DICONO che la politica non interessi più nessuno, ma non è vero. Il politichese non interessa, anzi è rifiutato da tutti, ma la politica, i problemi cruciali del paese, i suoi interessi e il suo destino, ci riguardano, eccome.
Interessa il potere d´acquisto delle famiglie, la sorte delle imprese, il lavoro e i suoi contratti, le tasse. Ma anche il rispetto dei diritti, l´obbligo dei doveri, la scuola, l´efficienza dei servizi pubblici, la sicurezza, la rapidità e l´equità della giustizia. Interessa l´indipendenza delle istituzioni.
Il personaggio più amato dagli italiani è Carlo Azeglio Ciampi.
Qualcuno si chiede il perché dell´affetto quasi unanime che lo circonda, e la risposta è semplice ed univoca: perché ha dimostrato e continua a dimostrare ogni giorno la sua indipendenza da qualsiasi altro potere o interesse, per quanto forti possano essere. Ciampi garantisce gli italiani. Sulla carta i suoi poteri sono deboli, in certi settori addirittura debolissimi; ma nella realtà sono potenti perché Ciampi è la voce autentica della pubblica opinione; non di una parte di essa, ma della grande corrente della pubblica opinione, quella che vorrebbe un paese moderno, un sistema efficace, una politica nazionale ed europea, una classe dirigente integerrima, una libertà di ampio respiro e una solidarietà fraterna e sociale.
Ciampi è l´immagine più esemplare di un moderato estremista. Vorrebbe niente meno che la Costituzione fosse rispettata nella lettera e nello spirito. Ecco, il suo estremismo è questo e quando vede che la Costituzione viene elusa, scavalcata e talvolta addirittura irrisa, allora scende in campo in nome del popolo e il popolo si riconosce in lui.
Spesso avviene che i furbi applaudano alle sue iniziative per meglio sabotarle e talvolta ci riescono. Ma non si illudano: sono vittorie col fiato corto. Ciampi non è soltanto il presidente della Repubblica ma è, soprattutto, l´educatore d´una nazione, il padre che indica la retta via senza piegarsi né a lusinghe né a minacce.
Tra le tante disavventure che ci angustiano da anni, questa è stata la tavola di salvezza più solida che da cinque anni e mezzo è il solo punto di riferimento comune di un paese per altri versi discorde e privo di bussola.
Dicono che Berlusconi sia un improvvisatore, capace soltanto di tutelare i propri interessi personali ma sprovvisto di una visione di governo e della capacità di attuarla; ma anche questo non è vero. Berlusconi sa benissimo che cosa vuole e persegue i suoi obiettivi con tenacia.
Sicuramente è vero che il primo di tali obiettivi sia stato e continui ad essere il suo personale interesse di imprenditore impresario alle prese con il mercato e con la legalità da lui lungamente e pervicacemente violata. Ma è sbagliato pensare che non abbia una sua coerente concezione della governance e una capacità notevole di realizzarla.
La sua concezione consiste nella consapevole demolizione del sistema democratico-liberale e dello stato di diritto fondato sulla separazione dei poteri e sulle istituzioni di garanzia che ne sono il più alto presidio.
Forte d´una maggioranza parlamentare clonata e passivamente obbediente, sta abbattendo uno dopo l´altro i pilastri che da mezzo secolo hanno tenuto in piedi la struttura costituzionale del paese e gli ideali che la ispirano.
Ha dalla sua alcuni vizi di antico retaggio italiano che ha rivitalizzato con una sapiente miscela di populismo volutamente sguaiato. Si è messo ai margini dell´Europa agganciando le sue fortune a quelle di Bush: una scelta che ha ridotto la nostra politica estera ad un ruolo di satellite privo di qualunque reale influenza e ruolo internazionale e di qualunque positivo ritorno in termini strategici ed economici.
La sua concezione della governance coincide con l´autocrazia. Non l´ha ancora realizzata appieno, la magistratura resiste, i sindacati resistono, l´opposizione parlamentare resiste e Ciampi soprattutto resiste.
Resiste ciò che ancora rimane di libera stampa. Ma l´autocrazia sta emergendo rapidamente dalla sistematica distruzione dello stato di diritto e delle garanzie che ne costituiscono l´essenza.
Siamo ora arrivati alla fase decisiva di questo scontro tra democrazia e autocrazia. Di qui l´asprezza dei toni e la necessità di una strategia che non si limiti alla pura e semplice resistenza. Di qui i problemi e il destino del centrosinistra. Di qui infine il ruolo di Romano Prodi e il significato della sua battaglia politica.
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Negli ultimi giorni quello che era sembrato un conflitto soprattutto personale tra Prodi e Rutelli ha rivelato meglio la sua vera natura. Che non coinvolge soltanto Rutelli e non coinvolge soltanto una parte della Margherita, ma attraversa trasversalmente tutto il centrosinistra.
Esso è infatti pienamente concorde nell´opporsi al tentativo berlusconiano di instaurare l´autocrazia ma è profondamente diviso nella costruzione di una strategia innovativa e alternativa, d´una piattaforma capace di compattare la lunga alleanza dei partiti d´opposizione e attirare la vasta parte del corpo elettorale incerta e disincantata dal modello autocratico che la destra ripropone con ormai esplicita chiarezza dopo gli iniziali infingimenti liberistici.
Esso infine, il centrosinistra, è diviso nel misurare il vero livello della sfida, che non riguarda soltanto problemi domestici ma si gioca su un livello europeo e internazionale perché le tendenze autocratiche affiorano su un ampio scacchiere, sollecitate da una globalizzazione priva di contrappesi istituzionali e politici.
È del tutto evidente che una sfida di questa natura e di così alto livello richiede d´essere affrontata da forze robuste e coese, sorretta da opinioni pubbliche partecipanti e consapevoli. Uno schieramento frammentato in otto o nove sigle di partiti, il più forte dei quali rappresenta un quinto dei voti espressi e il più piccolo supera di poco l´uno per cento ed è tuttavia indispensabile disponendo per conseguenza di un suo diritto di veto sui programmi, le scelte di fondo, le candidature e la selezione della classe dirigente; uno schieramento siffatto è del tutto inadatto ad assumere sulle sue spalle un compito così arduo che deve articolarsi in un programma istituzionale, politico, sociale, economico, inquadrato in una coerente visione del nostro ruolo nel quadro della comunità internazionale.
Il disegno federatore di Prodi risponde alle esigenze della situazione e ne è la sola risposta valida; ma presuppone appunto che la federazione da lui auspicata non sia una scatola vuota ma un soggetto politico al quale i partiti partecipano conferendo larga parte dei loro poteri attuali, del resto non spendibili nella frammentazione esistente e di fronte alla compattezza autocratica dell´avversario.
Il negoziato per arrivare alla soluzione auspicabile si prospetta graduale ma non può esser spinto troppo lontano nel tempo. Le elezioni regionali di aprile rappresentano una tappa non risolutiva ma comunque essenziale dell´intero percorso, sicché tutto dovrà esser chiarito entro i primi giorni di febbraio.
Il congresso dei Ds, che appunto avrà luogo in quei giorni, è dunque un momento decisivo di questo percorso, difficile quanto indispensabile.
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La sinistra riformista e il suo leader, Piero Fassino, ha svolto in questa fase accidentata un compito importante.
Si è assunta ampie responsabilità cercando di mantenere stabile un´alleanza scossa da molte sortite e da improvvide impennate, da gelosie e rivalità, da inutili iniziative volte a guadagnare effimere visibilità. Ancora in queste ore il segretario diessino è impegnato a risolvere la questione delle liste regionali, questione forse minore ma indubbiamente propedeutica al più vasto disegno politico dell´unità operativa.
Tuttavia l´appuntamento decisivo per il più forte partito dell´opposizione sarà il congresso. Sembrava fino a poco tempo fa un appuntamento più rituale che di scelte politiche: la mozione del segretario (e lui medesimo come riconfermato leader del partito) ha ottenuto nelle votazioni di base l´80 per cento dei consensi. Sembrava dunque che il congresso non dovesse far altro che celebrare una salda unità e adempiere all´elezione degli organi dirigenti.
Invece non sarà più così o non dovrebbe più esser così se il maggior partito dell´opposizione vuole essere all´altezza delle sfide da affrontare e della vittoria da conseguire. Molte e qualificate voci hanno già auspicato nelle scorse settimane che questo salto di qualità avvenga, a cominciare da Alfredo Reichlin e da Giorgio Ruffolo, da Giorgio Napolitano e da Giuliano Amato. Aggiungo ad esse anche la mia, da cittadino interessato a un confronto politico e ideale che, quali ne siano le sorti, arricchirà la democrazia italiana e le darà spessore morale e culturale.
Il maggior partito della sinistra credo sia ben consapevole che il suo 20 per cento di rappresentanza è troppo e allo stesso tempo troppo poco. Troppo per rifugiarsi nell´irresponsabilità di un partito minore. Troppo poco per rivendicare un´egemonia sugli altri membri dell´alleanza.
Incombe dunque al suo gruppo dirigente di annunciare la sua disponibilità di conferire alla federazione guidata da Prodi i poteri necessari a renderla un soggetto politico impedendo che altro non sia che una sorta di circolo bocciofilo per anziani. Disponibilità e anzi richiesta netta agli altri consorti di procedere su quella strada aprendo finalmente un cantiere programmatico all´insegna di tre principi essenziali che sono poi da duecento anni quelli della democrazia, del socialismo e del cattolicesimo democratico: libertà, eguaglianza, solidarietà.
Il cantiere programmatico dovrà declinare quei principi in termini moderni e appropriati a correggere e rilanciare la globalizzazione, ma quello è l´orizzonte ideale e la piattaforma etico-politica che non potrà esser tradita se il duro confronto con l´avversario debba avere serie prospettive di successo.
Post scriptum. L´amabile vicepresidente del Consiglio, Marco Follini, in un´intervista del 4 gennaio al Corriere della Sera difende a spada tratta le nomine di Guazzaloca e di Pilati a membri dell´antitrust (nominati da Pera e Casini). "Il budino si giudica dopo averlo mangiato", ha sentenziato Follini. Cioè tra cinque anni. Ne hanno di tempo i due nominati per arrecare danni al paese, per totale incompetenza l´uno, per evidente conflitto di interessi l´altro.
Nello stesso giorno su Repubblica il redivivo Giulio Tremonti, interrogato sul medesimo argomento, invece di rispondere alle domande sulla qualità dei due nominati, si è lanciato in un ampio ragionamento dal quale emerge che la legislazione contro i trust e i monopoli è radicalmente sbagliata e, ovunque esista, andrebbe abolita o fortemente mitigata perché... la Cina è vicina.
Lascio ai lettori di giudicare questo genere di risposte nonché i criteri con i quali i presidenti delle Camere hanno fatto uso dei poteri loro conferiti dalla legge per designare i componenti della principale autorità di garanzia, titolare anche del potere di vigilanza e di sanzione sui conflitti d´interesse del presidente del Consiglio.
Titolo originale: New Berlusconi Investigation Is Called Politicking – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
ROMA, 29 dicembre – I magistrati hanno avviato un’altra indagine che riguarda il Primo Ministro Silvio Berlusconi, che potrebbe aver ordinato il pagamento di almeno 600.000 dollari nel 1997 a un avvocato britannico perché mentisse a suo favore in due processi.
I fatti su cui si indaga, riferiti dal quotidiano Il Corriere della Sera giovedì, sono stati decisamente negati sia dal portavoce di Berlusconi, Paolo Bonaiuti, che dal suo avvocato, Niccolò Ghedini. Hanno liquidato l’indagine come una manovra politica in vista delle elezioni generali italiane di aprile.
”È cominciata al campagna elettorale” ha detto Bonaiuti in una dichiarazione, accusando il Corriere della Sera e i magistrati di Milano di lavorare insieme per impedire la rielezione di Berlusconi.
Per anni, Berlusconi ha schivato una serie di processi, attraverso un’abile strategia legale e, sostengono i suoi critici, costruendosi leggi pensate per evitargli il carcere. Nonostante questo, le nuove indagini mostrano che i magistrati, da lui accusati di essere simpatizzanti dell’opposizione di centrosinistra, non hanno rinunciato. Crea anche un’ulteriore difficoltà per Berlusconi, l’uomo più ricco del paese, che cerca un secondo, con i sondaggi che lo mostrano alle di Romano Prodi, già primo ministro.
In un articolo di prima pagina sulle nuove indagini il Corriere della Sera, quotidiano più venduto in Italia, ha riportato che Berlusconi e l’avvocato inglese David Mills, sono stati “invitati” a comparire davanti ai magistrati di Milano il 3 dicembre, per discutere i nuovi elementi.
Secondo la legge italiana, non esiste l’obbligo di presentarsi, e nessuno di loro l’ha fatto, secondo il giornale. Ghedini, avvocato di Berlusconi e membro del Parlamento eletto per il partito di Berlusconi, Forza Italia, ha dichiarato che le idagini sono “nelle fasi preliminari e non è emerso niente che interessi la difesa”.
Il Corriere ha comunque riportato che la convocazione di testimoni come Berlusconi e Mills indica come le indagini si stiano avvicinando alla fine. Ha detto che i magistrati potrebbero decidere entro il prossimo mese se richiedere a un giudice di istruire un eventuale processo.
Mills è sposato con Tessa Jowell, ministro britannico per la Cultura, Comunicazione e Sport.
Il Corriere sostiene che i magistrati indagano sull’autorizzazione a versare “non meno di” 600.000 dollari a Mills dal manager, ora deceduto, della Fininvest, l’enorme holding di Berlusconi, nel 1997, per testimoniare a favore in due occasioni. Una nel novembre 1997, in un processo per corruzione dove Berlusconi era accusato di aver corrotto funzionari del fisco; l’altro nel gennaio 1998, in un procedimento dove lo si accusava di un piano per inoltrare 12 milioni di dollari al partito dell’ex primo Ministro Bettino Craxi.
Berlusconi fun condannato in entrambi i casi nel gennaio 1998, anche se poi assolto in appello nel 2001 nel primo, e escluso nel secondo per scadenza dei termini di proscrizione.
ROMA - Berlusconi «ha usato un problema drammatico in modo sconcertante e avvilente facendone strumento di propaganda», ma detto questo l’emergenza abitativa c’è davvero. E il nodo - al di là delle polemiche - va affrontato. Il giorno dopo i feroci botta e risposta fra maggioranza e opposizione sulla promessa fatta dal premier di voler dare una casa a tutti gli italiani, Pierluigi Bersani, responsabile per il programma dei Ds, fa un passo avanti e racconta quello che l’Ulivo pensa di fare per risolvere la questione.
Il caso c’è, lei dice, allora il premier ha visto giusto?
«Certo, al di là del modo in cui è stata usata l’emergenza abitativa, va detto che i suoi sondaggisti hanno individuato un tema tragico, per gravità e ampiezza. Resta ora da capire come mai, in tutti questi anni, il governo non abbia fatto niente per affrontarlo. Tutto sommato, invece che lanciarsi sulla propaganda, avrebbe ancora tempo a disposizione per intervenire. Invece l’unica misura finora approvata è stata il dimezzamento del Fondo per gli affitti».
Ma adesso il centro-destra sta elaborando un piano. E voi?
«Noi al piano ci stiamo lavorando da tempo perché girando l’Italia molti sindaci ci avevano avvertito di come il caro-affitti abbia sconvolto il mercato con l’irruenza di uno Tsunami e di come ora, a chiedere sostegno, siano anche le classi medie. Gli insegnanti per esempio. Il problema della casa sta al cento del dramma di una generazione intera, quella del baby-boom, che solo ora si sta affacciando sul mercato e che spesso non ha i soldi per acquistare un immobile, né la stabilità lavorativa per ottenere un mutuo. Dar loro un bonus-bebè, pensando di convincerli con questo a metter su famiglia, non serve. Bisogna appunto fornire case ».
E cosa proporrete allora nel piano dell’Ulivo?
«Pensiamo ad interventi che non si limitino alle pur necessarie misure di sostegno all’affitto. Usate male, senza controlli e verifiche, potrebbero incoraggiare l’aumento dei prezzi. L’idea è quella di agire anche con investimenti a favore di piani di edilizia residenziale destinata ad affitto concordato».
Una nuova colata di cemento?
«No, non sarà necessaria, gli investimenti saranno collegati a processi di riqualificazione urbana. C’è un patrimonio abitativo oggi assolutamente inutilizzabile che se ristrutturato darebbe una bella svolta al problema».
E come finanziare il piano?
«Ci deve essere un contributo pubblico - Stato, regioni, enti locali - da rafforzare grazie a partnership con il privato. Su questo aspetto, per esempio, si possono concentrare anche i contributi del 36 per cento ora volti alla ristrutturazione degli immobili. Poi certo si possono attivare anche meccanismi di agevolazione fiscale volti a favore l’affitto concordato, ma sarà l’opera di riqualificazione stessa ad innescare una nuova spirale di investimenti».
Il ministro Alemanno prevede che il costo dell’operazione si aggiri sul miliardo di euro. E’ d’accordo?
«Credo che ne servano di più».
Secondo il molto autorevole esponente dei DS sono “necessarie misure di sostegno all’affitto”, sebbene integrate da altre iniziative (ma “rafforzate da partnership con il privato”). Non si rende conto che sostenere l’affitto (e auspicare partnership con la proprietà immobiliare) serve a rafforzare quel perverso, e certo non liberista, mercato della casa il cui trionfo è la causa maggiore del disastro di oggi.
Ben diversa impostazione e prospettiva seppe dare il ministro democristiano Fiorentino Sullo quando, nel lontano 1962, inventò i “piani per l’edilizia economica e popolare”, i famosi PEEP. Quei piani il cui obiettivo era appunto fare ciò che il mercato non è in grado di fare: costruire (oggi lo si dovrebbe fare mediante operazioni di ristrutturazione urbanistica) quartieri su area pubblica, nei quali, eliminando la taglia della rendita immobiliare, in attuazione di piani regolatori generali comunali che inquadrassero l’assetto di ogni quartiere nell’assetto complessivo della città e del suo territorio, venissero realizzati quartieri in cui residenze, servizi, verde fossero compresenti e integrati, nel rispetto di standard quantitativi adeguati, la mescolanza sociale fosse garantita da una gestione pubblica costante e avveduta.
Qualche giornalista intelligente e libero, approfittando della riemersione (grazie agli eventi francesi) del problema della residenza di chi non vive nelle ville, cercherà di indagare su quali sono stati i frutti che quella impostazione ha dato là dove (negli anni 60 e 70) è stata praticata con determinata volontà politica e cultura tecnica, e sulle ragioni per cui essa (a partire dagli anni 80) è stata abbandonata e tradita per restituire oggi il bastone del comando al mercato immobiliare, alle sue leggi, ai suoi padroni via via più potenti? Praticamente senza più opposizione.
Una prima pietra, almeno teorica, Silvio Berlusconi la porrà: quella per il Ponte sullo Stretto, i cui lavori, sempre che tutto vada liscio, cominceranno nel 2006. La Impregilo, capofila di una delle cordate superstiti, si è infatti aggiudicata ieri, come general contractor, il maxi-appalto. Ora dovrà procedere alla progettazione definitiva. La prima obiezione è di natura finanziaria: i 4,6 miliardi di euro posti a base della gara si riferiscono ai costi di due anni fa, a tempi di cantiere che sono lievitati da sei a dodici anni (teoricamente il primo veicolo passerà sul Ponte nel 2018). Alcuni costi aggiuntivi, rispetto al primo progetto, sono stati imposti dal CIPE con ben 35 prescrizioni per limitare l'impatto ambientale e che, secondo gli ambientalisti, comporteranno rincari fra 1,5 e 3 miliardi di euro. Altri costi, altri rincari non mancheranno, in corso d'opera.
