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L'AQUILA - Nuovi impianti da sci, alberghi, residence, piscine e campi da golf in una delle più vaste e preziose aree naturalistiche protette d'Europa. Il governo e un'ampia pattuglia di sindaci bipartisan della provincia dell'Aquila sono convinti che sia questa la strada migliore per risollevare l'economia delle aree colpite dal terremoto dell'aprile 2009 e lo hanno messo nero su bianco nel Protocollo d'intesa1siglato a Palazzo Chigi lo scorso febbraio. Un testo contestatissimo sul quale i lettori ci hanno chiesto attraverso il sondaggio suRepubblica.it di svolgere un'inchiesta. Il documento promosso dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, otto pagine in tutto, come è ormai abitudine, è poco più di un lungo elenco di cose che si vorrebbero fare, ma non contiene impegni precisi, scadenze e - soprattutto - riferimenti a come reperire i fondi necessari.

I tre progetti più temuti.

Tanto è bastato però a far coalizzare un vasto movimento di opposizione messo in allarme da quelli che il consigliere regionale di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo definisce "progetti che, ignorando i vincoli ambientali, incidono irreparabilmente sulle ricchezze ecologiche delle aree di maggior pregio ambientale della Regione". Tra le opere suggerite dal Protocollo quelle che suscitano l'allarme maggiore sono tre. La prima è la costruzione di sei o sette nuovi impianti di risalita in grado di collegare il comprensorio sciistico di Campo Felice a quello di Ovindoli. La seconda è la costruzione, alle porte del Parco nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga, di una "cittadella della montagna" da oltre mille posti letto per ospitare a Fonte Cerreto i turisti richiamati dalla realizzazione di nuovi collegamenti tra Montecristo, Campo Imperatore e la Scindarella. La terza, infine, è la creazione di campi da golf ai Piani di Pezza, in pieno Parco regionale del Velino-Sirente.

Il precedente.

Progetti che Wwf, Lipu, Cgil, Rifondazione, Sel e una manciata di altre associazioni civiche e ambientaliste abruzzesi sono convinti non abbiano alcuna necessità e possibilità di essere realizzate. "Ci hanno già provato anni fa sul Monte Greco, per collegare Roccaraso con Barrea passando da una zona di ripopolamento dell'orso, un Sic, un sito di interesse comunitario, ma gli abbiamo fatto saltare una speculazione da oltre 80 milioni di euro", racconta Antonio Perrotti, uno degli instancabili animatori della protesta.

"Pentitismo" bipartisan.

Il problema è piuttosto più vasto e riguarda quello che Perrotti chiama "il pentitismo" al quale sarebbe in preda il ceto politico abruzzese. "Nel Pdl come nel Pd c'è una spinta fortissima - spiega - a rivedere il vecchio piano paesistico che ha garantito sino ad oggi la tutela del territorio, facendo dell'Abruzzo la regione dei parchi naturali". Il corollario è che a confrontarsi sono due differenti visioni dello sviluppo e quindi del futuro. L'accusa più forte al Protocollo Letta è proprio quella di aver ritirato fuori vecchi progetti di cementificazione rimasti bloccati da oltre 30 anni nei cassetti. "Sotto l'ombrello del Protocollo e dietro l'emergenza del sisma - denuncia Dante Caserta del Wwf - si vuole far passare una miriade di piccole micro opere ferme da tempo, legate a un modello fallimentare che non è più proponibile". "Ma ormai - denuncia ancora Perrotti - tra Ici sulle seconde case, oneri di urbanizzazione e tassa sui rifiuti, i comuni riescono a fare cassa solo con l'edilizia".

Ambiente o lavoro?

"Ma non si sono accorti - ironizza sempre Perrotti - che in tutto il mondo la gente è scesa in piazza per dire basta a questa malattia della crescita ad ogni costo? Che le persone cercano altro, che l'unico sviluppo possibile passa per una microimprenditorialità diffusa che valorizzi il territorio, che bisogna puntare sui sentieri, i percorsi da mountain bike, le gite a cavallo, i prodotti tipici...". E se questo è un tema su cui di solito ambientalisti e sindacati si sono trovati su fronti opposti, stavolta in Abruzzo le cose stanno diversamente. I contenuti del Protocollo, accusa Mimì D'Aurora della Cgil, sembrano "configurare un consapevole abbandono del progetto strategico che faceva del sistema dei parchi abruzzesi un volano di sviluppo regionale" grazie anche al contributo dato negli anni '80 dal sindacato "raccogliendo ben 30 mila firme per l'istituzione del Parco nazionale del Gran Sasso, vincendo l'idea del conflitto perenne tra ambiente e lavoro".

L'ira del sindaco.

Ma che questo conflitto esista eccome ne è convinto Massimo Cialente, sindaco Pd dell'Aquila. "Purtroppo il Protocollo Letta è completamente bloccato. Il potenziamento degli impianti del Gran Sasso - dice - se avessi i soldi lo metterei in appalto già la prossima settimana. E' inserito in un Piano d'Area approvato da anni con il consenso dell'Ente parco. Il Gran Sasso dopo il terremoto è rimasto la nostra unica risorsa e le nuove funivie sono indispensabili per rilanciare il turismo. Chi si oppone lo fa per ragioni ideologiche. Questi che protestano sono dei garantiti, degli eco-chic che poi vanno a sciare sulle Dolomiti. A guardare gli uccellini ci puoi stare un giorno, poi la gente si stufa e io gli devo offrire dove dormire e qualcosa da fare. Ora vengono solo i romani con il panino da casa, usano i bagni e ci lasciano i rifiuti da smaltire. L'Abruzzo nel 2009 era al 17esimo posto nella classifica regionale delle preferenze dei turisti, ma di che cosa parlano allora questi signori?".

Gli alberghi chiedono infrastrutture.

Lo sfogo del sindaco è lo stesso degli albergatori. "Bisogna mettere in cantiere infrastrutture, creare attrattive: esercizi, piscine, centri benessere, campi sportivi, piste da pattinaggio. Ora nella zona del Gran Sasso non c'è neppure un tabaccaio, gli ambientalisti bloccano tutto e a noi resta solo il turismo mordi e fuggi. Noi non vogliamo annullare le aree protette, ma servono delle aperture", dice la vicepresidente di Federalberghi L'Aquila, Mara Quaianni. "Unire le zone attorno a Campo Imperatore, con i nuovi collegamenti e piste poste a quote diverse, permetterebbe di rendere il turismo più flessibile anche davanti all'insidia dei repentini cambiamenti del meteo - aggiunge il direttore degli impianti Marco Cordeschi - e se è vero che lo sci non basta, il suo effetto traino rimane indispensabile".

Una società in rosso.

Chi si batte contro il Protocollo resta però convinto che l'idea di fare del Gran Sasso un'alternativa da offrire ai patiti della neve di Roma e Napoli sia una follia, non solo per via dell'innevamento sporadico a capriccioso, ma anche alla luce dei dati nazionali 3 che registrano il turismo di montagna in lento ma chiaro declino. "Ma chi vuoi conquistare con qualche nuova pista da pochi metri di dislivello da percorrere in pochi secondi a fronte di lunghe attese per risalire?", lamenta ancora Perrotti.Una cosa è però certa. La situazione così come è ora non può andare avanti a lungo. Il Centro turistico del Gran Sasso, la municipalizzata del Comune dell'Aquila che grazie a una trentina di dipendenti gestisce gli impianti è in profondo rosso. Ogni anno le perdite (interamente di denaro pubblico) oscillano tra i 200 e i 300 mila euro e il passivo accumulato è arrivato ormai attorno ai 10 milioni. Attualmente vengono staccati più o meno 70 mila biglietti l'anno per circa 630 mila euro di incasso, ma solo per pareggiare le uscite (senza contare i soldi necessari a investire in migliorie) queste cifre dovrebbero raddoppiare.

Tornerete presto nelle vostre case. Non pagherete tasse. La ricostruzione sarà veloce. Trasparenza assoluta nella gestione. Vareremo incentivi ed esenzioni fiscali per attirare investimenti delle imprese. Tra impegni solenni e chiacchiere a vuoto, per due anni il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sul terremoto de L'Aquila del 6 aprile 2009 ha spesso straparlato, dando quasi i numeri. E, numeri per numeri, ecco quelli che più degli altri documentano le sue false promesse, gli impegni assunti con gli aquilani e non mantenuti, il fallimento del modello di ricostruzione imposto alla città.

37.731 Sono gli sfollati che ancora attendono di rientrare nella propria casa. Troppi, dopo due anni. Di essi, 13.856 sono alloggiati nei 185 edifici del Progetto Case, i Complessi asismici ed ecocompatibili, dislocati in 19 aree intorno alla città; 7.099 sono sistemati nei Map, Moduli abitativi provvisori, sparsi nelle 21 frazioni dell'Aquila e degli altri Comuni del cratere; 844 utilizzano abitazioni acquistate dal Fondo immobiliare Aquila e concesse in affitto; 1.126 godono degli affitti concordati con la Protezione civile in tutte le località danneggiate dal sisma; 62 si trovano in altre strutture comunali. Ci sono poi 13.416 persone che beneficiano del contributo di autonoma sistemazione (600 euro mensili per ogni nucleo familiare), 1.077 sfollati ospitati in diverse strutture ricettive in Abruzzo e fuori e 251 persone alloggiate in caserme.

3.401.000.000 È quanto è stato speso sinora per il terremoto, tra emergenza, assistenza alla popolazione e primi lavori di ricostruzione. Una cifra colossale, anche se il ritorno alla normalità appare lontanissimo. Con un'ombra pesante sulla trasparenza dell'operazione: "Berlusconi aveva promesso massima informazione", denuncia il senatore democratico Giovanni Legnini, "ma nonostante una legge lo preveda, in Parlamento stiamo ancora aspettando il rendiconto del governo sulla gestione dell'emergenza".

4.000.000 Sono le tonnellate di macerie prodotte dai crolli. Il problema è che vengono smaltite al ritmo di 300 tonnellate al giorno. Si continuasse così ci vorranno 444 mesi, oltre 36 anni per liberarsene. Un disastro, lasciato in eredità dalla Protezione civile di Bertolaso che ha lasciato la città un anno fa senza mettere mano al problema.

90.000.000 Si tratta dello stanziamento per l'istituzione di una zona franca per l'Aquila che attraverso facilitazioni fiscali e altri incentivi avrebbe dovuto invogliare imprenditori italiani e stranieri ad investire nel territorio devastato dal sisma. L'allora presidente della provincia Stefania Pezzopane e il sindaco dell'Aquila Massimo Cialente la proposero a Berlusconi e Gianni Letta l'8 aprile 2009, due giorni dopo il terremoto. Il Cavaliere si impegnò solennemente, ma due anni sono passati e la zona franca nessuna l'ha vista, mentre il tasso di disoccupazione a l'Aquila e dintorni continua a salire secondo alcune rilevazione oltre l'11 per cento.

1.200.000.000 Sono le tasse arretrate che gli aquilani devono al fisco. Berlusconi aveva lasciato sperare in una totale esenzione. Poi si è capito che era una semplice sospensione. Solo che è durata fino a giugno 2010, tre mesi in meno del periodo concesso ai terremotati dell'Umbria. E non basta: dopo avere ripreso a pagare dal luglio scorso le tasse correnti, gli aquilani hanno appurato che la restituzione degli arretrati dovrà avvenire in 5 anni e per il 100 per cento degli importi, mentre Umbria e Marche hanno cominciato a saldare le imposte sospese dopo 12 anni e solo per il 40 per cento del dovuto.

13.000 Sono i cantieri per le case E, le più danneggiate, che devono ancora partire sia nel centro storico che nel resto della città. Il ritardo è dovuto alla mancanza del prezzario delle opere e delle procedure per il finanziamento delle stesse, strumenti indispensabili che il commissario straordinario, il presidente della Regione Gianni Chiodi, è riuscito a varare solo alla fine di marzo. Un intoppo che sta rimandando alle calende greche il ritorno alla normalità. "Colpa anche della scelta della ricostruzione leggera voluta da Berlusconi", spiega Stefania Pezzopane, "che ha lasciato per ultimo il disastrato centro storico".

E meno male che c'è il calendario. Lì, almeno, il tempo che scorre ci segnala le date, le ricorrenze, gli anniversari, ci richiama al dovere della memoria ed anche a quello dell'impegno. Il caso dell'Aquila e del terremoto che l'ha sbriciolata due anni fa è esemplare. Ci impone di tornare con lo sguardo su quella terribile ferita aperta e mai rimarginata. Il centro storico dell'Aquila, due anni dopo, è immoto: del suo passato si rivedono intatte, come apparvero all'alba del aprile 2009, solo macerie; nel suo futuro dilaga un deserto di impegni disattesi, di promesse non mantenute, di progetti lasciati sulla carta e di sogni di rinascita raggelati da una lunga stagione di inadempienze. Un terremoto (in questo caso, ricordate? 308 morti e 1.600 feriti) per sua stessa natura travolge, distrugge, azzera. Si porta via cose e case e con queste, affetti, ricordi, strumenti di vita e di sopravvivenza. Si può inveire contro la malasorte ma anche contro la poca previdenza, la micragnosa miopia delle istituzioni, il vezzo di affidarsi sempre allo stellone che tutto protegge, là dove il rischio sismico si sapeva altissimo e dove, nel costruire, non se ne era tenuto affatto conto. O come nel caso della casa dello studente, un concentrato di dolore e di morte, di giovani vite spezzate per l'insipienza e per biechi interessi di risparmio sui materiali. O come ad Onna, rasa al suolo due volte nella sua tragica storia, prima dai nazisti in ritirata e poi dalle scosse. Rivisitati oggi quei luoghi, attirati dal dovere imposto dalla ricorrenza, constatiamo che la composta sopportazione degli abruzzesi e degli aquilani, i più colpiti, ci aveva commossi nel profondo. Era una dimostrazione palpabile di una dignità che la magnitudo non era riuscita a scalfire. Ma poi il fronte della ricostruzione, esauriti i lampi mediatici dell'emergenza delle prime settimane, ha sparpagliato la popolazione rimasta senza tetto e senza sostanze con un impegno, in verità, non riscontrato altrove, in precedenti catastrofi. Ma poi, il fronte della ricostruzione, esauriti i lampi mediatici dell'emergenza delle prime settimane, ha sparpagliato la popolazione rimasta senza tetto e senza sostanze con un impegno, in verità, non riscontrato altrove, in precedenti catastrofi. C'è ancora gente del Belice, nelle Marche, nell'Irpinia che si deve adattare a rinchiudersi nei containers! Ma l'Aquila, città d'arte e di monumenti alla storia e della storia, il suo centro, sono rimasti intatti nella loro quasi totale distruzione: il confronto tra le immagini di ieri e di oggi propone plasticamente tutto il non fatto, il lasciato stare, il caduto e il lasciato cadere. Questa ferita aperta non è stata richiusa, non è stata rimarginata. Attorno ad essa sono prosperate polemiche politiche, sindaci ondivaghi nelle minacce di dimissioni, fronti della protesta che portavano carriole vuote, simboleggianti il vuoto delle promesse mancate. Dai primi aiuti, dal pronto soccorso nazionale ed europeo dagli stanziamenti dai fondi per l'emergenza (1,2 miliardi), e da quelli della Ue (494 milioni) tutto si è dissolto in un secondo sisma, stavolta silenzioso ma non meno terrificante. Dei tanti paesi che a telecamere accese avevano promesso di inviare fondi per ricostruire monumenti frantumati dalle onde della terra solo il Kazakistan ha mantenuto l'impegno. E chi se lo sarebbe aspettato. Ciò che a due anni da quel 6 aprile dovrebbe muovere tutti a un nuovo slancio è proprio la constatazione che il molto detto e il poco fatto lasciano la ferita dell'Aquila aperta e sanguinante: una città meravigliosa destinata a soccombere per sempre sotto le proprie macerie non è un destino accettabile. E gli aquilani, è vero, possono e debbono fare da sé, ma non da soli: debbono poter pretendere senza sbandierare la loro delusa indignazione che gli aiuti promessi diventino beni utilizzabili. Altrimenti la pratica degli annunci roboanti, delle false promesse, della generosità pelosa si iscriveranno in una tutt'affatto ingloriosa tradizione italiana. E per fortuna che a distrarci dalla nostra colpevole noncuranza ci pensa una generosa (come il compenso ricevuto) comparsa, finta abruzzese, che in una trasmissione dove si simulano controversie giudiziarie si è sbracciata, sotto copione per strillare a tutti che in Abruzzo il terremoto è un lontano ricordo, che non ci sono problemi, che la gente è felice. Anche questo è un piccolo, avvelenato spaccato, di una simulazione propagandistica della realtà che ritroviamo, quasi fosse una metafora in tanti altri luoghi, in tante altre piaghe di cui il paese soffre. I rifiuti a Napoli, che ciclicamente ricoprono la città e la stringono in un assedio insopportabile, il problema degli emigranti sempre a un attimo dall'essere definitivamente risolto via via che Lampedusa viene sottoposta ad uno stress che non sarà cancellato dall'acquisto di una villa e di due palme. Dunque è il bisogno di verità che urge. E la dimostrazione che i guai si possono davvero sanare. Che le ferite si possono rimarginare. Sennò il Paese appare ed è come uno specchio rotto, del quale diviene impossibile ricomporre i pezzi per riavere una immagine limpida del vero e del falso. E da lì, ricominciare.

[…] La realtà - purtroppo molto diversa - è quella fotografata dall’indagine Microdis - l’Aquila, finanziata dalla Comunità europea e realizzata dalle università di Firenze, delle Marche e de L’Aquila. Con quindicimila contatti, si è scoperto che per il 71% degli aquilani «la comunità è morta assieme al terremoto», che il 68% vorrebbe lasciare la propria abitazione attuale, e che il 43% della popolazioni soffre di stress, una percentuale che arriva al 66% per le donne. Il 73% denuncia «una totale mancanza di posti di ritrovo per la comunità», il 50% l’assenza di servizi essenziali.

Il sindaco Massimo Cialente non è sorpreso da questi numeri. «La comunità sta morendo perché il sisma ha distrutto la città, non pezzi di città. In tanti non l’hanno capito. Se non si adottano misure eccezionali - come è successo nel primo anno, quando il governo ci è stato vicino - si commetterà un omicidio: quello di un’intera comunità. Nei primi mesi, in 65 giorni, siamo riusciti a costruire i Musp, i moduli provvisori ad uso scolastico e ad aggiustare 60 scuole. Poi il nulla. Da quando, 14 mesi fa, è stata dichiarata la fine dell’emergenza, con la partenza della Protezione civile, ci sono tanti commissari e sub commissari che però affrontano i problemi in modo "normale", senza deroghe. E così abbiamo perso 14 mesi e l’Aquila non riesce a riavere la questura e altri palazzi pubblici indispensabili, 1.200 famiglie sono ancora fuori dalle case popolari perché per avviare i lavori ci vogliono gli appalti … Io sono pronto ad assumermi la responsabilità politica, morale e anche giuridica di un colpo di acceleratore, perché se la città muore davvero, dopo potremo avere solo rimpianti. Fino ad oggi non è arrivato un euro per il rilancio economico, la ricostruzione pesante - quella vera - non è ancora partita. Io venti giorni fa mi sono dimesso, volevo che la città ricevesse una scossa. Commissari e sub commissari, a nome del governo, erano per il Comune un muro di gomma. La mia stessa maggioranza non aveva capito che la città era in agonia. Ora sono tornato in Comune perché il governo ha promesso che ci si metterà tutti attorno a un tavolo per discutere le cose da fare, con lo stesso spirito che c’era nei primi giorni. Speriamo sia vero».

Ci sono ancora i soldati, a presidiare il centro storico pieno di macerie. «Non siamo più cittadini - dice Stefania Pezzopane - ma inquilini. C’è chi pensa che città significhi un insieme di case e garage. Ma anche per chi ha un tetto - ci sono comunque 36.000 persone in attesa di tornare a casa loro - non c’è più quel "vivere assieme" che è l’essenza della città. La cosa che fa più male è che anche i giovani se ne vogliono andare via. Gli studenti del liceo Domenico Cotugno, che era a fianco del Comune, hanno detto che dopo il diploma o la laurea partiranno tutti. Ora il liceo è in periferia, vorrebbero almeno studiare in centro, al pomeriggio, anche per potersi incontrare fuori da un supermercato o dai pub di via Croce Rossa. Per loro stiamo preparando un prefabbricato, davanti alla basilica di San Bernardino».

C’erano 850 attività commerciali, nel centro storico. I negozi riaperti sono 20 in tutto. «Altri 70 potrebbero alzare la serranda - dice l’assessore Pezzopane - ma non lo fanno perché in centro non ci sono abitanti. Ormai le insegne più famose dei bar e dei negozi sono state messe nelle baracche di legno che circondano il centro ed hanno occupato ogni spazio libero. La città senza città pone problemi anche al Comune: abbiamo 26 milioni da spendere per il ripristino della rete sociale, per costruire centri per gli anziani e luoghi per i bambini ed i ragazzi. Dove li costruiamo? Nel centro senza abitanti o nelle new town piene di gente e senza nessun servizio? Dobbiamo riflettere. Se investiamo lontano dalle antiche mura, nel cuore della città potremo tornare solo per quelle che noi chiamiamo le passeggiate del dolore».

C’erano 6.000 persone, nelle «domeniche della carriole» del febbraio e marzo dell’anno scorso. Ventimila ad occupare l’autostrada a luglio. Meno di cento persone nell’ultima iniziativa dei comitati l’altra settimana, per togliere l’erba dalla scalinata di San Bernardino. «L’Aquila - dice Eugenio Carlomagno, direttore dell’Accademia di belle arti - più che sconfitta è rassegnata. Da due anni chi vuole tornare a vivere nella propria casa in centro si scontra con i ritardi, la burocrazia e l’assenza di scelte politiche. In centro sarà necessario costituire fra i 300 ed i 400 consorzi per la ricostruzione, fino ad oggi ne sono nati solo 15 e ancora oggi non sappiamo a chi presentare la domanda di finanziamento. La rassegnazione non può stupire nessuno».

Oggi il sindaco Cialente incontrerà la stampa estera a Roma, anche per ricordare gli impegni assunti dai Grandi al G8 e in gran parte non mantenuti. Chiese e monumenti «adottati» sono ancora orfani. Fra le poche eccezioni, il Giappone. Il sindaco ha inviato un messaggio al governo giapponese, per esprimere il lutto per il terremoto che ha colpito quel paese, e i giapponesi hanno ringraziato, aggiungendo che manterranno il proprio impegno di costruire - dopo la nuova sede del conservatorio - anche un nuovo palazzetto dello sport.

