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Le strade deserte del centro storico, le case puntellate ma sventrate dove parlano nel silenzio i segni impolverati della vita e della morte. «L’Aquila è una città fantasma, presidiata dall’esercito. Manca la cosa fondamentale: il lavoro, le imprese non possono ripartire perché mancano i soldi», denuncia il sindaco Massimo Cialente. Ci sono i due miliardi stanziati dal governo, ma «non stanno arrivando i fondi dello Sviluppo Economico», il ministero di Claudio Scajola. «44 milioni di euro per i commercianti, 250 milioni per il rilancio economico e produttivo. Li aspettiamo da mesi ma non arrivano», spiega il sindaco. Linfa indispensabile per riattivare il cuore de l’Aquila, là dove è possibile riaprire negozi e servizi. Per la ricostruzione si devono aspettare i tempi dei progettisti, ma le richieste di finanziamento per le case del centro non possono ancora essere fatte. I mutui, però «abbiamo dovuto ricominciare a pagarli», racconta una donna e almeno gli interessi le banche li pretendono. E presto gli aquilani dovranno pagare le tasse per case che non hanno più.

«Abbiamo ricostruito una città temporanea con tante sigle: il progetto C.a.s.e. di Berlusconi, i Map, moduli temporanei, i Musp per i ragazzi, riaperti 64 centri commerciali» nel territorio, riassume Cialente, ma l’Aquila centro è una «città morta». L’effetto G8 non è durato, ammettono anche i funzionari comunali. Subito fuori dalla «zona rossa» una yougurteria ha appena riaperto e la domenica è piena. «Sono stata fortunata», spiega la gestrice, pugliese-aquilana. È potuta tornare a casa perché la Banca d’Italia ha risistemato le abitazioni danneggiate. Ma nel centro chiuso al transito regnano solo silenzio, vigili del fuoco, pochi operai e le macerie, se pur meno di prima grazie al «popolo delle carriole». Turisti si aggirano in tour organizzati. «Meglio così - dice il sindaco - almeno non cala l’attenzione». Tornare «ci fa bene, ci rimette in contatto con la città», commenta Milena, vigilessa aquilana che ci accompagna nella zona off limits.

«Qui tutto è rimasto come un anno fa», Suor Nazzarena, missionaria della Dottrina cristiana che qui gestisce una scuola, scuote la testa e pensa che non basteranno dieci anni per ricostruire il centro. Poche le promesse mantenute: «I tedeschi per riscattare l’eccidio si sono dati da fare a Onna, e i francesi grazie a Carla Bruni contribuiscono al restauro della Chiesa delle Anime sante, s’è attivato il Kazakistan, ma da Obama ancora niente…».

Il sindaco continuerà a chiedere la «tassa di scopo», ma per Berlusconi sarebbe un danno d’immagine. La gente è stanca, si divide fra chi apprezza le «casette» di Silvio e chi ne denuncia le pecche. «A Balzano 2 ci sono le fogne a cielo aperto», dice un ragazzo del comitato 3.32, che contrappone il passaparola del «cittadino giornalista» all’informazione «incompleta quando non falsa». Come quando un tg spacciò come «festa per un bar riaperto la riunione del consiglio comunale per chiedere il blocco delle tasse».

Nei giorni del terremoto, ci avevo creduto anch'io che il governo stesse reagendo bene all'emergenza. Tenevo a bada il mio antiberlusconismo, e mi ripetevo: chissà, stavolta, forse...".

Poi, però, è partita per l'Aquila Sabina Guzzanti. Partita, come dice nel suo film, dopo i grandi della Terra, le suore, i boy scout, gli studenti e George Clooney. Partita in luglio a vedere quel terremoto che si era trasformato in evento mediatico e in gigantesca occasione di propaganda per un Berlusconi che, grazie alla tragedia, risaliva lentamente nei sondaggi.

Così, era partita la Guzzanti, senza un gran progetto, con una vaga idea di film, una troupe fatta di tre donne e una camera digitale, nessuna particolare aspettativa. Certo non quella di rimanerci impigliata quasi un anno, di accumulare 700 ore di girato, di vivere un'esperienza che lascia il segno e infine di conquistare un posto d'onore (special screening) al Festival di Cannes.

Ed ecco 'Draquila': un film che non fa ridere nonostante la nota e feroce capacità di satira della regista e il titolo apparentemente ironico. Un film che non fa piangere nonostante il tema e il sottotitolo 'L'Italia che trema'. Un film sul potere e non sul dolore. Un film duro, a volte sarcastico, ma strettamente logico che porta avanti come un treno la sua tesi. Ovvero: l'Aquila è un laboratorio; un test che dimostra come si possano cambiare i patti sociali, alterare i principi costituzionali e di fatto sparare allo Stato col silenziatore, in modo che i cittadini non se ne accorgano. Il tutto spiegato stavolta senza urli faziosi, ma con raggelata pacatezza. Ed è piaciuto ai selezionatori di Cannes questo linguaggio secco a ciglio asciutto, con una punta acida, da sana scuola Michael Moore: stessa voce fuori campo, stesse domande tanto pertinenti da diventare impertinenti, stessi siparietti grafici con fatti e numeri, stesso montaggio serrato di testimonianze, opinioni e facce diverse, ma tutte travolte dal soffio della storia.

Uomini e donne in tendopoli militarizzate costretti a seguire la dieta dell''attendato' (no alcol, né caffè, né Coca-Cola); i senzatetto con nuova casa assegnata dal premier innamorati persi di Berlusconi; il vecchio professore che fa resistenza barricandosi nel suo appartamento: "Se quelli ti pigliano sei finito"; l'urbanista, teorico delle newtown, che spiega come un centro commerciale è molto meglio di un centro storico e una feroce sequenza sulla tenda del Pd vuota di uomini ma con molta spazzatura e avanzo marcito di panino con frittata.

Niente sinistra, Protezione civile militarizzata e un premier che spopola. Cominciamo dalla solitudine del panino?

"Troppo splatter, tutto verde e muffo. Questo è un film rigoroso, il panino non l'abbiamo inquadrato".

Rigoroso e spietato. J'accuse di 93 minuti che va ben oltre L'Aquila...

"Questa è l'intenzione. L'Aquila è una cartina di tornasole del malessere del Paese intero. Ho visto tutti gli ingredienti della nostra crisi: l'assenza di un'opposizione; il dilagare della propaganda; la speculazione; la criminalità organizzata; l'indifferenza della gente; l'impotenza di chi cerca di far qualcosa e resta solo; lo Stato parallelo che nasce mentre quello vero neanche se ne rende conto. È un film su come si costruisce una dittatura".

Anche 'Viva Zapatero' era un film sull'arroganza del potere. Cosa cambia qui?

"Noi: popolo italiano. In cinque anni siamo cambiati molto. Non si vede più una capacità di reazione, si è affievolito il ricordo della vita democratica, se ne è persa finanche la nostalgia. Si reagisce all'indignazione adattandosi, ci si costruisce una vita parallela, piccole strategie di resistenza. È così che se all'Aquila ti dicono 'questo lo decide il capocampo', non ti viene da rispondere: 'Ma chi è il capocampo? Chi lo ha nominato? Che rappresenta? In base a cosa è pubblico ufficiale?'. Si obbedisce come se fossimo finiti tutti nel club di Topolino".

Che cosa le fa più paura in Berlusconi?

"A me non fa nessuna paura Berlusconi. Penso che sia uno squalo che come tale mangia tutto ciò che trova intorno. Non ho niente contro gli squali, sono creature come le altre, basta che stiano al loro posto in fondo all'Oceano. Se invece uno squalo passeggia in via del Corso, mi preoccupo".

Spiegazione della metafora?

"Berlusconi non è arrivato al potere con strumenti democratici, perché in democrazia non si può fare il premier controllando tv e giornali e gestendo in prima persona la propaganda. La cosa che più mi ha colpito all'Aquila è quanto la televisione sia stata più forte del terremoto. La gente non distingue più tra realtà e finzione, anzi la realtà televisiva è spesso più forte di quel che vedono e sentono. Donne raccontavano di aver imparato dai loro nonni a fuggire alla prima scossa, ma il 6 aprile sono rimaste nelle loro case, solo perché il telegiornale le aveva rassicurate. Un uomo ha perso due figli perché quella notte li ha rimessi nei loro lettini, convinto dai media che non ci fosse alcun pericolo. Terribile dirlo, ma la propaganda all'Aquila è stata più forte degli antenati e persino dell'istinto di sopravvivenza. Quando sono le gambe prima ancora del pensiero a farti scappare se la terra trema. È chiaro adesso di che potere sto parlando?".

Chiaro. Ma allora come mai nel film ha fatto parlare tanti berlusconiani pazzi del premier che mostravano la meraviglia della casa assegnata con tanto di pentole e spumante in frigo?

"Perché non sono faziosa come si dice. E volevo capire e ascoltare. Capire come si possa rinunciare a una bellissima città, fatta di persone e monumenti, di vita e memoria per sostituirla con diciannove quartieri senz'anima, spuntati dal nulla, ai bordi di una strada statale, lontani fra loro che aspettano solo un centro commerciale. Un tempo mi era impossibile anche pensare di parlare con uno che vota Berlusconi. L'Aquila mi ha cambiato, voglio parlare con tutti. E tutti avevano una gran voglia di parlare. Nessuna intervista è durata meno di un'ora. Spesso si dilungavano fino a tre, quattro ore. Ancor più spesso me ne andavo io, se no si faceva notte. È così che sono arrivata a 700 ore di girato".

Ma non la riconoscevano? Non la identificavano come un nemico?

"Non mi riconosceva quasi nessuno. Non apparendo su Canale 5, ho questo vantaggio. Mi chiedevano solo: 'Lei di che televisione è?'. Io rispondevo: 'Nessuna, stiamo facendo cinema'. E loro: 'Brava! E quando va in onda?'. Non c'era verso. Persino ai posti di blocco i militari insistevano: 'Va bene cinema, ma cinema di che rete?'".

Nelle note di regia però lei ha scritto: "Ho scoperto di amare questo Paese". Perché?

"Perché come l'Aquila questo Paese lo stiamo distruggendo. E come spesso accade, ti accorgi di quanto ami qualcuno e di quanto sia prezioso, solo quando lo stai perdendo. Oddio, non sarò mica diventata patriottica!".

Doveva essere varata per la ricostruzione dopo il terremoto dell’Abruzzo. Ma passati dieci mesi il decreto non è ancora stato approvato

Congelata la norma sul bollino di garanzia anticlan per chi rifornisce i costruttori

«White list», l’avevano chiamata. «Lista bianca», ovvero l’elenco dei fornitori delle imprese di costruzione ai quali le prefetture avrebbero dovuto dare il bollino di garanzia antimafia. Da dieci mesi, quando una legge dello Stato l’ha introdotta, è scomparsa nel nulla e nessuno sa ufficialmente perché. Eppure era contenuta in un emendamento durante la discussione in Parlamento sul decreto per l’Abruzzo, varato dal governo il 28 aprile 2009. Fortissime erano state le pressioni dei costruttori, per i quali il sistema del vecchio certificato antimafia, in generale poco efficace, in questo caso è del tutto inutile.

Come hanno ormai da tempo accertato innumerevoli inchieste giudiziarie, la criminalità organizzata si infiltra nel settore edilizio prevalentemente attraverso il canale delle forniture: materiali di cava, calcestruzzo, bitume, movimenti di terra. Per non parlare dello smaltimento dei rifiuti e delle discariche. Tutte attività sostanzialmente incontrollabili con gli attuali meccanismi, perché riguardano il rapporto diretto fra il fornitore e il costruttore, il quale raramente è nelle condizioni di scegliere: il calcestruzzo e il bitume non possono essere trasportati per centinaia di chilometri, così chi li produce ha il monopolio naturale nell’area di propria competenza.

A forza di insistere, la lobby dei costruttori era riuscita a fare breccia in Parlamento, approfittando anche dell’allarme sulle possibili infiltrazioni criminali che si era sparso dopo il terremoto dell’Aquila. Nel decreto era stato quindi infilata una norma che oltre, a stabilire l’obbligo della tracciabilità finanziaria per tutti i subappalti e le forniture, prevedeva anche la «costituzione, presso il prefetto territorialmente competente, di elenchi di fornitori prestatori di servizi, non soggetti a rischio di inquinamento mafioso, cui possono rivolgersi gli esecutori dei lavori». Secondo il copione tipico di tutte le leggi italiane, l’applicazione di questa norma era stata però affidata a un successivo decreto della Presidenza del consiglio. Da emanarsi, e qui è il primo ostacolo, su proposta di ben cinque ministri: Interno, Giustizia, Economia, Sviluppo Economico, Infrastrutture. Un concerto polisinfonico con ben cinque direttori d’orchestra, che rendeva già irrealistica la previsione un mese, contenuta nella legge, per scrivere le norme di attuazione. Ma di mesi da allora ne sono passati ben nove e di quel decreto nemmeno l’ombra. Né risulta che qualcuno ci stia pensando.

Eppure la «white list» ha fatto capolino successivamente in altri due provvedimenti: la legge sui lavori per l’Expo 2015 di Milano e il piano straordinario per le carceri. E sarebbe stata estesa a tutti i lavori pubblici dal decreto anticorruzione. Peccato che quel decreto, approvato dal consiglio dei ministri in pompa magna il primo marzo, ancora non sia arrivato in Parlamento. A causa, sembra, di alcuni problemini: fra i quali ci sarebbe, appunto, quello della «white list».

C’è chi nel governo avrebbe sollevato questioni di privacy. Chi, invece, sostiene la problematica applicabilità di una norma del genere. A partire dai controlli necessari per compilare l’elenco. Anche se il numero delle imprese che operano nei settori considerati sensibili è di circa tremila, una trentina in media per ogni prefettura.

Altri puntano il dito verso la difficoltà concreta di mettere il bollino antimafia su un fornitore di calcestruzzo o bitume, oppure su una discarica di rifiuti, senza rischiare di scoprire in seguito che quel bollino era finito su una ditta controllata dalle cosche. Più facile allora compilare, anziché una «white list», una «black list»: sarebbe sufficiente scriverci sopra i nomi delle imprese i cui amministratori o azionisti fossero stati condannati. Ma questo sistema non metterebbe i costruttori al riparo delle infiltrazioni: chi potrebbe infatti garantire sulla non mafiosità delle ditte fuori dalla lista nera? Insomma, un cane che si morde la coda. Finché qualcuno non deciderà che è arrivato il momento di assumersi le proprie responsabilità.

L'AQUILA - Guido Bertolaso non diventerà cittadino onorario dell'Aquila. La proposta di conferire lo status al capo della Protezione Civile - avanzata da quattro consiglieri comunali del centrodestra-è stata bocciata. Bocciata dalla commissione statuto e regolamenti del Comune. Sedici i voti contrari, solo due i favorevoli. Due, invece, gli astenuti.

Una votazione maturata al termine di un dibattito acceso. Molti consiglieri comunali, durante la seduta che si è svolta l'altra sera, hanno preso la parola per invitare i promotori dell'iniziativa a ritirare la proposta in quanto «improponibile, e non solo per il coinvolgimento del capo della Protezione Civile in alcune inchieste giudiziarie». Al momento del voto, alcuni esponenti del centrodestra hanno abbandonato l'aula lasciando così, soli, due colleghi favorevoli. Un pasticcio «aggravato» per Luigi D'Eramo (consigliere della Destra) «anche dalla giunta Cialente che ha accompagnato la trasmissione della proposta con un parere. Una sorta di invito a rinviare tutto a un altro momento». «La figura di Bertolaso divide la città» ha commentato il presidente della Commissione Statuto e Regolamenti, Giuseppe Bernardi «ritengo che nei prossimi mesi si potrà invece valutare di riconoscere, simbolicamente, la cittadinanza onoraria a tutte le organizzazioni di volontariato, tra cui la Protezione Civile che si sono attivate per L'Aquila».

«È l'ennesima brutta figura dopo quella della contestazione del consiglio comunale nella notte della commemorazione delle vittime - è stato invece il commento del commissario delegato per la ricostruzione, Gianni Chiodi, che è anche presidente della Regione Abruzzo - su una cosa di questo genere L'Aquila rischia di avere una pessima reputazione. E se c'è una persona che deve avere la cittadinanza onoraria, è proprio Bertolaso. È stata attribuita a personaggi che hanno avuto a che fare con L'Aquila per situazioni meno importanti che non hanno segnato la storia della città, come invece avvenuto con il capo della Protezione Civile nazionale che si è occupato della emergenza causata da una tragedia epocale». Tace per il momento - su questa vicenda - il sindaco dell'Aquila, Massimo Cialente, da sempre vicino a Bertolaso.

La notizia della bocciatura è stata, invece, accolta positivamente da parte dei rappresentanti dei comitati cittadini sorti all'indomani del terremoto del 6 aprile 2009, tra tutti il «3e32». «L'assistenza alla popolazione cittadina rappresenta un diritto - ha detto Sara Vegni - e non qualcosa che più volte è passato come un 'regalo' da parte del Governo e della Protezione civile». «Bertolaso? Non ha mai incontrato i parenti delle vittime. Ed essendo note le responsabilità del suo dipartimento sugli allarmi inascoltati prima della tragedia, non mi sembra un fatto di poco conto» dice Antonietta Centofanti, del comitato vittime della Casa dello Studente.

Postilla

Altro che cittadinanza ufficiale! Su eddyburg abbiamo puntualmente denunciato – quando ancora da ogni parte si applaudiva al Commissario e al suo Duce per la splendida riuscita del dopo terremoto – quanto fosse criticabile l’insieme delle scelte effettuate dalla potente coppia. Esse sono consistite n’ideologia della moltiplicazione delle “Milano due”, trasformata in microlottizzazioni sparpagliate sul territorio in insediamenti posticci, nei quali l’unico elemento di socialità è la televisione a casa, e l’abbandono al degrado dell’unica realtà capace di ridare anima ai territori terremotati, la città dell’Aquila. Il libro, a cura di Georg Frisch,Non si uccide così anche una città? (Clen, Napoli, 2009, € 10) ha documentato e denunciato il delitto. Nella prossima edizione dell’iniziativa di eddyburg , “Una città, un piano”, esamineremo la vicenda del dopo terremoto in tutto il suo spessore.

Chiunque sappia quello che è successo e sta succedendo, e per colpa di chi, inorridisce al pensiero che qualcuno abbia voluto dare un premio al Commissario e, indirettamente, al suo Duce. E vede nella decisione del Consiglio comunale della città due volte colpita un gesto dovuto, consapevole e chiaro, senza se e senza ma.

