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«Cambiamo aria. Andiamocene via, mi dice mia moglie. Io invece penso: aspettiamo, saranno i bambini a decidere per noi perché se qui non riparte nulla, loro dovranno per forza andarsene». Massimo parla e si tiene la testa che sembra scoppiare. Dalla notte del 6 aprile la sua vita va avanti allo stesso modo: sveglia alle 5 e 30, navetta, pullman Pescara-L’Aquila alle 6 e 30. La strada a quattro corsie corre, il caos comincia quando ti avvicini: scuole, zona industriale, centri commerciali, container che fungono da sede degli uffici, baracchine commerciali, tutto si concentra agli svincoli autostradali. Il paradosso è questo: L’Aquila è una città deserta, L’Aquila - o meglio, la “non città” che si distribuisce intorno al nucleo storico - è invivibile per la congestione del traffico.

Alla sera, quando Massimo si prepara per L’Aquila-Pescara, la testa scoppia. Il problema principale, però, da settembre non è più il suo ma quello dei suoi figli, due bambini di sette e tredici anni. Soprattutto il piccolo non ce la fa più: «Li abbiamo iscritti qui per non perdere il diritto alla C.A.S.A.». La casa su piattaforma antisismica avrebbero dovuto consegnarla per il 20 novembre circa, «invece sembra che non se ne parli sino alla fine di febbraio». Il terreno agricolo di Massimo è stato espropriato ma per la sua famiglia, che dovrebbe rientrare nelle graduatorie, non si è trovato posto. Chi gestisce le graduatorie? «Non si capisce, se vai alla Protezione civile ti dicono che è il comune, se vai al comune scaricano sulla Protezione civile». Però: «Bisogna ammettere che l’emergenza è stata gestita benissimo. Per me no, non è andata bene, ma per gli altri sì». Massimo ripete il mantra che ripetono in molti ma che non tiene insieme l’infelicità di ciascuno con il messaggio che passa a reti unificate: «L’emergenza è stata gestita bene» ma la depressione si taglia con il coltello: Roberto faceva il barista, la cassa integrazione è scaduta il 18 dicembre. E ora? «Mi arrangio in un altro bar, aspettando che il vecchio datore di lavoro decida se vale la pena di riaprire o se il nuovo possa assumermi senza pagare contributi per i primi due anni. Se tutto va male dovrò andare via».

LUCI SOLO PER LE TV

Sul corso Federico II brillano tristi lucine natalizie a beneficio delle sole telecamere (si registrava Porta a porta), perché nessuno vive qui e quasi nessuno viene a passeggiare lungo un percorso che a destra e a sinistra mostra ponteggi e macerie. Le famiglie si riuniscono dove sono, negli alberghi lungo la costa, ad Avezzano, a Pescasseroli. Nelle case assegnate, nelle caserme. Si avvicina il momento di ricordare chi non ce l’ha fatta, di stare vicino a chi è stato più colpito dai lutti. Davanti al cantiere di piazza Duomo ha riaperto la pasticceria delle sorelle Nurzia. Si forma una piccola, paziente fila per il rito natalizio dell’acquisto dei torroni. Tutto procede con difficoltà e lentezza ma nessuno si lamenta. Nella fila e al bancone, il dilemma si ripete: andarsene, partire, ricominciare la vita altrove. Oppure combattere, restare, sperare, nel decreto che posticipi le tasse, nella istituzione della zona franca che darebbe una spinta alla ripresa.

Intanto sono già 14mila le persone che mancano all’appello.Sono quelle che hanno accettato il contributo per la sistemazione autonoma e che, probabilmente, non torneranno più. Non poche in una città che faceva 70 mila abitanti. Nella villa comunale un gruppo di cittadini, insieme a sindacati metalmeccanici e centri giovanili come il 3.32 ha deciso di creare un albero di Natale: una delle piante secolari raccoglie i messaggi, i desideri, racconta di ciò che c’era e che non ci sarà più, che nessun Babbo Natale sarà in grado di portare: il lavoro per i 39 messi in mobilità della Cns, per esempio, che produceva componenti elettroniche e che ha deciso di chiudere perché, spiega la lettera che annuncia la messa in mobilità, «le cose vanno sempre peggio». Fra le cose che c’erano e non ci sono più c’è la fotografia della movida del giovedì sera, quando l’Aquila era la città degli studenti.

L'ultima crepa nel cortile di Palazzo Carli s'è aperta l'altra notte. Pioggia e neve riempiono d'acqua le storiche pareti, il ghiaccio le gonfia e le fa «scoppiare». Puntelli e «fasce» tengono in piedi la sede del Rettorato universitario, ma non lo proteggono. Ed è quello che accade in tanti altri edifici storici: l'Aquila si sta sbriciolando. Vanamente un centinaio di persone - operai e vigili del fuoco - continuano ogni giorno a intrecciare legno e ferro per «legare» tra loro le pietre. Secondo l'ingegner Marchetti della Protezione civile, dal punto di vista edilizio «l'inverno farà più danni del terremoto», soprattutto sul patrimonio storico. Alla frantumazione del tessuto umano e sociale ora segue quella che va in scena tra vicoli, strade e piazze della «zona rossa».

Anche a Palazzo Margherita - sede di un consiglio comunale costretto a tenere sedute all'aperto per chiedere la proroga dell'esenzione fiscale - l'intrico di puntelli, la selva di tubi innocenti e di fasciature in legno non ferma l'opera del generale inverno. Sembra un'amara beffa l'affresco di Fulvio Muzi: fascismo, guerra, resistenza e ricostruzione - un sol dell'avvenire che spunta sullo sfondo - con stile realista guardano dalle pareti dell'aula consiliare la rovina reale del 6 aprile 2009, le macerie attorno a banchi da allora mai più toccati, con ancora le cartelle ormai impolverate, ma ciascuna al suo posto, di sindaco, assessori e consiglieri. Tutto sembra fermo, nel centro dell'Aquila. Complice la legge sullo smaltimento dei rifiuti solidi e urbani, le macerie sono ancora quasi tutte lì. E ogni tanto il maltempo ne aggiunge qualcuna.

Pompei 2010

Finora sono stati spesi 20 milioni di euro per «la messa in sicurezza» e si arriverà a quota 50. Ma sono soldi che non bastano a tenere in piedi un centro storico in cui prima del terremoto viveva un quinto dei 73.000 abitanti dell'Aquila, più qualche migliaio di studenti non censiti. Non bastano nemmeno per dare un futuro agli edifici storici, mentre si attende una ricostruzione solo annunciata. Per ora l'unica certezza - si fa per dire - sono le «linee guida» che dovrebbero essere varate in primavera: poi si potrà iniziare, per attingere - attraverso Fintecna - ai 3 miliardi scaglionati tra il 2010 e il 2033.

Per il momento i soli segni di vita - puntellanti a parte - sono il chioschetto di fronte a san Bernardino, lo storico locale «JuBoss» e il bar «Nurzia» che hanno riaperto da qualche giorno: isole di vita nel deserto, imbarazzanti nella loro ricerca di una «normalità» che dia qualche speranza al futuro, come la richiesta del capodanno in centro fatta dalla professoressa Giusi Pitari e sostenuta da 1.500 aquilani - via Facebook, ovviamente. Mentre l'Aquila di oggi sembra una moderna Pompei, triste mèta del turismo da terremoto. Mentre i tanti aiuti internazionali promessi durante il G8 tardano ad arrivare, perché i grandi del mondo a luglio hanno adottato le più belle opere d'arte e promesso milioni, ma quelle ancora aspettano che se ne ricordino. Mentre gli abitanti sopravvivono sparsi tra alberghi, caserme, new village e casette; e il 5% di loro si è già arresa, decidendo di costruire il proprio futuro altrove, lontano dalla dispersione della comunità e delle relazioni sociali imposta dal modello Bertolaso.

La spiegazione di come siano andate le cose in questi mesi ce la dà un operaio cassintegrato (18.000 sono i posti di lavoro persi o «sospesi» in questi mesi a l'Aquila tra mobilità, licenziamenti e Cig): «Io e la mia famiglia siamo costati finora allo stato 40.000 euro. La nostra casa ha danni per 28.000 euro: se ce li davano subito, avrebbero risparmiato e noi saremmo più felici». Invece tutto è rimasto fermo: non che fosse facile, ma un piano di ricostruzione poteva essere avviato subito, soprattutto per gli edifici con piccole lesioni e ne avrebbe tratto vantaggio anche il centro storico. Invece tutti gli sforzi si sono concentrati sul «piano C.a.s.e.», sui new village, perché l'obiettivo era «dalle tende alle case», perché Berlusconi e Bertolaso hanno abbandonato il «modello Friuli»: niente container o roulotte né ricostruzione «dove e come prima», perché - è stato detto - «prima dell'inverno tutti avranno una casa perfettamente arredata».

Tra C.a.s.e. e «casette»

Molto spettacolare, perfetto per le cerimonie di inaugurazione in tv, efficace come strumento di propaganda e di raccolta di consenso (l'Abruzzo e i rifiuti di Napoli sono le due «perle» del governo Berlusconi, così si dice). Peccato che non funzioni, se non molto parzialmente e che i tempi promessi non siano stati rispettati: le tendopoli sono state tutte smontate entro il 30 novembre, ma a metà dicembre, sotto la neve, solo 8.000 persone hanno trovato un tetto «nuovo» in uno dei 19 siti scelti per le «C.a.s.e», un migliaio hanno avuto una «casetta» provvisoria (in gergo Map), mentre quasi 20.000 sono sparse tra alberghi, affitti in case private e caserme; a progetto ultimato - e l'inverno sarà quasi finito - saranno poco più di 16.000 nei New village, il 50% degli aventi diritto, cioè di quelli la cui abitazione è stata valutata inagibile.

Peccato, poi, che costi molto e che il modello Berlusconi-Bertolaso abbia assorbito la gran parte dei fondi finora stanziati: un terremotato assistito - in tenda, albergo o caserma - costa circa 50 euro al giorno, la media del costo di un appartamento «C.a.s.e» è di 120.000 euro, l'intero progetto si porta via 700 milioni di euro. Il decreto Abruzzo ha previsto una spesa per il 2009 di un miliardo 152 milioni di euro, cui si dovrebbe aggiungere un'imprecisata - ma consistente - cifra derivante dalle tante sottoscrizioni fatte in Italia e nel mondo: tutto è finito nel calderone della gestione corrente a disposizione della Protezione civile. Se si fosse fatta la scelta dei container - come in Friuli, come in Umbria e nelle Marche - il costo dell'assistenza e dei primi soccorsi sarebbe stato dimezzato, a favore di una ricostruzione da avviare subito. Ma sarebbe stato molto meno spettacolare. E, probabilmente, anche molto meno lucrativo, visto che l'unica industria fiorente del post-terremoto è l'edilizia, quella stessa che - risparmiando sul cemento - ai disastri del terremoto aveva contribuito. Nel cantiere edile più grande d'Europa chiamato l'Aquila, sono arrivate imprese da ogni parte d'Italia, ma gli abruzzesi non mancano. E oltre alle «C.a.s.e», in attesa della ricostruzione modello Fintecna, un discreto affare è costituito dai Mar (moduli abitativi removibili), una sorta di casette con le ruote che stanno affiancando i Map per sopperire all'insufficienza e ai tempi sbagliati dei New village: basta avere un terreno, anche non edificabile, anche in zona alluvionale, e l'amministrazione pubblica paga 34 euro al giorno per sfollato che vi viene sistemato.

Tra affari passati e futuri, tutta l'attenzione degli sfollati è per la lotteria delle assegnazioni, per il «modello Topazio» che - attraverso un intricato incrocio di dati - stabilisce l'ordine di entrata di ciascuna famiglia nei villaggi «C.a.s.e.». Una classifica difficile da comprendere, che penalizza gli anziani e privilegia i «soggetti produttivi», che non tiene conto del reddito, ma che - alla fine - è banalmente condizionata dai tempi di consegna del complesso cui ciascuna famiglia viene assegnata. Così capita che vicini di casa con famiglie simili per età, numero di componenti e reddito finiscano ai due capi della città ed entrino nel nuovo appartamento a tre mesi di distanza. Alfredo Fegatelli e Monica Pizzetti, prima del terremoto erano vicini di casa, abitavano con le loro famiglie a Bagno piccolo in palazzine costruite in cooperativa. Ma edificate talmente male che - benché terminate nel 2001 - il terremoto ha piegato in maniera irreversibile. Ora, dopo aver vissuto in una tendopoli autogestita ai piedi delle loro vecchie abitazioni, Monica vive a Cese di Preturo dal 29 settembre, Alfredo è appena entrato in un appartamento di Sant'Elia. Quel che li tiene assieme e nutre l'amicizia delle loro famiglie - in giornate per metà perse nel traffico - è il progetto di ricostruzione di nuove palazzine al posto di quelle da buttar giù, sempre in cooperativa, sempre insieme agli altri 58 ex vicini di casa. Attualmente sistemati in appartamenti che hanno trovato pronti per l'uso, in edifici costruiti talmente in fretta da mostrare già qualche crepa. Sparsi sul territorio di una città sbriciolata, nel corpo e nell'anima.

La ricostruzione a L’Aquila sta prendendo una direzione che preoccupa il Consiglio superiore per i Beni culturali, il principale organo consultivo del ministero. E il motivo è molto semplice, come si può leggere in una mozione approvata all’unanimità: si sta abbandonando a se stesso il centro storico, che non è solo un luogo di memorie antiche, ma anche un cuore pulsante senza il quale l’organismo urbano rischierebbe il collasso. Se la città si svuotasse «diventerebbe una Pompei, o peggio». L’insediamento dell’Aquila era articolato in numerose frazioni, si legge nel documento, promosso dal presidente Andrea Carandini, ma dopo il terremoto «si sfilaccia ancor più, per la distruzione dei villaggi e del centro urbano aggregatore, e anche per la costruzione di venti insediamenti nuovi e stabili, che, comunque, creeranno alcuni problemi».

Il Consiglio esprime pareri non vincolanti. Ma appare molto forte la preoccupazione, spiega lo stesso Carandini, «che il territorio possa far sparire la città, che possa mancare un centro». La ricostruzione, invece, si fonda prevalentemente sui nuovi insediamenti, i villaggi che prendono forma nelle campagne intorno a L’Aquila. E ciò, si legge ancora nella mozione, produce pericoli seri: «In condizioni di questo genere e dopo lo svuotamento dell´Aquila il rischio della fine del centro storico è reale. Né la sua riduzione a quinta teatrale e a outlet del circondario può essere considerata una rinascita. Sono infatti i cittadini più che monumenti e mura a fare una città, per cui solo se gli aquilani torneranno nella città, L’Aquila sarà salva».

La mozione critica anche la carenza di fondi destinati al centro storico. Inoltre invita a selezionare bene le imprese che ricostruiranno. La via da intraprendere è quella del restauro, sulla base delle competenze acquisite nella ricostruzione del Friuli e dell’Umbria, insiste il Consiglio. Che si diffonde nel dettaglio anche sulle tecniche di intervento: «La progettazione della conservazione e del restauro dovrà mirare a recuperare e valorizzare tutte le strutture architettoniche rimaste, che rappresentano la memoria civile nello spazio e nel tempo della vita prima del terremoto».

Nei giorni scorsi di questi argomenti si è discusso in un convegno organizzato dall’Associazione Bianchi Bandinelli. È intervenuto anche il direttore generale dei Beni architettonici e paesaggistici, Roberto Cecchi, che aveva invece espresso molte riserve sull’efficacia dei restauri nel centro storico aquilano.

A quasi otto mesi dal terremoto, a me pare che l’argomento sul quale si dovrebbe maggiormente riflettere sia quello dell’informazione. Gli approfondimenti critici, salvo rare eccezioni, sono pochissimi, prevale l’ottimismo ufficiale, dominano le immagini festose di Silvio Berlusconi che inaugura nuovi alloggi. Anche la stampa e le reti televisive non favorevoli al governo riconoscono in genere che la ricostruzione del capoluogo abruzzese è stata avviata positivamente, e la accreditano come un successo del presidente del consiglio e della protezione civile.