Massimo Casacchia, professore di psichiatria all’ateneo e responsabile dei servizi psichiatrici all’ospedale San Salvatore, conosce la tristezza della città sia come medico che come abitante di una new town. «In questi ultimi mesi stanno aumentando lo scoraggiamento, la rassegnazione, la tristezza. In termini clinici, questa si chiama depressione. Né è colpito il 40% della popolazione, forse la metà. Sono persone che hanno bisogno di colloqui con il loro medico o qui all’ospedale. Io vivo nella new town di Pagliare di Sassa. Un tetto, il caldo e nulla intorno. Se hai il tuo lavoro, te la cavi. Chi resta qui tutto il giorno non riesce a trovare un punto di incontro con gli altri, quasi tutti sconosciuti perché il terremoto è stato come una bomba che dal centro ci ha buttati in periferia e anche più lontano. Nelle frazioni invece delle new town hanno fatto i Map, moduli di abitazione provvisoria. Qui almeno hai come vicini di appartamento quelli che abitavano accanto a te, le relazioni rinascono subito. E sappiamo che il vero antidoto al disturbo e alla malattia mentale è la rete sociale». Anche nella sua new town, al tramonto, si vedono solo uomini con cani al guinzaglio.

DUE INTERVISTE

DI FRANCESCO ERBANI

Vezio De Lucia: è ora di tornare alla gestione ordinaria



"Recuperare il centro questa è la vera sfida"

Eppure è danneggiato, in alcuni casi gravemente, ma non distrutto. I crolli sono relativamente pochi

«La ricostruzione del centro storico è ancora il problema fondamentale dell’Aquila. E si può affrontare solo immaginando il suo recupero integrale. Com’era e dov’era». Vezio De Lucia è stato fra i primi urbanisti a impegnarsi attivamente dopo il sisma (insieme ad altri ha scritto Non si uccide così anche una città?).

Perché è il problema fondamentale?

«L’Aquila è disseminata in più di cinquanta frazioni e il centro era il luogo ordinatore, dove c’era tutto, le istituzioni, l’università, il commercio. Racchiudeva le identità cittadine. Questa funzione la svolgeva prima del terremoto e dovrebbe svolgerla tanto più ora che la dispersione abitativa è appesantita dalle 19 cosiddette new towns».

E invece?

«Senza centro non c’è una città, ma un agglomerato edilizio. Il centro è abbandonato. Eppure è danneggiato, in molti casi gravemente, ma non distrutto. I crolli sono relativamente pochi. È possibile intervenire con un restauro per il quale abbiamo eccellenti competenze».

Ma non si interviene. Di che cosa c’è bisogno?

«Occorre tornare a una gestione ordinaria, bandendo i commissariamenti. Tutto deve passare nelle mani dell’amministrazione comunale. Ora iniziano ad arrivare i finanziamenti. Ma fin da subito si poteva usare la disciplina prevista dal vecchio piano regolatore, mentre ci si è baloccati inventando complicazioni burocratiche che hanno sfinito la popolazione. Finalmente si è capito che non si potevano indennizzare integralmente solo le prime case, perché così non si sarebbe ricostruita neanche la metà degli edifici. Ma ci sono voluti due anni».

Federico Oliva: compromesso il futuro del territorio

"Quelle 19 new town un errore definitivo" In questo modo non si rimette in piedi il tessuto complesso di un organismo urbano

«A L’Aquila si è sbagliato tantissimo», secondo Federico Oliva, professore a Milano e presidente dell’Inu, Istituto nazionale di urbanistica. «Se si ha in mente di ricostruire una città, bisogna partire dal centro storico. Se invece si hanno altri obiettivi, si possono anche immaginare strade diverse: ma così non si rimette in piedi il tessuto complesso di un organismo urbano».

Ricostruire il centro com’era e dov’era?

«Dov’era, senz’altro. Il com’era è una questione che mi appassiona meno. Ogni epoca ha il suo linguaggio».

Lei è favorevole a introdurre edifici moderni in un contesto antico?

«Sì. Mettendo mano alla ricostruzione di un’area così vasta come il centro dell’Aquila è indispensabile. Anche se devo ammettere che non abbiamo dato buone prove in passato. Ma a L’Aquila certi condizionamenti di tipo speculativo non dovrebbero esserci, trattandosi comunque di una ricostruzione tutta affidata al pubblico. Rispettando una serie di vincoli e muovendosi delicatamente in un contesto pregiato, il moderno può convivere con l’antico».

Che errori si sono commessi a L’Aquila?

«Si è deciso per motivi politici di ricostruire subito una parte definitiva della città: i 19 nuovi insediamenti. Che sono stati localizzati senza tenere in nessun conto questioni urbanistiche, ma solo la disponibilità delle aree».

Con quali conseguenze per la città?

«È stata irreparabilmente compromessa la sua forma futura. E inoltre sono state sottratte risorse e attenzioni alla ricostruzione del centro storico. Che invece era il punto da quale partire».

Recensione al volume L’Aquila, Progetto C.A.S.A. - Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili. Un progetto di ricostruzione unico al mondo che ha consentito di dare alloggio a 15.000 persone in soli nove mesi dal terremoto del 6 aprile 2009, a cura di Roberto Turino, Editore IUSS, € 20,00

“Nevicava ma sembrava primavera”. Queste parole dell’ideatore del Progetto C.A.S.E. sintetizzano in modo incisivo l’epopea ingegneristica vissuta nel post-terremoto aquilano dai realizzatori del progetto, un’avventura “eccezionalmente singolare” descritta con grande dettaglio di particolari nel recente libro “L’Aquila- Il Progetto C.A.S.E. - Un progetto unico al mondo che ha consentito di dare alloggio a quindicimila persone in soli nove mesi”.

Il volume, curato da Roberto Turino, è prodotto e pubblicato da Eucentre (il centro di competenza del Dipartimento della Protezione Civile per la ricerca sismica) tramite la sua casa editrice IUSSpress, ed è disponibile nelle librerie Feltrinelli al modico prezzo di 20 euro perché finanziato dai Costruttori ForCASE , cioè dal gruppo di imprese protagoniste della ricostruzione in Abruzzo (altrimenti costerebbe 7-8 volte di più).

Per i nostalgici dell’architettura, dell’ingegneria e dell’urbanistica degli anni ’60, il libro è di sicuro interesse. Al contrario, per coloro che non rimpiangono le sfide di quegli anni infelici (“la diga più alta”, “il ponte più lungo”, “l’impianto più potente”), che tanto hanno contribuito alla devastazione del nostro paese, ai grandi scempi urbanistici e allo sventramento e all’abbandono dei centri storici nonché alla crescita incontrollata di periferie metropolitane, le 500 fotografie, le 200 immagini e i disegni tecnici contenuti nelle 430 pagine di questo volume, sono una doppia ferita culturale e umana.

Il volume, perfettamente rifinito sotto il profilo editoriale, potrebbe essere brevemente liquidato come un eminente esempio di cultura ingegneristica superata dal tempo. Le immagini non lasciano dubbi. La povertà architettonica e l’estetica cimiteriale delle costruzioni, la disarmonia con il contesto, il consumo di territorio, l’eccesso ingiustificato e costosissimo di “sicurezza” , la rovina del paesaggio, le incoerenze urbanistiche balzano agli occhi di chi sfoglia le pagine, e il primo istinto è quello di non proseguire. Un sinistro passato che ritorna e un futuro già contrassegnato non sono sopportabili. Ma, poiché, come recita il testo: ”Questo è un libro di pubblicità. Di pubblicità della capacità italiana di costruire e gestire imprese impossibili” , destinato a girare in Italia e nel mondo, non si può non spendere qualche parola sulla retorica del “miracolismo ingegneristico” che impregna ogni pagina del libro. Miracolismo italiano che, nel Progetto C.A.S.E., avrebbe trovato la sua massima espressione facendo di questo progetto, come recita il sottotitolo “un modello unico al mondo”. Il volume è perciò già oggetto di propaganda in Italia e all’estero per potere vendere (come già fatto ad Haiti) il “modello L’Aquila” (così viene definito!) di ricostruzione dopo le catastrofi.

Il testo è un inno, un canto di vittoria, che va letto in crescendo. L’introduzione di Guido Bertolaso dà il via. Anche se spiazza un po’ il lettore (per ben due fitte pagine vengono elencate le tante critiche che il lettore potrebbe muovere al progetto: altissimi costi, invadenza, compromissione del territorio, ecc.) è evidente però che, nel suo caso, il canto della vittoria è anche e soprattutto un tentativo di “difesa”.

Segue poi la presentazione dell’“idea”, orgogliosamente rivendicata come propria dal direttore di Eucentre Prof. Ing. Gianmichele Calvi, che, in una nota, precisa di avere ricevuto il compenso lordo di 64.800 euro e un rimborso spese di 13.935 euro (pur essendo il motore di “tutto”). Il linguaggio ingegneristico è quello tipico degli anni ’60 (“gli edifici sismicamente più sicuri mai costruiti in Italia”, “mille viaggi di betoniere al giorno”, “il mondo ha ancora bisogno di Costruttori”, ecc.). Il Progetto C.A.S.E. è presentato soprattutto come una “sfida di ingegneria” e di “sfide nella sfida”: sfida della tecnologia e della sicurezza sismica, sfida della logistica, sfida della qualità e della sicurezza, sfida dell’energia e dell’impatto ambientale, ma, soprattutto “sfida della velocità”. “Velocità, velocità, velocità”, così inizia un paragrafo che riporta ancora più indietro negli anni, a Marinetti, ad esempio.

Poi si descrive in dettaglio il “progetto “ (si apprende, per inciso, che il progetto dei giardini è degli architetti di Milano 2); si passa quindi alla “ realizzazione”, ai “cantieri”, alle diverse “tecnologie” impiegate (“che non si conoscevano e che hanno vissuto matrimoni d’amore e di interesse”), e infine ai“risultati”.

Alla magnificenza sulla qualità dei lavori, si aggiungono, per certificare la quantità e la trasparenza, i numeri, spesso a otto-nove cifre che riguardano le ore lavorative, gli importi di gara, il numero dei verbali, le tonnellate di ferro, i metri quadri di casserature , i metri cubi di calcestruzzo, i metri lineari di tubazioni, ecc. ma anche il numero delle tovaglie, dei piatti, delle forbici e delle grattugie… Per non parlare della galassia dei numeri sugli isolatori. Insomma, “una risposta per ogni domanda”, come, per l’appunto, dice Guido Bertolaso nell’introduzione. Certo, i “nemici” potrebbero obiettare che qualche numero è stato dimenticato, per esempio: quanto è costato il Progetto C.A.S.E. prima che il terremoto avvenisse, visto che già si trovava nel surgelatore e che è stato proposto agli amministratori locali solo due giorni dopo?

Poi si descrivono anche “le intenzioni “ e “le persone”. E qui, ci sarebbe da restare commossi di fronte alle parole poetiche usate per indicare la passione per i terremotati, l’entusiasmo di squadra, il timore e il tremore di fronte all’eccezionalità dell’impresa, l’orgoglio, e infine la speranza di raggiungere l’alto traguardo e di avere “la splendida ricompensa di un sorriso e di un grazie da parte di chi aveva perso la propria abitazione e, purtroppo, non di rado anche congiunti o amici a causa del terremoto”.

“Nevicava, ma sembrava primavera”, esclama il Prof. Calvi ricordando i volti sorridenti degli abitanti quando uno degli edifici fu sottoposto alla riproduzione di un possibile evento sismico reale.

Ma come non ricordare anche il triste finale degli schizzi di fango gettati sul Capo del Dipartimento nel febbraio 2010 e che hanno infangato anche l’ideatore e i realizzatori del Progetto C.A.S.E.? Il volume si chiude descrivendo appunto il mesto passaggio “Dall’orgoglio alla vergogna, immeritata”.

Alle tante ragioni espresse partendo da altre ottiche (storica, sociale, urbanistica, economica), o alle tante ragioni che riguardano punti specifici (molto ad esempio ci sarebbe da dire sull’impiego di isolatori, non molto innovativi ma soprattutto molto costosi ed eccedenti in sicurezza per semplici palazzine a tre piani), la ragione più evidente, dalla prospettiva della cultura ingegneristica, è che il Progetto C.A.S.E. rappresenta un vero e proprio ritorno all’indietro. Per chi ha seguito l’evoluzione dell’Ingegneria degli ultimi 50-60 anni, non solo non è un progetto innovativo, ma è un esempio di rivoluzione culturale al negativo. Nasce da un’ideologia del “moderno” e della “dismisura” di 50 anni fa. Usa lo stesso linguaggio ingegneristico di allora, un linguaggio, che, a partire dalla fine degli anni ‘70, è stato superato dal linguaggio dell’”incertezza” e della “complessità”, espressione di un’ingegneria più umile, più responsabile, più attenta alle leggi della natura, alle regole della tutela e della conservazione, a ciò che può dare benessere e felicità a tutti, e cioè paesaggio, monumenti, attività produttive, e tutte le espressioni di una civiltà e di una cultura del territorio. Un ingegneria che non per questo è necessariamente inefficiente, anzi tutt’altro se si pensa che, con le tecnologie di allora, le abitazioni semipermanenti dopo il terremoto del Friuli furono costruite in 15 mesi, cioè solo sei mesi in più che a L’Aquila, senza invece lasciare tracce sul territorio.

Il Progetto C.A.S.E. è un ritorno all’ingegneria che rimuove l’idea di complessità, all’ingegneria violenta, prepotente, aggressiva, senza freni, che vede un nemico nella natura, autorefenziale, che si muove con destrezza violando leggi e regolamenti, è un ritorno all’ingegneria dei miracoli, dei grandi numeri, dell’onnipotenza, che persegue interessi e vantaggi aziendali, incollata al presente, senza memoria, che non conosce il normale scorrere del tempo, che ignora l’interesse collettivo, che esprime energia e vitalità per nascondere la povertà culturale (e naturalmente i sottostanti interessi) e che per apparire al passo coi tempi, usa tutte le parole dell’avversario (“rispetto del territorio”, “ecosostenibilità”, persino “economicità” e “risparmio di suolo”) per svuotarne la carica critica.

Un’ingegneria che è una minaccia per il nostro paese, come appunto questo libro dimostra.

Firenze 28.01.2011

«Uno Stato parallelo», definisce così Marisa Dalai Emiliani - presidente dell'associazione Bianchi Bandinelli - ciò che di grave è avvenuto nella «gestione del terremoto», a conclusione del convegno "L' Italia non può perdere L' Aquila" (Roma, teatro dei Dioscuri, 19 gennaio). E ricorda come fu imposto, durante la gestione dell'emergenza, «il silenzio stampa a soprintendenti e funzionari». Una gestione autoritaria che ha le sue origini, Marisa Dalai cita l'ex direttore del servizio sismico nazionale Roberto De Marco, in quella legge del 2001 che «ha trasformato i grandi eventi in catastrofi e le catastrofi in grandi eventi». Stato parallelo è un'espressione forte per Marisa Dalai, storica dell'arte "senior" abituata a misurare le parole, con un'esperienza trentennale nella gestione dei terremoti, dal Friuli, dove arrivò come volontaria, all'Irpinia e all'Umbria. Questa volta la sua esperienza, come quella di tutti o quasi coloro che hanno memoria storica e pratica dei terremoti, non è servita, è stata respinta. Il consuntivo è amaro: «Deficit di democrazia, deficit di cultura, deficit di organizzazione istituzionale». E l'impressione è che lo stato parallelo, a quasi due anni dal sisma, continui ad operare. Un'ordinanza, spiega Gianfranco Cerasoli, della Uil del ministero, sancisce la fine dell'emergenza, un decreto di Gianni Chiodi affida gli «interventi di restauro non a chi è deputato per legge, cioè alla soprintendenza, bensì al vice commissario Marchetti che avrebbe dovuto occuparsi della sola messa in sicurezza».

Ma se questa è la diagnosi, quali sono gli effetti pratici nel recupero del patrimonio storico artistico della città? Quale il disegno politico che si nasconde dietro l'emarginazione di 630 funzionari delle soprintendenze abruzzesi, stipendiati per fare ciò che, invece, viene affidato e pagato a consulenti esterni. Uno degli effetti dell'emarginazione degli specialisti funzionari dello Stato potrebbe essere quello che vedete rappresentato nella foto qui sopra: a palazzo Carli Benedetti la ditta dei lavori di messa in sicurezza ha perforato gli affreschi di un portale del 700 facendovi passare i tiranti. «L'attuale ministro Sandro Bondi - dice Marisa Dalai Emiliani - si è rivelato il Grande Liquidatore». La storica dell' arte cita tre fatti dalle conseguenze nefaste: «La riduzione delle risorse del 55% in meno di un decennio, il prepensionamento dei funzionari con maggiore esperienza, l'Istituto centrale di restauro, l'Opificio delle pietre dure, l'istituto di patologia del libro, scuole preziose che non possono più rilasciare il titolo di restauratore».

L'Aquila-Italia, dunque: non si sfugge alla regola dei tagli orizzontali di Tremonti, le cifre le dà Gianfranco Cerasoli: i fondi ordinari e il lotto per l'Abruzzo nel 2010 erano 5.788.000 euro, nel 2011 saranno 2.611.000. Il ministro Bondi aveva promesso l’1% dei fondi Arcus per un decennio ma questa cifra, pari a 25 milioni annui, è scomparsa per lasciare posto alla promessa di 60 milioni in un decennio. Ci dovrebbe essere un tesoretto nascosto, quello di Win for Life. Il decreto istitutivo del gioco destina - è ancora Cerasoli a parlare – 23% alla ricostruzione in Abruzzo. «Ma dove sono i 230,7 milioni su 990 fin qui raccolti?». Eppure, se non si trovano le risorse, «saranno buttati 120 milioni di euro spesi per le opere provisionali, perché a distanza di due anni l'efficacia dei puntellamenti è al 30%». Un discorso a sé va fatto sull' ingente patrimonio ecclesiastico. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, nel 1976, l'arcivescovo di Udine Alfredo Battisti lanciava lo slogan «prima le case poi le chiese». C'è una lettera dell'agosto scorso dei vescovi dell'Aquila al presidente commissario Chiodi che mette in evidenza come la Chiesa sembra essersi adeguata al sistema delle deroghe introdotto dalle ordinanze della Protezione civile che, come sostiene Vezio De Lucia, è «una violazione legalizzata della legge». I prelati, monsignor Molinari e monsignor D'Ercole, lamentano in effetti l'incertezza delle procedure perché «manca un preciso quadro di riferimento normativo» ma poi, sollecitando i finanziamenti pubblici, chiedono «una disciplina per l'affidamento dei lavori con modalità a tutela della diocesi, ma con apposite deroghe (ad esempio sul codice degli appalti) che consentano una rapida ricostruzione». Recuperare, riaprire il centro storico, non è solo una questione di beni culturali. È anche, dice il sindaco Massimo Cialente, una questione di vita e di morte. «Solo gli aquilani sanno cosa era la nostra vita lì, mentre io mi vedo arrivare decreti e regole da gente che non sa nemmeno dove sono le strade principali: la ricostruzione del centrò storico deve partire subito, altrimenti la vita si sposterà altrove e non tornerà più». Nella classifica del sole 24 ore il sindaco ha guadagnato 8 punti percentuali di consenso e non è temerario pensare che li abbia acquistati lasciando la carica di vice commissario. «Vi svelo un retroscena», dice: «addebitare da parte di organi dello stato tutte le difficoltà a una sola istituzione, alla più debole, aveva una sola ragione, decidere chi avrebbe ricostruito, tenendo fuori il sindaco».

N ella rassicurante convivialità familiare natalizia spesso ho pensato a L'Aquila e ai suoi abitanti ormai in diaspora continua. Leggo, infatti, che molti degli occupanti nei Map (ossia i Moduli abitativi provvisori) sono stati trasferiti in altre strutture, mi auguravo per un riavvicinamento familiare ma non è così; è ancora in corso una sorta di «assestamento», «assegnamento» e «designazione» di alloggi.

Assieme al panorama familiare e amicale, è cambiato anche il modo di riunirsi, incontrarsi fare conoscenza. Sparsi in una area vasta che comprende vari Comuni lontani tra loro, gli esuli del terremoto stanno cambiando il loro modo di vivere, dimentichi delle strade che si incrociavano e si aprivano ai saluti e a nuovi incontri. Le strade de L'Aquila! Attorno agli attuali Map, zero punti di aggregazione vera. Dunque, in giro, si odono appuntamenti dati a "l'Aquilone".

L'Aquilone non è fatto di carta e non si libra nel cielo abruzzese. È un centro commerciale che (ecco il nome, purtroppo) sorge fuori dalla città. Costruito una decina di anni fa, ora vive il suo massimo splendore; questo è il nuovo percorso dello «struscio» e della «conversazione». Il giorno del terremoto gli abruzzesi e gli aquilani hanno perso tutto ed hanno anche perso quella forma di socializzazione che rappresentava l'ultimo grado di umanità e di affetti. Ora tutto viene mescolato, in una povertà spirituale e sociale immensa, in un sali-scendi di scale mobili e splendenti vetrine, market e svendite.

La manifestazione Cercalibro si è svolta presso un centro commerciale a Coppito (e bisogna ringraziarlo). Fra qualche anno il fenomeno verrà studiato soprattutto per come la sconsideratezza di una pseudo ricostruzione abbia potuto trasformare antropologicamente una intera popolazione. Eppure il sindaco Massimo Cialente e la presidente della Provincia Stefania Pezzopane, nel 2009 riuscirono a far rivivere la città con belle iniziative natalizie e a costo zero grazie a numerosi sponsor. L'Aquila del Natale appena concluso è una città fantasma ben filmata su YouTube. Il video testimonia che L'Aquila deve restare al centro dei servizi di informazione.

L'Aquila - Il fenomeno insediativo contemporaneo, frutto delle sconfitte dello zoning e della regolamentazione come unici strumenti per il controllo della forma del territorio, è la diffusione. Essa è comunemente definita “sprawl”, ‘dispersione scomposta’ con un alto consumo di suolo a fronte di una bassa densità abitativa (un disastro!), seppur ci sarebbe da discernere tra diffusione e dispersione (dove quest’ultima allude al dividere, al “mandare in parti diverse”) ché, a ben vedere, non sono proprio la stessa cosa.1

Il fenomeno, dilagante anche in Italia come dimostrano ad esempio la città adriatica, quella campana come anche quella padana, è spesso non facilmente delimitabile assumendo dimensioni di area vasta o molto vasta. A tenerlo a freno i confini geo-morfologici, ad innescarne ed alimentarne la crescita le infrastrutture della mobilità, su tutte, unitamente all’assoluta inefficacia delle politiche urbane.

