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Il mondo politico reagisce alla notizia di un eventuale blocco dei soldi, 200 milioni, destinati alle bonifiche di Marghera. In primis insorgono i Verdi, con l'appoggio del gruppo parlamentare guidato da Luana Zanella, del sottosegretario all'Economia Paolo Cento e del ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio: «L'esecutivo non deve ripetere lo scippo del Governo Berlusconi contro Marghera e Venezia». Lo stesso ministro all'Ambiente, infatti, dice che «sarebbe gravissimo se questa finanziaria non sbloccasse i fondi per la bonifica di Porto Marghera. Il ministro Padoa-Schioppa ed il Governo di centrosinistra devono rimediare agli errori fatti in precedenza. Se così non fosse, ci sarebbero gravi conseguenze anche di natura penale per il Governo».

Si unisce alla protesta il sindaco Massimo Cacciari: «Una roba da procedimento penale, un'iniziativa palesemente illegittima. Ho appreso con sconcerto che oltre 185 milioni di euro, versati negli ultimi due anni dalle imprese come contributo per le bonifiche a Porto Marghera, non sono mai stati trasferiti dal Ministero del Tesoro per gli interventi cui è destinata. Ciò vanifica tutti i grandi sforzi compiuti dal Comune di Venezia per coinvolgere i privati in interventi di estrema urgenza e necessità per l'ambiente e per l'economia, blocca ogni ulteriore transazione e gli stessi versamenti già previsti per il 2007, espone l'amministrazione a ricorsi e a rivalse da parte delle imprese e a denunce per i mancati interventi. Ma, soprattutto, il mancato trasferimento di quei fondi comporterà pesanti riduzioni negli interventi per la messa in sicurezza delle aree interessate e per il completamento dei marginamenti e quindi per la lotta all'inquinamento e la salvaguardia della laguna e dell'ambiente. Spero in un immediato atto concreto del Governo».

Il Presidente della Provincia, Davide Zoggia, chiede che «con la Finanziaria si sblocchino i fondi per le bonifiche di Porto Marghera». Zoggia, in collaborazione con i parlamentari veneziani dell'Unione, Laura Fincato, Luana Zanella, Andrea Martella, Paolo Cacciari e Rodolfo Viola, si è attivato presso il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, Enrico Letta, perché i fondi ottenuti dallo Stato a titolo di risarcimento di danno ambientale prodotto dalle industrie di Porto Marghera siano inseriti nell'apposito capitolo della legge Finanziaria e messi immediatamente a disposizione. «Letta mi ha assicurato massimo impegno del Governo su questo e alte possibilità di inserire in Finanziaria l'emendamento proposto da Laura Fincato, Luana Zanella, Paolo Cacciari, Andrea Martella e Rodolfo Viola». Il consigliere regionale del Prc Pietrangelo Pettenò ricorda che «dopo la sentenza scandalo del maxiprocesso per il Petrolchimico di Marghera, che mandò assolti tutti i vertici della chimica italiana dall'accusa di strage, ora c'è un nuovo, gravissimo fatto: mancano all'appello i 450 milioni di euro, parte dei 700 milioni di risarcimenti pagati da Enichem e Montedison per aver inquinato con gli scarichi aria, suolo, sottosuolo e acque lagunari, e che lo Stato doveva impegnare nelle bonifiche».

Soldi solo per il Mose. E la città chiude. «La situazione è drammatica», denuncia l’assessore ai Lavori pubblici Mara Rumiz, «la città non ha prospettive se non si interviene subito per la sua salvaguardia socioeconomica». Un messaggio chiaro al governo in vista del Comitatone di fine settembre. «Siamo certi che il governo Prodi», scandisce l’assessore, «troverà il modo di onorare i suoi impegni».

Significa che dalla prossima riunione del Comitatone il Comune si aspetta non soltanto una svolta sulla questione del Mose, con l’esame delle proposte alternative e la verifica dei cantieri. Ma anche nuova linfa finanziaria per gli interventi della manutenzione. Negli ultimi quattro anni il meccanismo della Legge Obiettivo ideato dal ministro Lunardi ha fatto sì che tutte le risorse disponibili per Venezia finissero al Mose e al Consorzio Venezia Nuova attraverso il Cipe. Solo una piccola quota dei fondi (circa il 10 per cento) veniva destinato alle necessità di Comune e Regione. «Nel 2006», spiega l’assessore, «non abbiamo avuto un euro. E se la tendenza continua così sarà un disastro». Significa, in concreto, che il Comune dovrà bloccare gli interventi e i cantieri di Insula per lo scavo dei rii e la manutenzione urbana. Ma anche che dovrà essere ulteriormente ridimensionato il programma per il restauro di case, il recupero abitativo che dovrebbe fermare l’inarrestabile emorragia degli abitanti dalla città storica.

«Questa è la vera emergenza della città», dice la Rumiz, «e per continuare il nostro programma abbiamo bisogno di risorse».

La richiesta del Comune, a parole già accettata dal governo, è stata quella di ripristinare l’antico meccanismo della Legge Speciale. In ogni Legge Finanziaria viene inserito il rifinanziamento della Legge, con fondi attribuiti direttamente agli enti interessati e la possibilità di contrarre mutui quindicennali.

Aveva funzionato piuttosto bene fino al 2002, anno di entrata in vigore della legge Obiettivo.

Da allora il meccanismo è cambiato. I soldi vengono dati direttamente al Cipe per il capitolo delle «grandi opere» e distribuiti poi dal Comitato interministeriale per la programmazione economica. Al Comune negli ultimi anni sono arrivate soltanto le briciole (circa 150 milioni di euro dei 1500 destinati alle imprese del Consorzio per il Mose) e nel 2006 non è stato stanziato nulla. Allarme rilanciato all’ultimo Comitatone dal sindaco Cacciari. Adesso la situazione è drammatica. Perché in assenza di garanzie precise, molti interventi di restauro alle case e ai grandi palazzi storici dovranno essere rinviati o sospesi.

Se ne parlerà al prossimo Comitatone, che sarà convocato a Venezia entro la fine di settembre.

All’ordine del giorno anche la richiesta del Comune di modificare il progetto Mose e valutare le alternative possibili, meno costose e secondo gli esperti di Ca’ Farsetti ugualmente efficaci per proteggere la città dalle acque alte.

Una nuova discarica di 50 ettari in mezzo alla laguna. La legge Speciale lo vieta, ma in nome dell’«emergenza» si susseguono i progetti destinati a stravolgere l’equilibrio ambientale e idraulico della laguna. La richiesta di realizzare una nuova isola artificiale grande quattro volte la Certosa e destinata a ricevere 3 milioni di tonnellate di fanghi scavati dai fondali portuali è stata depositata in commissione di Salvaguardia. La richiesta è firmata dal commissario straordinario per i fanghi del Porto, il dirigente dell’assessorato Ambiente della Regione Roberto Casarin. Che su delega del presidente Galan presiede anche la commissione di salvaguardia. Un progetto che sta già destando polemiche tra le associazioni ambientaliste. «Di questo passo chiunque voglia smaltire fanghi e materiali a basso costo può fabbricare una nuova isola in laguna», dicono. Gravi le conseguenze, dal punto di vista ambientale e idraulico, perché si tratta di un vero «imbonimento» di aree lagunari destinate all’espansione di marea. Un sistema che era stato abbandonato dopo il saccheggio del territorio degli anni Sessanta. Ma adesso arriva il nuovo progetto, che secondo Casarin dovrebbe andare al voto già martedì. Cinque giorni di tempo per decidere sulla nuova isola.

Sorgerà a fianco delle Trezze, altra isola artificiale rialzata fino a 9 metri per ospitare i fanghi scavati dai canali del porto. Un’esigenza più volte ripetuta dai dirigenti dell’Autorità portuale, quella di scavare i fondali per garantire l’accesso alle grandi navi. Oggi la profondità è di 10 metri e mezzo, ma si tende a tornare a una «quota di progetto» di 12 metri, la stessa prevista dal Piano regolatore portuale del 1965. Occorrerà dunque scavare dai fondali altri 3 milioni e mezzo di metri cubi di materiale. E dal momento che secondo il commissario Casarin tempi e costi per allestire la discarica al Molo Sali e in terraferma sono troppo elevati, si è scelta la laguna. Accanto alla nuova isola sorgerà una fascia di fanghi definiti come «ricostruzione della morfologìa lagunare». La nuova isola sarà lunga 2 chilometri, ben visibile da ogni parte della laguna centrale. Il progetto è stato proposto dalla società regionale Veneto Acque, ex Delta Po, oggi impegnata per il progetto del grande depuratore di Fusina con la Mantovani (Consorzio Venezia Nuova) e Vesta. E i lavori per la nuova discarica in laguna sono stati affidati come «mandante» alla Mantovani, la stessa che sta scavando i fondali al Lido per il progetto Mose. (a.v.)

Postilla

Tutti (fuorché gli stupidi) sanno che una delle ragioni delle “acque alte eccezionali” sta nel restringimento del bacino lagunare, ridotto di circa un terzo dopo la caduta della Serenissima (1797). Per questa ragione la legge speciale per Venezia del 1973 prescrisse tassativamente che neppure un ulteriore metro quadrato venisse sottratto alla “libera escursione delle maree”. Tutti (anche i più temerari “sviluppisti”) hanno da allora rispettato questa prescrizione. Adesso la legge viene violata da una persona che copre tre cariche rilevanti: è Commissario straordinario ai fanghi dell’Ente Porto, è il dirigente del settore Ambiente della Regione Veneto, è Presidente della Commissione per la salvaguardia della Laguna di Venezia, cioè dell’istituzione cui la legge speciale affida il rigoroso rispetto delle proprie determinazioni.

Ma anche questo scandalo cascherà nel tranquillo habitat culturale e politico di Venezia, come pietra nel fango.

Qui un altro scandalo inesploso: l'ex Mulino Stucky

Vasche di cemento sul fondo

sotto accusa il restauro dei rii

di Alberto Vitucci

Vasche di cemento nei canali della città. Cordoli in calcestruzzo sul fondale per «proteggere» le rive. Al termine dei lavori di restauro di rive e fondamenta, qualche sorpresa resta per sempre nei rii interessati. Quasi ovunque le tecniche di intervento prevedono l’utilizzo di dosi massicce di calcestruzzo per «consolidare» le rive spesso pericolanti. Una tecnica prevista nell’ingegneria e nell’edilizia, da sempre contestata da molti architetti e dalle associazioni per la tutela del territorio, a cominciare da Italia Nostra.

Uno degli esempi più clamorosi è quello del canale tra le vie Loredan e Zeno, al Lido, interessato in questi giorni da nuovi lavori ad opera di Insula. I passanti e gli abitanti della zona hanno segnalato con sorpresa la «trasformazione» del fondo del canale in una sorta di «vasca» in calcestruzzo con la sezione originale ridotta di qualche metro.

Ma gli esempi non mancano anche in centro storico, segno di una tendenza che ha ormai preso piede. Al posto dei mattoni si utilizzano sempre più spesso le iniezioni di calcestruzzo. Lo scopo, secondo gli ingegneri, è quello di rinforzare la riva minacciata da un moto ondoso crescente, e di rendere più duraturo l’intervento di restauro. Ma l’effetto è quello di «irrigidire» sempre di più le rive e le fondazioni, mettendo in discussione proprio il principio di elasticità su cui si fonda l’edilizia lagunare, unica al mondo. E le antiche pietre vengono sostituite con finta pietra d’Istria squadrata a macchina, i masegni con blocchi di trachite di seconda qualità. Il cemento impazza sempre di più nei cantieri di Insula e del Consorzio Venezia Nuova, dove spesso lavorano le stesse imprese. E gli effetti non sono soltanto «strutturali» o estetici.

In buona parte dei canali appena scavati e rimessi a nuovo, succede ad esempio che non sia più possibile avvicinarsi alle rive con le barche. A meno che non si tratti di pesanti mezzi da trasporto in ferro, che non temono urti e danneggiamenti.

Un caso clamoroso è quello del rio di San Trovaso. Sono decine i nuovi pali di ormeggio piantati dalla cooperativa Manin per conto di Insula e dall’assessorato comunale ai servizi pubblici. Strutture in legno, che costano centinaia di euro l’una. Ma tutti sono piantati a circa un metro dalla riva. Il motivo del «distanziamento» è proprio il nuovo cordolo di cemento che corre lungo le due rive. Dunque, i pali sono distanti e non è possibile scendere a terra. Stesso discorso anche per le rive pubbliche con scalini, praticamente inservibili e piene di alghe. Per scendere bisogna mettere una passerella lunga due metri. «Assurdo», denuncia un gondoliere, «e provate ad andare in rio delle Romite. Lì hanno messo i pali e le s-ciòne nello stesso punto. Impossibile attraccare».

Pian piano insomma i rii sono diventati terra di conquista esclusiva per taxi e barconi in ferro dalle eliche potentissime. Le barche tradizionali non vi hanno quasi più diritto di accesso. E sul fondo del canale, i mattoni e la pietra d’Istria sono spariti, lasciando il posto al cemento.

«Venezia salva se diventa Disneyland»

«Se Venezia fosse gestita dalla Disney Corporation oggi non sarebbe in pericolo». L’economista britannico John Kay, docente della London School of Economics ha rilanciato ieri, dalle colonne di un autorevole quotidiano inglese come il Financial Times la sua tesi-choc: trasformare Venezia in un parco tematico per turisti, una Disneyland storica affidata a manager dell’intrattenimento. Secondo Kay, se le barriere mobili del Mose la salveranno dall’acqua alta, quelle destinate ai turisti con ticket d’ingresso tipo Eurodisney (50 euro a testa) ne garantiranno la sopravvivenza.

L’economista - che ha scritto anche un libro sull’argomento - previene con una buona dose di cinismo anche l’ovvia obiezione che Venezia è una città dove abitano persone e non un parco di divertimenti. «Ma Venezia - scrive - è da sempre un parco tematico. Come centro di affari, politico ed economico, è morta centinaia di anni fa e solo il flusso dei suoi visitatori la tiene in vita. Oggi, la maggioranza delle persone nella città sono turisti, e la maggior parte di chi vi lavora sono pendolari legato al turismo. L’economia di Venezia è già quella di Disneyland e non quella di Bologna o di Los Angeles». Dunque - conclude il professor Kay - largo ai manager del settore, che potranno gestirla molto meglio degli amministratori veneziani. E la stampa britannica - dopo il Times, che aveva addirittura scritto, qualche giorno fa, che conviene abbandonare la città al suo destino, perché è ormai condannata - continua a occuparsi di Venezia. E l’idea del parco a tema - sia pure con ben altre caratteristiche o con finalità del tutto diverse - è portata avanti anche dall’Amministrazione comunale, secondo il progetto dell’assessore alla Produzione culturale Sandro Parenzo, che vorrebbe realizzare una Venezia a uso cinematografico o turistico a Marghera o a Tessera.

«Quelle scritte da Kay sono solo assurdità - commenta il presidente dei Comitati privati per la salvaguardia di Venezia Alvise Zorzi, che ne finanziano i restauri e la conservazione - perché Venezia non è Disneyland, ma una città dove vivono persone».

E Zorzi risponde anche al presidente della Regione Giancarlo Galan, ha scritto una lettera aperta invitando in pratica i Comitati privati a non finanziare più i restauri a Venezia perché, se non sarà realizzato il Mose, sarebbero soldi buttati. «E’ una vergogna - commenta Zorzi - che un presidente del Veneto come Galan faccia dichiarazioni come queste. Sono autentiche sciocchezze, ma i Comitati privati per la salvaguardia, per fortuna della città, continueranno come sempre a finanziare i restauri per Venezia. Quanto al Mose, ci sono Comitati a favore, come quelli britannici, a cominciare dal Venice in Peril, ma non abbiamo mai preso una posizione ufficiale sugli interventi alle dighe mobili»

Lo Stucky ricostruito si presenta alla città

Sarà inaugurata venerdì dal presidente di Acqua Marcia Francesco Bellavista Caltagirone e dal sindaco Massimo Cacciari la facciata del Molino Stucky, distrutta nell’incendio di tre anni fa e ora parzialmente ricostruita insieme alla torre. L’intero complesso sarà pronto per fine anno.