Invece non è così, all’Aquila la cose vanno molto male, e sarà difficile rimediare agli errori commessi. La ricostruzione è stata impostata come problema esclusivamente edilizio, accantonando la dimensione territoriale, senza un progetto di città. Non era mai successo prima. Mi riferisco soprattutto alla decisione, assunta pochi giorni dopo il terremoto, di costruire nuovi insediamenti abitativi permanenti – abusivamente definiti new town – con l’obiettivo di passare immediatamente dalla tenda alla casa, evitando le sistemazioni in alloggi provvisori, come si fece, per esempio, dopo i terremoti del Friuli e dell’Umbria, dove la ricostruzione è stata tempestiva e soddisfacente.

I dati riportati nelle pagine seguenti dimostrano che i nuovi alloggi in costruzione non bastano (ospiteranno circa 15 mila abitanti, un terzo degli sfollati che stanno negli alberghi sulla costa, in altre sistemazioni precarie, alcuni ancora in tenda) e costano più del doppio delle tradizionali casette provvisorie. Ma qui interessa soprattutto porre in evidenza che l’operazione new town determina lo stravolgimento dell’assetto tradizionale dell’Aquila. Già prima del terremoto la città contava più di 30 frazioni, ma la costellazione urbana era tenuta insieme dalla forza centripeta di un centro storico di grande qualità estetica e funzionale, che agiva come formidabile contrappeso alla dispersione. Nel centro erano concentrate tutte le funzioni pregiate, le istituzioni, circa 800 attività commerciali, lì risiedevano almeno 6 mila studenti. Il terremoto proprio nel centro storico ha prodotto i danni più gravi, determinando il suo totale svuotamento. E dal 6 aprile non si è fatto nulla per riportalo in vita. La maggioranza degli edifici, anche molti monumenti, sono senza protezione, destinati a un degrado irreparabile. Tutta l’energia organizzativa e finanziaria è stata concentrata nella realizzazione delle micro new town (una ventina), disseminate in ogni direzione.

Il modello impresso alla ricostruzione accentua la già netta propensione allo sparpagliamento e a un insensato consumo del suolo. Se prima del terremoto un terzo della popolazione dell’Aquila viveva nelle zone esterne e il resto nelle aree centrali, è inevitabile l’inversione del rapporto, e la stragrande maggioranza dei cittadini vivrà in una sterminata periferia, senza forma e senza memoria. La città non sarà più la stessa, sarà irresistibile la spinta all’esodo, e all’Aquila non si potrà dire, com’è stato in altre circostanze, che il terremoto ha fornito l’occasione per dare slancio a una nuova vitalità culturale, economica e sociale, ma si dirà che ha accelerato fenomeni di declino già manifesti.

Che fare per impedire, o almeno smorzare una tendenza così disastrosa? Intanto, subito, si dovrebbe avviare il recupero del centro storico, mettendo a punto un adeguato progetto di restauro – gli esempi non mancano –, concentrando su di esso ogni risorsa disponibile.

(14 novembre 2009)

Sorelle e fratelli friulani che tanto vi siete dannati a ricostruire pietra su pietra Venzone e il suo Duomo dopo il terremoto, sappiate che vi siete illusi, “il Duomo di Venzone è una cartolina, una immagine virtuale”. Parola del futuro segretario generale del Ministero, arch. Roberto Cecchi, oggi direttore generale per una sfilza di beni fra cui quelli architettonici. Sorelle e fratelli che tanto vi angosciate per l’Aquila, sappiate che siete degli illusi: restaurare significa “tornare indietro, il restauro è quasi il contrario della tutela”.

Parole dello stesso Cecchi scandite come granitiche certezze davanti a persone che nel restauro e recupero dei centri storici stanno spendendo una vita: Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, lo storico dell’arte aquilano Ferdinando Bologna, lo stesso Roberto De Marco già direttore del servizio sismico, relatori al bel convegno dell’Associazione Bianchi Bandinelli.

Tesi di Cecchi: non bisogna illudersi coi restauri (cosa ci fa lo strutturista Giorgio Croci, salvatore di San Francesco ad Assisi, sulle volte di Collemaggio? Ma chi vuole illudere?), occorre fare prevenzione. Ora, che la prevenzione sia sacrosanta, non c’era bisogno di raccontarlo a quella platea. Ma, di fronte alle macerie dell’Aquila non ancora selezionate, che si deve fare? Un predicozzo sulla mancata prevenzione?

“La direzione generale – aveva esordito Cecchi - non ha avuto nessun ruolo nella vicenda dell’Aquila”. Pensavamo, ingenui: adesso polemizza con l’emarginazione secca delle Soprintendenze a favore di Bertolaso. Invece no, se l’è presa coi restauri. Se questa è l’alba della ricostruzione dell’Aquila vista dal Ministero, è notte fonda.

Ho voluto intitolare la mia riflessione sul post-terremoto “L’informazione intermittente” perché mi sembra che questa sia stata l’attenzione del mondo dell’informazione ai complessi e delicati problemi posti drammaticamente dal terremoto abruzzese dell’aprile scorso.

Intermittente perché soltanto pochi organi nazionali d’informazione se ne sono occupati con la dovuta continuità delegandola in sostanza agli organi regionali e locali.

Intermittente perché, mentre è stata fin dall’inizio molto forte, aggressiva e costante la linea politico-propagandistica scelta dal presidente del Consiglio, con tutti i gravi limiti di una risposta soltanto “edilizia”, incostante e intermittente è stata l’informazione e ancor di più il commento riservato dagli organi nazionali (carta stampata e televisione) alla realtà vera del post-terremoto, al di là cioè del “tutto va nel migliore dei modi” governativo.

Sul primo dato (pochi organi di informazione nazionale se ne sono occupati con continuità) mi pare che non possano esservi obiezioni rilevanti: dei giornali più venduti il solo a dedicare – passata l’ondata emotiva delle prime settimane - servizi estesi e approfonditi è stata “La Repubblica”, insieme all’”Unità” e a pochi altri fra i quali “Il Manifesto”. Anche in sede di commento, ad esempio con la rubrica – molto seguita e apprezzata – di Mario Pirani, il lunedì, nella quale uno dei commentatori più stimati ha posto subito in rilievo l’insufficienza dei finanziamenti e il loro assurdo dilazionamento all’orizzonte 2032.

Giornali importanti come “Il Messaggero” che pure si rivolge, anche nel bacino romano, a numerosi immigrati abruzzesi, hanno delegato soprattutto alle cronache quotidiane locali il compito di informare i lettori (della sola regione però, o a quanti navigano sul web). Compito svolto in modo, occorre sottolinearlo, piuttosto ricco e non poche volte coraggiosamente critico. Un compito, quest’ultimo, che ha svolto con puntualità anche il quotidiano regionale del gruppo L’Espresso, cioè “Il Centro”, la cui redazione ha seguito passo passo le vicende aquilane e abruzzesi.

Mi pare che discorsi analoghi sulla “intermittenza” si possano fare anche per i telegiornali più importanti (a parte, in una certa misura, il TG3 e l’intera RaiTre con trasmissioni quali “Ambiente Italia” e “Report”). Va aggiunto tuttavia che talune trasmissioni televisive hanno invece messo a nudo problemi e punti dolenti del post-terremoto. Mi corre l’obbligo di segnalare fra queste la trasmissione “Terra!” curata da Toni Capuozzo per Canale 5. Dove, nonostante l’appartenenza del canale al gruppo di famiglia Fininvest, in essa si sono dette, o fatte dire, critiche anche di fondo alla linea seguita dal governo nel post-terremoto, mettendo in risalto, per es., il ritardo nella partenza della ricostruzione aquilana, che ha provocato la frustrazione dei piccoli proprietari di alloggi lesionati, i quali hanno preferito – cito l’inchiesta – cominciare a vendere o a svendere a Fintecna.

Colleghi abruzzesi che so obiettivi mi dicono che i giornalisti del TGR Abruzzo hanno sposato, in particolare Daniela Senepa, la causa della ricostruzione aquilana compensando in parte la latitanza di Tg1 e Tg2 e l’intonazione essenzialmente propagandistica delle tv private, tese a spacciare per “ricostruzione” il progetto c.a.s.e.

Non ho visto molto la “Stampa” di questi mesi, dopo le prime settimane. Vedo quotidianamente il “Corriere della Sera” che, a parte alcune vicende di cronaca “nera” (primi scandali, arresti, la vicenda della Casa dello Studente), si è praticamente occupato assai poco dell’Aquila. Nulla di paragonabile comunque rispetto all’attenzione dedicata da “Repubblica” e, nonostante i mezzi molto minori, dall’”Unità”. Nulla di paragonabile all’attenzione dedicata al post-terremoto del 1997 in Umbria e Marche o ai più lontani terremoti del Friuli e dell’Irpinia.

Certo, quel sisma umbro-marchigiano di dodici anni or sono, con assai meno morti (anche perché le scosse erano avvenute a metà giornata) e però con un’area infinitamente più vasta (soltanto nelle Marche le chiese lesionate più o meno gravemente furono 1500 circa), ebbe una risonanza nazionale e internazionale assai più ampia e profonda perché aveva colpito, facendovi le sue uniche vittime, di fatto, un monumento di valore assoluto come la Basilica Superiore di Francesco in Assisi, attorno alla quale – minacciata di crollo totale – si mobilitò un’attenzione anzitutto televisiva di lunga, drammatica evidenza e durata.

Nel terremoto aquilano lo stesso risalto non si è riusciti a darlo, sul piano della comunicazione, alla Basilica di Collemaggio pur così preziosa, né si è riusciti a conferirlo al magnifico centro storico dell’Aquila ben più terribilmente colpito del centro storico di Assisi dove soprattutto talune chiese importanti erano state ferite.

Qui ha giocato probabilmente un ruolo la debolezza con la quale il tema strategico della ricostruzione del centro storico è stato posto in varie sedi risultando così decisamente perdente rispetto alla linea del governo e del suo presidente tutta giocata sull’efficienza edilizia, sul dare un tetto a tutti entro Natale, evitando i container ed eliminando le tendopoli. Tutti sappiamo che i programmi, pur “militari”, della protezione Civile hanno scontato invece seri ritardi, che decine di migliaia di persone sono state disperse negli alberghi e nelle pensioni della costa adriatica o presso case di parenti e amici.

Sappiamo quindi che le comunità locali – rispetto alle soluzioni post-terremoto adottate in Friuli o in Umbria e Marche (io ricorderei anche la bellissima medioevale Tuscania che ebbe, oltre trent’anni fa, più di 30 morti e distruzioni rilevanti, sanate tuttavia con perizia) – si sono notevolmente impoverite. Ma le proteste, gli allarmi, le denunce dei sindaci e ancor più, mi pare, dei parroci e della Caritas non hanno trovato voce nazionale di sorta, o quasi. La loro eco è rimasta insomma provinciale o regionale, al massimo. Quando hanno manifestato inquietudine i vescovi abruzzesi ai quali erano state fatte promesse di gran peso, il Vaticano li ha subito tacitati mandando in poche ore all’Aquila un vescovo ausiliare. Fatto inusitato che ha tuttavia suscitato pochi anche se accesi commenti (cito per tutti l’articolo di fuoco dedicato sull’”Unità” da Filippo Di Giacomo, un sacerdote). Come rari interventi ha provocato la decisione di un Ministero – quello dei Beni Culturali – autoeliminatosi peraltro dall’intera vicenda, di assegnare direttamente alle Diocesi i fondi per le riparazioni più urgenti delle chiese.

Pochi giornali e giornalisti si sono preoccupati di compiere inchieste serie, approfondite “sul campo” e di instaurare raffronti puntuali con le precedenti esperienze di soccorso, di assistenza, di ricostruzione. Operazione interessante e importante dal momento che governo e protezione civile hanno operato stavolta – ecco un altro elemento fondamentale, anche sul piano mediatico – come se non ci fossero mai state in passato quelle esperienze, come se partissero da zero, col fine preciso di dimostrare che si sarebbe fatto prima e meglio. Sul piano di una risposta, lo ripeto, limitata invece all’edilizia, al dare un tetto. Senza occuparsi quasi per nulla di centri storici, grandi e piccoli, di beni culturali e ambientali, e senza pianificare (parola uscita dal vocabolario politico governativo, praticamente) servizi e territorio.

Per fare tutto ciò, si è dato, come è risaputo, alla Protezione civile un potere sostanzialmente esclusivo, il monopolio degli interventi. Operazione resa possibile dalla ritirata politica totale del Ministero per i beni e le attività culturali, nel ’97 presente in forze e dotato di mezzi finanziari copiosi, e dalla debolezza politica e probabilmente anche tecnica della Regione Abruzzo. Operazione che, rovesciando completamente l’impostazione data al posto-terremoto in Friuli e in Umbria-Marche, ha escluso, non soltanto le comunità locali, ridotte sostanzialmente a spettatrici dolenti, ma anzitutto le Soprintendenze (quella regionale e le altre territoriali e settoriali), evitando l’impiego, in altre situazioni invece essenziale, di tecnici del più alto livello, evitando l’afflusso di specialisti che in passato hanno funzionato anche da formidabile cassa di risonanza mediatica, da elemento moltiplicatore e sollecitatore di altri apporti e pure di articoli, interviste, inchieste giornalistiche, ecc.

Tutto ciò perché dovevano in sostanza essere due, soprattutto, i protagonisti del post-terremoto sul piano mediatico: il presidente del Consiglio e il vice-ministro alla Protezione civile. Il fatto che in sede regionale e locale – ma pure nella maggioranza dei grandi giornali – non si siano levate subito voci critiche, in modo pacato quanto netto, per questa esclusione in partenza degli organismi tecnico-scientifici, degli esperti dei vari rami, da apporti decisionali, o comunque importanti, ha concorso a produrre quel deficit informativo che registriamo a livello nazionale e internazionale. E che sarà, temo, ben difficile colmare, dal quale sarà ben difficile risalire.

La stessa richiesta ai Paesi del G8 di “adottare” un monumento da restaurare all’Aquila – a parte la vecchiezza in sé, “ideologica”, della proposta (che a me è parsa, essendo da tempo l’Italia Paese fra i più sviluppati al mondo, una sorta di “mendicità di Stato”) - ha registrato un limitato successo probabilmente per non aver voluto in campo, ben visibili, gli alti dirigenti del Ministero, gli storici dell’arte, gli strutturisti e restauratori con solide relazioni in tutto il mondo, per non aver voluto quella mobilitazione di competenze tecnico-scientifiche e di passioni civili che si verificò invece per Assisi e che suscitò tanta impressione e quindi tanta eco nazionale e internazionale (e, alla fine, tanto consenso).

Né si è voluta, e quindi avuta, come dicevo dianzi, la intensa, decisiva partecipazione delle comunità locali, certo più forti e attrezzate laddove la civiltà e gli orgogli municipali e regionali sono storicamente più forti, in Friuli, in Umbria, nelle Marche. Nello stesso caso del post-terremoto irpino, fra Campania e Basilicata, su noi giornalisti più attenti a tali problemi la creazione a Napoli della Soprintendenza speciale creata e retta da Giuseppe Proietti e il cospicuo finanziamento affidato alle mani esperte e sagge di Mario De Cunzo avevano dato modo di fare informazione in maniera più ampia e adeguata.

In estrema sintesi: c’è stato, c’è e perdura un indubbio deficit di attenzione e di voglia di approfondire da parte dell’informazione a livello nazionale, ma ciò è avvenuto anche per l’impostazione straordinariamente accentrata, tutta politica e, alla fine, esclusivamente “edilizia” data dal presidente del Consiglio data alla gestione del post-terremoto e conseguentemente all’informazione su di essa. Grazie anche ad atteggiamenti certamente deboli, esitanti o subalterni, sul piano propagandistico, del mondo medesimo dell’informazione.

