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Ha già raccolto numerose firme l’appello al Presidente Napolitano - sull’onda della notizia pubblicata dal nostro giornale - perché non sottoscriva il decreto scippa-Arsenale lanciato ieri dal Comitato per la restituzione dell’Arsenale a Venezia. «Apprendiamo indignati dai giornali - si legge nell’appello - del colpo di mano, contenuto nell'emendamento del Ministro Passera, che annulla il passaggio dallo Stato al Comune di Venezia di una grande parte dell'Arsenale Nord (area dei Bacini e delle Tese).Questo emendamento dell'ultima ora, inserito furbescamente per accontentare gli interessi privati delle aziende del Consorzio Venezia Nuova, va contro le prospettive di restituzione dell'Arsenale alla città e quindi al suo legittimo proprietario,: il Comune di Venezia. Ci opponiamo con forza a questo evidente sopruso di chi vuole "allungare le mani sulla città" delegittimando il Comune di Venezia»

Presidente Napolitano, non firmi quel decreto che “scippa” l’Arsenale a Venezia per fare solo gli interessi di un consorzio di imprese private. È un appello che arriva da tutta la città - dopo l’inserimento a sorpresa del codicillo nel decreto sull’agenda digitale e l’innovazione del ministro delle Infrastrutture Corrado Passera che restituisce al Demanio le aree del complesso sui cui il Consorzio Venezia Nuova deve compiere le manutenzioni delle paratoie del Mose - al presidente della Repubblica che sta per licenziare il provvedimento e il primo a sollecitarlo è il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, che con lui si è già messo in contatto. Si annuncia già un Consiglio comunale straordinario proprio all’Arsenale - proposto dal consigliere comunale Beppe Caccia e sostenuto dal sindaco - con la partecipazione degli stessi cittadini. «Il presidente Napolitano è perfettamente informato del contenuto di quel decreto - commenta Orsoni - e io spero ancora in un suo intervento, anche se non è assolutamente mia intenzione “tirarlo per la giacca”. Quel codicillo inserito sul decreto sull’innovazione che ci priverebbe di buona parte dell’Arsenale è una cosa vergognosa, un provvedimento fatto solo per tutelare gli interessi privati del Consorzio Venezia Nuova senza tener conto di quelli della città. Non è assolutamente vero, come sostiene il Magistrato alle Acque - e con cui avevamo già discusso il problema - che il passaggio di proprietà al Comune di questa parte di Arsenale non consenta il mantenimento delle lavorazioni del Mose finanziate dallo Stato. Si tratta, certo, di stipulare un nuovo accordo, ma il fatto stesso che il Consorzio paghi già ora un canone di concessione per proprie lavorazioni è la prova che potrebbero farlo su un’area statale, come su un’area privata. Il fatto che la proprietà dell’Arsenale passi al Comune non cambia nulla e la concessione in atto resta pienamente valida. È solo un pretesto per mantenere l’area nelle condizioni attuali, privandoci della proprietà di quasi tutto l’Arsenale nord e impedendoci anche di recuperarlo, visto che non potremo più contare sui canoni concessori che servirebbero per il suo recupero e impedendo ad Arsenale Venezia spa - la società che dovrebbe occuparsi della gestione del complesso - di fare il proprio piano industriale».

Le conclusioni di Orsoni sono amare: «È molto triste che in questa città ormai gli interessi privati prevalgano su quelli del Comune e della città. Così al Consorzio si concede l’Arsenale e quei fondi per il Mose negati dal Governo, in misura infinitamente inferiore, a noi per la manutenzione della città. All’aeroporto, il piano di sviluppo aeroportuale della Save finisce per “mangiarsi” il terminal acqueo destinato a servire la città. E il Porto non vuole trasferire le grandi navi a Marghera per tutelare gli interessi della Venezia Terminal Passeggeri. Per l’Arsenale, se Napolitano non potrà fermare in decreto, spero che possa farlo il Parlamento, quando il provvedimento arriverà in aula per la conversione in legge».

E a annunciare subito battaglia in Parlamento contro il decreto scippa-Arsenale sono già il deputato veneziano del Pd Andrea Martella e il senatore Paolo Giaretta. «Ci auguriamo - dichiarano - che il Capo dello Stato non firmi il provvedimento. Se invece il decreto dovesse essere convertito in legge presenteremo alla Camera ed al Senato gli emendamenti per l’abrogazione di questa norma. E’ necessario mettere lo stop a questo inaccettabile smacco. Riservare al Consorzio Venezia Nuova il ruolo di padrone pressoché assoluto dell’Arsenale significa bloccare ogni progetto di recupero di questa preziosa area, a beneficio della città. Siamo di fronte ad un potere invasivo che grava su Venezia, qualcosa di insopportabile per una città che cerca, anche attraverso l’Arsenale, nuove strade di sviluppo per l’immediato futuro. E’ chiaro che, se passa questo testo, una fetta enorme delle chance di rilancio di Venezia viene a tramontare definitivamente». Sulla stessa linea anche il Pd veneziano con i segretari provinciale e comunale Michele Mognato e Claudio Borghello che giudicano «scandalosa e inaccettabile la scelta di trattenere in capo allo Stato l’Arsenale di Venezia. Il Governo cambi idea e mantenga gli impegni già presi: chiediamo ai parlamentari veneziani e veneti in particolare, di adoperarsi affinché in sede di discussione parlamentare questa stortura venga cancellata».

Postilla

Nell sottotitolo l’articolo della Nuova Venezia riferisce che il sindaco si è sfogato affermando che con l’iniziativa di Profumo si pone la «la Città in mano agli interessi privati», e convocando un un Consiglio comunale straordinario. E' certamente scandalosa la manovretta di Profumo per allargare surrettiziamenteil già largo spazio già concesso al Consorzio Venezia Nuova a scapito di quello attribuito al Comune. Ma la storia recente (gli ultimi 20 anni) delle intenzioni, dei progetti e degli affari relativi all’"Arzanà dei veneziani" andrebbe raccontata e sarebbe ricca di insegnamenti.