E però, ieri, le agenzie hanno battuto la stupefacente dichiarazione del presidente della Infrastrutture SpA, Raffaele Monorchio (ex ragioniere generale dello Stato, uno che di conti se ne intende) il quale ha affermato: «Al punto in cui siamo, dico che è impossibile non fare il Ponte. Lo Stato pagherebbe, a causa delle penali, cifre equivalenti alla costruzione del Ponte stesso». Come dire, questa maxi-opera «bisogna farla», anche se è una sorta di “boiata pazzesca”, da ogni punto di vista. Una dichiarazione sbalorditiva e, nella sostanza, “terroristica”.
Vediamoli questi punti di vista. Il Ponte sullo Stretto si cala su due sponde insidiate dal più alto rischio sismico. Il terremoto (con tsunami) del 1907 fu della magnitudo Richter 7,1 e su di essa è stata tarata la sicurezza del grande manufatto, ma in varie parti del mondo vi sono stati di recente sismi di magnitudo 8,9. Inoltre, secondo il Wwf Italia, si sono prese in considerazione scosse di 30 secondi, mentre quella dell'Irpinia, per esempio, fu di 80 secondi.
Nell'aprile scorso il rappresentante del Consorzio capeggiato dall'austriaca Strabag si è ritirato dalla gara affermando: «Il rischio legale, geologico e tecnico-finanziario è troppo alto». Era evidente anche l'allusione agli inquinamenti malavitosi nei lavori della maxi-opera, di cui si è già avvertita qualche ombra. La pioggia di subappalti non potrà non favorirli.
Il Ponte viene calato dall'alto, con opere di allacciamento imponenti che vanno ad impattare direttamente su zone o altamente abitate oppure di alto pregio ambientale e paesistico, fra due regioni le cui reti viarie e ferroviarie non potrebbero essere più asfittiche e invecchiate. Le autostrade siciliane sono quelle che sono, molto modeste, e i convogli merci viaggiano, per lo più, su ferrovie a binario unico e non elettrificate: velocità commerciale sui 24 Km orari. Del resto, rileva Legambiente, per andare da Palermo a Siracusa si impiegano quasi 6 ore di treno e fra Trapani e Siracusa le ore diventano 9 e mezzo. Non va meglio sul versante calabrese. Qui l'ammodernamento dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria, ai ritmi attuali, sarà completato, secondo la Cgil, fra ventisette anni almeno. Mentre l'Alta Velocità ferroviaria Battipaglia-Reggio Calabria presenta costi insostenibili (oltre 20 miliardi di euro), tali da renderla impensabile.
Quali sono allora le previsioni di traffico sul Ponte? In ogni caso modeste. Nell'ipotesi bassa, 10.000 veicoli al giorno, nell'ipotesi alta 18.000. Non il giorno dopo la sua inaugurazione, bensì nel 2032. Ora, se si tiene conto che la potenzialità del Ponte sullo Stretto è invece di 100.000 veicoli al giorno, si può dire che essa sarà sfruttata, nella migliore delle previsioni, al 18 per cento (previsioni del DICOTER, organismo tecnico del Ministero delle Infrastrutture, si badi bene). Difatti, per non sbagliare, alle Ferrovie dello Stato è stato imposto un canone annuo di 100 milioni di euro, che tanto somiglia ad una tassa a favore del Ponte. Sarà una domanda banale: i 4,4 miliardi, che poi diventano, come minimo, 6 e poi non sappiamo quanti ancora, non era meglio investirli nei porti siciliani e calabresi, nella rete viaria e ferroviaria e così via? Ma, allora, che senso ha parlare oggi di tariffe per i camion, le auto e le moto uguali a quelle odierne dei traghetti in servizio? Se il traffico oscillerà, nel 2032, tra il 10 e il 18 per cento della potenzialità del Ponte, quali dovranno mai essere le sue tariffe reali per rendere remunerativa la gestione complessiva? O non dovrà intervenire lo Stato? Sarebbe, a quel punto, una beffa clamorosa. E, allora, non era meglio migliorare strade, ferrovie, porti e i traghetti?
Fra l'altro, infiltrazioni mafiose a parte (sempre pericolosissime), il gigantesco cantiere assicurerà, si promette, l'occupazione nell'intero anno di 40.000 unità (vedremo con quali contratti). Alla fine dell'opera, non rimarrà quasi nulla, mentre gli attuali traghetti occupano oltre 1.200 addetti, in modo stabile ovviamente.
Il traffico camionistico sta inoltre flettendo. Il trasporto su gomma, tipicamente italiano, sembra avere un futuro per niente radioso. Al contrario della combinazione treno-nave-treno, con navi-portacontainers e treni bloccati tuttomerci. Di recente uno stesso carico ha viaggiato, in parallelo, da Palermo a Livorno in autostrada e per nave, arrivando prima per mare e con i conducenti sereni e riposati. Questo è il futuro ormai prossimo e a questo il Ponte o non dà risposta oppure ne dà una già decisamente vecchia, in controtendenza rispetto agli sviluppi europei, e costosissima. Nel Nord Europa la politica dei traghetti veloci sta battendo quella dei ponti. Purtroppo, ha ragione Gaetano Benedetto, segretario generale aggiunto del Wwf, quando afferma che con questa aggiudicazione dell'appalto si è posta una grave ipoteca sui conti pubblici e lo si è fatto non in base ad una analisi costi/benefici, bensì in base ad un mediocre calcolo politico, di tipo elettoralistico. Si potrà, con un governo diverso, rivedere a fondo la questione? Non sarà facile. Ma bisognerà provarci, al di là del troppo facile “terrorismo” sulle penali da pagare.
Cosa deve intendersi per "terrorista"? Di primo acchito, tutti concordiamo che gli autori dell’orrendo attacco dell’11 settembre 2001 a New York e Washington e delle devastazioni del 7 luglio a Londra erano terroristi. Ma altri casi meno netti fanno sorgere dubbi. Gli iracheni che all’inizio del mese hanno fatto saltare a nord di Bagdad un camion pieno di marines possono essere definiti terroristi? E i due arabi che il giudice Clementina Forleo aveva scarcerato definendoli "combattenti" o "guerriglieri", dovevano essere invece qualificati come terroristi, come ritiene invece il procuratore Spataro nel suo appello? È giusto condannare come terrorista, come fecero i giudici statunitensi, Timothy McVeigh, che nel 1995 fece saltare in aria un edificio governativo ad Oklahoma City, ammazzando 168 persone per vendicare l’uccisione da parte dell’Fbi dei membri di una setta religiosa a Waco, nel Texas? Avevano ragione Kofi Annan e Ariel Sharon, quando hanno definito terrorista il militare israeliano che il 5 agosto scorso ha aperto il fuoco contro alcuni civili in un villaggio druso alla periferia di Haifa, uccidendone 4, per protestare contro il piano Sharon per il ritiro da Gaza? E si può condividere la qualifica di terroristi data dal ministro Roberto Calderoli a quelli che lanciano sassi dai cavalcavia? Insomma: esiste una definizione accettabile di "terrorista" e "terrorismo", o è vero, come è stato detto, che i giuristi "annaspano" nel buio?
In realtà da tempo esiste in tutta la comunità internazionale un accordo di fondo sulla definizione. Questa però non è stata tradotta in norme giuridiche rigorose perché i Paesi arabi da anni insistono su una eccezione: a loro giudizio i "combattenti per la libertà" (sudafricani che lottavano contro l’apartheid, palestinesi che si battono contro Israele nei territori occupati, ecc.) non possono essere considerati in alcun caso terroristi, neanche quando le loro azioni violente colpiscono direttamente civili, perché la loro lotta è legittimata dal fine che perseguono (liberazione di un popolo). Ancora nel 1998 e nel 1999 Convenzioni internazionali della Lega araba e della Conferenza islamica prevedevano espressamente quell’eccezione. Persistendo il disaccordo tra paesi arabi e tutti gli altri Stati sull’eccezione, mancava anche un’intesa generale sulla regola. Per fortuna negli ultimi tempi la Lega Araba, pur mantenendo ferme le sue posizioni ideologiche e di principio sulla legittimità delle lotte di liberazione nazionale, ha ammesso che azioni violente contro civili, anche se intraprese da "combattenti della libertà", costituiscono atti di terrorismo. Rimangono riluttanze della Conferenza islamica, guidata da Stati più radicali. La Conferenza, soprattutto per ragioni ideologiche, blocca i lavori delle Nazioni Unite su una Convenzione generale sul terrorismo: pur ammettendo che violenze contro civili, ad esempio nei territori palestinesi occupati, possano essere qualificati come crimini di guerra, non vuole definirli atti di terrorismo. Ma se non è zuppa è pan bagnato: le norme internazionali sui conflitti armati vietano anche, e criminalizzano, "atti o minacce di violenza il cui scopo primario sia quello di diffondere il terrore nella popolazione civile". Insomma, esistono i crimini di guerra di terrorismo.
Oggi si è dunque faticosamente arrivati ad un consenso sostanziale e quasi unanime sul terrorismo, come è dimostrato dalle leggi di numerosissimi Stati (ultima quella italiana, contenuta nel pacchetto Giuseppe Pisanu) e da tanti trattati e risoluzioni internazionali. Qual è la definizione su cui si è d’accordo? Eccola. È terrorista chiunque 1) commetta un’azione criminosa (omicidio, strage, dirottamento di aerei, sequestro di persona, ecc.) contro civili o anche contro militari non impegnati in un’azione bellica (che ad esempio partecipano ad una funzione religiosa); 2) compie l’atto al fine di coartare un governo, un’organizzazione internazionale o anche un ente non statale (ad esempio, una multinazionale); questa coartazione può avvenire diffondendo il terrore nella popolazione civile (si pensi agli attentati di Londra del 7 luglio) o con altre azioni (ad esempio, facendo saltare, o minacciando di far saltare, il ministero della Difesa, la banca nazionale, o un’ambasciata straniera; o sequestrando il capo del governo o anche di una multinazionale, se questa ad esempio non dà armi a guerriglieri); 3) per una motivazione politica o ideologica (quindi non per fini di lucro o per impulsi personali di vendetta o altro).
Rivediamo ora, alla luce di questa definizione, i vari esempi che ho dato all’inizio, per stabilire quale rientra e quale no nella categoria di "terrorista". Gli iracheni che hanno fanno saltare in aria un camion pieno di marines non hanno compiuto un atto terroristico, perché hanno colpito militari impegnati in azioni belliche; tuttavia, poiché agivano senza portare apertamente le armi, ossia non come legittimi combattenti, sono comunque colpevoli di un crimine di guerra, e possono quindi essere debitamente puniti.
Gli arabi scarcerati dal giudice Forleo potrebbero essere definiti "combattenti" o terroristi, a seconda delle circostanze di fatto: la Forleo ha ritenuto che quelle circostanze erano tali da farli considerare combattenti, mentre Armando Spataro ha concluso in senso contrario. Ma la distinzione giuridica in sé, delineata dalla Forleo, tra terroristi e coloro che partecipano ad azioni belliche rispettando sia le norme del diritto umanitario sui legittimi combattenti sia quelle sulla tutela dei civili, è corretta. Invece, l’azione di McVeigh non costituiva un crimine di terrorismo, perché mancava la motivazione politica o ideologica: era semplicemente una strage, come quella del militare israeliano. In entrambi i casi si trattava della vendetta o della protesta di un folle. Anche i forsennati che lanciano pietre dai cavalcavia non sono terroristi, perché non vogliono coartare l’azione delle autorità, e non hanno alcuna motivazione politica o ideologica. Sono colpevoli di omicidio volontario o di strage.
Queste distinzioni non sono oziose. Non solo in Italia, ma anche altrove gli strumenti investigativi a disposizione delle forze dell’ordine, così come le pene, cambiano a seconda della definizione dell’azione criminosa. Sarà perciò utile usare le "etichette" giuridiche con avvedutezza, non a sproposito, come fanno taluni qui da noi.
Postilla
Inquietanti le definizioni raccontate, senza batter ciglio, da quel serio giurista che è Antonio Cassese. Secondo la definizione che egli riporta sarebbero infatti considerati terroristi i partigiani della guerra di liberazione nazionale che contribuì a sconfiggere il nazifascismo in Italia, le analoghe azioni del maquis in Francia, della Resistenza in tanti altri paesi europei occupati dai nazifascisti, i combattenti del FLN in Algeria (ricordate il bellissimo film di Gillo Pontecorvo?). Sarebbero invece assolti gli autori degli atti di “guerra dichiarata” che portano allo sterminio di migliaia di civili. E’ proprio vero che sganciare la forma del diritto dalla sua sostanza, e la legge dalla storia, può portare a conseguenze aberranti
Avventurieri all'assalto
A differenza di altri, noi crediamo a ciò che ha detto Silvio Berlusconi quando ha assicurato di non avere alcuna parte nella scalata alla Rcs. Ci crediamo, vogliamo crederci, perché ci sembra ovvio che in un Paese serio si creda alla parola del presidente del Consiglio, almeno fino a prova contraria: e tale non ci pare neppure il fatto, per altro inoppugnabile, che troppe volte, in altre occasioni, le sue parole hanno reso un pessimo servizio alla verità.
Ma il punto non è tanto quello dell'effettiva attendibilità del presidente del Consiglio nel caso specifico: è il dubbio massiccio e permanente che su faccende importanti come queste grava da anni e anni su ogni sua parola e azione, rendendone la figura costantemente ambigua e non credibile agli occhi di una parte vastissima dell'opinione pubblica interna e della maggioranza degli osservatori internazionali. Un sospetto, una diffidenza costanti aleggiano intorno al presidente del Consiglio italiano ogni qualvolta si tratti di soldi, di aziende, di affari e di tutto ciò che abbia a che fare con queste cose, sia direttamente che indirettamente, sia nella sfera pubblica che in quella privata.
Berlusconi dirà sicuramente che ciò accade perché contro di lui esiste un pregiudizio instancabilmente e maliziosamente alimentato dalla sinistra per screditarlo e demonizzarlo. Ma non è così: o meglio, il tentativo di demonizzarlo c'è, ma il tentativo non ne spiega il successo. In realtà, sospetti e diffidenze, nonché il successo della demonizzazione ora detta, si spiegano con quella cosa che Berlusconi conosce benissimo e che si chiama conflitto d'interessi. È il conflitto d'interessi — a dispetto di ogni promessa mai sciolto, ma sempre furbescamente aggirato — che gli ha fin qui impedito di incarnare qualunque immagine istituzionale vera; è quel nodo che lo rende un candidato dato per perdente alle prossime elezioni perché perdente è il bilancio dell'azione del suo governo, di continuo condizionata da quel conflitto, che si trattasse della televisione, della magistratura, del calcio, della legislazione societaria, delle banche o di che altro. È il conflitto d'interessi che dal 2001 rappresenta la palla al piede per il ruolo politico del capo della destra, tra l'altro sottoponendone la maggioranza a continue, sfibranti, tensioni.
È altresì questa situazione che oggettivamente alimenta non solo le voci circa sue presunte mosse improprie (come sarebbe quella di una scalata a una casa editrice) quanto quel clima più generale fatto di progetti avventurosi, di protagonisti improbabili e di rilassatezza dei controlli e delle regole che da tempo si respira nel Paese. Non è una nuova tangentopoli, certo. Ma è qualcosa che alla fine produce un intreccio tra politica e affari egualmente, o forse anche più, patologico, dal momento che sulla scia dell'esempio fornito dal presidente del Consiglio, per politica oggi si deve intendere quasi esclusivamente la rete di relazioni, il circuito di influenze, i disegni di potere, le leve economico-finanziario-giornalistiche facenti capo non già a partiti e correnti ma a singole individualità impegnate in un accrescimento di potere anch'esso, alla fine, esclusivamente personale. Talvolta avventurieri. Non c'è più un sistema politico corrotto, si direbbe, non c'è più una corruzione sistemica, insomma: ora è piuttosto il tempo dei disegni spregiudicati di pochi capi solitari.
In poco meno di quattro anni siamo passati dal «siamo senza parole» di fronte alle torri gemelle che crollavano alla limatura delle parole di fronte alla tube che salta. La Bbc non parla di terroristi kamikaze ma di bombers, e li distingue dai criminali irlandesi e dai militanti palestinesi. Giovanni Sartori, sul Corsera di domenica, ha contestato questo codice della tv britannica, che più che di understatement gli sa di manipolazione: inganna i telespettatori, sostiene, e eliminando il nome occulta la cosa, cioè la cruda realtà del terrorismo. Ma lo stesso Sartori conclude ammettendo che qualche problema, sulla parola «terrorismo», c'è: «sulla definizione del termine i giuristi ancora annaspano», e anche se di massima il termine indica l'intenzione di seminare terrore senza limiti di mezzi e di bersaglio, resta la difficoltà di distinguere con diverse parole diversi tipi di terrorismo: suicida e non, locale e globale, resistente, partigiano e via dicendo. Non sono sottigliezze e non riguardano solo il terrorismo. La verità è che, da quando ci sentimmo tutti senza parole, le parole sono diventate tutte controverse e differenziali, come i fatti a cui si riferiscono: un terrorismo diverso da quello che prima chiamavamo terrorismo, una guerra diversa da quella che prima chiamavamo guerra, una democrazia diversa da quella che prima chiamavamo democrazia. Le stesse parole di prima per una realtà che non è quella di prima: un lessico politico usurato per un mutamento che si stenta a interpretare, o si tenta di imbrigliare in parole e categorie note. Altro esempio: c'è in giro un gran parlare di equilibrio fra sicurezza e libertà, e di quanta libertà siamo disposti a sacrificare alla sicurezza. Ma quale sicurezza, e quale, o quali, libertà? C'è un significato evidente per tutti del richiamo alla sicurezza che riguarda le vite; ma quando giro pagina e dalla cronaca delle stragi di Londra o di Sharm el Sheik passo alla cronaca dell'Italia ordinaria e leggo che ogni famiglia spende in media 700 euro all'anno per blindare casa, l'evidenza del termine sicurezza sfuma. Di libertà credo che siamo disposti a sacrificarne pochissima e giustamente, ma anche qui bisognerebbe intendersi: vedere la libertà ridotta a chance, consumo e strafottenza dell'individuo proprietario non era granché nemmeno prima che ce la insidiassero i kamikaze, e quanto ad altre e più nobili connotazioni del termine, anch'esse scarseggiavano già da prima nelle nostre democrazie apatiche, spoliticizzate e largamente abitate dalla servitù volontaria di laboétieiana memoria. Ma chissà perché l'individualismo e il relativismo sono da attaccare, per i nostri neocon, quando c'è di mezzo il referendum sulla procreazione assistita e tornano a essere valori assoluti da difendere quando c'è di mezzo il fondamentalismo islamico.
Come tutte le guerre, anche questa guerra civile globale è anche una guerra di parole. Ma con le parole della tradizione politica occidentale non c'è più tempo di giocare: nella conta quotidiana dei morti il gioco linguistico trova il suo tragico limite. La scoperta - tardiva, data la già lampante impronta degli attentati dell'11 settembre - della formazione occidentale, e in specie europea, di molti kamikaze islamici ha suonato la sveglia per molte analisi troppo sicure di sé: quelle che si figurano uno scontro fra civiltà distinte e demarcate, ma anche quelle, di segno opposto, che credono di spiegare tutto con la spirale guerra-terrorismo. Gli immigrati di terza generazione nelle metropoli europee più sedotti da Allah e dalla jihad che dall'integrazione e dalla democrazia non sono degli alieni ma degli specchi, che ci rimandano la crisi dell'universalismo, della libertà, dell'uguaglianza e di tutte le altre parole d'ordine della modernità politica e dell'individuo politico moderno di cui noi occidentali siamo gli artefici. Prima le passiamo criticamente al setaccio, prima riacquisteranno un senso in primo luogo per noi stessi.