Il miracolo e lo squilibrio

Giorgio Bocca

Nella primavera del ´45 si poté finalmente procedere a un esame dei danni di guerra. Si oscillò tra due cifre, lontane solo in apparenza: una era di 150 miliardi di lire del 1938 con una perdita del trenta per cento del patrimonio nazionale. Ma gli economisti, che si limitarono ai danni concreti nei settori principali dissero: 70 miliardi per l´industria e i trasporti, tre nelle abitazioni, sedici nell´agricoltura, dieci in settori vari per un totale di circa 100 miliardi che rappresentavano il venti per cento del patrimonio nazionale. Se si sta alle capacità produttive le nostre industrie e la nostra agricoltura avrebbero potuto, nel giro di pochi mesi, tornare a produrre l´ottantacinque percento dell´anteguerra.

Decisivo, nella ricostruzione, fu l´aiuto americano. Per critici che si possa essere nei riguardi della politica estera ed economica americana, sta di fatto che senza l´aiuto degli Stati Uniti la ricostruzione dell´Italia e dell´Europa occidentale non sarebbe state possibile in breve tempo. I primi segni di ripresa si ebbero nel 1946: il consumo pro capite aumenta del 50 per cento; le esportazioni superano il preventivo di ottocento miliardi in lire, e toccano i 1100 miliardi. Nel 1950 la ripresa è galoppante, si sono recuperati i consumi e le produzioni prebelliche, ora ci si avvia alla creazione di una società industriale avanzata, con livelli di incremento fra i più alti nel mondo. Vittorio Foa, un sindacalista rivoluzionario, ammette che il progresso "fu prodigioso" e che veramente si può parlare di miracolo, dato che, diceva Foa, «gli indicatori dello sviluppo furono da due a tre volte superiori a quelli dei novanta anni precedenti, i circa due volte superiori a quelli del più prospero periodo giolittiano».

Ma, osservava Foa, era proprio in quel tipo di successo economico, proprio in quella rapida e fortunata ricostruzione, che si ponevano le premesse dei disequilibri futuri: un´urbanizzazione che continuava a crescere anche se le industrie non crescevano in maniera adeguata, una fuga dalle campagne che non trovava compenso nelle grandi città, un discorso industriale tutto puntato sull´automobile, il petrolio, le strade e pochissimo sulla ricerca scientifica, sull´elettronica, sull´industria tecnologicamente più avanzata. «Il profondo squilibrio – osservò Foa – fra i consumi privati e consumi sociali era già presente nella ricostruzione postbellica».

Certo la sinistra e la borghesia progressista e riformatrice avrebbero potuto modificare in meglio la ricostruzione, ma erano troppo deboli politicamente e anche culturalmente, se si pensa che un solo industriale di quel tempo, Adriano Olivetti, aveva preoccupazioni urbanistiche e sapeva incontro a quale disastro si sarebbe andati. La scelta economica dei partiti comunista e socialista era quasi un nulla: le proposte avevano un significato propagandistico e demagogico, non si seppe neppure usare la forza – allora notevole – della classe operaia. Tale essendo la situazione, si deve ammettere che le cose non potevano andare diversamente nel bene come nel male.

Paragonare la ricostruzione postbellica a quella attuale dei danni causati dalle sciagure naturali non regge, l´Italia di oggi è un paese industriale in piena efficienza e non un paese disastrato come quello in cui ci trovammo alla fine della guerra. I nostalgici del fascismo e di Mussolini dovrebbe ricordare sempre a che prezzo dovremo pagare la politica fascista di conquista e di imperialismo straccione.

L´illusione "New town"

Pier Luigi Cervellati

Ricostruire una casa o un palazzo, anche se sono storici è abbastanza facile. Bisogna conoscere le regole e i sistemi costruttivi. Si è sempre fatto: dopo le catastrofi; quando si vuole trasformare una casa in palazzo o in un altro fabbricato più grande, più solido e una volta, si diceva, più bello. Poi sempre più spesso la ricostruzione è servita per fare maggiori guadagni. Ricostruire una città è invece molto, ma molto difficile. Quasi impossibile. Quando una città diventa macerie e rovine, ci si illude di poterla ricostruire facendone (come si è deciso di fare all´Aquila) una nuova.

Nuove saranno le case, magari bellissime, spaziose, ma la città non c´è; si è solo allargata la periferia. Periferia che disperdendosi nel territorio cancella la città, come appunto nel caso dell´Aquila dopo il terremoto dell´anno scorso. Si è fatto tanto, ma la città non è stata restituita ai suoi abitanti e chissà quando lo sarà. Una città non è fatta solo di case e di abitanti. La città rappresenta una comunità. Con i suoi "valori", la sua memoria, le sue tradizioni, la sua identità. Il suo futuro. C´è solidarietà e conflittualità. C´è "vita", come direbbe un antropologo saggio e un poco retorico.

La città è un bene comune. Appartiene alla collettività. La casa è di chi la abita. Se la città finisce di essere tale perché si pensa di migliorarla con una "new town" non c´è ricostruzione possibile. La ricostruzione di case e chiese, palazzi e monumenti, strade e piazze per restituire la città come bene comune, dev´essere prioritaria, perché la città è prima di ogni altra cosa storia e cultura, lavoro e natura di chi ci vive.

Dispersa nella campagna la città non esiste più. Non confondiamo e non solo all´Aquila, la periferia, lo "sprawl" urbano (vale a dire la dispersione delle abitazioni), per città. Neppure barattiamo le new town quale esempio di moderna ricostruzione. Prima ancora che le new town riescano a diventare città saranno vecchie e obsolete. E da demolire. Forse allora si riuscirà a restituire-ricostruire la città: ricostruire i suoi rapporti e quel senso di civile responsabilità che la dispersione periferica dell´urbanizzato ha distrutto.

Gli esempi stranieri, anche quando si riferiscono a grandi metropoli, vanno in una direzione diversa, se non opposta. Negli ultimi cinquant´anni Los Angeles, Chicago, Tokyo si sono ricostruite su sé stesse. Un identico fenomeno ha investito le grandi città cinesi. Gli abitanti sono cresciuti a dismisura, in qualche caso sono triplicati in un numero limitato di decenni. Ma, appunto, la ricostruzione è avvenuta sul già costruito e così i nuovi organismi, pur completamente cambiati, hanno mantenuto la stessa struttura. Per esempio, Tokyo è rimasta una città di città. In parte anche Los Angeles ha riprodotto il proprio sistema formativo.

Da noi è avvenuto il contrario. Dal centro della città si sono staccate le periferie, che sono rimaste corpi separati. Periferie c´erano anche a L´Aquila. E, prima delle periferie, c´era una sistema fondato su un centro molto prestigioso e su alcune decine di frazioni. Con le new town non c´è nessuna ricostruzione, ma solo la costruzione di una città fatta solo di periferie. Il resto sono macerie.

L’Aquila Aiuti mai arrivati, con chiese, palazzi, monumenti che a stento si è riusciti a puntellare per evitare ulteriori crolli. A un anno dalla notte più terribile, è ancora orfana l’arte d’Abruzzo squassata dal terremoto. Un flop la “lista di nozze” lanciata dal premier Berlusconi nei giorni del G8 per chiedere ai Grandi della Terra di adottare 45 monumenti simbolo, vuote o quasi le casse del vice commissario Luciano Marchetti. Che ora chiede sia lo Stato ad intervenire. Mentre il consiglio superiore dei beni culturali ha chiesto la fine del commissariamento con la riattribuzione le competenze alle soprintendenze e alla direzione regionale.

Il conto dei danni, nel frattempo, è cresciuto, precisato dal lavoro fatto in questi mesi dalle squadre di tecnici della soprintendenza, della Protezione civile, dei vigili del fuoco, che hanno censito 1763 monumenti, verificato, puntellato. Per riparare i guasti dei monumenti servono 3,5 miliardi di euro, conta Marchetti, che l’esperienza l’ha già fatta con la ricostruzione di Marche e Umbria. Certo non tutti subito, perchè ci sarà da lavorare per almeno dieci anni. Per il momento però sono arrivati solo 20 milioni della Protezione civile e 2 del ministero dei beni culturali (assegnati 3,2). Una cifra che non ha potuto coprire neppure tutte le necessità dei puntellamenti, tanto che il commissario ne ha chiesti altri 10 milioni al presidente della Regione Chiodi, soldi - spiega - che servono per terminare i puntellamenti.

Fatta eccezione per i progetti finanziati dall’estero o da associazioni, istituzioni pubbliche e privati italiani, insomma, il restauro vero e proprio non si può cominciare. Il discorso vale anche per la maggior parte dei 45 monumenti della lista. Per restaurarli tutti servono più o meno 450 milioni. Quelli raccolti fino ad oggi - non tutti ancora materialmente arrivati - sono meno di 50. I contributi stranieri si contano sulle dita di una mano, i più generosi sono i russi, con un contributo di 7,5 milioni offerto per riparare Palazzo Ardinghelli e la Chiesa di San Gregorio Magno. Poi ci sono i francesi (3,2 mln per le Anime Sante) e i kazakistani, (1,7 mln per San Biagio di Amiternum).

«I cittadini non possono essere esclusi. Vogliamo partecipare a un'idea di città, non solo nel centro storico, ma anche nelle periferie. Vogliamo entrare in una casa sicura ed essere d'esempio per tutti. Perché ogni 10 anni in Italia ci sarà un terremoto. E noi non vogliamo più cadere a pezzi. Punto». Un anno dopo, la richiesta è sempre la stessa. Ripetuta con il tono pacato di Giusi Pitari, prorettore delegato dell'università dell'Aquila. O urlata nelle manifestazioni dei comitati di cittadini, anche quelle - composte ma tese - che hanno attraversato la città nel primo triste anniversario del sisma.

Perché un anno dopo la scossa che ha distrutto il capoluogo d'Abruzzo, mentre gli aquilani si abituano a una nuova vita in mezzo a colline e campagne puntellate da Case (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili) e Map (Moduli abitativi provvisori), mentre le attività economiche stentano a ripartire e i villeggianti forzati sulla costa invocano un aiuto per ritornare, un primo bilancio dice che la fase dell'emergenza non è ancora finita. A dispetto di proclami e promesse. Perché «la ricostruzione è stata impostata solo in minima parte»: si è pensato ad alloggiare i cittadini, ma non a offrire loro una reale prospettiva di rinascita della città e a coinvolgerli in quest'opera. Lo denuncia l'organizzazione internazionale Action Aid, che si occupa della lotta alla povertà e interviene in occasione delle emergenze per il sostegno alle popolazioni. In una video-inchiesta dal titolo eloquente, L’Aquila a pezzi, l'organizzazione analizza innanzitutto il tanto sbandierato beneficio che lo spostamento del G8 in Abruzzo avrebbe dovuto portare alle popolazioni colpite dal sisma. «Un' occasione storica», la definivano i vertici della Protezione civile. E invece il bilancio è a dir poco deludente. «Sconfortanti» i dati citati da Anna Maria Reggiani, direttrice regionale dei Beni culturali: «Già prima tutto il sistema museale locale arrivava a l00mila visitatori l'anno, che è poco.

Ora siamo scesi a 30 mila». E «inferiori alle aspettative» anche i finanziamenti per la ricostruzione del patrimonio storico (tre miliardi di euro stimati). Chi non ricorda la famosa lista di nozze che Silvio Berlusconi aveva agitato sotto il naso dei potenti della terra? Ebbene, «la richiesta che avevamo fatto per i 45 monumenti inseriti nella lista, ammontava a circa 250 milioni di euro - dice Luciano Marchetti, vicecommissario ai Beni culturali per la Protezione civile - Arriveremo a circa 40 o 50 milioni di euro». Insomma: le tre giornate del G8, esclusi i finanziamenti per la Maddalena, sono costate 185 milioni di euro, mentre ai monumenti della provincia de L'Aquila sono arrivati al mese scorso 34 milioni per la messa in sicurezza, più 15 milioni di impegni precisi da Paesi stranieri (Francia, Germania, Russia, Kazakistan). Quanto fatto finora? «Gocce nel mare», secondo Marchetti. E poi ci sono i cittadini, le loro case, il loro lavoro. Umberto Trasatti, segretario provinciale della Cgil, denuncia una «situazione drammatica»: «Abbiamo ancora oggi 16 mila persone senza lavoro. Delle quali 8mila hanno usufruito di un trattamento di 800 euro mensili per soli tre mesi». Gli ex commercianti del centro storico dell'Aquila, si contendono locali in affitto a cifre improponibili (fino a 3000 euro al mese per 100 metri quadri). E anche le attività che non hanno subito danni diretti dal terremoto, soffrono gli effetti di un'economia ferma. Tanti si sono già spostati in altre città e il rischio è che l'esodo sia sempre più massiccio. Anche se c'è un enorme desiderio di tornare, ad esempio da parte dei 3.500 sfollati che ancora oggi sono alloggiati negli alberghi sulla costa («non proprio una vacanza», sottolinea Action Aid), al costo di circa 580 mila euro al giorno.

Ma qui viene il tasto dolente. Le abitazioni. Il governo ha deciso di saltare la fase degli alloggi provvisori e passare dalle tende direttamente alle durevoli e antisismiche Case. Ebbene, in tanti denunciano essersi trattato di una scelta sbagliata. Non solo perché le Case si sono rivelate molto costose (2.428 euro a metro quadro, contro i 1.210 euro dei Map). Ma anche perché, come sottolinea l'ex presidente della Provincia, Stefania Pezzopane, le new town pongono un enorme problema di «riorganizzazione sociale», con difficoltà di ambientamento delle persone e necessità di creare una rete di servizi. «Le new town ci hanno isolato, ci hanno diviso, abbiamo perso l'identità», dice la signora Gigina, 66 anni.

E l'urbanista Vezio De Lucia le dà ragione. «Il modello di ricostruzione de l'Aquila rappresenta una pesantissima ipoteca sul futuro della città. Si è provato a fare un salto, direttamente dalla tenda alla casa, che è un errore molto grave, perché obbliga a inventare lì per lì un modello urbano, che nella migliore delle ipotesi non può non essere affidato alla assoluta casualità. La casa - prosegue - è stata contrapposta come valore unico e assoluto a ogni altro: la casa contro la città. E sono del tutto mancate le risorse, le politiche e l'impegno per mettere mano alla ricostruzione del centro storico. Che dal punto di vista urbanistico e della vita civile è fondamentale: se non si recupera il centro storico de l'Aquila, la città è destinata a morire».

Per vedere i video su L’Aquila a pezzi (in particolare, n. 7 con l’intervista a Vezio De Lucia)

Ascolto il prefetto dell'Aquila che esorta a non contrapporre «due curve: una che dice tutto va bene e l'altra che dice tutto va male». E’ già un passo avanti rispetto alle trombe suonate a tutto spiano da Berlusconi & Bertolaso a sostegno dell'intervento più straordinario mai realizzato in una zona terremotata a livello planetario. Nell'organizzazione dei soccorsi mi sembra obiettivo osservare che la Protezione civile - grazie anche ai Vigili del Fuoco, di cui non si parla quasi mai, e dei volontari - ha operato con efficacia e solerzia. Qui mi fermo. Sul piano, infatti, dei ricoveri e ancor più dei recuperi e dei restauri, o si sono ripetuti vecchi errori, o si sono volute attuare misure «nuove» che peseranno per decenni sui centri storici, sul loro territorio e paesaggio, a partire dall'Aquila. Chi dice queste cose viene accusato dal potente Guido Bertolaso di «buttarla in politica». E l'arcivescovo dell'Aquila, Giuseppe Molinari, vede nel «popolo delle carriole» chi «vuol creare dal punto di vista politico un gruppo che abbia autorità nella ricostruzione». Berlusconi aveva progettato un suo «sogno» mediatico: l'Abruzzo come spettacolare parata governativa, nazionale e internazionale. A lungo gliel'ha consentito la rassegnazione delle popolazioni locali tramortite dalla sciagura e, ancor più, il silenzio connivente di gran parte dei media nazionali.

Lo stesso Pd doveva costituire all'Aquila un suo presidio «nazionale», come ha fatto ora l'Unità. Alla base c'è stato però il solito vizio di Berlusconi, il suo «ghe pensi mi». Di qui la scissione, in due tempi, dei soccorsi/ricoveri e della ricostruzione. Mai avvenuta prima d'ora. Con tutto il denaro, o quasi, concentrato nei MAP e soprattutto nelle cosiddette «new town», alla fine ghetti costati come case di lusso o hotel a 5 stelle. Una mentalità che ha scompaginato, agli inizi, le già disperse comunità locali e che continua a confondere la Chiesa stessa, qui assai meno protagonista, in positivo, dei vescovi friulani o umbro-marchigiani.

La logica del duo di comando ha infatti esaltato il ruolo della Protezione Civile e tagliato fuori il Ministero per i Beni Culturali e le Soprintendenze. Un rovesciamento rivelatosi disastroso. Giuseppe Basile, gran coordinatore dei restauri ad Assisi, si è presentato, fresco di pensione e di assicurazione privata, ma è stato rimandato a casa. Come gli «Amici di Cesare Brandi». Come l'esperto di organi antichi abruzzesi M° Armando Carideo. Mentre le squadre dei volontari, prive del solito esperto del MiBAC, agivano senza guida tecnica. E non si rispondeva nemmeno alle offerte di disponibilità di Dipartimenti universitari specializzati dell'Aquila e di Roma. In Umbria e Marche le operazioni di soccorso erano state accompagnate dal rapido ricovero delle opere d'arte e delle suppellettili in magazzini attrezzati, o dalla «velinatura» degli affreschi, a differenza di quelli della Cappella Branconio a San Silvestro, ancora scoperti dopo 5 mesi. Berlusconi aveva lanciato «l'adozione» di un monumento da parte dei Paesi più ricchi. Semifallita. Dalla logica sbagliata dei due tempi nasce l’anno perduto per i centri storici, Aquila in testa. La «butto in politica»: le pietre di Venzone avevano cominciato subito a numerarle, mentre qui le macerie sono state selezionate da poco o per niente. E adesso Bertolaso denuncia: «Non ci sono progetti per ricostruire».

Ma che dice Roberto Cecchi, già direttore per i beni architettonici ed ora segretario generale del Ministero? A dicembre affermava: 1) «La nostra Direzione generale non ha avuto nessun ruolo nella questione dell'Aquila»; 2) «non credo che il tema sia la ricostruzione, ma la prevenzione» (?); 3) «il Duomo di Venzone è solo una cartolina e il restauro viene evocato come possibilità di tornare taumaturgicamente indietro». Insomma, sta a vedere che la colpa è degli aquilani, degli abruzzesi, dei loro sindaci e di chi, coi badili e con le carriole, «la butta in politica».

Dieci anni per ricostruire la città (con ventimila palazzi gravemente lesionati). Cinquantaduemila aquilani ancora senza la loro casa e "a carico dello Stato". E che rimarranno a lungo in questa condizione. I primi cantieri (4.500) autorizzati da mesi, ma fermi per problemi burocratici. Ma anche diciannove new town costruite dal governo a tempo di record, in appena sei mesi. È questa la foto dell´Aquila, un anno dopo il terremoto.