E’ già da qualche giorno interamente scoperta - rimossi tutti i ponteggi - l’ala est del complesso neogotico tra il Bacino di San Marco e il canale di San Biagio. La parte più pregiata dell’edificio, che sorgeva su un antico convento dell’anno Mille e che fu poi usata come deposito delle farine. La novità della ricostruzione sono le finestre aggiunte in verticale, aprendole sulla parte muraria. Sono quattro finestre doppie e lunghe che la Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici di Venezia ha concesso di aprire - in fase di ricostruzione dopo l’incndio - perché presenti nel progetto iniziale dell’architetto Ernst Wullekopf, quando l’edificio fu realizzato alla fine dell’Ottocento, ma che poi furono invece murate per problemi di statica, per limitare le vibrazioni provocate dalla farina che cadeva dall’alto nei depositi. Esse, come fessure altissime nella muratura, consentiranno di dare luce alle stanze del nuovo albergo che si affacciano su di esse e che altrimenti sarebbero state cieche. Recuperata anche la scritta dorata originale «Molino Stucky», a fianco della facciata principale del complesso neogotico. L’inaugurazione avverrà in barca, perché solo dall’acqua è possibile valutare nella sua completezza la struttura ricostruita, compresa la torre che la sormonta.

Anche i mattoni dell’ala est danneggiata dall’incendio e rifatta sono dello stesso tipo e della stessa colorazione degli originali: rossi, arancione e gialli. La struttura dell’albergo nel complesso neogotico della Giudecca è ormai completata e si lavora alla finiture delle stanze.

Il complesso dovrebbe entrare pienamente in funzione, conclusi i lavori, per l’inizio del 2007, mentre il centro congressi da 2 mila posti dovrebbe essere terminato qualche mese più tardi.

Sono ormai avanzati anche i lavori per realizzare nella parte inferiore del complesso il sistema viario interno, che unirà centro congressi e albergo. L’hotel avrà 380 stanze su 8 piani. L’ultimo piano ospiterà invece un ristorante, una piscina panoramica e un bar affacciati verso le Zattere. La gestione di tutto il complesso sarà affidata all’Hilton. Si stima un investimento di circa 220 milioni di euro. Fermo invece il recupero dell’area Scalera, confinante con lo Stucky, destinata a parco pubblico. Gli interventi di riqualificazione sono bloccati in attesa che si chiarisca il quadro dell’inquinamento dell’area. (e.t.)

Sullo Stucky vedi la postilla a questo articolo

«Ritirate quel progetto». Il sindaco Massimo Cacciari ha scritto ieri una lettera alla presidente del Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva. Chiedendo a nome dell’amministrazione di abbandonare l’ipotesi di costruire «protezioni» in pietra per le barene in laguna nord. «Alla luce delle perplessità e dei dissensi diffusi sia in città sia all’interno dell’amministrazione comunale», scrive Cacciari, «si devono evitare forzature e spaccature su un tema fondamentale come il ripristino della morfologìa lagunare». Dunque, stop al progetto? «Siamo disposti a discutere sulle modalità», risponde l’ingegnere Piva, «e ad accettare prescrizioni dalla Salvaguardia. Ma per la ricostruzione morfologica abbiamo un mandato dal Comitatone».

La progettazione dunque non si ferma. E le proteste aumentano. Perché secondo gli ambientalisti i nuovi progetti del Consorzio Venezia Nuova prevedono di depositare in laguna almeno 2 milioni di metri cubi di fanghi. E nei bassi fondali sarebbero costruiti veri e propri scalini di pietra fissi, da meno venti a 50 centimetri sul medio mare. Per «proteggere» le barene saranno riversate in laguna centinaia di tonnellate di massi. Una devastazione irreversibile, secondo gli ambientalisti. Si vorrebero ridurre gli effetti del moto ondoso «murando» le barene, e ricostruendole anche dove non sono mai esistite. «Occorre invece», hanno scritto in un documento le associazioni, «attuare davvero il riequilibrio previsto dalla legge. Riducendo il livello di moto ondoso e recuperando i sedimenti». Per colpa dell’arginamento delle valli da pesca e lo scavo di grandi canali verso il mare (che continua per i lavori del Mose) la quantità di sedimenti che forma le barene ha subito una drastica riduzione. L’erosione fa il resto, e ogni anno un milione di metri cubi di sedimenti se ne vanno in mare. Ma non è possibile ricostuire le barene artificialmente, spostando in laguna milioni di metri cubi di fanghi e proteggendole poi con le «burghe» piene di sassi. «Vogliono portare qui i fanghi scavati dalla bocca di Lido per il Mose e i sassi dell’Istria», accusano gli ambientalisti. L’idea delle «autostrade protette» in mezzo alla laguna non piace nemmeno ai tecnici di Ca’ Farsetti, e così il sindaco ha preso l’iniziativa. «Gli interventi che riguardano la salvaguardia», dice Cacciari, «dovranno essere ridiscussi intorno a un tavolo con il nuovo governo».

Ma Magistrato alle Acque e Consorzio Venezia Nuova vanno avanti. Il governo ha stanziato con le ultime Finanziarie quasi due miliardi di euro per i lavori del Mose e del «riequilibrio». E i progetti vengono sfornati numerosi. Così giovedì la sottocommissione di Salvaguardia riprenderà la discussione (e la battaglia). E dovrà fare i conti con la volontà del Magistrato alle Acque di andare avanti e la richiesta del sindaco di ridiscutere. Due anni fa la stessa Salvaguardia aveva autorizzato un intervento sperimentale a Burano con alcune prescrizioni e l’indicazione della provvisorietà. Che non sarebbero mai state attuate.

Un milione e trecentomila metri cubi di fanghi da scaricare in laguna, tra le Vignole, Sant’Erasmo e le Fondamente Nuove. Tonnellate di pietrame per creare nuovi canali «a prova di moto ondoso». Sta sollevando furiose polemiche l’ultimo progetto presentato dal Consorzio Venezia Nuova alla commissione di Salvaguardia. Si propone di creare nuove «autostrade» d’acqua con barriere ai lati. I tecnici del Consorzio le chiamano «burghe», in sostanza argini in pietra e fango. Il materiale dovrebbe essere prelevato dai fondali delle bocche di porto con gli scavi del Mose. I massi trasportati dall’Istria, dove per creare le nuove dighe a mare è stata sventrata un’intera montagna.

«Un’assurdità», replica l’associazione Vas, Verdi Ambiente e Società. «Siamo fermamente contrari alla cementificazione della laguna», scrive il presidente nazionale di Vas Guido Pollice, «e in questo modo si proclama la resa totale al fenomeno del moto ondoso e agli interessi economici». «Il Magistrato alle Acque», continua l’associazione, «dovrebbe essere l’istituto che vigila sulla laguna, e non può consentire interventi che sono contrari allo spirito originario della Legge Speciale. Invece di lavorare per il riequilibrio della laguna si cerca di stravolgerne l’unicità».

«Non si affrontano le cause dei fenomeni e si cerca di limitarne gli effetti stravolgendo il paesaggio lagunare», replica Pax in Aqua, l’associazione che raccoglie migliaia di aderenti alle società di canottaggio, vela al terzo e voga alla veneta.

Un «no» secco viene anche dal Comune. «Non possiamo autorizzare autostrade di pietre in laguna», dice il vicesindaco Michele Vianello, «interventi di questo tipo dovranno per forza coinvolgere il Comune e il commissario contro il moto ondoso».

Il 23 settembre del 2004 la Salvaguardia aveva autorizzato un intervento sperimentale di «protezione» delle barene intorno a Burano, fornendo diverse prescrizioni. E autorizzando le pietre solo «in via transitoria». Ma adesso il Consorzio intende applicare quel sistema all’intera laguna. Il progetto sarà presentato la prossima settimana, per andare al voto il 16 maggio. E la battaglia è certa. Secondo gli ambientalisti e alcuni commissari si tratta di un intervento che «non rispetta la Legge speciale». (a.v.)

Venezia Raccontano che quando il vicesindaco, Michele Vianello, ha letto ieri mattina l'articolo del Gazzettino che riferiva del via libera di Cacciari all'Autorità portuale per i nuovi progetti sulla banchina Isonzo, sia sbiancato in volto. Da una settimana Vianello è sulle barricate per fermare il progetto della nuova stazione marittima, con lettere ufficiali alla Commissione di Salvaguardia e dichiarazioni sui giornali, e il sindaco invece che fa? Si vede col presidente del Porto, Giancarlo Zacchello, e gli dice che tutto va bene. Una risposta attesa, perché già la settimana scorsa in Porto erano convinti che lunedì si sarebbe appianato tutto.

Zacchello esce soddisfatto da Ca' Farsetti, e s'imbatte in chi scrive. «Col Comune ci sono stati solo malintesi» spiega. Anzi usa la parola inglese "understatement", e racconta d'aver illustrato al sindaco le ragioni del Porto, avendone avuto via libera. «Anche sulla darsena a Marghera», aggiunge, spiegando poi d'aver appena telefonato ai suoi uffici per fermare la convocazione di una conferenza stampa con la quale, prima dell'incontro con Cacciari, avrebbe voluto precisare la posizione del Porto. «Ora è superflua», commenta soddisfatto.

Chi scrive si stupisce, sale da Cacciari, gli chiede un commento. E il sindaco conferma, elenca con convinzione le ragioni di Zacchello, e anzi, di fronte alle osservazioni con cui gli si ricorda la posizione del vicesindaco, le difende. «Zacchello mi ha fatto vedere la lettera delle compagnie di navigazione che protestano», dice; «arrivano 18 mila persone alla volta, la stazione marittima non ce la fa, ne serve una nuova con le proboscidi», aggiunge; «col progetto di un avamporto in mare non c'è contrasto», sostiene; «sul sedime portuale il Porto può fare quel che vuole», ritiene.

Esce l'articolo, e a Ca' Farsetti nasce il finimondo. Un giro vorticoso di telefonate, i Ds in ebollizione, Vianello che chiama il sindaco, Vianello che chiama il segretario regionale, Cesare De Piccoli, il segretario provinciale della Quercia, Michele Mognato, che minaccia di convocare la direzione del partito, e cerca inutilmente di parlare col sindaco, nel frattempo partito per Milano. Ed ecco la smentita, sotto forma di una lettera a Zacchello, che scarica tutto sul giornalista descritto come un cronista da Novella 2000 (con tutto il rispetto per i colleghi).

«Leggo oggi su un giornale di mie clamorose smentite alle posizioni del vice sindaco - scrive Cacciari -. Smentite che, come sai benissimo, non ci sono mai state, poiché ieri mi sono limitato ad ascoltare le tue ragioni con l'attenzione di sempre e come sono abituato a fare quando non sono dettagliatamente informato di qualcosa. Ed esclusivamente quello che tu mi hai detto ho ripetuto al solito giornalista di turno alla mia porta, a caccia di gossip e di tempeste in bicchieri d'acqua. L'on. Vianello - aggiunge - parteciperà come rappresentante dell'Amministrazione al Comitato Portuale e in quella sede interverrà a nome mio e di tutta l'Amministrazione, con lo spirito di collaborazione tra Istituzioni che, spero riconoscerai, contraddistingue il mio operato. Sono certo che ogni eventuale differenza di valutazione verrà superata per lo sviluppo del Porto e quindi per il bene della città».

Vianello si rasserena. «Apprendo con piacere - fa sapere - la smentita del sindaco: resta quindi fondata la contrarietà alla procedura seguita dall'Autorità portuale in merito alla costruzione di un nuovo Terminal Passeggeri nonché alla costruzione di una darsena per imbarcazioni turistiche a Marghera». Vianello cita la legge (84 del '94), e conclude affermando che difficilmente il piano operativo triennale 2005-2007 presentato dal Porto potrà essere votato in Commissione di Salvaguardia. Il caso, insomma, è chiuso, e la tempesta in un biccher d'acqua forse placata, anche se ora è al porto che si sono arrabbiati.

L’evoluzione della specie si compie in Laguna. In principio fu la razza padana, il prode Chicco Gnutti, Telecom, la madre di tutte le privatizzazioni, la pasticceria-cult Zilioli di Brescia, le Mille Miglia su auto d’epoca. Poi vennero i furbetti del quartierino, uno straordinario mix di caratteristi che, incedendo da Nord Ovest a Nord Est, esondò su Padova con il tentativo di scalata all’Antonveneta, ma con baricentro romano. I baci in fronte al governatore della Banca d’Italia, le coccole telefoniche alla sua signora, l’impagabile Stefano Ricucci che in un consesso di avvocati parrucconi, tenero, esclamava: «Aho, ma che state a fa’ i fro. col cu. degli altri?». Cioè il suo. Alfine, sempre più a Est, la compagnia di giro si evolve, si scompone, si ricompone con protagonisti vecchi e nuovi. Non sono più i tempi di Volpi e Cini, della Sade, quando in Borsa a Piazza Affari si diceva: «Aspettiamo di vedere cosa fanno a Venezia». Sono duecento anni che Venezia è in decadenza, ripeteva Bruno Visentini, uno degli ultimi grandi veneziani. E Cesare Merzagora annuiva dal suo appartamento al Gritti. La contessina Tiepolo, a chi le chiedeva da quanti anni abitasse a Venezia rispondeva: «Da mille anni». Ma in Laguna da qualche mese sono sbarcati tutti, ma proprio tutti.

Immobiliaristi, palazzinari, architetti, finanzieri di primo e secondo pelo, speculatori, grandi gruppi, piccoli gruppi aggressivi e/o avventurosi.

Porta d’ingresso i monconi di base del nuovo ponte di Calatrava che giacciono da mesi e mesi a far patelle in attesa della geniale struttura di cui si son perse le tracce, o l’eterno suk del Tronchetto, il parcheggio d’ingresso i cui gestori quando non si suicidano falliscono. Vengono in tanti per far che? Per candidarsi al ruolo di mecenate invocato dal sindaco Massimo Cacciari, che non ha più una lira in cassa, vessato dai tagli di Berlusconi e Tremonti? Figurarsi. O per partecipare, piuttosto, all’ultimo presunto business che offre l’Italia in corsa verso la deindustrializzazione, che si chiama opere pubbliche, trasporti, restauri, ristrutturazioni, calcio, scommesse e turismo? Va chiesto, necessariamente, a Enrico Marchi, l’uomo che da Venezia pensava di essere ormai così forte da poter sfidare quelli che qui ancora chiamano i poteri forti e di diventare grande sulle spoglie di Cesare Romiti.

Nato a Conegliano, classe 1956, laurea alla Bocconi in Economia aziendale, giovane liberale con Giancarlo Galan, ex Publitalia e presidente della Regione Veneto e con Niccolò Ghedini, ringhioso legale padovano di Berlusconi, quando si parlava di Benedetto Croce esclamava: «Balle, l’importante è essere anticomunisti».

Portato alla presidenza dell’aeroporto di Venezia, il terzo d’Italia per traffico, dal suo amico governatore al posto dell’ex vicesindaco comunista Gianni Pellicani, se ne compra un pezzo con la Finint, la finanziaria coneglianese di cui è titolare con il suo socio Andrea De Vido, che ha fatto soldi con la «securitisation», la cartolarizzazione dei crediti. Ufficio megagalattico sulla pista di Tessera, amicizia inossidabile con l’amministratore delegato delle Generali Giovanni Perissinotto, potere forte, il ragazzo di Conegliano in gessato, dopo aver fatto posare un favoloso parquet nella nuova aerostazione veneziana, pensa che sia arrivato il momento di attaccare il «salotto buono».

La ricca provincia contro il vecchio establishment. E con i soldi della quotazione in Borsa della Save assalta la Gemina, pensando di sfilare ai Romiti gli Aeroporti di Roma perché - dice - «basta col Nordest che ha la pancia piena, ma preferisce lamentarsi piuttosto che mettersi in gioco». Mal gliene incolse. Romiti chiama a difesa i Benetton, con ormai interessi più che nelle maglie, oltre che nelle autostrade, negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie, i quali per questioni pregresse, per di più, non possono soffrire il coneglianese. Così adesso Marchi, non avendo i soldi e le alleanze per fare un’Opa, si trova sul groppone 160 milioni di euro, o giù di lì, di azioni Gemina, epigono di Ricucci con il «Corriere della Sera».

