruzione della leadership: cruciale e imperdonabile confusione fra il piano istituzionale e il piano politico. Confusione analoga a quella che, secondo Pierluigi Petrini della Margherita, ha fatto sì che nei primi anni `90 si attribuisse alla revisione costituzionale il potere di risolvere il terremoto politico della transizione. Senza peraltro arrivare neanche ad arginare con adeguati correttivi istituzionali il mutamento innescato da quel terremoto. Sicché il maggioritario ha fatto fuori molti dei vecchi dispositivi di garanzia senza che ne venissero inventati di nuovi. E il parlamento, tanto per parlare dell'istituzione che più uscirebbe compromessa dalla riforma della Cdl, già adesso e non da adesso, sottolinea Massimo Villone, si trova a essere esautorato di molti suoi poteri.

Che fare dunque, oltre che bloccare la riforma della Cdl? Attestarsi sulla difesa della Costituzione del '48 è secondo i più l'unica strada percorribile(«resistenza costituzionale», la chiama Domenico Gallo). Non così però secondo Gavino Angius. Che pure è convinto che «la posta in gioco storica e politica di fondo» della riforma costituzionale sia stata sottovalutata a sinistra; ma sostiene - e come lui Antonio Cantaro - che una pura posizione di resistenza sarebbe perdente, e significherebbe «dire che per vent'anni abbiamo preso solo un grosso abbaglio» con le ipotesi di riforma via via avanzate. Il fatto è che la direzione di una riforma alternativa a quella della Cdl è tutt'altro che chiara e condivisa. Sostiene Angius che un punto di mediazione, nel centrosinistra, è stato ormai raggiunto e si chiama bozza Amato. La stessa di cui Ferrajoli aveva chiesto, «per carità di patria, di non parlarne più».

La relazione di apertura di Mario Dogliani

A vederla così smagrita, addosso un abituccio verde che nessuno le conosce, pallida e certo spaventata, il cuore ci si stringe, in redazione molti non trattengono le lacrime. Ma il video firmato da un'improbabile sigla - mujaheddin senza frontiere (quasi un'ironia verso le tante organizzazioni occidentali che si nominano così ) - è stato recapitato all'hotel Palestine a Baghdad: è un segnale che Giuliana è viva. Dopo due settimane di silenzio e incertezza totale è già qualche cosa. Di più di quanto non abbia fino ad ora ottenuto Libération per Florence Aubenas, sparita da quaranta giorni con il suo interprete Hussein Hanoun, senza che mai nessuno si sia fatto vivo. Ci chiedono se in questa immagine così drammatica la ritroviamo. Direi senz'altro di sì: le prime parole che pronuncia sono proprio sue, quelle che ha sempre detto: «Sono venuta qui per testimoniare di questo popolo che muore ogni giorno». E poi parla dei bambini, dei vecchi, delle donne violate, delle cluster bombs. Sono le stesse parole che ha scritto fino a quando non è stata rapita, ogni giorno dando voce a chi in Iraq non ce l'ha. Per far capire che a non voler l'occupazione è il popolo, tutto il popolo iracheno, quelli che hanno deciso di esprimersi con le armi, quelli che hanno scelto di dirlo con il voto, quelli che hanno perduto tutto e restano a piangere i loro morti nelle tende dove, a migliaia, sono stati collocati i rifugiati. Gli ultimi che Giuliana ha visto, prima di esser portata via nei pressi della moschea dove stanno ammassati quelli di Falluja. Ripete che la presenza straniera porta sofferenze e violenza, che occorre porre fine all'occupazione se si vuole porre fine alla violenza.

Nonostante il timbro turbato della sua voce, che a momenti rompe in un singhiozzo, è proprio la nostra Giuliana.

L'angoscia più forte ce la dànno le ultime frasi, quando si appella direttamente al suo compagno, Pier. Non perché non sia naturale - chi non lo farebbe in quelle condizioni? - ma perché in questa particolare richiesta di aiuto al suo uomo emerge con maggior evidenza la sua personale, umanissima condizione di donna prigioniera, sul collo il fiato pesante della condanna a pagare per le colpe di chi pure lei stessa ha sempre combattuto.