Nessun colpevole, invece, per i morti di Onna, Paganica, San Demetrio, San Gregorio, Castelnuovo, Poggio Picenze, Villa Sant´Angelo e per quelli del centro storico dell´Aquila: 150 inchieste giudiziarie su 184 - avviate pochi giorni dopo la tragedia dalla Procura della Repubblica dell´Aquila - saranno archiviate. I magistrati chiederanno il processo solo per 30 palazzi (costruiti dopo gli anni 60, quando sono entrate in vigore le norme antisismiche), dove gli inquirenti hanno riscontrato «cemento annacquato e violazione di tutte le nome antisismiche». Niente da fare per gli altri 150 crolli-killer: non si può processare nessuno. La legge non lo prevede.

Gli sfollati tra alberghi e tende

Dopo il sisma del 6 aprile, di magnitudo 5,9 della scala Richter (con 308 vittime e 1600 feriti) 67.459 sono stati da subito assistiti dalla Protezione civile: 35.690 sistemati in 200 tendopoli; 31.769 in hotel o case private. Nel giro di pochi giorni all´Aquila sono arrivati 17mila volontari. Ora - un anno dopo - sono 4.300 le persone ancora negli alberghi (sulla costa o L´Aquila), più altre 622 negli appartamenti presso la caserma della Guardia di Finanza di Coppito. Per tutti gli altri la Protezione Civile è riuscita a ottenere un tetto (19 mila aquilani sono stati sistemati nelle case realizzate dal governo). Le tendopoli sono state chiuse a dicembre. Tempi record anche per le scuole distrutte dal sisma: ne sono state tirate su e riaperte 32.

Ricostruzione: cantieri al palo

Dopo 80mila sopralluoghi tra i palazzi (effettuati da 5mila tecnici, per un totale di 73.521 verifiche su edifici pubblici e privati), le strutture totalmente inagibili sono risultate il 32% di quelle private, il 2% di quelle pubbliche e ben il 53% di quelle che rientrano nel patrimonio culturale. Più della metà degli edifici privati e pubblici sono risultati invece agibili. Ad oggi però su 4.500 cantieri autorizzati, appena 100 hanno dato il via ai lavori.

Le macerie ancora per le strade

Tre milioni e mezzo di metri cubi di macerie sono ancora per le strade del centro storico, e bloccano la ricostruzione. I comitati cittadini (poi diventati il "popolo delle carriole") per cinque domeniche consecutive hanno occupato le vie del centro, e rimosso le macerie a mano. Una protesta che ha costretto il governo a sbloccare la vicenda, coinvolgendo l´esercito. «Entro quindi giorni - ha assicurato pochi giorni fa il nuovo commissario delegato alla ricostruzione, il governatore della Regione Abruzzo Gianni Chiodi (che ha preso il posto di Bertolaso) - tutti i detriti saranno rimossi».

Crolli senza colpevoli

Per sapere la verità giudiziaria si dovranno attendere, invece, solo pochi mesi. Infatti, sulle 184 indagini portate avanti in Procura da un solo magistrato (Fabio Picuti) e dal procuratore capo Alfredo Rossini, solo 30 arriveranno probabilmente a processo. O almeno questa è l´intenzione degli inquirenti. I morti nei paesini del circondario, e nel centro storico dell´Aquila, rimarranno senza colpevoli, per la giustizia penale. Le costruzioni in questione ricadono in un´epoca storica nella quale non c’erano ancora norme antisimiche.

Un filone d’indagine che promette clamorosi sviluppi, riguarda invece la tragedia inutilmente annunciata da quattrocento scosse violente (nei quattro mesi prima del sisma), senza nessuna opera di prevenzione da parte dello Stato. Un´indagine che vede nel mirino la Protezione Civile su cui pende un dossier della Polizia con l’accusa di omicidio colposo (come scritto da Repubblica domenica).

Beni artistici: il tesoro distrutto

Sono 4.950 le opere d´arte salvate e messe in sicurezza in chiese e palazzi gravemente danneggiati dal sisma. Statue, dipinti, sculture, oggetti sacri e liturgici sono stati recuperati tra le macerie dai vigili del fuoco, delle soprintendenze, delle forze dell´ordine e dei 350 volontari di Legambiente. Il Fai ha avviato la ristrutturazione della Fontana delle 99 Cannelle, simbolo della città. Manca ancora all´appello la maggior parte dei finanziamenti promessi per i restauri dai Grandi della terra in occasione del G8.

Prima i ragazzi si ritrovavano lungo la scalinata di S. Bernardino, sedevano a gruppetti, sguardi, qualche parola, gli amici, le amiche, lo struscio fino al Corso Vittorio e a piazza Duomo e al ritorno ancora la scalinata, monumentale, di pietra bianca, stile barocco, custodita ai lati dalle edicole dei santi. Alle spalle la basilica, intorno le montagne e il Gran Sasso. I primi amori. Il posto più sicuro e più bello del mondo. Questo prima, prima del terremoto.

Oggi i ragazzi si ritrovano al bar del centro commerciale. «Ed è molto triste, loro, i ragazzi, stanno diventando tristi...» dice il sindaco Cialente guardando la dolce discesa della scalinata ora piena di erbacce, detriti, le edicole ingabbiate nel legno e nel ferro. S.Bernardino è uno dei luoghi che fanno l’anima dell’Aquila, da generazioni testimone silenzioso di amori e passioni, delusioni e pezzi importanti di vita. «L’Aquila non ha più i suoi luoghi. Prima uscivi e non ti sentivi mai solo. Adesso passiamo la giornata in macchina. Come se voi a Roma la passaste sul raccordo anulare...».

L’Aquila oggi, un anno dopo, è ancora un non-luogo dove ti incontri e non chiedi come stai ma «tu cosa sei? A, B, C...», la classifica del danno delle abitazioni. Se sei E, che significa casa distrutta, sei in quello che il sindaco chiama «tunnel esistenziale». Da cui è difficile uscire. Aumenta l’uso degli psicofarmaci all’Aquila e nel cratere terremotato. Se ricostruire vuol dire anche ritrovare i luoghi dell’anima, quelli dove ti riconosci e ti senti a casa per sempre, la ricostruzione dell’Aquila può ripartire anche da questa scalinata. Riconsegnarla ai giovani. E al futuro. Riprendersi il passato. È urgente. Come, forse più, di tutto il resto.

Per la scalinata dei primi amori, dei sogni e dei progetti servono con urgenza centomila euro. «Non li ho» dice il sindaco, «mi devo inventare qualcosa. Lo devo ai ragazzi di questa città».

«Riprendiamoci l’Aquila» è scritto sul tendone bianco montato in piazza Duomo diventato la bandiera e il fortino della riconquista del centro storico proibito. Gli aquilani ci lasciano carriole e secchi, pensieri, idee, rabbia, progetti. È un luogo. Una stanza tutta per loro.

Un piano in nove mosse. È questo che ha in mente il sindaco e che il Capo della struttura di missione Gaetano Fontana ha spiegato in un libretto di 32 pagine intitolato: «Primo programma di intervento sperimentale con fattibilità a breve termine». Riguarda il centro storico dell’Aquila, 170 ettari ancora pieni di macerie, alberi sradicati e materassi marci. «Il sisma dell’Aquila è stato un evento oltre che drammatico anche molto complesso» dice il prefetto Franco Gabrielli. «Se escludiamo i quartieri fuori dalle mura, solo il centro storico è in assoluto il più grande d’Italia rispetto al numero di edifici vincolati». Non ci sono precedenti, nè con il Friuli nè con l’Umbria. Solo se si ha chiaro questo, si può capire perchè è così difficile ricominciare. Il Primo programma di intervento ha individuato sei aree, sei spicchi della zona rossa «più facilmente aggredibili». Dicono proprio così: aggredibili, come se il centro storico fosse diventato un nemico da combattere. Da aggredire, appunto. Andando in senso orario, partendo da ovest: zona Banca d’Italia-Belvedere; zona Lauretana; Santa Maria di Farfa; Porta Napoli est e Porta Napoli ovest.

Sulle mappe i confini sono già perimetrati. Si tratta di aree dove le case hanno in genere danni lievi (B-C, poche E), dove è possibile garantire l’allaccio di acqua, gas e luce e raggiungibili sia a piedi che con i mezzi. Luoghi dove è possibile riportare la vita e le persone. Quando? «Dal momento in cui si comincia servono tra i 60 e i 90 giorni». Ci sono anche i soldi, 2 miliardi e duecento milioni, gli unici stanziati finora. «Lo dico dal primo giorno, serve la tassa di scopo altrimenti i progetti sono solo parole» taglia corto Cialente.

Piano in nove mosse, si diceva. Le ultime tre riguardano altrettanti luoghi simbolo della città: piazza Duomo solo in parte recuperata; piazza Palazzo, dove era la sede del comune; piazza Repubblica, quella delle prefettura sulle cui macerie sono stati fotografati i grandi del mondo e relative first ladies. I simboli del potere religioso, civico e statale. Ma il sindaco vuole prima di tutto la gradinata di San Bernardino. Lo deve ai giovani. E al futuro di tutti.

Si vedano i video sul sito dell'Unità

Nelle cassette della posta del Piano C.A.S.E. all’Aquila è comparso questo volantino. Che è uno degli esempi di come si faccia comunicazione-shock in un’area emergenziale. Le 17mila persone che hanno avuto gli appartamenti del piano C.A.S.E. ricevono in prima persona la campagna elettorale del premier e del suo PdL. Una campagna personalizzata e impietosa, che specula, una volta di più, sulla facciata positiva e buona del Governo del Fare. Ricordiamo ancora una volta cosa significhi, all’Aquila, "aver fatto".

Punto primo. “Fare”, durante un’emergenza, è un dovere, non un favore. Le case del Progetto C.A.S.E., imposte dall’alto con decreto, pensate pochi giorni dopo il terremoto e formalizzate il 28 aprile 2009, sono in comodato d’uso; sono costate più o meno 2700 euro al metro quadro; sono state costruite in deroga a vincoli urbanistici e leggi sugli appalti; sono temporanee nell’assegnazione agli sfollati ma permanenti quanto a consumo del territorio; sono state gestite e costruite secondo la logica dell’emergenza e dell’urgenza e dell’indifferibilità dei lavori proprie della Protezione Civile; hanno visto – come relazionano i Servizi Segreti in parlamento il primo marzo, come scrivono su Terra, come sosteneva da mesi il giornalista di Libera Angelo Venti su Site.it - il forte interesse delle ditte mafiose o con rapporti con la mafia; sono state sbandierate ai quattro venti, con numeri falsati e gonfiati; nascono come “non luoghi”, in quanto non integrati nel tessuto sociale, economico e paesaggistico; 4 siti su 19 scaricano (o perlomeno hanno scaricato per mesi) le acque scure nel fiume Aterno; genereranno all’Aquila un sovradimensionamento abitativo di circa 4500 appartamenti. Il tutto in una città di settantamila abitanti. Un vero e proprio patrimonio da gestire e a rischio fallimento.

Ma nel frattempo, le case del progetto C.A.S.E. vengono anche utilizzate per la facciata governativa: fuori dall’Aquila, per mostrare quanto sia forte questo governo del fare. Dentro l’Aquila, vengono usate per riscattare il “dovuto” ringraziamento da parte di chi ha avuto le C.A.S.E. Con il voto. Esattamente come Denis Verdini, coordinatore del PdL indagato per l’inchiesta sul sistema gelatinoso, chiedeva il ringraziamento degli Aquilani in piazza alla manifestazione del PdL. Il confronto, poi, con l’Umbria e le Marche del 1997, è ridicolo e continua a non tener conto del fatto che con minor tempi e minor costi si poteva dare alle persone una sistemazione provvisoria che le rendesse attive per la propria ricostruzione. Senza usare i container del 1997, ma utilizzando Moduli Abitativi Rimovibili.

Infine. In Umbria i Sindaci e gli enti locali e i cittadini sono stati i veri protagonisti della ricostruzione. Per ricostruire, in sicurezza, com’era e dov’era. Con il volantino, cala il sipario: è l’ultimo atto dell’operazione mediatica sull’Abruzzo, è un volantino che ha il sapore della propaganda a ogni costo, anche sulle vite altrui. E forse anche della beffa, per gli sfollati che sono strumento e oggetto di pubblicità.

Passeggiando sul lungomare li riconosci subito: i terremotati (brutto termine: ma ormai è entrato nel nostro vocabolario) hanno qualcosa di diverso dai residenti, e dai primi villeggianti. Roseto degli Abruzzi è una bella cittadina turistica: in questi giorni, poi, l’Adriatico, è azzurro come i mari lontani che vediamo sui poster delle agenzie di viaggi. Anche gli alberghi dove gli sfollati hanno trovato rifugio sono tutti di buona o eccellente qualità: tre stelle, quattro stelle. Ma sui volti dei terremotati sono impresse domande insistenti: quando tornerò? Ritroverò un lavoro? Che futuro avranno i nostri figli? Si coglie un sentimento di inquietudine: che il provvisorio diventi definitivo.

Nel 1981 un collega inglese, a un anno esatto dal terremoto dell’Irpinia, scrisse: «Voi italiani avete un maledetto gusto per le ricorrenze», ed è vero. Ma aiuta a ricordare. E a far sapere che, dodici mesi dopo quella scossa del 6 aprile che devastò l’Abruzzo, 5.336 persone sono ancora negli alberghi; altre 1.070 sono sempre sulla costa, ma in appartamenti privati; 926 sono sistemate in due caserme. In totale, 7.332 persone che non hanno ancora riavuto la loro casa, e non hanno neppure avuto una casa di legno. Bisognerebbe aggiungerne altre quindicimila che hanno trovato ospitalità da parenti o amici, qualcuno in roulotte.

Non è che il governo non abbia fatto nulla, anzi. La ricostruzione è molto indietro, ma quanto a sistemazione dei senza tetto, è stato fatto molto più che in passato. È che il terremoto è una cosa terribile che ai nostri occhi resta terribile solo quando sulle macerie sono accesi i riflettori: spenti quelli, ci dimentichiamo. Alla gente colpita il futuro genera incertezza, il passato paura.

Ci racconta Arnaldo Centi, un pensionato che incontriamo sulla passeggiata: «Quella notte? Ricordo il tremare, la luce che va via subito. Ho chiamato i figli che dormivano, il terrore che non fossero vivi, l’intonaco del soffitto caduto sul viso. Sono vivo, e mi considero fortunato. Uno del mio paese è scampato al crollo, ma il giorno dopo è morto di infarto. La paura è tremenda».

All’hotel Marechiaro ci accolgono con sospetto: il proprietario ci spiega che è stata qua una troupe della tv, è rimasta sua ospite per alcuni giorni, ha intervistato tutti gli sfollati e poi ha mandato in onda solo le dichiarazioni di chi si lamentava. «Uno schifo - dice Giovanni Speranza, 56 anni, uno degli ospiti dell’albergo - quella trasmissione è stata uno schifo. Qui l’accoglienza è ottima, più del dovuto. Non sono di nessun partito, ma secondo me questo governo non ci ha fatto mancare niente. Chi dice il contrario è un bugiardo, sono quelli che vorrebbero avere sempre tutto gratis. Io mi sono sentito trattato bene, non posso pretendere di più. La mia casa dell’Aquila ha lesioni non gravissime e non avevo diritto alla nuova abitazione antisismica: ma mia figlia, che è sposata, l’ha avuta. Settantacinque metri quadrati, si sta bene. Per me Bertolaso è un grande uomo e Berlusconi si è comportato da signore: quello che ha promesso, l’ha fatto».

È lo Stato che paga gli alberghi: «Con calma, ma paga», dice il proprietario dell’hotel Palmarosa: «Ho avuto qui fino a 180 persone, adesso molte di meno. Sono rimasti soprattutto gli anziani». Quelli che lavorano devono fare i pendolari con L’Aquila: è un disagio, ma per loro l’autostrada è gratis. «Stiamo bene, non paghiamo nulla», dice Pasquale Nardecchia, 86 anni: ci racconta che correva in bicicletta con Coppi, Olmo e Fantini.Lo Stato paga l’albergo anche alla sua badante, che è rumena e alle difficoltà è abituata. Si chiama Viorica Chivu, è parente del calciatore dell’Inter che ha avuto un brutto infortunio: ci chiede se sappiamo come sta, sembra più preoccupata per lui che per lei.

Sono qui tutti da aprile, maggio dell’anno scorso. Il rischio è quello di lasciarsi andare. Stare in albergo è comodo e confortevole, non bisogna preoccuparsi di nulla, ma la noia è sempre in agguato. Riconosci quelli che non reagiscono anche da come sono vestiti: se resti in tuta tutto il giorno è un brutto segno, passi la giornata davanti alla tv.

«Sì, bisogna stare attenti a non morire dentro», dice Manfredo Nanni, pensionato, ospite all’hotel Marechiaro. «Ne ho approfittato per realizzare un mio vecchio desiderio e ho scritto un romanzo. E poi sono istruttore di fuoristrada, qui a Roseto c’è un club, ho potuto tenere dei corsi». È uno di quelli - e dobbiamo dire che sono la maggioranza - che non si lamentano: «Mi hanno sempre trattato bene, non solo nell’albergo ma in tutta Roseto: abbiamo trovato grande solidarietà, ci incoraggiano, nei negozi ci fanno lo sconto. I disagi? Certo che ci sono ma non si può dare la colpa al governo. C’è stato un terremoto! Vorrei vedere quelli di Haiti se sono stati trattati come noi».

Ci sono certamente anche colpe dell’uomo: ma vanno ricercate nel passato. Manfredo Nanni assume le sue: «Sono un architetto ed ero direttore tecnico dell’Ater, l’istituto delle case popolari dell’Aquila. Devo dire che anche noi tecnici non abbiamo pensato al terremoto per troppi anni. Rispettavamo le normative, certo, ma non erano adeguate al rischio di un sisma. E sa perché? Perché il 1915, l’anno del terremoto di Avezzano, era lontano. E il terremoto dell’Aquila del 1703 ancora più lontano. E quello del 1463 ancora di più. È questa abitudine a dimenticare che ci ha rovinati. Adesso non dobbiamo perdere la memoria».

L’Aquila da qui sembra ancora molto lontana. Più che nello spazio, nel tempo: chissà quando tornerà a essere una città. Il rischio di perdere la memoria riguarda tutti noi. «Noi - scrisse Enzo Biagi tornando dal Belice - che abbiamo il problema del parcheggio o di come riempire il tempo libero, non possiamo continuare a ignorare la delusione e la rabbia di chi ha il problema di vivere». (3 - continua)

Ritorno a L'Aquila, città fantasma che fatica a trovare il suo domani

Michele Brambilla – La Stampa, 21 marzo 2010

Ci siamo dimenticati dell’Aquila, o almeno abbiamo pensato che da quelle parti le cose andassero, se non bene, molto meglio. Abbiamo visto in tv la consegna delle casette antisismiche, la gente sorridente, abbiamo sentito la canzone che dice domani è già qui, e di nuovo la vita sembra fatta per te. Così ci siamo distratti. Ma L’Aquila è una città fantasma, e il domani chissà quando arriverà.