Il quale, a livello di canali televisivi (5 sui 6 complessivi di Rai e Mediaset, più ora i canali del digitale terrestre), sta come sappiamo, cioè fortemente omogeneizzato al potere del premier, e a livello di carta stampata risulta fortemente condizionato, con poche eccezioni, da proprietà saldamente in mano, o molto vicine, alla stessa famiglia del premier (Giornale, Libero, Panorama) o da proprietà le quali coincidono ormai con immobiliaristi/costruttori, in tutto, e cioè Messaggero, Mattino, Gazzettino, Corriere Adriatico (Caltagirone), o in parte, vale a dire Corriere della Sera (Ligresti) e altri giornali, per esempio il gruppo Rieffeser (Carlino, Nazione e Giorno) che pure ha corposi interessi fondiari. Una filosofia proprietaria che confligge frontalmente con una buona, seria, autonoma (soprattutto) informazione quando vi sono di mezzo questioni urbanistiche, architettoniche e territoriali.

Un ruolo molto significativo hanno così assunto i Blog e i Social Network molto tempestivi sempre nel dare voce alle varie componenti, pure a quelle minoritarie, della classe dirigente locale e alle diverse categorie di terremotati (gli abitanti delle tendopoli, poi quelli delle casette, i pendolari, gli ospiti degli alberghi, i cassaintegrati, i commercianti, i professionisti, quelli delle case b-c-e e della “zona rossa”). Un vero e proprio tam-tam che ha consentito di sventare tempestivamente alcune trappole celate nei decreti governativi (per es. sui rimborsi al 100 per cento), di sveltire varie scadenze fiscali, ecc. Da segnalare anche la vivacità dell’editoria abruzzese che sta sfornando numerose pubblicazioni (spesso di inchiesta) sul post-terremoto, fra queste i “Quaderni aquilani” con interventi importanti come quello di Giorgio Piccinato.

Una inequivocabile cartina di tornasole dell’intermittente e quindi insufficiente attenzione dedicata dai media nostrani al post-terremoto abruzzese è rappresentata dalla flebile eco incontrata da una iniziativa invece encomiabile come l’appello promosso dall’ex ministro per i Beni e le Attività culturali Giovanna Melandri per una “tassa di scopo” o comunque per un finanziamento straordinario da assegnare alla ricostruzione del centro storico aquilano. Appello sottoscritto da tutti gli ex ministri a partire da Alberto Ronchey, passando per Fisichella, Paolucci, Veltroni, la stessa Melandri, Urbani e Buttiglione. Con l’autoesclusione di Rutelli contrario a nuove tasse.

Fra i quotidiani nazionali – sto alla rassegna stampa fornitami dall’ufficio della stessa on. Melandri promotrice dell’appello - soltanto Il “Messaggero” (che ha l’Abruzzo fra le regioni di maggior diffusione) e l’”Unità” hanno dedicato un ampio servizio firmato all’iniziativa, certamente apprezzabile in tanto silenzio politico. La “Repubblica” le ha dedicato una corposa notizia e la “Stampa” una “breve”. Il “Corriere della Sera” – a quanto risulta dalla rassegna stampa citata – nemmeno una riga, un telegramma. Per rintracciare un altro ampio servizio firmato, dobbiamo infatti rifarci al quotidiano abruzzese del gruppo L’Espresso, “Il Centro”. Ed è tutto per la carta stampata. Tutto e davvero poco come eco nazionale. Intermittente e, concludo, decisamente insufficiente.

La speculazione minaccia i ruderi storici dell’Aquila

Non riesce a darsi pace. Armando Carideo guarda le foto del somiere dell’organo storico di Santa Maria di Collemaggio de L’Aquila ed è incredulo: «Si è imbarcato - spiega -, e così piegato non serve a niente, al massimo potranno metterlo in un museo». Il somiere è il cuore di uno strumento musicale antico e nobile come l’organo. «È rimasto sepolto per mesi sotto le macerie, spuntava dai calcinacci ma nessuno se n’era accorto. Appena mi hanno fatto entrare nella basilica l’ho subito riconosciuto, e in pochi giorni lo hanno tirato fuori». Ma oramai era agosto: «Non è possibile sapere in che condizione fosse ad aprile dopo il crollo, ma certo questo tipo di danni più che dall’urto sono dovuti all’abbandono e alle intemperie, pioggia, sole, umido, caldo... ». Dal 1990 Carideo ha diretto un progetto per il recupero degli organi storici abruzzesi, un ricchissimo patrimonio accumulato attraverso i secoli. Durato oltre15anni è statoun lavoro all’avanguardia per metodologie, precisione e risultati, preso a esempio da paesi come la Germania e gli Stati Uniti.

Subito dopo il sisma che ha colpito l’Abruzzo il 6 aprile, Carideo si è offerto volontario per salvare quegli organi, che conosce uno a uno come fossero vecchi amici: ha scritto al Ministero, al commissario straordinario Bertolaso, alle sovrintendenze. Non gli hanno neppure risposto. E lui non riesce a darsi pace, mentre unpatrimonio organario tra i più ricchi d’Italia giace nell’incuria o rischia di essere danneggiato per sempre da interventi di mani inesperte. Come per gli organi, lo stesso vale per tutto il patrimonio artistico aquilano: i palazzi storici giacciono lì e in otto mesi non si è riusciti neppure a puntellarli tutti. Una situazione paradossale, ma sempre quando s’incrociano disorganizzazione, incuria, dilettantismo, sullo sfondo si profila l’ombra di una speculazione.

SOLO MANCANZA DI FONDI?

«Se arriva la neve li squaglia quei palazzi» si è lasciato sfuggire il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente parlando del centro storico. E ha ragione: di fronte ai ritardi dal ministero dei Beni Culturali alzano le mani. Tutto dipende dal super commissario Bertolaso e dal suo vice Luciano Marchetti che si occupa dei beni culturali e che lamenta l’assenza di fondi e dice «devo lavorare a credito... ». Al contrario delle tante promesse, il governo di soldi ne ha stanziati pochini per la messa in sicurezza dei beni culturali: appena 20 milioni, ancora non a disposizione, ma che dovrebbero, forse, arrivare fino a 50. Non a caso sette ex ministri della Cultura - Buttiglione, Fisichella, Melandri, Paolucci, Ronchey, Urbani, Veltroni - hanno proposto al governo di istituire una tassa di scopo per la salvaguardia e il restauro dei beni abruzzesi. Resta però inspiegabile come mai una parte del patrimonio mobile - quadri, sculture, mobilio e via dicendo - sia ancora all’interno di edifici inagibili, alcuni non puntellati.

La mancanza di fondi rischia di diventare una mezza verità, che nasconde unamezza bugia: «Il problema è completamente diverso – spiega Giuseppe Basile, storico dell’arte dell’Istituto nazionale del restauro oggi in pensione e tra i protagonisti del salvataggio e del restauro della Basilica di SanFrancesco ad Assisi, durato appena due anni - dopo il terremoto dell’Umbria e delle Marche, la competenza sui beni culturali delle zone colpite dal sisma venne affidata a Mario Serio, che era il direttore generale del ministero che si occupava di quei beni anche nella normalità. Per lui fu facile e immediato intervenire: sapeva chi chiamare, dove e come mandarlo. Oggi invece è tutto sotto gli auspici della protezione civile, che si comporta in modo militare e fa lavorare, anche come volontari, solo suoi affiliati o quelli di associazioni da lei riconosciute, come Legambiente e le Misericordie. Mi sono offerto come volontario, ho detto che mi sarei pagato l’assicurazione sulla vita per non essere di peso, ma alla fine ho capito che comunque non mi avrebbero chiamato».

LA DENUNCIA

I restauratori sono in agitazione a livello nazionale: per il terremoto dell’Umbria e delle Marche vennero mobilitati i migliori, stavolta il timore diffuso è che per gli organi musicali e per tutto il resto si facciano avanti, con spinte politiche, personaggi poco affidabili. Intanto ai danni del terremoto si stanno aggiungendo quelli dei volontari non specializzati e, colpevolmente, non seguiti da occhi esperti. È quanto ha denunciato Gianfranco Cerasoli, funzionario del ministero e segretario generale della Uil alla riunione del Consiglio superiore per i beni e le attività culturali del 12 ottobre. «Il ministro Bondi - ha ricordato Cerasoli - ha voluto che si attrezzasse una struttura distaccata dell’Istituto Superiore del restauro presso Celano, che dovrà urgentemente intervenire non sugli effetti del terremoto, bensì su quelli dell’incuria di quanti hanno e avevano responsabilità dei Beni culturali». Altro che solo mancanza di fondi, la questione è scottante, la disorganizzazione notevole, la sovrapposizione di enti esecutori all’ordine del giorno tra Comune e Vigili del fuoco. È il caso della Chiesa di Santa Maria di Paganica che, «mentre il quartiere è stato messo in sicurezza (...), è ancora scoperta e soggetta agli agenti atmosferici», come tutte le chiese del centro storico a eccezione di Collemaggio. E proprio le intense precipitazioni hanno procurato ulteriori danni a questi edifici storici, con i loro affreschi, mosaici e ornamentazioni. A Onna, città simbolo del sisma, l’organo della chiesa si era salvato appeso a l’unico muro restato in piedi e pericolante: smontato dai pompieri non è dato sapere dove sia finito. Gira oramai il motto: quello che non fece il terremoto, terminarono Bertolaso e compagnia. E dal primo gennaio per i Beni culturali sarà anche peggio, commissario diventerà il presidente della regione Abruzzo Giovanni Chiodi, affiancato nella ricostruzione dal Genio Civile, abituato a lavorare per viadotti e ponti con il cemento armato: una mano santa per gli antichi palazzi. Amen.

CUI PRODEST?

Tutto avviene in uno sconcertante silenzio, o meglio in un fragore di trionfanti proclami mediatici che non corrispondono a verità. La popolazione è stizzita perché ancora non è stato avviato il restauro degli edifici classificati «A», vale a dire poco danneggiati. Lecito chiedersi se dietro tanto caos non ci siano o stiano nascendo progetti diversi. E, di fronte all’immobilità dello Stato e all’inerzia della ricostruzione, molti cominciano a vendere le proprie abitazioni. A poco, naturalmente, spaventati che ai danni del terremoto si aggiunga il colpo di grazia di un ritardo che renderà gli edifici irrecuperabili. Giovedì 19 novembre, durante una puntata di Terra (Canale5), Toni Capuozzo parlò di un serio rischio di speculazione sul centro storico de L’Aquila. Il puzzle si chiarisce: parte attiva nella ricostruzione dell’Umbria dopo il terremoto, Marchetti quando lavorava al ministero autorizzò il progetto degli ascensori sul Vittoriano di Roma definito uno scempio da molti esperti, e ora punta a restare in carica dopo il primo gennaio con il nuovo commissario Chiodi; a capo della Struttura tecnica di missione per sovrintendere la ricostruzione de L’Aquila è stato nominato Gaetano Fontana, inventore dei “piani di riqualificazione urbana”, dei “Prusst” e delle varianti urbanistiche in deroga ai piani regolatori e dal 2008 direttore generale dell’Associazione nazionale costruttori edili. Così mentre interi quartieri de L’Aquila sono lasciati a marcire nell’incuria, qualcuno sente già girare le betoniere del cemento armato...

Spesa raddoppiata per il Conservatorio e l’Auditorium

All’indomani del terremoto Bruno Carioti, direttore del conservatorio «Alfredo Casella», si precipita all’ambasciata giapponese chiedendo contatti con architetti esperti in costruzioni antisismiche. La diplomazia nipponica contatta Shigeru Ban, celeberrimo architetto, che in poco tempo offre in regalo un progetto per una sede di emergenza, che oltre al Conservatorio avrebbe ospitato un Auditorium. C’è di più: per realizzare il progetto (costo totale di 5 milioni di euro) il Giappone mette a disposizione 500mila euro e Ban in prima battuta ne porta altri 500mila da sponsor, promettendo di trovare altri soldi e ditte disposte a lavorare gratis. Solidarietà ed efficienza. I lavori sarebbero dovuti iniziare i primi d’agosto e la consegna della sede per settembre: entusiasmo generale e pacche sulle spalle tra il premier nipponico Taro Aso e Berlusconi al G8 aquilano. Ai primid’agosto però il cantiere non parte. Secondo alcune voci il progetto non garba al commissario straordinario e al governo. Poi si scopre che è stata espropriata un’area e che sarà bandito un concorso: ma in realtà le specifiche dalla gara escludono a priori il progetto di Ban, che è troppo grande. A Carioti arriva una telefonata: «Che accidenti succede lì a L’Aquila?». Glielo chiede Renzo Piano, che si trova nello studio di Ban a New York, di fronte all’architetto nipponico incredulo e innervosito e che certo non vuole rimettere mano al suo progetto.

Ma il direttore del Conservatorio non ha risposte, è stato scavalcato. Si rischia l’incidente diplomatico mentre il milione dei privati e del governo giapponese svanisce. Il concorso viene vinto da una ditta con un costo di circa 6 milioni, i lavori - iniziati a ottobre - dovrebbero terminare il primo dicembre. Riassumendo: la spesa viva per Conservatorio e Auditorium del progetto di Ban era di 4 milioni di euro (in totale erano 5ma almeno un milione arrivava dal Giappone e dai privati). Ora invece si spenderanno circa 6 milioni di euro solo per il Conservatorio, cui aggiungerne almeno altri 2,5 per l’eventuale Auditorium: totale oltre 8 milioni di euro, esattamente il doppio. Il commissario per la ricostruzione in mancanza di fondi agisce con la strategia del pago due prendo uno.

Per i beni artistici di Marche e Umbria l’allora ministro Walter Veltroni, d’intesa con Prodi, nominò commissario lo stesso direttore generale del Ministero per i beni e le attività culturali, Mario Serio, che a sua volta scelse dei vice di alto profilo e si coordinò senza problemi con i due presidenti regionali, con le soprintendenze e con la Protezione civile, utilizzando anche universitari di vasta competenza specifica (Bruno Toscano per l’Umbria e Marisa Dalai per le Marche). Tutto nel modo più rapido e sicuro, e con fondi adeguati. I risultati si sono visti, a partire dalla Basilica superiore di San Francesco minacciata di crollo totale e riconsegnata in meno di due anni, restaurata e messa in sicurezza.

Anche all’interno della contestata ricostruzione irpina il lavoro svolto dalla Soprintendenza speciale guidata da Giuseppe Proietti a Napoli e da Mario De Cunzo «sul campo » fu l’unico concreto e apprezzato da tutti. Per non parlare del Friuli. In Abruzzo è successo l’esatto contrario. Hanno voluto fare tutto Berlusconi e Bertolaso - lo conferma l’inchiesta puntuale di Luca Del Frà (da pagina 4 s pagina 7) - escludendo il devoto ministro Sandro Bondi, in ginocchio, i soprintendenti e altri esperti. Sette mesi dopo il risultato è il rovescio di quelli di Assisi e delle altre città terremotate, da Foligno fino ad Urbino: chiese ancora scoperchiate, palazzi esposti alle intemperie, arredi - a cominciare dai preziosi organi musicali antichi - lasciati a lungo sotto le macerie oppure tirati via maldestramente da volontari inesperti e mal guidati.

E soprattutto il grande, complesso, disastrato centro storico dell’Aquila ancora alle prese con le macerie, con i piccoli proprietari che non vedono ripartire nulla e, disperati, vendono, anzi svendono. A chi? A Fintecna? Con quale destinazione? Un bel business immobiliare e/o turistico, sulla pelle dei residenti che lì non torneranno mai più. Aquila, addio.

In Abruzzo, diciamolo forte, c’è pure stata, presto, tanta rassegnazione di fronte alla pur aggressiva sbrigatività «militare» dell’operazione Berlusconi-Bertolaso. Lo stesso appello per il recupero di fondi adeguati per la ricostruzione da parte di tutti gli ex ministri dei Beni Culturali più recenti (Rutelli escluso) promosso da Giovanna Melandri, non ha avuto eco.