Romiti fa sarcasmo: «Trattative con Marchi? Sono nelle mani di Dio».

Cambia scena: Sant’Angelo di Piove di Sacco, piatta, desolata campagna veneta sotto la neve, un incubo, una casa un capannone, una casa un capannone.

In una casa, con vicino il capannone dove si commercializzano scarpe Simod, all’ingresso una signorina risponde al telefono: «Qui Alpi Eagles, dica».

Incede il titolare della compagnia aerea e del marchio di scarpe, oltre che presidente di Veneto Sviluppo, finanziaria regionale che fa maggioranza nella Save con Marchi, contro gli altri due azionisti pubblici, Comune e Provincia di Venezia. Spiccata somiglianza con Renato Pozzetto, maglione giallo canarino, Paolo Sinigaglia, che è anche azionista con l’8 per cento del «Gazzettino», conteso tra Francesco Caltagirone e i Benetton, ed è stato sostenitore di Fiorani nella fallita scalata all’Antonveneta, al suo socio coneglianese che vuol diventare il padrone di Venezia non la manda a dire: «Tutte storie di pigmei veneti, diciamolo. Marchi che scala Gemina? Mai saputo niente, si è fatto tutto da solo. Un prevaricatore che vuol fare il finanziere con la Save, cioè con una società pubblica, non come me che mi guadagno "scheo su scheo"». Furbetti della laguna? Il dente è avvelenato per l’Alpi Eagles, in difficoltà perché - dice il patron - tutte le sue tratte sono state «francobollate» (copyright Sinigaglia) da Volare.

Cos’è Volare? Una specie di piccola Parmalat dei cieli, con bilanci truccati che hanno portato a un crac da 500 milioni di euro e all’arresto di sei manager, tra cui Mauro Gambaro, già direttore di Interbanca, banca d’affari dell’Antonveneta creditrice e azionista della compagnia aerea, partecipata dal Fondo Tricolore, società costituita con soldi di Ligresti e Generali e amministrata, guarda un po’, dalla Finint di Marchi e De Vido.

Chissà se Perissinotto, azionista di Finint e per il quale Volare è stata solo uno sfortunato «cippino», è più tanto felice delle performance del suo amico coneglianese, poco incline all’austerità triestina e non molto ben visto da altri soci di Mediobanca.

Se le spoglie aeroportuali romitiane sono un osso duro, quelle marittime sono già passate di mano. Il ruolo di Impregilo nella progettazione e nella realizzazione dell’odiato (da Cacciari e Verdi) Mose, le dighe alle bocche di porto contro l’acqua alta, è stato preso dalla Mantovani, impresa di riferimento del governatore Galan, il quale, noto bon vivant, in questi giorni è in Kenya, probabilmente con il suo portavoce Franco Miracco, ex collaboratore del «Manifesto», che non può riportarne la voce perché i suoi telefonini tacciono sempre. Proprietario della Mantovani è Romeo Chiarotto, fedele dell’ex ministro della prima repubblica Carlo Bernini, arrestato a suo tempo nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti di Autovie Venete, vicepresidente dell’Antonveneta nella breve gestione Fiorani e perciò membro autorevole del ramo veneto dei furbetti. Ma il vero mister Appalto si chiama Piergiorgio Baita, presidente della Mantovani. Anche lui arrestato, e poi assolto, ai tempi di Tangentopoli, ora si candida anche per costruire il nuovo palazzo del cinema al Lido, per il disinquinamento di Marghera e per qualunque altra opera veneziana. Ma non si può dire che non abbia concorrenti. A Ca’ Farsetti il sindaco filosofo, sempre più filosofo, subisce l’assedio quotidiano di Arrigo Poletti e Lorenzo Marinese, della Pio Guaraldi, che non solo si sono presi il Calcio Venezia, per il quale progettano il nuovo stadio, ma vogliono fare un centro direzionale e parcheggi intorno all’aeroporto, accerchiando il povero Marchi, che invece vuole una nuova pista e non vuol pagare 130 milioni di euro per comprare i loro terreni. Poi c’è Francesco Caltagirone, questa volta Bellavista, che ha appena restaurato il Molino Stucky, appartamenti e mega-Hilton, e ora vuol fare un passaggio sotto il mare tra la Giudecca e le Zattere. Paga lui, 30 milioni. Laura Fincato, assessore all’ambiente, si chiede: «Perché?». Fa gola a tutti l’ex Arsenale, un’area immensa da cui l’ultimo bastimento prese il mare nel 1920. Ma la new entry più clamorosa nella scena lagunare, ormai affollata come piazza San Marco in una sera d’agosto, è quella di Giancarlo Elia Valori, ex presidente della società Autostrade liquidato un po’ bruscamente dai Benetton, ora presidente della Torno dell’italo-argentino Carlos Bulgheroni. Avendo comprato la talpa per scavare la nuova linea della metropolitana di Milano, Giancarlo Elia vuole mettere a frutto l’investimento e realizzare la Sublagunare, un tubone sottomarino del diametro di quattro metri che dovrebbe unire in 12 minuti Tessera all’Arsenale, con fermate intermedie a Murano e Fondamente Nuove. Costo 367 milioni di euro, di cui 190 a carico dello Stato.

Grande opera? Minuscola rispetto a quella che propone a Cacciari la Soles Spa, impresa forlivese del gruppo padovano Solfin. Il Mose? Macchè. Meglio sollevare di due metri tutti i palazzi di Venezia, iniettando a pressione pali in ferro pieni di calcestruzzo sotto ogni edificio a o gruppi di edifici.

1.

Alla fine del suo viaggio attraverso “l'acqua e la terra” dell'urbanistica veneziana, dove ci ha condotto con quella sicurezza di sè che gli deriva dalla conoscenza di itinerari più volte percorsi, Luigi Scano ci lascia con un imbarazzante punto interrogativo: la controversa questione dei “vincoli”. Sono sopportati perché inefficaci, o sono salutati perché utili? dietro questo interrogativo, e dietro il gioco delle competenze, dietro l'astuzia dell‘impiego per finalità rinnovate di strumenti obsoleti, si nasconde un più rilevante e corposo problema.

E' un problema che, nelle polemiche e baruffe veneziane, ha trovato espressione nella querelle tra “salvaguardia” e “sviluppo”: tra chi, in forme e modi diversi, ha ritenuto fondamentali e primarie le esigenze della conservazione di quelle qualità formali delle architetture e dell'ambiente, nelle quali risiede la peculiarità di Venezia e la ragione del suo prestigio nel mondo, e chi, vicever-sa, ha sostenuto e operato perché venissero innanzitutto privilegiate e sostenute le esigenze dello sviluppo economico e sociale, quali ineliminabili garanzie dell'autonomia della vita cittadina.

Non basta affermare (come pure è in se giusto) che la contrapposizione tra quei due termini, salvaguardia e sviluppo, è priva di senso. Se questa contrapposizione ha percorso la recente storia veneziana, ha attraversato gli schieramenti politici, è riemersa ogni volta che si è dibattuto su un argomento vitale per la città (dai piani urbanistici all'uso di piazza S. Marco, dai rimedi per l'acqua alta alle prospettive del porto, dalle utilizzazioni per l'Arsenale alla legittimità e opportunità della nuova edificazione), ciò non può essere accaduto unicamente perché tutta la città è rimasta avvolta in un equivoco culturale. La mia tesi è che la ragione di questa permanente contrapposizione sta nel fatto che, sebbene sia emersa con sufficiente chiarezza una impostazione culturale capace di risolvere quella contrapposizione, essa non è ancora riuscita ad esprimersi in un sistema di strumenti capaci di raggiungere insieme, e concretamente, gli obiettivi della salvaguardia e dello sviluppo; di conseguenza, essa non è riuscita a divenire compiutamente egemone. Anche per questo, diversi interessi hanno potuto ambiguamente contrapporsi raggruppandosi, volta per volta, dietro le ingannevoli bandiere della salvaguardia e dello sviluppo, o trovando tra l’una e l'altra precari componimenti, compromessi, mediazioni.

2.

Proviamo allora innanzitutto ad esprimere la posizione culturale che potrebbe diventare egemone perché è in grado di dare risposta compiuta all'una e all'altra esigenza, e quindi a compiere tra esse una sintesi.

In una situazione quale quella di Venezia, le qualità accumulate in un lungo, sistematico, intelligente lavoro di padroneggiamento e trasformazione del dato naturale sono divenute un patrimonio, una ricchezza. Tali qualità, peraltro, non sono costituite solo dalla materialità degli oggetti nella quale esse si esprimono (il paesaggio della laguna, i tessuti degli insediamenti storici, le architetture), dalla incredibile perfezione formale raggiunta dall'intreccio tra i differenti elementi (l'acqua e la terra, il costruito e il non costruito, l‘assetto degli spazi percorribili e l'organizzazione interna delle abitazioni, la costanza delle regole costruttive e la variazione, diacronica e sincronica, delle soluzioni architettoniche). Esse sono costituite anche, e sostanzialmente, dal rapporto equilibrato e dinamico che a Venezia si è per secoli manifestato, e che ancor oggi sopravvive, tra gli elementi fisici della città e dell'ambiente e il concreto e complesso tessuto sociale ed economico (la popolazione, le attività produttive, i commerci, l'insieme insomma della vita quotidiana) che dalla ricchezza della città costituisce una fondamentale componente.

La qualità di Venezia risiede insomma non in quel “monumento”“ che essa per taluni sembra costituire, né in quel “quadro paesaggistico” al quale qualcuno vuole staticamente ridurla, ma nella sua caratteristica di ambiente complesso, reso tale da un pluri-secolare lavoro teso a governare e trasformare la natura, a renderla suscettibile di ospitare la vita, le attività, i commerci di una popolazione. Un lavoro che è ovunque presente nella sua storica accumulazione: sia dove ha prodotto (ma sempre a partire da un'attenta valutazione e utilizzazione delle regole e dei ritmi della natura) un massimo di “artificialità”, sia dove sembra che la natura (ma una natura continuamente controllata e foggiata dal lavoro) costituisca l'elemento prevalente.

Venezia come intervento continuo dell'uomo sulla natura, nel rispetto delle sue leggi. Venezia come trasformazione e manutenzione continua (come governo continuo). Venezia come creazione e conservazione e trasformazione di una struttura complessa Dove la permanenza delle leggi che l’hanno governata, la complessità della struttura, sono leggibili sia nell'azione di assecondamento, utilizzazione e modificazione che il governo della Serenissima ha quotidianamente esercitato sull'ambiente lagunare, sui rapporti idraulici tra mare e laguna e tra fiumi e laguna, sull'equilibrio tra le attività economiche e l'ambiente, sia nell’attività di urbanizzazione, costruzione, modificazione del1'assetto urbano, nel quale una forte “cultura materiale” ha per secoli dinamicamente operato nel rispetto di un sistema di “regole non scritte” relative al rapporto tra i lotti edificabili e le vie d'acqua e di terra, all'impianto strutturale degli edifici e alle sue espressioni formali, ai materiali e alle tecnologie costruttive. E dove il continuo e costante intreccio tra gli elementi fisici e gli elementi sociali, tra l'uso e la forma della città e dell'ambiente, si esprime in una complessità sociale (di funzioni, di ceti, di attività) che è a un tempo prodotto e condizione della complessità, e della ricchezza, della struttura fisica.

Salvaguardare la qualità di Venezia significa allora, e necessariamente, salvaguardare, più ancora che l'uno e l'altro aspetto (l'assetto fisico e quello sociale) quella sintesi tra l'uno e l'altro che la città e il suo ambiente magistralmente esprimono. Una sintesi che non può essere raggiunta una volta per tutte (come mai non lo é stata nella storia della città), ma deve esserlo dinamicamente, con la tensione a sviluppare (non a congelare) le qualità presenti.

3.

Per chi condivide una simile posizione culturale é chiaro che i vincoli, poiché e finché costituiscono solo limitazioni (sostanziali o procedurali) all'esercizio di determinate attività o trasformazioni, servono a ben poco. Servono a garantire la sopravvivenza materiale di una risorsa: ma di una risorsa che non é solo materiale, e che ha bisogno (poiché é appunto una risorsa viva) di essere trasformata, in sintonia con una dinamica sociale. Non servono (non sono sufficienti) per governare una corretta dinamica di questa risorsa. Sono perciò impiegabili a scopi di presidio, per periodi di tempo limitati, con un'efficacia del tutto inadeguata rispetto agli stessi scopi che formalmente si prefiggono.

E' invece necessario comprendere quali siano le modificazioni della struttura fisica e di quella sociale della città, più ancora che compatibili, coerenti e congruenti con la sua “artificiale natura”; quali siano le modificazioni capaci di ripristinare e sviluppare la qualità di questa singolare e complessa realtà urbana, la qualità della sintesi che essa rappresenta. Ed é poi necessario trasferire i risultati di questa comprensione in un sistema di strumenti per il governo delle trasformazioni urbane capace di rendere effettuali le trasformazioni desiderate, di concretarle attraverso un'azione di guida, d'indirizzo, di sostegno e di controllo nei confronti di quella vasta e articolata pluralità di operatori, pubblici e privati, proprietari e imprenditori, cui é in definitiva affidato il compito di agire.

Luigi Scano dà conto, nella sua cronaca diligente e partecipata, dei tentativi e delle sperimentazioni compiuti negli ultimi anni, dei programmi e delle loro difficoltà, dei raggiungibili obiettivi del lavoro avviato. Mi limiterò a riprendere alcuni punti.

Alcune grandi opzioni sono state compiute. Esse riguardano: il metodo secondo il quale si può (si deve) intervenire sulla struttura fisica della città; le trasformazioni che vanno promosse, e quelle che vanno scoraggiate o impedite, nella struttura sociale della città; gli strumenti mediante i quali governare le trasformazioni.

4.

Il metodo d'intervento sulla struttura fisica (Scano lo ha illustrato a sufficienza) consiste essenzialmente nella individuazione di quelle “regole non scritte” mediante le quali la città é stata costruita e trasformata, in quel lungo arco di tempo che va dagli albori del Secondo millennio fino alla rottura determinata dall'interrompersi della “cultura della manutenzione” e dall'irrompere della tecnologia del cemento armato. Sviluppando il metodo di analisi elaborato da Saverio Muratori e dalla sua scuola, generalizzandone l'applicazione alla lettura strutturale delle unità edilizie storiche, sperimentandone l'utilizzazione normativa (nei piani di coordinamento e nel piano particolareggiato di Burano) e quella operativa (nella progettazione e nella verifica di interventi edilizi), si é ora alle soglie della redazione di un elemento fondamentale del nuovo sistema di strumenti per la pianificazione.

E' già possibile definire, per ciascuna delle unità edilizie che compongono il tessuto del Centro storico, qual é la categoria strutturale, il “tipo”, cui il costruttore si é riferito quando ha edificato e trasformato quella unità edilizia. E poiché per ogni “tipo” sono individuabili con sufficiente certezza gli elementi strutturali che lo caratterizzano (e che quindi vanno conservati o risanati o ripristinati perché sia salvaguardato il messaggio storico di cui ciascuna unità edilizia è portatrice), ecco che diviene possibile costruire una normativa che indirizzi l'operatore nell'intervento, indicandogli - in riferimento a ciascuna delle unità edilizie riferibili a un “tipo”strutturale codificato - qual é la linea tendenziale lungo la quale operare: ciò che va conservato o risanato o ripristinato, perché sia salvaguardato il “messaggio”di cui ciascuna unità edilizia é portatrice, e ciò che può essere modificato o realizzato ex novo (all'interno dell'individuata maglia strutturale), perché l'utilizzazione di quella unità edilizia sia adeguata alle esigenze e necessità della vita moderna.