Il centro – che sono 170 ettari, e che di fatto è tutta L’Aquila: il resto sono 63 frazioni sparse qua e là – è morto. Non c’è una sola casa abitata. Quelle poche rimaste agibili non possono riaprire perché mancano i servizi – l’acqua, il gas – e perché c’è sempre il rischio che crolli qualche edificio accanto. Quattro milioni di tonnellate di macerie attendono di essere portate via. Si lavora, non è che non si lavori: ma gli operai, i vigili del fuoco e l’esercito sono ancora impegnati nella prima emergenza: puntellare, mettere in sicurezza.

Anche i negozi e gli uffici sono tutti chiusi. I commercianti hanno affisso agli ingressi maliconici cartelli. I più fortunati hanno scritto: «Ci siamo trasferiti a»; altri sono fatalisti: «Speriamo di rivederci presto». Dei tanti ristoranti, nessuno è aperto. La sera andiamo fuori città, in un posto che si chiama «La cascina del viaggiatore». Era un bell’edificio antico: deve essere abbattutto e ricostruito da zero. Il proprietario ha messo su, lì a fianco, un capannone prefabbricato per non fermarsi: «Ho speso centomila euro – ci spiega – e quando ricostruirò l’edificio originario avrò al massimo un contributo di ottantamila euro. Non solo: sarò costretto a demolire questo capannone». Anche gli alberghi sono tutti chiusi, eccetto uno che è di nuova costruzione e che è stato ulteriormente messo a posto per il G8. E lì che stiamo, con un gruppo di sfollati.

Scene ordinarie di un post-terremoto, si dirà. Ma non è così. Ci sono stati altri terremoti – il Friuli e l’Irpinia, ad esempio – che hanno fatto dieci volte i morti che ha fatto questo di un anno fa in Abruzzo; ma avevano colpito tanti piccoli o piccolissimi comuni. Questa volta è stato spazzato via un capoluogo di regione, con 70 mila residenti più 28 mila studenti. Per questo la ricostruzione qui sarà molto, molto più lunga e difficile. Questa volta sono stati distrutti perfino i centri del comando, quelli della prima assistenza e della normale amministrazione: la prefettura, la sede della regione e della provincia, le caserme, gli ospedali, le scuole. Una regione intera si è trovata all’improvviso senza testa.

E se i morti sono stati solo 308 – Iddio ci perdoni quel «solo» – è stato anche perché nella tragedia c’è stata una fortuna. Ci dice il prefetto Franco Gabrielli: «Lei pensi se non fosse successo la settimana santa, cioè quando quasi tutti gli studenti se n’erano già andati da L’Aquila per le vacanze. Oppure se fosse successo in quella settimana ma di giorno, con le chiese piene». Anche Stefania Pezzopane, la presidente della Provincia la cui foto con Obama ha fatto il giro del mondo, non riesce a togliersi il pensiero di che cosa sarebbe successo se la scossa, anziché alle 3,32 della notte del 6 aprile, fosse arrivata di giorno: «Penso agli uffici del centro, tutti pieni di gente al lavoro. Penso a mia figlia, che sarebbe stata a lezione alla scuola De Amicis, che è crollata». Di quella notte ha un ricordo che non cancellerà: «Abbiamo viste le crepe aprirsi nelle mura e siamo scesi giù, io mio marito e mia figlia, insieme con altre centomila persone».

Senza tetto sono rimasti in 67 mila. Per ridare loro rapidamente una casa – e una casa dignitosa, non un container – è stato fatto uno sforzo obiettivamente senza precedenti. Nelle C.A.S.E., che vuol dire Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili, e che sono più note come «le case di Berlusconi», abitano oggi 13.408 persone. Nei M.A.P. (Moduli abitativi provvisori: sono le casette di legno donate dalla Croce Rossa e montate dalla protezione civile di Trento) ce ne stanno altre 4.295. Negli alberghi sulla costa e in altre strutture (caserme) ci sono tuttora 7.332 persone. Poi ce ne sono 15 mila che hanno trovato ospitalità da parenti o amici, in casa o in roulotte. Fate un po’ di conti e vedete che, su 67 mila, solo 27 mila sono già tornati nelle loro case. E’ diventata familiare una nuova classifica: edificio A vuol dire piccoli danni; B e C danni seri con inagibilità temporanea; le case segnate con la E hanno danni strutturali e devono essere abbattute; le case F hanno una «inagibilità indotta»: vuol dire che potrebbero essere abitate ma stanno vicino ad altri edifici a rischio crollo (come dicevamo, è un caso frequente nel centro storico). C’era anche la D, ma segnava i giudizi sospesi: non ce ne sono più.

Nel centro storico è scoppiata la protesta. Prima quella del popolo delle chiavi, che voleva la riapertura della zona rossa. Poi quella del popolo delle carriole, che ha cominciato sua sponte a rimuovere le macerie. Ci si lamenta perché la ricostruzione è ferma. E’ un disagio profondo e reale: ma quanto diffuso? «Siamo passati da qualche migliaio ai 700 rilevati l’ultima volta dalla questura», dice il prefetto Gabrielli. Ma non è questione di numeri: «E’ che come al solito l’Italia si divide in due curve di ultras, c’è chi dice che è stato fatto tutto e chi dice che non è stato fatto niente. Io rivendico il diritto a una via di mezzo e dico: molto è stato fatto, moltissimo resta da fare». Non bisogna snobbare la protesta, dice il prefetto, ma bisogna anche riconoscere che «è stato fatto uno sforzo eccezionale per sistemare al più presto i senza casa». Ma non solo quelli: «E i 1600 ragazzi che sono stati rimessi a scuola entro il 5 ottobre, con la realizzazione di 32 strutture prefabbricate e la messa in sicurezza di 59 edifici lesionati? I signori delle carriole non dicono nulla su questo? Oggi le scuole dell’Aquilano sono fra le più a norma d’Italia: lo sa che prima del terremoto molte non avevano neanche l’impianto elettrico in regola? Anzi, lo sa che molte scuole non risultavano neppure al Catasto? Si vuol far credere che qui, prima del 6 aprile 2009, fosse tutto un paradiso. La verità è che questa zona non deve ri-partire: deve partire, perché per molte cose era già ferma».

Per Gabrielli ci vorranno cinque anni per avere «un ritorno significativo di vita nel centro». Il problema delle macerie è di difficile soluzione perché «non è materiale che si possa tirare su con il caterpillar: c’è di tutto, amianto compreso». Ci sono anche pietre che non possono essere buttate: «L’Aquila è, con Arezzo, la città più vincolata d’Italia; e il quinto centro d’arte del Paese». La ricostruzione deve far marciare insieme il rispetto di questa storia con le norme antisismiche. Ma c’è un’altra ricostruzione ancora più urgente. Il terremoto ha ammazzato un’economia che già aveva qualche problema. Un dato: nel bimestre maggio-giugno del 2008 in provincia dell’Aquila le ore di cassa integrazione furono 800 mila. Nello stesso bimestre maggio-giugno del 2009, cioè subito dopo il terremoto, sono diventate sette milioni e mezzo. E i commercianti, gli artigiani, le partite Iva non hanno neppure la cassa integrazione. Anche per questo, non solo per le macerie, L’Aquila è in ginocchio.

[ 1-continua]

Ritornare a casa: Il fragile sogno degli eterni sfollati

Michele Brambilla – La Stampa, 22 marzo 2010

Mentre stiamo per suonare ai campanelli delle casette antisismiche dove vivono gli sfollati, ci viene in mente una battuta di Eugenio Montale: «Sarei contento se istituissero l’undicesimo comandamento: non seccare il prossimo». Con quale faccia andiamo a chiedere a un terremotato come sta? Eppure gli aquilani confermano nei fatti ciò che si dice di loro: gente fiera e gentile, sa soffrire con dignità e non mette alla porta nessuno.

La signora Marilena Ascaride vive con il marito e i due figli di 13 e 9 anni nell’appartamento numero 7 di Coppito 2. Racconta la sua storia: «Abitavamo qui vicino, nel complesso il Moro delle case Ater, che sono le case popolari dell’Aquila. Era una bella casa, pagavo 500 euro al mese di affitto. Adesso è catalogata con la lettera E: vuol dire che è una delle più danneggiate. Ci hanno mandati in albergo a Tortoreto, i miei genitori sono ancora lì. Noi dal 29 gennaio siamo qui. Com’è? La tv fa vedere che è tutto a posto e tutto bello, ma qui non è bello niente».

Come quasi tutti gli aquilani passa subito al tu: «Che cosa ti devo dire? Qui non pago nulla, ma non si sa fino a quando. Ci sono ancora scosse, quasi tutti i giorni: si sentono tanto perché la casa è fatta apposta per oscillare e non crollare. Per carità di Dio: ho due bagni, gli arredi sono più che dignitosi, c’è perfino il videocitofono. Ma non sono a casa mia. Vedi, il governo e la tv hanno dato un’immagine di efficienza e di rapidità. Ma la gente non la percepisce così. Forse hanno voluto fare troppo in fretta, forse era meglio darci una sistemazione più economica e provvisoria e cominciare a ricostruire le case danneggiate. Chi abitava in centro dovrà restare qui almeno dieci anni». Le chiediamo come campa: «I miei figli vanno a scuola all’Aquila. Io faccio la parrucchiera e avevo un negozio in centro: distrutto. Adesso ho riaperto a Pettino. La gente viene a rifarsi i capelli? Sì, un po’ di vita sta riprendendo. Ma la sicurezza dello stipendio non te la dà più nessuno».

Coppito è una frazione dell’Aquila. C’è un piccolo centro storico. A un paio di chilometri il governo ha realizzato Coppito 2 e Coppito 3, e subito si è ironizzato: «Berlusconi torna agli inizi, quando fece Milano 2 e Milano 3». Siccome in Italia ormai su ogni questione si ragiona per schieramenti, c’è chi ha esaltato queste C.A.S.E. (complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) come un miracolo di san Silvio e chi l’ha buttata in burletta, parlando di casette di Biancaneve e di piazzata propagandistica. A vederle, dentro e fuori, a noi vien da dire semplicemente questo: sono case certamente fatte in fretta e di incerta resistenza nel tempo, ma sicuramente sono infinitamente meglio dei container, delle casette di legno e di tutte le altre sistemazioni solitamente adottate per un dopo terremoto. Sono palazzine di due piani, costruite su piastre sorrette da piloni, diciamo così, «elastici»: come palaffitte insomma, e gli esperti assicurano che resisteranno a qualsiasi scossa. Costruite in diciannove aree diverse, hanno garantito a 13.408 persone di passare un inverno al caldo e senza paure.

Non tutti hanno condiviso: c’è chi pensa che la costruzione di queste case, e la loro consegna-lampo, abbiano portato via troppo tempo e troppe risorse, così da rinviare una ricostruzione che poteva essere già avviata: «Forse si potevano consegnare alloggi più provvisori, forse con più casette di legno e meno case in muratura si poteva velocizzare l’intervento nei centri storici. Ma penso che non si potesse fare altrimenti: dare un tetto è stata considerata un’emergenza prioritaria rispetto alla rimozione delle macerie. E poi queste C.A.S.E. resteranno nel patrimonio del territorio», dice la presidente della provincia Stefania Pezzopane, del Pd. Il disagio non è dovuto alla qualità delle case, che è più che buona, ma ad altro: «L’Aquilano – dice ancora Stefania Pezzopane – ha la caratteristica di essere una terra antica con un forte radicamento della popolazione. Nel momento in cui il terremoto espelle la gente dal territorio in cui vive, si creano problemi di identità. La gente vive accanto a persone che non conosce, si sente sradicata».

«Ringraziando Iddio non ci possiamo lamentare»: è la frase ricorrente fra gli abitanti delle C.A.S.E. Distinguono il dolore dalla lamentela. Soffrono per essere sradicati, ma sono consapevoli che ad altri è andata peggio. «Io sono di centro sinistra – ci dice un pensionato che chiede di non pubblicare il nome – ma devo riconoscere che il governo ha agito meglio di quanto sia stato fatto in passato, con altri terremoti. Poi però ha rallentato. L’impressione è che Berlusconi abbia agito da imprenditore: ha fatto tanto e subito, poi ha un po’ tralasciato».

La nuova casa di Maddalena Colaianni, a Coppito 2, dentro è ancora più bella della prima che abbiamo visto. Per dire: parquet e soffitto in legno. Due stanze: ci vivono quattro persone. Lei, suo fratello e i suoi genitori. Papà è molto malato: «E tremo al pensiero di dover chiamare un’ambulanza di notte: qua attorno non hanno ancora asfaltato. Ringraziando Iddio stiamo bene, però… Per carità, noi ringraziamo il governo. Ma vogliamo tornare a casa. Abbiamo l’impressione che i lavori siano fermi». Sono arrivati qui in un giorno speciale: era il 25 dicembre.

Non ci hanno detto quanto dobbiamo restare. Sappiamo che almeno per diciotto mesi non dobbiamo pagare l’affitto. Le bollette invece sì, ed è giusto». Racconta che nemmeno una tragedia collettiva come un terremoto ferma i disonesti e gli approfittatori: «C’è gente che si è fatta dare la casa e ha cercato di subaffittarla perché aveva un’altra sistemazione propria. Per fortuna li hanno beccati». Brutte storie di una guerra fra poveri. «E’ stato – ci dice Maddalena – un periodo triste».

A poche decine di metri ci sono, ricostruiti a tempo di record, due edifici importanti. Uno è la Curia: la notte del 6 aprile anche il vescovo era rimasto senza tetto. L’altro è un edificio diventato simbolo non solo della tragedia, ma anche dello scandalo delle costruzioni sciagurate: la casa dello studente. L’hanno ricostruita in novanta giorni. Si chiama Residenza Universitaria San Carlo Borromeo perché viene dalla regione Lombardia. Ha 120 posti letto, stanze doppie con bagno, sale studio, pannelli solari e ovviamente è antisismica. Sembra un residence di montagna, in legno chiaro. «E’ stato fatto davvero un lavoro eccellente», dice la signora che gestisce, Roberta Carvelli. E ci pare vero. Questa resterà: non è una soluzione provvisoria. Come invece lo sono le «case di Berlusconi», che probabilmente rimarranno alla storia come il miglior intervento di un governo italiano per far fronte a un’emergenza. Ma la gente che ci vive ha un solo pensiero: tornare a casa. Ci vorrà, crediamo, molto tempo.

(2 – continua)

Paradosso l’Aquila: «Puntellati anche edifici che saranno demoliti»

Jolanda Bufalini – l’Unità, 22 marzo 2010

Il presidente commissario Chiodi alla testa delle carriole è sembrato veramente troppo ai cariolanti che hanno dato vita alla protesta delle macerie, «Non ci piace essere strumentalizzati», dice Giusi Pittari, docente universitaria. L’Aquila, ore 9 e 30, quarta domenica di protesta e di lavoro. Quinta, se si conta la mattina in cui gli sfollati hanno appeso le chiavi delle loro case alle transenne che delimitano la zona rossa. Scope, pale e carriole ma a piazza Duomo sono ancora pochi i “lillipuziani” che hanno deciso di riappropiarsi della città con i loro mezzi antichi e poveri. È presto e, soprattutto, nella confusione del movimento spontaneo, molti erano al Castello, all’altro limite del centro storico: anche dal Castello gli aquilano sono entrati nella zona rossa, per portare nelle loro piazze, insieme ai bambini, fiori e palloncini colorati. Gianni Chiodi invita ad andare nella prima piazza liberata con l’aiuto di esercito e vigili del fuoco. Si forma il corteo ma decide di svoltare a destra, nel cuore più devastato della città: piazza dei nove martiri. È in condizioni disperanti, non ci sono solo macerie, da spalare c’è tanta immondizia e plastica abbandonata. Pranzo in piazza e “spazi aperti”: circa 400 persone si sono divise in dieci gruppi di lavoro.

È la tecnica della “Semi open space technology” per cercare di garantire al movimento partecipazione e capacità di decisione. Non si passa nei vicoli ingombrati dai puntelli e non si entra nei palazzi puntellati fitti fitti. Dentro, imprigionati, rimangono gli oggetti da recuperare, le macerie lasciate lì dalle ditte di demolizione o quelle causate dai crolli. Ci ha fatto i conti Claudio Persio, funzionario dell’università al patrimonio, che da mesi recupera al rettorato, nella facoltà di lettere, in quella di medicina interna a San Sisto, archivi e libri, computer e oggetti. «La vita delle persone è nelle carte», pensa Persio. E con le carte recuperate, per esempio, si è potuta ricostruire la carriera del personale docente e non docente che doveva andare in pensione. Però ci sono posti dove non si riesce a passare «e io, che sono un montanaro del soccorso alpino, ti assicuro che mi muovo bene». Ci ha fatto i conti anche Giuseppe Sordini, restauratore, quando è entrato a palazzo Dragonetti per cercare di recuperare dei mobili su incarico della famiglia.

Quelle prigioni di ferro sono molto costose: il prezzo si calcola a 28-30 euro a nodo e i nodi sono moltissimi, lungo le facciate dei grandi edifici. Ma non sempre sono utili, perché, spiega Antonio Gasbarrini, «hanno puntellato pure edifici da demolire» e possono anche essere «pericolosi- ragiona Alberto Aleandri, imprenditore - perché possono rovinare lo stabile, se sono messi senza criterio». Ci sono paesi, racconta Mauro Zaffiri, «dove si puntellano anche le baracche, perché i sindaci non si assumono la responsabilità di demolire. Ma arrivi al paradosso di puntellare una stalla che vale 5000 euro mentre la puntellatura ne costa 20.000» «Hanno fatto - spiega l’architetto Antonio Perrotti - grandi operazioni specifiche settorializzate: il progetto CASE, le demolizioni, i puntellamenti. Invece, nella ricostruzione si dovrebbe operare in modo congiunto, come è stato fatto in Umbria: liberi il fabbricato dalle macerie all’esterno poi puntelli per poter entrare, valuti la situazione..». E invece? «Invece tutti i sindaci prendono ditte a chiamata diretta, pagano a consuntivo, i controlli sono superficiali, manca il coordinamento tecnico e il progetto lo fa la ditta». Il risultato? «Ci sono troppi nodi e troppi tubi, sono puntellamenti sovradimensionati e, alla fine, temo che costeranno più del progetto CASE».