Il Tar Lazio ha respinto i ricorsi del Civ (consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inpdap) e dei consigli di amministrazione degli enti (Inail-Inpdap-Inps) che si sono visti requisire le sedi degli uffici dal governo, conferite al Fip, fondo immobili pubblici appositamente costituito. La prossima tappa di questa partita sulla finanza creativa sarà il Consiglio di Stato.
La “questione immorale” è una miscela esplosiva fatta di svendita del patrimonio pubblico, senza regole e senza certezze, di rendita parassitaria che comprime tutti i settori produttivi del Paese, di azzeramento della legalità, di difesa degli interessi di chi governa, di tolleranza all'assalto alla ricchezza e ai beni del paese, di collusioni negli affari e nella politica con le organizzazioni mafiose. D’altronde, gli incensurati di questi tempi non se la passano bene. Chi delinque o l’ha fatto prima, ha le porte aperte e gode dell'apprezzamento o quanto meno della comprensione di parti significative delle classi dirigenti, nella accezione più estesa.
Il Paese è in vendita. Si vende tutto: case di abitazione, sedi degli enti, e forse domani del governo e del parlamento, caserme e forti, scali e stazioni ferroviarie, terreni del demanio, spiagge. Ma nel turbinio di operazioni illusionistiche di finanza creativa, quelle che riguardano lo Stato sono fittizie e virtuali, mentre quelle che riguardano i privati sono vere e remunerative. Lo Stato ha creato società e le ha chiuse; ha comprato beni che erano suoi e li ha venduti a se stesso. Come qualsiasi faccendiere d'assalto che opera nei paradisi fiscali, ha creato un sistema di finanza pubblica sanzionata da tutti gli organismi internazionali. Tremonti, principe della finanza creativa, per la quale ha un'attrazione erotica, ha presentato il piano di svendita come «la più grande operazione di cartolarizzazione di uno stato sovrano e la più grande emissione di Abs (asset- backed securities) mai realizzata in Europa». Così è nato «Lo Stivale di carta», titolo di un libro, autori i giornalisti Giuseppina Paterniti e Angelo Fodde (Editori Riuniti), ben documentato. A proposito delle cartolarizzazioni versione Berlusconi-Tremonti prendiamo le vicende di Scip 1 e Scip 2, le società inventate e incaricate di condurre in porto le vendite del patrimonio pubblico. La Scip 1 nasce il 23 Novembre 2001, subito dopo l’annuncio di Tremonti in diretta tv sul presunto buco lasciato dal centro sinistra. Nell’atto di nascita è scritto che la società ha come oggetto esclusivo «la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici». Il capitale sociale della srl, che in quanto tale non è soggetta a controlli, è di 10.000 euro, una inezia, anche se la società deve vendere e gestire 27500 unità residenziali e 262 immobili non residenziali. Il meccanismo è noto: la società anticipa al governo una parte del denaro previsto che si fa dare dalle banche le quali guadagnano interessi e commissioni o ricava dai titoli, bond, messi sul mercato sperando che i cittadini li comprino. Nel 2002, nasce la Scip 2, anche perché le cose non hanno funzionato bene e con la rapidità prevista per fare fronte ai buchi di bilancio. L’operazione di vendita programmata è davvero imponente: 62500 immobili tra case, uffici, negozi, terreni dello Stato e di tutti gli enti (Enpals, Inail, Inps, Inpdap, Ipost, Ipsema), valore complessivo 9639 di euro.
Lo Stato vende se stesso. Ma non tutto è chiaro e trasparente. La composizione del capitale sociale della Scip è al 50% di due fondazioni olandesi (Stichting Thesaurus e Stichting Palatium) con sede ad Amsterdam, le quali partecipano al capitale con la somma di 5000 euro. Amministratore unico delle due fondazioni olandesi è un “trust fund” di Amsterdam che ha creato le due fondazioni 18 giorni prima che la Scip nascesse e cioè il 5 Novembre del 2001 («Lo Stivale di carta»). I due autori del libro raccontano di essere andati alla ricerca della sede della Scip ma non hanno trovato nemmeno una targa. Sul palazzo campeggiava la targa di Kpmg, nota società finanziaria multinazionale che amministra il programma di cartolarizzazione, funge da consulente e, naturalmente, viene pagata. L'amministratore delegato della Scip è un certo Burrows Gordon, cittadino inglese, nominato per tre mandati. Solo che quando un gruppo di inquilini che vogliono comprare gli appartamenti dove abitano, vuole chiarimenti, in perfetto stile anglosassone, risponde di rivolgersi direttamente al ministero dell’Economia. Il perché di queste scelte per una operazione di vendita del patrimonio pubblico del nostro Paese, nessuno lo sa. Nemmeno il Parlamento che dovrebbe essere informato dal ministro ogni sei mesi e che invece rimane all'oscuro di tutto. Ma una cosa è certa. Mentre gli immobiliaristi sono riusciti a comprare un pezzo del Paese con il 35% di sconto sui prezzi iniziali, lo Stato ha incassato di meno, le spese per commissioni di collocamento dei titoli, consulenze legali, pagamento degli amministratori ecc sono state di 744 mila euro e quelle necessarie per concludere il contratto con alcune banche estere a copertura del rischio di tasso sono state di 2'5 milioni di euro. Il patrimonio del bel paese, nel solo primo anno di vita della Scip, ha arricchito un sacco di persone che abitano altrove.
Quanto alla vertenza in corso con gli Enti, decisa con la sentenza del Tar Lazio, le imposizioni sembrano una rapina. Infatti, Inail, Inps, Inpdap sono costretti a vendere le sedi, a riaffittarle con un enorme esborso di denaro e come se non bastasse rimangono responsabili della gestione e della manutenzione delle stesse. Cose mai viste nemmeno nel peggiore dei regimi.
La vendita del patrimonio dei beni culturali e degli ospedali al prossimo articolo. Vedremo come anche la famiglia Bush si è data da fare.
DICO subito, per la chiarezza che debbo ai nostri lettori, che il caso Rutelli-Margherita sarà uno dei punti di questa mia predica domenicale (così la definiscono molti miei amici e moltissimi dei miei critici). Uno dei punti ma non il solo e comunque inserito in un contesto che finora è stato trascurato.
Alcuni grandi giornali europei, il Financial Times, l´Economist, hanno definito il nostro paese come il grande ammalato d´Europa e Ezio Mauro ha molto opportunamente fatto nostra quella definizione. La quale si fonda sull´insufficienza della nostra economia reale (che datano da molti anni) e della nostra economia finanziaria (che era stata provvidamente risanata negli anni tra il 1992 e il 2000 e che è stata di nuovo e ancor più profondamente dilapidata nei quattro anni del fantasismo berlusconiano.
Ma il dissesto economico-finanziario è solo uno degli aspetti del malanno italiano. Esso va collocato all´interno di un quadro e di una cornice che danno il tono all´insieme e interagiscono con l´insieme, ne rappresentano la causa prima e al tempo stesso l´effetto più rilevante.
La disgregazione: questo è l´elemento di fondo della crisi italiana. Una disgregazione presente in tutti gli aspetti della vita pubblica, politici, culturali, economici, sociali. Una disgregazione da 8 settembre, contrastata soltanto da poche forze e da pochissime personalità, come avvenne appunto nell´Italia del dopo 8 settembre.
La disgregazione d´un corpo sociale è una malattia di lenta incubazione, che lavora sottotraccia, corrompe e divora i tessuti, alla fine esplode e si manifesta con tutta la sua virulenza. Noi speriamo che ora, di fronte a quella virulenza, gli anticorpi e le difese immunitarie si mettano al lavoro. Noi speriamo che ne abbiano ancora il modo e il tempo, non sembri inutile retorica se ricordo, come del resto ho fatto altre volte, che se c´è un uomo che in questi anni disgregati e disgreganti ha fatto il possibile e l´impossibile per contrapporre coesione e cura del bene comune, quest´uomo è stato Carlo Azeglio Ciampi, che ha iniziato l´altro giorno l´ultimo anno del suo settennato. Non può dunque che esser lui il nostro punto di riferimento.
Non è un punto di riferimento neutrale né tanto meno banale. Operare per la coesione del bene comune in un mondo dominato dall´egoismo, dalla visibilità propria a danno di quella altrui, dall´amor proprio contro l´amore per gli altri, non è neutrale né banale. È, al contrario, l´essenza della laicità responsabile e del cristianesimo testimoniato dal Vangelo. Purtroppo sia l´una che l´altro sono stati abbandonati da gran parte dei loro sedicenti seguaci in una società che si sfascia come una zattera fragile in mezzo a un mare tempestoso.
In questo contesto si colloca il caso Rutelli- Margherita: il rischio è compromettere il cambiamento nella guida del Paese
Il dissesto economico è solo uno degli aspetti del malanno italiano: l´elemento di fondo è la disgregazione di tutta la vita pubblica
Uno degli esempi più recenti e più visibili della disgregazione nazionale si è visto all´opera nelle elezioni al comune di Catania. Se è vero che il linguaggio è la manifestazione di una persona e del suo pensiero, si fa fatica a comprendere il fatto che il 52 per cento dei catanesi si sia riconosciuto nel riconfermato sindaco di quella città. Il linguaggio di quel medico prestato alla politica è scurrile, i suoi lazzi sono quelli delle taverne, ma non è questo l´aspetto più disgregante. Per vincere la sfida quel sindaco rivendica la sua abilità ad aver ottenuto una massa di risorse destinate alla Sicilia e concentrate nel capoluogo occidentale dell´isola con la benevola complicità del ministro di un ministero che ha per nome la "coesione del territorio". Denominazione quanto mai fantasiosa ma comunque stringente, tradita dal fatto d´aver funzionato come una pompa idrovora per irrorare una campagna elettorale altrimenti rischiosa e forse perdente.
Il centrodestra ha vinto a Catania? Neppure questo è interamente vero.
A Catania hanno vinto i sicilianisti di Lombardo con il 20 per cento dei consensi, riducendo Forza Italia dal 26 al 14 per cento, l´Udc dal 9 al 4, Alleanza nazionale dall´8,7 al 7,8. Se a questo si aggiunge che il voto di An è stato in gran parte ottenuto dal co-sindaco Musumeci, anch´egli in aperto distacco dal suo partito, si deve concludere cifre alla mano che le liste locali hanno ottenuto un quinto dei voti espressi e il 50 per cento della maggioranza su cui si regge lo Scapagnini riconfermato.
Non ci sarebbe nulla di preoccupante nella vittoria di liste locali se non fosse che i loro leader hanno dato alla vittoria un significato politico che va molto al di là di Catania. Quelle liste rappresentano infatti il nucleo germinale di una Lega sicilianista che dovrà propagarsi in tutta l´isola e comportarsi politicamente secondo il modello della Lega padana, condizionando l´azione del governo nazionale così come la Lega padana ha fatto in questi quattro anni.
Gli esponenti della Lega padana dal canto loro non sono stati affatto allarmati da questa possibile contrapposizione, anzi se ne sono dimostrati entusiasti. Il ministro delle Riforme, Calderoli, ha già in programma un viaggio in Sicilia per meglio erudire i nuovi compagni di strada. Come togliere il potere a Roma-ladrona, agendo a tenaglia dal Nord e dal Sud: questo è il programma, che si materializzerà in un "arraffa-arraffa" delle risorse disponibili. Ma quali risorse? Quelle esistenti non bastano a soddisfare gli appetiti perché qui non si parla di piani di sviluppo coerenti che abbiano il Mezzogiorno come tema di politica nazionale, bensì di regalie che rafforzino ed estendano clientele e centri di potere locali.
L´alleanza tra clientele di questa natura non può avvenire che con l´obiettivo di rompere le compatibilità economiche e finanziarie del sistema Italia e portarle fuori dai confini dell´Unione europea. Se le Leghe locali, al Nord e al Sud, dovessero essere il modello vincente, la nuova sovrastruttura politica e istituzionale del Paese, la sottostante struttura sarebbe fondata su clientele e "bande cammellate" politicamente nomadi, tallonate e infiltrabili da poteri extra-statuali storicamente presenti in forza in quelle società. La localizzazione della politica denuncia una tragica debolezza dei partiti nazionali e delle istituzioni centrali e locali.
Disgrega un tessuto, non lo articola; consegna i cittadini al dominio delle classi dirigenti locali; moltiplica le leggi e differenzia gli ordinamenti, gli statuti, i servizi pubblici, le retribuzioni e i diritti dei lavoratori.
Le nuove Leghe saranno federate al partito nazionale berlusconiano. Infatti Berlusconi non è affatto preoccupato da queste prospettive. Sarà pur sempre lui il punto di riferimento centrale, il protettore del sistema delle clientele. Leggete sul Giornale di venerdì scorso l´intervista del neoministro Miccichè. Lì è tutto spiegato con una chiarezza che fa paura: l´Italia delle Leghe, alias delle clientele, federate col potere centrale. Per questo ci vuole un partito unico, perché le Leghe non possono convivere con più partiti. Il sistema non è né moderno né postmoderno, ma semplicemente e regressivamente feudale. Un re e uno stuolo di vassalli e di valvassori; i titolari dei feudi sono padroni in casa propria, il re ne riceve l´omaggio e la fedeltà, l´ospitalità nei castelli, l´investitura a regnare e assume in contropartita l´impegno di difendere le prerogative feudali e il sistema che le legittima.
Lo slogan di partenza (ricordate?) fu "meno Stato, più mercato"; lo slogan di arrivo è diventato "niente Stato, niente mercato".
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Un altro esempio, altrettanto recente e altrettanto significativo, di disgregazione emerge dalle vicende dello scontro attorno ad alcuni istituti bancari. Due istituti di credito europei, valendosi delle regole di mercato vigenti in Europa, hanno tentato di acquisire il controllo di banche italiane.
La Banca d´Italia ha cercato di ostacolarle opponendo ogni specie di difficoltà e incoraggiando cordate italiane di difesa.
La qualità, la trasparenza, la solvibilità di tali cordate è estremamente dubbia, al punto che gran parte di coloro che vi partecipano si trovano in questo momento sotto istruttoria giudiziaria per reati che vanno dalla truffa all´insider trading, all´aggiotaggio, alla turbativa di mercato.
Anche qui si acconcia la definizione di "bande cammellate": gruppi di interesse finanziari e palazzinari all´assalto del sistema bancario, banche d´avventura che finanziano i propri azionisti prendendone a riporto i titoli. Sono gli stessi ovunque e gli stessi che ora cingono d´assedio il Corriere della Sera, che già fu vittima appena vent´anni fa del padronaggio della P2.
Non siamo anche qui in presenza d´una disgregazione di forze che nulla ha a che fare con l´emergere di energie nuove e propulsive, bensì con il peggiore affarismo pronto a legarsi con chiunque gli apra varchi e gli offra legittimazione? Asservendo, se gli riuscirà, uno strumento di comunicazione prezioso per poter manipolare i fatti, gli interessi, le immagini, e infine la verità?
Abbiamo purtroppo numerose esperienze di fatti del genere, ma qui la disgregazione del sistema creditizio avviene su un corpo fragile e in un contesto dove gli organi di controllo e le autorità di garanzia periclitano ogni giorno di più. All´erta sentinella! Ma le sentinelle sono ormai poche e molto assonnate.
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Purtroppo è questo il contesto nel quale si pone il caso Rutelli-Margherita. Appassiona il ceto politico, sconcerta gli elettori del centrosinistra, rischia, eccome, di capovolgere la tendenza che sembrava aver guadagnato terreno ad un cambiamento politico alla guida del Paese.
Il racconto e il commento a quanto è accaduto tre giorni fa all´interno del partito di Rutelli, di Marini, di De Mita, sono già stati scritti su questo giornale e ad essi mi resta ben poco da aggiungere né voglio addentrarmi nella ricerca delle intenzioni dei protagonisti. Posso soltanto ordinare i fatti, la loro sequenza, il segno oggettivo che ne deriva, magari a dispetto delle imperscrutabili intenzioni di chi lo ha promosso.
1. L´80 per cento della Margherita ha "sovranamente" deciso che alle prossime elezioni politiche (tra un anno) quel partito presenterà una sua lista con il suo proprio simbolo per la quota proporzionale prevista dalla legge elettorale.
2. La conseguenza tecnica di questa decisione sarà la scomparsa dalle schede elettorali del simbolo dell´Ulivo, del quale nessuna altra lista potrà avvalersi essendo quel simbolo di proprietà comune dei suoi fondatori tra i quali c´è la stessa Margherita. Altri potrebbero usarlo ma soltanto se la Margherita gliene desse il permesso: ipotesi che possiamo escludere con certezza.
3. Rutelli, Marini, De Mita e i loro sodali hanno confermato la loro fiducia nella Federazione dei partiti riformisti, già fondata e già munita di organi e regole, nella leadership di Romano Prodi, nella coalizione dell´Unione che va da Mastella a Bertinotti.
4. La Margherita si autonomizza elettoralmente per intercettare i voti moderati in uscita dalla Casa delle libertà. Si autonomizza altresì perché la lista unitaria della Federazione, voluta da Prodi, segnerebbe una subordinazione del partito Margherita ai Ds, dati i rapporti di forza esistenti.
5. Rutelli, Marini, De Mita, hanno lanciato contro i medesimi Ds accuse di slealtà e di complessi egemonici di natura leninista, con un´asprezza di linguaggio del tutto inusuale tra forze alleate.
6. De Mita ha anche proposto nel suo intervento che il partito si schieri per l´astensione dal voto nel prossimo referendum sulla procreazione assistita, zittendo pubblicamente e ruvidamente una donna partecipante all´assemblea perché – «in quanto donna» – non aveva la capacità di discutere su questioni serie e gravi.
7. Prodi, commentando da lontano le decisioni della Margherita, le ha definite «un suicidio». Non ha però precisato chi si è suicidato o chi è stato suicidato. Ha anche aggiunto che non è disponibile a guidare «un governicchio» composto da partiti rissosi e preoccupati principalmente di accrescere la propria visibilità a danno dell´intera alleanza.
8. In seguito a queste decisioni non si capisce dove potranno collocarsi i partiti minori (socialisti, Udeur, Verdi, Comunisti italiani, Di Pietro) i quali rischiano di non raggiungere la soglia minima prevista dalla legge elettorale, con la conseguenza di scomparire e di rendere inutili i voti da loro raccolti, con grave perdita per tutta l´Unione.
9. I Ds finora hanno emesso un comunicato di "preoccupazione" e aspettano il rientro in Italia di Prodi.
10. Rifondazione comunista, anche in seguito a questi fatti, sembra aver accresciuto la propria immagine di sinistra radicale, scatenando nella città-vetrina di Bologna un´offensiva contro il sindaco Cofferati, reo di "riformismo legalitario" anziché "riformismo movimentista".
Tutta la sequenza che ho qui sintetizzato senza discostarmi dai fatti oggettivi e non contestabili, si iscrive a mio avviso nel quadro della disgregazione. Tutto ciò che era stato con estrema fatica aggregato, soprattutto a opera di Piero Fassino, è stato ora disgregato. Non solo dalle decisioni prese ma ancor più dall´asprezza delle invettive e dalla rivendicazione d´una sovranità di partito che fa a pugni con l´esistenza d´una Federazione creata proprio per limitare la sovranità dei singoli partiti all´insegna di un disegno comune.
Se la Federazione doveva essere l´anima del riformismo e la lista "Uniti per l´Ulivo" il suo corpo visibile; se il corpo è stato ormai seppellito; è difficile capire dove possa esser finita l´animula tremula vagula. Oppure sia il corpo sia l´anima sono ora trasmigrati nella Margherita e in essa soltanto? O sono stati relegati in un limbo dove resteranno in perpetuo?