Certo è che le proteste del sindaco (e dei poteri elettivi) che hanno governato la città con piena continuità culturale suscitano, in chi conosce gli eventi veneziani sentimenti di indignazione dello stesso peso a quelli provocati dall’iniziativa del governo Monti. L,Arsenale non era forse già stato concesso al Consorzio Venezia Nuova per la parte più consistente e comunque come utilizzazione dominante nel silenzio complice di tutti? La città non era stata già donata al potente consorzio, e a chiunque volesse usarla come merce?

Del resto, quale proposta strategica è mai stato capace di formularela politica veneziana per quello splendido e gigantesco complesso dopo gli anni in quando De Michelis bocciò la proposta elaborata dalla giunta Rigo-Pellicani, in collaborazione, con i tre ministeri statali interessati, privilegiando la promozione del mercantilismo dell’arte contemporanee in alternativa allo sviluppo delle delle attività legata alla conoscenza, dei rapporti, storici e attuali tra la terra e il mare e al restauro di tutti i beni mobili e immobili che, nella città, quel rapporto testimoniano?

Infine, come sfuggire a un moto d'indignazione quando si legge che il sindaco di Venezia protesta oggi perché il governo favorisce gli interessi privati contro quelli della città, dopo che le vicende che la stampa cittadina ( ed eddyburg) hanno raccontato e denunciato: da quella del Lido di Venezia a quelle contrassegnate dai marchi Benetton , Cardin, Trussardi e via griffando? Ma facciano il piacere...

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«Al bando funambolismi filosofici sull’opportunità o meno di verticalizzare Mestre, “teorizzazioni della lentezza” di qualche grande architetto che cerca visibilità e di chi vuole rimuovere la modernità: il Palais Lumière con il suo investimento di 400 milioni di euro, è un’occasione che oggi ce la sogniamo e che non si ripresenterà nei prossimo trent’anni». È il succo di quanto ha sostenuto il sindaco Giorgio Orsoni giovedì sera a Campalto. Quello della torre di Cardin è solo uno dei temi affrontati dal primo cittadino, invitato alla Festa Democratica, con gran parte della Giunta al seguito, per discutere dei nodi centrali che toccano la terraferma, delle opere che stanno procedendo e di quelle al palo, come le torri dell’ex Umberto I. Orsoni non si è sottratto alle domande dei giornalisti di Nuova (Mitia Chiarin), Gazzettino (Francesconi) e Corriere del Veneto (Zorzi). Palais Lumière. Argomento caldo, in epoca di vacche magre. «Vedremo se si farà, se avremo garanzie, se il giocatore ha le carte giuste o bluffa», mette le mani avanti il sindaco. Di una cosa però è certo: «È un’opportunità che viene offerta al territorio e se davvero accadesse, ci sarebbe solo da leccarsi le dita. Ho letto commenti di grandi architetti che difendono solo la categoria o di chi non ha neanche questi titoli e cerca visibilità. Dobbiamo verticalizzare la città per difendere il suolo è stato detto, una volta che si presenta l’occasione non ci filosoferei tanto su, dovevamo pensarci prima se volevamo tutte casette basse. La torre potrebbe essere l’anticipo di una tendenza che prenderà piede, forse il simbolo di tutto il Veneto, teorizzare la lentezza è fuori luogo, se è un salto, ben venga il passo che darà la linea ad altri per accelerare la conduzione della città». Soprattutto perché, le casse sono vuote.

Spending review. E a questo proposito, Orsoni ha ribadito che la situazione non è rosea. «Sarebbe sciocco non preoccuparsi, a maggio sono sorti dei problemi che sono stati risolti, adesso è tutto legato all’esito dei proventi Imu e quando sapremo come verranno operati. Il taglio che il Governo pensa di affidare ai comuni è di 500 milioni di euro quest’anno, 2 miliardi nel 2012, se qualcuno si salverà adesso, l’anno prossimo sarà ucciso». Da qui la protesta a Roma. Quadrante di Tessera. «Ad impapocchiare la questione, non è stato il Comune», perché la linea era chiara e condivisa, anche nel Pat. Il problema, ruota tutto attorno all’Enac e alla fascia di rispetto, improvvisamente allargata. «Tra l’altro la decisione di Enac è sub judice, non è stata approvata dal Ministero ed è discutibile». Quello che a Orsoni interessa però, non è rimuginare sulle colpe, ma trovare una soluzione. «Stiamo cercando una negoziazione con Enac e solo con Enac, perché queste scelte strategiche vanno effettuate e discusse a livello istituzionale e non governate da interessi privati di chi potrebbe pensare al profitto. Il tavolo è aperto, c’è stato un incontro con i tecnici lunedì scorso, sono state prospettate delle ipotesi di soluzione in tempi rapidi».

Aggiunge: «Soluzioni che consentiranno a chi vuole fare lo stadio, di fare i suoi conti e programmi». Carcere e tram. Un passaggio sul tema della nuova casa circondariale, la cui ipotesi di realizzazione sul territorio è stata a lungo avversata. «Non abbiamo saputo più niente, forse per ragioni di finanziamenti, ma se ci saranno nuove chance, bisognerà favorirne la costruzione per toglierci la macchia di inciviltà che abbiamo addosso». Il tram arriverà a Venezia prima rispetto a quanto prospettato, i disagi sono stati ridotti al minimo, mentre l’allungamento della linea all’Ospedale e all’Aeroporto dipende da Roma e dalle finanze centrali, ma rimane imprescindibile». Centro Mestre. Capitolo a parte, il cuore della città: ex Umberto I, Villa Erizzo, M9: «Il centro di Mestre è uno dei problemi che abbiamo, stiamo studiando dei sistemi per riavviare alcune partite, l’attenzione c’è, stiamo facendo molto, ma non basta, mancano gli imprenditori, le attività economiche che promuovano iniziative». «Dal punto di vista della pianificazione il programma è intenso», fa eco al sindaco l’assessore Micelli, «ma a ciò non corrisponde lo sforzo dei privati che è lento, le difficoltà sono legate alla crisi della finanza e del mercato». Maggioni ha annunciato che dopo l’estate presenterà le linee guida del prosieguo dei lavori di via Poerio. Poi ha aggiunto: «I mestrini devono entrare in un’ottica di collaborazione, è vero che in piazza c’è poca roba, servono spazi di qualità e anche i negozi devono ragionare in questo senso».