Le ultime frasi di Giuliana si rivolgono a chi è impegnato a preparare la manifestazione, per liberare lei e con lei la pace: quelli- dice - «con cui ho sempre lottato». Sembra quasi che Giuliana sappia di sabato 19. Da questo tristissimo video è lei stessa che ci invita tutti a raddoppiare gli sforzi per porre fine alle sofferenze del popolo iracheno e alle sue, per liberare ambedue.

Noi non possiamo decidere di ritirare le truppe italiane dall'Iraq, i rapitori di Giuliana lo sanno benissimo. Possiamo però dimostrare, con l'ampiezza della protesta, che la grande maggioranza del popolo italiano vuole porre fine all'occupazione.

L'Europa dei governi è divisa, o reticente. Ma l'Europa dei popoli - lo hanno dimostrato i sondaggi - è tutta, persino all'est dove i governi sono i meno autonomi dal ricatto americano - unita nel dire no alla guerra. Se non tutti i governi hanno recepito questa richiesta; se non hanno espresso quel che vuole la maggioranza dei loro cittadini; se solo una minoranza in alcuni parlamenti - ma in quello italiano una minoranza assai larga e per la prima volta unita - si è fatta interprete della propria opinione pubblica, vuol dire solo che c'è qualcosa che non funziona nella nostra democrazia.

Chi ha insistito per tanto tempo e con tanta petulanza sulla necessità che la sinistra si dia un progetto di governo ambizioso e concreto non può non esprimere soddisfazione di fronte all´accoglienza che la proposta di una Conferenza programmatica disegnata sul modello della "Convenzione" per la Costituzione europea sta avendo nel partito dei Democratici di sinistra.

Mi pare chiaro ormai il senso della proposta: non un dizionario esaustivo dell´universo mondo ma un´intesa chiara e salda raggiunta prima nel partito e poi presentata all´Alleanza come impegno solenne su poche grandi riforme da proporre al Paese: prodotto non solo di un gruppo di esperti, ma di una vasta interrogazione delle istanze economiche, sociali e culturali che gravitano nel mondo della sinistra.

Poche, perché attorno a queste occorre concentrare la più ampia possibile volontà politica. E anche per una ovvia esigenza realistica. Una legislatura che necessariamente dovrà affrontare il flusso degli eventi imprevedibili, oltre che il disbrigo dell´amministrazione ordinaria, non ha - specie tenendo conto delle nostre procedure decisionali - spazi per grandi iniziative di riforma, oltre quelle che si possono contare sulle dita di una mano: diciamo, al massimo, una all´anno.

Il partito laburista, quello che trionfò alla fine della guerra, con la rivoluzione del welfare state (prima che Tony Blair nascesse), ne varò non più di tre o quattro, fondamentali.

Ciò che conta, oltre a concentrare il fuoco su obiettivi davvero strategici, è una procedura mobilitante e rigorosa. La scelta dei temi fondamentali, anzitutto, che deve essere definita in sede politica: il prossimo congresso Ds può trovare in questa, oltre che nella reinvestitura del suo segretario, ormai felicemente scontata, un significato davvero storico. Inoltre: la proposta, a tutta la coalizione, della procedura "convenzionale": soggetti da coinvolgere, interrogazione sulla stampa e in rete sulle principali scelte, sondaggi da svolgere, tempi da osservare, regole per la elaborazione del messaggio finale da sottoporre alla decisione dell´Alleanza. Il rigore, soprattutto per la delimitazione dei temi, è decisivo per evitare che il topolino partorisca una montagna di chiacchiere.

Quali temi? Dovrebbe intendersi che il congresso dei Ds li formulerà come proposte per l´Alleanza, e che la decisione finale spetterà alle direzioni dei partiti che ne fanno parte, e soprattutto a Romano Prodi, leader dell´Alleanza stessa. Ciascuno può avere in proposito le sue preferenze. Per parte mia, le riassumerei in cinque punti:

1) ridestare la crescita di un Paese economicamente prostrato da una maggioranza incompetente e inconcludente ottenendo, non una revisione "magliara" del patto di stabilità, ma una sua integrazione con un vero patto di sviluppo secondo le linee del piano Delors, che rilanci l´Europa e l´Italia sulla via della crescita, risuscitando la politica della domanda; e attraverso un patto tra governo, imprese e sindacati su concorrenza e innovazione, che elabori una vera politica dell´offerta;