Queste sono le mie modeste domande di cittadino elettore (non so più per chi). Del cittadino elettore c´è qualcuno che si occupi? La sua rabbia e la sua frustrazione dopo questi deplorevoli accadimenti interessa a qualcuno? Rutelli, con bella eloquenza, ha detto che per tre anni ha mangiato pane e cicoria. È già stata una chance, visto che usciva da una sconfitta elettorale dopo la quale di solito i leader si ritirano dalla gara. Comunque non è certo il solo ad aver mangiato pane e cicoria. La vittoria alle regionali ha molti padri. Politici e anche non politici. Rutelli è certamente uno di loro. Forse anche Marini. Forse anche De Mita. Sicuramente non loro soltanto.
Prodi no? Ha mangiato pane e cioccolata? A me non sembra.
Quanto a me – se interessa – sono a dieta per ragioni terapeutiche. Non di salute ma di igiene mentale. E mi ci trovo benissimo e in ottima anche se piccola compagnia.
ALL'INIZIO sembrava un rebus. Non si capiva perché Follini volesse ritirarsi dal governo insieme a tutti i suoi ministri e sottosegretari. Non si capiva, al di là delle oscure motivazioni ufficiali, quale fosse il vero obiettivo di questa manovra da Prima Repubblica: un nuovo programma? Un nuovo governo dove la Lega contasse di meno e i centristi di più? Il logoramento a fuoco lento di Berlusconi? Le elezioni politiche immediate? E non si capiva perché mai Fini, che per primo aveva preso iniziative “revisionistiche” dopo la batosta elettorale delle regionali, da un certo momento in poi avesse lasciato Follini in mezzo al guado restando indifferente alle peripezie del suo alleato.
Poi il rebus assunse l'aspetto di un'operetta. Trascinato dall'empito vendicatorio di Storace e dal desiderio antico del camerata Alemanno di soppiantarlo nella guida del partito, Fini preannunciò anche lui il ritiro di se stesso e dei ministri dal governo se....
Quel “se” conteneva le stesse ingiunzioni elencate da Follini: nuovo governo, nuovo programma, sospensione della “devolution”, estromissione di Calderoli da ministro delle Riforme, nuova politica economica concentrata su imprese, famiglie e Mezzogiorno, fine della catastrofica strategia di riduzione dell'Irpef.
Nella tenaglia Fini-Follini Berlusconi tentò di giocare d'anticipo: si presentò da Ciampi per dimettersi ma strada facendo cambiò idea: non si dimise affatto, uscì da quell'incontro facendo marameo ai suoi (ex) alleati sfidandoli a negargli la fiducia, forte del conforto di Bossi. Ma poi, dopo averci dormito sopra e temendo il peggio, si pentì del voltafaccia della mattina e ritornò all'idea di accettare la crisi formale. La grandissima e inutile buffonata della crisi formale, come disse in Senato preannunciando le dimissioni che infatti dette mezz'ora dopo.
Un'operetta - dicevo - di cattiva musica suonata e cantata da attori scadenti. Passarono altre ventiquattr'ore e arrivò il giovedì.
La mattina di quel giorno il “premier” dimissionario ottenne da Ciampi il reincarico per formare il nuovo governo. Studia il programma secondo le linee richieste dagli (ex) alleati. Studia la struttura del nuovo ministero. Si mormora di novità importanti, di new entry clamorose. Venerdì sera finalmente il presidente del Consiglio è pronto per l'incontro con il capo dello Stato nella Sala della vetrata. Con in tasca la lista del suo terzo ministero.
A questo punto l'operetta diventa una comica. Ciampi lo accoglie con un impercettibile sorriso (o almeno così racconterà poi il Berlusconi furioso) e gli chiede subito se tra i nuovi ministri ci sia anche l'ex governatore del Lazio, Francesco Storace, battuto pochi giorni prima dal signor “Mi manda Raitre”. Affermativo, risponde il “premier”: alla Sanità.
Hai riflettuto bene sulle ripercussioni di questa nomina? Quali ripercussioni? chiede Berlusconi che comincia a fiutare puzza di bruciato. E Ciampi lo informa d'aver ricevuto pochi minuti prima una telefonata autorevole che lo avverte del profondo malcontento dentro Alleanza nazionale per una nomina così indigesta alla maggioranza del partito. “Almeno metà dei parlamentari di An non darà la fiducia al governo” prevede l'autorevole informatore del presidente della Repubblica. Ma chi è? sbotta Berlusconi.
Maurizio Gasparri, risponde Ciampi, e insiste: “Riflettici, consultati, non avere fretta”.
Ora la comica si fa serrata. Berlusconi ritorna nel suo ufficio e convoca Fini. Lo informa di quanto ha saputo.
Fini trasecola. Convoca Gasparri. Lo ricopre di contumelie e poi lo butta fuori dall'ufficio. Torna da Berlusconi e gli propone di cancellare il nome di Gasparri dalla lista dei ministri. Cercano insieme chi possa prenderne il posto.
Provano con La Russa. Mi piacerebbe, risponde il D'Artagnan dei poveri, ma non posso fare uno sgarbo a Maurizio. Allora Landolfi. Il quale accetta.
Tutto a posto? Non ancora. Berlusconi si sente ora più forte di fronte alla figuraccia del ministro degli Esteri.
Gli comunica d'aver deciso l'ingresso di Tremonti come vicepresidente del Consiglio al posto di Follini che per propria scelta resta fuori dal ministero.
Fini oppone una timida resistenza ma capisce che ormai la sua forza negoziale è ridotta a zero, con un partito diviso e disfatto.
Il “premier” taglia corto. Sabato mattina al tocco ritorna al Quirinale. Le “new entry” oltre a Tremonti sono quelle di Giorgio La Malfa e del socialista Caldoro, riesumato dalle catacombe del centrosinistra Prima Repubblica. E Micciché, per il quale viene inventato un ministero chiamato “Sviluppo e coesione territoriale”. Fantastico.
Spara il cannone dal Gianicolo. L'ufficio stampa dell'Udc diffonde un comunicato per annunciare che il partito valuterà in Parlamento se il programma e la struttura del governo meriteranno la fiducia oppure no. Il ministro leghista Maroni, dal canto suo, dichiara che con il ritorno di Tremonti nel governo la Lega passa da tre ministri a tre e mezzo. Altro che liquidazione dell'asse nordista.
La comica per ora termina qui. Martedì alla Camera si vota la fiducia.
Oppure no?
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Questo Paese si merita pagliacciate di questo infimo livello in un momento in cui incertezza e preoccupazione per il futuro sono al loro massimo e problemi gravi incombono non solo su di noi ma sull'Europa e sul mondo intero? Sarebbe diplomatico rispondere no, il Paese non merita uno spettacolo così avvilente. Ma la verità non è questa. La verità, per sgradita che sia, è che ogni paese ha la classe dirigente che si merita. La maggioranza degli italiani credette nel maggio del 2001 alle cervellotiche e miracolistiche ricette di un Dulcamara da strapazzo e affidò il potere a lui e ad una banda di dilettanti.
Dilettanti per imperizia a guidare lo Stato, ma fior di professionisti nel calcolare, difendere e amministrare i propri interessi usando a tal fine le pubbliche istituzioni.
Questa accolita discende direttamente da Tangentopoli, è costola e figlia di Tangentopoli. Le sue radici sono cresciute in quell'humus e hanno tratto alimento da quel concime. I frutti si vedono: un disastro morale, un collasso economico, un mucchio di rovine politiche e istituzionali.
Questo governo bis è nato col forcipe e ne mostra tutti i segni e le malformazioni. Sarà seppellito dalle risse interne e dalla disistima internazionale. Arrecherà all'Italia danni ulteriori e ulteriore disdoro.
Per rilanciare l'economia dovrebbe chiedere sacrifici severi ai ceti più abbienti e snidare il “sommerso” con pugno di ferro. Ma chi parla più del “sommerso”?
Ricordate? Doveva essere uno dei grandi temi del nuovo miracolo. L'Italia ha un vantaggio sui concorrenti: un quarto della sua economia sfugge ai controlli, alle regole sindacali, al fisco. E' come avere una piccola Cina in casa. E' il nostro tesoro nascosto e la riserva per quando finalmente emergerà.
C'era soltanto follia e predisposizione al malaffare in questo ragionamento. La Cina non ha un'economia sommersa; alla luce del sole le sue aziende operano con costi bassissimi nei settori produttivi di scarso valore aggiunto, ma con costi di mercato nelle tecnologie avanzate e avanzatissime.
Noi siamo inesistenti nei settori avanzati. Tra poco lo saremo anche nella grande industria matura. Ma nelle produzioni tradizionali con basso valore aggiunto neppure il nostro sommerso regge alla concorrenza asiatica. Nel frattempo, negli ultimi quattro anni la nostra economia che lavora in nero è passata da un quarto ad un terzo del totale. Si può andare avanti così? Consumi fermi, investimenti fermi, esportazioni in discesa.
Il cavallo non beve. Lo credo: è un cavallo moribondo. Ci vorrebbe un'alimentazione forzosa.
Secondo i calcoli più attendibili le dimensioni della manovra destinata a rimettere il sistema in moto ad un ritmo accettabile ammontano a 35 miliardi di euro, 47 miliardi di dollari, 70 mila miliardi di vecchie lire.
Chi glieli darà a Siniscalco? Dove pensa di prenderli? Bisognerebbe tassare severamente i patrimoni, quelli immobiliari e quelli mobiliari. Infatti hanno già cominciato a farlo alla chetichella, sperando che la gente non se accorga. Ma ben presto la gente se ne accorgerà.
Una manovra da 35 miliardi di euro l'Italia non se la può permettere dopo quattro anni di dissipazioni mascherate a colpi di condoni.
Siniscalco pensa infatti ad una manovra dimezzata, da 18 miliardi di euro.
Ma anche questa non sarà indolore e probabilmente servirà a ben poco. Non potrà essere totalmente espansiva con un debito pubblico al 106 per cento del Pil. Diciamo che sarà espansiva per 6 miliardi e restrittiva per 12. Con un saldo netto deflazionistico e tassi sul debito in aumento.
No, non è un bel periodo quello che ci aspetta. Meglio sarebbe stato chiudere subito la partita, prima che degradi in una rissa tra piccoli uomini sulla pelle del Paese.
Richiedeva coraggio e dedizione allo Stato e ai cittadini.
Ma uomini di questa fatta non si trovano più da un pezzo nella destra italiana che perciò è destinata ad andare a fondo. La speranza è che non ci si porti dietro.
MOLTE esternazioni si sono lette e ascoltate dopo il voto del Senato sulla riforma costituzionale. Da destra, da sinistra, dal centro nelle sue varie declinazioni. Bossi ha pianto di gioia. Prodi ha chiamato il Paese alle armi (politiche). Fini e soprattutto Follini hanno votato turandosi il naso. Tutti gli altri compari inneggiano.
Ma l’esternazione più significante è quella venuta dal nostro "premier": «Non capisco perché Prodi si lamenta. Se fosse sicuro di vincere le elezioni del 2006 dovrebbe rallegrarsi perché io gli ho preparato un premierato fortissimo. Se se ne lamenta è segno che è sicuro di perdere».
Sembra una barzelletta, invece non lo è. E’ la quintessenza del pensiero berlusconiano. Anzi dell’antropologia berlusconiana. L’uomo berlusconiano è uno che naviga a vista e punta sui risultati immediati. Produrre valore, subito. Mungere la vacca, subito. Far passare una legge, subito, per decreto o con maxi-emendamento blindato dalla fiducia. Trovare i soldi che mancano all’erario, subito, con condoni e prestiti finanziari contratti il 30 dicembre e rimborsati il 2 gennaio. Si chiama finanza creativa e serve ad imbellettare il bilancio per tre giorni su 365.
L’uomo berlusconiano privilegia gli effetti di annuncio.
L’annuncio infatti produce effetti immediati. Purtroppo durano poco se non sono corroborati dai fatti successivi.
E’ un guaio, ma si può scongiurare lanciando un secondo annuncio e poi un terzo, un quarto, un quinto, all’infinito. Un annuncio sorregge il precedente e prepara il successivo. Un castello di carte tenuto insieme con lo scotch, dentro il quale c’è il vuoto. Sta in piedi fino a quando i destinatari scoprono quel niente che c’è dentro.
Allora e soltanto allora la gente smette di credere agli annunci e all’euforia subentra il disincanto.
Così è stato per la riduzione delle imposte, per i cantieri non-aperti, per i reati non diminuiti, per i militari in Iraq non ritirati e tantomeno ritirabili, per la ripresa economica sempre annunciata e mai cominciata.
Il nocciolo della riforma costituzionale è, come ha detto Prodi, la dittatura della maggioranza e quella del "premier". Quindi, se Prodi spera di vincere le elezioni sarà lui il dittatore. E non è contento? Che cosa c’è di meglio che avere poteri dittatoriali? Che un galantuomo democratico si rifiuti di prenderne possesso e di usarli a sua discrezione è un paradosso inconcepibile e incomprensibile per l’uomo berlusconiano. Per il democratico berlusconiano, per il liberale berlusconiano.
Per il liberista berlusconiano. È la bulimia del potere. Il fascino del monopolio. Tutto il resto sono chiacchiere, demagogia, populismo. Fuffa.
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Dittatura della maggioranza è ben detto. Sappiamo che ne parlava anche Tocqueville come di un "monstrum" devastante di ogni sistema basato sull’equilibrio e sulla separazione dei poteri. In sostanza, l’opposto di uno Stato di diritto.
Su questo punto Rousseau diventò la bestia nera di tutto il liberalismo e il costituzionalismo successivi.
Personalmente credo che il pensiero di Rousseau sia stato molto frainteso, ma questo non c’entra con il nostro discorso. Sta di fatto che la dittatura della maggioranza è l’anticamera del regime totalitario. Serve ad abbassare tutti gli altri poteri e ridurli ad uno. L’esempio più eloquente di questo tipo di regime fu la Convenzione del 1792 in Francia, che accentrò nell’assemblea il potere legislativo. Esecutivo e financo giudiziario. Erano tempi di rivoluzione ma non per questo meno nefasti per la libertà.
Tuttavia - per tornare ai casi nostri - il nocciolo della riforma berlusconiana contrattata con Bossi in contropartita con la devoluzione, sta nella dittatura del "premier" sulla sua maggioranza. Questo è il cuore della questione e ciò che rende inaccettabile l’impianto complessivo della riforma.
La maggioranza parlamentare, in realtà, non conta nulla perché è soltanto la protesi del "premier" eletto a suffragio diretto dal corpo elettorale nello stesso momento in cui si votano i membri della Camera.
Non è la maggioranza uscita dalle urne ad avere in mano il "premier" uscito anche lui da quelle stesse urne, ma è per l’appunto il "premier" ad avere in mano la maggioranza. Perché può scioglierla quando vuole, rimandarla a casa quando vuole, promuovere una nuova votazione quando vuole.
Questo premier dispone di mezzi finanziari propri imponenti e di mezzi di comunicazione altrettanto imponenti. Dispone quindi di un potere esorbitante che non è solo quello, pur abnorme, scritto nella riforma costituzionale, ma suo proprio; un potere privato che dispone di strumenti persuasivi di ogni genere, capaci di contrarre alleanze, comprare o ripartire favori, corrompere corpi e anime, manipolare il consenso. Insomma instaurare e blindare quello che Umberto Eco ha definito un regime populista-mediatico, già in fase di avanzata costruzione.
La riforma approvata dalle Camere, in prima lettura rappresenta il tocco finale di quella costruzione. Quando sarà stata approvata anche in seconda lettura e confermata dal referendum previsto dalla Costituzione, il regime sarà pienamente operante.
Giulio Andreotti, che ha votato contro la riforma, ha ricordato con l’aria svagata che assume tutte le volte che vuole dire cose importanti, che la riforma votata dal Senato il 23 marzo coincide con la data in cui, nel 1919, fu fondato a Milano in piazza San Sepolcro il «Fascio di combattimento».
E’ una coincidenza casuale ma degna di attenzione. Non perché il 23 marzo del 2005 si siano messe le premesse della rinascita del fascismo. Chi pensa questo commette una sciocchezza. Ma è vero che il 23 marzo del 2005 si è fatto un decisivo passo avanti nella costruzione di un regime populista-mediatico imperniato su Silvio Berlusconi e blindato dal patrimonio privato e dalle proprietà televisive di Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, leader di Forza Italia e della Casa delle libertà nonché concessionario dello Stato per le frequenze televisive via etere e dell’accesso privilegiato al digitale terrestre sulla base della legge Gasparri, titolare del potere di nomina del presidente della Rai e del potere di nomina del presidente dell’Autorità delle comunicazioni.
Tutto questo è in gran parte già avvenuto sotto gli occhi plaudenti o distratti della maggioranza degli italiani. Disse Indro Montanelli pochi giorni prima delle elezioni del 2001: lasciamolo governare, così gli italiani sperimenteranno sulla loro pelle chi è Berlusconi e ne usciranno vaccinati per sempre.
Più o meno le stesse parole (se l’accostamento non è offensivo) disse la brava Iva Zanicchi, vecchia cantante della Rai e neofita della causa berlusconiana. Indro aveva calcolato male il rischio (la Zanicchi invece, dal suo punto di vista, l’aveva calcolato meglio di lui). Non aveva messo in conto, Indro, gli strumenti potentemente persuasivi in tutti i sensi e in tutte le direzioni del regime populista-mediatico. Che rende dunque incerto l’esito delle elezioni 2006 e anche delle regionali di domenica prossima.
Domenica prossima si disputa una competizione della massima importanza per il futuro del paese. Non ancora decisiva. Se il centrosinistra vincerà, avrà migliori chance per vincere nel 2006; se non vincerà il percorso successivo sarà tutto in salita perché il potere populista - mediatico non perdona. E’ uno schiacciasassi da incubo. E per vincere non basta la Calabria o l’Abruzzo. Ci vuole altro e di più.
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La posta in gioco è molto più alta delle volte precedenti.
Non voglio dire che sia l’ultima "manche" perché per fortuna la storia non finisce; ma certo se il centrosinistra dovesse perdere, dei suoi partiti, dei suoi gruppi dirigenti e anche d’una buona parte dei suoi elettori rimarrebbero ben poche tracce. Qualche sparuto manipolo di ostinati, privi di peso reale.
Un fastidio in meno per il regime populista-mediatico.
L’eventuale resistenza della Chiesa? E perché mai? Dopo Wojtyla ci sarà forse un po’ di sessuofobia in meno, ma non scommetterei un soldo sugli eminentissimi Sodano, Ratzinger, Ruini come difensori dei diritti civili e della democrazia. Del resto non è compito loro anche se, quando gli conviene, se ne arrogano indebitamente la competenza.
Ancor meno farei conto sugli alleati del titolare della ditta. Bossi ha già ottenuto il marchesato padano e se lo terrà ben stretto. Fini e Follini? C’è posto per tutti, se hanno abbozzato finora è segno che sono di stomaco forte.
Potrebbero ancora votare "no" alla legge in seconda lettura ma do quest’ipotesi a uno contro un milione. Il massimo che faranno sarà di concedere benignamente ai propri elettori la libertà di coscienza nel voto sul referendum confermativo quando si farà, sempre che si faccia.
Tutto questo se il centrodestra dovesse vincere nelle elezioni del 2006. Ma se dovesse invece perdere?
Ebbene, scomparirà e loro lo sanno. Se le tracce di un centrosinistra sconfitto saranno molto labili, quelle della Casa delle libertà non esisteranno più fin dal giorno stesso della perdita del potere perché il potere è l’unico cemento che li tiene insieme. Ci ricorderemo ancora di Bondi, Cicchitto, Schifani, Vito, Galan, Marzano, Tremonti, Urbani, Onofrio e compagni?