Non tutte le possibili utilizzazioni e funzioni sono correttamente ospitabili in tutte le unità edilizie. Ed é possibile definire (attraverso la lettura strutturale) qual é, per ciascun “tipo”e quindi per ciascuna unità edilizia, la gamma delle destinazioni d'uso con essa coerenti: tali cioè da non indurre devastanti trasformazioni nella sua struttura. Mentre quale sia, all'interno di una simile gamma, la specifica (o le specifiche) utilizzazione ammissibile (e quindi la linea di tendenza lungo la quale far evolvere le utilizzazioni e le funzioni della città e dei suoi elementi), é cosa che é definibile solo in relazione alle trasformazioni che si propongono per la struttura sociale della città.

5.

Venezia - lo si é detto - é una città complessa. Una città nella quale la compresenza, l'intreccio, la reciproca interrelazione di una pluralità di ceti, funzioni, attività é connotazione essenziale della sua qualità. Anzi, Venezia é la testimonianza e l'esempio tra i più vividi del fatto che qualità urbana é complessità: che ricostruire qualità urbana adeguata nelle città e nelle periferie stravolte o realizzate in questo secolo significa superare la logica della zonizzazione monofunzionale. In tal senso, Venezia è un modello.

Ma Venezia é sempre più esposta al rischio che la sua struttura sociale venga stravolta. Che l'espansione del turismo, e delle altre attività ad esso connesse e da esso indotte, riduca la complessità a monofunzionalità. Che i fenomeni agenti sull'assetto sociale della città, le correnti d'interesse e i flussi provocati dalla stessa qualità urbana e dall'accrescersi della capacità di spesa, della mobilità e del tempo libero in tutta l'area dei paesi industrializzati, non determinino soltanto espulsione di abitanti e di attività economiche e sostituzione con altri abitanti e attività, ma la radicale trasformazione della qualità sociale della città: la sua riduzione a monocultura.

Il rischio di siffatto stravolgimento di Venezia non é scongiurabile con una politica di vincoli e divieti. Il turismo non si esorcizza: si può governare, assegnandogli gli spazi adeguati, le necessarie attrezzature, le opportune forme d'organizzazione. E, soprattutto, si può contrastare ed evitare le monocultura turistica promuovendo attività economiche e sociali diversificate, facendo sì che la città resti o venga “occupata” da altre cose. Quali, però? Il dibattito nella città, per molti anni polarizzato sulla questione della difesa della residenzialità, negli anni ‘80 si é aperto su una gamma più vasta di problemi.

Una opzione sembra emergere con ampiezza di consensi. La città non é un contenitore generico disponibile per qualsiasi attività. Lo spazio che essa offre é limitato, e la sua appetibilità é molto grande. E' allora necessario in primo luogo selezionare, e poi promuovere, funzioni che abbiano, o possano avere, una ragione nella storia e nella singolare natura Accanto alla difesa della residenzialità di quei che nella città vivono e operano, accanto alla scegliere di una radice e della città. ceti sociali salvaguardia delle funzioni commerciali e di servizio a questa residenzialità connessa, nasce la sollecitazione a cogliere il prestigioso fattore di localizzazione costituito da Venezia per stimolare e favorire l'ingresso, o lo sviluppo, di attività orientate ad applicare ricerca, innovazione tecnologica, invenzione culturale a quella materia prima, a quella risorsa, che la città e il suo ambiente - come più volte si é detto - costituiscono.

Insieme ai progetti e alle diuturne fatiche per la difesa della residenzialità e per il miglioramento del “livello di servizio” della città, insieme alle proposte per il governo dell'attività turistica mediante la razionalizzazione del sistema degli accessi (i terminali di gronda), l'individuazione di spazi specifici da destinare alla ricettività turistica (le isole minori), la costituzione di itinerari turistici finalizzati alla scoperta della città e dell'ambiente, emergono così progetti e tensioni nuovi. Per lo sviluppo della ricerca e della sperimentazione sulla cantieristica minore (ipotesi di costituzione di un nuovo istituto CNR, da collocare nell'Arsenale, avanzata e discussa in occasione del lavoro per il recupero dell'antica struttura produttiva e di ricerca della Serenissima), nel quadro di una politica di sostegno di questa tradizionale, e ancor viva, attività veneziana. Per la costituzione di un centro di ricerca, di conoscenza, di sviluppo della produzione vetraria (da collocare nell'isola di Murano in un antico edificio produttivo abbandonato). Per lo sviluppo delle attività di ricerca sull'ambiente, che potrebbero vedere le università veneziane e il CNR, con l'apporto di competenze ed esperienze internazionali, concorrere con gli enti pubblici nell'indagine e nel monitoraggio su quell'ambiente unico che é il bacino lagunare, e nella verifica scientifica dei progetti statali per la difesa e il ripristino dell'ecosistema lagunare. Per l'applicazione, la sperimentazione e via via la generalizzazione e la diffusione di metodi, tecnologie, strumenti, forme organizzative atti a rendere più efficace, più economico, più continuo il processo di risanamento e di manutenzione dell'edilizia storica, e quello di restauro, di documentazione, di conoscenza del patrimonio storico e artistico cittadino e lagunare.

Un rinnovamento della funzione della città, della struttura delle attività, dei lavori e dei saperi in essa presenti, che assuma insomma il patrimonio edilizio e ambientale veneziano non come oggetto di richiamo, mercato, spazio scenografico occupabile dal miglior offerente, ma come risorsa alla quale applicare cultura, ricerca, lavoro materiale, al fine di innestare l'innovazione sull'albero della storia e sul territorio dell'ambiente: demitizzando, se si vuole, le “magnifiche sorti e progressive” che ogni fine di secolo attribuisce allo sviluppo tecnologico, e riconoscendo invece, più umilmente, che l'applicazione degli strumenti della cultura, della ricerca, dell'innovazione tecnica ai concreti problemi di questa città e della società in essa insediata é stata nei secoli la prassi della Repubblica veneziana, e che é questa prassi che occorre recuperare.

6.

Gli strumenti mediante i quali governare siffatte trasformazioni della realtà fisica e della realtà sociale del centro storico veneziano sono ben diversi rispetto a quelli della cultura e della tecnica urbanistiche tradizionali. Non più un piano, che prefiguri un futuro e futuribile assetto delle funzioni, astrattamente “disegnato” sul territorio e integrato da norme e regolamenti essenzialmente vincolativi e quantitativi, da tradurre in concreti interventi con la mediazione tecnica di piani attuativi via via più dettagliati, e la mediazione politica di un programma costruito come scelta dei singoli pezzi del piano da attuare nel breve periodo.

Ma, invece, un'attività di pianificazione, nella quale i tre momenti del piano (ossia della coerenza complessiva delle scelte sul territorio), del programma (ossia dalla scelta delle operazioni priorita­rie, certe, concretamente realizzabili) e dell'attuazione e gestione (ossia delle concrete operazioni di trasformazioni) siano inscindibilmente connessi. Un'attività di pianificazione nella quale non solo vi sia una reale connessione tra analisi, obiettivi e scelte, ma vi sia tra essi una continua e sistematica interazione; talché non solo le scelte siano la conseguenza pressoché automatica del-

l'applicazione di determinati obiettivi politici e amministrativi a una corretta analisi della realtà, ma il processo di pianificazione sia tale da consentire in ogni istante la misura delle trasforma­zioni della realtà, la conseguente verifica delle scelte sul territorio, il loro aggiornamento in relazione al mutare delle condizioni.

Un'attività di pianificazione, in definitiva, nella quale i tre requisiti della coerenza, della flessibilità e della trasparenza (cioè dell'evidenza e pubblicità delle ragioni per le quali determinati obiettivi, in relazione a una determinata realtà, si traducono in determinate scelte), siano con tempo temporaneamaente e solidalmente raggiunti.

E' appunto in vista di una simile attività di pianificazione che si stanno predisponendo i numerosi strumenti tecnici e operativi necessari. Sono in avanzata fase di formazione gli elementi del sistema cartografico, non solo essenziale strumento di conoscenza e di misura, ma base di riferimento di tutte le informazioni sul territorio e quindi componente essenziale e primaria del sistema informativo urbano territorializzato (SIUTE). Quest'ultimo é in fase di progettazione, e ne é iniziata una simulazione e sperimentazione su un'area limitata. Nel frattempo, é conclusa una prima stesura delle fondamentali analisi: quelle delle tipologie strutturali, delle funzioni insediate, delle proprietà, della domanda di spazi degli enti che gestiscono servizi pubblici o d'interesse pubblico. Ma di tutto ciò Scano dà conto nelle ultime pagine del suo libro.

Complessi, pesanti, spesso paralizzati sono peraltro tre ordini di vincoli che é necessario rimuovere per costruire un nuovo sistema di pianificazione. Quelli del personale, in cui l'intreccio tra livelli retributivi, qualificazione e impegno é tale da richiedere uno sforzo notevole (da compiere in primo luogo, ma non esclusivamente, nell'ambito del Comune) per stimolare la crescita delle professionalità indispensabili a gestire con autonomia e responsabilità il nuovo sistema di pianificazione. Quelli del bilancio, le cui crescenti ristrettezze rendono sempre più precario, aleatorio, incerto il lavoro stesso di predisposizione delle basi materiali della nuova pianificazione, l'approvvigionamento dell'hardware, la pubblicizzazione dei risultati, l'utilizzazione di competenze esterne, le iniziative per l'aggiornamento del personale, e così via. Quelli, infine, dei conflitti e delle confusioni delle competenze, i quali tendono a rivelarsi paralizzanti a mano a mano che l'attività di governo del territorio si pone esplicitamente come azione che deve coinvolgere - in un unico processo coerente - una pluralità di competenze tecniche, amministrative e politiche oggi separate in difesi arroccamenti.

7.

Dalla questione dei vincoli sul territorio, alla questione dei vincoli pratici. Non é solo un'assonanza terminologica. Per realizzare le condizioni che consentano di costruire nel concreto quella operante sintesi tra esigenze della conservazione ed esigenze della trasformazione, tra salvaguardia e sviluppo, tra storia e innovazione, tra ambiente e vita (per superare quindi davvero i vincoli sul territorio), é indispensabile innovare in primo luogo la cultura, l'organizzazione, la qualificazione e lo stesso assetto dei ruoli dell'istituto preposto al governo del territorio.

Forse é in questo - poiché siamo in epoca di bilanci e rendiconti - il limite più grave che si deve registrare nell'esperienza delle giunte di sinistra. Il superamento di questo limite é certo cosa che esige tempi non brevi, e quindi determinazione, costanza, e l'impegno politico e culturale necessari per affrontare problemi che non “pagano” nel breve termine, ma che é indispensabile affrontare se si é portatori di una “cultura di governo” che voglia effettivamente, e vittoriosamente, misurarsi con i problemi reali del territorio.

Poiché in realtà ciò che si sta tentando di costruire a Venezia é qualcosa di più ambizioso di quanto possa a prima vista apparire.

Risolvere non solo a livello di enunciazioni e argomentazioni teoriche, ma nella concretezza degli strumenti e degli atti amministrativi, quel rapporto tra conservazione e trasformazione, tra storia e innovazione, di cui più volte s'è detto, é infatti (sarebbe) esso stesso un fatto profondamente innovativo nel panorama italiano, e non solo italiano.

Ricostruire la credibilità e l'autorità di una prassi del governo pubblico delle trasformazioni territoriali e urbane, mediante l'invenzione e l'applicazione di un sistema di strumenti di pianificazione adeguati alle esigenze di oggi e di domani, é anch'esso un fatto che innova in modo sostanziale non solo nei confronti di una fase, quale quella attuale, contrassegnata dallo slogan della deregulation e dalla “cultura dell'abusivismo condonato”, dalla deroga, dalla casualità degli interventi sul territorio, ma anche nei confronti della pianificazione tradizionale.

E, soprattutto, trasformare il sistema delle decisioni sul territorio dall'attuale, confuso intreccio di supporti e atti tecnici e scelte politiche troppo spesso casuali e discrezionali, in procedimento nel quale siano sempre e sistematicamente verificabili e controllabili le puntuali e generali corrispondenze tra la realtà e le sue modificazioni, gli obiettivi politici, culturali e sociali, e le concrete decisioni che dall'applicazione dei secondi alla prima discendono, é fatto che innova (che può innovare) radicalmente il modo stesso di porsi, di operare, rispondere alle proprie responsabilità del potere politico.

E' possibile, a Venezia, tentar di raggiungere un obiettivo così ambizioso? Introdurre innovazioni così profonde? La storia millenaria di questa piccola e grandissima parte del mondo, ripercorsa da Luigi Scano nel suo libro, ne suggerisce la possibilità e la necessità. Dove la possibilità risiede nello stimolo e nell'insegnamento forniti dall'immanente presenza e testimonianza di un ambiente così profondamente intriso dalle qualità prodotte da dieci secoli di storica, così ricco di valori decisivi per la ricchezza del mondo, così segnato, e anzi foggiato, da una cultura materiale che - nei secoli della Serenissima - ha saputo fare del governo delle trasformazioni urbane e territoriali il contenuto e l'obiettivo centrali dell'attività politica e amministrativa. E dove la necessità é avvertibile in quell'intreccio di tensioni e cedimenti, tentativi e cadute, lucidità e compromessi, intuizioni e impotenze, che ha contrassegnato - come Scano puntualmente annota - la storia degli ultimi decenni: una storia che é giunta al punto in cui la scelta, la chiarezza, non possono essere rinviate, in cui la instabilità e provvisorietà degli equilibri (culturali prima che politici) non possono più a lungo essere protratti, pena la decadenza per stagnazione o la morte per congestione e snaturamento.

Venezia, insomma, la sua storia, le sue qualità, pongono una sfida. Raccoglierla e vincerla può significare non solo condurre la città a “nuova magnificenza”, ma anche produrre, in questa città, testimonianze amministrative e tecniche, culturali e politiche, capaci di dimostrare che alcuni nodi di fondo della società attuale possono essere risolti, e che Venezia ha, di nuovo, qualcosa da insegnare al mondo.

Edoardo Salzano

I principi urbanistici che Lewis Mumford trova esemplificati in Venezia sarebbero stati altrettanto validi se Venezia fosse stata costruita sulla terraferma; ma fu perché costruivano una città sull'acqua the i veneziani si resero conto per tempo della necessità di una pianificazione urbana. Come appare dai regolamenti relativi alla zavorra e alle officine dei tagliapietre, le vie d'acqua sarebbero rimaste intasate se il comodo dei singoli non fosse stato subordinato a una norma generale. La fusione di vari nuclei abitati in un'unica massa urbana sollevava molti problemi del genere di quelli the noi associamo alla «zonizzazione», ossia alla suddivisione di una città in zone con determinate funzioni specifiche. Affondare zavorra o detriti, fare zattere di legna da ardere, o lasciare barche abbandonate a marcire portava all'accumularsi di melma. I banchi di fango formati in questo modo o per cause naturali po­tevano essere trasformati in «terreno edificabile» piantando dei pali di costruzione. A chi dunque spettava la proprietà di questo terreno o di quest'acqua? Naturalmente il governo affermò la propria autorità. Il doge e i suoi supremi consigli prendevano le decisioni fondamentali intese a mantenere sgombri canali e bracci di mare, e fin dal 1224ci fu un magistrato incaricato degli stretti. Sorse e si sviluppò quello che potremmo chiamare un consiglio di zonizzazione (Magistrato del Piovego), incaricato non solo di rivendicare la proprietà comunitaria, ma anche di concedere o rifiutare permessi di costruzione sui banchi di mota. Più tardi fu creato un Magistrato dell'Acqua per far fronte a tutti i problemi idraulici.

VENEZIA. Un Ufficio di Piano blindato. Composto a grande maggioranza da tecnici schierati in favore del Mose, in buona parte già consulenti del Consorzio Venezia Nuova. E’ arrivato con quattro anni di ritardo, ma il nuovo organismo che dovrebbe guidare la salvaguardia desta già polemiche di fuoco. E Rifondazione annuncia: «E’ un monocolore di supporter del Mose, imposto da Berlusconi con qualche complicità locale. Protesteremo in tutte le sedi. E non escludiamo di uscire dalla giunta Costa».