2) puntare alla piena e buona occupazione attraverso la creazione, anch´essa concordata con imprese e sindacati, di una rete permanente di informazione, formazione, qualificazione, riqualificazione e collocamento di lavoratori ai quali sia garantita la continuità della protezione sociale;

3) trasformare la scuola, dal livello primario dell´obbligo all´Università, in un sistema centrale della società: inteso non come distribuzione di titoli e avviamento professionale, ma, soprattutto, come palestra permanente per la diffusione e l´avanzamento della cultura;

4) far convergere il risanamento e la tutela ambientale con la valorizzazione del patrimonio storico e artistico in un piano di sviluppo del territorio: il più straordinariamente ricco del mondo;

5) orientare lo sviluppo non esclusivamente alla monomaniaca e fuorviante crescita del Pil, ma alla realizzazione di un sistema di obiettivi economici e sociali rappresentati da indicatori specifici; e riorganizzare la spesa pubblica non sulla base primitiva "del più e del meno", ma su quella razionale della programmazione.

C´è una seconda questione altrettanto rilevante e complementare del riorientamento programmatico: ed è l´approfondimento culturale da cui l´azione progettuale deve attingere la sua forza. Tra i ricordi del primo centrosinistra, il più vivo è la ricca vena di elaborazione culturale che ne animò la gestazione. C´erano i convegni di San Pellegrino delle forze progressiste cattoliche, animati da Pasquale Saraceno. C´erano, nel campo comunista, quelli dell´Istituto Gramsci. C´era la ricerca sulla programmazione, nata dal fresco contributo della sinistra socialista di Lombardi e di Giolitti e innescata sulla riflessione culturale di Fuà, di Sylos Labini, di tanti altri; c´erano, non certo ultimi, i convegni del Mondo della sinistra liberale. Spero di non indulgere alle tentazioni della laudatio temporis acti se constato che, al confronto, questo nuovo centrosinistra è in difetto di respiro. Non certo perché manchino intelligenze, ragioni, passioni. Ma forse perché sono impegnate più nel consumo che nell´investimento politico; distratte dalla quotidianità, dalla pobre semilla di una politica che si sbriciola, giorno per giorno, in glosse e risse sterili. E forse anche perché mancano istituzioni culturali giovani, popolari, aperte, attorno alle quali animare un dibattito politico alto, degno delle grandi tradizioni della sinistra di questo Paese.

Ricordate la Freien Universität di Berlino? Nata nel 1948 sull´onda di una secessione contestativa promossa da tre studenti di sinistra, sostenuta dalla amministrazione socialdemocratica della città, fu una sferzata di giovinezza per l´Università accademica e diventò una fucina di ricerca oltre che un´occasione per innovazioni architettoniche, organizzative, funzionali di alto livello e per la tessitura di una vasta rete di collegamento con l´Europa della cultura. Esiste e opera ancora oggi, sebbene sensibilmente "istituzionalizzata".

Intendiamoci: fondazioni e associazioni culturali esistono oggi anche da noi: nel mondo della sinistra ce ne sono tante. Ma quante hanno il respiro di una grande impresa culturale aperta, popolare, capace di fungere da terreno di scambio di idee e laboratorio di progetti, anziché da occasione per la pubblicazione di riviste, certo prestigiose, ma limitate alla raccolta di saggi all´interno di cerchie intellettuali ristrette? Una rigenerazione della sinistra accanto a un´iniziativa politica programmatica, avrebbe grande bisogno di un approfondimento culturale che la nutrisse continuamente. Perché non pensare a una "Libera Università Popolare" che realizzi un modello educativo innovativo, capace di fermentare i nuovi germi per una grande istituzione altrimenti morente?

Vedo subito insorgere il pedante di turno, che ci ammonisce sul rischio dell´illuminismo politico. Beh, francamente, se ci fosse in giro un gruppetto di redivivi Diderot, d´Alambert, Voltaire e Rousseau, io li scambierei volentieri contro i glossatori della terza via. Non propongo la nuova Encyclopedie: ma solo uno spazio aperto di dibattito permanente, di insegnamento accademicamente disinibito e di vasta sperimentazione culturale. Questa sì, mi parrebbe un´impresa utile e alla portata: un atto di investimento e non di consumismo politico.

Illuminismo? Magari! L´Illuminismo è stato il terreno culturale dal quale è nata l´unica rivoluzione politica vittoriosa della modernità.

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