Berlusconi sì, ce lo ricorderemo per un pezzo. A lui del resto non mancherà né il pane né il companatico che sono già al sicuro e nessuno certo glieli porterà via. Ma la perdita del potere, del monopolio assoluto, del "ghe pensi mi" ovunque e comunque, quello sì gli brucerà disperatamente.
Attenti perciò. I dodici mesi che ci stanno dinanzi saranno durissimi.
Tutti i mezzi saranno impiegati, nessun colpo basso sarà escluso, nessun errore sarà perdonato. La regola confacente all’antropologia dei "berluscones" - lo sappiamo - è quella di bastonare il cane finché affoghi. Chi li contrasta cerchi di non imitarli. In fondo si viene scelti anche per la buona educazione che si dimostra. Almeno oggi è ancora così. Ci si batte anche perché sia così anche domani, non è vero?
Forse il regime non c´era, forse la dittatura ci sarà. La frecciata di Prodi contro la riforma costituzionale di Berlusconi, «che sta creando le premesse per una moderna e pericolosissima dittatura di maggioranza, anzi del premier», ha riaperto un delicatissimo contenzioso lessicale sul berlusconismo e su tutti gli insidiosi abissi di tirannia che sono sempre sul punto di inghiottire la democrazia italiana. Perché proprio Prodi era stato uno dei più freddi, quando i girotondini sganciarono sul centro-destra l´arma fine-di-mondo, l´accusa di aver dato vita a «un regime» (il secondo, dopo quello fascista).
Né il Professore, né D´Alema, né Rutelli hanno mai approvato quella mossa. Non perché non fossero allarmati dall´occupazione berlusconiana della televisione, ma perché hanno sempre visto in quel vocabolo rovente un punto di non ritorno, un segnale d´allarme da lanciare solo davanti alle fiamme, non al primo filo di fumo. «La parola regime - disse una volta D´Alema - non è parola da politologo. Il regime ricorda il fascismo e io penso che le parole non si devono sprecare perché hanno un suono e quando poi si è costretti a usarle non suonano più. E´ di un certo estremismo usare le parole per sentire come suonano». Prodi approvava, da Bruxelles, Amato ironizzava sulle parole di Nanni Moretti, bandiera internazionale dei girotondini, e Rutelli dissentiva pubblicamente dal radicalismo di Paolo Flores d´Arcais: «La definizione mi pare impropria».
Oggi, però, sono proprio loro a scagliare contro Berlusconi queste tre parole - «dittatura della maggioranza» - che hanno un suono assai simile a quello del vocabolo «regime». Il primo, come sempre, è stato Amato, addirittura un anno fa (era il 20 gennaio 2004), commentando il premierato sfornato dai «saggi» del centro-destra: «Vogliono la dittatura della maggioranza», sentenziò. Esattamente la stessa formula adottata adesso, prima da Rutelli e poi da Prodi.
In realtà, tra il «regime» dei girotondini e la «dittatura» degli ulivisti c´è una certa differenza. Le due parole ci ricordano entrambe il fascismo, ma «dittatura della maggioranza» è una citazione di Alexis de Tocqueville - il padre della democrazia liberale - che non ce l´aveva con i tiranni e i despoti e tantomeno con Mussolini e Hitler che dovevano ancora nascere, ma con chi - nel nome della democrazia - voleva schiacciare le minoranze a colpi di maggioranza. «Quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte - scriveva Tocqueville ne "La democrazia in America" - poco m´importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge».
Siamo solo all´inizio. Ma se Prodi, D´Alema, Rutelli e Amato si trovassero un giorno a corto di argomenti, possono sempre citare una fiammeggiante filippica che sembra scritta ieri sera: «Attenti alla deriva autoritaria! Le regole non possono essere cambiate in corsa con i numeri della maggioranza che se ne avvantaggia, penalizzando l´opposizione. Non è democratico chi pensa di poter fare a colpi di maggioranza, in Parlamento, ciò che è favorevole a lui e sfavorevole all´opposizione: questo si chiama dittatura della maggioranza!». Così parlava, il 17 marzo 2000, Silvio Berlusconi: quando all´opposizione c´era lui.
Non staremo qui, ancora una volta, a discutere se durante il recentissimo viaggio di George Bush da Bruxelles a Bratislava sia stato il presidente degli Stati Uniti d´America a venire incontro alle posizioni dei suoi interlocutori o piuttosto questi ultimi a rettificare le proprie muovendosi verso di lui.
Questo tema, che meglio potrebbe definirsi con la semplicistica questione del «chi ha vinto e chi ha perso», è stato già ampiamente trattato da tutti i media internazionali e si è ben presto rivelato un classico double face: nessuno ha rinunciato alle proprie tesi di partenza sulla guerra irachena, ma tutti hanno convenuto che la vita continua anche di fronte ai fatti compiuti. Anzi, soprattutto di fronte ai fatti compiuti.
D´altra parte Bush con tutto il suo corteggio di diplomatici e di politologi ha ripetutamente sottolineato che il suo secondo mandato non sarà eguale al primo e che se il primo fu caratterizzato dalla teoria della guerra preventiva e dell´unilateralismo, il secondo lo sarà da quella della diplomazia preventiva e multilaterale. Quindi, per sua stessa ammissione ripetutamente propagandata, se c´è qualcuno che si è spostato è proprio il presidente degli Stati Uniti.
Egli ha vigorosamente chiesto ai suoi alleati europei (quelli della vecchia Europa che gli si erano ostinatamente contrapposti sia sul dossier iracheno sia su quello mediorientale) d´impegnarsi insieme su obiettivi che la vecchia Europa ha condiviso e sui quali lavora da almeno sei mesi. Per l´Iraq l´addestramento dei corpi di sicurezza e dei quadri dell´amministrazione civile allo scopo di rendere al più presto quel paese capace di autogovernarsi.
Per il Medio Oriente una più marcata presenza dell´Occidente nella composizione del conflitto Israele-Palestina e nella nascita d´uno Stato palestinese indipendente e territorialmente contiguo. Ciò che la vecchia Europa (ma anche Tony Blair) aveva fin qui rimproverato all´amministrazione Bush non era un eccesso di presenza ma al contrario una disperante assenza dal conflitto mediorientale. Ora che la presenza americana si è finalmente fatta visibile la vecchia Europa (ed anche Blair) non può che prenderne atto con piena soddisfazione.
Infine sul dossier iraniano il terzetto Gran Bretagna-Francia-Germania sta da mesi negoziando con Teheran affinché rinunci all´armamento nucleare. Bush ha chiesto che questi negoziati proseguano aggiungendo a mo´ di monito che ogni altra opzione resta possibile come ultima istanza.
La volontà di arrestare la proliferazione delle armi atomiche essendo un interesse comune di tutto l´Occidente, anche sul dossier iraniano la convergenza era dunque già in atto da tempo.
In conclusione: le concrete richieste degli Usa alla vecchia Europa avevano già avuto risposte positive molto prima del secondo mandato e del viaggio presidenziale in Europa. Da questo punto di vista dunque il poco arrosto era già stato mangiato e digerito. Ma era mancato il fumo mediatico. Il viaggio di Bush è servito a questo: il fumo è venuto dopo e non prima dell´arrosto.
Il presidente francese, a chi gli domandava se fosse soddisfatto del meeting con Bush a Bruxelles, ha risposto: «Certamente sì, ma ora si tratta di verificare se alle sue parole seguiranno i fatti». Posto che sui tre dossier iracheno, mediorientale, iraniano, le convergenze erano già avvenute, a che cosa esattamente si riferisce Chirac? Quale è il terreno sul quale i fatti debbono ancora esser verificati?
È chiaro quale sia il terreno della verifica. «D´ora in poi - ha detto Condoleezza Rice - decideremo insieme». E Bush: «Niente e nessuno potranno dividere l´alleanza degli Usa con l´Europa». Questa è dunque la questione da verificare passando dalle parole ai fatti. Decidere insieme entro il quadro di un´inseparabile alleanza non si concilia infatti con la democrazia imperiale che l´amministrazione Bush sta costruendo e teorizzando fin dall´inizio del suo primo mandato. Questo è dunque il tema che ancora non è stato chiarito, questo è il punto di possibile dissenso che può perfino rimettere in discussione le convergenze già da tempo raggiunte: l´evoluzione dell´America verso la democrazia imperiale.
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La diffusione nel mondo intero della libertà e della democrazia è un auspicio che non può che vedere uniti insieme gli Stati Uniti d´America e l´Unione europea poiché si tratta di auspicare un ecumene che condivida i valori sui quali è basato il concetto stesso di Occidente. Valori fondativi. Valori comuni. Comuni non soltanto agli uomini occidentali ma a tutti gli uomini, ovunque nati e ovunque residenti.
Ricordate il discorso di Benedetto Croce sull´indistruttibile forza della libertà? La libertà scava dovunque il suo percorso, nei terreni più favorevoli come in quelli più accidentati e impervi. Incontra ostacoli dovunque, viene spesso soffocata, negata, manipolata, ma infine rispunta quando meno te lo aspetti e vince e si impone. Non è un processo agevole e spesso il terreno che aveva conquistato le viene di nuovo sottratto perfino nei luoghi dove sembrava aver messo solidissime radici. Ma di nuovo riprende la sua marcia e la sua lotta e questa è la storia. La storia della libertà.
Ma una cosa è l´auspicio e l´incoraggiamento culturale, un´altra cosa è la missione e la crociata che è lo sbocco inevitabile di ogni missione. La missione costituisce l´orgogliosa ideologia di un popolo eletto e prescelto per adempierla. La missione chiama un Dio come testimone e guida. La missione è la premessa di una vocazione imperiale. La vocazione imperiale segna la sconfitta della libertà. Anche questa è la storia: la storia degli imperi che ricacciano indietro la libertà e della libertà che sgretola gli imperi.
Spesso accade che la vittoria di uno di questi due elementi dialettici si volga improvvisamente a beneficio del suo opposto: è ciò che in linguaggio accademico si chiama «eterogenesi dei fini». La storia fa questi scherzi che costituiscono la sua meravigliosa imprevedibilità.
Nell´Europa moderna l´esempio più eloquente fu quello di Napoleone. Portò sulla punta delle baionette della sua Grande Armata i principi della libertà, della modernità, dell´abbattimento delle feudalità, dell´eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Sulla base di questi principi, oltre che sulla forza del suo esercito, trovò l´alleanza dei popoli e vinse «dall´Alpi alle Piramidi, dal Manzanares al Reno».
Ma poco dopo quegli stessi popoli, quei poeti, quei filosofi, quei musicisti che si erano innamorati della libertà evocata dal tricolore imperiale, la rivolsero contro di lui. Contro il classicismo napoleonico nacque e dilagò in tutta Europa il romanticismo. Nacquero, sull´esempio della Francia ma contro di lei, le nazionalità. Nacque la Germania, prima come mito e poi come realtà politica, economica e militare. Nacque la Russia come elemento nuovo della geopolitica europea.
Gli imperi in certe occasioni della storia possono accelerare il corso della libertà, ma la libertà smantella gli imperi. Tanto più quando opera in contesti storici, sociali, religiosi completamente diversi da quelli della potenza imperiale che se ne è fatta portatrice.
E così non ci sarà da stupirsi se un Iraq oggi ancora sotto tutela americana, non appena potrà essere restituito agli iracheni non riveli un nazionalismo allergico a ogni presenza sia pure indiretta del suo liberatore. Tanto meno ci sarà da stupirsi se regimi dittatoriali o teocratici come l´Egitto e l´Arabia Saudita, oggi alleati dell´America, una volta affidati a forme sia pure improprie di democrazia non divengano ancor più nazionalisti, ancor più teocratici e sostanzialmente antiamericani di quanto oggi non siano. I primi esperimenti della democrazia imperiale americana non sono incoraggianti. Se d´ora in avanti le due sponde dell´Atlantico diventeranno più vicine e decideranno veramente insieme, sarà questo il vero tema del confronto. Ne potrà nascere un gran bene oppure l´approfondirsi di un dissenso che per ora è entrato in una fase di tregua e di autocosmesi, in attesa di verifica.
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Del resto la prima prova si è vista nell´incontro di Bratislava tra Bush e Putin e in quello di Magonza tra Bush e Schroeder. Quest´ultimo, come già Chirac a Bruxelles, ha insistito nella decisione di togliere l´embargo sulle armi alla Cina.
È più facile mettersi d´accordo sull´Iraq che sulla politica verso Pechino. Quanto a Putin, l´autocrate di Mosca si è addirittura permesso di impartire al presidente americano una pubblica lezione sul significato della parola democrazia quando essa venga applicata non già sulle sponde dell´Hudson ma su quelle della Moscova.
Putin ha già fatto la (per lui) sgradevolissima esperienza dell´Ucraina e della Georgia e sa che sul tavolo ovale della Casa Bianca sono già aperti i dossier della Bielorussia, della Moldavia, della Romania, dell´Azerbaigian, del Kirgizistan. Regimi orribili, regimi corrotti, la cui destabilizzazione tuttavia moltiplicherebbe per cento l´effetto Cecenia con quanto ne può conseguire a Mosca.
Più oltre verso l´Oriente estremo, spunta l´ombra lunghissima della Cina. In tempi di globalizzazione i processi sono molto veloci e ciò che prima richiedeva secoli oggi implica pochi decenni. Ma la Cina possiede fin d´ora un´arma formidabile per condizionare la forza della democrazia imperiale americana. La Cina, dopo il Giappone, è il più grande creditore del Tesoro Usa. Insieme alla Corea possiede mille miliardi di dollari in Buoni del Tesoro americano e non fa che accumularne. Basterebbe che decidesse di investire in euro i nuovi surplus per determinare un ciclone planetario nell´economia, nel commercio e nel tenore di vita del mondo ricco e quindi degli Usa e dell´Europa.
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Ha detto in una bella intervista pubblicata su questo giornale Mikhail Sergevic Gorbaciov che la storia del mondo sarebbe stata molto diversa se l´America di Reagan lo avesse aiutato a riformare anzi a rifondare il comunismo anziché puntare su Eltsin e sul suo liberismo fasullo e mafioso. Sappiamo bene che la storia non si fa con i se. Ma certo la politica non tollera il vuoto. Abbattuta la seconda potenza mondiale, la vocazione al pensiero unico, alla missione salvifica e all´impero si è materializzata rapidamente. Il terrorismo globale è esploso. I nazionalismi si acuiranno e si moltiplicheranno. E forse, per la solita eterogenesi dei fini, anche l´Europa capirà più rapidamente che per dialogare e se possibile decidere insieme all´America i 25 nani di Bruxelles debbono delegare gran parte della loro sovranità politica all´Unione, ai suoi valori di cittadinanza, ai suoi interessi, alla sua moneta.
La democrazia imperiale ha bisogno di essere ben temperata e l´Europa può molto aiutare in questa direzione.
La ricreazione è finita», ha detto Silvio Berlusconi due giorni fa. Parlava di giustizia. Era infuriato con la gup di Milano, Clementina Forleo, per l´assoluzione dei tre islamici. Ma usare quella sentenza in modo strumentale gli torna utile. E infatti l´ira del premier ha prodotto un primo, tangibile risultato. La riforma dell´ordinamento giudiziario, all´esame del Senato dopo la bocciatura del presidente della Repubblica, sarà rivista dal Parlamento solo sui quattro punti indicati nel messaggio di rinvio. Così ha deciso l´aula di Palazzo Madama, in ossequio ai dettami del premier. Perché, appunto, «la ricreazione è finita», come ha detto il Cavaliere. Il ministro Castelli ha detto di peggio. In un´intervista a Libero, è tornato a esternare contro il Colle: «Basta con il fuoco di sbarramento» eretto dalle istituzioni, i giudici godono di «sponde» ad alto livello perché «un po´ tutti temono la magistratura». Parole oblique, come sempre. Ma pesanti, più di sempre.
Carlo Azeglio Ciampi, dopo la bocciatura della legge Castelli per «manifesta incostituzionalità», non ha più parlato di giustizia. Nel discorso di auguri di fine anno alle alte cariche dello Stato, il 21 dicembre, ha dedicato al tema un cenno breve, ma comunque molto significativo: «Ho chiesto alle Camere una nuova deliberazione, con riferimento ad alcuni importanti profili di costituzionalità...». Il presidente sta aspettando questa «nuova deliberazione». E come sempre, mentre le Camere deliberano, lui tace. Ma intanto il capo dello Stato osserva e riflette.
Quello che vede non lo tranquillizza affatto. Il blitz del governo su Vigna, prorogato a colpi di «decreti ad personam» alla Procura antimafia, gli ha reso evidenti le intenzioni invasive e punitive della Casa delle Libertà in campo giudiziario. Già la lettura «minimalista» del messaggio con il quale aveva rinviato il testo alle Camere, adottata dal Guardasigilli e dagli esperti di giustizia del Polo, non lo aveva rassicurato. Quella lettura «minimalista» precipita adesso in una scelta politica molto precisa: il Parlamento esaminerà solo i quattro rilievi citati dal Colle, ma non potrà riesaminare il provvedimento nel suo complesso. È un approccio che preoccupa. Una riforma «sistemica», come lo stesso Ciampi ha definito quella della giustizia, non è un «meccanismo elementare», dal quale è possibile rimuovere qualche sassolino che blocca l´ingranaggio, per poi rimetterlo tranquillamente in moto. Una riforma sistemica è invece un «organismo complesso», dal quale non si può disinvoltamente amputare una parte, senza pregiudicare la funzionalità del tutto. Qualunque correzione, ad esempio alla norma sulle prerogative del Csm, non sarà neutrale. Avrà riflessi sul resto della riforma. Avrà riflessi sulla seconda parte della Costituzione, perché dall´autogoverno della magistratura dipende il bilanciamento dei poteri. Avrà riflessi sulla prima parte della Costituzione, perché dall´esercizio indipendente della giurisdizione deriva la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini e il rispetto del principio di uguaglianza. La «chiusura pregiudiziale» ad un riesame generale della riforma, imposta dalla maggioranza al Senato, oltre che una «palese scorrettezza» rispetto alle indicazioni contenute nel messaggio alle Camere, è già di per sé un «pessimo segnale» per il Colle. Vuol dire che il centrodestra, obbedendo al diktat del premier, si accinge a modifiche marginali, se non addirittura di facciata, a un provvedimento-chiave per i futuri equilibri istituzionali del Paese.
Per questo al Quirinale si riflette. Che cosa può fare Ciampi, se davvero il centrodestra riapproverà la riforma senza correzioni sostanziali che ne rimettano in discussione tutto l´impianto, ma con pochi ritocchi formali che lasciano inalterato lo squilibrio dei poteri a vantaggio del politico e a danno del giudiziario? È una questione delicatissima. In teoria non si presterebbe ad equivoci. L´articolo 74 della Costituzione è chiarissimo: il presidente della Repubblica può rifiutarsi di promulgare una legge e chiedere una nuova deliberazione, ma «se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata». In pratica, viste le premesse con cui il Polo si accinge alla nuova deliberazione, il Quirinale potrebbe anche adottare, a sua volta, una scelta clamorosa.