Il decreto firmato dal presidente del Consiglio è uscito a sorpresa un paio di giorni fa, mentre il sindaco Costa era a Roma per la convention dell’Ulivo. «Adesso aspettiamo anche i finanziamenti e la convocazione del Comitatone», commenta da Bruxelles. Ma gli alleati sono furiosi per la nomina di Ignazio Musu, uomo di fiducia di Costa, che il sindaco aveva voluto al suo posto tra i cinque esperti che avevano promosso il Mose. Il professore si era dimesso alla vigilia del voto del Consiglio comunale - poi disatteso in Comitatone - che poneva una serie di condizioni al via libera del progetto. Verdi, Rifondazione e Ds avevano espresso al loro contrarietà alla nomina di Musu. «Vogliamo qualcuno che rappresenti la posizione del Consiglio comunale», dicevano. Ma il sindaco ha mandato a Roma lo stesso l’indicazione, e il governo ha nominato l’economista.

Gli altri membri del nuovo Ufficio di Piano sono stati indicati da ministeri ed enti che fanno parte del Comitatone. Ci sono Bruno Cescon per il Cnr e il Corila, Francesco Indovina, docente Iuav ex presidente di Tethis (consulente del Consorzio per lo Studio di Impatto ambientale), Andrea Rinaldo, ingegnere padovano con un contratto a Mit di Boston, anch’egli tra i consulenti che avevano approvato il progetto di massima. E poi i dirigenti regionali Roberto Casarin (responsabile dell’Ufficio Via) e il Segretario regionale di palazzo Balbi, Rasi Caldogno, i due componenti del gruppo di esperti nominati dal ministero dei Lavori pubblici nel 1995 (Philippe Bordeaux e Pier Vellinga). Infine l’ex rettore di Ca’ Foscari Maurizio Rispoli (nominato dal Comune di Chioggia), il vicedirettore di Vesta (ex direttore generale del Comune) Maurizio Calligaro, definito da Costa «un infermiere» quando il comitato di esperti del Comune bocciò il progetto, il direttore generale dell’Ambiente Mascazzini e quello dei Beni culturali Roberto Cecchi (autore del parere favorevole che ha commissariato la Soprintendenza) il professor Baron. Un gruppo di esperti di nomina governativa che dovrà dare indirizzi sulla salvaguardia. «Il comitatone ci ha preso in giro», protesta il capogruppo di Rifondazione Pietrangelo Pettenò.

La Laguna di Venezia è un bene prezioso dell’umanità. Pochi si rendono conto che quella di Venezia è l’unica laguna che è rimasta tale, sfuggendo al destino comune a tutte le lagune: trasformarsi in un pantano e poi in un campo, oppure diventare una baia marina. Questo destino è stato evitato alla Laguna di Venezia grazie al saggio impiego, per molti secoli, di tutte le risorse disponibili (politiche, amministrative, culturali, tecniche, finanziarie). Con l’Ottocento le cose sono cambiate. La tecnica non ha più guidato la natura assecondandola, l’ha contrastata e negata. La prospettiva temporale non è stata il lungo periodo, il domani, il futuro, ma l’oggi, l’immediato, il contingente. L’interesse dominante non è stato quello della comunità, ma quello dell’individuo (e naturalmente del più forte e più furbo).

Le stesse regole del governo del territorio (i piani urbanistici) hanno avuto il loro centro e il loro motore nella crescita dell’urbanizzato ed edificato, nella trasformazione della natura in cemento e asfalto, nell’espansione delle città. Solo da pochissimi decenni la pianificazione si è finalmente fatta carico anche delle esigenze della “altra parte” del nostro mondo: quella nella quale il lavoro dell’uomo si compone con la natura rispettandone le leggi e i ritmi. Sono nati così, accanto ai piani tradizionali (il PRG, il PTC), dei piani specialistici, orientati ad affrontare non l’insieme dei temi e degli obiettivi del governo del territorio, ma un particolare aspetto: i piani per la difesa delle acque e del suolo, i piani per la tutela del paesaggio, i piani per le aree protette. Questi piani non regolano tutti gli aspetti della vita dell’uomo sulla terra: solo quelli (e tutti quelli) che hanno a che fare con la loro specifica missione. Dettano legge solo per un aspetto, ma per quell’aspetto la loro legge non è appellabile, prevale su qualsiasi altra.

La costituzione del Parco della Laguna nord si pone in questa logica. Rispetto ad altri strumenti della pianificazione specialistica esso ha anche un’altra valenza: non è solo un Piano, è anche una Istituzione. Spesso l’urbanistica è fallita perché si è ridotta a documenti di carta, non tradotti in una gestione del reale. L’Istituzione garantisce che, per la Laguna, questo non avverrà. Essa garantisce che la tutela della Laguna diventi un fatto dinamico: un disegno che si traduce in azioni. In questa logica la prospettiva possibile (ed augurabile) è che il Parco della Laguna nord sia destinata a perdere il suo riferimento geografico, la sua limitazione a una parte della Laguna: che diventi un modo nuovo (ma simile a quello del passato più lontano e sapiente) di governare l’insieme della Laguna di Venezia.

Venezia, 10 gennaio 2004

Da tempo le associazioni ambientaliste, e soprattutto gruppi organizzati di cittadini, protestavano per la scomparsa della antiche pietre di trachite che costituiscono la pavimentazione veneziana, nel corso dei lavori di ripavimentazione (e di consolidamento e innalzamento delle fondamenta, nonché di ripulitura dei canali interni). Inserisco di seguito una nota tratta dal sito Ombra.net e l’articolo di Enrico Tantucci da la Nuova. Sottolineo che l’asportazione dei masegni è negativo per tre ragioni: perché peggiora l’aspetto delle pavimentazioni storiche, perché è privatizzazione (per di più furtiva) di un bene pubblico, perché rende necessaria l’ulteriore escavazione di siti preziosi (nella fattispecie, i Colli Euganei).

Ombra.net

Dove vanno le pietre sostituite?



Nel corso di secoli i veneziani hanno progressivamente sostituito la terra battuta e i mattoni a spina di pesce con una pavimentazione stradale in "masegni" di trachite euganea. Il masegno è un blocco di pietra spianato nella faccia superiore e rozzamente sbozzato a semisfera in quella inferiore. Misura in spessore circa 25 cm. mentre i lati variano dai pochi cm. delle "seragie" (piccole pietre per chiudere i corsi) a oltre cm. 100 × 50 dei grandi "salizzoni".

La trachite euganea è pietra ottimale per pavimentare, sia per le sue doti estetiche (ogni singola pietra presenta variegate tinte pastello) sia per quelle di efficienza: resistente all'usura, all'imbibimento e soprattutto alla salsedine, alta valenza anti sdrucciolio. Per ovviare al fatto che la pietra usata come sostituzione è invece scivolosa, si provvede a bocciardarla (renderne cioè scabra la superficie con speciali martelli); la faccia superiore della pietra, resa rugosa, trattiene ancor di più l'acqua, che intenerisce la pietra e fa sì che questa in breve tempo con il calpestio prenda una forma concava, in cui si ferma ancor più acqua e così via...

La varietà dei colori tutti comunque armoniosamente fusi tra loro contribuisce grandemente al fascino particolare di Venezia e ottimamente si sposa con il ritmo architettonico estremamente vario che contraddistingue questa città, oltre che con i colori dei suoi intonaci, dei suoi mattoni e, perché no, delle sue alghe e muffe salmastre.

Sfortunatamente i colli Euganei, da cui la trachite proviene, sono un complesso relativamente piccolo, già gravemente minacciato e ferito dalle cave. Di conseguenza la cava delle pietre da quelle località e oggi drasticamente limitata e in via di totale proibizione.

La trachite euganea diviene quindi da pietra di pregio una pietra assai rara. In concomitanza con la chiusura delle cave euganee iniziano massicce sparizioni di pavimentazione pubblica a Venezia. In occasione di ogni lavoro pubblico sono molte le pietre originali che vengono sostituite con piastrelloni di dubbia natura e di evidente pessima qualità, quando non addirittura con gettate di calcestruzzo.

Il fenomeno più appariscente si ha in zone in cui intere aree subiscono la sostituzione, come nel caso di campo San Giacomo da l'Orio, della Giudecca, di fondamenta degli Ormesini e delle Zattere, ma vi è un'altra manifestazione più subdola e non meno grave che passa sotto il nome di " macchia di leopardo", consistente nella chiusura di innumerevoli piccoli scavi con pietre non originali.

Al danno culturale e artistico va sommato l'aggravio per le casse comunali dell'acquisto dei nuovi piastrelloni, mentre resta ignota la sorte di decine di migliaia di originali. A titolo informativo si sappia che il Comune paga per ciascun piastrellone nuovo un prezzo che varia da un paio di centomila lire a oltre un milione, a seconda della grandezza...

Enrico Tantucci La Soprintendenza detta le regole per la conservazione Masegni, istruzioni per l’uso

VENEZIA. La Soprintendenza detta le regole per i masegni. Rispondendo a una richiesta avanzata dall’Assessore ai Lavori Pubblici del Comune il sovrintendente ai Beni Architettonici di Venezia Giorgio Rossini, ha stabilito un analitico sistema di intervento per la rimozione e la sostituzione della pavimentazione tradizionale, che dovrebbe finalmente garantire una migliore conservazione. Sarà stilato un protocollo d’intesa tra Comune e Soprintendenza, poi trasmesso a Insula e Consorzio Venezia Nuova. Tutti i progetti che d’ora in poi prevederanno interventi sulle pavimentazioni cittadine dovranno essere inviati in Soprintendenza con largo anticipo rispetto alla loro presentazione in Commissione di Salvaguardia. In particolare, per la rimozione della pavimentazione in trachite, oltre al progetto dovrà essere presentata la mappatura del degrado, numerando tutti i masegni e indicando quelli vecchi e quelli di recente sostituzione. Le imprese dovranno anche produrre un fotopiano a mosaico di tutta la pavimentazione su cui sarà attuato l’intervento, per documentare prima dell’inizio dei lavori lo stato di conservazione dei masegni e poter così ricollocare le pietre nella medesima posizione. Per recuperare, comunque, le tecniche tradizionali di lavorazioni, che rischiano di perdersi, la soprintendenza creerà un “cantiere scuola” sulle pavimentazioni in trachite, nel quale saranno coinvolti anche il Comune, il Magistrato alle Acque e l’Associazione Costruttori. Decisi anche i criteri in base ai quali le imprese che intervengono sulle pavimentazioni, dovranno procedere, con l’obiettivo di recuperare tutto il materiale esistente e rimetterlo in opera con modalità differenti, secondo che sia a giunto unito o a giunto fugato. Anche nelle tecniche di rimozione dei masegni, saranno evitati utensili in ferro o a percussione, che possano danneggiare le pietre, privilegiando gli attrezzi traduzionali in legno, anche ricorrendo, con moderazione, alla sega circolare. Vietato l’uso della mola a disco e dei pali in ferro per la battitura. Come detto, prima di essere rimossi, tutti i masegni dovranno essere numerati e fotigrafati, e, dopo lo smontaggio, dovranno essere accatastati e coperti con tela e sigillo per evitare furti o danneggiamenti. Prima dell’apertura del cantiere e in corso d’opera dovranno comunque essere concordati sopralluoghi con i tecnici della Soprintendenza. Nel caso di sostituzioni o integrazioni, la trachite nuova dovrà presentare tutti i requisiti per essere classificata ottima e possedere colori il più possibile simili a quella della pavimentazione esistente. Regole molto severe che dovrebbero consentire di migliorare le percentuali di sostituzione dei vecchi masegni denunciate da Insula, ora comprese tra il 25 e il 47 per cento della pavimentazione esistente, ogni volta che si interviene. Il documento della Soprintendenza è stato discusso anche ieri in Commissione comunale consiliare che si è occupata della questione. Adesso il Comune provvederà a diffonderne la conoscenza con riunione con tutti gli enti e le aziende che si occupano in città degli interventi sulla pavimentazione, perché diventi il sistema di riferimento nei nuovi interventi, sperando che consenta, davvero, una maggiore tutela.

Ich glaube an das Venedig der Zukunft , “Merian” , Heft 9/XXVII (settembre1974), pp. 87-90. Ora in: Italo Calvino, Saggi 1945-1985 , Tomo II “Descrizioni e reportage”, Mondadori, Milano.

La linea più breve che unisce due punti non è mai la linea retta, tranne che nelle astratte costruzioni di Euclide. Venezia, prima città antieuclidea, è per questo il modello di città che ha davanti a sé più avvenire. Prima di tutto, il concetto di linea più breve tra due punti è relativo: esso varia a seconda di quale moto e quale corpo traccia il percorso tra i due punti. Stabilendo che le vie dei veicoli e quelle dei pedoni non coincidano mai, Venezia ha fatto di questa relatività dello spazio nel movimento il suo principio fondamentale. Per sottolineare questa regola,- come su una mappa i due diversi tipi di via sarebbero segnati in colori differenti,- Venezia caratterizza le vie dei veicoli come vie acquatiche distinguendole dalle vie terrestri e dei pedoni; cioè sovrappone due reticoli uno solido e l’altro liquido, componendo tracciati che possono combinarsi e permutarsi in vario modo collegando tutti i punti della città nelle due dimensioni acquatica e terrestre.

La casa a più piani ha significato, in tutte le civiltà in cui è apparsa, l’incontro di due dimensioni fondamentali della vita umana: la dimensione terrestre e la dimensione aerea; a Venezia significa l’incontro di tre dimensioni : terrestre, aerea e acquatica. Caratteristica del genere umano è l’aver compiuto gran parte della sua evoluzione non sulla terra ma per aria, sugli alberi; la linea evolutiva al cui termine sta l’uomo è passata dalla vita acquatica a quella arboricola e solo in un terzo momento a quella terrestre. Perciò la civiltà umana tende verso soluzioni che concilino i tre modi di vita terrestre aereo e acquatico. Le successive approssimazioni (caverna, palafitta, palazzo, tebaide, grattacielo ecc.) soddisfano ora l’una ora l’altra di queste possibilità vitali. In questo quadro la soluzione–Venezia è una delle più complete approssimazioni al progetto d’un ambiente umano pluridimensionale.

Nulla dà l’idea d’una dimensione in più quanto le case di Venezia le cui porte s’aprono sull’acqua; è sempre una sfida per la pigrizia mentale dell’uomo di terraferma di abituarsi all’idea che è quella la vera porta, mentre l’altra, che dà sul campo o sulla calle, è solo una porta secondaria. Ma basta riflettere un momento per capire che la porta sul canale collega non a una particolare via acquatica ma a tutte le vie dell’acqua, alla distesa liquida che avvolge tutto il pianeta. L’analogia vera è con l’antenna radio o televisiva: anche quella è una porta su un’altra dimensione, invisibile e illimitata (una porta solo passiva, l’antenna del nostro televisore domestico, perché si limita a ricevere messaggi; del resto anche la porta aerea più classica, cioè la finestra, è solo una porta passiva in quanto da essa non facciamo che ricevere informazioni dal fuori; solo quando le donne stavano affacciate al davanzale per essere viste, la finestra trasmetteva informazione oltre che riceverla; adesso un uso attivo della finestra è prerogativa dei suicidi, dei cecchini, delle donne che stendono i panni). E’’ questo che si sente nelle case di Venezia : che la porta terrestre dà accesso a una porzione di mondo limitata, a un isolotto, mentre la porta sull’acqua dà direttamente su una dimensione senza confini.

Dicendo che queste cose si sentono forse mi sono espresso male: si tratta di un particolare clima mentale che Venezia determina intorno a noi, una geometria speciale o - come dicevo prima - non euclidea che scatena la nostra immaginazione per vie inconsuete; mentre sul piano delle sensazioni percettive non c’è nulla di illimitato, lo spazio si apre e si chiude davanti a noi in configurazioni sempre diverse. E’ appunto l’estrema diversificazione , la non-uniformità in un’esperienza omogenea lo straordinario risultato di Venezia. Non per niente la terminologia stradale di Venezia è di una ricchezza senza pari: calli campi fondamenta rive salizzade sottoporteghi, ogni luogo chiede di essere nominato con puntigliosa precisione come rivendicando la sua unicità. M’accorgo che non riesco a ricordare altrettanti vocaboli che indichino le vie acquatiche: canale, rio , e poi? O si tratta d’una minore ricettività della mia memoria in questo settore, oppure la nomenclatura delle vie acquatiche è più povera, il lessico veneziano non rende ragione della varietà di forme in cui il labirinto lagunare ci introduce. In un caso e nell’altro la spiegazione potrebbe essere unica: l’acqua è l’elemento unificatore, riceve la sua differenziazione dai luoghi emersi; la laguna è un livello unico, mentre fondamenta e ponti con il loro continuo salire e scendere di gradini introducono l’elemento di discontinuità che è proprio del linguaggio.