Partendo dalla constatazione per cui, per la forza del modello urbanistico-territoriale con cui era nata e cresciuta, L’Aquila era tutto sommato immune da tale fenomeno (seppur interessata da pessime periferie che sarebbe errato considerare diffuse), ciò che si intende dimostrare è l’innescarsi nella conca aquilana, in conseguenza delle azioni messe in atto per dare risposta all’emergenza post-sismica, di spore di inarrestabile proliferazione insediativa. Esse non sono ferme alle prime decisioni emergenziali, ma vanno alimentandosi l’un l’altra, nel tempo, dettate dalla contingenza piuttosto che da una intelligenza di pre-visione2.

É un cane che si morde la coda e che, nel futuro, potrebbe mordere e mangiare tutto il resto.

Le rare virtù della configurazione della città-territorio aquilana e la scelerata scelta centrifuga del progetto C.A.S.E. come della Delibera Comunale 58/2009 grazie alla quale tutti i proprietari di case inagibili a causa del sisma sono stati messi nella possibilità di realizzare casette fai-da-te pressoché ovunque, da rimuovere dopo 3 anni, senza che per queste ultime vi sia stata la lungimiranza di definire aree che, quantomeno, evitassero la polverizzazione nel territorio.3

Se a ciò si va ad aggiungere il decentramento delle funzioni amministrative e direzionali resosi necessario per l’inagibilità del centro storico con le zone ad esso limitrofe, l’aumento di traffico nel fascio stradale urbano di valle (da cui l’incremento esponenziale degli incidenti mortali nelle strade cittadine) e, non ultimo, l’inerzia e l’incertezza con cui vengono percepiti ricostruzione e processi di finanziamento ad essa correlati, è facile comprendere la crescita di attenzione ed interesse pubblici e privati verso una ruralità che si va sempre più urbanizzando.4

Così si ragiona, mediante non meglio palesati processi progettuali, di dotazione di servizi delle aree C.A.S.E., sorgono cartelli di vendita di terreni prima difficilmente appetibili, capannoni prima in disuso sono oggetto di rifunzionalizzazioni e precoci occupazioni, nuovi capannoni vengono eretti come sedi di grandi imprese di costruzioni o di servizio alla ricostruzione.

Ciò che però, più di altro, segna in modo visibile a tutti la misura del sedimantarsi di un diverso modello di città (dall’estetica pedonale del centro alla tardiva “scoperta” dello spazio stradale) è la “rotonda” stradale.

Unitamente alle C.A.S.E. (Complessi, Antisismici Sostenibili Ecocomptibili), ai M.A.P. (Moduli Abitativi Provvisori), ai M.U.S.P. (Moduli ad Uso Scolastico Provvisori), ai M.E.P. (Moduli Ecclesiastici Provvisori), ai colori eccentrici ed intensi degli edifici riparati, alle casette alpine, americane o stile “Addams” (disposte nei luoghi più impensati), il terremoto ha accelerato l’introduzione di questo strumento di snellimento del traffico anche a L’aquila, città notoriamente “Immota”.5

Tralasciando le modalità di inserimento nel contesto ed “abbellimento” dell’oggetto, oltre che l’assoluta mancanza del pur minimo ragionamento sulla natura spaziale degli interstizi stradali, ciò che interessa più cogliere è l’effetto “spora”6 che questi miglioramenti infrastrutturali (come e più degli altri già menzionati) producono in favore della diffusione urbana.

É come se si facessero portatori di una modalità insediativa vincente nei confronti della contingenza ma, allo stesso tempo, deleteria per il precedente modello insediativo che, resistendo per secoli, continuava a costituire il principale fattore di attrattività per la città7.

Come tali miglioramenti viari facilitino la diffusione è facile da dimostrare, riducendosi con essi i tempi di connessione tra il centro (che in questo caso è ancora meno concentrato che nel pre-sisma e smembrato tra le prime espansioni del centro storico e le aree industriali) e la periferia. E’ facile peraltro riscontrare nelle città diffuse più consolidate quanto esse siano in diretta relazione con la capacità infrastrutturale, come già si diceva.

Come il consolidarsi della “ciambella insediativa” mini il modello multi-centrico/macrocefalo della città-territorio aquilana è altrettanto facile dedurre, visti i tempi di cui necessitano i processi urbani per sedimentarsi. In tal modo L’Aquila viene privata sia del rapporto virtuoso città-campagna di cui godeva che del forte centro di rappresentazione collettiva dal punto di vista iconico, identitario, sociale, commerciale e, non ultimo, spaziale.

Come, infine e più in generale, il modello della dispersione insediativa sia da considerarsi negativo tra le differenti forme in cui può manifestarsi un insediamento umano, è questione che può argomentarsi in primo luogo - per l’attualità che ricopre a livello globale - con la maggiore efficienza energetica, funzionale e di riduzione del consumo di suolo che gli insediamenti densi possono garantire.8

Da quanto rilevato è dunque possibile trarre due differenti conclusioni, l’una di carattere prettamente locale, l’altra sui fenomeni insediativi in senso più ampio.

Sul primo e dunque sull’Aquila, dato lo stato delle cose e non potendo eliminare certe cause, sarebbe importante attenuarne ed indirizzarne gli effetti per rendere attuabile una certa visione di città, condivisa, fattibile e perseguibile mediante un progetto di processo.

Pur in mancanza di tale visione comune, ma con la mente ad un assetto capace almeno di ridonare un ruolo al centro storico e di mantenere il disegno multi-polare insidiato dalla diffusione insediativa, le politiche urbane dovrebbero prioritariamente e tempestivamente assumere le seguenti decisioni:

Definire perimetri di edificazione dove si riscontrino agglomerati di costruito ed una soglia minima di “comunità”, decretando per tutto il restante territorio comunale l’inedificabilità, la rimozione delle casette-fai-da-te come anche dei M.A.P., M.U.S.P., M.E.P. e delle stesse C.A.S.E. In tal modo si rimarrebbe nell’ambito multi-polare mediante una composizione cellulare.9

All’interno di queste cellule, inserire attrezzature pubbliche prestando attenzione a non delocalizzare dal centro storico e dalle zone ad esso più prossime le funzioni direzionali primarie. Prevedere la reversibilità di servizi ed attezzature che dovessero contrastare con le intenzioni del punto 1. Rendere capace ciascuna cellula di essere un centro, evitando allo stesso tempo che sia così forte da soverchiare gli altri centri e rendendo capaci i poli secondari, nella loro sommatoria, di bilanciare la forza del nucleo storico.

Nella previsione di una alternativa armatura di mobilità pubblica sostenibile, limitarsi a risolvere le maggiori criticità della rete stradale in modo così da rendere vantaggiosa la scelta del servizio pubblico non appena reso competitivo.

Rendere praticabile la mobilità ciclabile proprio in virtù della momentanea “discesa a valle” (fuori centro storico) della città, recuperando la rete ambientale-fluviale.

Sono azioni che hanno evidentemente bisogno di dosi da somministrare con il bilancino. Il problema è che ad oggi non si è ancora scritta alcuna ricetta!

Quanto invece alla teoria generale sulla città diffusa è evidente come, seppur con un ritardo di oltre venti anni, oggi a L’Aquila sia possibile osservare, accelerati, i processi che portano alla diffusione insediativa: sintomi, scelte, tendenze, criticità, “qualità”. Quella spazializzazione delle pulsioni sociali che taluni vedono dietro lo sprawl e che, obtorto collo, pare ormai essersi impossessata degli stessi aquilani.

Sulla scorta delle esperienze maturate in altri contesti diffusi già consolidati è opportuno cercare ed adottare contromisure, valutandone di volta in volta la capacità di contenimento del fenomeno e di assicurazione di qualità urbana, per preservare al massimo un rapporto privilegiato, equilibrato e virtuoso insediamento-natura.

Apripista. Prestanome. Affittacamere. Chiamateli così, quegli imprenditori aquilani i quali, alla ricerca affannosa di affari del post-terremoto, parlano ore e ore al telefono con gli uomini della'ndrangheta. Il calabrese chiede un appartamento per gli operai? Trovato. Il calabrese chiede di entrare in società? Trovato il notaio, società fatta. Il calabrese chiede lavori nella città devastata dal terremoto? Fatto. Accade poi che, un giorno, uno di quei calabresi viene arrestato, con altri 32, in una mega-operazione che riguarda i clan Borghetto-Caridi-Zindato decimati dalla Procura condotta da Giuseppe Pignatone e dalla Mobile di Renato Cortese, l'uomo che arrestò Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza, e Giovanni Strangio, oltre a scompaginare il clan dei Piromalli.

LE INTERCETTAZIONI Biasini: "Ho contratti per 1,8 milioni"

Per il gip del tribunale di Reggio Calabria la'ndrangheta ha messo gli occhi, e non solo, sulla ricostruzione dell'Aquila. Infatti, uno dei reati contestati agli arrestati è stato commesso «all'Aquila», si legge in un'ordinanza di 414 pagine del gip Andrea Esposito, «il 26 marzo 2010». Cos'è avvenuto? «Santo Giovanni Caridi e il commercialista Carmelo Gattuso», entrambi arrestati, «in concorso tra loro, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione, Caridi attribuiva fittiziamente al Gattuso la titolarità del 50 per cento della quota societaria della Tesi costruzioni srl, essendone in realtà Caridi Santo il reale titolare; con l'aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare la cosca mafiosa Borghetto-Caridi-Zindato di appartenenza del Caridi». La Tesi costruzioni, con sede in via Pescara, è una società della quale è comproprietario l'aquilano Stefano Biasini, poi divenuto amministratore unico.

CHI È BIASINI. Stefano Biasini, che tuttavia non risulta indagato dalla Procura reggina, è un costruttore edile, figlio di un noto geometra. Nato all'Aquila il 18 maggio 1977, è residente a Vasche di Pianola. Titolare della Edil B.R. costruzioni e appassionato di auto di lusso, a leggere le decine di intercettazioni telefoniche nelle quali compare il suo nome è il «gancio» aquilano per i personaggi calabresi. Biasini si dà un gran daffare per consentire a Caridi e al commercialista reggino Gattuso «di inserirsi», si legge nell'ordinanza, «nei lavori di ricostruzione a seguito del terremoto». Per il gip, Gattuso è il prestanome, per conto di Caridi, nell'ambito delle società attive nel territorio aquilano. La complessa vicenda è stata ricostruita da numerose informative della polizia giudiziaria. Caridi è entrato in due imprese «impegnate nell'esecuzione di lavori edili all'Aquila» e affida al commercialista «il subentro in una terza società». Secondo un'informativa riportata nell'ordinanza del gip, «già nel mese di gennaio 2010 Santo Caridi iniziava a intrattenere rapporti di evidente natura lavorativa con il costruttore Stefano Biasini».

L'AFFARE ABRUZZO. Oltre alle estorsioni in Calabria, le cosche reggine erano, e sono, interessate alla ricostruzione post-terremoto. La diversificazione degli interessi, così come avvenuto per i Casalesi nel caso scoppiato la scorsa estate (vedi articolo in alto) sembra trovare, ancora una volta, terreno fertile nel tessuto imprenditoriale cittadino. Secondo quanto emerge dalle carte, Caridi incaricò Gattuso di preparare un piano di sicurezza per l'imminente apertura di un cantiere all'Aquila e specificava che quanto richiesto era necessario proprio per permettere l'avvio delle attività delle imprese facenti capo a Stefano Biasini e Pasquale Giuseppe Latella, quest'ultimo indagato. I contatti dei calabresi con L'Aquila sono continui e costanti. Tra le prime richieste che evidenziano l'interesse di Caridi sull'affare c'è anche la ricerca spasmodica di un appartamento dove poter alloggiare gli operai provenienti dalla Calabria. Secondo quanto si è appreso, sia l'interessamento per reperire l'immobile sia i soldi del contratto di affitto sarebbero stati riconducibili allo stesso Biasini. Per i magistrati, da quel momento, è più che acclarato che Biasini e Latella stessero operando in stretta sinergia e, soprattutto, sotto la «direzione» di Santo Caridi.

Di solito i comunicati di Confcommercio e Federalberghi sono vivaci come un requiem a Ognisanti. Ma in questi giorni gli esercenti de L'Aquila stanno sparando ad altezza uomo dichiarazioni che non risparmiano davvero nessuno. Nel mirino soprattutto i teologi della ricostruzione: il premier Berlusconi, il capo della Protezione civile Guido Bertolaso, il governatore Gianni Chiodi. E proprio a quest'ultimo è stato dedicato ieri il pensiero di giornata: “Ci vuole una bella faccia tosta a fare le affermazioni che ha rilasciato contro gli albergatori aquilani - dice in una nota Federalberghi -. E quindi ormai è ufficiale: Chiodi la faccia tosta ce l’ha eccome. Invece di chiedere scusa per non aver rispettato per lunghi mesi gli impegni, è arrivato imprudentemente all’insulto che restituiamo al mittente”.

Il Commissario alla ricostruzione aveva infatti definito 'disumani' gli albergatori che, esasperati dai mancati pagamenti a partire dal gennaio 2010, minacciano di negare ai terremotati pasti caldi e pulizia delle camere. In realtà ieri, primo giorno dello sciopero, in pochi hanno aderito alla protesta. "Ma figuratevi se ce la possiamo prendere con 'sti disgraziati - confida un associato -. Siamo pure noi nei guai fino al collo e cerchiamo di far capire a tutti che non siamo lagnosi ma proprio disperati. Lo scriva eh, disperati. Ci rimangono solo gli strozzini".

Una rabbia nera, che continua anche nella nota di Federalberghi: "Se c'è qualcuno che è 'disumano' non è tra gli albergatori aquilani che bisogna cercarlo, ma al Commissariato Straordinario. Da mesi avevamo avvertito che la corda si sarebbe spezzata. Già nel maggio 2009 a Roseto i primi colleghi segnalarono che non ricevevano un soldo e sospesero le erogazioni di servizi. Quindi le chiacchiere stanno a zero, caro Chiodi e se qualcuno di voi pensa che i costi dell'assistenza e della ricostruzione debbano essere sostenuti dal sistema delle imprese aquilane, avete sbagliato genere, numero e cosa". E, tanto per chiarire, Federalberghi Rieti ha avviato le procedure di messe in mora per la Protezione civile Abruzzo.

Come dire: i 2,6 milioni teoricamente pronti per saldare il conto e promessi ieri da Chiodi, sono briciole davanti ai 60 già anticipati e mai rimborsati. Ma il messaggio è diretto anche al governo di Roma e soprattutto al sottosegretario Bertolaso, che tra un mese lascerà la Protezione civile in mano all’ex prefetto cittadino Franco Gabrielli. “Speriamo bene” sospira Alessio Di Giannantonio, portavoce di quel Comitato 3e32 che ha avuto parecchi guai sin dai tempi delle riunioni (vietate) nelle tendopoli di Campomaggio per finire al celebre sequestro delle carriole. “Ora la strategia è cambiata - spiega Di Giannantonio -. Invece di litigare su dati e soluzioni si passa direttamente a cancellare la realtà. Basta vedere l’ultimo rapporto ufficiale della Sge, la Struttura per la gestione dell’emergenza guidata da Chiodi. Siccome L’Espresso aveva scritto che gli sfollati a L’Aquila sono ancora 50 mila, lui ha fatto la magia: solo 3.065 persone ora figurano senza sistemazione, cioè quelli in albergo e nelle caserme. Tutti gli altri sono a posto. Magari stanno in casette di legno o appoggiati dai parenti, vivono a cento chilometri dalla città o si stanno fumando i risparmi per pagarsi l’affitto, ma che importa”.

Polemiche strumentali, le ha definite Chiodi, è solo una diversa catalogazione. Per la precisione, gli sfollati aquilani sono ad oggi 55.362.

L’Aquila, Collemaggio. La basilica plasmata dai terremoti

Ugo De Angelis - Osservatore Romano

Il forte legame tra la comunità aquilana e il suo territorio ha origini lontane, come la genesi della civitas nova che Pierre Lavedan, nella sua monumentale opera L'urbanisme au Moyen Age, non tardò a definire «una delle più grandi e riuscite creazioni urbane in Europa occidentale». Questa meravigliosa città, nata nel 1254 per volontà di Corrado IV, viene inserita nell'ambito di un importante contesto territoriale percorso da un fitto e strategico sistema viario. La successiva furia distruttrice avvenuta nel 1259 a opera di Manfredi ebbe uguali solo negli ormai noti eventi sismici. Dice Buccio di Ranallo: «Nè casa vi rimase, nè pesele, nè ticto». Dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento nel 1266, il francese Carlo I d'Angiò consentì alla «rea villanaglia» di rifondare la città contro le insistenti richieste dei «gentili homeni». Tale evento si inserisce in una vicenda tutta «popolare», dove la città si deve difendere dai nobili che rivendicano titoli feudali. Occorre inoltre sottolineare che questo «nuovo impianto» a forte impronta «ippodamea» secondo cioè uno schema planimetrico a maglia ortogonale nasce sul modello di sviluppo cistercense delle bastides, diffusosi dal xii secolo nel sud-ovest della Francia.

La città viene suddivisa in quattro «quarti», ognuno ripartito in spazi regolari costituiti da aree comuni e lotti di terreno per l'abitazione e l'orto, destinati a facilitare l'insediamento dei villici provenienti dai centri fondatori, subito dopo aver realizzato la piazza, la chiesa, la fontana, cioè quegli interventi pubblici che a tutt'oggi chiamiamo opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Nella costruzione della città emerge una nuova forma di pianificazione, concepita da una rete di relazioni che supera il perimetro delle mura, in un ben congegnato sistema di area vasta (i contadi), caratterizzato dall'interazione territoriale tra intus et extra moenia. I neo-cittadini portano con sé la loro identità culturale e il proprio modello del villaggio d'origine, il che a ragione potremmo definire una ben riuscita operazione di «delocalizzazione» urbanistica. Il rapido inurbamento e il conseguente sviluppo socio-economico della città si devono anche al ruolo avuto dal vescovo aquilano nel favorire l'insediamento dei religiosi, alla sua autonomia politico-amministrativa e al regime di privilegi di cui godeva l'industria della pastorizia e dello zafferano, che più tardi arrivò all'apice di una fiorente attività commerciale. Ma nel 1294 la città è protagonista di un evento straordinario: il mite e umilissimo eremita Pietro Anglerio o Angeleri, detto da Morrone (1209-1296), per i più oggi ricordato come «il Papa del gran rifiuto», viene eletto al soglio pontificio e il 29 agosto incoronato ad Aquila, città a lui «più cara fra tucte le terre», proprio in quella basilica Santae Mariae de Collemadio, che venti anni prima aveva voluto dedicare all'Assunta.

L'inizio della costruzione, che si vuol far risalire alla data del 1287, aveva impegnato per diversi anni i suoi monaci di Santo Spirito della Maiella e la fiera popolazione della nuova città. Aquila per oltre due mesi fu la capitale spirituale del mondo cattolico. Durante il suo breve pontificato, Celestino V istituì la «Perdonanza», che ancora oggi offre l'indulgenza plenaria a tutti i fedeli che annualmente dal 28 al 29 agosto si rechino nella chiesa di Collemaggio pentiti e riconciliati. Non si trattò solo di un importante atto di carattere spirituale ma di una vera e propria riconciliazione cittadina, di rilevante significato politico e sociale. Pietro, il Papa del popolo di umili origini contadine, ottiene così da Carlo II d'Angiò il perdono degli aquilani ribelli e l'unificazione amministrativa, ratificata con il diploma del 28 settembre del 1294 che contribuì notevolmente a proiettare l'attività economica della città entro il grande circuito commerciale europeo. Carla Bartolomucci, in un suo recente libro, fa un'accurata analisi della basilica di Santa Maria di Collemaggio e ne interpreta i numerosi rifacimenti causati dai frequenti disastrosi terremoti succedutisi nel tempo. La chiesa deve la sua fortuna architettonica alla particolare, raffinata geometria di pietra bicroma della facciata, nonché alla pregevolezza dei tre portali e dei tre rosoni.

L'impianto basilicale costituito da tre navate, nel 1972- 1974 ha subito un discusso restauro, anche se sarebbe pi appropriato parlare di una sorta di tentato ripristino: l'organismo è stato sottoposto a una ulteriore trasformazione con la liberazione dalle aggiunte barocche post-terremoto del 1703 e l'innalzamento delle navate a favore di un «restituito» spazio trecentesco, sicuramente più luminoso e austero ma, secondo il nostro modesto parere, forse più incline al falso storico nel senso «brandiano» del termine; mentre il transetto, illuminato dalla bassa cupola coperta a tetto prima del recente sisma, conservava ancora le vecchie reminescenze barocche. Il coro centrale prolungato e due cappelle laterali, di cui una contenente il sepolcro di Celestino V, opera del 1517 di Girolamo da Vicenza e realizzato con i fondi messi a disposizione dai «Lanari dell'Aquila», completano l'impianto absidale. Sul lato nord in corrispondenza della navata sinistra è collocata la Porta Santa, realizzata verso la fine del XIV secolo, che ogni anno apre alla cerimonia della Perdonanza celestiniana. Recentemente la facciata è stata liberata dagli ultimi ponteggi ed è quindi tornata al suo originario splendore a conclusione di un accurato restauro, iniziato nell'autunno del 2007 su iniziativa della Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici per l'Abruzzo. Il terremoto del 6 aprile 2009 ha gravemente danneggiato ancora una volta l'organismo strutturale della basilica e causato il crollo del transetto, che già a seguito del sisma del 1958 era stato demolito e ricostruito dal Genio civile (1960-1962).