Le ipotesi prese in considerazione, per ora in via del tutto accademica, sono due. La prima è quella più dirompente sul piano istituzionale. Il Polo riapprova la stessa riforma, modificata solo in parte e in modo solo formale. Il presidente ne constata la persistente, «palese incostituzionalità», e si rifiuta nuovamente di promulgarla. In dottrina, da Paolo Barile fino ad arrivare a Antonio Baldassarre (che l´ha indicata nei giorni scorsi in un´intervista al Sole 24 Ore) questa possibilità non è affatto esclusa. Si configura come «rifiuto assoluto di promulgare», che il presidente della Repubblica può opporre per non incorrere nel reato di «attentato alla Costituzione». L´ha spiegato qualche giorno fa Leopoldo Elia, presidente emerito della Consulta, ai magistrati dell´Anm. Se il Polo tirasse la corda fino alle estreme conseguenze, il capo dello Stato si troverebbe di fronte a un «conflitto di doveri». Da una parte il dovere di promulgare, sancito dall´articolo 74. Ma dall´altra parte il dovere di difendere i «principi supremi» della Costituzione, sancito dall´articolo 87. Questo conflitto, eccezionale e mai verificatosi nella storia repubblicana, può risolversi in due modi: «O con il nuovo rifiuto di promulgazione della legge ? aggiunge Elia ? o sollevando conflitto di attribuzione di fronte alla Consulta nei confronti del Parlamento».
La gravità di questo scenario è evidente. Ma il fatto stesso che se ne discuta, e che nella cerchia dei consiglieri del Colle l´ipotesi del «conflitto di doveri» venga considerata «elegante sul piano dottrinario», basta già a dimostrare quali torsioni giuridiche e quanti strappi istituzionali il berlusconismo abbia già prodotto nel sistema. È un´ipotesi di scuola. È un´ipotesi estrema. Ma come ripetono diversi costituzionalisti ascoltati al Quirinale, da Gaetano Silvestri a Andrea Manzella, viviamo una fase politica talmente convulsa e conflittuale, che le ipotesi di scuola rischiano di diventare reali, e quelle estreme rischiano di diventare normali. Ma è uno scenario che nessuno si augura. Ciampi per primo. Per questo, se davvero il Polo optasse per una riconferma della legge Castelli senza apprezzabili modifiche, si considera anche una seconda ipotesi, indicata tra gli altri da Massimo Luciani. Meno traumatica sul piano istituzionale, ma altrettanto devastante sul piano politico. Il presidente potrebbe firmare il nuovo testo, come gli impone la Costituzione, ma potrebbe inviare alle Camere un nuovo messaggio sulla giustizia. Segnalando le non sanate antinomie della riforma. Mettendo in mora le forze politiche che l´hanno imposta alle Camere. Rinviando di fatto la palla a un successivo esame di legittimità costituzionale della Consulta. Sarebbe uno scenario comunque grave. Sancirebbe il definitivo corto-circuito istituzionale tra Quirinale, Palazzo Chigi e Parlamento. Ma purtroppo, in questo momento così teso e difficile, nulla si può escludere a priori.
Berlusconi e la sua maggioranza, a partire proprio dai temi della giustizia, sembrano perseguire una strategia che, passo dopo passo, diventa sempre più esplicita. Sembrano disposti ad andare a un «redde rationem» con il Colle, che serva e ridisegnare, nei fatti, l´assetto dei poteri repubblicani. Il Cavaliere, più o meno consapevolmente, si muove in una logica che vede un «partito degli eletti» contrapposto a un «partito delle istituzioni». Da una parte c´è l´asse governo-Parlamento. Dall´altra parte c´è l´asse Quirinale-Corte Costituzionale. Di qua i partiti, rappresentativi della volontà del popolo. Di là gli organi di garanzia, non eletti e del tutto autoreferenziali. I destini del «modello italiano», in attesa di una riforma costituzionale condivisa che non arriverà mai, dipendono tutti dall´esito di questa contesa. Dalla riscrittura dell´ordinamento giudiziario (legge Castelli) alla questione dei poteri di grazia (caso Sofri) Berlusconi e la sua maggioranza forzano il sistema fino al punto di rottura. Ma non si assumono fino in fondo la responsabilità di rompere. La rimettono nelle mani del capo dello Stato. Per questo Ciampi, che proprio due giorni fa ha ricevuto sul Colle il presidente della Consulta Valerio Onida, si muove con cautela politica e prudenza istituzionale. Ma capisce anche che il finale di questa partita dipenderà molto dalla sua capacità di tenuta. Capisce anche che, di qui alla fine del suo settennato, gli resta poco più di un anno (al netto del semestre bianco, che di fatto assegna al presidente della Repubblica un ruolo poco più che notarile). Sarà un anno lungo e tormentato. Ma Ciampi l´ha ripetuto più d´una volta: «Non faccio sconti. A nessuno».
Fassino, ripensaci: guarda le prove di questi crimini
di Piero Sansonetti
Leggete l'articolo di Sabina Morandi, che pubblichiamo qui sopra e a pagina 2, e provate a restare calmi. Come si fa? Questi hanno raso al suolo Fallujah e arrostito la sua popolazione, e in quegli stessi giorni i loro capi, dalle Tv di tutto il mondo, tuonavano sulla democrazia da esportare, sui valori dell'Occidente, sul cristianesimo, sulla libertà, sui diritti dei bambini e delle donne, sulla legalità internazionale, sul Burqa, sull'arretratezza dell'Islam. Va bene il cinismo della politica, ma c'è un limite oltre il quale il cinismo diventa ributtante, e l'indignazione supera gli schieramenti, i punti di vista, le divisioni tra destra e sinistra. Possibile che i capi politici degli Stati Uniti, a cominciare dal presidente, non sapessero quale operazione militare si stesse svolgendo a Fallujah? Non sapessero che gli Stati Uniti stavano usando le armi chimiche - illegali, illegalissime - contro la popolazione civile, bambini, donne, persone inermi e indifese, esattamente come le aveva usate Saddam, atrocemente, contro i curdi?
Il documentario che la televisione italiana manda in onda stamattina, di nascosto, poco dopo l'alba, non lascia spazio a nessun dubbio. L'esercito degli Stati Uniti, a Fallujah, si è macchiato di gravissimi crimini di guerra e ha usato, senza parsimonia, le armi di distruzione di massa. Capite il paradosso? Gli americani hanno spiegato al mondo che andavano in Iraq per smantellare le armi proibite di Saddam - armi feroci, illegali, inumane - ma invece quelle armi Saddam non le possedeva (e gli americani sapevano che non le possedeva) e le possedevano invece gli americani, che le hanno portate in Iraq e le hanno usate per sterminare gli iracheni di Fallujah.
I crimini di guerra perpetrati dall'esercito degli Stati Uniti ci rimandano indietro di anni e anni. Ai momenti peggiori del Vietnam, alla famosa strage di May Lay (1968) alla seconda guerra mondiale, alle atrocità dei tedeschi, a Hiroshima. Saranno giudicati da qualche tribunale internazionale? No, gli Stati uniti non riconoscono tribunali internazionali.
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Questi documenti agghiaccianti arrivano in Italia negli stessi giorni nei quali, inopinatamente, una parte del centrosinistra, e precisamente il segretario dei Ds Piero Fassino, torna a mettere in discussione la linea del ritiro immediato delle truppe italiane dall'Iraq. Fassino lo ha fatto con una intervista alla Stampa nella quale ha assunto una posizione appena un po' più filoamericana di quella dell'ultimo Berlusconi (quello che sostiene che lui è stato sempre contrario alla guerra....). Ha detto che il ritiro delle truppe italiane sarà possibile solo se concordato con le autorità britanniche e statunitensi.
Io spero che Fassino stamattina si svegli presto e possa vedere la televisione alle sette e mezzo (terza rete). La certezza che le truppe di occupazione americane hanno commesso gravissimi crimini di guerra, la certezza che si sono macchiate degli stessi delitti dei quali hanno accusato Saddam, la sfrontatezza con la quale hanno tentato di coprire tutto ciò, rendendo inaccessibile Fallujah ai giornalisti, persino ai giornalisti amici, tutto questo servirà a un ripensamento? Voglio dire: in che modo, con la costituzione italiana alla mano, si può ritenere legittima la partecipazione del nostro esercito a una forza di occupazione militare di un paese straniero, sotto il controllo americano, e cioè degli ufficiali responsabili di atroci crimini?
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Abbiamo discusso in redazione se pubblicare alcune delle immagini terrificanti che dimostrano il massacro compiuto dagli americani. Abbiamo deciso di pubblicare una sola fotografia (mettendo altro materiale sul sito di Liberazione online) per un motivo semplice: gli americani continuano a negare di avere usato gli ordigni al fosforo bianco, mentre queste foto dimostrano il contrario: si vedono i corpi di alcune vittime, squagliati dal fosforo, senza che i loro indumenti siano neppure bruciati, perché questa è la caratteristica del fosforo: annientare la vita e non le cose.
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Complimenti alla Rai che ha prodotto un pezzo straordinario di vero giornalismo. Ma al tempo stesso viva protesta nei confronti della Rai per la decisione di mandare questo documento in onda in modo quasi clandestino. E' chiaro che ci sono state pressioni politiche fortissime, e anche comprensibili; però ci sono delle volte che di fronte al gran lavoro dei nostri giornalisti la politica deve passare in seconda linea.
Evviva! Vince l'Italia! Impregilo ha trionfato nella gara internazionale del general contractor per il Ponte sullo stretto di Messina. Ed era una gara vera, aperta a tutti, con l'espressione general contractor a mostrare la buona volontà dei proponenti di essere veramente cosmopoliti, gente globale. Ma nessun costruttore straniero ha gareggiato: paura, evidentemente. Nel testa a testa con l'unico concorrente, Astaldi, Impregilo ha avuto la meglio, ma nessuno del ramo aveva dubbi che sarebbe finita così. Impregilo ha molto bisogno di contratti e anche quello, soprattutto cartaceo, relativo al progetto per il Ponte, fa comodo. Da qui il maxi ribasso del 16% operato sul prezzo base di tutta l'opera, mentre Astaldi, con il suo ribassetto del 2% mostrava di non avere una vera intenzione di vincere. Non tutti sono interessati alle gatte da pelare. Quanto poi alla costruzione vera e propria, si tratta di un altro paio di maniche. Per ora verrà apprestato un ulteriore progetto, detto definitivo, poi si vedrà. La previsione generale è che abborracciato un progettone, si darà luogo a un paio di pose di prime pietre, con la gradita partecipazione del presidente Silvio Berlusconi. Le immancabili malelingue mettono in relazione la campagna con le prime pietre, come se queste ultime ne facessero parte integrante.
A elezioni concluse, si vedrà. Le solite malelingue di prima insinuano che sarà difficile strappare in anticipo all'Unione un chiaro impegno a non farne niente. A dire con precisione: né un uomo né un soldo per quell'opera sbagliata, per quell'inutile e pericoloso monumento che è il Ponte sullo stretto di Messina. Probabilmente c'è qualcuno, che pensandosi furbo, ragiona così: i voti di quelli contro li abbiamo già; ora si tratta di agganciare qualcuno di quelli a favore. Ma non è così che si vincono le elezioni; e sarebbe comunque una vittoria senza onore.
Soldi per il Ponte, come si capirà nella finanziaria, non ce ne sono. La società del Ponte è tutta pubblica, tutta del Tesoro, tutta di Tremonti. (Fintecna + Rete ferroviaria + Anas). Dovrebbe anticipare tutto l'importo, aumenti compresi, nel deserto creditizio formato dalle banche che rifuggono dall'impresa di finanziamento del Ponte, considerandola sballata. E poi aspettare un tempo indefinito - cinquant'anni? - perché i quattrini anticipati ritornino. E' un Ponte fatto così.
«Al punto in cui siamo - dice Andrea Monorchio, con un senso dello stato che gli fa onore - è impossibile non fare il Ponte. Lo stato pagherebbe a causa delle penali cifre equivalenti alla costruzione del Ponte». Monorchio, che dello stato era un tempo ragioniere generale è ora il presidente di Infrastrutture spa, una delle società pubbliche coinvolte nel finanziamento delle grandi opere. Noi non crediamo che questo sia vero, non crediamo che lo stato debba pagare penali enormi per dei pezzi di carta. Ma se anche fosse, la dignità vale di più dei miliardi di euro. In ogni caso, basterebbe una dichiarazione ferma, da fare subito di fronte a tutti, senza equivoci: «Nessun ponte sul mare tra Scilla e Cariddi».
Le primarie dovrebbero limitare il potere dei partiti, ma vi concorrono i segretari di quattro dei nove partiti dell'Unione. Dovrebbero servire a designare all'esterno un candidato; in questo caso, il candidato c'è, e vuole le primarie per rafforzarsi all'interno della coalizione. Servono — secondo il regolamento — ad affidare al candidato la responsabilità del programma, ma, intanto, si svolgono tra concorrenti senza programma (salvo credere alla storia per cui essi definiscono le priorità nell'ambito di quel calderone che si chiama «progetto dell'Unione»). Insomma, queste primarie, magnificate come «grandissimo esempio di democrazia», «straordinario evento democratico», «esplosione della democrazia», appaiono un artificio.
Le primarie — quelle vere — si fanno negli Stati Uniti per scegliere i candidati alla presidenza. Ma lì alle primarie non si sceglie il candidato, bensì delegati che, riuniti in convenzioni, scelgono il candidato. Le primarie americane sono lo strumento di polarizzazione di un sistema che tenderebbe tutto al centro. La necessità di mantenere l'appoggio che ciascun candidato ha ottenuto, con le primarie, nel suo partito, evita il collasso verso la zona mediana, che sarebbe prodotto dalla ricerca del centro propria dei sistemi bipartitici. In Italia, le primarie servono a uno scopo opposto, perché introducono una logica «monarchica» in un bipolarismo di coalizione. Negli Stati Uniti, le primarie sono la prima tappa per le elezioni presidenziali. In Italia, servono a indicare un candidato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Dunque, innestano un meccanismo tipico del presidenzialismo in un sistema parlamentare.
Se le primarie italiane si chiamano come quelle americane, ma sono cosa ben diversa da esse, perché, dunque, vi si è ricorsi? E perché il candidato ha bisogno di rafforzare la sua posizione all'interno della sua coalizione? La spiegazione sta nel timore che l'«azionista di maggioranza» del governo possa chiedere, un giorno, di assumerne direttamente la gestione o che l'«azionista di minoranza» marginale possa, un giorno, minacciare di uscire dalla coalizione, facendo cadere il governo. Insomma, le primarie sono suggerite dalle delusioni del passato, non dalla prospettazione del futuro.
Se questo è il loro vero scopo, è ragionevole chiedersi se le primarie servano davvero o non siano, invece, una protezione di cartone. In altre parole, primarie alle quali si presentano segretari di partito sono davvero il crogiuolo nel quale possano fondersi le diverse parti della coalizione? Un mandato personale riuscirà a imporsi a quello dei partiti? Come ci si assicura che chi perde accetti il candidato vincente? E il candidato vincente, responsabile della elaborazione del programma, non deve avere «cura di consultare e coinvolgere tutte le componenti dell'Unione», come dispone il Regolamento delle primarie? Le primarie, infine, possono supplire al «deficit» di capacità federativa necessaria per mantenere in piedi una coalizione (che si definisce l'Unione, ma appare, per ora, in assenza di un programma, un condominio sempre pronto a dividersi)?
In conclusione, queste primarie non mi paiono tanto una prova di democrazia, quanto una prova di debolezza.
Vedi anche le posizioni di Ida Dominijanni e di Giuseppe Chiarante
Perché Standard & Poor's (S&P) si è improvvisamente svegliata e l'8 agosto ha cambiato il proprio giudizio sull'Italia? In fondo nell'ultimo mese le cose non sono andate poi così male. Il dato di ieri sulla produzione industriale (scesa ancora rispetto a maggio) è negativo, ma servizi e costruzioni vanno meglio e le prime stime fanno prevedere che il Pil (prodotto interno lordo) nel secondo semestre dell'anno abbia ripreso, seppur lentamente, a crescere. I conti pubblici tengono: il fabbisogno rimane elevato ma tra gennaio e luglio è stato uguale a quello del 2004, nonostante il venir meno di alcune entrate una tantum, solo in parte sostituite dalla seconda rata del condono edilizio incassata a gennaio. Oggi probabilmente la Fed alzerà di nuovo i tassi di interesse, la miglior prova che l'economia americana continua a crescere. Il dollaro è forte e la Cina ha abbandonato il dogma del cambio fisso, due buone notizie per le nostre imprese. Persino la Fiat ha ricominciato a guadagnare.
Per capire la decisione di S&P occorre mettersi nei panni di un investitore che ieri, lunedì 8 agosto, è tornato dalle vacanze. Perché mentre l'Italia chiude, il resto del mondo ricomincia a lavorare e dopo la pausa di luglio i mercati finanziari riprendono a pieno ritmo, con l'occhio alla Fed oggi e alla Banca centrale europea il 1˚ settembre. Che immagine hanno dell'Italia questi signori, che posseggono la metà del nostro debito pubblico? Quella efficacemente riassunta dal titolo dell' ultimo numero dell'«Economist»: Italia: un altro anno, un altro scandalo.
Il crack della Parmalat è stato il maggior scandalo finanziario avvenuto in Europa negli ultimi anni, un avvenimento, ha scritto la Banca dei Regolamenti Internazionali, «che ha messo in luce carenze ad ogni possibile livello: amministratori, revisori, banche, promotori finanziari, nonché i responsabili della vigilanza su ciascuna di queste attività». Che cosa abbiamo fatto in due anni? (Ricordo che negli Stati Uniti il Sarbanes-Oxley Act, una legge scritta per affrontare problemi simili, è stata approvata il 30 luglio 2002, cinque mesi dopo il fallimento di Enron). Nulla, non una norma, non una legge. Ma è anche peggio, perché nel frattempo è scoppiato un altro scandalo che ha evidenziato carenze forse ancor più gravi nell'attività di vigilanza sulle banche. Scrive S&P: «Eventi recenti hanno danneggiato, almeno temporaneamente, il prestigio della Banca d'Italia, finora una delle istituzioni più autorevoli del Paese». E il governo che fa? Se la prende con i giornalisti che pubblicano le intercettazioni e poi va in vacanza, sperando che l'agosto faccia dimenticare tutto. Che devono fare gli investitori internazionali dei titoli italiani che posseggono?
Sulla vicenda Banca d'Italia le opinioni si sprecano, ma i nostri grandi banchieri tutti zitti. Chiedo: vi va bene così? È questo il mondo in cui vi piace lavorare? Dal vostro silenzio devo concludere che lo sia.
S&P teme che le elezioni non risolveranno nulla: «Entrambi gli schieramenti sono divisi, è difficile che chiunque vinca abbia la forza per raddrizzare la situazione». Mi colpisce che questo si dica dell'Italia e non della Germania che vota fra un mese, in mezzo a contraddizioni simili, un segnale che dovrebbe preoccuparci.
Il centrosinistra pensa alle primarie di ottobre, il programma, dice Prodi, verrà dopo. È un lusso che non si può permettere. Più tardi illustrerà il suo programma, più difficile sarà la situazione che, se vincerà, si troverà a dover affrontare.
giavazzi-f@yahoo.com
Dieci anni fa un mio amico iniziò una storia con una giovane cinese cresciuta nella periferia londinese. Ambedue erano molto innamorati. Lui però era sposato con due figli piccoli.Lei accennava a un matrimonio combinato dalla sua famiglia. Convinto che l'amore avrebbe avuto la meglio, il mio amico abbandonò la moglie. Per sei mesi vissero insieme felici. Poi, quando l'uomo scelto dai genitori della ragazza arrivò da Hong Kong, lei se ne andò per sposarlo. Quello che sconvolse il mio amico fu che lei non soffriva per il sacrificio del loro amore. «Sembra un'altra persona», mi disse.
Si dice che il modo migliore di produrre il bilinguismo è di far sì che un bambino parli sempre e solo una lingua a casa e un'altra fuori. Così cresce sotto due incanti diversi, due visioni del mondo nettamente separate. Ognuno di noi sa quanto è facile, specialmente durante l'adolescenza, essere una cosa per i nostri genitori, un'altra per gli amici. Ma quelli che passano costantemente da una cultura a un'altra sono quasi costretti a costruirsi due personalità. A noi mostrano quella costruita tra di noi, nella nostra lingua, in linea con la nostra visione, ma non possiamo concepire come essi siano nella loro altra cultura d'origine. Tutto questo è una ricchezza, finché i due mondi non entrano in collisione.