Sul margine della Laguna di Venezia, in un’area protetta dalla legge speciale del 1973 e dal Palav (un piano regionale con valenza di piano paesaggistico, sostitutivo del Piano comprensoriale mai definitivamente approvato) sta sorgendo un grande insediamento. Esso si aggiunge ai numerosi altri di cui si discute nell’area veneziana, frutto di una strategia largamente bipartisan che vede in uno “sviluppo” affidato alle infrastrutture d’ogni genere, al cemento, all’asfaltooo – e soprattutto agli affari immobiliari stimolati dall”economia di carta” – il futuro della regione e della sua classe dirigente. Dal giornale e dal sito di uno dei più combattivi comitati di cittadini (CAT - Comitati ambiente e territorio della Riviera del Brenta e del Miranese) riprendiamo un servizio sull’argomento.

La storia

Tutto inizia quando la Giunta di Giancarlo Galan, in scadenza di mandato, ha approvato un progetto strategico che individua proprio l’area in questione come ideale per lo sviluppo della “logistica”. Guarda caso, la collocazione di questa piattaforma si trova a due passi dal tracciato della cosiddetta “Romea commerciale” e al termine dell’altra autostrada in progetto, la famigerata “camionabile”.

Il disegno della Regione sembrava aver perso quota quando, pochi mesi fa, il Presidente dell’Autorità Portuale di Venezia ha avanzato decisamente l’idea di fare “massa critica” tra i porti dell’alto Adriatico, con l'obiettivo di attrarre le grandi navi provenienti dal canale di Suez e dall’Oriente. Secondo lo studio commissionato da Paolo Costa, infatti, il transito delle merci attraverso l'Adriatico e poi via ferro verso l'Europa centrale e orientale, sarebbe molto competitivo perché consentirebbe di risparmiare tempo, soldi e impatti ambientali (emissioni) rispetto all'attuale rotta che dal Mediterraneo risale fino ai porti del nord Europa. Insomma il nord-est potrebbe diventare uno degli accessi privilegiati delle merci verso i mercati del vecchio continente, arrivando a movimentare fino a 10 milioni di container (TEU) entro il 2020. Il progetto è già in fase avanzata e prevede per Venezia la costruzione di una piattaforma in mare aperto (Off-Shore) per l'attracco delle grandi navi fuori dalla Laguna; da qui le merci dovrebbero proseguire su chiatte fluvio-marittime per essere spacchettate e poi spedite in treno a partire da aree già attrezzate o predisposte come Porto Marghera, Chioggia, Porto Levante. Un'operazione potenzialmente interessante sia per gli aspetti legati alla riconversione di ampie zone industriali dismesse, sia per l'impulso che potrebbe dare al trasporto ferroviario e via acqua piuttosto che su gomma, sia per la creazione di nuovi posti di lavoro.

Ma gli eventi improvvisamente sembrano virare a favore della rendita immobiliare e della devastazione ambientale, da quando è rispuntata sul tavolo la proposta del Polo Logistico a Dogaletto, proposta dapprima ricevuta da Paolo Costa da parte della Alba srl proprietaria dei terreni, e poi trasmessa dallo stesso Costa al Sindaco di Mira Michele Carpinetti.

Il progetto, infatti, non solo consumerebbe 460 ettari di suolo libero invece di privilegiare la riqualificazione delle aree abbandonate di Porto Marghera, ma utilizzerebbe come infrastrutture di connessione proprio la camionabile e la romea commerciale.

Una assurdità se si pensa che completando i 13 km di Idrovia che mancano, si potrebbero far proseguire le chiatte verso l'interporto di Padova, integrando così nel sistema anche questo scalo (recentemente potenziato e dotato di terminal ferroviario).

I veri interessi in gioco

In realtà l'operazione Dogaletto ha tutta l'aria di essere una grande speculazione. A trarne i maggiori benefici sarebbero la società Alba srl del romagnolo Franco Gandolfi, proprietaria dei terreni agricoli sui quali dovrebbero essere stoccati i containers e anche della valle da pesca Miana Serraglia. Basti pensare che con il solo cambio di destinazione d'uso da zona agricola (E) a zona produttiva (D7), il valore del fondo schizzerebbe dagli attuali 7,5 euro/mq a 40-50 euro/mq, facendo guadagnare alla società almeno 165 milioni di euro in un solo colpo. Una cifra, questa, che comunque è sottostimata, visto che il progetto della Alba srl prevede anche ampie aree destinate a uso commerciale, direzionale e residenziale.

Ma la realizzazione del polo logistico interessa anche alla società GRA spa, che avendo in concessione la camionabile per 40 anni, si assicurerebbe un grande flusso di camion e quindi anche di denaro derivato dai pedaggi. Forse è bene ricordare a questo proposito che nel consiglio di amministrazione della stessa società GRA siedono uomini legati al PdL (Vittorio Casarin), alla Lega Nord (Attilio Schneck) e al PD (Lino Brentan); e che tra gli azionisti ci sono sia le imprese della “cricca” veneta come la Mantovani spa di Piergiorgio Baita, sia le Cooperative “rosse”.

Il dibattito a Mira

L'idea della piattaforma per i container vicino ad una delle zone più belle della Laguna veneziana ha sollevato un vespaio di polemiche. Immediata la presa di posizione contraria di CAT, ma anche della Federazione della Sinistra, della Lega Nord mirese, e poi delle due importanti associazioni dei cacciatori e dei cavanisti, così come di Italia Nostra e Legambiente.