Se dalle differenziazioni dei vocaboli passiamo alle differenziazioni dei mezzi di locomozione, ecco che l’opposizione acqua-terra cambia di segno. I canali di Venezia con il loro va e vieni di vaporetti motoscafi lance gondole barconi chiatte traghetti ci danno sempre più l’idea di come le possibilità della civiltà umana dovrebbero svilupparsi tutte insieme. La visione dell’estrema varietà di mezzi di trasporto lagunari è ormai unica a mondo, da quando l’automobile ha monopolizzato il traffico delle altre città, impedendo lo sviluppo parallelo d’ogni altro tipo di veicolo industriale e collettivo, e soffocando una delle doti principali del genere umano: la capacità di spostarsi in maniera sempre diversa, applicando una inesauribile inventiva alle diverse circostanze ambientali e tecniche. Va detto che a Venezia alla varietà della locomozione acquatica corrisponde nella locomozione terrestre una impossibilità di scelta, in quanto si può andare solamente a piedi. Ma a questo andare a piedi Venezia offre la varietà di modi che in ogni altra città si è ormai persa ; per esempio: è una città in cui si può ancora correre (come si vide in quel bellissimo film di Tinto Brass il cui protagonista andava sempre di corsa).

Certo, l’acqua dà alla vita a Venezia una dimensione in più, ma vivere a Venezia prescindendo dall’acqua non vuol dire trovarsi nella condizione degli abitanti delle altre città: si vive in una città in negativo. L’immaginazione si rifiuta di raffigurarsi una Venezia asciutta: se cerco di immaginare i canali che si seccano vedo baratri aprirsi tra le vie, una Venezia d’incubo attraversata da canyons senza fondo. Ovvero, altra sequenza dell’incubo, i canali si rinchiudono, si rimarginano, avvicinando le mura delle case in stretti vicoli (eppure una Venezia così esiste, la Venezia dei poveri di Castello).

Nei progetti delle metropoli del futuro, si vede sempre più spesso apparire il modello veneziano, per esempio nelle proposte degli urbanisti per risolvere il problema del traffico di Londra: vie destinate ai veicoli che passano in profondità, mentre i pedoni circolano su vie sopraelevate e ponti. L’epoca in cui viviamo vede tutte le grandi città esistenti in crisi: molte città diventano invivibili; molte città dovranno essere ristrutturate o costruite ex novo secondo piani più conformi al modello veneziano. Ma progettare delle Venezie asciutte vuol dire amputare il modello di ciò che esso rappresenta il più profondo : la città acquatica come archetipo dell’immaginazione e come struttura che risponde a bisogni antropologici fondamentali. Io credo nell’avvenire delle città acquatiche, in un mondo popolato dai innumerevoli Venezie.

L’acqua avrà sempre più posto nella civiltà metropolitana, per due ragioni: primo, perché l’alimentazione dell’umanità sarà basata sulla coltivazione degli oceani più che sulla coltivazione dei campi, e si può prevedere che le città industriali del futuro saranno costruite nell’acqua, su palafitte o natanti; secondo, la prossima grande rivoluzione dei mezzi di trasporto abolirà quasi completamente sia gli automobili che gli aeroplani per sostituirli con i veicoli a cuscino d’aria; questo imporrà una differenziazione tra le strade a suolo duro che serviranno per il piccolo traffico e le grandi vie di comunicazione a cuscino d’aria anche all’interno delle città; è logico prevedere che il traffico a cuscino d’aria si svolgerà meglio su vie a pavimentazione liquida, cioè su canali. Nel periodo di trapasso che stiamo per vivere, in cui tante città dovranno essere abbandonate o ricostruite da cima a fondo, Venezia, che non è passata attraverso la breve fase delle storia umana in cui si credeva che l’avvenire fosse dell’automobile (un’ottantina d’anni fa soltanto ) sarà la città meglio in grado di superare la crisi e di indicare con la propria esperienza nuovi sviluppi.

Una cosa Venezia perderà : il fatto d’essere unica nel suo genere . Il mondo si riempirà di Venezie, ossia di Supervenezie in cui si sovrapporranno e allacceranno reticoli molteplici a diverse altezze: canali navigabili, vie e canali per veicoli a cuscino d’aria, strade ferrate sotterranee o subacquee e sopraelevate, piste per biciclette, corsie per cavalli e cammelli, giardini pensili e ponti levatoi per pedoni, teleferiche . Naturalmente la circolazione verticale avrà altrettanta estensione e varietà mediante ascensori, elicotteri, gru , scale da pompieri montate su taxi o su natanti di varia specie.

E’ in questo quadro che va visto il futuro di Venezia. Considerarla nel suo fascino storico-artistico è cogliere solo un aspetto, illustre ma limitato. La forza con cui Venezia agisce sulla immaginazione è quella d’un archetipo vivente che si affaccia sull’utopia.

VENEZIA — E’ sbarcato da ieri a Venezia il terzo Salone nautico, ma sulla nautica in laguna la rotta è ancora tutta da tracciare. E’ quanto è emerso ieri nel corso della « gelida » inaugurazione del Salone, fatta inspiegabilmente all’aperto nonostante il maltempo, che ha visto scontrarsi il presidente della Regione Giancarlo Galan da una parte e il sindaco Paolo Costa dall’altra. Galan ha attaccato la proposta di Costa di spostare l’arrivo delle navi fuori dal bacino. « Ma come — ha tuonato — si organizzano crociere nel Mediterraneo, toccando porti come Atene, Istanbul e Corfù e noi le facciamo arrivare al Cavallino? » . Ma è sulla nautica da diporto, ancora trascurata in laguna, che Galan insiste: « La nautica italiana ha delle grandi potenzialità, ma mancano le infrastrutture. Ho proposto qualche settimana fa di realizzare una darsena in Arsenale e, apriti cielo! Non l’avessi mai fatto. Invece la proposta sarebbe proprio nell’ambito di una perfetta concezione della civiltà del mare » .

Altro botta e risposta, poi, sull’isoletta dell’ex Idroscalo, vicino alle Vignole, dove Galan preme perché sia fatta una struttura per la nautica. Costa ha replicato di essersi già rivolto « tre volte al Demanio militare, senza avere risposta » . Troppo poco, secondo il governatore.

Ma l’inclinazione di Galan verso le infrastrutture nautiche ha portato al Salone anche la protesta degli ambientalisti di Caorle, che hanno improvvisato un volantinaggio contro il Palalvo, il piano della Regione per Caorle e le lagune del Veneto orientale. Secondo il Comitato di difesa del Territorio di Caorle, con il Palavo ci sarà una « proliferazione indiscriminata di porti e porticcioli, creando oltre 3.000 posti barca, cui si assoceranno speculazioni edilizie e turistiche » . Dopo il taglio del nastro di rito, le autorità ( in testa il presidente di Consormare Giancarlo Zacchello, presidente « congelato » dell’autorità portuale e il viceministro alle Infrastrutture Mario Tassone) hanno rapidamente visitato il Salone, che in questa terza edizione registra 363 espositori e 155 imbarcazioni ormeggiate in acqua e che ieri ha visto sfilare 2.000 visitatori. Yacht e barche a vela da centinaia di migliaia di euro sono gli oggetti del desiderio in mostra nella darsena davanti al Terminal Passeggeri. Un’altra voce critica nei confronti del Salone si leva dal Quartiere 1 che accusa gli organizzatori di non aver prestato attenzione al « gravissimo stato di decomposizione degli istituti scolastici che alla nautica fanno riferimento » .

Non poteva poi, mancare la cantieristica veneziana che al Salone è presente con il prototipo del « bateon » , presentato in anteprima. L’imbarcazione, realizzata da Gianfranco Vianello « Crea » e dal Consorzio per la cantieristica minore, era stata richiesta nei mesi scorsi dal Comune che vorrebbe sperimentare un nuovo sistema di trasporto merci per contrastare il moto ondoso.

VENEZIA. Niente muraglie fisse per difendere le barene dietro al canale dei Petroli. La commissione di Salvaguardia ha dato il via libera agli interventi di riqualificazione ambientale e di protezione dei «bassifondi adiacenti il canale San Leonardo-Marghera». Con una serie di prescrizioni che modificano la proposta originaria avanzata dal Magistrato alle Acque-Consorzio Venezia Nuova. In accordo con la Soprintendenza, la Salvaguardia ha prescritto che si dìa il via al consolidamento delle sponde con sistemi strutturali composti da materassi e burghe. Lo scopo è insomma quello di recuperare, per quanto possibile, la struttura originaria delle barene compromesse dall’anomalìa dello scavo. Il canale dei Petroli, scavato nel 1969, è da sempre ritenuto il principale responsabile della trasformazione della laguna in braccio di mare e dell’aumento delle acque medio alte. La marea infatti entra molto velocemente in laguna con quelle profondità e dunque la quantità di acqua è maggiore. Da sempre tra le proposte degli ambientalisti - fatte proprie qualche anno fa dal ministero per l’Ambiente e dal Comune - c’è quella di rialzare i fondali alle bocche e di proteggere le barene, a rischio scomparsa per il fenomeno di erosione causato dalle correnti e dal moto ondoso. Il progetto approvato nei giorni scorsi fa parte di un più ampio piano di difesa delle barene. «Gli interventi», si legge nella relazione finale della commissione, «dovranno essere attuati in modo da consentire la circolazione delle acque». «Anche le onde provocate dalle grandi navi», conclude il verbale di autorizzazione, «dovranno essere trasformate da elementi di aggressione in elementi di vivificazione delle aree lagunari retrostanti».

Un’inversione di rotta, dunque, rispetto all’ipotesi originaria. Particolare cautela dovrà essere applicata nei lavori delle Casse di colmata A e B. La parte riguardante le due parti di laguna interrate è stata stralciata, e dovrà essere ripresentata con la Verifica di Incidenza ambientale. Con particolare attenzione per l’ambiente di grande valore naturalistico della Colmata B. Indicazioni precise vengono date anche per la riduzione delle profondità del canale dei Petroli («massimo 12-13 metri»). Mentre i lavori per il Mose sono fermi, in attesa della sentenza del Tar (prevista per il 6 maggio), è stato approvato il nuovo progetto per la sistemazione del canale dei Petroli. (a.v.)

Afferma Maria Giovanna Piva, presidente del Magistrato alle acque: «Una cosa è certa, l’Ufficio di piano dovrà verificare l’attuazione del piano generale degli interventi e valutare le necessità finanziarie». Così l’Ufficio di piano non serve a niente. «Soldi buttati», si direbbe a Venezia.

Il piano generale degli interventi attiene esclusivamente alle opere per la salvaguardia di Venezia di competenza dello Stato, in concessione unitaria al Consorzio Venezia Nuova. Ma, come è noto, la visione della laguna deve essere «sistemica». Così si è stabilito nel corso di un trentennio di dibattiti e di studio. La Regione, ad esempio, ha le competenze in materia di disinquinamento; il Comune di Venezia ha le competenze inerenti la rivitalizzazione socio-economica della città.

La visione «sistemica» è il frutto dell’interagire organico di tutte le iniziative e le opere di salvaguardia. La natura non sta a valutare le competenze istituzionali. Per fare un esempio, da sempre si è sostenuto (Consiglio comunale di Venezia, Consiglio superiore dei lavori pubblici) che le opere alle bocche di porto, il Mose, erano realizzabili a condizione che lo stadio di disinquinamento della laguna fosse a un punto avanzato di realizzazione. Questo è un esempio di visione sistemica del problema.

Per questo, un Ufficio di piano che si dedicasse esclusivamente «a verificare l’attuazione» delle opere di competenza dello Stato, a cosa servirebbe? All’opposto, l’Ufficio di piano, coordinando le proposte progettuali del Consorzio Venezia Nuova, della Regione e del Comune, verificandone la logica sistemica, dovrebbe realizzare il nuovo piano generale degli interventi. Questa era la motivazione di fondo per la quale era stata richiesta la costituzione di un Ufficio di piano.

Un’ulteriore osservazione. Le pubbliche istituzioni, da sempre, non possiedono le competenze tecniche e scientifiche per «verificare» l’effetto delle proposte avanzate dal Consorzio Venezia Nuova, dalla Regione e dallo stesso Comune. Questo dell’assenza di competenze scientifiche «libere», al servizio dello Stato, è un problema generalmente presente in tutta Italia. In Italia, purtroppo, non esistono autorità scientifiche, pubbliche o private, indipendenti; la loro funzione viene ad essere supplita, in modo limitato, dal ministero dell’Ambiente e dalle Agenzie di protezione ambientale. Ma, come si è visto nel caso di Scansano Jonico, non è sufficiente.

Non pretendo che in Italia operi una struttura come l’Epa, l’agenzia federale per l’ambiente statunitense, ma insomma un po’ di supporto scientifico indipendente non guasterebbe. Il Magistrato alle acque di Venezia non è considerato, da nessuno, un’autorità indipendente, né tantomeno, da qualche anno, è in possesso delle competenze scientifiche necessarie a tranquillizzare l’opinione pubblica sulla bontà delle opere proposte dal Consorzio Venezia Nuova per la salvaguardia della città.

L’Ufficio di piano, nelle intenzioni di chi qualche anno fa lo aveva proposto, a partire da Massimo Cacciari, doveva costituire, «in nuce», il primo nucleo di un’Autorità indipendente, in grado di costituire un’Agenzia «terza» che supportasse le pubbliche istituzioni, che ereditasse, ad esempio, il Servizio informativo sul sistema lagunare, oggi gestito dal Consorzio Venezia Nuova.

La destinazione delle risorse finanziarie, di cui parla Maria Giovanna Piva, la loro scansione temporale, è solo la conseguenza di scelte politiche e progettuali fatte a monte. Ancora una volta, le richieste «storiche» avanzate dal Comune di Venezia, ma anche dalle persone di buon senso, sono state disattese. I criteri di scelta dei componenti dell’Ufficio di piano sono, anche questi, una conseguenza della funzione che gli si è voluto attribuire.

Poiché pensavo che l’Ufficio di piano fosse un’entità autonoma, al servizio delle pubbliche amministrazioni, ho chiesto, attraverso una interrogazione al ministro Lunardi, una cosa ovvia: che i partecipanti fossero realmente indipendenti e che cioè non avessero mai lavorato per coloro che avanzano progetti per la salvaguardia di Venezia. In altri Paesi occidentali la cosa non verrebbe minimamente presa in considerazione. Ma, ora ho capito, l’Ufficio di piano servirà ad altro.

Non so chi vincerà, tra Bush e Kerry, la grande sfida per la presidenza degli Stati Uniti d’America. Quello che è certo è che l’Agenzia federale per l’ambiente continuerà a operare in piena autonomia. Qualche volta penso che sarebbe bello vivere negli Stati Uniti d’America.

Michele Vianello parlamentare dell’Ulivo

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l’Ufficio di piano e i suoi componenti

1) Del sistema dei terminal e della nuova organizzazione dei trasporti imperniata su di essi non si parla da dieci anni, ma da oltre trenta, con il consenso di tutti (l’assessore all’urbanistica De Michelis lo propose nel 1969, e il Piano comprensoriale che lo riprese e completò nel 1980, per ricordare due date più rilevanti. 2) Tra enti pubblici impegnati in un progetto rilevante (questo si, “strategico”), basta scambiarsi lettere? Per adoperare un termine alla moda, altri dovrebbero essere gli strumenti della “governance istituzionale”, e altri erano quelli delle dimenticate “conferenze di amministrazione” degli albori della Prima repubblica (e dell’Italietta giolittiana). In calce, schema del sistema dei terminal.Grandi progetti, sublagunari, people mover e treni sotto la Giudecca. Grandi strategie e comitati di sindaci per affrontare le emergenze del traffico. Tutto bene. Se non fosse che per essere credibili, i ripetuti annunci dovrebbero essere accompagnati da un’accorta gestione del quotidiano. E’ un vizio diffuso della politica quello di annunciare le grandi cose e di trascurare quelle piccole, che invece potrebbero migliorare (subito) buona parte dei problemi. Vale per le acque alte, dove si rincorre la grande diga trascurando soluzioni più semplici e meno costose. Vale anche per il traffico e per i trasporti in laguna.