Supponiamo che in ogni famiglia la personalità dei figli si formi anche in rapporto a quelle che sono le preoccupazioni maggiori dei genitori, degli zii, dei nonni. Una famiglia che a tavola ogni giorno descrive il mondo in termini del bene e del male costringerà i figli a occupare una posizione tra queste due polarità. La famiglia dei fratelli Karamazov di Dostoevskij è l'esempio più famoso, forse fin troppo schematico. Un figlio è apertamente dissoluto, uno è santo, e uno si arrovella, terribilmente diviso tra l'una e l'altra posizione. Tutti è tre sono simili, però, in quanto non riescono a pensare alla vita se non in questi termini.
Non è difficile immaginare che per la famiglia musulmana che si trasferisce in Occidente una delle preoccupazioni dominanti sarà come e quanto adattarsi a una società laica e liberale, come e quanto mantenere le tradizioni, la «purezza» della cultura d'origine. I figli si costruiranno un' identità anche in rapporto a queste due polarità. Si vedono situazioni simili anche in un romanzo come «Il giardino dei Finzi Contini», dove l'io narrante, ebreo, in contrasto con un padre che vuole integrarsi con la società italiana, fascismo compreso, viene fortemente attratto verso un'altra famiglia ebrea che vuole isolarsi totalmente.
Uno dei terroristi che si è fatto esplodere a Londra il 7 luglio era figlio di un pachistano che ha fatto di tutto per integrarsi nel mondo inglese, padrone addirittura di un Fish n' Chip Shop. Più inglese di così, non si può. Il figlio adolescente a un certo punto assume una posizione in contrasto col padre, comincia a studiare intensamente il Corano. Hanif Kureishi aveva previsto un rapporto simile tra padre e figlio nel suo romanzo «The Black Album». Ma non aveva previsto che, durante l'inevitabile viaggio in Pakistan per riscoprire le proprie radici, il giovane sarebbe venuto in contatto con quelli per cui il rifiuto dell'Occidente è anche la molla del terrorismo.
Tornato trasformato in Inghilterra, in conflitto in casa con l'Islam liberale del padre, fuori casa il giovane mantiene lo stesso la sua altra personalità tutta inglese, la personalità costruita accanto a persone che non pensano al mondo in termini di una scelta tra Occidente o Islam. Così non dobbiamo meravigliarci se pochi mesi prima di commettere un' atrocità si trova a godersi un'uscita in rafting facendosi fotografare vicino a una bionda inglese con i capelli sciolti che tiene il timone e comanda — cosa scandalosa — tutti i maschi nel gommone. Non c'è niente di strano in tutto ciò, anche se si può immaginare che l'esplosione del 7 luglio avrà messo fine a tante tensioni e contraddizioni.
Che fare? Come con il global warming, il surriscaldamento del pianeta, scopriamo il problema dopo che il danno è fatto. Ci saranno migliaia di persone cresciute in questa dinamica che possono essere vulnerabili rispetto a chi, cresciuto in tutt'altra realtà, vuole manovrarle.
«Se volessi arrivare dove vuole andare Lei — amano rispondere gli irlandesi a chi gli chiede delle direzioni — non partirei da dove Lei è adesso». La strada semplice non c'è. Se c'è una via possibile, però, passerà senz'altro attraverso una lunga riflessione sulla vita dei giovani immigrati nei nostri Paesi. Ci sarà anche bisogno, forse, di rivedere il significato della parola identità.
SOLO dieci giorni dopo il naufragio del referendum contro una legge ideologica e integralista sulla fecondazione assistita, è Carlo Azeglio Ciampi a offrire una scialuppa di salvataggio all´Italia laica uscita umiliata da quel non-voto, dettato da un´oggettiva difficoltà di comprensione di molti, e da una fuga pilatesca dalla ragione e dalle responsabilità di alcuni. Con poche parole, pronunciate davanti al Papa in visita al Quirinale, il presidente della Repubblica ha ristabilito una gerarchia funzionale tra i valori costituzionali e i principi religiosi. Ha rimarcato il confine tra lo «Stato civile» (nel quale tutti si possono riconoscere, in nome del pluralismo delle fedi e delle convinzioni) e lo «Stato etico» (al quale tutti devono aderire, in nome di un pensiero unico imposto dall´alto). «Con orgoglio – ha detto – affermo come presidente e come cittadino la laicità della Repubblica italiana... L´articolo 7 della Costituzione italiana recita: "Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani"...».
«La necessaria distinzione tra il credo religioso di ciascuno e la vita della comunità civile regolata dalle leggi della Repubblica – ha proseguito Ciampi – ha consolidato nei decenni una profonda concordia tra Stato e Chiesa... La delimitazione dei rispettivi ambiti rafforza la capacità delle autorità della Repubblica e delle autorità religiose di svolgere appieno le rispettive missioni...». Meglio di così non si poteva dire. A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. Sarebbero affermazioni scontate in qualunque altra democrazia del mondo. Ma in questo Paese, evidentemente, non lo sono mai abbastanza. E come accadde a Oscar Luigi Scalfaro nel lontano 1998 (quando, in un´altra visita di un Pontefice sul Colle, disse a Papa Wojtyla che «la laicità dello Stato è presupposto di libertà ed eguaglianza per ogni fede religiosa...» e «nella nostra diretta responsabilità è la scelta politica e l´amministrare la cosa pubblica... ») queste parole potevano arrivare solo da Ciampi. Il praticante che va a messa tutte le domeniche, ma che il 13 giugno è andato a votare alle 8 e 30 insieme alla moglie. Proprio mentre su di lui, sui partiti e sulle istituzioni, sui cattolici adulti e su quelli adolescenti, sugli astensionisti sistematici e sugli apatici anti-politici, pendevano l´appello di Ruini e la fatwa degli atei-devoti, dei teocon alle vongole, dei "cristianisti" di casa nostra. Tutti mobilitati, questi ultimi, a trasformare un confronto civico su una legge dello Stato in uno scontro di civiltà sulla vita e sulla morte. In un conflitto simbolico, titanico e quasi definitivo, tra l´elité sbandata e autoreferenziale dei miscredenti del "politicamente corretto" e la massa spaurita ma ansiosa di ritrovare, tra le braccia aperte di Madre Chiesa, la "risposta forte" che manca. Non solo al bisogno di fede, ma anche al deficit di politica.
Ciampi fa piazza pulita di questa nuova forma di manichiesmo, che ha sfruttato mediaticamente Wojtyla e che oggi strumentalizza politicamente Ratzinger. Spazza via questa malintesa idea di un "neo-illuminismo" occidentale, accidioso e agnostico, che usa tutto quello che trova, da Galileo e Barsanufio, da Bertrand Russell a Jurgen Habermas, per snocciolare i suoi anatemi da moderna Ecclesiaste: ogni laico è un relativista, ogni relativista è un ateo, ogni ateo è un disperato. Senza morale, senza cultura, senza ideali. «Un pozzo che guarda il cielo», per dirla con le parole di fine Anni 20 di Fernando Pessoa. «Un ghetto di soggettività», per dirla con le parole dell´agosto 2004 (ancora una volta strumentalizzate) dell´ex prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede.
Ciampi ridà voce a quell´Italia che dice «non ci sto». A quell´Italia che rifiuta l´inesorabile logica, binaria e apocalittica, dei nuovi Torquemada folgorati sulla via di Damasco. Che respinge insieme gli scontri di civiltà e le guerre di religione. Ridà voce a quell´Italia che non contesta alla Chiesa il diritto di fare la sua parte, con orgoglio e a viso aperto. E anche di condurre le sue «battaglie di rievangelizzazione», con gli strumenti che ha e con gli argomenti che vuole. Ma a quella Chiesa, e ai troppi politicanti che per pavido cinismo o per opportunistica convenienza ne hanno mutuato i messaggi, ricorda che anche la laicità (e non il laicismo) è un valore statuale da difendere, perché è il caposaldo della democrazia e l´antidoto contro tutti gli integralismi. Perché è esattamente quel valore che permette al Pontefice di professare sul campo (possibilmente senza invaderlo) i suoi richiami: il primato della vita, la coppia fondata sul matrimonio e sui figli, la scuola privata. È esattamente quel valore che consente alla Conferenza episcopale la libera scelta di "svilirsi", giocando sul territorio in competizione e su un piano di pari dignità con tutte le altre componenti della società civile: istituzioni, partiti, sindacati, agenzie culturali, confessioni religiose.
Allo Stato compete l´onere della decisione politica. Se è il caso, e là dove è possibile, anche sulla base di quel «bene comune dei cittadini» e di quella «condivisione dei valori fondamentali» che il capo dello Stato ha voluto rammentare a Benedetto XVI: «Il rispetto della dignità e dei diritti di ogni essere umano, la famiglia, la solidarietà, la pace». È un modo, anche questo, per riscattare quanti hanno vissuto con disagio la disfatta sulla procreazione. Quando è sembrato che, nella lotta impari tra il sacro e il profano, tra il drammatico «sulla vita non si vota» e il pragmatico «decide la scienza», si stessero confrontando il valore vero (strenuamente gridato dagli strani "cristiani rinati" sotto le insegne vaticane) e un valore zero (timidamente balbettato dai flaccidi laici riuniti sotto le insegne referendarie). Ed è un modo, anche, per fissare qualche serio paletto in vista delle discussioni future, in Parlamento e fuori. Sulla stessa fecondazione, dove non sarà inutile tentare di rivendicare ancora una volta i diritti delle coppie sterili, anche rispetto agli embrioni. E poi, se serve, anche sull´aborto, dove non è mai inutile riaffermare il diritto alla salute della donna, anche rispetto al feto.
La laicità non è morta, con il 13 giugno. Lo Stato costituzionale è la casa di tutti, non una cattedrale per pochi. La sinistra lo sa, perché quello Stato ha concorso a costruirlo. E come ci ricorda Norberto Bobbio, anche in tempi di identità confuse e rimescolate, ha frecce al suo arco, da lanciare nel cielo dei valori che ora sembra abusivamente occupato dalla destra neo-clericale: giustizia, solidarietà, uguaglianza. I diritti non sono la sterile vetrina del formalismo giuridico kelseniano, sulla quale l´Occidente moderno rispecchia il suo vuoto interiore. Ma sono la frontiera sulla quale ogni giorno, attraverso un bilanciamento faticoso ma fruttuoso, si difendono allo stesso tempo la libertà e la democrazia, e si tutelano allo stesso modo le maggioranze e le minoranze. Insieme alla Chiesa, se si può. Ma senza la sua benedizione, se si deve.
Sede di potere
Un commento su una questione che non è solo di costume. A proposito della “apertura” di Villa Certosa, da il manifesto del 19 maggio 2005
Non è bello che la maggior parte dei giornali scrivano da anni Palazzo Grazioli e Villa Certosa, tutto maiuscolo, lasciando intendere a chi non ci fa caso che siano sedi istituzionali o pressappoco. Non si capisce se per pigrizia o per compiacenza più o meno consapevole verso Berlusconi, si continui nei tg a ripetere la frase convenzionale «il premier ha ricevuto questo e quello a Palazzo Grazioli»; al posto di quella meno elegante «Berlusconi ha convocato a casa sua un vertice di maggioranza ecc». E' servita anche quest'ambiguità a Berlusconi. Il messaggio come nelle accorte pubblicità scorre e arriva: qualcuno potrà pensare che si fa così, che è una fortuna avere un presidente molto ricco che mette a disposizione le sue case per le attività di governo. Per altri, si provi a chiedere in giro, quel palazzo è di proprietà dello Stato, un po' come la residenza di Blair a Downing Street. Ma almeno ora che il berlusconismo è in crisi sarebbe opportuno lasciare a Berlusconi tutta la regia di questa farsa. Non è irrilevante che si dica chiaro che a casa sua - non a palazzo Grazioli: a casa sua - si prendono le decisioni che a Palazzo Chigi e in parlamento si ratificano. Se si dà un'occhiata al rapporto tra architettura e potere si vede che è stato a lungo gestito senza un preciso confine tra edifici di proprietà privata e sedi istituzionali, spesso coincidenti. Il principe aveva poca convenienza a fare qualcosa fuori dalle mura domestiche. Il suo palazzo era splendido, a prova di sorprese. Oltre alle stanze private vi erano ambienti destinati alle cerimonie e agli appuntamenti solenni. Ma è noto che spesso in privati o intimi incontri (un banchetto o una notte d'amore) capitava di decidere il futuro dei sudditi. Serviva al principe dare l'idea che tutto fosse sotto la sua supervisione che era continuamente rafforzata. (Cosimo dei Medici, realizza gli Uffizi come estensione del vecchio palazzo per trasferirvi il suo studio e le magistrature che così potrà controllare più agevolmente).
Per le moderne forme di governo, è stato obbligatorio abbandonare queste pratiche e dotarsi di sedi istituzionali. Non solo per ragioni connesse ad un nuovo ordine simbolico, protocollare ma per ammettere un agevole accesso alle informazioni da parte del pubblico, senza rinunciare alle riunioni riservate, sempre sottaciute.
Berlusconi ripristinando antiche consuetudini ostenta le sue case come i motori di ogni iniziativa, dando corpo alla sua idea di riforma in senso presidenzialista in tanti modi confusi e provocatori. Una condotta che ha superato ogni misura ed è arrivata al punto di ottenere la secretazione sulla sua residenza nel mare di Sardegna. Costringendo i magistrati sardi a chiamare in causa la Corte Costituzionale che nei prossimi giorni dovrà decidere sulla legittimità di questa forzatura che mira a impedire alla Procura ogni indagine su lavori che hanno poco a che fare, come sanno tutti, con le ragioni della sicurezza delle istituzioni.
Dal giudizio è lecito attendersi un po' di chiarezza. C'è ragionevole ottimismo, perché si pensa che la Corte non convaliderà l'idea balzana che la casa di vacanza di un privato cittadino, temporaneamente capo del governo, si possa trasformare senza renderne conto alle autorità di una Regione autonoma. Forse per questo Berlusconi, per una volta pessimista, ha finalmente deciso di ammettere l'accesso degli inquirenti a casa sua rinunciando al segreto.
Scalfaro: sessanta anni fa, cadeva un onnipotente...
Vincenzo Vasile
Oscar Luigi Scalfaro è uno di quelli che ancora riescono a collegare il presente al passato. Da l’Unità del 23 aprile 2005
ROMA Non è solo un impagabile siparietto. Sono la passione civile e l'arguzia di un padre Costituente che irrompono nel rito delle consultazioni («non inutili», dirà alla fine Ciampi in tono di sobria, implicita risposta a Berlusconi). Il protagonista dell'ultima giornata di rassegna di pareri sulla crisi al Quirinale che qualche ora dopo si concluderà con l'incarico per un governo Berlusconi balneare, è l'ex-inquilino di questo palazzo-simbolo, Oscar Luigi Scalfaro, cui tocca di essere l'ultimo a chiudersi per un'ora insieme a Ciampi nello studio della Vetrata. A conclusione Scalfaro, esce dalla porta presidiata da due corazzieri immobili e impettiti, e fa rapidamente i tre passi che lo separano dalla Loggia dov'è provvisoriamente installata la sala stampa, riconosce i "quirinalisti" di lungo corso, scruta i volti dei più giovani, poi sistema i due microfoni flessibili vicini alla bocca.
Piglio spigliato
Inizia in tono colloquiale: «Vi rivolgo un saluto, rivedo una serie di amici, ma anche qualche volto nuovo, perché è giusto che ci sia un'alternanza». Il piglio è persino spigliato e, si direbbe, giovanile; la «forma» di Scalfaro salta agli occhi dopo la breve apparizione, un'ora prima, di Francesco Cossiga, reduce da una pesante operazione. Scalfaro prosegue parlando del prossimo 25 Aprile, che cadrà all'indomani dell'insediamento di un balneare governo Berlusconi III, destinato a rapido e convulso tramonto: «È la grande ricorrenza dei 60 anni della libertà e quindi della caduta della dittatura, con un uomo che era onnipotente». E non c'è chi non colga il parallelo tra gli onnipotenti di diversa risma cui allude il presidente, che fu assediato sul Colle in un'Italia in bilico, nella fase più rampante e aggressiva dell'escalation berlusconiana. L'altro effimero «onnipotente» di cui si parla ebbe, aggiunge, una «caduta definitiva». La simmetria storica tra diverse vicende non si ferma qui: «Questo è quel che ci impegna in questo momento, soprattutto nel riflesso della riforma costituzionale», ricorda Scalfaro. E conclude abbandonando il registro ironico con un «augurio», soprattutto all'Italia: «...all'Italia che ne ha davvero bisogno». Saluta e se ne va.
Riflessi condizionati
Ovviamente si scatenano le polemiche. Un po' perché quel delirio di onnipotenza che accomuna diversi «regimi» assume in questa fase tra l'altro una connotazione jettatoria. Un po' perché il 25 Aprile fa scattare una specie di riflesso condizionato della maggioranza appena rappattumata, specie dopo la dissociazione di An e Lega dalla manifestazione di Milano. Un po' perché proprio Berlusconi, dopo avere finora disertato ogni anno il Quirinale (dove Ciampi anche stavolta radunerà in una solenne cerimonia rappresentane di comuni martiri, militari e partigiani), ha concesso contro voglia, invece, stavolta di fare atto di distratta presenza. Fatto sta che alle sferzanti frasi di Scalfaro rispondono - diciamo così - alcuni esponenti delle seconde e terze file, Fabrizio Cicchitto l'accusa retrospettivamente di «faziosità» durante la passata presidenza; Alfredo Biondi di vilipendio al premier e riferimenti storici poco appropriati; persino Daniela Santanché da un salotto lo minaccia: «Non passerà alla storia».
Il riferimento velenoso
Dal passato remoto emerge una vecchia storia, rivangata da un esponente di As, Antonio Serena. «Dovrebbe portare i fiori alla tomba dei fucilati di Novara». Si tratta di un riferimento velenoso al brevissimo periodo in cui Scalfaro, giovanissimo, fu pubblico ministero davanti alla Corte d'Assise straordinaria di Novara, e chiese la condanna a morte per un repubblichino, Salvatore Zurlo, autore di omicidi, rapine e rastrellamenti di partigiani. Si sentì «mandato allo sbaraglio» - disse una volta, intervistato da Marzio Breda per il Corriere della sera - «dagli eterni colleghi di Ponzio Pilato, i colleghi anziani che mi buttarono sulle spalle quel peso... Passai giorni e notti a studiare il caso per vedere se i fatti mi offrivano qualche scappatoia. Niente, i fatti erano lì, precisi, implacabili». Arrivato il giorno del dibattimento, Scalfaro affermò che su quei fatti poggiava la richiesta della pena capitale, ma continuò dichiarando la sua opposizione ad essa. Aggiunse anche non avendo trovato una strada giuridica per evitarla, si appellava alla Corte perché non venisse applicata. In seguito al suo discorso, il condannato ebbe salva la vita, più tardi tornò in libertà - beneficiando anche di diverse amnistie - e poté in seguito ringraziarlo.
GD’Avanzo L’ingenua illusione
Anche il bravo giornalista de la Repubblica (25 marzo 2005) è tra quei moltissimi che pensano che con Berlusconi e la sua truppa occorre aprire uno scontro serio, e non una serie di scaramucce da corridoio
ANCORA oggi c’è chi pensa che della riforma della Costituzione, alla fine, non se ne farà nulla. Il referendum la cancellerà, si dice con avventatezza. Nel mondo politico, della cultura e dell’informazione, per non parlare dell’opinione pubblica, c’è chi è - ancora oggi - fiducioso che "il limite" non sarà oltrepassato. L’ingenua illusione può provocare disastri imponenti se non si affronta con realismo quel che è accaduto al Senato con l’approvazione della "Riforma dell’ordinamento della Repubblica" (primo firmatario Silvio Berlusconi). Ha vinto una cultura politica che crede sia la forza il reale fondamento della convivenza umana. L’idea è antica.