Il 28 aprile 2009 Papa Benedetto XVI, visitando la basilica duramente colpita dal sisma, ha reso omaggio al santo Pietro Celestino, ponendo sulla sua urna il proprio pallio pontificio in ricordo della visita. Il cammino della ricostruzione appare ancora lungo e pieno di incognite, soprattutto per reperire i notevoli fondi necessari a un accurato intervento di consolidamento strutturale e di ripristino dell'organismo centrale della Basilica, nell'ambito di un intervento di recupero che dovrà essere esteso all'intero complesso monumentale. La storia dei principali eventi sismici della città dell'Aquila dal 1315 a oggi, fa intuire quanto sia stata importante la tenacia e lo sforzo degli aquilani nella ricostruzione della propria città, alimentata da quel contributo proveniente dal fiorente sviluppo economico determinato dall'istituzione di franchigie e concessioni a favore delle attività produttive locali. Oggi, in un contesto di corsi e ricorsi storici, non sarebbe possibile programmare piani straordinari per finanziare la ricostruzione post terremoto nelle aree colpite dal sisma? L'eremo celestiniano di Sant'Onofrio al Morrone nei pressi di Sulmona, oltre a custodire la memoria di Pietro, espone un'iscrizione attribuita a una religiosa poetessa arcade, la principessa Aurora Sanseverino, che termina con queste parole: «Qui parla il verbo al core. Entri chi tace, perché il solo silenzio è qui loquace».

Vogliamo sperare che la storia sia maestra di vita, confidando almeno in un annuncio programmatico di recupero del patrimonio storico e monumentale dell'Aquila, perché non resti solo il silenzio a parlare più delle parole. Il cammino della ricostruzione appare ancora lungo e pieno di incognite Soprattutto per reperire i notevoli fondi necessari a un intervento di consolidamento e di ripristino dell'organismo centrale.

Euro previsti per l’Aquila: zero. Qui i soldi dell’8 per mille

Feruccio Sansa - Il Fatto quotidiano

Tre miliardi e mezzo di euro. Meno di quanto costerà il Ponte sullo Stretto sponsorizzato dal centrodestra. Meno di un terzo della spesa prevista per la mega autostrada Mestre-Orte-Civitavecchia (voluta da tutti, dal Pdl al Pd). E’ quanto servirebbe per evitare la morte di una città: L'Aquila. Davanti alla basilica di Collemaggio - con la sua facciata trecentesca che fino al 6 aprile 2009 guardava un grande prato e una città piena di vita e di studenti - oggi intorno è buio: migliaia di case ridotte a ombre, coperte dalla vegetazione. Eppure, in una serata d'inizio settembre, ecco arrivare centinaia di persone, uscite dalle abitazioni prefabbricate, arrivate dai paesi vicini dove si sono trasferite dopo il terremoto. Alla fine saranno pi di mille. Per una sera L'Aquila sembra vivere di nuovo. La città assiste insieme con Sabina Guzzanti alla proiezione del suo film Draquila, dedicato al terremoto. Un'ora e mezza di pellicola, e poi il dibattito che non finisce mai: due ore, nonostante il freddo, perché qui tutti hanno voglia di parlare, di scambiarsi idee, timori. E, magari, anche un poco di speranza. Certo, fa uno strano effetto guardare se stessi, la propria storia in un film. Si osserva e poi si discute.

Non c'è spazio per gli slogan, per la propaganda: se alzi lo sguardo dal telone del cinema all'aperto, ti ritrovi davanti palazzi crollati, macerie. L'Aquila è ancora in rovina. E in fondo la domanda per tutti gli abitanti è sempre la stessa: La nostra città ha un futuro? Il pubblico punta gli occhi verso Sabina Guzzanti e i suoi ospiti: Gianfranco Cerasoli, responsabile Uil Beni culturali; Gianni Lolli, deputato del Pd; Stefania Pezzopane, ex presidente della Provincia; Giusi Pitari, esponente dei comitati degli abitanti; Angelo Venti, giornalista, e Antonello Ciccozzi, docente di Antropologia culturale all'Università degli studi dell'Aquila. Nessuno ha una risposta al timore che anima la folla. Ma ognuno porta un tassello per capire che cos'è il presente, prima di affrontare il futuro. L'Aquila è una delle venti città d'arte d'Italia, racconta Cerasoli, e lo sguardo di tutti va alla facciata di Collemaggio. Aggiunge: Secondo le stime per ricostruire il centro storico servirebbero tre miliardi e mezzo. Mormorio tra la folla. Già, perché, riferisce Cerasoli, nell'intero bilancio dello Stato ci sono appena 70 milioni di euro per la conservazione del nostro patrimonio . E per L'Aquila? Nel 2009 la Protezione civile aveva previsto 50 milioni di euro, ma ne sono arrivati 20 .Il peggio, però, deve ancora arrivare: Oggi non c'è nemmeno un centesimo.

Più d'uno anche tra il pubblico sussurra: All'inizio venivano tutti, oggi che siamo di fronte al fallimento della ricostruzione non si vede più nessuno . Il ministro Sandro Bondi è assente , latitante , dicono qui. Si parla delle imprese coinvolte nella ricostruzione. Certo, c'è la Cricca, ma ci sono anche costruttori in odore di mafia, come ricorda Angelo Venti. I pochi finanziamenti che arrivano a L'Aquila rischiano di finire alla criminalità organizzata, più che agli aquilani. Impossibile non denunciare gli sprechi, come le indennità milionarie dei commissari straordinari: Invece di nominare un commissario, magari inutile, si potrebbe recuperare un intero palazzo . I cittadini chiedono una soluzione, un'indicazione concreta. Stefania Pezzopane ci prova: Il governo ha orrore della parola tasse.

Ma per salvare L'Aquila bisogna chiedere l'aiuto di tutti gli italiani. In passato quando una città, una regione hanno dovuto affrontare grandi tragedie, tutto il Paese li ha aiutati. Adesso non bisogna abbandonare l'Abruzzo . Come, allora? Il mezzo usato finora è stato quello di una tassa di scopo, destinata cioè espressamente alla ricostruzione della nostra terra.

Non è la sola ipotesi. Sabina Guzzanti, insieme con Pezzopane e Cerasoli, propone un'altra strada: Si potrebbe anche ricorrere all'8 per mille, quella fetta (oltre un miliardo di euro) del gettito Irpef che ogni anno viene divisa tra lo Stato e le diverse chiese. Si parla stringendo il microfono e sperando che le parole in qualche modo arrivino fino a Roma. Mille persone incollate allo schermo e al palco per più di tre ore. Per parlare e per sentirsi! almeno una sera, di nuovo città! Poi L'Aquila ritorna deserta.

«Ci hanno trattato come terremotati del Sud». Giusi Pitari, la docente anima del «popolo delle carriol e » , avverte che l e sue parole van capite bene. Che non c'è retropensiero razzista. Che lei semmai sta tutta dalla parte dei meridionali e che questa idea dei «terremotati del Sud», visti come una plebe da trattare come plebe, è nella testa di chi l'ha gestito, quest’anno e mezzo trascorso dalla notte in cui l'Appennino diede lo scrollone che devastò l'Aquila¸ straziò altri 56 comuni, uccise 308 persone.

«Presidente, grazie a lei siamo dei terremotati di lusso», disse colmo di stralunata riconoscenza uno degli sfollati a Silvio Berlusconi, in visita mesi fa al prefabbricato della «primaria» intitolata a Mariele Ventre, l’animatrice dello Zecchino d'oro. E come lui la pensano buona parte degli abitanti delle «case vere, belle, eterne» (parole del Cavaliere) tirate su a Bazzano in via Mia Martini e nelle altre 18 new town sparpagliate intorno al capoluogo. E in questi due giudizi opposti c’è la sintesi di come venga visto oggi il bilancio dell’operato del governo, della Regione, del Comune, della «macchina» dei soccorsi nel suo insieme.

Da una parte la venerazione per il Messia Azzurro di chi magari viveva in una casa di pietra «pittoresca» ma decrepita e si è ritrovato in un alloggio decente con una torta e lo spumante in frigorifero. Dall’altra l’insofferenza di quanti hanno trovato insopportabile essere trattati «come sudditi un po’ bambini invitati a "godersi il campeggio" e "divertirsi negli alberghi al mare" e magari "partire in crociera", come disse proprio Berlusconi in una conferenza stampa, mentre facevano tutto loro, a modo loro, per interessi loro».

Di qua quelli che mettono le lenzuola alle finestre con scritto «Silvio, fatti clonare per i nostri figli». Di là quelli che, riconosciuto il «miracolo» delle new town, fanno comunque notare come non solo «i prati verdi e fioriti con gli alberi d’alto fusto» si sono presto spelacchiati perché «erano stati messi giù in tutta fretta per le telecamere», ma forse sarebbe stato meglio restare un po’ di più «come i friulani» in strutture provvisorie pur di avviare subito la ricostruzione dell’Aquila e dei paesi «com’erano e dov’erano».

Cosa che avrebbe consentito anche di arginare l’assalto di quegli sciacalli immortalati dal dialogo infame intercettato la mattina del 6 aprile 2009 fra Pierfrancesco Gagliardi e suo cognato, il direttore dell’impresa «Opere pubbliche e ambiente», Francesco De Vito Piscicelli: «Qui bisogna partire subito in quarta. Non è che c’è un terremoto al giorno». «No, lo so». «Così per dire, per carità, poveracci». «Va buò, ciao». «O no?» «Eh certo, io ridevo stamattina alle tre e mezza dentro il letto». «Io pure. Va buò, ciao».

«La verità è che il terremoto è stato l’occasione colta al balzo per una speculazione su 200 ettari di terreni. A costo di assassinare la memoria, la dignità, la cultura di un popolo», accusa Alessandra Mottola Molfino, presidente di Italia Nostra che da mesi tempesta il governo denunciando «la mancanza d’un piano unitario di interventi sul centro storico dell’Aquila e della sua cintura di centri minori».

A dire il vero il Cavaliere, data la precedenza assoluta alla sistemazione nelle C.a.s.e. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili, ma potrebbero chiamarsi «Ghe-pensi-mi», tanto è riconoscibile la firma) una promessa l’aveva fatta. Questa: «Certo, per la ricostruzione di tutti gli edifici compresi anche quelli storici, ci vorranno degli anni ma l’impegno è quello di concludere tutto entro la legislatura». Non era successo anche in Friuli, del resto, che le chiese e palazzi storici erano stati tirati su «com’erano e dov’erano» solo dopo i primi interventi per l’emergenza, le fabbriche, le infrastrutture?

A parte i dubbi di oggi sulla durata della legislatura (settimane? mesi?) l’ottimismo berlusconiano, per realizzarsi, avrebbe bisogno davvero di un miracolo. Perché, spiega l’architetto Luciano Di Sopra che firmò il piano friulano, «è vero che a Osoppo, Gemona e Venzone la ricostruzione degli edifici storici distrutti cominciò tre anni dopo, ma i cantieri possono essere aperti solo alla fine di un percorso che deve iniziare molto prima. Deve avere leggi quadro, regolamenti, stime accuratissime dei danni, ripartizioni dei compiti, parametri, modelli, prezzari definiti… E più tardi si parte con questo lavoro, più tardi si aprono i cantieri. È come quando hai una macchina rotta: se la aggiusti subito è un conto, se la lasci ferma per anni diventa complicatissimo».

Certo, lassù in Friuli c’era una Regione a statuto speciale che aveva qualche agilità e potere in più. Che rivendicò subito la volontà di gestire tutto autonomamente. Qui è più complicato. Fatto sta che l’8 maggio 1976, trentacinque ore dopo il sisma, la Regione Friuli aveva già la sua prima legge. Qui, dopo la prontezza della risposta iniziale e l’intervento di una Protezione civile trasformata da Guido Bertolaso in una tambureggiante «macchina da guerra», c’è stato sotto questo profilo, dicono i critici, il vuoto.

La prova? L’accusa dice che è nelle date. Passano sei mesi dal terremoto prima che il 22 dicembre 2009 il governo decida di creare una Struttura di Missione per la ricostruzione, coordinata dal governatore di centrodestra Gianni Chiodi. Un altro perché questa struttura sia costituita materialmente il 2 febbraio 2010. E ancora sei perché arrivi il primo euro. Che appare solo il 10 agosto 2010, quando il Tesoro deposita 714 milioni sul conto speciale della Banca d’Italia. Esattamente 490 giorni dopo lo schianto.

La colpa? Un po’ di tutti. Del governo, ma certo anche delle autorità locali, Regione, Comune e Provincia, che non li hanno mai chiesti ufficialmente, dicono alla Protezione civile. L’unica cosa certa è che la ricostruzione, per tutto questo periodo, resta ferma. Mentre a L’Aquila il clima si fa incandescente. L’8 luglio, il giorno dopo le bastonate in piazza a Roma ai manifestanti aquilani, Berlusconi sbotta: «La ricostruzione spetta agli enti locali, al Comune e alla Regione. Il governo doveva dare i finanziamenti, cosa che è stata fatta».

Il problema è che l’Aquila ha un centro storico enorme. E un numero di edifici vincolati inferiore, in Italia, soltanto ad Arezzo. Bisogna camminarci, per le strade deserte, fra le macerie, le catene che tengono insieme gli edifici squarciati dalle crepe e i ponteggi luccicanti, per vedere come la ferita butti ancora sangue. C’erano 27 mila universitari, per metà fuorisede, tra queste strade piene di macerie. Sui muri dei viottoli morti leggi ancora graffiti pieni di vita: «Buongiorno principessa!», «Giulia è solo te ke voglio», «Amore 80 voglia di te!». Chissà dove sono finiti, i ragazzi che scrissero quelle frasi. Qui sono rimasti soltanto i fantasmi.

Intendiamoci, sarebbe indecoroso non riconoscere come 14.356 persone, stando agli ultimi dati (anche se molte sono ancora costrette a vivere negli alberghi o sistemazioni di fortuna) siano state sistemate a tempo di record nelle 19 aree del progetto C.a.s.e. Anche se sono legittime le perplessità sulla scelta di mettere in ogni abitazione tutto ma proprio tutto compresa la tivù ultrapiatta ma non una libreria. E lo è anche chiedersi se non sia stato un po’ costoso costruire quelle abitazioni a 2.700 euro al metro quadro contro una spesa media in zona di circa 900. Ma le case sono là.

Il dubbio che agita non solo Italia Nostra ma anche il sindaco o l’assessore (ed ex presidente provinciale) Stefania Pezzopane è semmai quello che forse il piano new town è stato «fin troppo» miracoloso. Come fosse una strategia edilizia già decisa per la prima occasione utile. Racconta il sindaco (e vicecommissario) Massimo Cialente: «La mattina dell’8 aprile Berlusconi scende dall’elicottero e ci dice: adesso costruiremo delle case sicure in una nuova città, una new town. Io scuotevo la testa, e chiedevo: ma le "nostre" case? Disse: hai coppie giovani, ci sono molti studenti, potrai metterci loro… In quel momento aveva in testa una sola new town. Voleva rifare l’Aquila da un’altra parte. Qualche giorno dopo Bertolaso mi confermò: Tremonti aveva trovato l’area. Quella del vecchio aeroporto».

L’incubo, dice la Pezzopane («e non chiesero niente a me che avevo le competenze urbanistiche») era quello «di finire come Gibellina», morta, abbandonata e trasferita altrove. Per di più in un terreno paludoso. Riprende il sindaco: «Ci opponemmo con tutte le forze. Riuscimmo a ottenere che invece si creassero "solo" nuovi insediamenti nelle aree degli altri comuni terremotati. Da medico, diciamo che invece di farci tagliare la gamba ce la siamo cavata con l’amputazione di un alluce. Dolorosa ma limitata».

Il lungo sonno dell’Aquila ferita sotto i detriti, ecco ciò che non fa dormire Antonio Perrotti, Giusi Pitari, Annalisa Taballione e gli animatori del comitato «3 e 32». Il difficile deve ancora cominciare. Lo dicono, paradossalmente, i tre monumenti (tre!) eretti in ricordo del terremoto assai prima che fossero rimosse le macerie che quel terremoto lo ricordano da sole. Lo dice la statua di Sallustio tra i tubi Innocenti di piazza Palazzo alla quale hanno messo in mano una pala: pensaci tu, se sei capace. Qui, per ora, nonostante gli appelli, le denunce, le manifestazioni, le assemblee dei cittadini (vietate nelle tendopoli, insieme con il caffè, gli alcolici e la Coca-Cola (!), perché «eccitanti») o le proposte avanzate dai giovani architetti e tecnici del Collettivo 99, c’è poco o niente.

Per ora ci si è limitati a suddividere il centro storico in «aggregati». Dove la ricostruzione dovrebbe esser gestita in modo consorziato dai condomini. Piccolo dettaglio: la legge prevede la copertura integrale dei danni subiti dall’«abitazione principale». E qui sorge il primo problema, perché l’Aquila è piena di seconde case. Di più: la natura di questa «copertura» non è chiara affatto. Sono stati chiesti pareri all’Avvocatura dello Stato e all’Authority dei lavori pubblici. Stessa risposta: per come è formulata la norma, trattasi di finanziamento statale. Come tale, può essere utilizzato solo facendo gare nazionali per importi oltre il milione e addirittura europee per quelli che passino i 4,9. Una follia. Tanto più che non c’è probabilmente edificio di grande pregio, diviso in sette o otto abitazioni, che non richieda somme simili.

A parte i tempi, ve l’immaginate un condominio bandire una gara internazionale, pubblicare l’avviso sulla Gazzetta ufficiale di Bruxelles, istituire una commissione per aprire le buste e affrontare gli inevitabili ricorsi? Un delirio. In plateale contraddizione, accusa il «popolo delle carriole», con quanto il Cavaliere aveva garantito l’8 agosto 2009 in conferenza stampa: «Chi vuole procedere alla ricostruzione in proprio si presenta alla banca, presenta il preventivo o la prima fattura dell’impresa cui ha affidato i lavori e riceve immediatamente senza alcuna altra pratica aggiuntiva i soldi necessari». Sì, magari! I privati che vogliono riparare le case meno danneggiate e classificate A e B, in realtà, devono avere (ovvio) l’approvazione del Comune. E sempre il Comune pagherà l’impresa, sulla base dello stato di avanzamento dei lavori.

E’ da febbraio, quando fu infine creato il commissariato alla ricostruzione, che il suo responsabile tecnico, Gaetano Fontana, ex direttore dell’Associazione costruttori, chiede sia risolto l’inghippo. Niente. Ora il governo si sarebbe deciso (il contributo statale andrebbe inteso come un «indennizzo», al riparo dalla procedura delle gare) a fare chiarezza. Con un’attesissima legge speciale magari con una tassa di scopo? Macché: con un emendamento al decreto Tirrenia! Direte: cosa c’entra la Tirrenia? Niente, appunto.

A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina, dice il vecchio adagio. Sussurrano dunque i bene informati, fra cui politici con rilevanti responsabilità amministrative, che lo schema era già predisposto. Il centro storico dell’Aquila sarebbe stato ripartito in una ventina di zone, ognuna delle quali assegnata a un gruppo di imprese: ci avrebbero pensato loro a fare i progetti, farli approvare e ricostruire.

Fantasia? Guai se non fosse così. Intanto però la ricostruzione del capoluogo abruzzese ha gettato il mondo dei costruttori locali in uno stato di agitazione mai visto. Senza dire dei ripetuti allarmi sui rischi di infiltrazioni della criminalità organizzata. Rischi denunciati ad esempio da «Libera» e dal giornale online www.site.it di Angelo Venti. Un esempio? La scoperta che una ditta impegnata nei puntellamenti, guidata da amministratori «padani» per non dar nell’occhio, aveva 13 dipendenti su 15 con precedenti di camorra.

Va da sé che in una situazione come questa, che richiederebbe un asse solidaristico «alla friulana», divampano polemiche feroci. Di qua, nei Comuni di centrosinistra, lamentano l’inerzia della Regione, che si sarebbe limitata ad assecondare il volere di Berlusconi rinunciando perfino a emanare una propria legge. Di là, alla Regione, si lagnano per l’inefficienza dei sindaci che pur avendo la delega alla ricostruzione non hanno manco provveduto (dicono loro che non è chiaro: chi paga?) a rimuovere le macerie. Sia chiaro: farebbe tremare i polsi anche a Churchill o a Napoleone la ricostruzione dell’Aquila. Ma colpisce il tempo necessario a definire una stima dei danni. Elemento decisivo, spiega Luciano Di Sopra, per pianificare la continuità finanziaria degli interventi. A maggio 2010 il Cavaliere parlò di 7-8 miliardi. Poi, guardando quanto si era speso per il terremoto di Umbria e Marche, ne sono stati aggiunti quattro o cinque. Finché Gaetano Fontana ha spedito un appunto a Chiodi. Con una cifra tanto dettagliata, per il capoluogo, da apparire surreale: 10 miliardi, 530 milioni, 449.727 euro e 50 centesimi. Per le sole chiese sarebbe necessario un miliardo e 300 milioni. Per i palazzi privati vincolati, un miliardo e 859 milioni. Per le case del centro storico, 2 miliardi e 224 milioni.

Poi, naturalmente, c’è il resto. Compresi gli altri 56 Comuni. Il conto finale, potete scommetterci, sarà astronomico. Per non parlare dei tempi.

Non che di soldi non ne siano arrivati. Anzi. L’emergenza ne ha fatti girare parecchi. Per l’esattezza, ben 2 miliardi e 196 milioni. Finiti anche nel centro storico aquilano. Sotto forma soprattutto di bulloni. L’operazione dei puntellamenti non è ancora conclusa (è all’80%) ma si sono spesi già 70 milioni in catene e ponteggi. Nuovi di zecca, molti firmati «Marcegaglia». Comprati sulla base dei prezziari ufficiali: 25 euro a snodo, compresi i tubi e la messa in opera.

Il nodo, scusate il gioco di parole, è proprio lo snodo. Lo vedi da alcuni dettagli. Come la messa in sicurezza di un portoncino in un palazzo davanti alla chiesa di S. Pietro. Dove di snodi, con la necessaria pazienza, se ne possono contare complessivamente 44. Per un totale, su quel solo portoncino, di 1.100 euro.

Più snodi ci sono, più il costo sale. In alcuni casi non si può farne a meno. In altri, a vedere l’ardimento di certi grovigli di tubi, ti vengono dei dubbi: mah... C’è un episodio che dice tutto. A Roio il padrone di una casa praticamente crollata e di nessun valore storico aveva deciso di darle due botte finali e ricostruirla. Niente da fare. All’arrivo con la ruspa, la sua casa la stavano ingabbiando in una selva di tubi: 80 mila euro. C’è poi da stupirsi se Cialente ha deciso di istituire una commissione per capire come sono stati spesi tutti quei quattrini?