Né gli enti regionali e locali abruzzesi hanno saputo farne - che a merisulti - una loro bandiera. Bondi ha detto di sì (ma non gli duole il collo a forza di chinarlo?) anche alla attribuzione diretta dei fondi alle Diocesi per restauri e messe in sicurezza. Chi vigilerà su progetti, appalti, lavori? Il vescovo ausiliare mandato dal papa non appena i vescovi abruzzesi si sono mostrati troppo irrequieti verso un uomo pio come Silvio? E la beffa dei monumenti «adottati» dai Paesi del G8, poi dileguatisi? Giusta punizione per una sorta di «accattonaggio» di Stato promosso dal miliardario Berlusconi. Del resto, chi avrebbe approntato per loro studi, ricerche, progetti tecnici credibili? Bertolaso forse?

Foto numero 1: centro storico de L'Aquila; Palazzo Margherita, sede del comune, in piena zona rossa. L'orologio che ogni sera segnava i 99 rintocchi è fermo ormai, ma l'ingresso è di nuovo aperto e brulica di operai intenti da fine luglio a puntellare l'intero edificio. Con barre d'acciaio, legno e tiranti hanno già messo in sicurezza l'accesso, il portico e il cortile interno, le scale fino al primo piano, e una parte dei corridoi e delle stanze che prima del 6 aprile ospitavano la vita politica e amministrativa della città. Per chi in quelle stanze ha vissuto, entrarvi di nuovo, per la prima volta da allora, è un'emozione intensa. Palpabile e contagiosa, come se si varcasse la soglia di un sacrario. L'intera ala che ospitava il gabinetto del sindaco è sepolta sotto le macerie del solaio mentre la sala consiliare è congelata da una coltre di detriti. Quegli operai però non le toccheranno: a loro spetta solo il puntellamento.

Foto numero 2: Roio Piano, borgo da 600 abitanti, interamente zona rossa. Ma potrebbe essere Colle di Sassa, Santa Rufina, Camarda, Pesco Maggiore, una qualunque delle sessanta frazioni dell'Aquila. Qui, sotto le macerie rimaste esattamente dov'erano sette mesi fa sembra sia stato seppellito anche il tempo. Nessun brulicare di operai, solo qualche residente che non si dà per vinto e cerca testardamente di farsi strada fino alla propria casa, incurante del pericolo. Molte sono abitabili, altre avrebbero bisogno di piccole ristrutturazioni, ma sono irraggiungibili perché le strade sono intasate dai crolli, o magari solo da un'automobile sepolta dai detriti che nessuno ha portato via.

Colpa di una legge punitiva inventata dal governo Berlusconi che parifica le macerie a rifiuti solidi urbani, rallentandone lo smaltimento e impedendo ai cittadini perfino di spostarle. Ma il vero mistero, qui, sono i puntellamenti: malgrado siano pochi, perché il pericolo delle rovine incombe anche sugli operai addetti ai lavori, il più delle volte mettono inspiegabilmente in sicurezza muri da abbattere o case semidistrutte anche prima del terremoto che andrebbero invece solo demolite. E come se non bastasse, le impalcature dei puntellamenti invadono le strette sedi stradali, bloccando l'intero paese che già assomiglia ai tanti borghi abruzzesi abbandonati dopo il sisma del 1915. Sul muro a fianco di un portone qualcuno ha scritto col giallo: «Ok, me ne vado».

Li chiamano lavori provvisionali: dopo la rimozione delle macerie (poco è cambiato da quanto riportato sul manifesto del 23 ottobre scorso), puntellare e demolire sono opere propedeutiche alla ricostruzione, una fase peraltro ancora al di là dell'orizzonte di cui si intravede al momento solo la nomina del governatore Gianni Chiodi a commissario straordinario - con vice il sindaco aquilano Massimo Cialente - e l'istituzione di una «Struttura tecnica di missione» con a capo un alto dirigente del ministero delle Infrastrutture, Gaetano Fontana. Ma se demolire - operazione veloce e che costa poco - non è nelle corde di chi oggi decide e che ha scelto una filosofia conservatrice a tutti i costi, l'opera di puntellamento invece potrebbe risultare un ottimo business grazie ad una procedura applicata per la prima volta in Italia, e forse non solo. Gli appalti, infatti, non vengono assegnati tramite gara ma su chiamata nominale delle ditte (un centinaio) presenti in un elenco stilato dalle associazioni di imprese artigianali locali (Ance, Api, Confartigianato) e vagliato dal prefetto per il controllo moralità e antimafia.

La scelta e la distribuzione dei lavori, però, è tutta nelle mani dell'assessorato ai lavori pubblici dell'Aquila, settore emergenza sisma. Spetta all'assessore Ermanno Lisi e al dirigente tecnico, l'ingegner Mario Di Gregorio, (sui quali nessuno ha sollevato dubbi di onestà, ma non è questo il punto) decidere, per esempio, a chi assegnare il puntellamento di Palazzo Margherita, che vale sui 400-500 mila euro, e a chi invece quello da 5 mila euro di un edificio qualsiasi o di una piccola frazione. Non solo: il pagamento delle imprese per il lavoro svolto avviene a consuntivo e non a preventivo.

A sollevare per primo il problema in consiglio comunale è stato il capogruppo di Rifondazione comunista, Enrico Perilli: «Nelle frazioni stiamo assistendo ad una sorta di accanimento terapeutico sui ruderi - spiega - : si puntella tutto con grande spesa (circa il triplo, e con tempi enormemente più lunghi, ndr), inutilmente, e in più bloccando l'accesso a intere zone, abbandonate così dagli abitanti che via via si stabiliranno sempre più definitivamente altrove».

Proprio su richiesta di Perilli, qualche giorno fa l'assemblea consiliare ha chiesto lumi all'ufficio tecnico dell'assessorato competente sulla inedita modalità di appalto e di pagamento dei puntellamenti: «Quando mi sono accorto di quale responsabilità avessi con questa procedura adottata dalla protezione civile per snellire la burocrazia e procedere più rapidamente, prima che l'inverno faccia altrettanti danni che il terremoto, - spiega l'ingegnere Di Gregorio -, preoccupato e intimorito, ho chiesto l'intervento del prefetto che, nella veste di vicecommissario vicario, il 16 giugno scorso ha stipulato un'intesa con gli altri tre vice commissari, con le associazioni di categoria e il comune per controllare di volta in volta l'assegnazione dei lavori e l'equilibrio nella distribuzione degli appalti».

Certo, spiega l'ingegnere, il problema del puntellamento di un immobile è che «non può essere progettato se non in corso d'opera perché si procede man mano che si entra nell'edificio e se ne scopre la condizione di stabilità. Impossibile quindi prevederne il costo». L'Aquila e le sue frazioni sono state divise in comparti, aggiunge Di Gregorio, «ciascuno dei quali viene affidato ad una ditta adeguata, scelta a seconda della classificazione Soa» (fatturato, maestranze, curriculum). Tanto per fare un esempio, la ditta Fiordigigli di Paganica che si è aggiudicata Palazzo Margherita (per la ricostruzione del quale la Federcasse ha donato qualche giorno fa 5 milioni di euro) «è classificata al quarto di otto gradi e quindi può accedere ad appalti fino a 3 milioni di euro». Ma siccome «al momento dell'assegnazione il costo dell'opera ancora non si conosce, è possibile che la ditta prescelta debba costituire assieme ad altri un'associazione temporanea d'impresa per aumentare la classificazione e poter così portare a termine il lavoro».

Per evitare la speculazione, racconta l'ingegnere, «abbiamo adottato un metodo: man mano che si procede la ditta presenta gli stati d'avanzamento che vengono via via controllati anche in riferimento alla coerenza tecnica degli interventi realizzati, e liquidati. Il pagamento, in questo modo, non è del tutto a consuntivo». Finora, assicura Di Gregorio, «quasi tutte le ditte dell'elenco lavorano e con profitti che più o meno si equivalgono».

Eppure il grande dilemma resta: demolire o puntellare? Come ridurre le zone rosse e riportare all'agibilità totale le abitazioni non lesionate ma sotto incombente pericolo esterno? «Noi ci affidiamo alle schede Gts (Gruppi tecnici di sostegno, composti da vigili del fuoco, protezione civile, sovrintendenza e comune o, nel caso di demolizioni, allargati fino a 11 figure, ndr), ma non sempre la prima decisione adottata è quella giusta. Teniamo presente che si tratta di "danni vivi", che si trasformano di giorno in giorno». Per Di Gregorio, però, l'attenzione, anche politica, dovrebbe essere puntata ancora sulle macerie: «Qualche giorno fa un giovane operaio è rimasto ferito durante una rimozione e a volte le stesse imprese si rifiutano di lavorare ai puntellamenti in presenza di rovine pericolanti».

E può accadere che, dopo un abbattimento, arrivi la squadra Ucv (Unità di controllo veloce) della protezione civile e bocci l'operato del comune: «Demolizione eseguita, macerie sul posto, dunque pericolo ancora presente», hanno scritto. Tutto inutile, insomma. E allora, meglio puntellare nel frattempo? «Secondo il settore finanze del comune - ribatte Enrico Perilli - il costo dei puntellamenti di qui a dicembre sarà di 50 milioni di euro, di cui solo 15 in cassa». Di questo passo, L'Aquila non starà più nemmeno in piedi, figuriamoci volare.

Caro eddyburg, so che seguite con attenzione le vicende del dopo-terremoto e quindi vorrei esporre ai vostri frequentatori una mia preoccupazione. Non mi stupisce che si respiri un clima di consenso bipartisan intorno alla nomina dell'architetto Gaetano Fontana a capo della Struttura tecnica di missione che ha l’obiettivo di sovrintendere la ricostruzione dell’Aquila. Dopotutto la deregulation urbanistica, cioè la mano libera alla speculazione, è stata bipartisan in Abruzzo come in tutta Italia.

Che Fontana entusiasmi Chiodi come ieri Del Turco e D'Alfonso è la dimostrazione di quanto poco alternativi tra di loro siano PD e PDL e di quanto siano trasversali i poteri reali in questo paese.

Mi capiterà per l'ennesima volta di essere la voce fuori dal coro, ma che venga scelto per coordinare la ricostruzione il direttore generale dell’Associazione nazionale dei costruttori mi sembra scelta assai discutibile, segno inequivocabile della subalternità della politica agli interessi non certo collettivi dei signori del mattone. Non conosco personalmente Fontana e non ne metto in dubbio le competenze tecniche che saranno sicuramente eccellenti vista la lunga carriera nel ministero dei lavori pubblici, poi ribattezzato delle infrastrutture.

Negli anni ‘90 Fontana diventa segretario della Dicoter (direzione del coordinamento territoriale). In questo periodo inventa il grimaldello che ha distrutto l’urbanistica in Italia. In primo luogo sostituisce ai piani urbanistici i "progetti di intervento". C’è un evidente cambio di scala tra le vecchie categorie di intervento e quelle da lui inventate (programmi di recupero urbano, programmi di riqualificazione, Prusst): esse sono infatti ritagliate sull’iniziativa dei proprietari e non piè sulla dimensione urbana piè´ coerente. Ma il suo capolavoro è la parte procedurale. Alla variante urbanistica che consentiva comunque di poter intervenire ai consigli comunali viene sostituito l’istituto dell’accordo di programma con cui, una volta approvato il progetto edilizio, si va automaticamente in variante di piano. L’accordo di programma è sottoscritto tra il sindaco e la proprietà immobiliare: il consiglio comunale viene chiamato soltanto a ratificarlo (senza dunque poter intervenire nel merito) soltanto dopo la sottoscrizione. La democrazia cancellata e l’urbanistica abolita, dunque. Proprio per questi meriti conseguiti sul campo, nel 2008 lascia la pubblica amministrazione per andare a ricoprire il ruolo di direttore generale dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance). Dal pubblico al privato come nelle porte girevoli degli alberghi. Ora l'inventore degli accordi di programma e della deregulation urbanistica viene chiamato a supervisionare la ricostruzione. E' surreale che venga chiamato a vigilare sulla torta della ricostruzione il direttore generale dell'associazione nazionale costruttori? Capisco che in Italia il conflitto d'interessi non sia di casa, ma non era meglio individuare un urbanista specializzato in centri storici?

Condivido in pieno le perplessità, con una sola precisazione. L’istituto dell’accordo di programma fu introdotto come norma generale da Franco Bassanini, e Fointana si è “limitato” a estenderlo ampiamente a tutta l’area dell’urbanistica. Per il resto, ciò che a me sembra la cosa più grave è che su entrambi i fronti dello schieramento politico si sia perso il senso della distinzione tra pubblico e privato, e ci si accodi così tranquillamente sugli interessi economici. E proprio su quegli interessi che hanno condotto, e conducono ancora, alla devastazione del territorio.

La fretta del “ghe pensi mi”, la gran voglia di spettacolo, la supponenza dell’immobiliarista, la megalomania di essere il più grande statista italiano stanno regalando – come nei proverbi contadini (ce ne sono almeno dieci sulla fretta “cattiva consigliera”) – pessimi risultati all’Abruzzo terremotato. Le persone sistemate, senza servizi, nelle famose “new town” berlusconiane risultano appena 4.764 più 1.217 a Coppito e altre 480 nelle casette dei Map. Contro le 13.224 sparse negli alberghi e altre ancora in case private. Mentre le comunità locali si disgregano, nello scontento crescente di sindaci e parroci, e 671 “resistono” nelle Tendopoli.

Berlusconi e Bertolaso hanno agito lungo queste linee-guida: ignorare sprezzantemente le migliori esperienze passate (Friuli e Umbria-Marche); accentrare e commissariare tutto l’accentrabile e il commissariabile (anche in loco, con l’ingegner Luciano Marchetti che non ascolta nessuno); tagliar fuori le Soprintendenze; passare sopra la testa delle istituzioni locali, deboli (i Comuni) o evanescenti (la Regione); spacciare per risposta globale ai problemi una risposta unicamente “edilizia”, per giunta insufficiente, senza curarsi dello sradicamento di migliaia di residenti. L’esatto contrario di ciò che si fece in Friuli (quasi mille morti e intere città distrutte), in Umbria-Marche (pochi morti e però migliaia di edifici religiosi colpiti, 1500 nelle sole Marche), nella stessa Campania dove Giuseppe Proietti guidò con perizia la Soprintendenza speciale e Mario De Cunzo seppe tradurre in tempestivi restauri di chiese e palazzi 300 miliardi di lire dell’80.

Qui tutto è passato, ossessivamente, per la Protezione Civile. Non si sono volute mobilitare energie culturali, competenze tecnico-scientifiche, apporti di alto profilo attorno alla stessa città storica dell’Aquila (siamo ancora al problema delle macerie), ai centri storici minori, alle chiese d’Abruzzo. Non a caso si è nominato il segretario dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili (ANCE) a capo dell’autorità tecnica (tutta da avviare). Nulla di paragonabile a quanto avvenne, positivamente, a Venzone o a Gemona per il Duomo, ad Assisi per la Basilica Superiore di San Francesco, riconsegnata in meno di due anni, e in tanti centri feriti. Berlusconi ha giocato al super-premier. Bertolaso è stato il super-ministro. Nella totale acquiescenza del super- liquidatore Bondi.

Ora emerge il profondo scontento dei parroci nel constatare che per le chiese, anche per quelle meno lesionate, la Protezione Civile non sa in realtà cosa fare. Non ha strumenti tecnici né culturali. E allora si dànno un po’ di euro direttamente alle Diocesi, trasformate (idea mirabolante) in stazioni appaltanti, senza trasparenza. E si paracaduta qua, direttamente dal Vaticano, un vescovo ausiliare senza alcuna esperienza specifica, venuto a “commissariare” (anche lui) i confratelli. E’ sempre più arduo comprendere come e perché certi grandi giornali, le tv non berlusconizzate continuino a tacere o ad avallare sul dramma-Abruzzo versioni da Minculpop o da Istituto Luce anni ’30-‘40.

6 Novembre: sono passati sette mesi dal terremoto e la periferia della città va lentamente ripopolandosi anche se ancora più di ventimila persone sono ospitate negli alberghi della costa. Le scuole hanno riaperto negli edifici ristrutturati o nei cosiddetti MUSP (strutture provvisorie) e gli studenti frequentano regolarmente le lezioni, nonostante debbano percorrere ogni giorno molti chilometri in mezzo ad un traffico incontrollabile. La costruzione delle famose “case di Berlusconi” procede con qualche ritardo ma circa 1000 famiglie le abitano già e le altre dovrebbero avere l’assegnazione entro Gennaio.