Favorevole e convinto il PdL con in testa il consigliere Paolino D'Anna; mentre nel PD il fronte è meno compatto: decisamente a favore il Sindaco Michele Carpinetti sostenuto da buona parte del suo partito, ma non mancano i distinguo e i “mal di pancia” di alcuni esponenti e di vari militanti. Incredibile e assurda la posizione morbida e più che possibilista di Sinistra Ecologia e Libertà che può contare in Giunta su ben due assessori (Stefano Lorenzin e Silvia Carlin).

Questa volta però Il fronte del NO è molto ampio, variegato, e combattivo: la strada scelta è quella del Referendum popolare per mettere definitivamente la parola fine a questo progetto assurdo e devastante.

La prima legge speciale per Venezia ebbe una storia. La storia della nuova legge speciale, ammesso che serva, rischia di diventare una farsa. Quella volta, quando impiegarono sette anni, dal 1966 al 1973, per fare la prima legge speciale, servì tanto tempo perché il lavoro da fare per stenderne il testo fu titanico. Interminabili riunioni a ogni livello, incontri e scontri, polemiche e baruffe, trattative e mediazioni. Il risultato fu un compromesso. Ma dignitoso. Quella legge, comunque la si giudichi, fu costruita con l’apporto positivo di tutte le forze politiche, con il consenso dei tre maggiori partiti di allora di maggioranza e di opposizione, la Dc, il Psi, il Pci, e con un grande lavoro di squadra dei parlamentari veneziani. Sarà che a quell’epoca erano all’opera, nei vari schieramenti, intelligenze tali da far impallidire i molti sprovveduti di oggidì, fatto sta che di questi tempi sembra proprio impossibile si possa ripetere, intorno alla nuova legge, un percorso virtuoso come quello di allora.

Il grande dibattito pubblico di quarant’anni fa si è ridotto a un chiacchiericcio da osteria. Nei casi migliori, da salotto. La gran parte dei veneziani sembra indifferente quando non anche rassegnata. Comunque sempre incazzata. Con tutti. E le proposte che vengono fuori, pure lodevoli nelle intenzioni, sembrano più iniziative isolate, partorite da conventicole ristrette, orfane di un vero confronto cittadino. E nessun accordo politico si intravede all’orizzonte. Anche perché non è obiettivamente facile dialogare con questa maggioranza di governo.

Così accade che un ministrino fantuttone si scrive la sua leggina da solo, un compitino modesto che non accontenta nessuno. Un altro partito di governo tenta di farsi la sua chiedendo consigli al popolo di Internet. E il maggiore partito di opposizione non solo non riesce a predisporre un testo alternativo condiviso, ma si mette a litigare con alcuni dei suoi che almeno ci hanno provato, e una leggina, buona o cattiva, per conto loro l’hanno scritta. Poi un altro gruppetto di parlamentari dello stesso partito si scrive la sua di leggina. E altri, nella gran confusione mentale, faranno lo stesso.

Si capisce, da queste incoraggianti premesse, che sarà molto problematico, quasi chimerico, il varo di una nuova legge speciale, anche qualunque. Sempre ammesso, come si diceva, che una nuova legge speciale sia davvero utile. Ammesso, e non concesso, che sia stata davvero utile la prima, quella che definiva il caso-Venezia «di preminente interesse nazionale», e che fissava due obiettivi strategici: la salvaguardia fisica dal pericolo di nuove alluvioni, e la rivitalizzazione del tessuto socio-economico della città. Il primo obiettivo non è stato ancora raggiunto, il secondo è fallito. Peggio: al posto della «rivitalizzazione» è subentrata la «devitalizzazione».

Chissà di quale bacchetta magica avrà bisogno la nuova legge speciale per fare meglio della prima. Ma forse bastano i soldi. Forse conta più avere i soldi che raggiungere degli obiettivi. Dove vadano poi a finire, i soldi, e per fare che cosa, è un altro discorso. Intanto dateci i soldi, chiedono tutti, dateci leggi e poteri speciali.

Una legge speciale la chiede anche Firenze, lei non l’aveva avuta dopo l’alluvione, poverina, adesso gliel’ha promessa anche il premier. E i soldini speciali li ha chiesti e ottenuti anche Roma, perché è Capitale, s’intende. Ma ne avrà bisogno anche Milano, che ha l’Expo, Napoli che ha i rifiuti, Torino che ha la Fiat, Bologna che ha i tortellini e Palermo che ha il mare. Nessuno, da Nord a Sud, vuole rinunciare alla sua pretesa di essere «speciale». Come non vogliono rinunciarci le regioni a statuto speciale, anche se sarebbe il tempo di chiedersi se hanno ancora un senso, invece di incoraggiare le spinte di quei paesi e città, adesso anche intere province, che per nobili motivi economici chiedono di traslocare dalle regioni «normali» a quelle «speciali». Non sarebbe male finirla con queste specialità più presunte che vere. False, in buona parte. False come le «specialità veneziane» fabbricate a Taiwan che si vendono sui banchetti della città che fu Serenissima.

Forse sarebbe meglio concentrarsi nel fare vecchie cose «normali» anziché sognare nuove leggi speciali. Anche perché l’unica «specialità» rimasta a Venezia sono quei ventidue milioni di girovaghi che ingrassano osti e locandiere.