«Ecumò ce hao di paja?». Così disse la vecchia terremotata, sotto gli occhi di padre David Maria Turoldo. I soccorritori le avevano appena consegnato un paio di coperte e dei viveri e lei voleva sapere: «E adesso cosa devo pagare?». Spiegava il frate poeta che lì c'era il senso di tutto: «Una ricostruzione, per essere vera, perché sia segno di civiltà e abbia un valore, non può essere regalata. Una ricostruzione si paga e basta: allora ha un valore. Una cosa si deve fare con le proprie mani, allora la si ama». Quindi «è bene che non ci sia dato nulla in regalo».

Sia chiaro: non è che lo Stato non abbia fatto la sua parte, dopo la doppia randellata che il sisma diede alle colline delle prealpi carniche il 6 maggio e l'11 settembre del 1976 uccidendo 989 persone alla prima conta più tutti quelli morti nelle settimane seguenti negli ospedali. Anzi, per una volta la macchina pubblica, Stato, Regione, Provincia, Comunità collinare e Comuni furono all'altezza della sfida. Al punto che Italo Calvino si sbilanciò a scrivere che «i responsabili politici lavorarono unitariamente mettendo insieme quei tesori di impegno, di finezza, di pazienza e di moralità che occorrono per il successo di una battaglia politica perché questo era l'imperativo categorico dettato dalla loro coscienza». Senza badare, per una volta, alle tessere.

Quali siano i risultati, lo dice una passeggiata nel cuore di Gemona, lo stesso descritto allora da Gianni Rodari, il nostro Hans Christian Andersen, in un reportage per Paese Sera tra le «macerie di una cittadina che fu già bellissima, e ora è soltanto un groviglio pauroso. Il vecchio storico borgo è crollato da 48 ore, ma sembra morto da secoli. Le stradine preziose, i vicoli pittoreschi sono soltanto torrenti di detriti, le case sventrate, schiacciate, frantumate, è già come se non fossero state abbattute da questo terremoto ma da un altro, cento anni fa o da un bombardamento in qualche guerra». Era impressionato, Rodari: «Non si vede più nessuno piangere il secondo giorno dopo il terremoto. La fine di quello che c'era è una cosa accaduta in un tempo già lontano. È cominciata un'altra cosa. Non si sa ancora che cosa sarà».

Eccolo qui com’è, oggi, il cuore di Gemona. Il Duomo, il palazzetto gentilizio che ospita la ricca cineteca del Friuli, le stradine, le piazzette... Certo, le foto di allora con quegli ammassi di macerie dicono che quasi nulla è davvero «originale». Insomma, la «purezza» delle pietre antiche non è poi così antica. Se chiedi alle persone se avrebbero preferito buttar via tutto e tirar su una new town, però, ti guardano di traverso.

E così a Venzone, dove puoi vedere forse l'espressione migliore di quella filosofia che dominò la ricostruzione: «dov'era, com' era». Dov'era e com'era è il possente muro di cinta, dov'era e com'era è la porta di accesso al borgo, dov'erano e com'erano sono i palazzi allineati lungo la strada principale. Ma soprattutto, bellissimo, dov'era e com'era è il Duomo, che era stato inaugurato nel 1338 da Bertrando di Saint -Geniés, patriarca-guerriero di Aquileia e dopo avere barcollato alla prima botta sismica di maggio, era stato annientato dalla seconda di settembre.

Architetti, restauratori, ingegneri, storici dell’arte ed esperti vari erano tutti d'accordo: danni troppo gravi, impossibile ricostruire. Meglio fare una chiesa nuova. Qualcuno andò oltre, proponendo di coprire il paese intero con una gran cupola di plastica. Mai, dissero gli abitanti. E quando arrivarono le ruspe, sbarrarono loro la strada. E firmarono in massa (630 su 650 adulti) una petizione: com’era e dov’era. La leggenda, raccolta per Epoca da Gualtiero Strano, narra che a un certo punto il sovrintendente tentò di mettere in riga il prete, Giovan Battista Della Bianca: «Lei stia sul suo altare a dire la messa che a fare gli architetti ci pensiamo noi». E quello: «Se siete inefficienti faremo noi anche gli architetti». Finì che i cittadini recuperarono tutte le pietre del loro Duomo, le caricarono sui furgoni e le carriole e le sparpagliarono in un grande campo: 7.650 pietre. Numerate una ad una grazie alla perizia fatta dopo la prima scossa.

«Ognuna di queste pietre, quando il Duomo fu edificato, costò una giornata di lavoro a un uomo: 7.650 pietre sono 7.650 giorni», spiegò il pievano, «Venti anni di fatiche, sudori, sofferenze non potevano finire in discarica». Ci misero anni, i venzonesi, ad averla vinta. Ma ora il Duomo è lì. E chissà che rivederlo non abbia salvato delle vite. Le statistiche degli anni seguiti alla catastrofe, infatti, dicono che lo spaesamento tra i sopravvissuti più fragili fu tale da far impennare i suicidi fino a raddoppiare (11,6 contro 5 ogni centomila abitanti) la media nazionale.

Non solo a Gemona, Osoppo o Venzone fu sconfitta la teoria delle new town: «Secondo l'ingegnere autore della prima bozza del piano urbanistico — ricorda l'architetto Luciano Di Sopra, che del «modello Friuli» fu uno dei protagonisti come firmatario del piano di ricostruzione —, il sisma dava l'opportunità di abbandonare le zone danneggiate e trasferire la popolazione lungo l'asse Udine-Pordenone, con una ricostruzione resa più rapida dall'impegno integrale della prefabbricazione edilizia per realizzare nuovi edifici antisismici».

Impugna un libro scritto dopo essersi occupato di varie catastrofi in giro per il mondo compreso inizialmente («ma non facevo parte di nessuna cricca partitica e mi fecero fuori») il sisma in Irpinia. Si intitola Il costo dei terremoti. E’ pieno di cartine: «E’ stata una mania sovietica quella di spostare gli abitanti in new town permanenti — ammicca immaginando l'effetto che può fare a Berlusconi —. E’ il modello Belice. Ecco cosa hanno fatto a Montevago, Salemi, Salaparuta... Per non dire di Gibellina, spostata a una trentina di chilometri di distanza lasciando spazio ad architetti e artisti che avevano in testa modelli di periferie del Nord Europa. Il risultato è lì. Prendete Venzone e Gibellina Nuova. C'è qualcuno che pensa che andasse fatta la scelta siciliana?».

Corsi e ricorsi storici. La stessa scelta era stata fatta nell'isola dopo il terremoto che nel 1693 aveva devastato la Valle di Noto, causato almeno 60 mila morti e raso al suolo 25 centri. Fra i quali Occhiolà, feudo del principe di Butera. Il quale decise di spostare il borgo, di chiamarlo Grammichele e di prendere a modello la fortezza di Palmanova. In Friuli. «Non ripetiamo il Belice», titolò il Corriere il giorno dopo il terremoto ai piedi della Carnia. Eppure non erano solo gli ingegneri «sviluppisti» a essere perplessi sulla possibilità di restituire la vita a quei paesi. «Non posso dimenticare l'incubo che a quattro mesi dal sisma domina in questa città morta», scriveva ai primi di settembre da Gemona il nostro Alfredo Todisco senza immaginare che giorni dopo sarebbe arrivata la seconda batosta, «Restaurare Gemona sarebbe come restaurare Ercolano o Pompei».

Ma si sa come sono i furlani: teste dure. Lo sa Vienna che, come spiega il professor Salimbeni nella pagina seguente, ebbe modo di assaggiare di che pasta erano fatti nel 1848, in occasione dell'eroica difesa della fortezza di Osoppo, uno degli episodi purtroppo meno noti del Risorgimento. Lo scrisse mezzo secolo fa, spiegando che i canadesi distinguevano gli italiani «in due grandi categorie: quelli del Friuli e gli altri», Gianfranco Piazzesi. Affascinato, lui, toscano di questo «popolo di emigranti plasmati con sapienza dal parroco: fatti apposta dal buon Dio per rifornire la comunità nazionale di muratori, di carabinieri e di domestiche. Un popolo che risolveva molti problemi e non ne creava nessuno».

Decisero di far le cose a modo loro e le fecero. Senza che ancora esistesse, così come la conosciamo oggi, la Protezione civile. Senza le scorciatoie emergenziali che oggi sono ritenute assolutamente indispensabili. Senza esibizioni muscolari. Senza l'alone mistico di uomini della Provvidenza. Bastò il buon senso e l'efficienza di Giuseppe Zamberletti, il sottosegretario che forse avrebbe potuto dare di più a questo Paese se non lo avessero fatto fuori alla prima occasione. Bastò la saggia decisione andreottiana di delegare il più possibile alla Regione e ai Comuni. Bastò una netta divisione dei compiti settore per settore. Bastò la collaborazione (questa sì una fortuna irripetibile) di quei 57mila militari che in quegli anni in cui c’era ancora la Cortina di ferro erano acquartierati nelle caserme a ridosso della frontiera jugoslava.

Determinante, certo, fu lo spirito dei friulani. Basti ricordare quanto disse anni fa l'allora presidente regionale, il dc Antonio Comelli: «Prima pensammo alle fabbriche, al lavoro, alla produzione. Poi alle case. Ricordo ad esempio che l'anno dopo il terremoto prelevammo 300 o 350 miliardi dal fondo per la ricostruzione per l'autostrada Udine-Tarvisio che era arrivata solo fino a Gemona. La gente era ancora nelle baracche. Pensammo: è giusto farlo, ma questa è la volta che ci linciano. E invece la gente capì: occorreva ripartire abbinando ricostruzione e sviluppo». Una scelta difficile, ma compresa: «Molti rinunciarono ai contributi statali. Chi aveva un danno non troppo grave si vergognava un po' a chiedere soldi che magari servivano da altre parti». Il contrario di quanto sarebbe accaduto pochi anni dopo in Irpinia con l'allargamento dei comuni colpiti: alla prima conta 36, all'ultima 687. A un certo punto il Gazzettino confrontò le due catastrofi. Itinerari opposti: fatti 100 i finanziamenti al momento del disastro, sette anni dopo gli stanziamenti per Gemona o Buja erano ridotti a 38, quelli per Sant’Angelo dei Lombardi o Nusco erano saliti a 132.

Di soldi dallo Stato, comunque, anche in Friuli, ne arrivarono: al 31 dicembre ‘ 95, quando la ricostruzione poteva ormai considerarsi conclusa, il pallottoliere si fermò a 12.905 miliardi. Nove miliardi di euro d’oggi. Un settimo dei 66 spesi in Campania. Certo, i friulani ci misero forza e cuore. Ma quanto hanno pesato, sui fallimenti in Belice e in Irpinia, le scelte diametralmente diverse della politica, che certo non possono essere superficialmente addebitate alla «pigrizia» dei siciliani e dei campani?

Marco Fantoni se lo ricorda come fosse ieri mattina, quel 6 maggio. Tutti i capannoni dello stabilimento di Osoppo in cui produceva mobili e pannelli furono devastati dalla botta: «Sulle prime ci venne da piangere: un disastro. Ma era inutile star lì a lagnarci. Era un giovedì sera. Mentre organizzavamo nel piazzale un centro per le roulotte per ospitare le famiglie dei dipendenti, abbiamo cominciato a consolidare con dei tiranti l'unico capannone rimasto in piedi e a portarci i macchinari che ancora potevano essere riparati. Il lunedì mattina ripartimmo con la produzione. Un mese dopo brindammo al primo mobile della rinascita».

Dice che no, non ha chiarissimo se il terremoto abbia dato un'accelerazione allo sviluppo delle aziende della zona e in particolare della sua: «Va' a saperlo... Eravamo già ben avviati. Fu una sfida, questo sì: dovevamo mostrare di essere più forti della sfortuna». Certo è che al momento della scossa i dipendenti erano 310 e il fatturato di 6 miliardi di lire. Dieci anni dopo, i primi erano saliti a 510 e il secondo a 49. Un'impennata proseguita (360 milioni di euro nel 2007) fino alla grande crisi internazionale.

Fortuna dovuta a una pioggia di aiuti pubblici? «Mica tanto — risponde il figlio Giovanni, già presidente degli industriali friulani —. I contributi a fondo perduto sui danni accertati furono pari al 30% del danno subito per le aziende distrutte e al 20% per quelle danneggiate». Finanziamenti? «Fino a 12 anni con 3 di preammortamento al tasso del 4%. La Regione, certo, faceva da garante. E questo aiutò. I soldi, però, li abbiamo dovuti restituire». Anni buoni, dopo la botta. Buonissimi. Sospira: «Diciamo che per certi aspetti il terremoto più grave forse forse è quello finanziario di questi tempi». Che ha costretto l'azienda a ricorrere in modo massiccio ai contratti di solidarietà. Un destino comune a buona parte delle imprese friulane.

Dice una recentissima relazione degli uffici regionali che la produzione industriale del Friuli-Venezia Giulia è diminuita del 4,7% nel 2008 e addirittura dell’11% nel 2009. Senza risparmiare praticamente nessuno. A partire dal settore del mobile, che da queste parti è sempre stato una locomotiva. All’inizio del 2009 il calo, secondo Edi Snaidero, si aggirava sul 20-25%. Colpa degli ordinativi dai mercati extracomunitari, diminuiti nel 2009 di quasi il 7%. Letteralmente crollate le esportazioni in Russia: -55,8%. Incassata la mazzata più pesante negli Stati Uniti, la società ha reagito buttandosi sul mercato asiatico e lanciando modelli di cucine low cost con l'obiettivo di conquistare una fetta del mercato presidiato dalla Ikea. Auguri.

Nei primi tre mesi del 2010 c’è stata una certa ripresa. E l’aumento tendenziale su base annua della produzione industriale ha toccato punte del 12%. Con una ripresa nei fatturati (precipitati nel 2009 del 13,8%) oltre il 6,2%. Ma dire che la tempesta sia finita non si può. E se un po’ di fiducia sembra essere ritornata, molti imprenditori si leccano ancora le ferite. A fine 2009 il numero delle aziende iscritte alle Camere di commercio della regione era sceso per la prima volta da tanti anni sotto le 100 mila unità. Uno shock: in dodici mesi ne erano sparite 1.629. Con un tasso di mortalità più elevato della media nazionale e la scomparsa nel solo manifatturiero di 289 imprese: dalla siderurgia alla lavorazione dei metalli, dai mobili ai beni di consumo. Con una parallela impennata dei disoccupati: 34.700. Il doppio rispetto a tre anni fa.

Altri, con quei nuvoloni ancora addensati all'orizzonte, la vedrebbero nera. Eppure, dopo essere usciti alla grande dall'apocalisse del 1976, i friulani fanno mostra di ottimismo. Questione di carattere. Quello che colpì anche Riccardo Bacchelli. Un carattere che secondo il grande scrittore sarebbe stato temprato dall'essere sempre vissuti, i friulani, in un'area a cavallo fra il mondo tedesco, quello slavo, quello italiano e in definitiva avendo sempre l'immagine «immanente» di un terremoto, un'invasione, una guerra. Insomma, dall’esser sempre stati «sotto la bocca dei cannoni».

I colpi contro il popolo aquilano non vengono soltanto dalle cariche della polizia a Roma. La scorsa settimana anche il presidente della regione e il sindaco di L'Aquila, nei ruoli di commissario e vice della ricostruzione hanno infatti picchiato duro, istituendo una commissione di "saggi" per coordinare gli interventi di ricostruzione che è un altro duro colpo alla popolazione. In perfetta sintonia bipartisan i due hanno nominato un validissimo economista come Paolo Leon, ben due sociologi (Bonomi e De Rita), nessuno storico della città e del territorio e altri tre autorevoli personaggi di cui sarà bene parlare.

Il primo è Cesare Trevisani, ad di Trevi finanziaria industriale, presidente e ad della Petreven, ad di Trevi spa, vice presidente e ad di Soilmec; vice presidente e ad di Drillmec. Sfugge, al di là della potenza di fuoco delle cariche ricoperte, il motivo della nomina. Entra infatti come referente per le infrastrutture e a noi non resta che domandarci se non c'era di meglio sul mercato degli esperti: esistono infatti decine e decine di tecnici validissimi che da decenni operano nel settore dell'innovazione tecnologica. È invece noto che siamo il paese con la più spaventosa arretratezza nel campo del settore infrastrutturale e non ci vuole la zingara per attribuire anche alla potente Confindustria un grave ritardo culturale. E chi scelgono Chiodi e Cialente? Un esponente di spicco dell'associazione, essendo Trevisani il vice presidente delle infrastrutture di Confindustria.

Solo per stomaci forti consigliamo di ascoltare l'intervista rilasciata dal nostro alla televisione regionale abruzzese in cui si esercita nel mantra confindustriale: bisogna abbassare le tasse per le imprese, etc. Tutte cose sacrosante, intendiamoci, ma che poteva declamare nel suo ruolo di vicepresidente. Invece le dice in qualità di membro di una commissione che - immaginiamo - verrà remunerata con i nostri soldi. E non è che Confindustria non fosse già dentro la partita aquilana. Anzi. A capo della struttura tecnica di missione siede Gaetano Fontana, già direttore generale del Ministero dei lavori pubblici, passato poi a direttore generale dell'Ance, associazione dei costruttori nazionali e da lì all'incarico aquilano. La pubblica amministrazione è come una porta girevole, si entra e si esce con grande disinvoltura.

Ancora più sconcertanti, se possibile, le altre due nomine. La prima riguarda Alvaro Siza, grande architetto di fama internazionale. Ma con le archistar non si ricostruiscono i centri storici ed è questa la vera urgenza aquilana. L'ennesimo grande nome chiamato soltanto per fare moina. Infine è stato nominato, Vittorio Magnano Lampugnani, anch'egli valente architetto. Grandi nomi dell'urbanistica non sono stati invece presi in considerazione. Pierluigi Cervellati, ad esempio, rese famosa l'Italia per le politiche di riabilitazione del contro storico di Bologna. Dal canto suo, Vezio De Lucia diresse la ricostruzione del centro storico di Napoli dopo il terremoto del 1980. Due urbanisti evidentemente sgraditi al circolo del pensiero unico.

Oppure si potevano chiamare i tecnici del comune di Foligno, dove a seguito del terremoto del 1997 è stato portato a termine un esemplare processo di ricostruzione senza clamori e senza grandi nomi. In questo caso, dava forse fastidio il rigore con cui si è ricostruito il volto di una città più piccola e con meno danni de L'Aquila. Oggi, infatti, si sentono affermazioni che non possono non preoccupare. Il Centro del 27 luglio riporta la seguente frase attribuita a Lampugnani: «Non si può pensare di ricostruire tutto com'era, ma occorre salvaguardare le grandi opere e i monumenti artistici presenti in città e in tutti i borghi del territorio». Forse gli aquilani che amano la loro città nella sua inscindibile unitarietà non saranno affatto d'accordo. Il dramma è che la politica bipartisan chiude ogni spazio di reale confronto. La ricostruzione è un fatto di pochi. Gli abitanti devono solo ubbidire a simili "saggi".

Camminare in silenzio per le strade de L’Aquila, quasi 200 persone venute da fuori, un soldato, due vigili urbani che ogni tanto si dispongono come per tenerti lontano dal rischio di un crollo, e il sindaco, davanti. Indica ma non deve spiegare. Camminare indossando il casco bianco con la scritta “visitatore”, che identifica il nuovo venuto. Ci sono caschi gialli qua e là, una decina. Ogni tanto qualcuno di loro si affianca, indica la porta socchiusa ma intatta di una casa colma di macerie (calcinacci, coperte, indumenti, pezzi di mobili, resti di un bagno, compatti come in una scultura sperimentale) e sottovoce ti dice: questa è casa mia. Lo dice al presente. I cani, all'inizio, ci stavano accanto, ai due lati. Hanno il collare sporco, incollato al pelo, il collare di cani che avevano una casa e un padrone. Adesso sono randagi. Conoscono i luoghi e gli odori, perciò sono miti e stanno il più vicino possibile agli esseri umani.

Ma riconosci i randagi perché non chiedono, non stabiliscono alcun rapporto, si muovono a testa bassa e guardano, cauti, da sotto. Le strade de L’Aquila sono trincee che si fanno più strette. E da quelle trincee si diramano vicoli invalicabili. Vedi i resti di facciate bellissime, ma spaccate nei punti in cui si forma il sostegno dell’edificio. A mano a mano che i passaggi si fanno arrischiati, i cani si premono contro gli umani per non perdere il contatto, però non mendicano. Sanno con sicurezza che questo è un disastro e guardano in basso. C'è uno scambio di poche frasi, quasi senza voce nel corteo di caschi bianchi (“visitatore”) che va avanti fra le macerie. Nessuno dei visitatori si aspettava una distruzione così vasta e così intatta. Pietre levigate dai secoli, di un colore quasi rosa, cadute dall’alto, sono state accostate con ordine ai lati dei sentieri di polvere come tante nature morte.

Distese intatte di distruzione

Lo ha fatto il popolo della carriole, cittadini che prima sono stati cacciati come intrusi o ladri di tombe, e poi hanno sfondato e hanno vinto. Contro chi? Contro soldati, polizia, Protezione civile, che pure erano qui per prestare aiuto. Continui a camminare in un paesaggio di pietre che non finisce. Per un momento resti indietro, da solo, e ti rendi conto del silenzio. I silenzio de L’Aquila lo senti all’improvviso. È un silenzio vuoto, fermo, che riguarda lo spazio e il tempo. Un silenzio che non conoscevo.

Ti guardi intorno. Vedi la distesa intatta di distruzione. Ti rendi conto che, per uno strano effetto della pioggia, del sole, dell’aria, il paesaggio di macerie si indurisce, si radica nella terra, si trasforma in un “per sempre” come Pompei o Ercolano. In questa visita inaspettata, gli abitanti espropriati dalla violenza fisica del terremoto, prima storditi, poi abbandonati, si muovono come le sole guide autorizzate delle macerie. Contro ciò che ti hanno fatto credere giornali e telegiornali, le macerie sono tutto, la distruzione ha una forza che non è stata toccata. Meno che mai dai nuovi villaggi, dalle nuove casette dotate di Tv ma prive di ogni struttura sociale (ambulatorio, scuola, farmacia, bar). Sono altrove, sono raggiungibili – anziani o no –solo con mezzi propri. Le macerie sono L’Aquila. L’Aquila è solo macerie.

Sulle macerie adesso arrivano le cartelle delle tasse. E i mutui delle macerie sono tornate a scadenza. Sono tornati anche i cittadini che erano stati sistemati negli alberghi della costa a spese dello Stato. Ora c’è la crisi, basta spese, basta albergo. Le case dei nuovi villaggi ormai sono occupate, dopo la consegna con cerimonia. D'ora in poi non si dice più “protezione civile”. Si dice destino. Chi ha avuto ha avuto.