Tutto bene dunque: è questa l’immagine veicolata dal Governo e ripresa dalla gran parte dei mezzi di informazione che parlano di compimento della prima fase di ricostruzione. In realtà a L’Aquila non è iniziata nessuna ricostruzione ma solo la costruzione di nuovi quartieri e villaggi, che sono peraltro privi di ogni struttura di servizio o di socialità. Tutta la città dentro le mura, il cosi detto centro storico che era abitato da 17.000 persone, è tuttora inaccessibile, se si escludono alcune arterie riaperte per motivi di viabilità, e nessuno può entrare nella propria abitazione senza la presenza dei vigili del fuoco. Le macerie non sono state rimosse e proprio ieri il Prefetto richiamava l’urgenza di questo problema segnalando che di questo passo la ricostruzione durerà 50 anni!

Il presidente Berlusconi, in visita ieri all’Aquila per la 24ma volta, lo ha rassicurato con una brillante idea: trasformare le macerie in collinette ricoperte di verde per abbellire il paesaggio. Nessuno ha ancora aperto una discussione pubblica su come e quando ricostruire il centro storico coinvolgendo i cittadini che pure stanno dando prova di uno straordinario attaccamento alla città. Nel frattempo le lungaggini burocratiche hanno impedito l’inizio dei lavori per la riparazione delle case della cintura periferica che sono meno compromesse. L’arrivo dell’inverno fa prevedere che tutto sarà rinviato alla prossima primavera.

Le cose non vanno meglio se guardiamo alla ricostruzione sociale. Il problema del lavoro rimane il più serio. Gli artigiani, i commercianti stanno faticosamente cercando di riprendere le loro attività, ma mancano gli spazi perché all’interno dei nuovi caseggiati non ci sono luoghi da utilizzare a questo fine e gli spazi riservati ai servizi attendono ancora progetti e risorse. Le fabbriche, già sofferenti per la crisi economica, tardano a riprendere la loro attività e anche l’edilizia locale e regionale non ha avuto ancora possibilità di incrementare la propria occupazione perché le imprese interessate alla costruzione dei nuovi insediamenti abitativi sono prevalentemente del Nord. Gli stessi lavoratori pubblici corrono il rischio di veder ridimensionati gli organici per la riduzione della popolazione.

L’Università, che, oltre ad essere un importante polo culturale e scientifico, costituiva una grande risorsa economica per la città, rischia un grave ridimensionamento degli iscritti, e conseguentemente dei docenti e degli impiegati, perché non ci sono risposte adeguate alla richiesta di alloggi per gli studenti fuorisede che pure avevano rinnovato la loro iscrizione. In questo contesto la Regione Lombardia ha costruito uno studentato di 120 posti letto che Formigoni ha inaugurato ieri alla presenza di tutte le autorità cittadine e dell’immancabile Bertolaso, affidandone la gestione non all’azienda per il diritto allo studio, come sarebbe stato logico trattandosi di soldi pubblici, ma alla Curia che ha già dichiarato che, per l’assegnazione dei posti, non si atterrà alle graduatorie formulate dagli uffici universitari.

Come si vede il terremoto ha distrutto molte certezze ma non l’intreccio tra potere pubblico e gerarchie ecclesiastiche.

A sette mesi dal terremoto, inoltre, gli aquilani non possono ancora contare su un Ospedale efficiente. Molti servizi sono ancora nelle tende, il laboratorio è costretto a mandare a Teramo gli esami batteriologici, le sale operatorie lavorano a ritmi ridotti, i posti letto disponibili sono meno di un terzo del necessario, i servizi di riabilitazione hanno dovuto ridurre drasticamente le prestazioni ai disabili. Eppure molte parti dell’Ospedale sono riparabili e riutilizzabili; la domanda che viene spontanea è perché, se è stato possibile costruire in 20 giorni un aeroporto per il G8, non sia stato invece possibile rendere agibile l’Ospedale in 7 mesi.

Potrei continuare ancora a lungo a citare problemi irrisolti che nessuno nomina ma penso che le cose dette fino a qui siano sufficienti a riconfermare che un terremoto è un evento catastrofico che lascia dietro di sé distruzioni materiali e sociali di grande rilevanza, tanto più se distrugge una città capoluogo di Regione ricca di storia e di monumenti. Pensare che si possa rispondere a questa situazione con un ottimismo di facciata, piuttosto che affrontando la realtà e chiamando all’impegno tutte le risorse dei cittadini, è una colpevole superficialità che rischia di condannare L’Aquila ad un futuro di mediocre cittadina di provincia e gli aquilani ad un vissuto di memorie senza prospettive.

Il link al sito sinistra-democratica.

Si parla poco ormai del post-terremoto aquilano. E’ passata la consegna del silenzio o del “tutto va ben” assoluto. Ma qual è la situazione reale al di là del taglio di qualche nastro? Ecco un “diario” estratto dalle cronache locali del “Messaggero”, per lo più di Claudio Fazzi.

Lunedì 26 ottobre: nuova scossa di terremoto semina panico. Quanti sono rimasti fuori dalle assegnazioni di case e qui lavorano o hanno figli a scuola chiedono camper e container. Rifiutano di trasferirsi lontano. I costruttori locali denunciano: i siti che ricevono le macerie sono inesistenti. Quelli aperti hanno prezzi troppo alti. Così c’è chi scarica nei dirupi, lungo i torrenti o sopra altri cumuli. La Protezione Civile rimborsa soltanto le perizie geologiche.

Martedì 28: Il Rettore dell’Università dell’Aquila, Ferdinando di Orio: è pronto a dimettersi qualora “le giuste attese degli studenti restassero ancora inevase” per servizi e alloggi. Ha scritto una lettera al presidente Napolitano. Sospendere le iscrizioni “avrebbe significato la morte dell’Università aquilana” che dà lavoro a oltre mille persone.

Mercoledì 29: anche il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, minaccia di dimettersi, ma per problemi di giunta. Denuncia il grave ritardo nei lavori per l’Ospedale. Teme che si voglia, anche così, declassare l’Aquila. Tarda la ristrutturazione del laboratorio di analisi. “Sul blocco operatorio bisogna lavorare 24 ore su 24”. Cialente è pure preoccupato per la diffusione dell’influenza A nelle zone del sisma.

Giovedì 29: rapporti tesi fra consiglieri aquilani e Protezione Civile. Gli assistiti risultano così divisi: 8.637 in case private, 13.178 fra alberghi e caserme, 2.276 in tenda. Il Progetto case tanto sbandierato ha accolto per ora circa 2.000 persone fra Bazzano, Cese e MAP.

Venerdì 30: il sottosegretario Gianni Letta afferma: “L’Aquila è una città che non deve morire”. Aggiunge che “se non finisce l’emergenza, non può cominciare la ricostruzione”.

Sabato 31: la Caritas dell’Aquila esprime grande preoccupazione perché nell’area del sisma ci sono quartieri nuovi, nati in pochi mesi, e zone, invece, spopolate. Così si propone di “incontrare le famiglie che si sono spostate” e di “aiutare i parroci a ricostruire le comunità”. Preservare le comunità: è il problema di fondo di ogni post-terremoto.

Domenica 1 novembre: bufera all’interno del Pdl abruzzese, il coordinatore regionale Piccone afferma che “Pescara è il vero capoluogo d’Abruzzo”. “Affermazione offensiva, ingiusta e vile”, commentano dall’Aquila il sindaco Cialente e la presidente della Provincia Pezzopane. Sopravvissuta al crollo della Casa dello studente, Antonella, pugliese, racconta: “Nessuno mi ha mai ascoltata e sono senza una stanza.”

L'ultima impresa sospetta viene dalla Campania. Ha preso lavori per 44 milioni di euro, a leggere bene assetti societari e bilanci è tutto in regola, tutto pulito, certificazione antimafia compresa. Ma il sospetto, molto fondato, degli investigatori dell'antimafia è che dietro un paravento apparentemente legale si nasconda un tentacolo della camorra spa. Che certo non poteva farsi sfuggire il grande business della ricostruzione dell'Abruzzo. Il 15 ottobre i parlamentari della Commissione antimafia sono rimasti a bocca aperta quando investigatori della Dia e magistrati della procura nazionale hanno illustrato il primo dossier su mafie e ricostruzione. Tre ditte sono state già bloccate (“Fontana costruzioni”, di San Cipriano d'Aversa, “Di Marco”, di Carsoli, e la “Icg” di Gela), ma i nomi sono molti di più.

L'ultimo blitz nei cantieri del progetto “C.a.s.e.” sabato scorso con l'individuazione di almeno altre quattro imprese diretta emanazione o in collegamento con mafia e camorra. Ma il lavoro è ancora lungo. “Perché – spiega un investigatore – non troveremo mai una ditta con dentro gli assetti societari nomi compromessi. Il gioco è più complesso. Si parte da una azienda capofila e si arriva ad un ginepraio di subappaltatori, sigle e nomi che rimandano ad altri nomi. La grossa impresa nazionale che si aggiudica lavori importanti, quando scegli il subappalto bada solo al prezzo basso. Non si pone altri problemi”.

Sarebbero almeno una ottantina le ditte “sospette” pronte a spartirsi una torta da 169 milioni di euro, a tanto ammontano i subappalti del dopoterremoto. E i controlli? Scarsi e contraddittori. Durante la visita della Commissione antimafia ha fatto scalpore la vicenda di una gara d'appalto per la fornitura di calcestruzzo. Tre lotti vinti da un’impresa insospettabile che per una subfornitura si è però rivolta alla “Sicabeton”, una società segnalata in una sorta di black list il 20 maggio dalla Direzione nazionale antimafia, un elenco di ditte che hanno avuto problemi di collegamenti con soggetti mafiosi. In una informativa si faceva riferimento a un ex direttore tecnico che negli anni ottanta sarebbe stato legato ad Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra ai tempi di Totò Riina. Il 2 giugno la Prefettura de l'Aquila sconsiglia alla Protezione civile l'impiego della “Sicabeton”, salvo poi cambiare idea il 19 giugno. Ora quell'impresa può ricevere l'ordine di subfornitura.

Il 25 agosto nuovo cambio di scena: la “Sicabeton” deve essere tenuta fuori. Una confusione evidente che certo non aiuta la lotta alle infiltrazioni mafiose.

Ma a favorire l'ingresso di imprese “in odore” nel più grande cantiere d'Europa, sono le stesse leggi del governo. All'articolo 2 del decreto per la ricostruzione dell'Abruzzo si affida al capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, il potere di assegnare appalti con procedura negoziata, senza bando di gara, nonché la possibilità di subappaltare fino al 50% delle opere. Tutto in deroga alle norme del codice sugli appalti.

Un decreto del capo del governo avrebbe dovuto definire le modalità per la tracciabilità dei flussi finanziari, nonché la costituzione di un elenco di fornitori e prestatori di servizio non a rischio di inquinamento mafioso. “Ma tutto ciò – denuncia il senatore Luigi Li Gotti, di Italia dei valori – non è avvenuto. L'articolo 2 del decreto è stato applicato, il sottosegretario Bertolaso ha proceduto ad affidare appalti con subappalti fino al 50%”. Li Gotti ricorda la visita della Commissione parlamentare antimafia. “Il quadro emerso delinea uno scenario preoccupante. La ricostruzione attira le mafie, nascono società, aprono uffici, si formano complessi intrecci, il danaro ha cominciato a scorrere, imprese a rischio mafioso si affacciano e ricevono incarichi di lavoro senza bandi di gara”.

Un allarme lanciato anche da Vittorio Cogliati Dozza, presidente di Legambiente. “Il fatto che vi siano aziende edili riconducibili alle cosche non solo nei subappalti ma anche titolari degli appalti per i lavori del progetto Case, dimostra che la vigilanza del governo ha fatto fiasco. Ma, accanto alle forze dell’ordine, è importante che ci sia interesse alla legalità e alla trasparenza. È per questo che l’‘Osservatorio Ricostruire pulito’, che abbiamo istituito con Libera e Provincia, chiede agli aquilani di segnalare qualsiasi situazione che possa indurre al sospetto”.

«Alle new town aquilane, per come stanno sorgendo, manca soprattutto una cosa: l´essere città o parti di città». Per l´architetto Pier Luigi Cervellati, che insegna all´Iuav di Venezia, «sono agglomerati di case che non hanno minimamente l´aspetto di una città».

Cosa manca a quegli insediamenti per essere città, o parti d´essa?

«Ho visto le new town realizzate dalla Provincia di Trento: appartamenti con tutti i requisiti, sia di sicurezza sia di comfort. Ma perché un gruppo di case diventi un quartiere occorre un tessuto di servizi, occorrono trasporti pubblici, spazi pubblici, tutti quegli elementi che agevolano il formarsi di relazioni sociali e che tengono insieme una comunità».

Qualche settimana fa è stato pubblicato uno studio di Vezio De Lucia e Georg Frisch che segnalava proprio questi problemi.

«Condivido quelle preoccupazioni. Intanto non chiamerei new town quegli insediamenti. Le new town inglesi vengono realizzate dopo la guerra. Sono città che hanno una popolazione complessiva fra i 50 e i 100 mila abitanti mentre quelle più recenti ne contano da 250 a 430 mila. In Inghilterra hanno insediato cinque milioni di persone in questo modo. Ma villes nouvelles le troviamo anche in Francia. Si può discutere se siano un esperimento riuscito o meno: sono comunque città, custodiscono la complessità, persino il conflitto tipico di una città».

Perché in Italia non si è fatto nulla di simile?

«Perché da noi la crescita delle città dal dopoguerra è stata in gran parte diretta da una matrice privata e speculativa. Le new town sono il frutto di un grande intervento pubblico. In Italia si sono tentati i cosiddetti quartieri-satellite, ma sono un´altra cosa. Secondo qualcuno, comunque, dietro le new town c´è anche la suggestione delle città di fondazione realizzate in Italia negli anni Trenta».

Quindi che giudizio dà della ricostruzione in Abruzzo?

«Si è scelta una strada sbagliata. Questi insediamenti mi paiono nuclei periferici che servono solo per dormire, senza collegamenti fra loro e con quel che resta del centro storico dell´Aquila. Il cui abbandono è l´altro disastro di questa operazione».

Perché?

«Se riprendiamo l´esempio londinese vediamo che, mentre si progettavano le new town, intanto si interveniva sulla città bombardata. A volte si diradava l´edilizia, a volte si ricostruiva. Ma tutto rispondeva a un progetto. A L´Aquila non c´è un piano che immagini come sarà la città del futuro. Nel centro storico non si restaura nulla, e si va verso il suo spopolamento, che temo preluda a colossali operazioni speculative. Si dissemina invece il territorio di piccoli insediamenti che consumano suolo e la cui somma non farà mai una città».

Anche se nulla ancora emerge dall’informazione televisiva che ci inonda con le immagini delle inaugurazioni delle case per i terremotati dell’Aquila, il tragico fallimento dell’esperienza guidata da Bertolaso sta iniziando ad essere evidente a tutta la popolazione aquilana, anche a quella che aveva creduto alla favola delle new town. Ma proprio quando gran parte della stampa grida al miracolo della realizzazione di (poche) case in tempi rapidissimi, come è possibile parlare di fallimento? È che nella popolazione abruzzese inizia a rendersi evidente la cinica disinvoltura con cui il governo li priverà per molti anni a venire del bene più prezioso che essa aveva: le città, i borghi, i centri storici.

Una popolazione che era abituata a vivere in luoghi in cui le relazioni umane erano rese possibili e facilitate proprio dai luoghi urbani, inizia a toccare con mano che dovrà abituarsi a vivere per molti e molti anni in condizioni di isolamento sociale, con le difficoltà a risolvere anche le esigenze primarie come quelle degli acquisti o dell’uso dei servizi pubblici. In quelle che hanno chiamato spudoratamente new town esistono solo abitazioni e nessun presidio sociale. Le città si riconoscono per i servizi sociali, ma questo ai liberisti fa evidentemente orrore. Se si tiene poi conto che buona parte di quella popolazione è anziana e non è in grado di spostarsi autonomamente con l’automobile, si comprende di quale misfatto si sia macchiato il governo.