Lido di Venezia - Lenzuola bianche ai balconi, caroselli di macchine, un lungo corteo durante la Mostra del Cinema che inaugura mercoledì e un esposto alla magistratura. Sono le iniziative al Lido di Venezia contro la costruzione in un´area dell´isola di grande pregio, l´ex Ospedale a mare, di un enorme complesso residenziale, turistico e commerciale che costringe al trasloco anche l´ultimo presidio sanitario. Ma è tutto il Lido oggetto di fermenti edificatori: si ristrutturano l´Hotel des Bains, che diventerà in parte residence, e l´Excelsior, si mette mano al Lungomare e si programmano villette e un albergo nell´ottocentesco Forte di Malamocco. Nel frattempo il placido orizzonte dell´isola è stravolto dalle gru che scavano i fondali per piazzarvi i cassoni del Mose. Per chi li propone, gli interventi segnano la rinascita di questa lingua di terra che chiude la laguna e che all´inizio del Novecento fu luogo di mondanità internazionale. Per altri è lo stravolgimento, a fini speculativi, di un territorio ancora molto verde.

La vicenda dell´Ospedale a mare è un garbuglio: con i soldi ricavati dalla cessione dell´area a un gruppo di imprese private, il Comune di Venezia pagherà la costruzione del nuovo Palazzo del Cinema, che la Biennale chiede da tempo. Il progetto era nel pacchetto delle opere previste per le celebrazioni dell´Unità d´Italia. Lo caldeggiava Angelo Balducci, poi arrestato per il G8 alla Maddalena, e lo seguivano Fabio De Santis e Mauro Della Giovampaola, pure loro finiti in carcere. Ma, nonostante sia sotto l´egida di uno dei tanti commissari della Protezione civile (Vincenzo Spaziante, vice di Guido Bertolaso, fra gli artefici del Progetto Case a L'Aquila), il cantiere è fermo. C´è solo un cratere recintato che inquieterà gli spettatori della Mostra del cinema. Sono stati abbattuti settanta pini tutelati e il Parco delle Quattro Fontane n´è uscito sfigurato: una decimazione che gli architetti vincitori della gara (Rudy Ricciotti e lo studio 5+1AA) giurano di non aver mai suggerito. D´altronde tutto il progetto è stato ridimensionato. Ma il punto vero è che l´appuntamento con il 2011 verrà bucato: il Palazzo del Cinema è stato sfilato dall´elenco di opere che celebrano l´Unità.

Tanto sfascio per nulla? No. Nel frattempo l´operazione finanziaria e immobiliare resta in piedi. È un pasticcio, che in questi giorni svela l´intrico della sua trama. A un certo punto della trattativa ci si è accorti che l´area dell´ospedale aveva bisogno di una bonifica. Deve pagarla il Comune, dicevano le imprese. O, in cambio, dobbiamo avere altre concessioni: una darsena e, soprattutto, il grande edificio al centro dell´area, detto il Monoblocco. Fra il sindaco Giorgio Orsoni, che ereditava accordi presi da Massimo Cacciari, e le imprese (la EstCapital di Gianfranco Mossetto, ex assessore di Cacciari negli anni Novanta, e poi Mantovani e Condotte, colossi del mattone, impegnati nella partita Mose) si è aperto un contenzioso che è stato appena risolto. I costruttori pagheranno la bonifica, ma avranno quel che volevano: altro spazio per tirar su palazzi e il porto turistico. Senza questa intesa il Comune non avrebbe potuto girare un soldo per il Palazzo del Cinema e avrebbe rischiato la bancarotta. Un piccolo particolare: sia l´allora sindaco Cacciari che Spaziante - diventato commissario di tutti i progetti del Lido - avevano assicurato che nel Monoblocco sarebbe rimasto un presidio ospedaliero.

La Legge speciale per Venezia, anzi le leggi speciali per Venezia (sono tre: la numero 171 del 1973, la 798 del 1984 e la 139 del 1992) sono state la risposta istituzionale data all’aqua granda, come poi i veneziani hanno chiamata la più grande acqua alta della storia.

Nel novembre 1966 la città è stata quasi sommersa da una terribile mareggiata, di 194 centimetri sopra il livello medio del mare e con la piazza San Marco sommersa anche per 124 centimetri. Le cause sulle quali si discute ancora oggi anche se solo pretestuosamente, sono state di origine naturale ed umana.

Quelle naturali dovute a un periodo di sigizie (quando luna e sole attraggono maggiormente le acque provocando maree molto sostenute), durante il quale è arrivata una terribile burrasca marina con fortissime piogge e venti di scirocco che hanno fatto entrare molta più acqua del solito nel bacino lagunare ed impedito, con la forza dei venti, la sua uscita nelle sei ore successive, funzionando come un tappo alle tre bocche di porto, per ricaricarne ancora molta, con l’ulteriore marea entrante. Quelle umane, dovute all’incuria decennale che non aveva mantenute salde ed efficienti le difese a mare della laguna (gli storici argini artificiali detti murazzi) e gli argini dei fiumi che a nord ed ovest la contornano, hanno reso possibili grandi brecce sulle difese fisiche e onde impetuose dal mare e correnti di piena dai fiumi sono entrate con impeto distruttivo in laguna aumentando ulteriormente il livello dell’acqua.

Sull’onda, anche emotiva, di una opinione pubblica mondiale preoccupata della possibile perdita di un patrimonio dell’umanità e la pressione sociale di movimenti sorti per la difesa della città, dopo molti dibattiti culturali e politici, le forze politiche, trovando miracolosamente un accordo, hanno approvata la prima di queste leggi, le altre seguiranno nel tempo. è una legge che, per la prima volta, concepisce la salvaguardia di Venezia come protezione dell’intero ecosistema che la circonda e, nel contempo, come necessità di garantirne la sopravvivenza sociale e abitativa con condizioni economiche riguardanti l’intero ambito territoriale consegnato dalla storia come unitario, la cosidetta conterminazione lagunare. Di fatto una buona legge come pure le successive e.....come tale, in gran parte non applicata o applicata parzialmente.

Senza entrare nel merito della polemica sul MoSE, il sistema di dighe sommerse che dovrebbe salvaguardare la città dalle acque alte, è opportuno ricordare che è un sistema immodificabile nel tempo e nella migliore delle ipotesi inutile perché non proteggerà dalle alte maree, certamente costosissimo (4.678 milioni di euro di costruzione più 60-70 milioni ogni anno per gestione e manutenzione), pericoloso ma, per quel qui ci preme, approvato facendo strame di norme, leggi italiane ed europee e consentito solo da una decisione politica irrispettosa anche di ogni valutazione tecnico-scientifica. Consentito quindi non rispettando dettato e procedure delle leggi speciali tutt’ora vigenti.