E anche spuntellare sarà difficoltoso e questa «è un’arma di ricatto che hanno le ditte verso le amministrazioni, poiché la ditta che li ha messi sarà l’unica a sapere dove metter le mani». Le tirantaure, spiega Perotti, «sono messe spesso in modo opinabile e non definitivo, perché è chiaro che se una catena passa attraverso porte e finestre dovrà essere tolta, mentre poteva essere sistemata lungo i muri di spina in modo da poterla lasciare anche dopo». Perotti ha lavorato a San Demetrio nella commissione allargata sulle demolizioni: «Facevamo una valutazione dello stato di consistenza e poi si procedeva a una demolizione mirata. Ora non c’è nessuna valutazione, si appalta tutto a esterni, non c’è una verifica di costi- benefici». Un anno è andato perso per il centro storico dell’Aquila. e anche per gli altri piccoli centri, dalla storia millenaria che fanno da corolla al nucleo principale, da Paganica a Tempera, a Camarda, Pile e tanti altri. Solo dalprimo febbraio si è costituita l’unità di missione che dovrebbe guidare la ricostruzione. Costituita però, solo formalmente, perché dovrebbe essere composta di trenta persone e ce ne sono solo otto, compreso l’autista. È ospite degli uffici della Regione Abruzzo a Roma in un paio di stanze e, già gli otto reclutati, ci stanno stretti. Gaetano Fontana, che guida l’unità di missione, ha presentato le linee guida per la ricostruzione, non ancora ufficializzate. Ma obiettano dal collettivo 99, formato da architetti, ingegneri, sociologi antropologi, «non c’è un’idea se non quella di riparare ciò che è andato distrutto, mentre abbiamo bisogno di progetti che facciano tornare a vivere la città».

Collettivo 99: «Senza un’idea di città i giovani andranno via»

Intervista di Jolanda Bufalini a Marco Morando – l’Unità, 22 marzo 2010

Incontriamo Marco Morante vicino all’Agip, poco distante dallo svincolo autostradale. È così che ci si trova nella città terremotata, non ai portici, come si faceva una volta, nel cuore antico ed elegante del centro. Di fronte c’è ancora un grande spazio verde. Ma per poco perché è già cominciata la costruzione della mensa dei poveri e di una chiesa. Ultimo «gesto muscolare» di Bertolaso in favore della curia. Marco Morante è uno degli animatori del Collettivo 99, giovani architetti, ingegneri, antropologi, sociologi che si sono riuniti subito dopo il terremoto per elaborare proposte che abbiano la forza di dare una prospettiva alla città. «La scelta di costruire qui - dice - è un brutto segno. Non per quello che si costruisce, la mensa dei Celestini, ma perché questo è un punto strategico della città. Di questo era convinto anche il sindaco, qui doveva venire verde pubblico e altri servizi».

C’è un elemento esistenziale importante nell’impegno di questi giovani professionisti: «Abbiamo elaborato delle proposte e le abbiamo inviate al sindaco Cialente, all’architetto Fontana, anche perché o si lavora intorno a delle idee, a un progetto che tutti possano seguire e controllare anno per anno, oppure che senso ha restare a l’Aquila». Resterà, pensa Marco, «solo chi non può far altro». Loro, intanto, del Collettivo 99, hanno messo in piedi collaborazioni con le università e le facoltà di architettura di Parigi, Venezia, Firenze, Cesena, il Politecnico di Milano, Pescara. L’idea è quella di una«riconversione sostenibile, sul piano ambientale, energetico, sociale». L’Aquila, spiega Marco Morante, era, urbanisticamente, un unicum. Il nucleo intorno al Castello era il punto di riferimento per la corana dei piccoli centri. Con il progetto CASE hanno negato questo suo ruolo. Ora si vende a Fintecna e la prospettiva è una Disneyland.

L’Aquila, scontro dopo le accuse del vescovo

Giuseppe Caporale – la Repubblica, 22 marzo 2010

«L’Aquila muore se continua ad essere lasciata sola...». Il grido d’allarme (lanciato ieri dalle colonne di Repubblica) del vescovo ausiliare dell’arcidiocesi dell’Aquila, Giovanni D’Ercole, irrompe nel dibattito sulla ricostruzione post-sisma, proprio nella quinta domenica di protesta del popolo della carriole, e a due settimane dall’anniversario della tragedia del 6 aprile. «Le macerie sono ancora a terra - aveva detto il presule nell’intervista - la gente costretta a vivere lontana dalle loro case è giustamente esasperata: non si può far più finta di niente».

E, ieri, a fargli da eco sono arrivate le dichiarazioni del sindaco delll’Aquila, Massimo Cialente: «Siamo sull’orlo della bancarotta, il governo deve intervenire. La sospensione delle tasse che abbiamo avuto dal primo gennaio al 30 giugno attualmente non ha copertura finanziaria per 463 milioni di euro». Per il deputato abruzzese del Pd Giovanni Lolli «la ricostruzione del centro storico de L’Aquila e degli altri paesi non può essere lasciata nelle mani delle amministrazioni comunali: è un problema dello Stato». Lolli ha ricordato, poi, che il ministro Bondi, rispondendo a una sua interrogazione, ha fatto sapere che «solo per 12 monumenti sono stati raccolti pochi spiccioli, mentre i beni monumentali sono 1.700 nelle zone terremotate. Solo scelte forti da parte dello Stato possono rispondere a problemi come quelli che abbiamo a L’Aquila. In mancanza di queste, continueremo a sentirci abbandonati e a protestare».

Sulle parole di D´Ercole (l’uomo che il Vaticano ha inviato a L’Aquila per affiancare il vescovo locale nella ricostruzione delle chiese distrutte dal sisma) è intervenuto anche il presidente dei senatori Pdl, Maurizio Gasparri. Spostando però l’oggetto della polemica: «Ha ragione il vescovo quando sottolinea la gravità dei ritardi delle amministrazioni locali a L’Aquila. L’ho sentito telefonicamente e ho raccolto il grido di dolore perché, mentre l’intervento nazionale è stato tempestivo ed efficace, le amministrazioni locali appaiono inerti». Per Gasparri, «l’azione dell’esecutivo ha dovuto colmare anche in questi giorni le inefficienze di chi, sul posto, organizza manifestazioni invece di dare un contributo fattivo all’opera di ricostruzione». Dichiarazioni «gravissime, scorrette e ingiuste» le ha subito bollate il sindaco Cialente.

Per il senatore Stefano Pedica, Idv, «il grido lanciato da monsignor D’Ercole coinvolge tutta la società civile italiana, e non può essere ignorato dal mondo politico italiano senza distinzione di colore». A smorzare la polemica è intervenuta la Curia dell’Aquila: «Dispiace - si legge in una nota - che un’intervista rilasciata per mettere in luce l’impegno dei cittadini aquilani, desiderosi di ricostruire la propria città, sia stata presentata come un atto di protesta. Le difficoltà ci sono ma per un pastore quale è monsignor D’Ercole è chiaro come sia prioritario non arrabbiarsi ma promuovere il dialogo e far sì che tutte le forze (cittadini e istituzioni) siano coinvolte per il bene di tutti».

Intanto, piazza Palazzo, zona simbolo del centro storico dell’Aquila, dopo due giorni di lavoro da parte dell’esercito, è stata completamente liberata dalle macerie. Le carriole ieri hanno lavorato in piazza Nove Martiri. Per tutta la giornata i manifestanti hanno lavorato alla rimozione dei detriti, ma non solo. Per festeggiare il primo giorno di primavera migliaia di persone hanno affollato le vie principali della città, colorando strade e piazze con fiori e palloncini.

In Abruzzo “la sostanziale dipendenza delle massime istituzioni tecniche dei Beni Culturali dalla Presidenza del Consiglio, organo eminentemente politico, ha lasciato non pochi strascichi e perplessità”, col “sorprendente disinteresse della Protezione Civile a servirsi della collaborazione di istituzioni e persone altamente qualificate”. Così l’autorevole rivista d’arte tedesca “Kunst Chronic” nel rapporto sull’Aquila e dintorni di due validi studiosi Valentino Pace (Università di Udine) e Andreas Thielemann (Biblioteca Hertziana), con molte schede puntuali. Sono i frutti del ribaltamento - voluto, per ignoranza ed esibizionismo, dal presidente Berlusconi - dei criteri seguiti in Umbria-Marche dove la Protezione Civile si occupò dei soccorsi, mentre per monumenti e centri storici la regìa fu del Ministero: direttore generale Mario Serio, commissari tecnici e Soprintendenze.

Qui, invece, nota “Kunst”, non si è nemmeno risposto alle offerte delle Facoltà di Lettere e di Ingegneria dell’Aquila, e delle Scuole di specializzazione della Sapienza (Beni culturali e Restauro). Rimandati a casa gli “Amici di Cesare Brandi”, in testa Giuseppe Basile gran coordinatore dei restauri in Assisi, e niente tecnici qualificati accanto ai volontari. Per questo le macerie sono ancora lì e la ricostruzione dell’Aquila è ferma. “Gravissima”, notano Pace e Thielemann, “resta la situazione di tutti gli edifici scoperchiati, lo stesso Duomo, S.Maria di Collemaggio e S.Maria Paganica, le cui macerie, già bagnate dalla pioggia e comunque minacciate dai rigori invernali, debbono essere ancora attentamente vagliate”. Insomma, un autentico disastro.

Si può ancora vivere senza Grandi Eventi? La risposta l’ha data ieri sera al Tg5 il grandeventista Bertolaso: no. Egli intende proporre l’Abruzzo terremotato come sede delle Olimpiadi invernali 2018. Dopo il G8, i Giochi della neve. E perché non anche il Nobel, la Champions, il Giubileo, l’ostensione della Sindone e magari l’Expo? Attualmente è destinata a Milano, ma è giusto che vi rimanga solo in caso di terremoti dalle parti di Cinisello Balsamo. Altrimenti meglio spostarla all’Aquila o sul Lambro inquinato, sempre che la Protezione Civile non intenda già farvi disputare le gare di canottaggio delle Olimpiadi estive.

Il Cile dovrebbe affrettarsi a chiedere i prossimi campionati del mondo di calcio e Haiti la sede permanente dell’Onu, prima che la stessa venga trasferita accanto a un inceneritore di Napoli. Nessuno mette in dubbio la bellezza delle montagne abruzzesi. A lasciare esterrefatti è l’ideologia del Grande Evento aspira-soldi come unica soluzione per risolvere i piccoli e grandi disastri della vita. Solo la fiaccola olimpica potrà togliere le macerie dal centro dell’Aquila? Parrebbe di sì. In fondo, quattro anni dopo, i torinesi rimpiangono ancora quei quindici giorni da favola in cui gli autobus arrivavano puntuali e i bar restavano aperti a mezzanotte. Si proceda quindi con il decreto Bertolimpionico. Articolo 1: l’Italia è un Grande Evento permanente. Articolo 2: Balducci e Anemone sono nominati commissari straordinari fino a esaurimento dei fondi.

"Mi sembra - si legge ancora sul cartello - di essere in una clinica. Non vedo l'ora di uscire, di riavere la mia vita". "Noi dentro, le macerie fuori", è lo slogan di Lidia Carlomagno. "Per la prima volta - dice - riusciamo a fare vedere che i cittadini dell'Aquila esistono e alzano la voce. Ci hanno sparpagliato nelle new town e negli hotel al mare. Per undici mesi non abbiamo contato nulla. Gli altri decidevano e noi dovevamo pure ringraziare. Da oggi tutto cambia". Sono davvero tanti, questi nuovi scariolanti, arrivati non per scavare bonifiche ma per portare via le macerie dalle loro case. Carriole che diventano i simboli di protesta, quasi di rivolta contro chi per quasi un anno non ha capito che i terremotati erano prima di tutto cittadini.

Terza domenica in centro, e stavolta i corsi Federico II e Vittorio Emanuele sono pieni come quando l'Aquila non era spezzata e dopo mezzogiorno finiva la Messa grande in Duomo. Nell'unico bar del centro, i Fratelli Nurzia, non si riesce ad entrare. Ci sono i Comitati ma ci sono anche gli aquilani arrivati dalle new town e dagli hotel del mare. "Abbiamo preso una sola macchina - racconta Gianfranco Scaramella, sfollato ad Alba Adriatica - per dividere le spese. Per la prima volta, oggi, ho visto la gente sorridere". Si può sorridere davvero perché non si vedono solo macerie. C'è una doppia catena umana che parte dalla piazza del Duomo e arriva fino a quella del Comune. Da qui partono i secchi pieni e arrivano quelli vuoti, portati da migliaia di mani. In mezzo, come in passerella, le carriole con i rifiuti già separati: legni e tegole, pianelle e carta, lavatrici.

È una catena umana che ricorda il dolore delle prime ore, quando le pietre passavano di mano in mano per liberare i feriti. Tre bambini, Valerio, Gloria e Sofia, hanno portato le carrioline e i secchielli da spiaggia e con le facce serie serie trasportano via due pietre e un sasso. "È la prima volta - dice la loro mamma, Francesca Orzieri - che tornano qui dove sono nati. Noi adesso abitiamo nelle Case di Sant'Antonio, sessanta metri quadrati. Abbiamo un tetto. Punto. Non c'è un bar, un chiosco, un'edicola. Per qualsiasi cosa devi salire sull'auto. Cosa vuol dire non avere il centro? Si immagini Venezia che non è più Venezia ma solo Mestre. E noi che abbiamo le Case per tanti saremmo anche i fortunati. Ma se sei qui vuol dire che la tua casa è distrutta".

"Fuori gli sciacalli / dalla città". "In piazza devo andare / la mia città / devo liberare", gridano i ragazzi del comitato 3.32. Quelli di "Un centro storico da salvare" raccolgono firme (2800 in tre ore) per chiedere una "tassa di scopo" e trovare i soldi necessari per ricostruire l'Aquila. "Non hanno fatto nulla per mesi - dice Eugenio Carlomagno - e adesso si meravigliano della nostra protesta. Abbiamo rifatto i conti: con interventi nei tempi giusti, oggi un 30-40% degli abitanti del centro potrebbe essere tornato a casa. Adesso le imprese si accapigliano per fare i lavori futuri: ci sono ditte piccole che si sono fatte assegnare 36 puntellamenti, tecnici che per le case B e C si sono assicurati 200 progetti. Come faranno a prepararli?".

C'erano solo gli applausi, un tempo, per il presidente del Consiglio e i suoi uomini presenti ad ogni inaugurazione. Ora l'aria sembra cambiata. "Anche chi ha trovato un tetto antisismico - dice Antonietta Centofanti, portavoce del comitato Vittime casa dello studente - non sopporta più che il centro dove c'è la sua casa continui ad essere blindato. E poi ci sono state le telefonate e le risate dei palazzinari. C'è stato uno scatto di orgoglio. Sul sito del Pdl hanno scritto che noi aquilani siamo ingrati e piagnoni perché dopo tutto quello che è stato fatto ci permettiamo di protestare. Noi ringraziamo i volontari e diciamo che - per le cose che ha costruito - lo Stato ha fatto solo il proprio dovere. I nuovi appartamenti non sono "le casette di Berlusconi": sono stati costruiti dallo Stato con i soldi di chi paga le tasse".

Va avanti per ore, la catena umana. In testa tanti hanno un cappello fatto con un giornale, come i muratori, e la scritta: "L'Aquila rinasce dalle sue macerie". "Finora la protesta non era esplosa - racconta Lina Calandra, ricercatrice alla facoltà di Lettere - perché eravamo piegati dai lutti e dalla perdita di lavoro. E poi siamo stati divisi: chi nelle new town, chi mandato al mare, chi alla ricerca di un lavoro in altre province... Ora i nodi vengono al pettine perché anche i più "fortunati", quelli mandati nei nuovi villaggi antisismici, non vedono un bambino giocare fuori con altri bambini, non un anziano parlare con altri anziani".

Ci sono abbracci fra chi non si rivedeva da mesi, c'è la gioia di vedere i bambini correre attorno alla fontana nel pezzo libero di piazza Duomo. "Ci siamo arrabbiati - dice Paolo S. - perché da mesi sentiamo parlare di ricostruzione e invece qui non si è ricostruito nulla. Il centro sta collassando. Sono arrivati tardi alla manifestazione perché via XX Settembre è stata chiusa per pericolo di frana". "Io qui in centro avevo un bar - racconta Monica A. - e voglio riaprirlo proprio lì dov'era. Non voglio un container in periferia. Se ce ne andiamo noi, il nostro centro sarà occupato dagli speculatori". In piazza Duomo due drappi neri annunciano per il Venerdì Santo la "Solenne processione del Cristo morto". In corso Federico ci sono i cartelloni del film: "Gli amici del bar Margherita". Ma il Venerdì Santo è quello di un anno fa, il film era programmato il 6 aprile 2009. A L'Aquila si vive come in una macchina del tempo. Per fortuna ci sono Valerio, Gloria e Sofia che ridono contenti perché hanno rifatto il giro e hanno portato fuori altre due pietre e un sasso.

«Quello che è stato fatto all’Aquila non si era mai visto finora in Italia». Apriti cielo! Raccontano di nasi storti e di occhi roteanti verso l’alto, scandalizzati. Succede se, metti una sera a Milano, in uno di quei salotti con i camerieri indiani e l’antiberlusconismo che si porta bene su tutto, come un blazer blu... Succede se un architetto di fama indiscussa, come Pierluigi Nicolin, 68 anni, professore al Politecnico e con un curriculum che lo ha visto intervenire dopo i terremoti del Belice e di Napoli, butta lì un commento del genere.

Architetto, che cosa si è lasciato scappare?

«Quello che conta è ciò che uno vede, mica altro. E ho detto quanto ho visto. Ero andato là come architetto. Senza nemmeno presentazioni, perché volevo essere autonomo nel giudicare».

Parliamo allora di ciò che lei ha visto fare dagli uomini di Guido Bertolaso.

«Ho visto gente con un perfetto controllo del territorio, ho visto giovani sulla cui professionalità non c’era nulla da eccepire, ho visto l’impegno profuso dalle loro squadre locali, ma anche la solidarietà di quelle provenienti da altre parti d’Italia. Una cosa così non l'avevo mai vista prima. Soprattutto in meno di otto mesi. E ammetto di esserci andato con dei pregiudizi, come mi aspettassi di vedere ben altro».

E invece?

«Ora la periferia dell’Aquila è di gran lunga meglio di com’era prima, e parlo di quelle costruzioni brutte e scadenti che si trovano di norma nelle periferie. Il prodotto della speculazione. Invece, questi nuovi quartieri con le case appoggiate sui sostegni antisismici che nascondo oltretutto anche la bruttura dei parcheggi, mi sono parsi una soluzione interessante. Non mi saranno piaciute tutte, però, suvvia...».

Perdipiù tenendo conto dei tempi.

«Sì, i tempi contano. Ma vorrei ricordare anche la qualità, l’attenzione a cose che non si erano mai viste prima in situazioni simili, come la cura del paesaggio senza però snaturarlo, o le soluzioni di risparmio energetico. Un insieme di autentiche novità che ti fanno dire: qui dietro si vede l’opera di una industria delle costruzioni».