Il silenzio, qui, è come l’acqua di una inondazione: si espande, penetra, occupa tutto il tempo e tutto lo spazio che vedi intorno, bellissimo dopo la pioggia. Per questo all’improvviso, con passione e furore, la gente grida. Lo fa nel tendone che è l’unico luogo di incontro, l’unico spazio di assemblea pubblica, fra l’accampamento dei vigili del fuoco e l’unico bar aperto.

Un anno e tre mesi di eventi falsati

Chi grida? I cittadini, decisi a rompere il silenzio, decisi ad occuparlo, decisi a far tornare la vita lungo le trincee e i vicoli bloccati della natura morta che continua a restare L'Aquila. Ma stanno gridando anche contro l'altro silenzio, quello che – con bravura – è stato imposto a tutto il Paese facendo credere (con tutta la forza del conflitto di interessi, capace di bloccare tutte le fonti di notizie vere): “L’Aquila? Problema risolto. Niente da denunciare, se mai si deve celebrare l’intervento veloce e ringraziare il governo”. A chi gridavano l’altro giorno (27 luglio) i cittadini de L’Aquila sotto il tendone, nel mezzo della loro piazza vuota? Gridavano la storia incredibile di questa città dal terremoto in avanti, un anno e 3 mesi di eventi tragici e falsati. Li gridavano a 140 deputati del Pd, che avevano deciso di venire a L'Aquila per lavori interrotti in Parlamento a causa del voto di fiducia imposto dal governo sulla legge Finanziaria. Ho detto “gridavano” perché le voci erano alte. Ma erano limpide e logiche. Raccontavano con passione a chi ascoltava, i deputati del Pd.

Abitanti declassati ad audience

È una bella scossa, per gente eletta con un progetto politico, l’incontro con un’assemblea di persone vere che hanno le facce della realtà e rendono conto di ciò che non è stato mai fatto, di ciò non è stato mai detto. Soprattutto la morsa del silenzio, dell'abbandono, della Protezione civile che è diventata guardia civile, un organo separato che fa, bene o male, ma per conto suo, con i suoi editti, i suoi divieti, le sue regole mai spiegate, sempre imposte, tutto con il sigillo non discutibile, non partecipabile, dell’emergenza. Dentro il recinto invalicabile, le macerie da non toccare, la pianificazione arbitraria, la costruzione altrove, frutto di un progetto mai discusso: i cittadini fuori, resi passivi e in attesa, che possono ricevere “regali” (così dice il benefattore), ma non possono avere diritti. E fuori gli abitanti senza casa, declassati ad audience per un enorme spettacolo, che a momenti diventa una specie di Expo mondiale, con Obama e George Clooney.

Sulla natura morta de L’Aquila viene gettato il mega-show del G8 in cui tutto è immenso, pesante, ingombrante, costoso. E non riguarda gli aquilani. Riguarda il benefattore-costruttore-presidente Silvio Berlusconi. Berlusconi ha acceso tutte le luci, occupato tutto lo spazio, ha riservato ogni ruolo per sé, dalla vittima al santo, dal governante al salvatore, dallo statista al piazzista che offre – chiavi in mano – le abitazioni modello ai senza casa secondo una lista arbitraria. Lo scorta, nella nuova veste di polizia edilizia e mediatica, il suo alter ego della Protezione civile, Bertolaso, che apre strade e chiude strade, nega e concede secondo una sua classifica di ruoli da esibire nell’evento spettacolo. Tutto ciò gli aquilani della tenda in piazza hanno raccontato agli insoliti visitatori (uno solo, Giovanni Lolli, il loro deputato che non si è allontanato di un passo, che è stato il legame e il tramite contro il rifiuto giustamente sdegnato di questa gente per la politica) non come lamento, ma come prova dell’identità riconquistata, strappata a quel grande imitatore di se stesso che Sabina Guzzanti ci ha fatto vedere nel suo film.

Qualcosa è accaduto in quella tenda

E devi per forza incontrare il sindaco Cialente. È solo il sindaco di una città, e persino di un municipio, che non ci sono più. Ma non ha mai ceduto il ruolo né a Bertolaso, né a Berlusconi. Qualcosa è accaduto nella gita a L’Aquila. Lo si è capito dal parlare irruente, per una volta appassionato di Bersani in quella tenda. È stato lo choc di incontrare veri cittadini con un vero linguaggio e veri, tremendi problemi sul luogo del disastro, invece di trattare in lingua politica con altri politici. È stata una respirazione bocca a bocca che ha fatto risvegliare e sussultare la parte presente del Pd. Il beneficio che i deputati ne hanno tratto è molto più grande del più volenteroso contributo di presenza e partecipazione che hanno voluto dare, con una decisione insolita e fortunata. Lo prova la reazione immediata e persino affannata di Berlusconi. La sera del 29 luglio ha annunciato: “Io torno a L’Aquila, torno con Bertolaso”. Quando avrà notizie più precise non credo che lo farà.

Guardando la facciata della Basilica di Santa Maria di Collemaggio simbolo della città dell'Aquila, leggermente nascosto alla sua sinistra, sorge il complesso dell'omonimo ex ospedale psichiatrico costruito tra il 1902 e il 1915. Una vera e propria piccola città sufficiente a sé stessa, uguale concettualmente agli altri manicomi costruiti in Italia in quell'epoca. Un patrimonio storico, architettonico e culturale diventato di inestimabile valore per una città d'arte ferita così profondamente dal sisma del 6 aprile e diventato insostituibile per tutte quelle associazioni cittadine che vi hanno trovato ospitalità. Un tesoro, di proprietà della Asl, che gli aquilani non vogliono perdere e su cui invece incombe un triste disegno: svenderlo con la scusa di tappare una piccola parte del buco della sanità abruzzese.

Il Colle del Maggio

Lo storico aquilano Raffaele Colapietra (comparso in numerosi film e documentari post-terremoo, compreso Draquila di Sabina Guzzanti) scrive: «...il primo Aprile 1932, a cinque mesi, come mio più degno e conveniente soggiorno, fui condotto al manicomio, a Collemaggio dove mio padre era stato chiamato a dirigere un reparto. Ero l'unico bambino in un mondo di adulti, di pazzi e di vecchi, un bambino che andava girando col suo triciclo in mezzo alle ranocchie ed alle papere in una sorta di bonaria e affollata fattoria dove arrivava l'odore acre del fieno della colonia agricola e la fragranza del pane appena sfornato...in quello che era allora un autentico villaggio di un migliaio di abitanti». Entrandoci ora - in quest'area che si estende per 150mila metri quadri, proprietà dell'Asl - pare che il tempo si sia fermato ai tempi che Colapietra descrive. Difficile non rimanere affascinati dallo stile delle maestose palazzine di inizio secolo, un tempo padiglioni della sofferenza, disposti su due lati per dividere la parte maschile da quella femminile. Un tesoro storico e architettonico immerso in una natura rigogliosa: tra gli enormi alberi presenti, dalla quercia al cedro del libano e dell' himalaya, all'ippocastano, all'abate rosso e bianco, al tiglio, vivono numerose specie di uccelli come l'allocco, la civetta, il picchio muratore e il picchio rosso e altri animali tra cui scoiattoli e ricci.

Quest'area di incantevole bellezza - che ha smesso di essere manicomio recependo la legge Basaglia nel 1991 - è diventata dopo il terremoto, grazie al lavoro delle associazioni che hanno trovato un posto al suo interno, uno spazio pubblico aperto a tutti, tra i pochi spazi di socialità rimasti oltre ai centri commerciali, fondamentale per il confronto di idee e progetti, motore propulsore per la partecipazione dei cittadini alla ricostruzione della città e dei villaggi del cratere sismico. Uno spazio pubblico necessario per dare una speranza al futuro. E a testimoniarlo sono i tanti giovani che da due giorni lo animano arrivando con tende e sacchi a pelo da tutta Italia per prendere parte al campeggio sul tema della giustizia ambientale e sociale organizzato dal centro sociale «CaseMatte». Uno spazio, però, dove nonostante tutto questo pende ancora la spada di damocle di una possibile vendita.

L'Aquila svendesi

Ad oggi quasi tutti i padiglioni presenti - inagibili dopo il 6 Aprile - sono rimasti in stato di abbandono e incuria come del resto alcuni di loro versavano già da prima. Questo nonostante l'assicurazione stipulata dalla Asl in caso di sisma, abbia fatto incassare all'azienda poco meno di 50 milioni di euro lasciando sperare a un pronto recupero dell'area anche in funzione strategica. Invece l'area dopo il terremoto viene inizialmente ignorata. A novembre si saprà che durante i mesi estivi erano altre le intenzioni e le trattative in corso. Invece di restaurare il patrimonio di Collemaggio con un intervento relativamente economico, si stava pensando ad una nuova sede per gli uffici amministrativi della Asl dell'Aquila con un appalto (mai partito) di 15milioni di euro per la cui assegnazione risultano indagati per corruzione vari imprenditori tra cui un ex assessore regionale. A settembre, piuttosto che recuperare gli edifici danneggiati, si decide allora di invadere l'area di container per dare un tetto transitorio, oltre che agli amministrativi, anche ad altre strutture già presenti nel complesso di Collemaggio prima del sisma, come l'unità territoriale dei medici di famiglia, diventati molto importanti dopo il terremoto, e il Centro di salute mentale.

Contemporaneamente, sbarca nell'area il comitato «3e32» che, nato subito dopo il sisma, in cinque mesi è diventato uno dei punti di riferimento più importanti per i giovani della città. E dà vita all'occupazione di «CaseMatte» recuperando l'ex-bar del manicomio lasciato all'abbandono da anni. Da fine agosto intanto hanno già ricominciato a vivere nell'area, ospitati in container abitativi donati dalla Protezione Civile del Trentino, più di una ventina di pazienti del centro di salute mentale fino ad allora rimasti nelle tendopoli.

Nel frattempo, con lo spoil system, la direzione dell'Asl è passata da Roberto Marzetti a Giancarlo Silveri il quale viene nominato col compito di riassorbire il buco che la Asl Abruzzo ha accumulato negli anni. L'area di Collemaggio viene dichiarata alienabile tramite cartolarizzazione per risanare il debito della sanità locale nonostante i ricavati della vendita di quel luogo siano vincolati per legge alla salute mentale. E nonostante altri progetti in tale ambito siano già stati approvati e finanziati. Come nel caso del progetto nominato «Ambiente, arte e salute» per il quale la regione stanziò nel 2006 (allora governata dal centrosinistra) circa tre milioni di euro, progetto che prevedeva un'integrazione multidisciplinare rivolta alla salute intesa come stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza si malattia o infermità. O nel caso del progetto dell' «Albergo in via dei matti» che prevede la ristrutturazione del padiglione Villa Edoarda con finanziamento Cipe del 2005, per il quale al 6 Aprile 2009 risultava già affidato l'appalto per i lavori e che ciò nonostante non viene fatto avanzare.

Un attacco politico

I ragazzi di 3e32 che intanto svolgono un'intensa attività sociale, culturale e politica vengono sostanzialmente ignorati e delegittimati anche quando sulla scrivania del manager arriva un progetto, già firmato da altri responsabili Asl, per due borse lavoro già assegnate dalla fondazione Basaglia ai pazienti del centro di salute mentale tramite l'unico soggetto capace di gestire attività lavorative nella zona, e cioè il comitato «3e32». Niente da fare. Il manager preferisce negare lavoro a due persone pur di non riconoscere il «3e32».

Si arriva così allo scorso Maggio quando il popolo delle carriole sbarca nell'ex manicomio entrando in un locale chiuso e agibile e mostrando come non vengano utilizzati preziosi stabili senza neanche una crepa e vengano lasciati abbandonati, ancora stoccati, diversi materiali sanitari. Il manager Silveri va su tutte le furie annunciando lo sgombero di «CaseMatte» e asserendo che il debito della sanità nel frattempo è stato sanato e che gli unici acquirenti di una possibile vendita sarebbero il Comune o l'Università. Ma mentre nessuna trattativa di vendita è ancora decollata, la scorsa settimana la direzione ha deciso che il Distretto sanitario di L'Aquila, da sempre collocato a Collemaggio debba essere spostato a Paganica, in un nuovo edificio di 700 metri quadrati i cui lavori prevedono un costo complessivo di 1 milione e 400 mila euro. Decisione presa senza coinvolgere la cittadinanza, senza sentire il parere degli utenti, delle associazioni, degli operatori sanitari e sociali, e di nuovo con un grande spreco di denaro pubblico. Ancora, dopo il terremoto, si ha la sensazione che invece di riparare con poche spese ciò che c'era, si preferisce costruire ex novo per favorire chissà quali interessi.

Resistere, resistere, resistere

Per questo il prossimo 4 Agosto presso il tendone dell'assemblea cittadina di piazza Duomo, a L'Aquila è previsto un incontro chiarificatore tra vertici della Asl, istituzioni, comitati, associazioni e cittadini per tentare di fare un po' di chiarezza - forse per l'ultima volta possibile - sul futuro dell'area di Collemaggio. In un documento scritto a tre mani dall'«Associazione 180 amici», il «3e32» e l'«unità territoriale di assistenza primaria medici di base», tutti soggetti che operano nell'area, si legge che l'ex Op «per la sua centralità, il suo valore storico e simbolico, può, se riqualificato, diventare il luogo perfetto per quella salute di comunità necessaria e non opzionale, di una città distrutta nel suo nucleo più profondo, ospitando i Servizi Socio-Sanitari, il Centro di Salute Mentale, il Centro Diurno Psichiatrico, uno Studentato Universitario "Albergo degli studenti"con attività produttive a ricaduta sociale, un Campus Universitario, un Centro per il Sociale e la partecipazione, una Biblioteca Comunale, Laboratori Artigianali-Artistici, il Museo della Mente e del Ricordo, la Scuola di Restauro, l'Istituto Cinematografico ed uffici amministrativi vari». Ma se la dirigenza dell'Asl finora non ha fatto ancora chiarezza sulle sue intenzione, la popolazione sembra d'accordo: Collemaggio deve rimanere ai cittadini e continuare ad essere il cuore pulsante di una città che mai come ora ha bisogno di benessere (basti pensare che dopo il sisma l'uso di psicofarmaci è aumentato del 40%). Il cuore dell'Aquila, città che forse è ancora in coma, ma che non vuole morire.

«Non permettiamo a nessuno di dire che siamo strumentalizzati». Conferenza stampa a Roma dei comitati cittadini aquilani: «La nostra città sta morendo e questo vale per tutti, a destra, a sinistra, al centro».

Nei filmati si vedono i sindaci, il sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, altri sindaci con la fascia tricolore, i vigili urbani con i gonfaloni, schiacciati, strattonati. Si vedono persone anziane, in particolare uno, con la paglietta sulla testa, che batte le mani ironicamente. Si vedono tanti ragazzi e ragazze giovanissimi con gli zainetti sulle spalle. Tutti a viso scoperto, tutti con le mani nude alzate. Poi la sorpresa, quando arrivano le manganellate: «Che c.. fate?». Si vedono i due ragazzi inermi a cui le manganellate hanno spaccato la testa e i giornalisti a cui viene impedito di lavorare. Sono centinaia i filmati prodotti dai comitati, da giornalisti e dalla Digos. Nessuno dei manifestanti del 7 luglio a Roma ha compiuto atti aggressivi. È una cosa dimostrata indirettamente dai nomi degli stessi denunciati: un romano, reo di aver prestato ai manifestanti aquilani il furgoncino su cui sono stati piazzati i megafoni, un aquilano che è quello che ha firmato la richiesta di autorizzazione.

Nella sala del mappamondo della Camera dei Deutati sono tre donne, dalle storie diverse, a raccontare ai giornalisti e ai deputati presenti, da Bruno Tabacci a Paola Concia, da Giovanni Lolli a Mantini, la «verità dei fatti». Sara Vegni, portavoce del centro sociale 3 e 32, Anna Lucia Bonanni, insegnante, Giusi Pitari, prorettore dell’università dell’Aquila.

SCORTATI

«I nostri 43 pullman, a cui si sono aggiunti gli aquilani in macchina e quelli che hanno utilizzato i mezzi pubblici, sono stati scortati dai mezzi della Questura de l’Aquila fino alla barriera di Roma est. A quel punto siamo stati accompagnati dai mezzi della questura di Roma, facendo un itinerario lunghissimo. Così siamo approdati a Roma, a piazza Venezia, dove abbiamo trovato polizia e carabinieri in assetto antisommossa». Comincia così il racconto collettivo che prosegue: «I non aquilani che sono venuti alla manifestazione sono persone che conosciamo, che sono stati con noi, per solidarietà, fin dal 6 aprile 2009. Non permettiamo a nessuno di dire che siamo stati strumentalizzati». Strumentale è, invece, fare di tutto per oscurare le nostre ragioni: «Il miracolo a l’Aquila non c’è stato. L’unico miracolo aquilano siamo noi che resistiamo in una città che non c’è più. Non c’è più nella zona rossa del centro storico ma non c’è più nemmeno nelle periferie, dove i pochi che resistono vivono senza servizi e senza negozi».

Una città che non esiste più né «per la destra, né per il centro, né per la sinistra», è per questo «che il nostro corteo voleva raggiungere il Senato e palazzo Chigi». I palazzi del potere, non la «residenza privata di palazzo Grazioli. Via del Plebiscito era per noi, in un corteo dove c’erano anziani, la via più breve per raggiungere il Senato».

L’Aquila, un day after di rabbia

«Madri, padri... Quali infiltrati?»

di Jolanda Bufalini

Dopo la manifestazione di Roma la città è ancora incredula per le cariche delle forze dell’ordine e le manganellate. E non soddisfa la “mancia” del governo sull’esenzione delle tasse e sui tempi di pagamento.

Marco De Nuntis è un ragazzo che non ha mai fatto politica, è di Valle Pretara , un quartiere devastato dal terremoto, quasi tutto da abbattere. Vincenzo Benedetti l’ha conosciuto in ambulanza, il 7 luglio, a Roma, mentre tutti e due si facevano medicare i tagli da manganello. Vincenzo è un ragazzo del sud, viene da Bari e vive a L’Aquila dal 2008. Si definisce anarchico e a Parma ha fatto le lotte per la casa, ma «ho sempre lavorato, come mi hanno insegnato i miei genitori e mio nonno antifascista». Non si erano mai visti prima i due ragazzi che, secondo certe versioni, dovrebbero passare per “infiltrati” nella manifestazione degli aquilani a Roma.

A due giorni dal corteo che ha visto arrivare 45 pullman e 5000 aquilani a Roma non si placa la rabbia di chi ha visto e partecipato alla protesta nella Capitale. Nella città terremotata, abbacinata da un sole estivo che batte sulle rovine, si prepara l’assemblea cittadina di oggi, si discute on line una lettera da inviare al ministro degli Interni Marroni, dice: «Non infiltrati ma noi, madri padri, figli, figlie...». Figli e figlie che iniziano ad andare via: nella scuola di Pettino, il quartiere delle case popolari che ora sono da abbattere, le cinque prime elementari si sono ridotte a tre, i genitori chiedono il nulla osta per il trasferimento, diminuiscono in modo significativo le iscrizioni ai licei classico e scientifico.

La rabbia è anche per l’oscuramento delle ragioni della protesta e della esasperazione della città. Il sindaco Massimo Cialente, che partecipa al “laboratorio per la ricostruzione” organizzato dall’Istituto nazionale di urbanistica, spiega così l’esasperazione: «I ritardi sono ormai insopportabili. Noi non riusciamo a dare i soldi per lecase A e B, le case che hanno subito pochi danni. E sono praticamente bloccate le pratiche per le case E (quelle che hanno subito danni gravissimi). Ma il paradosso è che a questo punto si vorrebbe far credere che la responsabilità è degli enti locali, ma il comune dell’Aquila non ha potuto nemmeno chiudere il bilancio». Ormai, aggiunge, per molti esponenti della maggioranza «è come se fossi io il commissario alla ricostruzione». Ma il commissario non è lui, è il presidente della Regione Gianni Chiodi, che a Roma non c’era come non c’erano i parlamentari del Pdl: «Io sono vice, sono un sub commissario e sono disposto a diventare sub-sub commissario, purché la situazione si sblocchi».

A cominciare dal dramma delle tasse che gli aquilani dovranno iniziare a pagare con gli arretrati dal 1 gennaio prossimo. In 10 anni anziché in 5, è il piccolo risultato ottenuto dopo le proteste. Giovanni Lolli (Pd) fa notare la disparità di trattamento dei terremotati abruzzesi rispetto a tutte le altre situazioni. «Dopo il terremoto di San Giuliano, nel 2003 il presidente della Regione Molise Iorio ha esteso l’emergenza praticamente a tutta la regione, noi siamo stati persone serie e non abbiamo modificato di una virgola i confini del cratere definiti dalla Protezione civile. Il risultato, però, è che i terremotati del Molise, sebbene quel sisma abbia prodotto meno danni, sono molti di più dei terremotati aquilani». La tragedia più grande dopo il terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908 paga, insomma, gli sprechi di altri: l’emergenza in Molise è durata sino a tutto il 2009. In Umbria e nelle Marche la ripresa è stata aiutata con uno sconto del 60% su tasse e tributi, ad Alessandria, dopo l’alluvione del 2009, è stato cancellato il 90 per cento delle tasse.

Sulla carta ci sono 2 miliardi della cassa depositi e prestiti ma di questi 387 sono già stati spesi e 350 andranno a rimborsare debiti già fatti, spiega Gaetano Fontana, il capo dell’Unità di missione. Dovrebbero arrivare, ma non ci sono ancora, 800 milioni di finanziamento diretto. Una cifra pari a ciò che serve per ripristinare la rete di gas, acqua e tutto ciò che in gergo è chiamato sottoservizi. Il comune de L’Aquila ha destinato a questo 12 milioni che solitamente sono assegnati ai comuni per opere più visibili come le iniziative culturali. Spera così di riportare un po’ di vita sul corso, la via simbolo dei portici e del passeggio, dove gli aquilani vanno ancora in queste sere d’estate, peni di nostalgia per una città che sta perdendo la speranza.❖

4 domande a Vincenzo Benedetti

«Mi hanno colpito alle spalle.