Ai primi di luglio il Ministro all’innovazione Renato Brunetta ha convocato istituzioni, parti sociali e alcune associazioni comunicando loro, tassativamente, che entro settembre vuole riscrivere la legge speciale, perché vecchia e superata dai tempi, perché la salvaguardia della laguna, e con essa di Venezia è già garantita dal MoSE, così si è espresso il Ministro.

Al riguardo sembra opportuno ricordare che la costruzione del MoSE non è ancora iniziata, essendo state completate solo le opere complementari del sistema ed inoltre che una delle più grandi Società di progettazione di opere sommerse, interrogata specificatamente dal Comune di Venezia, ha affermato che, in certe condizioni mareali e di vento, non sarà possibile garantire scientificamente la tenuta delle cerniere che tengono avvinte le paratoie mobili rischiandone il collasso complessivo e che sarà impossibile tenere all’esterno l’acqua di mare perché entrerà nei varchi esistenti tra paratoia e paratoia. Il Ministro ha dichiarato inoltre che non ci sono più soldi e Venezia dovrà nel futuro scordarsi degli stanziamenti che la Legge Speciale ha garantito. Ricordiamo che nel passato parte di questi finanziamenti sono stati decisivi per la salvaguardia socio-economica della città. Ma esiste un non detto assai preoccupante che a breve si potrà comunque verificare.

Una città delicata come Venezia e il suo complesso sistema lagunare, (59.000 abitanti e 21 milioni e più di turisti annui; 450 kmq. di laguna) con le sue sole entrate non è in grado di reggere alla pressione trasformativa imposta da un mercato sempre più aggressivo. Bisognerà far cassa e non basteranno nemmeno gli enormi tabelloni pubblicitari a pagamento che già oggi ricoprono totalmente il palazzo Ducale, il ponte dei sospiri, per citarne solo alcuni. Non basteranno quelli incassati dagli oneri delle opere di urbanizzazione per concedere edificazioni nel solo interesse degli immobiliari. I soldi si troveranno e saranno quelli degli sponsor, delle società più o meno partecipate dal Comune, delle Imprese di Costruzioni e simili. E, poiché il mercato non è Babbo Natale, il contraccambio sarà nuova edificazioni di alberghi, megastore, sistemi meccanici di trasporto sopra e sotto la città e la laguna, nuove darsene per mega yacht, costruzioni di nuove isole in laguna e trasformazione radicale di quelle esistenti, fino ad arrivare, forse, ad una porta d’accesso sul ponte, controllata e a pagamento, per entrare in una città privatizzata, totalmente disneyzzata e artificializzata, con una sola parvenza di abitanti e traffici reali. I presupposti ci sono tutti. Tessera City (1,5 milioni di mc. di alberghi, centri commerciali, case da gioco, stadio, palestre per il fitness e simili): già concessa illegittimamente dall’accordo degli uscenti Sindaco Cacciari e Governatore Galan, sul bordo non edificabile della laguna; il progetto della metropolitana sublagunare per fare ulteriormente aumentare il turismo; la distruzione dell’Ospedale al Mare al Lido, ultimo presidio sanitario per le isole, per farne alberghi e darsena d’altura; la lottizzazione con villette dell’antico forte trasformato in albergo a 5 stelle con piscina a Malamocco; strumenti d’intervento rapidi con Commissari ad acta non obbligati a sottostare alle leggi che governano le trasformazioni del territorio; ecc. Manca solo una legge quadro che renda compatibile tutto ciò e liberi da “lacci e laccioli” come sono state definite le norme delle leggi speciali esistenti: questo dovrebbe essere la nuova legge speciale.

Italia Nostra, partecipe alla consultazione, ha già fatto pervenire al Ministro un sintetico ragionamento strategico per evitare di essere catturati da questa distruttiva logica ultraliberista, individuando obiettivi, modalità, condizioni. Non è escluso che, a breve, proponga all’intera cittadinanza ed al dibattito culturale e politico, una bozza di nuova legge speciale, a partire dal completamento di quanto previsto in quelle esistenti, rafforzandone le salvaguardie siappur in una prospettiva di trasformazioni necessarie ma che dovranno essere altamente compatibili. Governo del turismo; decollo incentivato di una economia alternativa insediata in una Marghera bonificata; nuova residenzialità in città con una sinergia strategico-culturale tra ricerca e innovazione (istituzioni culturali museali e università); riorganizzazione di una mobilità di superficie che separi il traffico turistico da quello residenziale, pendolare e studentesco; nuovo piano morfologico della laguna evitandone ogni artificializzazione e, soprattutto, il progressivi svuotamento di sedimi dai suoi fondali che la porterebbero inesorabilmente a diventare un braccio di mare, biologicamente morto. Questi gli attuali temi strategici su cui dovranno misurarsi amministratori e cittadini, politica e cultura. Ne daremo ancora conto.

In un recentissimo incontro con i membri del gruppo 40 x Venezia, il nuovo assessore all’Urbanistica Ezio Micelli ha disegnato le grandi linee dei suoi progetti per la città e dei motivi ideali e pratici che lo ispirano. Nella sua eloquente presentazione, e nelle risposte alle attente domande dei presenti, Micelli ha operato una distinzione tra un modo antiquato di vedere la città e uno moderno, innovatore e al passo con i tempi. Ha chiamato i sostenitori del primo «identitari» (forse perché li confonde con chi vuole difendere una supposta identità locale) e quelli e del secondo «modernisti». Lui si è collocato decisamente tra quest’ultimi, pronti a «sviluppare scenari di lungo periodo e a cogliere le sfide dei tempi che cambiano» (cito dall’ottima sintesi dell’incontro leggibile sul sito del 40x). Qual è dunque il progetto che coglie le sfide dei tempi? Micelli lo vede in opere come il Quadrante di Tessera, il Mose e le trasformazioni in corso per via commissariale al Lido.