Altri ricordi, quelli di Belice e Napoli?

«Non se ne parla nemmeno, di fare paragoni. Pensi che quando mi avevano mandato in Belice, la gente stava nelle baracche già da dieci anni. E a Napoli è stata una storia ancor più complessa, farraginosa, che insomma... (ride di cuore, ndr) ha incrementato addirittura il debito pubblico italiano, quella roba lì».

L’Aquila e il suo centro. Pensa dovrebbe continuare a esserci un ruolo per la Protezione civile?

«Purtroppo ora il compito della Protezione civile mi sembra finito».

Perché dice purtroppo?

«Perché in Italia c’è una diffusa cultura della conservazione che fa diventare tutto perfezionista e burocratico, rendendo le cose molto sofisticate. Che poi significa complesse e lunghe».

Mentre la sua ricetta per l’Aquila qual è?

«Prima di tutto non bisogna fissarsi sul concetto “com’era e dov’era”. Come da una crisi se ne esce diversi, così anche da un terremoto. Non significa raderla al suolo, ma non si può lavorare in una situazione simile usando i criteri normali della Sovrintendenza. Con questa diffusa ipersensibilità al passato si finisce per rallentare a tal punto le cose che poi, anche una volta fatte, chessò tra vent’anni, la città sarebbe un fantasma. Bisogna fare in fretta o l’Aquila non si riprenderà più. Quindi bisogna affidarsi a persone credibili».

Ce ne sono, in Italia? E chi sono?

«Diciamo che conosco un sacco di persone intelligenti (ride di nuovo, ndr). Peccato che raramente, in Italia, finiscano al posto giusto».

Non le chiedevo di fare i nomi.

«Li farei, se fossi incaricato di farli. L’Italia è piena di architetti, anche se non proprio tutti bravi. Ma di bravi ce n’è. E anche di colti. Peccato che poi il sistema spesso li emargini. È una delle fregature italiane. Perdipiù ricorrente».

Lei si considera di sinistra, oppure...

«Anche questa è una roba tipicamente italiana. Dà la misura di come siamo messi. Perché devo essere filo berlusconiano se dico che una cosa ha funzionato? Sono le rogne dei tempi difficili... Ma siccome sono abituato a far funzionare la testa e a cercare di rimanere lucido, ripeto di non poter negare ciò che ho visto all’Aquila. Mi vergognerei di me stesso».

La chiesa romanica di San Pietro di Coppito è stata in piedi bene o male sette secoli, sfidando i terremoti che hanno più volte devastato la conca dell'Aquila. Fino al 6 aprile 2009. Adesso ti viene incontro sventrata, uno spettro nella città deserta, quasi un "fermo immagine" del sisma. Sbriciolati gli affreschi medievali, il campanile ridotto a un mozzicone, la campana di bronzo schiantata a terra, simbolo di una comunità espropriata della sua anima. Pier Luigi Cervellati gesticola da dietro un cumulo di macerie, in mezzo al sagrato: «Lei non ci crederà, ma questa è una fontana del Quattrocento. Le hanno scaricato addosso quintali di detriti, come una pattumiera. È uno sfregio intollerabile. Ma lo sanno, questi signori, cosa rappresentano per la gente di qui le fontane? Sono la loro identità, insieme alle chiese e alle piazze». Il professor Cervellati, bolognese, architetto e urbanista tra i più autorevoli, è all'Aquila con una delegazione di Italia Nostra, tra cui il segretario generale Antonello Alici e l'ex-presidente Giovanni Losavio, impegnati in una battaglia per il recupero del centro storico del capoluogo abruzzese. Non pretendono vincoli anacronistici, semplicemente che oltre a costruire a tempo di record quartieri satellite con le tecnologie antisismiche più sofisticate si pensi a salvare e far rivivere il cuore antico della città, come chiedono quelli che nella "zona rossa" abitavano e lavoravano fino alla tragica notte del 6 aprile, e che cominciano giustamente a perdere la pazienza.

«Immota manet» dice il motto sullo stemma della città. Più immota di così: da quasi un anno l'Aquila è imbalsamata, con tutte le sue ferite aperte, avviluppata in una ragnatela di ponteggi. E trentottomila aquilani sono ancora senza casa. Camminiamo lungo la via Sassa, tra facciate sbrecciate di palazzi cinquecenteschi e barocchi, cornicioni penduli e bifore pericolanti, facendo lo slalom in mezzo a mucchi di macerie. Non c'è un'anima in giro, a parte qualche vigile del fuoco e qualche operaio al lavoro. Hanno riaperto la sede della Banca d'Italia, il caffè dei fratelli Nurzia (quelli del famoso torrone), un'enoteca in piazza del Duomo. Per il resto, soltanto lucchetti, transenne e saracinesche abbassate. Cervellati allarga le braccia: «Quando ponteggi e puntellature verranno rimossi, le murature crolleranno. E spesso questi interventi sono pure sbagliati, i tubi entrano nelle finestre, non si potranno più fare lavori all'interno. È una forma di accanimento terapeutico dal costo enorme. E adesso, con la fine del regime commissariale, regione ed enti locali devono preparare piani di recupero. Operazioni immani, ci vorranno mesi se non anni per poter riabilitare la città storica. Ammesso che ci si riesca».

Leggiamo sulla guida rapida del Touring, edizione 1975: «L'Aquila, m. 714 ab. 60131, capoluogo di provincia e di regione, sede arcivescovile. Città principale dell'Abruzzo per arte e storia, situata sopra il declivio di un colle sulla sin. dell'Aterno, in un'ampia conca cinta da alte montagne (catene del Gran Sasso e del Velino-Sirente). Conserva la bella impronta medievale... Fondata attorno alla metà del secolo XIII... si arricchì di numerose architetture religiose, che ora caratterizzano il volto della città».

Chiosa Cervellati: «L'Aquila è uno splendido esempio di quella rinascita urbana e religiosa che l'Italia ha vissuto tra il mille e il milleduecento. Una città-territorio, che a quei tempi si identificava nel Comitatus Aquilanus, una forma di insediamento a rete. Non per niente si favoleggia di novantanove castelli, novantanove chiese, le novantanove cannelle della fontana più famosa di qui. Chiesa piazza e strade formano un bene immateriale unitario, le parrocchie sono un punto di riferimento territoriale e della socialità, per credenti e non credenti. E guardi in che stato sono. Scoperchiate, a pezzi, ingombre di pietre e calcinacci. E dopo un anno, nessuno ha ancora neppure cominciato a restaurarle. Hanno fatto vedere in tv il presunto salvataggio della chiesa del Suffragio: l'elicottero che appoggiava delicatamente una cupola in fibra di carbonio. Eccola lì, la vede? Certo ripara dalla pioggia, ma il tamburo che sta sotto è lesionato, non so quanto potrà reggere. Ora io domando: il vescovo ha intenzione di riaprire le chiese? Nel regime del concordato, la manutenzione spetterebbe allo Stato. Ma io ho sentito con le mie orecchie il segretario generale dei Beni culturali dire che il restauro del duomo di Venzone in Friuli, dopo il terremoto del 1976, è un simulacro, una cartolina illustrata. Come la Fenice e il Petruzzelli. Io non credo che lo Stato possa abdicare alla sua funzione di tutela. Non c'è bisogno di manuali di restauro, basta un po' di buon senso. Certo se non si numerano le macerie, se si fa un cocktail di pietre e calcinacci, ricostruire poi sarà una missione impossibile». Le cifre fanno venire i brividi: quattro milioni di tonnellate di pietre e mattoni da rimuovere, che potrebbero presto salire a cinque. «Ci sono fondi pubblici? – si interroga Cervellati –. In che misura possono contribuire i proprietari?

Nell'incertezza nascono leggende metropolitane: è vero o non è vero, per esempio, che l'ignoranza porta a vendere le case antiche e a trasferirsi nelle New Town?».

Intanto, oggi i cittadini del centro storico si preparano a invadere pacificamente – come domenica scorsa – la zona transennata, questa volta armati di carriole e cassonetti per cominciare a rimuovere un po' di detriti. Li guida un redivivo "Comitatus Aquilanus", che si richiama polemicamente ai padri fondatori. Sobillati dai mercanti di voti, in vista delle prossime regionali? Può darsi. Ma poi vai nei paesi distrutti, col sindaco in tuta ginnica alla Bertolaso, e la gente ti avvicina, ti grida in faccia la sua rabbia, e non sono agit prop. Cosa scriveranno sulla guida del Touring del 2015, o del 2075? E dove porteranno i turisti? A visitare le New Town?

Per aiutare Guido Bertolaso, agevolandone l'attività con il controllo dei contratti che il dipartimento della Protezione civile avrebbe sottoscritto in tutta fretta per far fronte alla più grave delle emergenze, Silvio Berlusconi rese pubblica l'ordinanza del 9 aprile 2009 in cui, all'articolo 8 comma 3, si istituiva un super comitato per la verifica dei conti. I conti del terremoto dell'Aquila. Una commissione di garanzia snella (solo tre membri) presieduta da un magistrato della Corte dei Conti.

Perfetto. Fu subito chiamato all'opera il giudice Salvatore Nottola, presidente della sezione Lazio della Corte. Magistrato di lungo corso, esperto e solerte. Nottola ora ricorda: "Fui gratificato da quella nomina e pronto a mettermi al lavoro. Trascorse alcune settimane, feci chiamare il dipartimento della Protezione civile dalla mia segretaria per sapere quando e come organizzarci. Le risposero che l'emergenza era tale da impedire una riflessione in merito". Nottola comprese e attese ancora. "Nessuno mi richiamò e allora, alla fine di luglio, ritelefonai io. Mi spiegarono ancora che la commissione di garanzia non era un'urgenza. Ne ho preso atto, e ho continuato ad attendere".

Il giudice Salvatore Nottola attende ancora di presiedere la prima riunione. La commissione non si è mai nemmeno costituita. Eppure il suo compito sarebbe stato (e tuttora lo sarebbe) decisivo anche perché oggi Bertolaso mette a verbale il proprio grande rammarico: "Sono mancati i controlli. Qualcosa può essermi sfuggito durante lo tsunami della mia vita che è stato l'anno scorso con una somma insostenibile di responsabilità ed emergenze". Tra le cose sfuggitegli al pensiero, per l'appunto, anche la nomina dei revisori dei conti indispensabili per fronteggiare l'enorme flusso di cassa. Controlli necessari per intensificare il sommario e parzialissimo lavoro di monitoraggio che la legislazione ordinaria prevede. I conti del terremoto sono gonfi come una pancia piena di cibo. Si è speso, e tanto. Bene o male? Ecco, ci sarebbe stato bisogno di una super verifica.

Si sa solo invece che dieci mesi di appalti e provvidenze sono costati un miliardo e mezzo di euro. Che questo bel torrente di danaro è servito a rintuzzare la prima emergenza senza poterla ritenere conclusa. Ad oggi seimila aquilani continuano a vivere in albergo con un costo medio pro-capite di 40 euro al giorno; 1.100 sono le persone alloggiate in caserme, 2.400 in appartamenti lungo la costa, 31mila in case in affitto. Solo questa ospitalità, secondo i calcoli che ha fatto l'Espresso, è valsa un mucchietto di quattrini: 220 milioni di euro. Colle che con il prosieguo dell'emergenza sarà agevolmente valicato.

Il Progetto C. a. s. e., gli edifici ecosostenibili e antisismici, è stato ridimensionato e poi nuovamente ampliato in corso d'opera. Pianificato per dare alloggio a 7.181 persone, alla fine aveva destinato le superfici utili solo per 5.565 terremotati, lasciandone fuori 1.616 (abitanti in case distrutte o inutilizzabili). Le C. a. s. e., queste stazioncine di transito, sono costate al metro quadrato 2.700 euro. Una cifra enorme se si considera che chi le abiterà è anche naturalmente assegnatario di un diverso e futuro contributo per la ricostruzione della sua definitiva abitazione. Poi e a parte il costo dei m. a. p., moduli abitativi provvisori (le casette in legno), e poi il resto. Anche nel resto, nel resto dei giganteschi appalti (tutto il ciclo del movimento terra, del cemento, del puntellamento, dell'incatenamento degli edifici pericolanti, delle forniture e dei servizi essenziali) avrebbe dovuto allungare lo sguardo il super comitato di controllo. Che però non è stato convocato. E non ha visto. E perciò - guarda tu ! - non ha controllato.

La promessa, solenne, arrivò lo scorso 3 novembre: “Entro tre mesi avremo mille nuovi posti letto per gli studenti L'Aquila: la metà nella Caserma di Campomizzi, altri 500 nelle casette di legno”. Parola del rettore Ferdinando Di Orio in uscita dalla Conferenza dei servizi sulla residenzialità studentesca che aveva messo a tavolino proprio tutti: Università, regione, comune, Azienda di diritto allo studio e soprattutto l'immancabile Protezione civile. In cassa, i 16 milioni di euro promessi dal ministro Gelmini e tutti i fondi ordinari e straordinari dirottati sull'emergenza.

Ora però il tempo è scaduto, e nella sede dell'Udu, Unione degli Universitari, il bilancio è sconsolato: “In realtà non è successo nulla. Al momento c'è solo una struttura a nostra disposizione, l'ex scuola superiore Reiss. Cioè 211 posti, più altri 80 promessi giusto in questi giorni. Speriamo siano veri, la situazione è pessima. Basti dire che la Reiss non ha nemmeno la mensa. Quelli di lettere fanno i chilometri tra la stanza, le aule, la mensa e ritorno. Si passa la vita ad aspettare l'autobus”. Le iscrizioni per l'anno 2009/10 sono state 23 mila, un calo del 20%. Merito di un polo universitario credibile, e soprattutto del fatto che gli studenti stavolta non pagheranno le tasse.

Ma il risparmio se ne andrà in fumo per tutti quelli che decideranno di prendere casa: circa 8 mila studenti vorrebbero fermarsi in città. “Semplicemente impossibile – spiega Michele Di Biase, dell’Udu – I posti sono pochissimi sia nelle case universitarie che negli appartamenti privati. E chiaramente i prezzi sono schizzati alle stelle. Le camere gestite dall’università vanno esaurite in un attimo, le liste d'attesa sono eterne, e se si cerca casa in giro, anche spostandosi, la singola costa almeno 200-250 euro al mese, mentre un posto in doppia o tripla non viene via per meno di 150 euro. Già a luglio, dopo il G8, avevamo proposto l'unica vera soluzione: aprire la caserma della Guardia di finanza agli studenti: 3.500 posti, una svolta.

Ma lì dentro ci sono ancora gli sfollati, idem alla Campomizzi. Per chi studia non c'è posto”. In realtà ci sarebbe anche la Casa Carlo Borromeo, un prodigio della bioedilizia sorto in soli 87 giorni grazie all'impegno della Regione Lombardia: 6,3 milioni di euro. Fu Roberto Formigoni in persona a inaugurare i 120 posti: legno ovunque e design nordico, ma in questo caso nessuna lista d'assegnazione, nessun criterio stabilito dall'università (reddito, meriti scolastici). La struttura è gestita dalla Curia, che diventerà tra trent'anni proprietaria anche del terreno, reso edificabile a tempo di record. Un’operazione che non ha convinto molti, a partire dalla Corte dei Conti della Lombardia che vorrebbe capire se l'utilizzo di fondi regionali sia un buon investimento vista la cospicua dote finale per la Chiesa (e non per i lombardi). Ma anche l'Adsu, l'Azienda per i diritti degli universitari dell'ateneo abruzzese, ha protestato: perché non lasciar gestire la San Borromeo all'Università anziché ai sacerdoti? Il Tar, presso il quale è stato depositato apposito ricorso, non ha ancora risposto.

Nel frattempo i ragazzi de L’Aquila hanno subìto un’altra doccia fredda: il bando lanciato dall'Università per realizzare una nuova casa da 600 posti, il Casale Calore di Coppito, è saltato. Ritirato a fine gennaio per una serie di errori e incongruenze definite “tecniche”. L'idea era quella del project financing: terreno dell'università, costi di costruzione accollati in gran parte a un privato (15 milioni su 20) cui cedere gli incassi per trent'anni, e poi ritorno dell'immobile ad assetscolastico. Spiega la prorettrice Giusi Pitari: “Purtroppo il bando non era perfetto, cercheremo di riformularlo, ma certo i tempi si allungano. É una risposta che vogliamo dare ai giovani e alla città: L'Aquila deve investire molto di più nello studio, questa risorsa è fondamentale da tutti i punti di vista. Perché non abbiamo ancora un piano per ricostruire la Casa dove sono morti i nostri studenti? Perché il fondo Gelmini non viene impiegato per quello che, simbolicamente e tecnicamente, sarebbe il gesto più importante della ricostruzione? Ora dobbiamo preoccuparci di trovare un letto agli studenti, e sperare che la giustizia possa trovare i responsabili della strage. Mi auguro che il governatore Chiodi sappia finalmente mettere in primo piano questo progetto”. E poi, c'è sempre un campanile che spunta: “I soldi ci sono. Usiamoli subito e bene. La regione ha appena assegnato a Teramo, città di cui Chiodi è stato a lungo sindaco, i soldi necessari a completare la sua casa dello studente. Noi qui non saremo tranquilli finché non vedremo in piedi quella de L’Aquila”.

I fondi? Utilizzare quelli stanziati per il ponte di Messina «opera faraonica e inutile». E' questa la proposta dell'associazione Italia Nostra. La proposta è stata illustrata dalla presidente dell'associazione, Alessandra Mottola Molfino, e dal segretario Antonello Alici che ieri hanno prima visitato il centro storico dell'Aquila e poi nella sede dell'Archivio di Stato a Bazzano hanno incontrato i giornalisti. Secondo Italia Nostra la legge speciale per L'Aquila deve «facilitare il coordinamento degli sforzi di enti pubblici e privati tra i quali soggetti come la Chiesa cattolica e le fondazioni bancarie per la gestione della ricostruzione del post sisma. Non è accettabile un intervento limitato a una banale ricomposizione delle facciate, un rifacimento meramente scenografico del paesaggio urbano con il sacrificio dell'autentica identità urbana».