Non saranno dunque i fuochi artificiali di questi giorni a cancellare l’infamia di aver scelto deliberatamente di trasferire in luoghi isolati, senza alcun servizio pubblico, senza la minima dotazione di quelle attrezzature private che rende gradevole (o almeno meno disagevole) la vita di tanti cittadini aquilani. E la condanna della popolazione sarà senza appello perché, come racconta nel suo bel libro Giovanni Pietro Nimis (Terre mobili, Donzelli editore, 2009), le alternative esistevano. Gli straordinari esempi di ricostruzione da eventi sismici sperimentati negli altri tragici casi (Friuli 1976 e Umbria-Marche 1997) sono lì a dimostrare che in tempi contenuti e con il coinvolgimento pieno delle popolazioni locali sono stati raggiunti risultati straordinari con un consenso generalizzato. Il Friuli è un esempio celebre di rinascita di una popolazione. I centri antichi dell’Umbria e delle Marche sono di nuovo vitali e abitati. Le case sono state rese sicure. Si obietterà che le popolazioni hanno dovuto passare qualche anno in scomodi container. Ma la scomodità era resa meno acuta dalla vicinanza alla propria abitazione, dall’essere localizzati all’interno dei luoghi urbani, dalla condivisione con le stesse persone con cui si erano condivise vite di relazioni,. L’assegnazione delle case abruzzesi è avvenuta per sorteggio: la vita ridotta ad una tombola a premi in cui guadagnano soltanto coloro che stanno realizzando alloggi che costano 2.800 euro a metro quadrato a fronte dei mille con cui si costruisce in ogni luogo d’Italia.

Così, famiglie che abitavano in un luogo conosciuto e misurabile nella vita di ogni giorno saranno costrette a vivere da tutt’altra parte, in tanti luoghi periferici scelti in base alla disponibilità dei suoli e non sulla base di un ragionamento sul futuro di una comunità urbana. E questo avviene senza che nulla si sappia sui tempi e sulle modalità della ricostruzione dei centri antichi, ad iniziare da quello de L’Aquila. Insomma pochi cittadini abruzzesi si vedono assegnare una casa mentre tutti non hanno ancora alcuna certezza su quando partiranno i lavori per la ricostruzione delle loro meravigliose città. A sei mesi dal terremoto del 1997, le due regioni coinvolte avevano già deciso criteri e suddiviso i centri da ricostruire in comparti operativi. A sei mesi dall’evento del 6 aprile 2009 sono state consegnate solo poche case. Ad un ragionamento organico si è sostituito un gesto teatrale sotto gli occhi delle televisioni. La complessità della città è stata sostituita dalla semplificazione di case in desolate periferie.

In questi giorni in cui Il Manifesto sta svelando la impressionante ragnatela con cui imprese blasonate hanno inquinato tanti luoghi del nostro paese. Mi hanno colpito le frasi di un colloquio di due malavitosi che parlavano dell’affondamento delle navi dei veleni lungo le coste calabresi. Dice il primo che a causa dell’affondamento il mare si guasterà per sempre. Il secondo risponde che con tutti i soldi guadagnati potranno cercare mari lontani e puliti. L’inquinamento, insomma, non li riguarda. Anche in questo caso la distruzione chissà per quanti anni delle comunità urbane non coinvolge i decisori. Nelle periferie de L’Aquila ci andrà la parte debole della società. Mica loro.

Pubblichiamo, in anteprima per eddyburg, il dossier completo sull’analisi urbanistica delle vicende della ricostruzione post-terremoto a L’Aquila.

E’ il contributo, già ripreso dagli organi di stampa, dovuto ad alcuni collaboratori di eddyburg e ad altri studiosi per aprire finalmente quella discussione sul destino della splendida città abruzzese fino a questo momento accuratamente evitata.

Come leggerete, l’analisi degli autori ha dovuto innanzi tutto superare l’enorme difficoltà della mancanza di dati documentali ufficiali sull’intera situazione edilizia ed urbanistica della zona. Ciò nonostante il dossier si attiene ad una precisa ed esplicitata metodologia e si pone come documento di riflessione allargata per tutti coloro che hanno ruolo attivo nelle vicende della ricostruzione e per tutti i cittadini aquilani.

Ma non solo, un’analisi come questa, oltre ad evidenziare, con rigore, le criticità presenti nelle operazioni della ricostruzione dal punto di vista urbanistico, sociale, economico, sottolinea con forza un elemento che scorre sotto traccia in questa vicenda: quella mancanza di trasparenza, quel rifiuto del confronto su basi scientificamente documentate, che, pur complesso, è l’unico strumento politicamente ammissibile in una democrazia degna di questo nome (m.p.g.)

Tutti ricordano il terremoto,fra ottobre e novembre 2002, di San Giuliano di Puglia (Campobasso), che seminò la morte nella scuola del paese:27 bambini e un’insegnante schiacciati. Il resto dell’abitato non aveva subito danni gravi.Ma Silvio Berlusconi subito parlò di una«San Giuliano di Puglia 2», avendo fissa in testa la «sua» Milano 2. Poi la cosa non andò avanti. Stavolta,col solito tecnico privato di fiducia,l’ingegner Michele Calvi (sempre Milano 2), ci ha riprovato straparlando di newtown aquilane, in realtà una congerie scollegata di banali lottizzazioni. V’è di più. «Si sono rifatti i conti e le new town sono diventate inaspettatamente (per la Protezione Civile) insufficienti. E la gente riparte per il mare». Uno show illusorio dunque.

Lo scrivono gli urbanisti Vezio De Lucia e Georg Josef Frisch, e il sismologo Roberto De Marco nel rapporto ancora inedito di cui diamo conto in anteprima «L’Aquila. Non si uccide così anche una città?». Essi affrontano, oltre all’insufficienza quantitativa delle abitazioni previste per i terremotati aquilani (senza servizi, oltretutto), il nodo dei costi della soluzione prescelta.Per ricostruire la casa com’era e dov’era (ma sicura) ai circa 7.000cittadini della zona rossa del centro storico, occorrerebbero 380 milioni di euro. Inoltre, quei cittadini dovrebbero essere sistemati provvisoriamente per il tempo necessario con Moduli Abitativi Permanenti(MAP).A quali costi? «La Protezione Civile», rispondono i tre esperti,«sta spendendo, chiavi in mano,1.000 euro per mq, mediamente50.000 euro ad alloggio MAP». Per i2.820 alloggi necessari, farebbero140 milioni di euro. Sommati ai 380 milioni precedenti, si salirebbe a circa5 20 milioni.

Il Progetto C.A.S.E. in corso di realizzazione,cioè le 20 micro-newtown, o lottizzazioni, prevede invece un costo di 2.800 euro al metro quadrato per un importo complessivo di 710 milioni di euro. Badate, si tratta di mini-alloggi: da 40 a 70 mq contro i 90 mq della media Istat. Fra l’altro li stanno rimpicciolendo per stiparne di più nei 20 lotti essendosi accorti che sono di molto inferiori ai bisogni. Quindi, per i 7.000 aquilani della zona rossa «avere una casa nelle new town costerà 440 milioni dieuro». Non è finita. C’è da calcolare il costo del temporaneo, non breve soggiorno negli alberghi della costa. Circa 8,4 milioni al mese. In sei mesi(e non so se bastino), un costo aggiuntivo di 50 milioni, da sommare ai 440 milioni di poco sopra. In totale, circa 490 milioni di euro.

Non è tutto, perché nella versione finale del decreto sul terremoto (28aprile 2009) il governo ha dovuto riconoscere ai residenti del centro storico con abitazione in E (cioè gravemente danneggiata) la totale copertura delle spese di ricostruzione e aip roprietari di seconde case in E «un ristoro di 80.000 euro». A questo punto dobbiamo sommare i 380 milionidi euro calcolati per ricostruzione e recupero della zona rossa delcentro storico ai 490 milioni per le cosiddette new town e fanno 870 milioni di euro.

Una obiezione è scontata: «Le new town sono un patrimonio edilizio a futura diversa destinazione».Già, però si tratta di alloggi definiti dalla Protezione Civile soltanto «durevoli», decisamente piccoli, più piccoli di un terzo delle abitazioni andate distrutte. E per ora non ci sono fondi per i servizi. Insomma,concludono gli autori dello studio, «non si può però essere sicuri che costruire case al costo di un appartamento dilusso sia stato un buon investimento». La ricostruzione aquilana, con tutte le declamate pretese di efficienza,costerà di più di una «ricostruzione tradizionalmente intesa».

E qui torna il discorso fatto nella prima puntata: la fretta presuntuosa con cui si è voluto agire senza tenere in alcun conto le esperienze friulane e umbro-marchigiane sarà nemica di una «buona ricostruzione». Della cui elaborazione progettuale, del resto, nemmeno si discute. Nasce allora un sospetto di fondo: questa urbanistica «di emergenza» non diventerà«permanente»? Della bella Aquila oggi in macerie che ne sarà? Prima del sisma nelle case e nei nuclei sparsi risiedeva il 34 per cento della popolazione del Comune; con le new town vi risiederà il 56 per cento. Nel centro storico abitava il 15 per cento che si ridurrà ad un misero 6per cento. Come diminuirà (dal 51 al 38 percento), a vantaggio dei nuclei e case sparse, la quota di quanti avevanocasa nelle zone urbane. Prima del terremoto, «ben due terzi della popolazione del Comune abitava nel capoluogo(centro storico e zone adiacenti),mentre solo un terzo era residente nelle frazioni e nei nuclei periferici». Con la centrifugazione prodotta dal Progetto new towns, o C.A.S.E., il capoluogo perde «un terzo degli abitanti, mentre il centro storico subisce un vero e proprio tracollo». L’Aquila sarà così trasformata in «una città più piccola contornata da venti periferie?».

Se ricordate, nella prima versione del decreto legge, si insisteva sul ruolo di Fintecna incaricata di subentrare agli aquilani con casa danneggiata che non ce la facevano a ricostruire. A tutt’oggi non c’è nessuna ombra – a differenza del modello umbro-marchigiano – di comparti omogenei perimetrati, di programmi integrati,né di consorzi obbligatori fra i proprietari per il recupero degli edifici distrutti o lesionati. Campo libero dunque, per selezione «naturale»,ai singoli, ovviamente ricchi o agiati,che vorranno qua e là recuperare mettendo in sicurezza. «Per dar vita ad una L’Aquila-land per turisti e fruitori di shopping, richiamati dalla possibilità di ammirare come erauna città preziosa prima del terremoto». Una vuota scena. Una bella occasione speculativa.

In tanta inerzia, difficilmente l’Ateneo aquilano riavrà i suo i27.000 iscritti, con parecchi fuorisede. Faticheranno Conservatorio, Accademia e altri istituti. Languiranno gli 800 esercizi commerciali dei quartieri storici. Il Tribunale è sbriciolato,l’Ospedale lesionato. Le imprese si saranno riposizionate sul territorio. Si pagherà un altissimo prezzo:la disgregazione di una comunità. Possibile che di ciò che tocca il cuore, gli elementi vitali del primo grande centro storico terremotato dopo Messina (1908) la classe dirigente,intellettuale italiana non senta il bisogno di discutere in senso positivo, progettuale? Non senta l’urgenza di sostenere quanti nelle istituzioni(il sindaco Massimo Cialente, la combattiva presidente della Provincia Stefania Pezzopane) non si rassegnano? Possibile che questo nostro Paese sia, in tutto, così sfibrato,disanimato, incapace di reagire, persinoal «tutto va ben» strombazzato da Berlusconi e dai suoi contro ognicifra, contro ogni realtà? Ma dove sono urbanisti, pianificatori, sindacati,partiti dalla parte dei cittadini?

Ma i servizi in queste «città»

dove si pensa di metterli?

Silvio Berlusconi ha detto che risponderà solto a domande serie, per esempio sul post-terremoto all’Aquila. Noi gliene poniamo altre 5 dopo quelle della prima puntata.

1) All’Aquila si stanno, di fatto, costruendo20 quartieri periferici“durevoli”, 20 nuove, confuse periferie. Con quali servizi se per questa voce non ci sono ancora stanziamenti?

2) Lo sa che, per non voler essere“tradizionali” come in Friuli o inUmbria,le case in costruzione all’Aquila(in numero insufficiente) costeranno come appartamenti di lusso?

3) Per il centro storico dell’Aquila non si parla ancora di “ricostruire”,non ci sono perimetrazioni di comparti omogenei, né programmi integrati, né consorzi fra privati: che ne sarà nel tempo del centro storico abbandonato? Diverrà una sorta di Aquilaland per turisti (e per speculatori)?

4) Non ritiene pericolosissimo chel’Aquila divenga una città più piccola con tante periferie disgregando così il cuore della comunità aquilana?

5) Se l’Aquila, dove quasi tutto è fermo,non riparte al più presto, come crede che potrà ripartire l’intera provincia e la stessa regione? V.E.

Qui è scaricabile il testo integrale del rapporto Di Frisch, De Lucia, De Marco, Liberatore

Lo ricordo bene: dopo i terremoti del Friuli, dell’Umbria e delle Marche - i meglio risolti fra i tanti - il dibattito sulla ricostruzione di centri storici e monumenti fu subito intenso, acceso, coinvolse, appassionò intere comunità, produsse soluzioni alla fine valide. In Friuli lo slogan della ricostruzione fu «prima le fabbriche, poi le case e le chiese». In Umbria venne corretto in «prima le chiese (“Sono le nostre fabbriche”, fece notare un vescovo saggio, attento al turismo religioso di massa), poi le case e le fabbriche». Lo fa notare il solo studio complessivo – anche socio-culturale, anche economico - sin qui prodotto sul terremoto abruzzese: «L’Aquila. Non si uccide così anche una città?». Una brochure fitta di analisi, argomentazioni, piantine, tabelle di costi, che va sotto la sigla storica di Comitatus Aquilanus.

Vi hanno lavorato intensamente soprattutto l’urbanista Vezio De Lucia, con vaste esperienze di amministratore, l’ex direttore del Servizio Sismico nazionale, Roberto De Marco, l’architetto Georg Josef Frisch, coordinatore della ricerca che pubblichiamo in anteprima.

Prima notazione: nulla delle esperienze positive antecedenti già citate è stato tenuto in conto. È prevalsa su tutto la visione «edilizia», immobiliaristica del presidente Berlusconi, attuata «militarmente» dalla Protezione Civile. Difatti, qui in Abruzzo, all’Aquila, la parola «ricostruzione » non viene pronunciata, c’è uno spettrale silenzio attorno ad essa. Anche da parte degli intellettuali (tutti ipnotizzati?), dei giornali, di quasi tutte le tv. Dove un’altra parola risulta bandita: «pianificazione ». Tutto sul territorio aquilano avviene nella più totale assenza di un disegno urbanistico complessivo, con mille episodi sconnessi e con un consumo di suoli agricoli alla fine disastroso. Il solo slogan è quello efficientistico «dalle tende alle case», o meglio «alle casette» (magari donate dai trentini).

Ma ci sono poi case o casette per tutti? Neanche per idea. Ci sono prima che arrivi novembre e magari la prima neve? Soltanto in parte. Sere fa ha fatto sensazione a Ballarò l’intervento del direttore generale del Comune de L’Aquila, Massimiliano Cordeschi, accusato dal ministro Tremonti di «esortare alla rivoluzione» soltanto per aver detto che, in conclusione, a sei mesi dal sisma, su 40.000 senzatetto, ce ne sono 26.000 fuori da ogni prospettiva di residenza che non siano gli alberghi della costa, case di parenti, o la diaspora.