Per fortuna i video hanno ripreso tutto»

Vincenzo Benedetti ha una lunga garza a coprire i 12 punti provocati dalla manganellata che ha preso sulla testa. Lo incontriamo seduto davanti alla pizzeria dove lavora da quando è arrivato a L’Aquila, nel 2008. E non ha smesso nemmeno in questi giorni di impastare, nonostante il lungo sbrego sulla testa. «Per fortuna ci sono i video che mostrano tutto. Ero di spalle quando mi è arrivata la botta dai carabinieri. Fino a ieri non sapevo nemmeno chi mi avesse colpito».

Come mai sei venuto a vivere a L’Aquila? (sorride) «Avevamo scelto, con la mia ragazza, una città tranquilla». Dove vivi adesso?

«Abito in un camper che mi ha regalato il mio datore di lavoro. Anche se ho la residenza sono un aquilano di serie B. Abitavo in affitto, nel centro storico, e con Francesca pagavamo 600 euro di affitto. Oggi gli affitti sono alle stelle e io finora non ho avuto i contributi per l’autonoma sistemazione. Ma di questo non mi importa nulla, se sono andato a Roma a manifestare è perché vorrei giustizia per gli aquilani».

Qualcuno ha scritto che hai dei precedenti con la giustizia.

«Non in piazza con la polizia. Ho lavorato a Silvi Marina, dopo il terremoto, ma non mi trovavo bene e mi sono licenziato dopo un mese, il datore di lavoro non voleva pagarmi lo stipendio e mi sono preso una denuncia per minacce. Un’altra denuncia riguarda il fumo della cannabis... ».

E come ti trovi nel lavoro qui?

«Splendidamente, io sono arrivato quinto in Europa, nel maggio di quest’anno, al campionato dei pizzaioli. Purtroppo a voi giornalisti di questo non importa nulla, invece se prendi una manganellata sei su tutti i media».

Conferma il signor Giovanni, poliziotto appena andato in pensione: «Vincenzo è un bravissimo pizzaiolo e mio figlio è un ottimo cuoco. Hanno risollevato questo posto dove non veniva più nessuno in un modo straordinario». J. B.

Così l’Abruzzo viene ricacciato

nel Sud più profondo

di Vittorio Emiliani

Gli errori del governo hanno paralizzato l’economia regionale spingendola ai livelli più bassi dopo la crescita degli anni ’80 Il premier si è occupato solo di edilizia e anche qui ha sbagliato

«Svegliarsi a sud». È il groppo di paura che prende gli abruzzesi, gli aquilani in specie, nel gorgo di questa crisi per ora senza fine. Ci hanno messo decenni per staccarsi dalle retroguardie del Sud e per «vedere» il Centro. Ora temono di venire ricacciati indietro. Anche questo muove la protesta, la rabbia del popolo dei terremotati che ha invaso il centro di Roma, venendo repressa con assurda violenza davanti ai palazzi del potere. La vicinanza dell’Aquila a Roma, fondamentale per le «passerelle» di Silvio Berlusconi quale deus ex machina del post-terremoto, gli si ritorce contro, ora che errori e false promesse si svelano per ciò che sono.

Esito prevedibile dopo l’oggettivo successo nei soccorsi più immediati fin dal momento in cui Berlusconi si è rifiutato di tenere in conto le esperienze più positive di altri terremoti (Friuli e Umbria-Marche), di praticare la strada della partecipazione, di raccogliere così idee utili per una strategia mirata sulle realtà dell’Abruzzo e dell’Aquila. Ha imposto la propria linea «edilizia», come se il solo problema fosse quello di dare un tetto (non importa quale) a tutti. E neppure in questa impresa parziale e insufficiente è riuscito, nonostante il fragore mediatico montato sul Salvatore d’Abruzzo. Nessun discorso sulle priorità vere e utili fra case, fabbriche (di qualunque tipo) e chiese. Dilemmi che si erano giustamente posti in Friuli e in Umbria-Marche e che avevano consentito di non paralizzare economie ben più solide di quella aquilana.

Soltanto un presuntuoso, goffo ghe pensi mi. Coi risultati sconsolanti che ora allarmano i terremotati.

Negli anni 70 e 80 l’Abruzzo aveva risalito la china conquistando posizioni più vicine a quelle del Centro. Poi un rallentamento: -0,3% nella crescita del Pil fra ’95 e 2004, contro il +1 dell’Italia. Nel 2008 -0,4, meglio del Paese e di gran parte del Sud. Nell’anno precedente il sisma, l’Abruzzo risultava 13° nella graduatoria del PIL, con l’indice 83,5 (Italia=100) contro 93,0 dell’Umbria, la meno ricca del Centro, e contro il 71,2 della Basilicata, la meno povera del Sud. A conferma che il distacco dal Mezzogiorno si era mantenuto marcato e che il «sogno adriatico» di rincorrere le Marche poteva ancora essere coltivato. Pur fra crescenti problemi e squilibri interni. Come ben racconta il recentissimo lavoro di Paolo Mastri del Messaggero uno dei giornalisti più attivi e lucidi nel valutare Il quinto Abruzzo. La storia cambiata dal terremoto (Edizione Tracce, 2010). «Svegliarsi a sud. Raccontare il vero rischio dell’Abruzzo al bivio». Coi dati esposti prima ovviamente peggiorati dalla tragedia aquilana e dal blocco dell’economia. Mastri cita il dossier di gennaio di Bankitalia che individua i quattro fardelli della regione: povertà relativa, improduttività della pubblica amministrazione, disastro sanitario, ipoteca criminale sul ciclo del credito. Tali da neutralizzare i passi avanti fatti nella politica del lavoro e nella competitività dei sistemi territoriali. In pochi anni la criminalità a partire dalla vulnerabile costa pescarese si è estesa al punto da indurre le banche a rendere meno facili a tutti «le condizioni di accesso al credito». Freno gravissimo in una regione dalle tante mini-imprese e dalla elevata «mortalità» aziendale, specie a Chieti e all’Aquila. Mentre i tempi della ricostruzione e della rimessa in moto dell’economia si allontanano sempre più assieme al borioso «sogno del Cavaliere» lasciando macerie.

il manifesto

Terremoto sul capo

di Valentino Parlato

Quel che abbiamo visto ieri a Roma va oltre ogni immaginazione del peggio. Guardate le immagini, nonostante le omissioni del Tg1. Migliaia di cittadini dell'Aquila, sindaco in testa, vengono a Roma per protestare contro l'abbandono nel quale sono stati lasciati dopo il gran teatro del G8, la santificazione di Bertolaso, e Berlusconi in gloria con il casco. Sembrava di essere tornati ai tempi di Scelba, cariche e manganellate senza pietà. Terremotati e mazziati. Quelle immagini esprimono la ferocia e la rabbia di un capo che ha visto crollare tutti i suoi illusionismi con i quali era sicuro di aver conquistato la popolazione dell'Aquila. L'ha considerato un tradimento e dato via libera al pestaggio degli aquilani venuti a Roma per dire la verità, per dire che L'Aquila è distrutta e abbandonata a un destino di cancellazione dal vivere civile. Venuti per protestare, perché oltre al danno vivono la beffa della «manovra» che li vuole super-tassati.

Ma forse in questa rabbiosa ferocia di Berlusconi c'è anche la paura di essere arrivato alla fine della sua parabola. Si sente travolto dalle liti e dalle ambizioni personali dei suoi gerarchi, dall'opposizione delle Regioni (anche le sue) ai tagli, dalle difficoltà con Tremonti e Bossi, dai sondaggi che lo danno in calo. Ha perso il lume della ragione e probabilmente ha avuto anche la tentazione di mandare Bertolaso alla testa delle guardie che hanno manganellato gli aquilani.

Ma tutto questo che effetto avrà in un Italia politicamente disfatta? Dove il partito, che dovrebbe essere di opposizione, il Pd - come ha scritto Ida Dominijanni sul manifesto di martedì scorso - che sa solo delegare la salvezza al «ruolo guida del Capo dello Stato». Confessando così non solo una nascosta pulsione presidenzialistica, ma anche - e soprattutto - una dichiarazione di inesistenza. Questo partito, che quando è stato al potere, col secondo governo Prodi, ha saputo solo cercare di imitare Berlusconi e adesso, da quando (dovrebbe essere) all'opposizione non è mai stato in grado, non dico di mettere in difficoltà Berlusconi, ma neppure di aprire un serio e chiaro fronte di lotta, trangugiando tutto con malmostosa impotenza. Siamo a un punto limite, quel che ancora in questo paese c'è di sinistra, pur disperso e fuori della guida illusoria dei partiti, dovrebbe entrare in comunicazione, dovrebbe aggregarsi, chiedere conto e ragione al ceto politico che pure manda in parlamento.

Il popolo dell'Aquila ci ha dato un segnale forte. Bisogna scendere in campo, mandare al diavolo quei sepolcri imbiancati che dicono di rappresentarci. Non possiamo restare travolti e schiacciati dal crollo, inevitabile, di Berlusconi.

L’Unità

Questa violenza

di Luigi Manconi

Una giornata di ordinaria violenza istituzionale. Dentro e fuori il Palazzo, dentro e fuori il Paese.

Alle ore 15.45 di ieri, 7 luglio 2010, il ministro per i rapporti con il Parlamento nel corso del question time, rispondeva così agli interrogativi posti da Livia Turco: all’origine della tragedia dei 245 tra eritrei e somali rinchiusi nel carcere di Brak, vi sarebbe «un equivoco». Ai profughi sarebbe stato sottoposto un questionario per esse- re avviati a «lavori socialmente utili», ma gli eritrei e somali si sarebbero rifiutati, temendo che, attraverso quella procedura, venissero rimpatriati a forza. Da qui il trasferimento, in condizioni disumane, nel carcere di Brak.

Il grottesco infortunio di questa risposta del Governo, che riduce un autentico dramma umanitario alle dimensioni piccine di un fraintendimento, ha segnato questa giorna- ta di ordinaria violenza istituzionale. E, infatti, che cosa è più violento tra il comportamento brutale della polizia nei confronti dei cittadini de L’Aquila che manifestavano a Roma e la menzogna sulla sorte di quegli uomini in fuga da regimi totalitari? E, anco- ra, c’è qualcosa di più violento dell’ottusa indifferenza nei confronti di quei disabili che vedono ridursi drasticamente sussidi già miserevoli e previdenze economiche tanto esigue da risultare oltraggiose? Se osservata attraverso questi fatti - e attraverso lo sguardo di tanti soggetti deboli, terremotati o disabili o fuggiaschi - quella di ieri può sembrare davvero una giornata da fine regime. Dalla sudaticcia rincorsa a rattoppare, rappezzare, rappattumare una manovra che fa acqua da tutte le parti allo sfarinarsi di una maggioranza, tanto più imponente sulla carta quanto più goffa e arrancante nei fatti, dal ricorso irresponsabile alle forze dell’ordine (minacciate, a loro volta, da tagli micidiali) all’ostentato cinismo, nei confronti di quel principio universale che è il diritto d’asilo, si ha la sensazione di un sistema di potere che si avvia a un irreparabile declino.

Sarebbe un errore credere che questo significhi, quasi automaticamente, l’inizio di un tempo nuovo. La fine del berlusconismo è destinata a passare attraverso una crisi lunga e devastante, che non si limiterà a logorare i suoi protagonisti, ma che avrà effetti velenosi e conseguenze debilitanti per l’intera società. Per dirne una, la campagna ideologica contro lo straniero e quel sistema di interdizioni e divieti, obblighi e sanzioni che, tramite delibere di amministrazioni locali, intendono disciplinare la vita sociale, non sono revocabili né in breve tempo né attraverso semplici azioni positive. I guasti, e che guasti, hanno inciso in profondità nella mentalità condivisa, nelle relazioni sociali e nei modelli di vita. Proprio per questo è fondamentale che, da subito e in ogni spazio agibile, si operi per affermare un punto di vista diverso. La vicenda dei cittadini de L’Aquila è così importante proprio perché dimostra come la cosiddetta “politica del fare” si riduca a un osceno esercizio di retorica, dove - tra effetti speciali e cotillon - si cancella la vita vera delle perone. E la vicenda degli eritrei è, sì, una questione umanitaria, ma è anche molto di più: è in gioco la vita di quei profughi e, insieme, la nostra civiltà giuridica.

Terra

Non può durare

di Enrico Fontana

Emma Marcegaglia se l’è cavata con un colpo di telefono. Per i rappresentanti dei Cocer, i “sindacati” delle forze armate, è stata sufficiente una conferenza stampa. I cittadini de L’Aquila, invece, hanno dovuto invadere il centro di Roma, prendersi una buona dose di manganellate e non avere comunque la certezza di essere ascoltati. Ai rappresentanti delle associazioni dei disabili sono state risparmiate le botte, ma è la prima volta che devono scendere in piazza, tutti insieme, per difendere il diritto a una vita dignitosa. Il governo Berlusconi, quando si tratta di scegliere con chi trattare e chi lasciare fuori dalla porta, ritrova la sua vera identità. Forte con i deboli e debole con i forti. Le immagini di ieri, insieme alla minaccia di abdicazione ripetuta da giorni come un mantra dai presidenti delle Regioni, danno davvero l’idea di un governo alla sbando. E più che dall’iniziativa dell’opposizione parlamentare, è proprio dalla pancia del Paese che sembrano arrivare i segnali di un possibile disfacimento di questa maggioranza.

In evidente deficit di credibilità, con due ministri dimissionari (Scajola e Brancher), il titolare dell’economia impegnato in un rovinoso «Tremonti contro tutti», la stampa in rivolta contro la legge bavaglio, Berlusconi annaspa alla ricerca di una via d’uscita. E cerca come può di turare le falle. Senza una strategia, però. E si vede. Lui, che pure è uno stratega della comunicazione, commette errori grossolani. Ma come si fa, con la crisi che azzanna persino la spesa alimentare delle famiglie, da un lato consentire alla presidente della Confindustria di sorridere beata in tv dicendo «ho sentito al telefono Berlusconi e Tremonti, le nostre richieste sono state accolte» e dall’altro far prendere a manganellate i terremotati de L’Aquila, che chiedono una ragionevolissima solidarietà?

E che senso ha spingere le rappresentanze delle forze armate fino al punto di mostrare le stellette in tv per attaccare il governo, perché con i tagli della finanziaria mette in pericolo la sicurezza del Paese, per poi concedergli d’un colpo 160 milioni di euro in due anni?

Siamo al suk, altro che il rigore che pure sarebbe necessario per evitare l’assalto della speculazione finanziaria alla disastrate casse nazionali. Nei palazzi, Chigi e Grazioli indifferentemente, si mercanteggia con i “poteri forti” e nelle strade si fa la voce grossa con chi rivendica diritti e pretende risposte. Non può durare a lungo. O almeno si spera.

Postilla

I commenti di altri giornali, che abbiamo ascoltato a “Prima pagina”, avrebbero meritato di essere raccolti in quella specie di Colonna infame che abbiamo in questo sito, la cartella “Stupidario”. Ma a certi giornali non siamo abbonati né vogliamo farlo. Un nostro commento ai fatti di ieri e all’indignazione che hanno suscitato (fuorchè in quei giornali lì, e nelle televisioni del Padrone dello stato) riguarda la distrazione con cui la stampa ha seguito fin dall’inizio i fatti dell’Aquila, e con cui ancora oggi persevera nell’errore. La tesi prevalente è la seguente: il Governo, e Bertolaso in prima persona, all’inizio hanno fatto bene, poi hanno trascurato e sbagliato.

No, non è così: fin dall’inizio l’impostazione che è stata data al dopo terremoto è stata palesemente errata: qualcuno (pochi) l’ha denunciato fin dai primi giorni (aprile 2009), e la cartella di eddyburg dedicata all’evento lo testimonia. La corruzione, la speculazione, l’indifferenza per le condizioni reali, sono tutte cose che vengono dopo e sono in gran parte conseguenza degli errori di fondo, che sono stati denunciati (da pochi) fin dall’inizio: era già nelle scelta della mistificazione delle “New towns” alla Berlusconi anziché nella ricostruzione delle strutture urbane, fisiche e sociali; era già nella scelta della soluzione autoritaria e militaresca anziché quella che fa leva sugli enti locali e sulla popolazione. Continuare a dire oggi che “all’inizio andava tutto bene poi hanno cominciato a sbagliare” significa non aver capito nulla, e continuare a ingannare l'opinione pubblica.

L´Aquila, con il disagio e la protesta dei suoi cittadini, ci parla in molti modi dell´Italia. Ci ripropone la sensazione che sempre avvertiamo dopo la catastrofe, materiale e culturale, di un terremoto: la sensazione cioè che ogni volta sia la nazione nel suo insieme a doversi rialzare, a dover ritrovare ragioni e speranze per il proprio futuro. Lo avvertivo nel 1976 friulano, nei luoghi in cui sono cresciuto, e lo avverto ora nell´ Abruzzo in cui insegno da molti anni. L´Aquila ci parla anche di un paese incapace di far tesoro delle esperienze del passato. E ci costringe a interrogarci sul nostro presente: è la storia d´Italia che ci viene incontro quando ricordiamo la valanga d´acqua del Vajont, il 1968 del Belice, il 1976 del Friuli, il 1980 della Campania o l´Abruzzo di oggi.

Si pensi al Vajont del 1963, che mostrava all´Italia del "miracolo economico" la tenace sopravvivenza di una povertà arcaica, di donne vestite di nero, di gerle che portavano in salvo i residui di una miseria antica. E si pensi all´inadeguato esito del processo ai responsabili, frutto di una giustizia ancora debole e incerta di fronte ai potenti. La prima fotografia scattata a L´Aquila che ricordo d´aver visto è della fine degli anni Sessanta, la pubblicarono tutti i giornali: ritraeva le donne del Vajont scese in Abruzzo per assistere a quel processo.

Vi è poi il 1968 del Belice, che è anche l´anno di Avola, nella stessa Sicilia: un´Italia in cui i braccianti potevano ancora morire sotto il piombo della polizia battendosi per diritti elementari. In quell´anno una giovane generazione iniziò a chiedere l´"impossibile": si dimostrò impossibile anche dare risposte adeguate a quei diritti e a quei bisogni. E il Belice divenne il simbolo di un amarissimo, doloroso e umiliante fallimento nazionale.

Si pensi anche al 1976 del Friuli, molto evocato ma poco conosciuto nella sua articolata realtà. Ci racconta molte cose, quel Friuli. Ci parla in primo luogo del clima del tempo, di una "democrazia dal basso" che si sviluppò prepotentemente in un Paese segnato da una grande sensibilità civile e da una forte speranza di cambiamento, presto delusa. Ci parla del concreto operare di persone e di istituzioni, di legislatori nazionali e di amministratori locali, a contatto diretto – non senza conflitti, talora – con gli amministrati, con i paesi e le culture ferite dal trauma. E ci parla anche del prezioso ruolo svolto allora dalla Chiesa friulana, dai suoi sacerdoti e dal suo vescovo. Un momento irripetibile, forse, e quattro anni dopo l´Irpinia sembrò collocarsi in un´altra epoca. Illuminò di luce cruda i mutamenti in corso sia nel Paese che nel Palazzo. In un primo momento i ruoli sembrarono quasi rovesciarsi: poche ore dopo il sisma è Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, a irrompere dal video nelle case degli italiani e a denunciare i rischi di un "altro Belice". A chiamare in causa responsabilità di singoli e di parti politiche. Quelle immagini televisive ci appaiono oggi la nobile e terribile testimonianza di un´impotenza. A nulla varrà quell´irrituale appello, che attirò al Presidente anche veementi critiche. In Irpinia fu molto peggio che nel Belice. La ricostruzione delle aree colpite – e di quelle non colpite, poiché l´area si dilatò a dismisura e lo sperpero si protrasse nel nulla – moltiplicò inefficienze, corruzione, sprechi, dilapidazioni di denaro pubblico. Alimentò o consolidò intrecci perversi fra poteri legali e illegali. E la grande solidarietà per l´Irpinia fu l´ultimo grande momento di mobilitazione nazionale per il Sud, prima dell´innescarsi di derive e umori che la Lega porterà agli estremi: nei primi anni Ottanta deliranti scritte antimeridionali inizieranno a comparire sui cavalcavia veneti o sui muri lombardi.

Che Paese ci ha mostrato, infine, il dramma di oggi, il dramma dell´Abruzzo? In primo luogo un Paese irresponsabilmente smemorato: il decisionismo di vertice e l´esautorazione della popolazione che sono state imposte a L´Aquila sono l´esatto contrario di quell´intreccio fra partecipazione e decentramento che fu la chiave vera della rinascita friulana (e contraddicono anche la positiva esperienza delle Marche e dell´Umbria, nel 1997). Hanno sottratto alla discussione e alla decisione della comunità colpita e dell´intero Paese non solo le misure della primissima fase ma anche quelle riguardanti il futuro della città, ancora circondato da un´incertezza e da un´opacità che alimentano la sfiducia, se non lo sconforto. Negli ultimi anni, inoltre, l´azione generale della Protezione civile ha assunto progressivamente al proprio interno il perverso meccanismo che è stato alla base del disastro campano: l´estensione delle regole dell´emergenza – con l´indebolimento di controlli e vincoli – ad eventi che non hanno alcun rapporto con essa (con le conseguenze rivelate dalle intercettazioni telefoniche, che il governo vuole appunto abolire). La berlusconiana "politica del fare", presunto simbolo di innovazione, ha così riproposto in qualche modo i contorni più negativi della politica degli anni ottanta. Amplificati dalle promesse mirabolanti e dalle realtà virtuali fatte intravedere, favoriti anche da troppi "intervalli di silenzio" dell´informazione (di quella televisiva in modo particolare, con rarissime eccezioni).

Anche il Paese, infine, dovrebbe interrogarsi meglio su se stesso. Una nazione che non sente il bisogno di essere realmente e assiduamente vicina a una propria parte ferita rischia di smarrire, e forse sta già smarrendo, la propria ragion d´essere più profonda.

Postilla

Una esemplare, sintetica lezione di una storia dimenticata dell’Italia, attraverso il succedersi degli eventi catastrofici. Questo tipo di lettura andrebbe approfondito su spazi più ariosi delle colonne di un quotidiano. In tal caso si potrebbero approfondire le modalità delle esperienze positive (come quelle del Friuli e dell’Umbria) e a un’analisi più dettagliata ne apparirebbero altre (come quella del dopo-terremoto a Napoli, nei primi anni 80).