TUTTO ANCORA FERMO. Per Alessandra Mottola Molfino la vera ricostruzione della città non è stata ancora avviata; la maggioranza degli edifici e monumenti è senza protezione e sono destinati a un degrado irreparabile. Più del 70% dei beni storico-artistici delle chiese sono ancora sotto le macerie e con l'inverno saranno persi irrimediabilmente. C'è poi il rischio di una ennesima speculazione edilizia aggravata dalla prospettiva di ricostruire una città nuova , seppellendo uno dei centri storici pi belli del nostro Paese. Per non parlare poi delle infiltrazioni della malavita organizzata». «Nel centro storico dell'Aquila» dice Italia Nostra «erano concentrate tutte le funzioni pregiate, le istituzioni, circa 800 attività commerciali, lì risiedevano almeno 6 mila studenti. Il terremoto ha prodotto i danni più gravi, determinando il suo totale svuotamento. E dal 6 aprile non si è fatto nulla per riportarlo in vita. Oggi sul centro storico dell'Aquila si lavora nel generale scoordinamento di iniziative e di poteri. Le istituzioni non collaborano tra loro. La parcellizzazione dei molti cantieri privati e pubblici concomitanti ma non coordinati e perfino i lavori di messa in sicurezza possono mettere a rischio altri edifici vicini; inoltre l'entità così estesa e pervasiva dei crolli e dei dissesti può indurre a interventi ulteriormente lesivi dell'identità storica e neppure risolutivi per la sicurezza. Inoltre la fuga verso le New Town fa pagare al centro storico dell'Aquila un prezzo altissimo: la disgregazione della comunità e dei suoi valori immateriali di convivenza secolare».

BANCHE DATI. Per Italia Nostra «le banche dati sui beni artistici dello Stato, della Regione, della Conferenza Episcopale Italiana, delle Università avrebbero dovuto essere condivise da subito, ma così non è stato e così non si è ancora in grado di operare». Una legge speciale è necessaria per «costruire uno strumento normativo che faciliti il coordinamento degli sforzi di enti pubblici e privati, per proporre un accostamento delle competenze legislative e regolamentari proprie di differenti livelli di governo, nazionale e locale. Servirà subito a rimettere in dialogo il Ministero per i beni culturali e il commissario, ma anche gli uffici urbanistica del Comune e della Regione. Una legge speciale può anche proporre condizioni speciali per coloro che sceglieranno di ritornare a vivere e lavorare nel centro storico: incentivi ai giovani e alle istituzioni di ricerca, ai commercianti e ai professionisti, alle aziende capaci di fare dell'Aquila una città dell'innovazione».

Ritorno all'Aquila «Il cuore della città non vada perduto»

«Lassù la vede? E' un’aperutura con distacco, il segno dell'avvenuta rotazione. Potremmo assistere al ribaltamento della facciata, determinato dalla pressione delle volte, che in condizioni dinamiche viene amplificata...» Insomma, Petracca, il palazzo sta venendo giù? «Beh, sì». L'imbarazzo sfiora il dolore fisico nel funzionario dell'Istituto per le tecnologie delle costruzioni (Cnr). Aurelio Petracca vorrebbe recuperare tutto, non solo Collemaggio, invasa dai tubi Innocenti, e le Anime Sante, con quel loro «cappellone» di metallo che incapsula la cupola (crollata) del Valadier. A chi lavora al capezzale dell'Aquila non basta neppure salvare Santa Maria di Paganica, ridotta a una scatola scoperchiata, che persino lo storico dell'arte Germano Boffi, ammette: «non mi stupirei se si decidesse di abbattere quel che non è più recuperabile».

Torniamo nella zona rossa otto mesi dopo quella notte del 6 aprile. Qui, alle 3 e 32, tutto era polvere e crepitio, dolore e paura, eppure nessuno ne parla; è il pudore dei fortunati. Sono morti in 308, più di 1.500 feriti. La scossa è partita otto chilometri sotto i pascoli tra l'Aquila e Roio, Tornimparte e Lucoll. Una frustata di magnitudo 6,3, sessantamila edifici gravemente danneggiati e 48mlla sfollati, otto mesi di lavoro duro, l'afa e il gelo delle tende, le polemiche sulla militarizzazione, quelle sul piano Case (200 edifici provvisti di isolatori antisismici) e sulle casette in legno, infine l'esasperazione per le autorizzazioni-lumaca della ricostruzione leggera, quelle delle case meno danneggiate. Tuttavia, date le proporzioni del disastro, la gestione della crisi è stata da manuale. Napolitano ha parlato di «una pagina all'attivo dell'Italia».

Non si può dire lo stesso del G8. Tante, generose e solenni le promesse dei Grandi; alla fine, però, hanno adottato un monumento colpito dal sisma solo francesi, tedeschi e russi; Zapatero deve aver pensato che dopo la bolla immobiliare non fosse il caso di investire sul Forte spagnolo e persino il governo kazako è stato più generoso di Obama... Insomma, meno male che c'è la solidarietà degli italiani con le loro collette milionarie e meno male che ci sono i vigili del fuoco che si calano dalle gru nelle absidi squarciate per salvare le madonnine di terracotta, i volontari di Legambiente e i funzionari dei beni culturali e della Protezione civile, i tecnici del' Itc-Cnr dell'Aquila, terremotati pure loro ma in campo dal 6 aprile, e quelli della diocesi. Questo «118 storico-artistico» è stato collaudato in Umbria e nelle Marche: è gente capace di progettare su due piedi un puntellamento e di velinare un affresco per portarlo via prima che il muto crolli.

All'interno di santa Maria di Paganica si lavora su tre metri di detriti: «Questo Natale è stato clemente, ma ad ogni gelata i vigili del fuoco ci fanno uscire per i crolli spiegano Massimiliano Cucchiella e Laura Zanotti di Legambiente . Bisogna fare in fretta se si vuole salvare il cuore della città'». A Collemaggio non si è arrivati in tempo e l'organo è andato perduto. Facciamo qualche passo tra i muri imbrigliati in massicce travi di ferro. Palazzo San Nicandro regge grazie alle catene inserite nella muratura dopo il terremoto del 15, mentre il palazzotto a fianco si gonfia in modo sinistro; in gergo, si chiama «spanciamento».

Non è messo bene neppure palazzo Ardinghelli, e non è solo colpa del terremoto. Petracca si raggela di fronte a San Silvestro: «quelle sono crepe nuove». Ci si affida ai tiranti in policarbonato grandi fasce gialle, grigie, blu, secondo la resistenza alla trazione ma un intervento risolutivo costerà almeno mezzo milione. Avanziamo tra macerie e pozzanghere, fino alla torre ottagonale di San Pietro, che si è sbriciolata per colpa di un solaio in calcestruzzo. Ecco i campanili binari di San Marco che hanno sfiorato il collasso. Oltrepassiamo il crocevia del danno per entrare, cautamente, nella chiesa di Santa Margherita: la Madonna dipinta da Saturnino Gatti all'inizio del 500 è ancora lì, nella cappella dove l'hanno collocata dopo il sisma del 1703, sgomberando la chiesa di San Francesco.

Un centinaio tu metri, siamo in pieno struscio aquilano, nel «corridoio» aperto su Piazza Duomo per dare un assaggio di normalità: i passanti pochi e gli sguardi scettici. È aperto solo il caffè Nurzia, gremito dagli altri commercianti, visibilmente spazientiti: «Il mio locale non ha crepe e allora perché io non posso riaprire?» protesta Elio Balestrazzi, uno dei 5 maggiorenti della città. Ai confini della zona rossa, è affollatissimo il Boss, storico locale degli universitari: tra una «tazza» e l'altra (gli abruzzesi chiamano così i bicchieri di vino) ti raccontano che non pagano le tasse ma che le aule sono distanti chilometri e che forse l'anno prossimo si iscriveranno altrove.

Proteste, dubbi ed esodi sono normali in «tempo di guerra»: questa è l'espressione con cui la Protezione civile ci ricorda a ogni piè sospinto che l'emergenza non è finita. A fine gennaio ci sarà il passaggio di consegue tra Bertolaso e il commissario straordinario, il governatore Gianni Chiodi.

Rimuovere le macerie? Può essere un business

Da sempre lo sguardo degli abbruzzesi ama riposarsi sulle dolomie del Como Grande, che dal Miocene rivaleggiano con le marne lasciate lì dall'Adriatico. I calcari del Gran Sasso, poi, quelli sono ovunque: conci bianchi e rosa decorano da secoli le facciate di chiese e palazzi spezzati dal terremoto e la stessa pietra chiara con cui è costruita la fontana delle 99 cannelle dava forma agli antichi castelli. Quanto possano costare i sassi che adesso ostruiscono i vicoli del centro storico, le schegge dei marmi. le lesene spezzate, il pietrame che cola dai muri feriti, gli aquflarii lo sanno dal 1532: con la scusa di punire una rivolta, il viceré di Napoli pretese da loro centomila ducati all'anno, tanti gliene servivano per edili care il forte spagnolo.

Se la storia dell'Aquila è scritta nella pietra, il suo futuro è liberarsene. La rimozione delle macerie dalle vie della città costituisce il presupposto di ogni progetto di ricostruzione. Ed è il business del momento. Lo sa bene Alfredo Moroni, assessore all'ambiente del Comune. Prima del 6 aprile, il suo problema era quello di spedire i rifiuti della città il più lontano possibile. Non erano molti e comunque, per uno dei soliti paradossi della politica, l'Aquila, che è circondata dalle cave, non possedeva una discarica. Ora Moroni sta cercando disperatamente dei depositi temporanei dove dividere pietre da tegole, ferro da plastica, termosifoni da frigoriferi, insomma tutto quel che è venuto giù insieme alle case. Il problema, ovviamente, non riguarda solo l'Aquila: la legge 77 impegna anche gli altri 56 comuni a smaltire analogamente i propri detriti.

Facendo grande attenzione a distinguere tutte quelle pietre che sassi non sono: il rischio che finiscano nei frantoi anche antichi stucchi e preziose terracotte è talmente alto che il Consiglio superiore dei beni culturali ha sentito il bisogno di raccomandare per iscritto «l'asporto controllato delle macerie e il vaglio dei reperti inglobati nei crolli, ricordando che essi col maltempo si compattano». La selezione prima dello smaltimento è imprescindibile perché la legge, in virtù della quale il Comune ne ha acquisito la proprietà e può rimuoverle, prevede che le pietre siano «rifiuti solidi urbani» e che debbano seguire il medesimo percorso che viene utilizzato abitualmente per il ciclo integrato dei rifiuti.

E qui ci imbattiamo nel secondo paradosso: ci sono macerie e macerie. Quelle del palazzo crollato o demolito dal Comune devono attendere che si trovi un deposito» dove «lavorarle», mentre quelle prodotte dalle attività di ristrutturazione, magari effettuate nel palazzo di fianco, rientrano tra i rifiuti speciali e possono essere smaltite tranquillamente. Certo, si deve trovare una discarica a norma e pagare il servizio, ma si tratta pur sempre di costi che lo Stato rimborserà ai proprietari di immobili terremotati e ci dovrebbe contenere il fenomeno dello smaltimento abusivo.

In realtà non è sempre così: « Troviamo ancora molte macerie abbandonate ma sono quelle dei privati che ristrutturano la casa da soli e per i quali abbiamo creato dei punti di conferimento gratuito» annuncia l'assessore, che scommette sull'efficacia dell'operazione e persino sulla sua economicità. «Oltre ad avere un valore ambientale - ci dice - il nostro sforzo va nella direzione del riuso: la normativa prevede che 1130% delle costruzioni sia realizzato con inerti di recupero». In pratica, dopo aver diviso pietre da laterizi, ferro e plastica, dovrebbe essere possibile collocare con profitto questa singolare «produzione». E a questo punto che interviene il terzo paradosso: il terremoto è capitato in una delle regioni italiane in cui il materiale da costruzione costa dimeno. L’Abruzzo è ricco di cave. Quelle dell'Aquilano, poi, sono per il 70% ex usi civici e i comuni impongono ai cavatori canoni irrisori per estrarre il carbonato di calcio, la pietra chiara con cui si costruisce di tutto.

I blocchi crollati dai palazzi dell'Aquila venivano da Poggio Picenze e da Ocre, da Pizzoli e da Montereale. La pietra aquilana, del resto, è rinomata da secoli: il Palazzaccio di Roma deve tutto alle cave di San Pio delle Camere. Ebbene, trovarsi in poche ore con cinque milioni di metri cubi, tante sarebbero le macerie da trattare, non è esattamente una fortuna: « non abbiamo alternative» obietta Moroni, escludendo«il ritombamento delle macerie in modo indiscriminato in cave dismesse». Il riferimento non è casuale: dopo secoli di estrazioni, l'Aquila è una groviera, Resta dunque l'opzione profit oriented anche se il margine di profitto non è chiaro. Un blocco di marmo antico, naturalmente, può essere venduto al 300% del prezzo della pietra vergine, perché la storia è un valore aggiunto, e anche il recupero dei metalli può essere remunerativo, anche se bisogna ricordare che in molte case dell'Aquila si trova ancora il costoso eternit...

Il punto debole dell'operazione è comunque la competitività di un metro cubo di pietra vergine: esce dalla cava aquilana intorno agli 8 euro contro i tradizionali 12 e quindi per avere un mercato, calcolando i costi del trattamento, le macerie riciclate non dovranno superare i 2. La stima è dell'Associazione regionale cavatori abruzzesi, che in questa partita rivestono il duplice molo di concorrenti nella produzione di inerti e di fornitori del servizio di lavorazione. «Malgrado le leggi, solo il 10% delle estrazioni torna sul mercato come materiale di riutilizzo» commenta il loro presidente, Francesco Giannini. Purezza, resistenza, costi, come ci sono macerie e macerie, c'è impianto e impianto; fino ad oggi, l'emergenza e stata gestita riempiendo un deposito di Bazzano, al ritmo di 600 tonnellate al giorno.

Ieri il tavolo ambientale ha deciso di raddoppiare l'impianto, portandolo a una capacità di trattamento di 1,5 milioni di meni cubi annui. Si sarebbe voluto fare di più, ma cinque dei nove siti individuati per creare la rete dei depositi temporanei sono stati sequestrati dai Carabinieri nelle scorse ore a Pizzoli. Da anni venivano usati per smaltire abusivamente i rifiuti e non se ne era accorto nessuno. Saranno pure pietre ma risvegliano interessi enormi. Pare infatti che la rimozione delle macerie di questo terremoto costerà pi di 50 milioni di euro: Quanto ai tempi necessari, basti sapere che Marche ed Umbria, dove il sisma aveva prodotto meno danni e che optarono per smaltire le macerie in discarica, impiegarono pi di dieci anni per risolvere il problema.

Aiuto, qualcuno protegga i nostri soldi da Guido Bertolaso. Ora che la Protezione civile diventa una società per azioni nessuno potrà più chiedere conto al governo su appalti ed eventuali spese allegre. Pochi giorni fa, il 17 dicembre, Gianni Letta ha fatto approvare al Consiglio dei ministri il decreto studiato e voluto dal Guido più amato dagli italiani, e da Silvio Berlusconi, in cambio del ritiro delle sue annunciate dimissioni. Un'altra mossa che toglie di mezzo il Parlamento. Il passaggio chiave è scritto in poche parole: "Il rapporto di lavoro dei dipendenti della società è disciplinato dalle norme di diritto privato".

Scende così un ulteriore velo di riservatezza su forniture, contratti, progetti per centinaia e centinaia di milioni di euro all'anno, e su assunzioni e consulenze, che non dovranno più passare sotto la lente della trasparenza pubblica. Una scorciatoia che unita alle ordinanze di urgenza e ai poteri di emergenza di cui gode la Protezione civile, trasformerà Bertolaso, 60 anni il 20 marzo prossimo, in un vicerè dalle mani d'oro a completo servizio del presidente del Consiglio di turno. Come già succede ora, ma con meno obblighi da rispettare.

La questione non riguarda soltanto la rapidità di intervento dopo terremoti, frane o alluvioni. Prendete il tentativo di Berlusconi, per adesso soltanto rinviato, di scippare il Tfr agli italiani, la liquidazione di milioni di lavoratori dipendenti. Quei soldi il governo li voleva trasferire al fondo Grandi eventi di Palazzo Chigi. Cioè la cassaforte affidata in questi anni proprio a Bertolaso per organizzare summit, party esclusivi, adunate religiose, gare sportive attraverso procedure d'urgenza e poteri straordinari. Da quando nel 2001 diventa capo e indossa la famosa maglietta blu, fior di ingegneri e tecnici vengono dirottati a occuparsi di serate di gala, piscine e trampolini (Roma, mondiali di nuoto 2009), alberghi, aiuole e parcheggi (La Maddalena e L'Aquila, vertice G8 2009), asfaltatura di strade e rotonde (Varese, mondiali di ciclismo 2008). Risorse e professionalità che così non possono essere dedicate a tempo pieno ai veri pericoli naturali che minacciano l'Italia. Negli armadi della Protezione civile in via Ulpiano e in via Vitorchiano a Roma vengono infatti tenute segrete previsioni da paura. Sono le "Proiezioni rischio sismico XXI secolo": in base a quanto è avvenuto negli ultimi 200 anni, è scritto nel rapporto riservato, nei prossimi 90 anni in Italia bisogna aspettarsi tra i 50 mila e i 200 mila morti e feriti per terremoti, con danni tra i 100 e i 200 miliardi di euro.

È fine novembre quando a Palazzo Chigi si studia come inserire nella legge finanziaria il prelievo del Tfr da destinare ai grandi eventi. Proprio in quei giorni a Rivoli, vicino a Torino, si ricorda il primo anniversario dalla morte di Vito Scafidi, 17 anni, lo studente del liceo scientifico Darwin ucciso dal crollo del soffitto della classe, collassato senza nemmeno la spintarella di una scossa sismica. I miliardi del trattamento di fine rapporto potrebbero servire a rendere più sicuri scuole e ospedali. Ma nel governo pensano a tutt'altro. Il primo dei grandi eventi che potrebbe entrare nel calendario della nuova Protezione civile spa è l'Expo 2015 a Milano: dove i ritardi, ormai sospetti, nella progettazione stanno creando le condizioni per la solita ordinanza d'urgenza. Oppure la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2020: con la possibilità di usare le procedure in deroga sugli appalti come grimaldello per scardinare il piano regolatore e, sul modello dei Mondiali di nuoto, costruire centri sportivi e villaggi residenziali nella campagna intorno alla capitale. Altri contratti potrebbero arrivare con il trasferimento del gran premio di Formula 1 a Roma, oltre agli interventi collaterali che accompagneranno le grandi opere considerate strategiche per il futuro, come il ponte sullo Stretto o le centrali nucleari.

Bertolaso ha trasformato la Protezione civile in una macchina per creare consenso. Anche tra gli imprenditori. Basta leggere i bilanci della società privata che dal 2001 in poi ha vinto tutti i principali appalti per l'organizzazione finale dei grandi eventi. È una srl con appena 35 mila euro di capitale. Si chiama Gruppo Triumph e ha sede a Monte Mario a Roma. A capo del gruppo c'è una ex interprete dell'ambasciatore Usa in Vaticano, Maria Criscuolo, 47 anni, ben addentro al potere. Dal centrodestra al centrosinistra. Da Gianni Letta a Walter Veltroni. E anche nella Santa Sede. Maria Criscuolo guadagnava bene già nel 1994, con un fatturato in lire equivalente a 632 mila euro. Spiccioli rispetto a quanto fattura ora: 28 milioni 32 mila 705 euro, secondo i bilanci 2008 delle sue società a responsabilità limitata.