Lo studiodi De Lucia-De Marco-Frisch ci dice subito che la Protezione Civile ha censito gli edifici inagibili o danneggiati. Non gli alloggi. Dato fondamentale invece per stimare la gravità del danno e quindi la «domanda di ricostruzione». Loro tre calcolano che a L’Aquila siano 15.746 gli alloggi resi inagibili, per una superficie lorda di 1 milione e mezzo di metri quadrati. Una parte rilevante dei quali nel bellissimo ed ora spettrale centro storico, nella «zona rossa »: il 63%. Sono residenze di aquilani e case per studenti fuori sede. Lo slogan della ricostruzione (se di ricostruzione qualcuno parlasse nel primo grande centro storico atterrato dopo Messina) dovrebbe infatti mettere al primo posto, fra le «fabbriche », l’Università, vero «motore» di tanta vita economica e sociale aquilana, col Conservatorio, con l’Accademia di Belle Arti e altri Istituti. Pertanto, se migliaia di studenti sceglieranno altre sedi, tutta L’Aquila ne riceverà un colpo mortale. Ma se la ricostruzione non solo non parte (rimuovendo le macerie, puntellando, progettando, ecc.), ma neppure viene nominata, quali speranze si possono dare a questi giovani affluiti qui da altre regioni? Cosa può trattenerli dal fare altre scelte? In Umbria e Marche, dopo aver sistemato, con fatica certo, i terremotati in container attrezzati e in casette prefabbricate, vennero formati dalla Regione e dagli enti locali i consorzi obbligatori fra i proprietari privati onde far partire progetti integrati e pianificati di ricostruzione «in sicurezza ». Qui siamo sotto lo zero. E anche giornali, tv, opinionisti, gli stessi partiti di opposizione non ne parlano. Paiono come annichiliti e senza voce. Peggio, senza idee.

La sensazioneche gli autori di questa ricerca hanno avuto è che il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente sia stato lasciato piuttosto solo dallo stesso Pd anch’esso come catturato dalla logica tutta «edilizia» del duo Berlusconi-Bertolaso. Da qui l’ordinanza di giugno che lasciava libertà di costruire casette provvisorie dove si poteva. Da qui il Progetto dei Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili (C.A.S.E.) che il premier un po’ chiama newn town e un po’ no, anzi si offende.˘«In buona sostanza », si legge nel rapporto, sono «lottizzazioni residenziali su 20 aree individuate dalla Protezione Civile (…), 164 edifici per un totale di circa 4.000-4.500 appartamenti che saranno adatti ad ospitare circa 15.000 persone», cioè un terzo soltanto dell’effettivo fabbisogno espresso dai cittadini del capoluogo. Adesso anche la Protezione Civile si è accorta che sono poche e allora si affanna a mandare altrove il popolo degli attendati, prima che il gelo li attanagli. Di nuovo negli alberghi della riviera adriatica. A costi notevolmente elevati. Senza che i senzatetto abbiano potuto esprimere una preferenza, senza che si sia lasciato uno spiraglio alla autodeterminazione democratica, senza che si sia potuto opporre qualcosa alla scelta centrifuga delle 20 micro-newtown e di tante altre casette sparse, a spray, sui terreni agricoli, a macchia d’olio. Il tutto a costi molto alti. Come sempre allorché non si pianifica praticamente nulla. Ne parleremo nella successiva puntata. Fermiamoci ad un costo sociale: «Una volta sgomberate le macerie e rese accessibili le case non danneggiate gravemente, solo uno su tre dei vecchi abitanti potrà tornare a casa». Più il tempo passa senza che inizi la ricostruzione e peggio è. Qui e nei centri storici minori. Sul piano oggettivo, psicologico, morale. «Non si uccide così anche una città?».

(1-continua)

Dai centri storici alle “new towns”

Cinque domande al premier

Nella conferenza-stampa di martedì Silvio Berlusconi ha detto che risponderà soltanto a domande serie, per esempio sulla consegna di case prevista il 29 in Abruzzo. L’inchiesta qui a fianco ne contiene tante di domande. Proviamo ad estrarne qualcuna:

1) Perché non si sono tenuti in alcun conto i risultati positivi della ricostruzione post-terremoto in Friuli e in Umbria-Marche?

2) Perché la Protezione Civile ha censito gli edifici e non invece gli alloggi colpiti per avere una stima più esatta dei bisogni?

3) Come mai le casette prefabbricate possono ospitare soltanto un terzo dei circa 40.000 senzatetto? E gli altri, dove finiranno?

4) È vero che nelle sue amate «new town» gli alloggi stanno fra i 40 e i 70mqe che ci si orienta sempre più verso i 40 mq?

5) Perché nemmeno si parla, per ora, di piani e progetti di ricostruzione dei centri storici, dell’Aquila in primo luogo? Cosa si vuol fare?

Tante sono le domande che urgono. Magari domanine faremo altre.

V.E.

Ieri sera, officiato dal gran ciambellano Bruno Vespa, è stato celebrato il trionfo di Berlusconi, l’uomo che mantiene tutte le promesse, descritto qui minuto per minuto. L’occasione era l’inaugurazione ad Onna, delle “Case assolutamente definitive”, così le ha definite Guido Bertolaso, per i primi terremotati. Il capo della protezione civile ha aggiunto che “entro la fine del mese saranno smontate tutte le tendopoli in Abruzzo e tutti gli sfollati saranno sistemati nelle abitazioni”. Silvio Berlusconi ha così potuto affermare “Era una promessa ardita ma l’abbiamo mantenuta. Speriamo che servano solo per poco tempo, ma queste case sono case dotate di ogni ben di Dio. C’è anche il sapone, la carne e le coperte. C’è proprio tutto”.

Per provare a fare un po’ di chiarezza tra la cortina fumogena mediatica che ha visto Totò-Berlusconi e Peppino-Vespa protagonisti di Porta a Porta, diciamo che ieri sono state inaugurate le prime casette di legno provvisorie: 94 appartamenti prefabbricati di varia metratura costruiti dalla Provincia Autonoma di Trento e montate dalla protezione civile trentina, grazie ai 5,2 milioni di euro della Croce Rossa Italiana, che ospiteranno oltre 200 persone, una più una meno. Dove sia il “merito” di Berlusconi, la “grande promessa mantenuta” e il grande evento che giustificava una diretta tv in prima serata con la modifica del palinsesto di 3 reti (Rai1, Rai3 e Cabale 5) è un mistero purtroppo facilmente spiegabile.

A fronte di 200 e più persone che da stasera hanno una casetta (provvisoria) di legno la popolazione assistita, dati al 13 settembre della Protezione civile, è di 36.456 persone, di cui 11 mila ancora in tenda, 15,5 mila in albergo e oltre 9 mila ospiti in case private. L’enfasi di questa inaugurazione ha una ragione, secondo Bertolaso, Berlusconi e Vespa: mai in nessun paese al mondo dopo 162 giorni dal sisma c’erano i primi rientri a casa. A parte il fatto che non è una casa ma un Map di legno, c’è un paese al mondo dove si riuscì a fare ancora più in fretta. Questo paese si chiama Italia: nel terremoto del 1980 in Irpinia, infatti, dopo 122 giorni dal terribile sisma che fece migliaia di morti, furono consegnate a Laviano, vicino Salerno, 150 casette in legno tipo chalet con 450 persone sistemate. Il sindaco di allora, Rocco Falivena, dice che “A maggio dell’81 tutti gli sfollati, nessuno escluso, riuscirono ad avere il salottino, la camera da letto riscaldata, il piccolo patio con giardino. In tutta franchezza quella di Onna mi sembra una zingarata”.

Ma una zingarata la possiamo perdonare, dato che – dice Berlusconi mentre Vespa si frega le mani – tra pochi giorni consegneremo le Case costruite dal Governo ai senza tetto. 4.000-4.500 C.A.S.E., Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili. A fine settembre, se tutto va bene, saranno consegnati i primi 4 lotti, circa 20 edifici. Per gli altri, la previsione slitta di giorno in giorno, e ora si parla di “fine anno”. Prendiamo per buona questa promessa. Queste abitazioni riusciranno a soddisfare circa 14 mila persone. Facendo una stima a naso, visto che dai sopralluoghi al 3 settembre viene fuori che su 70 mila edifici privati 36.501 agibili e 34 mila non agibili, di cui oltre 22 mila praticamente distrutti o inabitabili per un lunghissimo periodo, le C.A.S.E. non basteranno per tutti. Finalmente lo ammette anche la protezione civile.

Infatti ieri, proprio mentre inaugurava le 94 casette provvisorie di legno, Berlusconi firmava l’ordinanza 3806, stabilendo che il sindaco dell’Aquila dovrà individuare, con proprio decreto, i nuclei familiari che ne avranno diritto, stilando una classifica dei terremotati, in cui i “privilegiati” saranno quelli che hanno avuto dei familiari morti, o un disabile in famiglia, ecc. E per gli altri? Dal cappello a cilindro del premier, su pressione del preoccupatissimo Sindaco de L’Aquila, ecco spuntare i Map, i moduli abitativi provvisori. Le vecchie, care casette di legno. Del tutto uguali a quelle trentine inaugurate ad Onna ieri. Saranno circa 2.300, di cui – dice la protezione civile – circa 1.300 consegnate entro settembre. Le altre, si vedrà.

Tra Map (casette di legno) e C.A.S.E., 18 mila o al massimo 20 mila abruzzesi troveranno un tetto (provvisorio) entro la fine dell’anno, se tutto va lisco come l’olio. All’appello mancano quindi 16-18 mila persone. Alcuni forse torneranno nelle loro case, nel frattempo tornate agibili. Ma per molti l’inverno passerà in albergo, nelle caserme della Guardia di Finanza o chissà dove. Quindi un’emergenza costosissima (circa 900 milioni di euro: questo sì, un vero record!) che voleva evitare i container passando dalle tendopoli alle “case”, avrà successo solo utilizzando alberghi (pagati dal contribuente), caserme o chissà che altro. Ma la vera domanda a cui il premier sfugge è. quando inizia la ricostruzione? Quel momento in cui tutti hanno un tetto provvisorio (si chiamino C.A.S.E, Map, Container, sistemazione autonoma o altro) e si ricostruiscono le case. Quelle vere.

A quello che si vede andando in giro per L’Aquila e dintorni e per quello che se ne sa, oggi, a 162 giorni dal sisma, non si è fatto quasi nulla. L’Aquila, Onna e tutti gli altri paesi sono cumuli di ruderi, transennati e inaccessibili. Un monumentale ammasso di rovine, in attesa che qualcuno se ne occupi. Per la ricostruzione “leggera” sugli edifici parzialmente o temporaneamente inagibili, l’ordinanza n.3779 del 6 giugno era imprecisa ed incompleta, e si sono accumulati un po’ di ritardi. Ma è sulla ricostruzione “pesante”, quella dei 22 mila edifici distrutti, che al momento c’è il vuoto. Dice Bernanrdo de Bernardinis, il vice di Bertolaso, che “noi ci occupiamo dell’emergenza, al Sindaco e al presidente della regione spetta il coordinamento dell’attività di ricostruzione. Sarà vero, ma con quali soldi? Perché, dopo aver previsto, nel Decreto Abracadabra, una dotazione tra i 2 e 4 miliardi per la ricostruzione “pesante” a carico del Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia reale gestito dalla presidenza del Consiglio, il governo si è dimenticato di questi soldi nella legge di assestamento del bilancio di luglio 2009.

Mentre Vespa e Berlusconi brindano sulla “promessa mantenuta”, molti sostengono che con gli 883 milioni di euro spesi finora per alberghi, tendopoli e piano C.a.s.e., si potevano acquistare container extra-lusso e case in legno che avrebbero permesso a tutti i 36 mila un appartamento più che dignitoso, davvero provvisorio e removibile, entro settembre 2009. E il patrimonio di moduli abitativi sarebbe tornato utile per future emergenze. L’urbanista Giovanni Nimis, protagonista della ricostruzione post-sismica del Friuli, che ha scritto un libro sulle “terre mobili”, critica il modello Bertolaso dicendo che “Siamo ritornati al tradizionale centralismo, quello del disastro del Belice, con il trasferimento coatto delle popolazioni, le costruzioni ex-novo e lo stato che decide tutto. Fu un fallimento che aveva alle spalle un’idea di stato ottocentesco e si nutriva delle illusioni di demiurghi che decidevano dall’alto della loro sapienza quale fosse il bene delle popolazioni sinistrate. Poi, con il Friuli, il modello è stato capovolto: lo stato finanziava, ma erano regioni e comuni a gestire il come ricostruire. E le popolazioni potevano intervenire su soggetti politici a loro più vicini e condizionarne le scelte. Ora in Abruzzo si torna indietro di quarant’anni.”

Speriamo che ci sia un po’ di esagerazione. Speriamo che tra qualche tempo, fossero pure anni, di queste riflessioni si possa sorridere, parlando di pessimismo disfattista. Ce lo auguriamo di cuore, soprattutto per gli amici dell’Abruzzo. Che per allora saranno tornati nella loro vera casa, speriamo, da un pezzo. Grazie a Silvio Berlusconi e con la collaborazione di Bruno Vespa. Con sapone, carne e coperte. Tutto.

«Richiesta recupero macerie e riapertura percorsi nel centro storico. Richiesta autorizzazione per posizionamento temporaneo chiesa in legno in località San Giustino. Richiesta case in legno per Pescomaggiore, Paganica e altre località della Circoscrizione». Il presidente De Paulis è scuro in volto. «Ma come si fa a discutere di "recupero macerie" il 14 settembre, cinque mesi e mezzo dopo il terremoto? Perché dobbiamo chiedere oggi che ci portino casette di legno in cui ripararci e una chiesa fatta con assi di pino per pregare? Paganica è stata sigillata il 6 aprile, come un pacco postale, e ancora non è stata riaperta. Si doveva discutere il 7 o 8 aprile, questo ordine del giorno. Solo così avremmo potuto ricominciare».

Oggi il premier Silvio Berlusconi arriverà a due chilometri da qui. Consegnerà 94 alloggi in casette di legno - costruite dalla Provincia di Trento con un finanziamento della Croce rossa - ai 200 sopravvissuti di Onna. Lenzuola firmate, una torta con spumante e un biglietto di auguri: «Serena vita nella nuova casa». «E così - dice Ugo De Paulis - chi guarda la tv penserà che qui tutto è stato risolto. E invece Paganica sta morendo e come noi stanno morendo i centri storici dell’Aquila e delle sue 64 frazioni. C’è anche chi sta peggio di noi: nel centro di Tempera, ad esempio, non è rimasta pietra su pietra. E pure noi rischiamo di perdere tutto: un centro senza abitanti diventa un cimitero. Le case che sono rimaste in piedi rischiano di essere abbattute dalle altre abitazioni pericolanti».

Manca solo la cenere, nella nuova Pompei di Paganica. Le strade sono però invase da pietrisco e polvere portate giù dalla parte alta del paese dagli ultimi temporali. Come in una macchina del tempo, sembra di tornare al 6 aprile. Il silenzio è assoluto. In via Roma 2 c’è una casa di tre piani i cui muri si stanno piegando verso un’abitazione più bassa, intatta, al civico 3. Una scossa, o il vento di una burrasca, faranno crollare i muri e distruggere anche la casa agibile. Nel vicolo Sdrucciolo dei Perigli ci sono metri di macerie. Anche vico del Golfo è bloccato dalle pietre. In vicolo del Pizzicagnolo le macerie coprono una Fiat bianca. In via degli Angeli il palazzo al civico 44 sta crollando sulle case del 38 e del 40. «Ormai l’inverno è alle porte e ci chiediamo: cosa troveremo a primavera? Qui bisogna portare via le macerie, abbattere le case pericolanti, riaprire almeno alcune strade. Si sono persi troppi mesi e noi stiamo perdendo anche la speranza di rientrare nelle nostre case. Nel disastro, eravamo stati fortunati. Abbiamo avuto cinque morti, a Paganica, ma solo perché quella sera c’era la Via Crucis nel centro storico e alle 23, quando si stava tornando a casa, è arrivata una forte scossa. Tanti allora si sono messi a dormire in macchina o nelle aie». Ci sono ancora le locandine sui muri. Annunciano i «Festeggiamenti in onore di S. Giustino patrono e Santa Maria d’Appari». «Fino al 1927 eravamo un Comune - dice Ugo De Paulis - ora siamo una frazione e non contiamo nulla. L’Aquila pensa solo a se stessa. Le ordinanze che autorizzano i lavori sono arrivate soltanto a luglio, i soldi per la ricostruzione sono stati stanziati solo per le case fuori dalle "zone rosse". Questo, per Paganica e tutti gli altri centri, è un certificato di morte».