Il lavoro che non c’è, i ragazzi che si ritrovano nei centri commerciali (e si diffonde l’alcol), le case che mancano, le tasse da pagare. L’Aquila mostra sue ferite e chiedeunalegge. Visita al centro senza vita.

«Non si politicizza una tragedia», dice il sindaco dell'Aquila. Ha chiamato i giornalisti, ha organizzato dei piccoli autobus, «i primi a entrare nel centro storico» dalla notte del 6 aprile di un annofa, si è improvvisato cicerone nella speranza che gli occhi vedano, soprattutto quelli delle telecamere, che sono gli occhi degli italiani, perché solo gli occhi possono raccontare una tragedia che rimane immota – Aquila immota manet è scritto nei gonfaloni della città – e che si raccoglie nel nucleo distrutto e deserto di quella che asetticamente viene definita la «zona rossa». «Se salta il nucleo, il centro storico – dice il sindaco medico – gli elettroni impazziscono. Gli adolescenti stanno pagando più di tutti. Si incontrano nei centri commerciali e hanno cominciato a bere alcolici. Ancora non siamo riusciti a ricostruire le attrezzature sportive distrutte dalle tendopoli. Gli anziani sono spaesati. Mille nuclei monofamiliari non hanno ancora una sistemazione». Caschetti bianchi, scorta dei vigili del fuoco e della sicurezza del comune. Ci si addentra camminando al centro delle antiche e strette strade deserte. I palazzi settecenteschi e le abitazioni modeste sembrano in piedi ma la verità è che in piedi sono solo le facciate, fantasmatiche quinte teatrali di una città che amava il teatro, lo faceva anche nelle chiese, a San Filippo, Sant’Agostino, ora imprigionate da puntelli che, dentro, fanno una maglia stretta a contrastare l’implosione e che ha fatto precipitare i piani alti su quelli bassi. Il sindaco non fa polemiche: «L’emergenza è stata affrontata bene, ma già dalla fine del 2009 i soldi sono cominciati a mancare. Procedere per ordinanze ha funzionato all’inizio, ora ci vuole una legge. Non chiediamo niente di più, anche qualcosa di meno, di ciò che è stato fatto per gli altri terremoti». Il sindaco cicerone si ferma a San Pietro a Coppito, a Santa Maria di Paganica. Mostra, illustra: «Chiederci di pagare gli arretrati delle tasse a un anno dal terremoto è come chiedere a un paziente fortemente anemico di donare il sangue». Si ferma fa un cenno di saluto con la mano: «Ciao papà». Il signor Umberto Cialente, 84 anni, si è infilato fra i visitatori, con l’amico Giovanni Di Stefano, 76 anni: «Quello che fa più – dice Umberto – è vedere alla televisione solo il palazzo del governo o la chiesa delle Anime Sante. Gli italiani si sono fatti l’idea che solo poche cose sono state colpite. Invece è tutto distrutto». «Tassa di scopo – dice il signor Di Stefano – una volta si faceva con una giornata di lavoro di tutti gli italiani», ricorda da pensionato delle Poste.

LE CIFRE

Vediamole in cifre queste distruzioni, a cominciare dalle macerie: 4 milioni le tonnellate prodotte dal sisma, ma solo 72mila quelle fin qui rimosse. L’assessore al patrimonio storico Vladimiro Placidi ha fatto una scheda sugli edifici di valore gravemente danneggiati: 1047 chiese, di cui 51 in centro, 116 nelle frazioni, 880 negli altri comuni del cratere. 718 palazzi, di cui 444nel centro storico dell’Aquila. Il calcolo è che per il solo centro storico storico sono necessari 9 miliardi, una cifra non lontana da quella che era stata spesa per il terremoto del Friuli nel 1995.

L’avvocato Pierluigi Pezzopane è assessore alle Pari Opportunità. Racconta come il figlio Alessandro premesse: «Allora quando lo riaprite ‘sto centro?». Fino a quando lui se lo è portato a fargli vedere come erano ridotti i posti della sua adolescenza. «Papà – ha chiesto poi Alessandro – dimmi sinceramente, tu pensi che per noi qui ci sia un futuro?». Su 6000 imprese sono 4000 quelle che hanno chiesto indennizzo per i danni da terremoto. Le ore di cassa integrazione sono passate da 227mila nel 2009 a un milione 760mila nel 2010. In una delle strade deserte, sotto al ponteggio, gli operai edili Luigi Ciuffetelli e Renato Colageo sono senza caschetto: «Pausa pranzo!», rassicurano il responsabile della sicurezza del Comune. Per un cantiere sono al lavoro in tutto 4 operai. «Fossimo di più si andrebbe più spediti- dice Ciuffetelli - ma le ditte non si arrischiano perché i soldi arrivano con il contagocce».

Guido Bertolaso ha tuonato da lontano: «Mostrate quello che abbiamo fatto».E la visita si conclude al progetto C.a.s.e.: «le migliori, le più vicine alla città», spiega Cialente. Il controcanto lo fa Federico D’Orazio, studente in medicina, alloggiato nelle C.a.s.e di Coppito: «Su unapiastra antisismica poggiano 24 appartamenti per il costo di 3 milioni e mezzo. Nel mio condominio, in periferia, in un posto dove i lavori sarebbero potuti cominciare presto, abitavano 18 nuclei familiari, quasi gli abitanti di una piastra. Il preventivo per i lavori nel nostro condominio, con gli adeguamenti sismici, non raggiunge il milione. Che necessità c'era di spendere tanto per noi? Le case in legno sono confortevoli, più grandi e sarebbero state sufficienti. Avrebbero potuto risparmiare, costruire le case durevoli solo per gli abitanti del centro storico, che dovranno aspettare più a lungo. E usare quei soldi per la ricostruzione».

Postilla

Sarebbe bene ricordare che il destino della città dell’Aquila è stato deciso quando Berlusconi e Berrtolaso, nell’ammirazione generale, hanno deciso di costruire nuovi insediamenti sparpagliati occasionalmente sul territorio, con il progetto C.A.S.E, e nel rispetto dello slogan del premier: “una new town per ogni capoluogo”; dove adoperando il termine “new town” si rivelava la propria ignoranza e si intendeva la scimmiottatura dello squallore delle Milano 2. E vogliamo ricordare che eddyburg.it - quando ancora tutti i mass media, con rare eccezioni della stampa alternativa, celebravano la straordinaria efficacia di B&B – documentava la decisione di uccidere il capoluogo abruzzese pubbicando il dossier “L’Aquila. Non si uccide così una città?”, curato da Georg Frisch. La decisione peggiore è stata assunta a livello di pianificazione urbanistica, ma questa non la conosce più nessuno di quelli che, infiormando, formano.

Dunque, ci siamo. Ad occupare il centro della scena della ricostruzione post terremoto torna un ingombrante convitato di pietra. Ora oggetto di attenzioni investigative. Ma del resto capace, da qualche tempo, di agitare gli ambienti della maggioranza parlamentare e i tecnici più vicini a Guido Bertolaso. Parliamo del progetto "C.a.s.e.", acronimo di Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili. Dei 185 edifici (per un totale di circa 4.500 appartamenti) in cui oggi vivono 15 mila sfollati, costruiti tra il settembre 2009 e il febbraio scorso su piastre e isolatori sismici in diciannove aree della periferia aquilana. Il «fiore all´occhiello» della Protezione Civile. Un fiume di denaro su cui pure in questi mesi si era cominciato a fare domande. Ottenendone ora indignate repliche. Ora curiosi silenzi.

I dati forniti dalla Protezione civile documentano che, al 24 maggio scorso, la realizzazione dei 4 mila e 500 appartamenti del Progetto è costata complessivamente 803 milioni e 857 mila euro. Comprendendo in questa cifra, non solo le spese di fondazione ed edificazione, ma anche il costo degli allestimenti, degli arredi, delle opere di urbanizzazione e di sistemazione del verde. Mentre un calcolo standard dei costi di semplice costruzione – almeno a voler stare alle indicazioni fornite in questi mesi in Parlamento e alla Regione Abruzzo dall´Idv di Antonio Di Pietro - indica il prezzo a metro quadro degli appartamenti più o meno in 2 mila e 600 euro. Vale a dire, quattro volte quello delle casette in legno prefabbricate. Comunque più del doppio del costo medio di mercato che oscilla intorno ai mille e cento euro a metro quadro. A rendere importanti i costi, come sempre, una rigogliosa fioritura di subappalti (sono state 931 le imprese che hanno lavorato nei cantieri a fronte delle 121 che si sono aggiudicate le gare), i cui criteri restano nella piena discrezionalità delle imprese. E la singolare esosità di alcuni voci di spesa. Come i 14 milioni e mezzo per la sistemazione del verde, la posa di aiuole e alberi. O i 66 milioni di euro pagati per la fornitura, il trasporto e il montaggio degli arredi. Più o meno 15 mila euro ad appartamento (una fortuna, se si pensa che un arredamento completo da "Ikea" per una casa di circa 50 metri quadri può arrivare a 7-8 mila euro).

Gian Michele Calvi, direttore dell´Eucentre di Pavia, braccio operativo di Bertolaso a L´Aquila e, soprattutto, padre e direttore dei lavori del Progetto "C.a.s.e", non più tardi di qualche settimana fa ha chiesto 2 milioni di euro di risarcimento danni per diffamazione all´Idv (che la questione ha sollevato per prima), obiettando che i costi del Progetto sono «assolutamente in linea con i prezzi di mercato». Non 2 mila e 600 euro a metro quadro, dunque, ma 1.300, perché nel calcolo della superficie di riferimento andrebbero considerati non solo i 1.800 metri quadri mediamente sviluppati dagli appartamenti di ciascun edificio, ma gli ulteriori 500 metri quadri sviluppati dai parcheggi auto, dagli spazi comuni, dai ballatoi e dalle scale.

È un fatto, però, che ad assediare il giovane ingegnere di Pavia oggi ci sia anche dell´altro. E parliamo del mistero che avvolge i 7.300 isolatori sismici «a pendolo scorrevole» su cui sono poggiate le piastre degli edifici. Le "molle" che li dovrebbero rendere impermeabili a una futura catastrofe, assorbendo le oscillazioni della terra. Insomma, l´anima del Progetto. Quella che ne ha giustificato la realizzazione (una prima volta nel nostro Paese).

La fornitura degli isolatori è costata 13 milioni e mezzo di euro. E ad aggiudicarsi la gara sono state la società "Alga" di Milano (per i due terzi dei pezzi necessari) e la "Fip industriale" di Selvazzano Dentro (Padova). Ebbene, il materiale fornito dalle due società ha conosciuto storie diverse. Si scopre infatti – e ne chiede conto già nel gennaio scorso un´interrogazione parlamentare del senatore del gruppo misto Giuseppe Astore, che resterà senza alcuna risposta – che mentre un campione degli isolatori della "Fip" è stato sottoposto a simulazioni avanzate in laboratori qualificati quali quelli dell´Università della California di San Diego (gli addetti chiamano queste prove "eccitazioni bidirezionali"), con costi modesti (20 mila euro), tempi celeri ed esiti positivi, non altrettanto è avvenuto per quelli dell´ "Alga". Questi isolatori hanno infatti superato un unico test. Quello previsto dalla nostra normativa antisismica (è il test definito di "eccitazione monodirezionale"). E per giunta nei laboratori di quello stesso Eucentre diretto da Calvi che, oltre ad essere padre del progetto C.a.s.e è stato anche, nel 2003, tra i padri della nostra nuova legge antisismica.

Insomma, per qualche motivo – di cui né i tecnici della Protezione civile, né il governo hanno sin qui voluto dare spiegazioni - gli isolatori "Alga" vengono sottoposti a una sola simulazione "domestica". E per qualche motivo, soltanto nella scorsa primavera, quando ormai sono stati già tutti montati in cantiere, si "scopre" che quegli stessi isolatori hanno un problema. E che problema. Non possiedono, al contrario di quelli della "Fip", un meccanismo interno che li protegga dalla polvere, un agente atmosferico in grado di gripparne e annullarne il funzionamento. Ebbene, la Protezione civile, in marzo, corre ai ripari bandendo una nuova gara per «la progettazione e la realizzazione di elementi di protezione per basamenti, colonne e dispositivi di isolamento sismico». Ma perché il problema è stato ignorato per mesi?

Postilla

Sembra incredibile. Sei mesi fa eravamo quasi soli, e comunque controcorrente, nel criticare la politica del dopoterremot di Berlusconi e Bertolaso, per ragioni di fondo, documentate nel lavoro L’Aquila. Non si uccide così anche una città? Adesso giorno per giorno si scopre che i piazzisti delle New Towns all’italiana non solo hanno scelto il peggio nell’impostazione generale e nelle scelte di fondo (quelle che distruggono la città e disgregano la società) ma che anche all’interno della loro stessa logica aziendalistica e mercantile hannop commesso errori non marginali. Questa volta il tempo è stato rapido a dar ragione alla ragione.

Guido Bertolaso resisterà fino alla fine: il terremoto che la notte del 6 aprile 2009 rase al suolo L'Aquila e uccise 300 persone, non era prevedibile. Gli allarmi, le 400 scosse registrate nei quattro mesi precedenti, il verbale della rapidissima riunione degli esperti fatto firmare la sera stessa del sisma, le relazioni di Giuliani, valgono poco, l'inchiesta della procura de L'Aquila ha un unico obiettivo: distruggere la Protezione civile. La "sua" Protezione civile, quella che insieme con Silvio Berlusconi ha modellato nel corso degli anni. Non più organismo che cerca di prevedere col concorso di esperti e tecnici le catastrofi naturali e di mitigarne i disastrosi effetti, ma ente con poteri smisurati che si sovrappongono alle competenze di ministeri, Regioni e Comuni, che agisce al di fuori e al di sopra delle leggi correnti, delle normative sugli appalti, insofferente alle lentezze delle burocrazia e ai controlli. Tutto in nome dell'emergenza.

Le grandi catastrofi hanno distrutto tante carriere politiche nel corso della storia italiana, per Silvio Berlusconi non è stato mai così. Dal terremoto di San Giuliano di Puglia a L'Aquila. La ricetta è sempre la stessa: trasformare una tragedia in grande occasione mediatica, alle telecamere che inquadrano lutti e macerie, gente infreddolita e donne in lacrime, vanno subito affiancati i microfoni che trasmettono il verbo dell'efficienza e del fare. San Giuliano avrà la sua scuola, sarà moderna e bellissima e con le lavagne luminose, i terremotati aquilani avranno subito una casa, bella e sicura. Tutti dimenticheranno lutti, sofferenze e responsabilità. È il governo del miracolo. A L'Aquila si sta ancora scavando quando, e sono le 21:40 del 6 aprile, nel salotto di Porta a Porta, Silvio Berlusconi annuncia che costruirà le "new town". Se la ricostruzione ha tempi lunghi, una ventina d'anni nell'Irpinia del terremoto del 1980, almeno una decina in Abruzzo, è il calcolo ottimistico degli esperti, noi faremo nuove città. Un'idea che Berlusconi e il governo avevano già nel cassetto e che Bertolaso e la sua Protezione civile sposano subito. È costosa, 710 milioni, 2.500 euro a metro quadro per ogni appartamento, tanto è costato il Progetto Case a L'Aquila e dintorni, devasta il territorio (venti aree nel capoluogo abruzzese e nei comuni limitrofi, 100 ettari occupati per le abitazioni più 30 per le infrastrutture), ma assicura tempi di realizzazione rapidissimi e folgoranti inaugurazioni.

Al progetto delle new town il premier stava lavorando da mesi, ben prima del terremoto. In Italia ne vorrebbe costruire un centinaio, come ci racconta "Progetti e concorsi del 2 maggio 2009". "Il piano delle 100 New Town partirà da L'Aquila. Il progetto caro al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha trovato – proprio nel terremoto – una inaspettata occasione. Solo pochi giorni prima del sisma, il premier ha chiesto a un imprenditore veneziano una ipotesi di nuova città, sulla base di alcune indicazioni. L'idea, supportata dall'avvocato Niccolò Ghedini, è stata trasmessa personalmente dal premier all'imprenditore Andrea Mevorach, il quale ne ha recepito i contenuti e ha trasferito al suo team la filosofia del progetto".

Mevorach è un imprenditore veneziano attivo nei settori dell'occhialeria, della meccanica e dell'immobiliare, si occupa anche di sviluppo per conto di fondi immobiliari riservati ed è da anni socio dello Yacht Club Costa Smeralda. La sua idea viene subito adattata all'"inaspettata occasione" del terremoto, venti new town, inaugurate dal premier con grande dispiego di telecamere compiacenti, case tutte uguali e con gli appartamenti già arredati. Quartieri dormitori senza servizi che hanno già compromesso il futuro urbanistico della città, denunciano gli aquilani. Ma per realizzare il progetto serviva anche altro: espropriare i comuni delle proprie prerogative in materia di uso del territorio, e militarizzare le tendopoli. Una sorta di modello "choc economy", anche se più paternalistico e televisivo. Oggi Naomi Klein lo chiama "capitalismo dei disastri", vent'anni fa l'economista Ada Becchi Collidà, che studiò a lungo il dopo-terremoto in Irpinia, lo chiamò "economia della catastrofe". Il risultato è lo stesso: imprenditori pronti all'assalto della ricostruzione. Un "male" che Ignazio Silone aveva visto dopo il terremoto di Avezzano. "Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformerà in occasione di più larghe ingiustizie, e la ricostruzione edilizia per opera dello Stato una calamità assai più penosa del cataclisma naturale". Era il 13 gennaio 1915.

Si è ristretto lo spazio pubblico, quello a verde, quello per i servizi della New Town di Bazzano. Con 21piastre antisismiche e 1200 appartamenti Bazzano è l’insediamento abitativo più vasta del progetto Casa, per realizzarlo sono stati espropriati terreni in gran parte agricoli. E, come gli altri del progetto Case, un dormitorio: per rendere vivibile una permanenza che non sarà breve si aspettano i servizi.Maora il decreto 3701 del capo della Protezione civile restituisce al proprietario una fetta significativa del terreno espropriato con il risultato di ridurre gli spazi per i bambini e per gli anziani, per le attività commerciali e sociali. Un decreto che modifica quello dell’agosto 2009, pare, in base ad un accordo preso in precedenza.

E che dà la misura di come il diritto, a L’Aquila, abbia confini molto labili con l’arbitrio. Dal primo febbraio scorso, infatti, Bertolaso non ha più i poteri di commissario che sono passati al presidente della Regione Gianni Chiodi.

Esempio numero due: piazza D’armi, nella parte nuova all’ingresso della città. Esiste un progetto dell’architetto Cucinella per spazi verdi, un teatro, un mercato. Ma al posto di tutto questo , su richiesta di padre Quirino Salomone, rettore di san Bernardino, è sorta una chiesa e una mensa ecclesiastica. Il sindaco Cialente dice: «Si tratta di strutture provvisorie, saranno rimosse quando il complesso di San Bernardino sarà ripristinato». Obietta una militante dei comitati cittadini, Pina Lauria: “La struttura provvisoria è costata 4 milioni, 3 sono venuti dalla Protezione civile, dalle donazioni degli italiani, uno dalla raccolta fondi del giornale il Centro. Quante case si sarebbero potute riparare con 4 milioni?”. Sono due situazioni che raccontano quello che un cittadino aquilano, Piero De Santis chiama, in assemblea: «Lo sfasamento».

“Quelli che non hanno niente da fare”, oppure gli ingrati, o ancora gli abusivi: così la destra benpensante in cerca di visibilità qualifica il popolo delle carriole. Ma sabato, il tendone dei comitati a piazza Duomo è stato teatro di un salto di qualità. Posti in piedi e presenze da grandi occasioni: ci sono il sindaco Cialente, il presidente della Regione Chiodi, il capo dell'unità di missione Gaetano Fontana. Sono lì ad ascoltare gli "ingrati" del Collettivo 99, del 3e32 , di Azzero CO2 che presentano i risultati del lavoro di uno dei "tavoli" in cui si è organizzata l'assemblea cittadina.

Il tema è la ricostruzione sostenibile: L'Aquila deve guardare al futuro: "Sarebbe un suicidio – dice Piero De Santis - costruire oggi con criteri antiquati, in deroga alle norme vigenti. Qui si fa tutto in deroga". Annalisa Taballone illustra la simulazione sulle 5400 case classificate E, quelle che hanno subito i danni maggiori. «Già adesso - spiega – gli interventi di riqualificazione energetica sono obbligatori e possono essere portati al 55% in detrazione. La nostra proposta è che quella stessa cifra sia assegnata dallo Stato a fondo perduto".Con a ricostruzione eco-compatibile "lo stato risparmierebbe11 milioni annui e i cittadini risparmierebbero sulle bollette".

Luca Santarossa, economista, spiega che puntare sulla green economy, significherebbe prendere di petto un'altra delle tragedie del terremoto: «Un piccolo distretto industriale per le energie rinnovabili darebbe un lavoro qualificato a circa mille degli 8500 disoccupati de L’Aquila».

Il confrontocon le istituzioni non è certo idilliaco ma molto civile. Ettore Di Cesare: "Chiodi ha detto a Porta a Porta ‘si procede col dovuto riserbo'. Ma quale riserbo? Abbiamo il diritto di sapere". Antonio Perrotti: «C'è un disegno dilatorio e fuorviante". Luca Santarossa: «Questi incontri lasciano il tempo che trovano. Ci vuole continuità di confronto». Dai rappresentanti istituzionali vengono alcune notizie importanti e alcune aperture. Intanto il calcolo dei costi sulla ricostruzione, per Cialente fra i 18 e i 20 miliardi per l'intero cratere. Per Fontana, solo su L'Aquila, 7miliardi e300milioni. Il 25maggio è programmato un incontro al ministero dell'economia. "Chiamate tutta la città", dice Perrotti, "facciamoci sentire". Mattia Lolli: “C’è una minaccia di sgombero per Case matte, eppure è proprio lì che i comitati elaborano le loro proposte”. Risponde il capo dell’unità di missione: “La prossima riunione facciamola a Case matte”. Per i comitati è una cosa importante ma non basta: chiedono regolamenti per lademocrazia partecipata. Sulla eco-ricostruzione Cialente, Chiodi e Fontana sembrano addirittura rilanciare: per le prime case classificate E il contributo pubblico copre tutti i costi. Ma i problemi cominciano con le seconde case, secondo Fontana “il ragionamento dovrebbe essere non sul singolo alloggio ma sulla ricostruzione della qualità urbana”. Bisogna vedere se Tremonti farà orecchie da mercante.

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