Guido Bertolaso non bada a spese quando c'è da fare bella figura. Per il vertice Nato-Russia del 27 maggio 2002 a Pratica di Mare, alle porte di Roma, la Triumph di Maria Criscuolo incassa dalla Protezione civile 7 milioni 45 mila euro soltanto per le attività connesse all'organizzazione, gli allestimenti, la ristorazione, le fotocopiatrici, gli interpreti. Per preparare i due giorni di incontri, a cui partecipano Vladimir Putin e George Bush, il dipartimento di Bertolaso firma contratti per 36 milioni 284 mila euro. E nel resoconto non mancano cifre curiose. Come i 74 mila euro per il "facchinaggio da Pratica a Castelnuovo e trasporto statue": 69 chilometri al costo di 1.072 euro a chilometro. Oppure il milione di euro per il taglio di prato e siepi, i 662 mila per la "riqualificazione del circolo ufficiali", i 21 mila per la "pedana per giornalisti", i 457 mila per la "consultazione dei notiziari di agenzia", i 42 mila per gli "annunci viabilità", i 17 mila per la stampa di menù e inviti.

Nel settore Maria Criscuolo ha la stessa fama di Michael Schumacher. Continua a vincere. Sono consulenze che pagano bene. Firmano contratti con lei ministri ed ex: Roberto Maroni, Franco Frattini, Antonio Martino, Altero Matteoli, Gianni Alemanno, Rocco Buttiglione, Giuliano Urbani, oltre al presidente dell'Istituto per il commercio estero, l'ambasciatore Umberto Vattani con cui allestisce il G8 di Genova.

Il 7 dicembre 2007 un alto ufficiale delle forze armate che lavora a Palazzo Chigi scrive su due fogli e sigilla in due buste i nomi di chi vincerà l'appalto per l'organizzazione del G8 2009. È una specie di scommessa tra colleghi. Berlusconi è all'opposizione e in quel periodo il presidente del Consiglio, Romano Prodi, vuole portare il vertice alla Maddalena. Bertolaso fa propria l'idea. Anche se la sua nomina viene firmata da Berlusconi il 7 settembre 2001, la sua formazione professionale cresce nel centrosinistra come vicecommissario per il Giubileo del 2000, accanto a Francesco Rutelli, commissario e sindaco di Roma. Ma il suo padrino politico è Giulio Andreotti. Come ripete più volte ai suoi collaboratori, Bertolaso è diventato Bertolaso grazie agli insegnamenti dell'anziano leader democristiano che il capo della Protezione civile chiama pubblicamente "zio Giulio". Un rapporto nato quando Andreotti era presidente del Consiglio e Guido, laureato in medicina, un giovane assistente del suo seguito.

Tra il 2008 e il 2009 la Protezione civile indice le gare e assegna gli appalti per il G8 dell'estate scorsa. Le buste sigillate con le previsioni sui vincitori non hanno nessun valore legale. Ma l'alto ufficiale e i suoi colleghi, che chiedono l'anonimato, indovinano con mesi di anticipo. Il contratto ultramilionario e riservato per il vertice della Maddalena, poi trasferito a L'Aquila, lo vince ancora una volta la Triumph. E dal 23 settembre scorso, sul sito Internet della società già si guarda avanti: "La dottoressa Maria Criscuolo, presidente del Gruppo Triumph", è scritto, "è stata inserita da Eduardo Montefusco, vicepresidente dell'Unione industriali di Roma, nel comitato tecnico di Expo 2015".

Le scommesse a Palazzo Chigi azzeccano anche chi sarà il coordinatore del G8 per la Protezione civile. È Marcello Fiori, 50 anni il mese prossimo, promosso dirigente generale della presidenza del Consiglio con un salto in avanti di diverse posizioni. Fiori ha una laurea in lettere e nessuna esperienza con alluvioni e terremoti. Un passato di portavoce dell'Acea, l'Azienda elettrica di Roma, nel 2007 è segretario generale del ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni. Il suo nome appare il 22 marzo 1999 in una lettera di raccomandazione firmata da Francesco Rutelli, di cui allora è vice capo di gabinetto. Il sindaco-commissario per il Giubileo chiede al segretario generale della presidenza del Consiglio, Paolo De Ioanna, di affidare a Fiori l'incarico "di coordinare le attività nell'azione di lotta al degrado ambientale, ai fini della salvaguardia del decoro nella città di Roma".

Sospinto da Rutelli e Bertolaso, farà strada. Fino ai rifiuti di Napoli. Prima però Fiori diventa responsabile dell'ufficio emergenze della Protezione civile. La notte del 26 dicembre 2004 la sala operativa di via Vitorchiano lo sveglia per avvertirlo del fortissimo terremoto registrato dai sismografi di tutto il mondo e del successivo maremoto. Dove? In Indonesia, rispondono dalla sala operativa. Va bene, buona notte. Qualche ora dopo Gianni Letta, chiamato dal ministero degli Esteri, butta giù dal letto Bertolaso che ancora non sa nulla. La regola prevede che sia il capodipartimento ad informare il governo. Questa volta succede il contrario. Ci sono migliaia di turisti italiani ed europei di cui non si hanno più notizie. Bertolaso vuole fare tutto da solo. Gestisce i soccorsi e i 16 milioni e 156 mila euro raccolti dagli italiani con l'idea degli sms. Snobba perfino il ministro degli Esteri.

Il capo della Protezione civile fa decollare due Canadair del servizio antincendio, Can 23 e Can 24. Sono aerei inadatti alle operazioni di lungo raggio. Non superano i 365 chilometri orari di velocità e le 6 ore di autonomia. Quanto tempo impiegano per arrivare in Sri Lanka lo racconta una scheda sul sito della presidenza del Consiglio: "Partiti dall'Italia il 31 dicembre e arrivati a destinazione dopo quattro giorni di volo". L'aereo è progettato per scaricare acqua. Non ha spazio per trasportare materiali. Così a ogni missione vengono recapitate soltanto 6 tende. Alla fine i piloti accumulano 452 ore di volo di cui 59 ore per distribuire soltanto 250 tende. Al costo di esercizio di un Canadair: 14 mila euro l'ora.

Guido Bertolaso non parla mai più del dovuto. Quando davanti al consiglio comunale della Maddalena un rappresentante del Pdl critica i metodi di affidamento degli appalti, lui lo interrompe: "Lei è pregato di misurare le parole... Io posso anche fare direttamente degli esposti alle autorità competenti, per le affermazioni ingiuriose nei confronti di un rappresentante del governo. Sia ben chiaro". Così nemmeno in quell'occasione il capo spiega perché la Protezione civile abbia invitato alle gare per il G8 e per i mondiali di nuoto proprio la famiglia di un imprenditore, Diego Anemone, 38 anni, in società con Filippo Balducci, 30 anni, figlio di Angelo: cioè il soggetto attuatore degli appalti che dal 2003, dall'emergenza Gran Sasso, al 2008 fa coppia fissa con Bertolaso nell'applicazione delle ordinanze di urgenza.

La sua Protezione civile si occupa nel frattempo della canonizzazione di padre Pio (2002), di quella del fondatore dell'Opus Dei, Josemarìa Escrivà de Balaguer (2002), dell'incontro nazionale di Azione cattolica a Loreto con il papa (2004), dei funerali del papa (2005), della regata Vuitton Cup a Trapani (2007), dell'incontro a Loreto con il nuovo papa (2007), dei mondiali di ciclismo a Varese (2008), dei Giochi del Mediterraneo a Pescara (2009) e del 150 anniversario dell'Unità d'Italia (da celebrare fino al 2011). Tra feste e raduni, nonostante l'Abruzzo sia tra i territori più aggiornati nel censimento degli edifici pubblici a rischio sismico, il protocollo di prevenzione tra Regione e Protezione civile viene lasciato scadere (2008). E il 6 aprile a L'Aquila abbiamo visto come è andata a finire.

Meglio affidare la prevenzione delle catastrofi ai collaboratori esterni? Sembra di sì: infatti sono passati dai 113 del 2008 ai 199 di quest'anno. Quasi il doppio. Un po' per la ricostruzione a L'Aquila, un po' per le voci che prevedono un'infornata di trecento assunzioni nella nuova Protezione civile servizi spa. Ma anche loro devono dividersi. Come Flaminia Lais, messa per metà del tempo a lavorare sulle frane del 2007 in provincia di Messina e l'altra metà sui grandi eventi. Nel 2008 l'emergenza messinese può contare anche su Gilda Miele, Fabrizia Spirito e Maria Anna Tortora. Quattro donne, 24 mila euro a testa Quest'anno i collaboratori per Messina e provincia salgono a quota sette. Cinque però hanno il compito di "far fronte ai problemi del traffico". Gli altri due possono dedicarsi agli "eccezionali eventi atmosferici" del 2007: nessuno però verifica che l'allerta meteo dell'ottobre 2009 nella stessa zona sia tradotta in uno sgombero preventivo di Giampilieri, Scaletta Zanclea e Altolia. Sei mesi dopo l'allarme mancato in Abruzzo, altri trentasei morti. E questo è nulla rispetto agli scenari custoditi negli armadi del dipartimento.

Esistono modelli in grado di stabilire il numero delle vittime di un terremoto, in base al materiale e all'anno di costruzione di case, uffici, scuole e ospedali. Se oggi si ripetesse il sisma di Avezzano del 1915, i morti e i feriti sarebbero 22.448. Gli sfollati 385.784. E i danni supererebbero i 20 miliardi. Nel caso di un terremoto e un maremoto a Messina come nel 1908, ci sarebbero 112.312 morti e feriti, 399.675 senzatetto, 25 miliardi di danni. Con onde che distruggerebbero il porto ed entrerebbero nella città per 350 metri. Sulle pagine di questi rapporti riservati, una piccola nota spiega che il danno economico è stato calcolato in base a un costo di ricostruzione di 820 euro al metro quadro. Per gli alberghi del G8 mancato alla Maddalena, gli uomini di Guido Bertolaso hanno invece autorizzato costi di costruzione di 4.345 euro al metro quadro. Ecco la differenza tra una e l'altra Protezione civile.

Titolo originale: An Italian City Shaken to Its Cultural Core – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Le città impiegano secoli a crescere, ma possono morire in un batter d’occhio.

Dopo il terremoto che in aprile ha fatto centinaia di vittime e lasciato decine di migliaia di persone senza casa, dentro e attorno il nucleo medievale e barocco di questo centro un centinaio di chilometri a est di Roma, è stata straordinaria la reazione di emergenza. Soro accorsi volontari da tutta Italia in aiuto. Installati rapidamente villaggi di tende fuori dalla zona a rischio. Organizzati concerti per dare speranza e idea di continuità, e presto gli operai iniziavano a costruire decine di complessi abitativi fuori dalla città.

Ma oggi, poco prima della scadenza di gennaio in cui il governo regionale il ministero italiano delle cultura si apprestano a rilevare l’impegno della ricostruzione dall’organismo di emergenza, pare in gioco il futuro sui tempi lunghi di L’Aquila. Mancanza di fondi, volontà politica, buon senso architettonico, controllo internazionale — oltre all’inclinazione tutta italiana per un modo di pensare un po’ irrazionale — minacciano di portare a termine il lavoro iniziato dal terremoto.

Non sarebbe neppure il primo caso di una città italiana che non è riuscita a riprendersi da un terremoto. Dopo quello che ha colpito la Sicilia negli anni ‘60, I nuclei storici sono stati abbandonati, lasciando traccia solo nei nomi di fabbricati provvisori pensati come case di breve periodo, ma poi diventate permanenti a causa di negligenze e abbandono. A L’Aquila dovrebbe andare meglio. Si sta provando a salvare i circa 110.000 fra monumenti e operi d’arte che secondo il ministero sono stati colpiti complessivamente dal terremoto.

Ma I responsabili giudicano che ci vorranno 10-15 anni per far tornare alla normalità il centro storico, qualunque cosa possa significare, e tutti i lavori di ricostruzione compresi quelli per le abitazioni private dovranno ottenere il nulla osta dal ministero, un percorso difficile.

Prima del terremoto erano 10.000 le persone che abitavano nel centro, e altre 60.000 fuori. Se passano dieci anni, chi risiedeva nel centro e ne è stato fatto uscire forse non potrà o non vorrà tornare a L’Aquila, e le abitazioni realizzate nelle zone industriali circostanti — sinora sono stati terminati 150 edifici di ferro, legno e cemento — potrebbero aver trasformato l’area sino a renderla irriconoscibile. Bella città medievale in precario equilibrio col barocco (e anche in precario equilibrio più in generale come ha dimostrato l’effetto del terremoto), L’Aquila era anche un nodo commerciale e culturale, centro universitario. Nel giro di pochi anni, se il centro non riprenderà a vivere, potrebbe trasformarsi in poco più di un’attrazione turistica di secondo piano circondata da un indistinto sprawl.

Qualunque tipo di ripresa, in particolare una ripresa rapida, richiede miliardi di euro (almeno una decina, secondo varie stime) che devono essere stanziati in gran parte dal Parlamento italiano. Ma neppure una piccola accisa per la ricostruzione richiesta dal sindaco di L’Aquila e sostenuta da alcuni uomini di cultura, ha avuto seguito. In un paese dove i soldi sono un problema, distratto dalle polemiche da rotocalco sul suo primo ministro, i buoni risultati della fase di emergenza paradossalmente sono riusciti a diffondere l’impressione che a L’Aquila non serve più urgentemente aiuto. Per usare le parole della collaboratrice del sindaco Massimo Cialente, Michela Santoro: “Il messaggio sui media è Va tutto bene. Il che è molto lontano dalla verità”

Cialente, per quanto lo riguarda, si dà molto da fare con giornalisti e telecamere che vanno e vengono dal suo ufficio improvvisato in una ex scuola alla periferia della città, per trasmettere il medesimo desolato messaggio.

“Se non si ricostruisce in modo adeguato” — ovvero, dal suo punto di vista, rimettendo tutto com’era prima, salvo interventi antisismici — “sarà una vergogna per l’intero paese. Avremo una seconda Pompei”.

Una lamentela caratteristica. Spesso gli italiani ritengono di dover ripristinare il passato o finirne relegati. Difficile immaginare alternative.

Roberta Pilloli lavora per il Conservatorio dell’Aquila. Dopo il terremoto aiutò a trasportare I grandi pianoforti del Conservatorio fuori dalle macerie. Gli Aquilani sono fieri della loro forza.

L’altro pomeriggio, in felpa e scarpe da ginnastica stava preparando l’apertura ufficiale, questa settimana, della nuova sede della scuola, un edificio di vetro e metallo da 8 milioni di dollari in un agglomerato oltre il centro, costruito in poco più di un mese.

“Voglio che la mia casa torni esattamente come era”, ci ha detto la signora Pilloli. Stava parlando della sua piccola villetta costruita prima della guerra nel centro città, dove la sua famiglia ha vissuto per generazioni – non un tesoro architettonico, ma non è questo il punto. “E’ la mia identità”, ha aggiunto. “Adesso L’Aquila è morta e si stanno occupando solo di chiese e monumenti, ma non delle nostre case. Ma la città nel suo complesso era un monumento.”

Riguardo ai nuovi edifici di appartamenti costruiti dal governo, che sono simili al nuovo Conservatorio, Aldo Benedetti, professore di architettura a l’Aquila, ha dichiarato: “Non hanno un contesto, nessuna idea architettonica, soltanto il senso di baraccamenti militari, buttati da qualche parte”.

Pier Luigi Cervellati, professore di urbanistica a Venezia, va oltre. Ci ha detto che la ricostruzione dovrebbe concentrarsi nel far tornare i residenti nel centro più rapidamente, non sulla costruzione di abitazioni alternative, o sulle chiese e i monumenti o i centri commerciali. “Un centro che è lasciato vuoto per anni, muore”, ci ha detto “Queste nuove case che stanno costruendo nei sobborghi sono costosissime e non restituiscono senso urbano. Sono come i terminal di un aeroporto. Non hanno anima. Il rischio è che il centro divenga un non-luogo”.

Coloro che abitano nei nuovi appartamenti, in un primo tempo grati di aver un posto qualsiasi, stanno già lamentandosi per la mancanza di spazi, negozi, campi sportivi e ogni altro luogo di aggregazione sociale.

Non ci vuol molto perchè dopo un disastro come questo la gratitudine ceda il posto all’impazienza e alla sfiducia. Voci di corruzione e tangenti stanno naturalmente ingrossandosi. Il Conservatorio è costato circa tre volte più dei previsti 3 milioni di dollari del conservatorio con sala concerti proposto da Shigeru Ban, il famoso architetto giapponese. Gli Aquilani come il professor Benedetti, si stanno chiedendo perchè.

Quale è la soluzione? Anche mentre le bombe stavano cadendo su Londra, durante il blitz del 1940, gli urbanisti inglesi immaginavano visioni di una nuova Londra postbellica. Le calamità diventano un’opportunità per sognare. In assenza di una forte guida di indirizzo, di regole urbanistiche severe o di assemblee cittadine dove i cittadini possano lottare con forza per il futuro de L’Aquila, rimane solo il senso crescente che l’opportunità si sta squagliando. Ma l’opportunità esiste ancora, forse ricollegando assieme la nuova architettura con l’antica, come si fece all’Aquila dopo il terremoto del 1703, quando la città divenne quella famosa del Barocco che ora tutti vogliono preservare come se fosse sempre stata così.

Non come città perfetta, ma reale, viva, L’Aquila potrebbe ancora diventare un modello per un nuovo tipo di centro storico del 21° secolo in Italia.

Ma il tempo sta scorrendo inesorabilmente. Recentemente, mentre visitavo la Chiesa parrocchiale di Santa Maria Paganica, in rovina, dove il tetto è crollato e una surreale montagna di macerie sta crescendo all’interno, addosso ai finestroni , mi sono imbattuto in un archeologo del ministero dei beni culturali che stava catalogando ogni frammento e che ha perso mezz’ora in mezzo al freddo polare e alla neve per discutere con Michelangelo Saporito, un vigile del fuoco che lavora per la protezione civile. Il signor Saporito, è venuto dalla Sicilia in maggio, cinque giorni dopo la nascita del suo secondo figlio: voleva aiutare. Quella mattina stava mostrando la chiesa ad un visitatore, come aveva già fatto parecchie volte quel giorno con altri visitatori, ma aveva dimenticato di portare il consueto tagliando del permesso.

La burocrazia e le priorità sbagliate hanno affondato il progresso. Sembra una metafora.

Il signor Saporito ci ha detto sospirando: “Ecco il problema”.

[alla redazione dell’articolo ha contribuito Gaia Pianigiani]

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