Ottomila abitanti, nella circoscrizione. Tremila nelle tende, 2.000 al mare, 3.000 nelle case o «lì attorno, dentro a casette o container». Milleottocento persone andranno nella Case con le piattaforme antismiche, gli altri passeranno l’inverno in hotel o in quelle case che, come per miracolo, sono tornate agibili. In tutto l’aquilano fino a tre giorni fa non si poteva entrare nelle abitazioni classificate B e C, poi un’ordinanza ha stabilito che si può rientrare mentre sono ancora in corso i lavori di riparazione. Fatti i conti, ci si è accorti che i 15.000 posti letto nelle Case (che dovrebbero essere pronti entro Natale) non sarebbero bastati per le 36.354 persone ancora assistite dalla Protezione civile in tendopoli, hotel o case private. «Siamo allo sbando - dicono i Comitati dell’Aquila, 3,32, Rete Aq, Collettivo 99 e Colta, in una lettera inviata al Presidente della Repubblica - perché non si è saputo e non si è voluto dare priorità alla ricostruzione ma alla costruzione del nuovo. E così le comunità sono smembrate e il centro storico resta immerso in un silenzio spettrale».

Anche le «zone rosse» di San Gregorio, Fossa, San Demetrio e di decine di altri Comuni e frazioni sono ferme, come in un tragico flashback, all’alba del 6 aprile. «Noi della Protezione civile - dice Bernardo De Bernardinis, vice capo del dipartimento - abbiamo dovuto affrontare l’emergenza, e l’abbiamo fatto. Entro la fine dell’anno 25 - 30.000 persone avranno un tetto, non un container. Nel centro storico aquilano abbiamo lavorato per la messa in sicurezza di chiese ed edifici pubblici. Anche in altri centri stiamo lavorando perché si possano raggiungere, in sicurezza, le case ancora agibili. Ma per la ricostruzione del centro storico aquilano il sindaco è il soggetto attuatore. E per tutta la ricostruzione, quella detta pesante, la delega è affidata al presidente della Regione, sempre in concerto con il sindaco». Ma c’è chi non vuole più aspettare. «In queste ore - dice Eugenio Carlomagno, direttore dell’Accademia di Belle arti e fra i fondatori dell’associazione Centro storico da salvare - si sta discutendo ancora dove mettere le macerie della città, come se la scossa fosse arrivata ieri. Il sindaco aspetta Renzo Piano e gli architetti giapponesi. Noi diciamo che qui non deve arrivare nessuno: dobbiamo darci da fare, e subito. Facciamo consorzi, fra pubblico e privato, cominciamo a togliere le macerie, ad abbattere le parti pericolanti, a ricostruire. L’inverno è alle porte. La neve negli anni scorsi è stata tenuta lontano dal centro storico perché 20.000 camini buttavano calore. Quest’anno i camini sono spenti e rotti, e faranno entrare la pioggia. Il freddo - qui si va anche a meno 10 - farà gelare l’acqua e spaccherà le pietre. Alcuni privati hanno cercato di coprire i tetti rotti con dei teloni di plastica, ma il primo vento forte li spazzerà via. E si buttano via i soldi. Si spendono anche 300.000 euro per mettere in sicurezza un palazzo, poi se ne dovranno spendere 150.000 per smontare i ponteggi e solo allora si farà l’abbattimento. Perché non farlo subito, questo abbattimento?». La speranza è ormai merce rara, fra le antiche pietre dell’Aquila. «Le banche hanno fatto un accordo con la Cassa depositi e prestiti per finanziare con 2 miliardi la ricostruzione. Ma noi del centro storico siamo tagliati fuori. Quando saremo autorizzati a chiedere un finanziamento, ci diranno: siamo spiacenti, i denari sono finiti».

Domani Berlusconi consegnerà le prime nuove case ai terremotati dell’Aquila. A cinque mesi dal sisma si tratta di un indubbio successo dell’intervento nell’emergenza. Per contro questa inaugurazione, giustamente festosa per quanti sono restati finora nelle tendopoli, rischia di suonare come una pietra tombale sulle speranze di veder un giorno risorgere il centro storico e la rete dei borghi medievali che con esso si integravano. Via via che si accenderanno le luci nelle abitazioni installate nella cinta periferica e nelle altre zone limitrofe, ancor più angoscioso apparirà quel buco nero, dove sorgeva un tempo la città vera e propria, con i suoi edifici storici, le sue cento chiese, i palazzi, l’università, il Comune, la Provincia, le botteghe, i portici animati giorno e notte. Ancor più assurda apparirà la solitudine di quell’unico anziano abitante che ha rifiutato di lasciare la sua casa, rimasta miracolosamente in piedi, lo storico Raffaele Colapietra, tramutatosi suo malgrado in una icona della testardaggine abruzzese.

Questa infausta divaricazione tra emergenza e futuro urbano è il frutto di una scelta voluta dal governo e subita passivamente dall’opposizione, tranne alcuni rappresentanti degli enti locali, tra cui spicca la brava e coraggiosa presidente della Provincia, Stefania Pezzopane.

Il perché è presto detto. Il governo ha voluto affrontare la catastrofe senza ricorrere ad alcuna misura di finanza straordinaria, come invece avevano fatto quasi tutti i governi italiani, confrontatisi con i vari terremoti, da quello di Messina in poi. Questa volta le risorse sono state reperite nel bilancio ordinario, soprattutto depauperando i fondi destinati al Mezzogiorno.

Era evidente che i mezzi sarebbero sì e no bastati per affrontare l’emergenza, peraltro con un notevole grado di efficacia assicurato dalla Protezione civile. Una decisione dettata dall’imperativo ideologico di una destra ostile per principio ad ogni maggiorazione fiscale, anche quando le ragioni siano sacrosante (una addizionale Irpef spalmata su dieci anni, una cifra infima pro-capite).

Così, mentre va avanti il piano per l’emergenza e alle case antisismiche si aggiungeranno 3000 casette di legno (che dovrebbero un giorno passare agli studenti fuori sede), e mentre i terremotati ancora senza fissa dimora saranno ospitati nelle famose strutture della Guardia di Finanza e in qualche altra caserma (ma sembra restino 8000 persone ancora non collocate), ebbene L’Aquila vera e propria rimane come un gigantesco relitto, abbandonato dopo il naufragio.

La strategia avrebbe potuto essere ben diversa: affrontare l’emergenza immediata, come si è fatto, e, ad un tempo, preparare almeno i progetti urbanistici di ricostruzione e restauro per un prossimo futuro, fissato in calendario, cominciando dagli edifici pubblici, oggi tutti abbandonati, apprestare una legislazione rapida per facilitare l’iniziativa privata di recupero, reperire i fondi indispensabili senza rigettare la leva fiscale straordinaria. Soprattutto puntellare da subito gli edifici pericolanti ed operare quegli interventi rapidi per tamponare il degrado ulteriore che, con l’avvento prossimo della stagione fredda, è nell’ordine delle cose.

Non lo si è fatto ma l’operazione mass-mediatica è egualmente vincente. Berlusconi con il supporto di Bertolaso e del G8 è riuscito a dare il meglio. La sinistra si trova in altre faccende affaccendata. Frattanto gli aquilani possono anticipare de visu lo scenario di una futura Pompei tra la Majella e il Gran Sasso e visitare la «zona rossa», il vecchio centro della città, dalla Villa Comunale a piazza Duomo, addentrarsi per via San Bernardino e via Castello, dove è stato aperto un passaggio, sgombrando le rovine qualche metro in là. Come in un museo il transito, naturalmente pedonale, è permesso ai visitatori per qualche ora al giorno, sotto la sorveglianza dei pompieri. Dalle case abbandonate, dai negozi chiusi, dalle chiese in rovina non può venire alcun segno di vita.

L’AQUILA — Ci vivevano 20 mila aquilani, oggi invece milleduecento gatti, secondo l’ultimo censimento del Comune. Felini veri e propri, non un modo di dire. È il centro storico dell’Aquila, cinque mesi esatti dopo il terremoto del 6 aprile. «Silenzio tombale, finestre che sbattono, tende che volano agitate dal vento, ormai sembra un posto abitato solo da fantasmi...».

C’è grande tristezza nella voce di Stefania Pezzopane, presidente della Provincia dell’Aquila.«Sono preoccupata — confessa la Pezzopane — perché tra poco verrà la neve e molte case, molti monumenti, non sono stati ancora puntellati. Se arriva un’altra scossa, oppure una forte pioggia, quei muri rischieranno seriamente di crollare». Il presidente, così, lancia l’allarme: «Il centro storico è stato abbandonato. Perché mancano le risorse e anche gli uomini sul campo sono di meno rispetto ai primi mesi. Finita l’emergenza, infatti, molti vigili del fuoco hanno lasciato l’Aquila per fare rientro nelle loro caserme sparse per l’Italia. Però, qui da noi, i problemi restano. E sono ancora enormi...».

La città, va detto, con i suoi 3 milioni di metri cubi da demolire e 1.500 puntellamenti da fare, prova lo stesso a reagire. Nonostante la situazione sia difficilissima: 16.500 lavoratori in cassa integrazione, 1.500 piccole e medie imprese della «zona rossa» ormai ferme da cinque mesi, a spasso anche i 100 ambulanti storici di piazza Duomo. Un’altra risorsa era l’università: con 28 mila studenti iscritti (la metà «fuorisede»). Erano loro, soprattutto, ad animare la «movida» aquilana e il suo indotto: bar, ristoranti, turismo, servizi. Chissà se (e quanti) torneranno.

Ma tant’è. Ieri, con un’ordinanza, il sindaco Massimo Cialente ha voluto riaprire alcune strade del centro, per dare comunque un segnale di rinascita: via Zara, i Quattro Cantoni, corso Vittorio Emanuele, via Signorini Corsi, via Tedeschi, via San Bernardino, piazza Duomo. Già a giugno Cialente aveva riaperto il primo varco (corso Federico II) e così ieri, passeggiando per le vie picchettate, gli aquilani per qualche ora si sono ripresi un altro pezzetto di cuore (in serata c’è stata pure una fiaccolata in memoria delle vittime, la prima dopo 5 mesi a sfilare per le strade del Centro).

Oggi pomeriggio, a 150 giorni dal sisma, arriverà il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che visiterà il nuovo villaggio di Onna (costruito a tempo di record) e poi assisterà al concerto di Riccardo Muti nella caserma di Coppito. Il corteo presidenziale passerà anche per via XX settembre, la strada dove sorgeva la Casa dello Studente, la via dei 18 morti in una notte sola: ai lati sono rimaste le macerie.

«Dopo il G8 di luglio — incalza il presidente della Provincia Pezzopane — i Grandi del Mondo s’impegnarono ad adottare ciascuno un monumento della città. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, promise di prendersi carico della chiesa di Santa Maria Paganica; il premier spagnolo Zapatero s’interessò al Castello; Carla Bruni in Sarkozy disse di volersi occupare della chiesa delle Anime Sante. Benissimo, ora però speriamo che mantengano gli impegni».

Il sindaco Cialente condivide le preoccupazioni della Pezzopane: «Ci vorrebbero 3 miliardi di euro per rimettere a posto monumenti, chiese, edifici pubblici. Purtroppo i soldi non ci sono e dunque non sarà facile compiere il miracolo. A Noto, i siciliani furono bravissimi a ricostruire la loro cattedrale crollata, ma noi a L’Aquila solo in centro abbiamo almeno 25 basiliche da restaurare. Senza contare gli edifici storici: palazzo Carli, palazzo Margherita, la scuola De Amicis, il cortile di palazzo Dragonetti, le bellezze distrutte di via Roma. Eppoi l’Auditorium, il Teatro, la Biblioteca. Così, visto che a suo tempo non si è voluta la tassa di scopo, ora confido molto nella prossima Finanziaria...

». Cialente dice che sono ben 3.600 ore che non dorme: 5 mesi, appunto. «Stiamo facendo i salti mortali — racconta —. Per fortuna anche le grandi banche, le singole Regioni, le Province, perfino i Cavalieri del Lavoro, si stanno facendo avanti per adottare ciascuno un monumento. Le difficoltà, però, sono tantissime». Un esempio? «Ho chiesto di assumere in Comune 120 persone per seguire le migliaia di pratiche della ricostruzione, rimborsi, finanziamenti, controlli dei cantieri, ma ancora non mi arriva l’ok dall’amministrazione centrale », accusa il sindaco.

Riflette, dal canto suo, Stefania Pezzopane: «Bene hanno fatto governo e Protezione civile. È stato giusto, fin qui, concentrare ogni sforzo per realizzare le case provvisorie a beneficio di migliaia e migliaia di persone (entro il 28 settembre saranno consegnate le prime 13 palazzine antisismiche, mentre in vista dell’autunno cominciano a chiudere le tendopoli e in molti hanno già traslocato nella caserma del G8, ndr ). Però, poi, servirà un impegno altrettanto straordinario per mettere mano al degrado del Centro...», ammonisce il presidente della Provincia.

«Ci vuole un salto di qualità — conclude Gianni Chiodi, presidente della Regione Abruzzo e commissario per la ricostruzione del patrimonio culturale —. Finora, infatti, c’è stata troppa frammentazione nel processo di governance . Intrecci di funzioni, responsabilità, competenze. Bisognerà cambiare. Davanti ci aspettano dieci anni duri di lavoro, ma dico subito che non basterà ricostruire la città così com’era. Per l’Aquila urgono nuovi scenari».

Solo una tenda è rimasta a cercare di salvare l'antico diritto dell'uso civico dei terreni dell'Appennino! La questione è: l'ultima casa rimasta a Vallibona, piccolo nucleo abitativo nella valle di Campanara, è stata occupata anni fa da uno dei fondatori dell'associazione Nascere Liberi. Dopo il foglio di via e le denunce per occupazione di proprietà della Regione, l'occupante ha fatto il passo di lasciare la camera che abitava nello stabile. Da giugno però dopo un periodo ospitato in giro, l'occupante ha deciso di tornare a Vallibona e proseguire l'occupazione montando una tenda. Ma convocato dai carabinieri, gli è stata incolpata la mancanza di fissa dimora, togliendogli così la possibilità di rinnovare la carta d'identità e di votare. Ha chiesto allora la residenza nella tenda, cosa dal punto di vista legale dovuta. Ma le autorità tergiversano, e il 20 agosto gli è stata consegnata dai vigili una raccomandata della Comunità Montana, organismo che gestisce il demanio per conto della Regione (il vero proprietario), in cui l'occupante è diffidato dal permanere nel territorio pubblico di Vallibona rendendo quindi impossibile il soggiorno in tenda sul terreno. La diffida pare non sia affatto legittima, e l'occupante sta cercando in tutti i modi di far valere i propri diritti: si è appellato al difensore civico, e ha contattato varie associazioni della zona. Invitiamo tutti coloro che oltre a difendere i diritti dei cittadini vorrebbero il recupero degli antichi borghi lasciati andare in rovina e poi ceduti per poche lire alla speculazione, a mobilitarsi. Avvieremo una raccolta di firme per sensibilizzare l'opinione pubblica, e speriamo in una forte partecipazione al presidio, con tante tende montate. Vorremmo che quest'azione diventasse un esempio della volontà della gente a non lasciarsi espropriare la montagna, grande bene collettivo: gli occupanti non vogliono diventare proprietari, chiedono soltanto di poter riabitare e salvaguardare le vecchie costruzioni abbandonate, di riportare a un uso agricolo rispettoso il territorio del demanio abbandonato a un'incuria irresponsabile. Per il recupero di Vallibona

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