Secondo lui i veri padri della città futura sono quelle figure (che lui chiama i più maturi nello scenario veneziano) che hanno proposto i cambiamenti osteggiati dai nostalgici: sono Gianfranco Mossetto con EstCapital e le trasformazioni in atto al Lido, Enrico Marchi con la Save e le iniziative dell’aeroporto, Paolo Costa con i suoi piani per lo sviluppo del porto lagunare, il cardinale Scola (immagino per il suo sostegno ai predetti e per aver etichettato come «piagnoni» coloro che si opponevano), l’ingegner Mazzacurati con il Consorzio Venezia Nuova, l’ex presidente Giancarlo Galan. In questo modo Micelli ha disegnato il progetto di una città fondata sull’economia turistica e portuale, alla costante ricerca del flusso di soldi liquidi, cementificata, metallizzata, hovercraftizzata, sublagunarizzata. «Il piccolo artigianato di qualità deve poter prendere la via della terraferma senza remore», afferma. Per lui il futuro è nei 20 milioni di turisti trasformati forse in 40 milioni, con Tessera, Mestre e il Lido gremiti di alberghi e bed and breakfast, con forse (come desidera la Camera di Commercio) una sublagunare che colleghi Jesolo e Sottomarina con piazza San Marco. E un porto lagunare che ospiti navi petroliere, supernavi porta-container e super-super-navi da crociera.

Vorrei però suggerire che forse proprio questa è un’idea molto arretrata di ciò che sia la modernità. Negli anni ’70-’90 la modernità era sviluppo economico, flusso di cash, automobili per tutti, aeroporti ogni 50 chilometri. Oggi la modernità è prima di tutto qualità della vita. Oggi si cercano il verde, il silenzio, il quartiere con vita rilassata sulle strade, l’asilo raggiungibile a piedi o con il mezzo pubblico (non più con la mamma-tassista).

I paesi «emergenti» hanno ancora le fabbriche fordiste e i profili simili a quello irto di ciminiere che oggi vediamo a Marghera; quelli che guardano al futuro hanno la Nokia, dove si lavora in casa propria e si comunica attraverso la posta elettronica. Oggi i vecchi artigiani démodé sono il segno che le città stanno recuperando un’anima. I piani di Micelli e dei suoi eroi Costa, Mossetto, Scola, Mazzacurati, Marchi, Galan, De Michelis sono tutti legati a un’idea antica. Un’idea priva d’ispirazione e d’entusiasmo, per la quale il domani diventa solo un mediocre aumento di cash flow, un fare panini per i turisti, rifare letti, organizzare mostre per i musei di Pinault e movimentare containers sul bordo della laguna.

Ma la Venezia dei nostri figli dev’essere una città in cui abitano uomini e donne colti, liberi e in armonia con la natura, che lavorano alla ricerca e progettazione del benessere di tutti (biologia, medicina, climatologia, robotica, edilizia, restauro), con sedi di lavoro in una Marghera bonificata (con i soldi ora impegnati per l’inutile Mose), raggiungibile con mezzi comodi, veloci, panoramici e sottratti all’infernale macchina turistica. Invece di correre dietro a progetti otto-novecenteschi, il pianificatore della città di domani dovrebbe avere il coraggio di guardare veramente al futuro. Dovrebbe far bonificare Marghera, chiedere al governo forti incentivi fiscali per le aziende innovative disposte a trasferirsi, controllare i flussi turistici, restituire la città a una vivibilità che sarà il segno della vera modernità. Ma qui siamo lontani. Qui, lasciatemelo dire, navighiamo nella mediocrità e nella mancanza di visione.

Paolo Lanapoppi è vicepresidente della combattiva sezione veneziana di Italia Nostra e presidente dell'associazione Pax in Acqua

«I rischi del Mose? Solo teoria»

Rapporto segreto del Magistrato alle Acque

sulle paratoie

di Alberto Vitucci

I consulenti del Consorzio Venezia Nuova rispondono allo studio presentato dalla società navale Principia

«Le critiche tecniche al Mose? Un elegante esercizio teorico. Ma quello che succede a una o due paratoie in oscillazione con il mare agitato non può avere alcun riscontro nel reale, cioè nella schiera delle 20 paratoie nell’ambiente lagunare». Dieci pagine di risposta, firmate dal presidente del Magistrato alle Acque, Patrizio Cuccioletta, e sottoscritto dai relatori del comitato tecnico di Magistratura: gli ingegneri Mayerle, Datei, Da Deppo e Stura. Un rapporto che risale al novembre scorso, ma non è mai stato reso pubblico. Inviato in forma privata all’ex sindaco Massimo Cacciari che aveva commissionato alla società di ingegneria francese Principia uno studio di verifica sul funzionamento del Mose. Studio che aveva dato esiti preoccupanti. «In caso di mare mosso», erano le sue conclusioni, «il sistema potrebbe non funzionare, perché le singole paratoie entrano in risonanza». Un difetto già segnalato negli anni Novanta dal professor Chang Mei, consulente del Consorzio Venezia Nuova e professore del Mit, nominato dal governo tra i «saggi» che hanno dato il parere sulla grande opera.

Per rispondere alle dure critiche che hanno messo in dubbio il funzionamento delle dighe mobili, il Magistrato ha fatto ricorso proprio a un parere del professor Mei, e a quelli di un gruppo di esperti che hanno collaborato con il progetto del Mose, Paola Malanotte, Gerhard Jirka, David Parks e Rafael Bras.