Fu di Machiavelli, è stata aggiornata nel ventesimo secolo da Max Weber e Carl Schmitt. Nella sua naiveté Berlusconi ne è, nel mondo occidentale, l’interprete più nitido. Egli si riconosce un’eccezionale autorità personale che può illuminare soltanto chi ha, per la politica, una vocazione. Vive per essa e non di essa (come, al contrario, quei "funzionari di partito" che gli sono avversari). Egli vuole esercitare il potere per realizzare, a vantaggio della comunità, la propria capacità di dare valori, significato e indirizzo alla vita secondo una "concezione del mondo" maturata con successo «in azienda» e in ogni altra "impresa" affrontata. È naturale, è coerente - a pensarci - che questa volontà e questo potere carismatico abbiano voluto consolidarsi in una Costituzione. Nell’humus istituzionale di un sistema democratico pluralista e pluripartitico, Berlusconi è a disagio. Incontra ostacoli, lungaggini, barriere, balances che gli fanno venire (ammette) «l’orticaria». Burocrazie, partiti, governo, Parlamento, organi di garanzia, magistrature, calcoli elettorali, lo condizionano, lo appesantiscono. Avviliscono i suoi poteri a "mediazione dei conflitti". Li riducono soltanto alla snervante direzione dell’agenda di governo.
Se questo è vero, pare un errore pensare che la nuova Costituzione sia il frutto di una congiuntura politica che ha voluto (dovuto) concedere a ognuno dei partiti di governo una bandierina da sventolare in questa, e nella prossima, campagna elettorale. Berlusconi ha bisogno di questa Costituzione per "cambiare passo", dopo la prima stagione legislativa. Si prepara ad esercitare più concretamente la forza che rimane, nella sua cultura politica naif ma quanto consapevole, lo strumento essenziale per l’organizzazione della società e l’esercizio del potere politico.
È quel che annuncia la "Riforma dell’ordinamento della Repubblica" che frantuma il sistema costituzionale come sistema di equilibri e di reciproche garanzie. Semplificato e irrigidito, il sistema "riformato" concentra e personalizza il potere politico. Nasce un vertice monocratico del potere, eletto plebiscitariamente. È dotato di strumenti che gli consentono di governare senza mediazione e di controllare la maggioranza condizionando con voti bloccati la volontà parlamentare perché dispone liberamente della "vita" della legislatura. Come ha avuto modo di dire già due anni fa il presidente (ora emerito) della Corte Costituzionale Valerio Onida, questo scenario "non significa democrazia più immediata, ma meno democrazia". Il passo successivo non è difficile immaginarlo perché in controluce già affiora di tanto in tanto. Le categorie del "politico" che quel vertice monocratico e cesarista maneggerà saranno "il bene" e "il male", "l’amico" e "il nemico", "l’uguale" e "il diverso"…
Conviene, come sollecita Mario P irani, "svegliarsi", rimboccarsi le maniche, riflettere, cercare di capire, al di là dello sconcerto e dell’indignazione. Nessuno deve pensare che sia facile, capire. Ancora ieri, era complicato venire a capo di quanti articoli della Carta siano stati riscritti dal Polo. Per Michele Ainis ne sono stati "modificati 52 e aggiunti altri 3 di sana pianta". Per Andrea Manzella ne sono stati "cambiati 53". Per Sergio Bartole, presidente dell’Associazione costituzionalisti italiani, "la Costituzione cambia in ben 48 articoli". Altre riviste (come Questione Giustizia 1/2005) sostengono che il testo "sostituisce o modifica 49 degli 80 articoli della seconda parte della Costituzione".
52, 55, 53, 48 o 49? Si tratta della Carta costituzionale. Non è irrilevante che neppure addetti eccellenti sappiano concordemente dirci quanti sono gli articoli riscritti o aggiunti. Questa incertezza non è muta. Sono contraddizioni che ci svelano quanto debole e affrettato sia stato il dibattito culturale e politico intorno a una faccenda decisiva per il futuro della democrazia italiana. Forse è utile chiedersi perché questo è accaduto e azzardare anche una risposta.
Il falso mito delle riforme costituzionali, come una malattia, ha contagiato l’intero quadro politico. Tutti. Laici e cattolici. Destra, centro e sinistra. Il contagio, si può dire, dura da vent’anni e ha un suo primo epilogo con il referendum sul sistema proporzionale. Quel giorno, la nostra democrazia cambia pelle. Da "democrazia organizzata", come spiega Mario Dogliani, (organizzata perché fondata sulla mediazione dei partiti) si trasforma in "democrazia individualistica" (perché fondata sul rapporto immediato tra singolo e rappresentanti). In questo slittamento la Costituzione, approvata il 22 dicembre del 1947, entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, sembra deprezzarsi, svalutarsi. Appare "invecchiata". Ma le Costituzioni, se vitali, non invecchiano. La più antica delle Costituzioni scritte, quella degli Stati Uniti d’America, nacque il 17 settembre del 1787; fu integrata con i dieci emendamenti del Bill of rights (carta dei diritti) l’anno dopo (1788) e da allora, in 217 anni, dei 10.000 emendamenti proposti ne sono stati approvati soltanto 17 (l’ultimo nel 1992).
La nostra Costituzione, messa sotto pressione, ha dovuto mostrare in questi anni tutta la vitalità dei suoi verdissimi 57 anni. Se non ci si lascia acceccare dal falso mito, lo si può constatare a occhio nudo. E’ stata accusata di indebolire il sistema decisionale del governo troppo esposto agli umori del Parlamento. Al contrario è il Parlamento a vivere un’infelice crisi di ruolo mentre le pratiche in uso - i tempi garantiti della discussione in aula; l’ampio uso della questione di fiducia; i maxiemendamenti governativi… - offrono all’esecutivo un vigoroso potere decisionale. È stato detto che la Carta impedirebbe la stabilità e la continuità dei governi. In realtà, da quando il Parlamento è stato eletto, prevalentemente con il maggioritario (dal 1994), sono stati in carica sei governi, ma si sono succedute al governo quattro maggioranze di cui tre scaturite dal voto. È stato detto che la Costituzione offre al "potere partitocratico" il modo di allungare le mani sulle istituzioni. È sempre più evidente che il ruolo di mediazione dei partiti tra istanze sociali e istituzioni è quasi del tutto venuto meno. Si dice che è colpa della Costituzione se abbiamo un sistema politico così frammentato. Un sistema politico, però, non è il frutto delle regole del sistema costituzionale, ma delle regole del sistema elettorale (che nulla hanno a che fare con la Carta).
Si può dire allora che - da quando il "mito" delle riforme costituzionali è diventato invasivo e vincente - il sistema politico in tutti i suoi segmenti ha preteso di ottenere, come sostiene Onida, "attraverso le regole costituzionali, la coesione interna delle coalizioni politiche" che è appunto il lavoro, la quotidiana "fatica" dell’azione politica. Quel che la politica non è riuscita a conservare o proteggere o innovare, lo ha chiesto alla rigidità della Costituzione. È il passo laterale che ha sfigurato l’idea della Costituzione. Da motore della politica è diventata cornice. Da tabernacolo di valori e di programmi per realizzarli si è trasformata in strumento tecnico per dare robustezza al potere politico. Non si può negare che in questa interpretazione svalutativa della Carta è rimasta intrappolata anche l’opposizione di oggi (il governo di ieri). Le preoccupazioni che il centrosinistra propone in queste ore possono esserne una conferma. L’allarme maggiore sembra riguardare "i diritti", come se la Costituzione si rinchiudesse soltanto nel rapporto tra i singoli e i diritti costituzionali. Sembra quasi che la Carta debba essere affare di Corti Costituzionali, di giudici, di garanzie e non anche l’impegno comune che custodisce un modello di società condiviso, la rappresentazione di un fine e di un futuro collettivo. È proprio vero che bisogna «svegliarsi». Quel che attende il Paese con il referendum è un confronto tra culture politiche. Della cultura "cesaristica" di Berlusconi si sa e si è detto, ma quella che ha ispirato la Costituzione del 1947 dov’è? È ancora viva? Se è viva, perché tace, perché non si mostra?
«Venerdì e sabato erano giorni di novità. Di sabato avevo fatto il video, di sabato avevo scritto la lettera. Così venerdì aspettavo che dicessero qualcosa, anche perché lui, il carceriere che si mostrava più disponibile, sembrava allegro. E l'altro a un certo punto era uscito. 'Vabbè, mi sono detta, per chiedere aspetto `». E' il racconto di Giuliana Sgrena, il giorno della grande paura e della gioia che dura mezz'ora, fino alle raffiche che ammazzano il suo liberatore, Nicola Calipari, il poliziotto che dirigeva le Operazioni internazionali del Sismi. La nostra inviata è ancora all'ospedale militare del Celio, aspetta di essere operata e ha male alla spalla ma sta meglio, anche gli ematomi sul volto stando andando via. Ci accoglie seduta, con lei c'è Pier. Giuliana sapeva già dei contatti in corso, sabato 19 febbraio aveva scritto di suo pugno la lettera ai familiari, la prova che il Sismi cercava. E per due volte l'avevano fatta parlare al telefono, sabato 25 e ancora lunedì 28: una cassetta è finita alla Croce rossa italiana, l'altra chissà. Domenica 27 le avevano detto che sarebbe stata liberata e il giorno è arrivato di venerdì, un mese esatto dopo il rapimento alla moschea Al Nahrein di Baghdad. Era venerdì anche il 4 febbraio.
«Quando l'iracheno mi ha portato il pranzo gli ho chiesto: `Sei felice perché resto o perché me ne vado?'. 'So che te ne andrai ma non so quando, chiedi all'altro...'. E poi: `Te ne andrai domani, Inshallah, se Dio vuole'. `Giorno più giorno meno', così ho pensato. E invece dopo qualche ora, non so quante, sono entrati tutti e due. Ero a letto come al solito - ricorda Giuliana - e ho notato che non portavano il consueto camicione lungo, si erano quasi vestiti eleganti, camicia e pantaloni. Ho provato a scherzare: `Che è? Un matrimonio?'. E loro: `Complimenti, te ne vai a Roma, la tua roba dov'è?'. Avevano fretta. Mi chiedevano: `Sei pronta? Sei sicura?'. Volevano prepararmi: `Guarda che sarà una cosa difficile... Abbiamo promesso alla tua famiglia - perché loro parlavano sempre della famiglia - di rimandarti a casa sana e salva, ma se qualcosa va storto ci ammazzano tutti'. Sapevo già che era il momento più delicato. `Se ci fermano, sia gli americani che la polizia irachena, non fare segni, non dire che sei un'occidentale».
Sull'auto dei rapitori
«Mi sono messa la felpina nera con la zip, che nel primo video sembrava verde. Jeans neri e sopra il mio vecchio cappottino molto anonimo, che in un paese arabo va sempre bene. Mi hanno ridato la mia roba - dice ancora Giuliana - ma non tutto. C'erano gli accrediti, i documenti e i soldi, quasi tutti. Erano mille dollari e ne ho riavuti ottocento, hanno voluto fare il gesto... Non mi hanno restituito tutti i blocchetti, né i telefoni, né la macchina fotografica digitale. Prima di uscire dalla casa mi hanno fatto mettere un'imbottitura sotto gli occhiali da sole, non se fosse giorno o già notte».
«Mi hanno fattoo salire in macchina, sono saliti anche loro due e, pur non vedendo, mi sono accorta che alla guida c'era un altro. Hanno parlato al cellulare, forse altri ci precedevano o ci seguivano. Non lo so. Abbiamo girato un po' ma non molto, una ventina di minuti. Finalmente siamo arrivati, non so dove perché ero bendata, e ci siamo fermati. Mi hanno detto `aspetta' e sono rimasta lì, con una fifa pazzesca. Sempre nella stessa macchina. Ero lì da sola con il terrore. Ho capito che era un punto di passaggio, c'erano automobili che si fermavano. `Sarà questa?', pensavo. A un certo punto ho sentito da fuori voci concitate. No, non è durata più di mezz'ora, ero agitata ma non è durata di più». C'è stato un ritardo di due ore nella consegna ma Giuliana esclude di aver passato così tanto tempo ad aspettare. «Sentivo sirene della polizia e soprattutto un elicottero americano sopra di me. Mi sono ricordata di Mogadiscio, quando ho intervistato Osman Atto che era ricercato: sopra di noi c'era un elicottero americano. `Se va bene, mi sono detta, non mi beccano neanche stavolta'».
«Sono Nicola, sei libera, vieni»
«Quando è tornato, uno dei miei carcerieri mi ha detto: `Dieci minuti'. `E ora che faccio?', ho pensato. Così ho cominciato a contare, 'quando arrivo a sessanta sarà un minuto'. Per arrivare a seicento ci avrò senz'altro messo meno di dieci minuti. E intanto mi domandavo: 'Chissà chi verrà?'. Sapevo che sarei potuta finire in mano ad un altro gruppo. Finché non è arrivato Nicola, che ha aperto la portiera di destra mentre io ero seduta dall'altra parte: `Sono un amico di Pier e di Gabriele, sei salva, libera, vieni con me'. Gli occhiali non li tolgo, non ci penso nemmeno. `Abbandonati a me', dice Nicola. La loro macchina doveva essere lì, la raggiungiamo subito. `Mi siedo vicino a te', dice Nicola. Alla guida c'è il suo collega, il posto accanto è vuoto. Ho ancora le bende, solo dopo qualche minuto Nicola dice: `Puoi toglierle'».
«La prima cosa che vedo? Una strada periferica di Baghdad, però non sto a fissarla: se quando mi hanno rapita cercavo di fissare ogni dettaglio, in quel momento di gioia guardavo lui, non mi interessava guardare fuori. E poi Nicola mi ha travolto di parole, ha fatto un sacco di nomi di amici: `Mi hanno detto di non tornare senza Giuliana'. Allora ho capito di essere libera, mi sembrava di essere rinata». A bordo non c'era nessun altro, il quarto uomo Giuliana non l'ha visto. «Non posso escludere che ci fosse un'altra auto, una staffetta, ma non ho avuto questa sensazione».
Le telefonate dall'auto
«Quando mi sono tolta le bende l'autista ha telefonato, secondo me a Baghdad: `Siamo in tre, stiamo arrivando'. Ho intuito che qualcuno ci aspettava in aeroporto, forse un loro collega, ma nessuno me l'ha detto, neanche dopo, l'ho solo intuito. Nel frattempo Calipari mi ha detto: `Ora chiamiamo Roma'. Ma non trovava i suoi occhiali, non riusciva a chiamare. Ha buttato un telefono sul sedile davanti perché non funzionava. Con l'altro telefono è riuscito a chiamare il capo del Sismi a Roma e me l'ha passato, non so cosa gli ho detto: 'Grazie', senz'altro ho detto `grazie'. 'Ti richiamo', gli ha detto poi Nicola. Non so se ha detto `ti richiamo quando siamo in salvo', non ricordo, ma certo non era una situazione di sicurezza assoluta. Lo stesso anche dopo, quando l'autista ha detto `da qui sono 700 metri all'aeroporto' e subito sono arrivati gli spari. In una situazione normale avrebbe detto: 'Siamo quasi arrivati'».
«Non ho visto il faro dei soldati»
«Non ho visto posti di blocco. Certo io parlavo, guardavo Nicola, ero euforica, però mi sarei accorta se ci avessero fermato, perché avrei avuto paura. Calipari e il suo collega hanno acceso la luce interna: forse per poter telefonare, forse proprio per motivi di sicurezza, perché la prima cosa è farsi vedere in faccia. Il viaggio sarà durato venti minuti o mezz'ora, non di più. Ricordo un sottopassaggio, però non ho seguito la strada: di sicuro non era la strada principale, sarebbe stato da pazzi, ma una strada alternativa fuori dalle zone abitate. Comunque siamo arrivati su questa strada, tutta allagata, la macchina ha sbandato e ho detto: 'Ma guarda tu se ora andiamo a sbattere'. Poi quella frase, `ancora settecento metri', e subito i colpi».
«C'è una curva a destra, le raffiche sono arrivate mentre la macchina girava, sempre dal lato destro dove era seduto Nicola. Non ho visto nessun fascio di luce, ho solo sentito le raffiche». Il maggiore che guidava l'auto invece l'ha visto, ma i colpi, ha spiegato, sono arrivati contemporaneamente, in violazione di tutte le procedure, subito sull'abitacolo e non al motore. «Non so - dice Giuliana - se fosse un'arma sola o di più, era buio. So che i colpi hanno investito subito l'auto, nessuno ha sparato in aria, l'ufficiale al volante ha gridato: `Ci stanno attaccando' e mi pare abbia cercato di telefonare, però ce l'ha fatta solo dopo, da fuori. E' uscito gridando: `Siamo italiani'. Nicola invece non ha detto più niente, si è buttato addosso a me che intanto cercavo di scivolare più giù che potevo, tra i due sedili. Mi ha salvata».
«Sono ancora viva, Nicola è morto»
«L'autista era sceso, mi sembrava impossibile che gli americani ci attaccassero. Sono rimasta in macchina, con un fanale hanno illuminato la zona e allora ho visto un mezzo blindato a una decina di metri dalla strada, sulla destra. E' la dinamica del fatto che fa pensare a un agguato, voi cosa avreste pensato? Faccio in tempo a sentire l'ufficiale, che era sceso e da lì telefonava, credo a Roma, mi è sembrato che si fidasse più di chiamare Roma che non Baghdad: `Nicola è morto, lei è lontana ma ha gli occhi aperti...'».
«Sento Nicola sopra di me, cerco di spostarlo e non ci riesco. In quel momento si avvicinano i soldati, sette otto. Aprono la porta sul lato destro, capiscono che Nicola è morto e lo tirano su. Mi sembrano interdetti, forse a uno sfugge un'imprecazione, poi chiama: `C'è un morto'. Allora vengono dalla mia parte, a sinistra. Aprono. Ma sono bloccata, incastrata. Vicino a me, sul sedile, sento un mucchio di proiettili: ci saranno state anche le schegge dei vetri dei finestrini ma a me sembravano proiettili. E quelle che ho nella spalla non sono schegge di vetro».
Con gli americani all'ospedale
«'Sono ancora viva', ho pensato. Sentivo la ferita alla spalla ma non ero morta. I soldati mi hanno tirata fuori, sono rimasta sdraiata per terra mentre uno di loro mi tagliava i vestiti. Pensavano fossi messa peggio. Un altro ha provato a mettermi una flebo, ecco il risultato», e mostra una tumefazione sul polso. «Non so cosa sia successo all'autista, io sono rimasta con i soldati, mi hanno portato all'ospedale sul blindato. Erano americani, giovani. Americani e non d'origine latinoamericana. Non respiravo più, il polmone si stava stringendo, chiedevo continuamente acqua. Lì per lì mi hanno solo chiesto il nome e la nazionalità, più tardi in un'orecchio uno mi ha chiesto: `Ma tu sei la giornalista che avevano rapito?'. Non sapevo che dire, poi ho detto sì. `Mica mi potrà ammazzare qui dentro', ho pensato».
«Nel frattempo, su mia richiesta, era arrivato l'ambasciatore De Martino. L'ambasciatore ha chiamato Gianni Letta e me l'ha passato. Poi mi hanno fatto l'anestesia totale per togliere il proiettile. Quando mi sono svegliata ho chiesto della collana che avevo, la collana della resistenza apparsa nel video. Gli americani non l'hanno più trovata».