Un esempio? Da almeno dieci anni si parla dei progetti di nuovi terminal. Punti di arrivo per turisti e automobilisti di terraferma diretti a Venezia. I nuovi parcheggi (Tessera, Fusina, San Giuliano) dovevano essere pronti per il Giubileo del Duemila, ma di essi ancora non v’è traccia. All’inizio del 2001, da poco insediato ai vertici dell’Actv, il presidente dell’azienda di trasporto Valter Vanni annunciava: «Noi siamo pronti a mettere in servizio vaporetti e motonavi sulle nuove linee, ma ci devono scavare il canale. Ho scritto al Comune e al Magistrato alle Acque, non ho avuto risposte». Oggi, tre anni dopo, le risposte ancora non arrivano. La lettera del presidente è ferma su qualche scrivania. Per ragioni poco comprensibili al cittadino qualunque, un progetto di buon senso, senza impatti ambientali, resta fermo.

Per collegare più rapidamente i due punti strategici di Fusina e Tessera con la città storica non occorre attendere futuristiche metropolitane subacquee, peraltro a oggi prive di finanziamenti e di piani economici credibili. Basta una motonave, o un vaporetto veloce di nuova generazione. Così si potrà arrivare dall’aeroporto a Venezia in venti minuti, circa un terzo di quello che occorre per andare in auto da Fiumicino a Roma. Perché non si fa? «Perché nessuno scava i canali», accusa Vanni. Per il Magistrato alle Acque «non sono la priorità» e non c’è il posto dove mettere i fanghi. Il Comune pensa alla sublagunare e non intende mettersi contro i motoscafisti, che fra Tessera e San Marco svolgono la gran parte del loro lavoro. Dunque il terminal non parte, bloccato da ricorsi e controricorsi tra Comune e Save. Ma non parte neanche la motonave, perché non si scavano i due metri di fondale.

A Fusina va ancora peggio. Lì la darsena c’era già, di proprietà del campeggio Fusina srl. In pochi mesi un’amministrazione efficiente avrebbe potuto realizzare un terminal dignitoso, modificando il progetto originario dell’architetto Cecchetto vincitore del concorso internazionale. Ma ci si è inoltrati in contenziosi giuridici, e qualche settimana fa il Tar ha dato ragione ai proprietari del terreno, bloccando il progetto che già era stato bocciato dalla commissione di Salvaguardia. Eppure il nuovo terminal di Fusina, secondo l’assessore Roberto D’Agostino, potrebbe assorbire «fino all’80 per cento del traffico diretto al Tronchetto, che in quel modo potrebbe essere destinato alle merci e ai parcheggi dei veneziani».

Da una buona amministrazione i cittadini si attendono, il buongoverno quotidiano. Non è possibile che per rispondere a una richiesta di una sua azienda, il Comune ci impieghi tre anni.

Già prima di Sir Buchanan Le Corbusier aveva riconosciuto la modernità di Venezia nella separazione del traffico pedonale da quello motorizzato. L’analisi di Buchanan è tuttavia più completa e accurata.

Un veneziano, esaminando la mappa qui riportata, può rilevare comunque che trascura alcuni elementi: in particolare, i traghetti acquei, indispensabili per i maggiori percorsi pedonali (quale quello, importantissimo, San Marco-Piazzale Roma attraverso il traghetto di San Tomà) e quindi alcuni rilevanti nodi (quale quello dei Frari). Ciò conduce Buchanan a ritenere che il fatto che ci siano “solo tre ponti sul Canal Grande” costituisca “un inconveniente considerevole per i movimenti pedonali”. In realtà con il sistema dei traghetti acquei tre ponti sono del tutto sufficienti, e solo un provinciale desiderio di stupida pubblicità ha spinto qualche amministratore pubblico a promuovere la costruzione di un quarto ponte, naturalmente “griffato” (Calatrava), assolutamente inutile.

Un passo avanti interessante sarebbe invece quello di collegare la lettura del traffico, e quindi dei percorsi pedonali, alla lettura degli spazi pubblici (si veda il sito dei miei amici Lennard, International Making Cities Livable Conferences). Magari se ne occuperà il mio amico Joel H. Crawford, e ne darà conto nel suo bellissimo sito: http://www.carefree.com.

Venezia

412. Può sembrare che ci si prenda qualche libertà di troppo, rispetto al titolo di questo capitolo [Chapter IV: Some Lessons from Current Practice – ndr], includendo Venezia come esempio di pratica corrente. Ma è una città che funziona, e una delle poche al mondo che, nonostante ciò, riesce a farlo senza i veicoli a motore. Così, si è deciso di prenderla in esame, per vedere quali lezioni ci può insegnare.

413. Venezia è una città di circa 140.000 persone su un gruppo di isole nella Laguna di Venezia. È collegata da un percorso rialzato, che comprende sia la strada che la ferrovia, alla terraferma di Mestre, con un’area industrializzata di notevoli dimensioni in cui molti residenti di Venezia trovano impiego. Così, non è del tutto corretto dire che Venezia è una comunità autosufficiente che non dipende dal traffico motorizzato. Le merci, i visitatori, i pendolari, entrano ed escono dalla città attraverso la strada e la ferrovia. Allo stesso tempo, strada e ferrovia sono strettamente limitate entro terminali sulla frangia nord-occidentale dell’isola, e tutto il sistema di distribuzione da e per questi terminali, e tutta la vita attiva della città (più grande di Huddersfield, e con uno dei più grandi sistemi commerciali turistici del mondo), si sviluppa senza veicoli motorizzati su ruote. Non è, ovviamente, fatto del tutto senza veicoli a motore, dato che una grande quantità degli spostamenti di merci e persone è gestita da imbarcazioni a motore sui canali.

414. Venezia dimostra, nei fatti, di essere un esempio estremamente interessante di network and environmental area system, reso chiaro in maniera cristallina dal fatto che il sistema distributivo consiste di canali anziché di strade. Il distributore primario è il Canal Grande – un’arteria principale, lunga tre chilometri e con una larghezza variabile da 35 a 40 metri. La scarsa profondità dell’acqua e il ristretto margine di altezza offerto dai ponti pongono un limite al tipo di veicoli, e le velocità sono ufficialmente contenute a dieci chilometri l’ora. Sul Canal Grande operano i servizi urbani di trasporto passeggeri. L’ampia larghezza e il basso volume e velocità di traffico rendono possibile mescolare le funzioni, e così questo distributore è utilizzato sia per il movimento che per l’accesso diretto ad alcuni edifici. Il Canal Grande dà accesso ad altri 45 chilometri di vie d’acqua, che possono essere descritte come district distributors (utilizzabili dai veicoli del trasporto passeggeri pubblico urbano) che dividono la città in 14 zone, e a una rete più ramificata di stretti local distributors.

415. Dunque c’è una chiaro sistema gerarchico di distributori per il traffico veicolare. In più c’è un altro sistema, interamente separato, estremamente complesso, e continuativamente collegato, di percorsi e vicoli pedonali, con una lunghezza totale di circa 140 chilometri. I percorsi sono punteggiati a intervalli da piazze, attorno alle quali si raggruppa ciascuna sezione della città. Le piazza sono, ancora, i luoghi principali di incontro pubblico, attività, scambi e commerci. Lungo questa rete di percorsi si crea uno splendido ambiente urbano pedonale. La continuità della rete è realizzata, naturalmente, solo attraverso un immenso numero di “sovrappassi pedonali”, o per dirla semplicemente di ponti sui canali. Ci sono, comunque, solo tre ponti sul Canal Grande, e questo costituisce un inconveniente considerevole per i movimenti pedonali. Nonostante i canali siano notevolmente penetranti fra i fitti gruppi di edifici, consentendo alle merci di essere trasportate molto vicino alla destinazione, c’è anche un uso considerevole dei percorsi a piedi nelle consegne, a mano e con uso di carrelli.

416. Il sistema di comunicazioni a Venezia offre una sicurezza quasi completa per i pedoni. Non c’è particolare disturbo da rumore, ma i fumi di scarico dai motori delle imbarcazioni possono essere sgradevoli. Non c’è intrusione visiva dei veicoli nell’ambiente pedonale, e anche lungo i distributori stessi le imbarcazioni, al contrario dei veicoli su ruote, migliorano anziché peggiorare la vista. Per quanto riguarda l’accessibilità, la maggior parte delle piazze (o centri di commercio) sono servite dai percorsi dei trasporti pubblici a distanze comparabili a quelle pianificate in questo paese, ma per la maggior parte delle persone la distanza da percorrere a piedi da casa al percorso del servizio pubblico è maggiore di quella che sarebbe accettata in un sistema tradizionale servito da veicoli su ruote. Ci devono essere anche considerevoli difficoltà nel servire edifici in costruzione, traslochi, funerali, spegnimento di incendi, rimozione rifiuti e consegna della posta. Nondimeno, la città indubbiamente funziona, e ragionevolmente bene se è per questo, senza lo stress e tensioni indotti dai veicoli a motore operanti sulle strade tradizionali. Ma l’immagine che abbiamo tratteggiato è indubbiamente influenzata anche dal fatto che la proprietà privata di imbarcazioni è scarsa: situazioni dove ogni famiglia facesse uso quotidiano di un veicolo a propulsione meccanica, anche se fosse una barca, sarebbero ovviamente meno desiderabili.

417. La lezione più importante di Venezia non è che una grande città possa fare a meno di veicoli su ruote a motore – non vogliamo certo proporre la trasformazione di tutte le strade in canali – ma che è possibile sviluppare un sistema interdipendente di percorsi veicolari e pedonali, con completa separazione fisica tra i due – così completa che non sembrano neppure appartenere allo stesso ordine – e che la cosa funziona.

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-Ti è mai accaduto di vedere una città che assomigli a questa? - chiedeva Kublai a Marco Polo sporgendo la mano inanellata fuori dal baldacchino di seta del bucintoro imperiale, a indicare i ponti che s'incurvano sui canali, i palazzi principeschi le cui soglie di marmo s'immergono nell'acqua, l'andirivieni di battell leggeri che volteggiano a zigzag spinti da lunghi remi, le chiatte che scaricano ceste di ortaggi sulle piazze, dei mercati, i balconi, le altane, le cupole, i campanili, i giardini delle isole che verdeggiano nel grigio della laguna.

L'imperatore, accompagnato dal suo dignitario forestiero, visitava Quinsai, antica capitale di spodestate dinastie, ultima perla incastonata nella corona de Gran Kan.

- No, sire, - rispose Marco, - mai avrei immaginato che potesse esistere una città simile a questa. L'imperatore cercò di scrutarlo negli occhi. Lo straniero abbassò lo sguardo. Kublai restò silenzioso per tutto il giorno.

Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze delle su, ambascerie. D'abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi d'accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell'Augusto Sonno. Ma stavolta,

Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchez­za. - Dimmi ancora un'altra città, - insisteva.

- ... Di là l'uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante... - riprendeva a dire Marco, e a enu­merare nomi e costumi e commerci d'un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d'arrendersi. Era l'alba quando disse: -Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco. - Ne resta una di cui non parli mai.

Marco Polo chinò il capo. - Venezia, - disse il Kan.

Marco sorrise. - E di che altro credevi che ti par­lassi?

L'imperatore non batté ciglio. - Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome.

E Polo: - Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.

- Quando ti chiedo d'altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia. - Per distinguere le qualità delle altre, devo parti­re da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia.

- Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così co­m'è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ri­cordi di lei.

L'acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell'antica reggia dei Sung si frantumava in ri­verberi scintillanti come foglie che galleggiano.

- Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, - disse Polo. - Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d'altre città, l'ho già perduta a poco a poco.

Il primo. Il Canale dei petroli (la grande autostrada acquea che conduce dalla Bocca di Malamocco al punto d’attracco delle petroliere, tra Porto Marghera e Fusina) è una delle cause principali dell’acqua alta, per la sua immane profondità e per la conseguente quantità di acqua che immette in Laguna. Anche per questo la legge stabilisce, dal 1973, che il traffico petrolifero deve essere allontanato dalla Laguna

Il secondo. Arginare il Canale dei petroli significa (come Silvio Testa non manca di annotare) dividere in due il bacino lagunare. Questo è un evento che le forze politiche locali - prima della New Wave personificata da Berlusconi, Lunardi e… Paolo Costa - hanno tenacemente scongiurato ogni volta che è stato proposto, e che è tassativamente escluso da tutti i documenti ufficiali espressi dalle istituzioni locali.

Oggi, arginano il canale e spezzano in due la Laguna, ma imbellettano gli argini. Ricordate Berlusconi, a Genova, alla vigilia del G8? La logica è la stessa: piantiamo fiorellini.

Pietà per la Laguna di Venezia, verrebbe voglia di gridare, se un Dio ascoltasse!

Il Canale dei Petroli è l'imputato numero uno del dissesto della laguna centrale, e fin dal 1992 il Piano generale degli interventi prevede un intervento di "arginatura" per mitigarne gli effetti con una sorta di cordonata di barene che da Fusina arrivino fino a Porto San Leonardo. Una diga "paranaturale", insomma, che intercetti le correnti trasversali che, dipartendosi e irradiandosi dal Canale Malamocco - Marghera, hanno fatto del cuore della laguna una tabula rasa senza più barene, velme, canali e ghebbi.Si tratta di un biliardo di fango, che perde ogni anno centinaia di migliaia di metri cubi di sedimenti i quali, messi in sospensione dalle correnti, dal traffico acqueo, dai caparozzolanti abusivi, e "aspirati" dal Canale dei Petroli, o finiscono in mare con la marea o, mescolandosi coi pessimi sedimenti dello stesso Canale, messi in sospensione dal passaggio delle navi, vi si depositano sui bordi.

«Ormai siamo di fronte a una situazione di non ritorno, la profondità che ai primi del '900 era di 50 centimetri è ormai arrivata a 2 metri, e non ci sono più le condizioni per riportare quell'area ai suoi antichi dinamismi», spiega Piero Nascimbeni del servizio di Ingegneria del Consorzio Venezia Nuova, che sta seguendo gli aspetti ambientali dei progetti di recupero morfologico della laguna e che ha ultimato la progettazione del primo stralcio sperimentale di difese che, per la lunghezza di oltre un chilometro, verranno realizzate all'altezza di Fusina e della cassa di colmata A.

Il progetto definitivo è in questo momento in Commissione di Salvaguardia, ed è stato nei giorni scorsi al centro di un incontro tra i tecnici del Consorzio e quelli del Comune, guidati dal biologo Lorenzo Bonometto, che ha avanzato delle proposte integrative «sulle quali c'è pienissimo accordo», come conferma Nascimbeni quasi a sottolineare, come sostiene anche l'assessore alla Legge speciale del Comune, Giampaolo Sprocati, che se la discussione tra Consorzio e Comune sulle 11 condizioni attorno al progetto del Mose è partita da punti di vista diversi e magari lontani, resta comunque una volontà di dialogare e di confrontarsi.

Il progetto prevede che l'area all'interno della quale verrà creata la nuova barena sia circondata da più strati, a gradonate, di "burghe" con diversi gradi di resistenza al moto ondoso e agli agenti atmosferici. «Li definirei - spiega sempre Nascimbeni - come dei salsicciotti con diversi tempi di degradabilità, destinati a durare fino al consolidamento della barena e poi a sparire». Reti riempite di materiali solidi, come pietrame, sul versante più sollecitato dal traffico del Canale, oppure di concrezioni di conchiglie e sabbia, oppure di limi, verso i bassi fondali e le zone più protette.

All'interno verrà creata la barena, fino all'altezza "classica" di 30 centimetri sul medio mare, con andamenti sinuosi e "voltateste" che accentuino i movimenti di corrente e sfruttino l'energia stessa della onde per aumentare i processi di vivificazione. Al riguardo, Bonometto ha proposto che la nuova barena non nasca immediatamente a contatto con le "burghe", ma che ne sia separata da una sorta di canaletta di acque protette, come dei "chiari" che aiutino la vivificazione sfruttando l'energia delle onde smorzata e condotta all'interno da "inviti", piccole aperture programmate. Bonometto ha suggerito di sperimentare analoghi processi di vivificazione anche sull'altro lato, fronte Cassa di Colmata.

Se l'esperimento di nuova barena funzionerà, la cordonata verrà estesa fino a San Leonardo. Tra gli effetti attesi, anche l'arretramento dello spartiacque verso le casse di colmata, col miglioramento del ricambio al Tronchetto e alla Giudecca.

Silvio Testa

Venezia perde in altimetria mediamente 1,2 - 1,3 mm/anno. Non è dunque l’abbassamento del suolo la causa prima dell’inasprirsi del fenomeno delle alte maree. Dal 1970, inoltre, il livello del mare Adriatico e del Mediterraneo è stabile (come attesta l’Ufficio maree del Comune di Venezia). E dunque neppure l’eustatismo, cioè l’aumento del livelli marini, è responsabile del recente incremento delle acque alte.

I MOTIVI DELL’AUMENTO DELLA FREQUENZA DELLE ACQUE ALTESquilibrio geo-idrodinamico

Il motivo principale è invece da ricercarsi nel grave squilibrio geo-idrodinamico della Laguna determinatosi negli ultimi due secoli a causa di interventi antropici. Ai primi dell’Ottocento la profondità delle tre bocche di porto si attestava tra i -3,5 e i -4,5 m. La costruzione dei moli foranei, cioè delle grandi dighe che dai lidi si protendono in mare, aumentò la profondità delle bocche di porto, necessarie alla navigazione e di conseguenza l’officiosità (cioè lo scambio mare/Laguna). Alla fine dell’Ottocento la profondità raggiungeva i -7 m al Lido e i -10 m a Malamocco. Nel secolo scorso l’industria portuale in rapida ascesa e l’espansione delle attività industriali necessitavano di fondali ancora più profondi; Si diede avvio dunque a campagne di scavo che portarono la bocca di Malamocco a -14,5 m e si tracciarono i canali Vittorio Emanuele (-10 m) e Malamocco-Marghera o dei petroli (- 14,5 m) che attraversano la Laguna come una profonda ferita. La gran massa d’acqua che entra ora in Laguna da questi varchi così profondi, com’era prevedibile, ha innescato fenomeni di auto-erosione: nel 1997 la bocca di Malamocco si era portata a -17 m. Sempre a Malamocco, dentro la bocca, si trova ora il punto più profondo dell’Adriatico, -57m!

E’ intuitivamente evidente la qualità del dissesto da questa gran massa d’acqua che entra in un bacino ristretto. La maggiore ufficiosità delle bocche (cioè l’aumentato scambio mare/Laguna) è anche in gran parte responsabile dell’incremento delle acque alte. Semplificando al massimo i risultati degli studi di Pirazzoli (CNR Francia) e di D’Alpaos (ordinario di idraulica all’Università di Padova) si può dire che prima della costruzione delle dighe foranee l’onda di marea proveniente dal mare subiva un’attenuazione della sua ampiezza nel superare le bocche di porto, poco profonde, ora invece, non trovando ostacoli ma anzi fondali profondi, penetra più facilmente in Laguna. Secondo Pirazzoli le maggiori crescite dei picchi di marea si verificarono negli anni ’30, ’50 e ’60 del secolo scorso, quando si scavarono maggiormente le bocche di porto, mentre un’attenuazione del fenomeno delle alte maree si ebbe durante i due periodi bellici, epoca di sospensione degli scavi e di conseguente parziale insabbiamento dei canali.

Erosione della Laguna

L’eccessiva profondità dei varchi portuali e la conseguente aumentata idrodinamica sono anche responsabili dell’impoverimento morfologico della Laguna: un tempo i fondali erano vari e articolati, innervati da canali più o meno profondi, da specchi d’acqua (o ‘chiari’), modulati da dossi, velme etc. Con l’aumento della portata delle bocche la gran massa d’acqua che entra ed esce dalla Laguna non trova più ostacoli e trascorre con gran forza e rapidità. Per risalire ed espandersi o per defluire non necessita più di inalvearsi nei piccoli canali ma trascorre liberamente per i fondali (si espande cioè per ‘laminazione’), erodendo e livellando le emergenze e trascinando limi erosi a riempire i canalicoli e i ghebbi. La Laguna sta diventando così un vero braccio di mare, una baia marina, dai fondali profondi, piatti e non articolati.

Da tutti ciò si evince come un’opera d'ingegneria come il Mo.S.E. mirante ad attenuare gli effetti dello squilibrio ma non a rimuoverne le cause non solo non è in grado di risolvere i problemi della Laguna ma anzi ne aggrava il dissesto.

E’ infatti fuori di discussione e universalmente accettato (ora, dopo anni di battaglia, anche dalla stesso Consorzio Venezia Nuova) che il sollevamento dei fondali delle bocche di porto ridurrebbe drasticamente i picchi di marea. Tuttavia per impostare la piattaforma ove incernierare il Mo.S.E. si dovrebbero scavare le bocche di porto a una profondità ancor maggiore di quella attuale!

Interramenti antropici

Durante il secolo passato si è piegata la Laguna sfruttandola come un bene inesauribile, una bene a cui attingere senza preoccupazioni per il domani, e senza quella prudenza e rispetto che avevano caratterizzato l’azione degli antichi.

Non solo si sono alterati i tre collegamenti mare/Laguna (cioè le tre bocche di porto) dai quali dipende l’idrodinamica della Laguna ma sono state anche interrate grandi superfici lagunari per realizzare aree industriali, insediamenti urbani o agricoli e sacche di discarica. Alcuni privati inoltre hanno chiuso, con alte muraglie di cemento, valli da pesca di proprietà dello Stato. In totale sono state sottratte all’espansione della marea 15.500 ettari di Laguna (di cui 8.500 ettari arginati come valli da pesca) Le leggi speciali prevedono, al fine di ridurre la acque alte, di riaprire alla marea sia le valli da pesca sia le cosiddette ‘casse di colmata’ cioè quelle aree lagunari già bonificate ma mai utilizzate dall’industria.

Mancato apporto dei fiumi

E’ noto a tutti che la Laguna si è formata grazie all’azione di due forze contrastanti: quella dei fiumi, che apportano sedimenti, e quella del mare, che invece modella ed erode. Nei secoli passati la Repubblica ha dovuto contrastare ed imbrigliare la forza prevaricante dei fiumi che tendeva a colmare la Laguna e a ridurla in bassure paludose. Sin dal secolo XIV si avviò un grande progetto di deviazione e di espulsione dal bacino centrale della Laguna dei principali fiumi ivi sfocianti, cancellando definitivamente lo spettro dell’interramento. Oggi dobbiamo fronteggiare il pericolo opposto: a seguito delle modificazioni intervenute alle bocche di porto, e dunque dell’aumentato scambio mare/Laguna, la Laguna rischia di venire inghiottita dal mare.

L’espulsione dei fiumi dalla Laguna è una concausa dell’erosione: le barene ad esempio, non più ricaricate e ‘nutrite’ dai sedimenti fluviali rischiano la sparizione. Ciò è più evidente in Laguna sud, dove i processi erosivi sono più rilevanti per la presenza di profondi canali industriali. Com’è noto le barene sono dei veri e propri volani idraulici, delle formazioni morfologiche capaci cioè di smorzare l’altezza e la forza dell’onda di marea entrante.

La comunità scientifica propone perciò di reintrodurre in modo controllato e reversibile una parte delle piene del Brenta nel bacino lagunare: in un ambiente ormai totalmente dominato dal mare la reimmissione di sedimenti fluviali, assieme alla riduzione della profondità dei fondali portuali, potrebbe arrestare il degrado e ridare alla Laguna una speranza di futuro.

Per saperne di più:

-Andrea Zanzotto, L’idea di Laguna, «Italia nostra. Bollettino» 376 (luglio/agosto 2001), p.4-5

-Lidia Fersuoch, La salvezza di Venezia e della sua laguna. Recupero ambientale e morfologico o artificializzazione tecnicistica?, «Italia nostra. Bollettino» 343 (novembre 1997), p. 14-16

-Stefano Boato, Venezia: la rottura degli equilibri, «Verde Ambiente» 5 (2002), p. 54-64.

-Paolo Antonio Pirazzoli, Il livello marino nel mondo e a Venezia: variazioni recenti e prevedibili nel prossimo secolo e contromisure possibili in Laguna, «Mose: no. Riequilibrio, risanamento, riduzione delle maree: sì» Convegno sulla salvaguardia fisica ed ambientale di Venezia e della Laguna (16 febbraio 2001).

-Luigi D’Alpaos, Alcune riflessioni sulla necessità di una reintroduzione di sedimenti all’interno della laguna di Venezia¸ «Mose: no. Riequilibrio, risanamento, riduzione delle maree: sì» Convegno sulla salvaguardia fisica ed ambientale di Venezia e della Laguna (16 febbraio 2001).

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vedi anche:

Italia Nostra VE: Perché no

Italia Nostra VE: le alternative

Una sintetica illustrazione del Sistema MoSE

Dialogo tra E. Salzano e Piero Bevilacqua

La VIA sul MoSE, le conclusioni della Commissione

La VIA sul MoSE, il decreto del Ministero dell’ambiente

La VIA sul MoSE, articolo di E. Salzano

Coalizione allargata, già al primo turno. Una «Conventione programmatica» da tenersi entro ottobre, aperta alle forze sociali ed economiche. E le primarie, per scegliere candidature basate sulla «condivisione del programma». Ecco il decalogo dei Ds, in vista della prima riunione plenaria della coalizione prevista per martedì. Si cerca il candidato sindaco del centrosinistra, ma prima ancora l’alleanza sul programma. Dopo una lunghissima riunione della Direzione provinciale, i Ds hanno dato all’unanimità mandato alla segretaria provinciale Delia Murer di rappresentare la posizione del partito. «La grande novità», attacca la Murer, «è che abbiamo deciso che la priorità sarà l’accordo programmatico, da costruire non soltanto tra le forze politiche, ma con una grande convenzione della città, del volontariato e delle personalità che si richiamano al centrosinistra». Poi si arriverà alle candidature. «I Ds ritengono di avere personalità all’altezza di ricoprire questo ruolo», continua la Murer, «e nei prossimi giorni gli interessati dovranno farsi avanti, presentando programmi e proposte. Agli alleati noi sottoporremo una rosa di candidature». L’altra sera di nomi non si è parlato. Ma non è un segreto che in assenza di «colpi a sorpresa» i candidati possibili dei Ds - anche se non ancora ufficiali - sono il deputato Michele Vianello, il rettore dell’Iuav Marino Folin, la presidente del Consiglio comunale Mara Rumiz, l’assessore alla Pianificazione strategica Roberto D’Agostino. Anche in casa della Margherita circola qualche nome, come quelli di Alessio Vianello e del commercialista Arcangelo Boldrin. Poi ci sono i nomi che il sindaco uscente Paolo Costa vedrebbe con favore al suo posto. Giorgio Orsoni, avvocato, attuale assessore al Patrimonio, e Giuliano Segre, presidente di Fondazione Venezia, ex consigliere economico di Bettino Craxi e oggi di Giuliano Amato.

Ma il totosindaco resta sullo sfondo. Martedì si parlerà di punti programmatici. Quello più difficile (la chimica) è stato in qualche modo digerito dai Ds. Le posizioni opposte (l’ala che difende il settore, capitanata da Livio Marini e quella contraria alla chimica guidata da Michele Vianello) hanno trovato un compromesso. A Marghera resteranno solo «produzioni pulite», con un periodo per la transizione. C’è unità anche sulla salvaguardia («Ridiscutere il progetto Mose e invitare il centrosinistra nazionale a sciogliere le ambiguità»).

«E poi bisogna rilanciare», avverte la Murer, «il ruolo del Comune su Porto e aeroporto, su sanità e welfare. Ma anche sulla cultura e il turismo: non più solo fruizione ma anche produzione e tutela». Martedì comincia il confronto. E dagli slogan si passerà alle alleanze e ai nomi

C’è l’evento che rilancerà in tutto il mondo del benessere «Shark tale», lo squalo-cartoon che ricoprirà (una volta di più) d’oro Spilberg & Co. C’è il battage che porterà il mome della Biennale e l’immagine di Venezia ai quattro poli, con tornaconti economici e turistici. C’è la grande curiosità di poter assistere gratuitamente a uno spettacolo certamente particolare, vedendosi passare sotto il naso Angelina Jolie e Robert De Niro, che ai personaggi disegnati hanno dato voce. Ma a tutto c’è un limite.

Così il Comune si è impuntato davanti al crescere delle richieste da parte dell’Uip, la casa distributrice del film che cura la serata evento e che dopo Piazza San Marco - subito concessa dal Comune in uso gratuito, quale favore alla Biennale - ha poi chiesto di poter utilizzare anche metà Piazzetta.

«Non se ne parla», risponde il capo di gabinetto del sindaco, Marco Agostini, «bisogna essere chiari, non chiedere un pezzetto alla volta: hanno a disposizione lo spazio dall’Ala Napoleonica fino ai Pili, non un metro di più. Ci hanno chiesto, nei giorni scorsi, anche la possibilità di occupare metà Piazzetta, per sistemare i metal detector. Sia chiaro: non c’è alcun problema di sicurezza pubblica da salvaguardare. Non è un nostro problema che la produzione voglia bloccare cellulari e videocamere temendo copie pirata: abbiamo detto sì alla serata evento in Piazza perché è un’opportunità per la città, ma non correremo dietro ad altre pretese. O così o niente».

Naturalmente, l’anteprima mondiale andrà in onda, anche se al momento non c’è traccia di ordinanza che dica chiaramente a che ora potrà chiudere la Piazza in deroga al regolamento comunale per trasformarsi in Cinema.

Intanto, a discutere, sono i 62 esercenti e commercianti coinvolti, con le loro attività, dalla rivoluzione «Shark tale», che prevede lo sgombero dei plateatici sin dalla serata dell’8 settembre per poter allestire la platea con 4000 posti, mentre palco, mega-schermo, cavi e attrezzature inizieranno ad arrivare già prima.

Per gli indennizzi ci sono tre trattative. La prima, la più ecumenica, è quella intavolata dall’Associazione Piazza San Marco, che a Biennale e Uip hanno chiesto un indennizzo una tantum di 20 mila euro, da devolvere in beneficenza ad un ente veneziano. «Per la prima volta, dopo anni, siamo stati contattati prima di un simile evento, senza che ci precipitasse addosso», spiega il presidente Enrico Gigi Bacci, «e siamo grati al presidente della Biennale Croff per quest’attenzione. D’altra parte, è vero che questo sarà un evento che avrà una copertura mondiale e, pertanto, porterà l’immagine di Venezia nel mondo: che è quello che serve. Ci è sembrato pertanto giusto chiedere un indennizzo per i disagi subiti dalle attività, ma anche dare un segnale chiaro, devolvendo questi soldi ad un ente veneziano: il nostro interesse non è personalistico, ma è rivolto alla città». Biennale e Uip, ancora, non hanno detto né sì, né no.

C’è poi la trattativa diretta di un negozio e un esercizio, rappresentati dall’avvocato D’Elia (che spiega di essere stato contattato anche da 4 ambulanti e dai gondolieri di Bacino Orseolo) che intendono ottenere un indennizzo al centesimo per i danni economici patiti, devolvendolo anch’essi in beneficenza. «Un cartone animato non è un’operazione culturale», taglia corto D’Elia, «è un affare commerciale gigantesco. E’ giusto che paghino il dovuto: anche il Comune avrebbe dovuto pretenderlo». Infine c’è la trattativa diretta - questa sì per un indennizzo puro, variabile tra i 6.500 e i 18 mila euro - tra i Caffè di Piazza e la produzione: gli esercizi dovranno chiudere i plateatici per 48 ore.

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