La «difesa» del Mose punta soprattutto sul fatto che lo studio di Principia è stato fatto sulla base di modelli matematici. «Le possibili oscillazioni subarmoniche del sistema di barriera erano già note», scrivono i quattro, «l’analisi non lineare presentata da Principia è viziata, in quanto ignora aspetti significativi quali le interazioni fra paratoie multiple, tra paratoia e onde, paratoia e corrente». Viene anche ignorata, secondo gli esperti del Magistrato alle Acque, «la corretta geometria del sistema».

Numero delle paratoie, canale di bocca, effetti di smorzamento. Dunque, le «oscillazioni subarmoniche» delle paratoie denunciate da Principia come rischio effettivo in caso di mare agitato sarebbero ampiamente eliminate, secondo il Magistrato, «quando il sistema è studiato considerando questi fattori e utilizzando i modelli fisici e non quelli matematici». Una tesi sottoscritta anche dal professor Mei: «I casi esaminati con sola uno o due paratoie sono di dubbio valore», scrive Mei, «Principia ha adottato una geometria semplificata con un canale infinitamente lungo, che con corrisponde alla configurazione reale delle tre bocche di porto».

In conclusione, secondo i progettisti del Mose, si tratterebbe di studi fatti con un modello matematico per la dinamica delle navi in mare aperto, trascurando la particolarità del moto ondoso e gli effetti dissipativi». Lo studio limitato a una sola paratoia, secondo gli ingegneri del Magistrato alle Acque, sono «del tutto anomali e mai riscontrati nei modelli fisici».

Una risposta netta, che riaccende il dibattito. Quanto al Mose, i cui lavori sono arrivati al 62 per cento, il professor Mei si dice certo che «il gruppo di progettazione del Magistrato alle Acque sia in grado di fornire tutte le informazioni necessarie per convincere le persone interessate della validità del progetto Mose».

Sabato, 08 maggio 2010

Sublagunare, ecco le stazioni

Mostra dell’Iuav a Santa Marta, protesta degli studenti

di Alberto Vitucci

Il rettore Restucci «Discutiamone» - In laguna e in centro sono previste piattaforme in cemento e scale mobili

«Sublagunare al servizio della Grande Venezia». Non ha dubbi sulla necessità della grande opera il professor Gianni Fabbri, docente Iuav che ha inaugurato ieri all’ex Cotonificio di Santa Marta la mostra sui progetti delle nuove stazioni.

Ma la festa è stata rovinata dalla dura protesta degli studenti, presenti ieri in forze all’inaugurazione della mostra. «L’assegnazione dall’alto di queste tesi e la loro sponsorizzazione», ha detto Riccardo Bernami, del Consiglio degli studenti, «è un segnale chiaro a sostegno di un progetto che il mondo accademico non ha approvato. La ricerca non deve essere orientata a favore di dubbi interessi privati con denaro pubblico, ma al servizio della collettività». Contestazione a cui ha risposto il rettore Iuav Amerigo Restucci: «L’Università non ha fatto alcuna scelta di campo, siamo disponibili a un dibattito sul tema con gli esperti e rappresentanti degli studenti».

Mostra ambiziosa, quella aperta ieri - fino al 22 maggio - con i progetti della megastazioni che potrebbero presto riempire la laguna e la gronda di ferro, cemento e nuovi turisti. Piattaforme di calcestruzzo, scale mobili, spazi sottratti all’acqua e aggiunti al contesto urbano di Venezia. Secondo i professori Iuav sponsor dell’iniziativa, le fermate della sublagunare saranno 12, da Tessera a Santa Marta passando per Murano, Fondamente Nuove, Lido, «Polo Arsenale» e «Polo museale marciano». Uno stravolgimento epocale del sistema di trasporto per via acqua. Al Lido la struttura imponente e fuori scala, anticipata in piccola parte dalla vela del nuovo pontile Actv che tanto ha fatto discutere. «La stazione è come un’isola all’interno dell’arcipelago veneziano», si legge nel catalogo della mostra, con copertina stile Turner e all’interno i disegni delle enormi piattaforme sull’acqua di Santa Marta e Lido. Secondo Gianni Fabbri - l’ingegnere che curò anni fa il restauro statico della Scuola Grande della Misericordia, in parte poi rifatto dal Comune - «nella stazione si compie un evento, si dà senso a quel traumatico passaggio tra il sottosuolo sott’acqua e l’emersione stupefacente nella città d’acqua». Poesia che dovrà fare i conti con le grandi uscite di sicurezza, vere piattaforme disseminate in laguna ogni 600-100 metri e con le stazioni che stravolgeranno non soltanto lo skyline ma l’equilibrio socio economico delle aree interessate, a cominciare dalle Fondamente Nuove.

La città non ha deciso, e della sublagunare non ha mai discusso. Ma intanto l’iter del primo progetto (Tessera Arsenale, 650 milioni di euro) va avanti e aspetta i finanziamenti al governo, già promessi dall’ex ministro Lunardi all’ex sindaco Paolo Costa. L’assessore Ugo Bergamo è favorevole, il sindaco Orsoni anche, se pur con qualche riserva. Ambientalisti e cittadini annunciano battaglia. Ma imprese e consulenti hanno già fiutato il business e si preparano a sfruttarlo.

Domenica, 09 maggio 2010

Micelli dichiara guerra al Pat

«Piano da rifare», braccio di ferro con il Pd

di Mitia Chiarin

Ogni assessore che arriva è più «bravo» del precedente. Risultato: si allungano i tempi e aumentano i costi. Già spesi 2,5 milioni di euro

«Entro fine anno il Piano di assetto del territorio dovrà essere approvato. Ma l’attuale stesura porta con sè ambiguità su cui dobbiamo ragionare tecnicamente e politicamente, valorizzando il lavoro fatto dagli uffici». Il nuovo assessore all’Urbanistica Ezio Micelli conferma la scelta del sindaco Orsoni che in Consiglio comunale l’ha definita una delibera decaduta. «Valuteremo se riscriverla».

Se sarà riscritto completamente, Micelli non lo dice. Ma poco ci manca, comunque. Il nuovo assessore all’Urbanistica assicura che la priorità dei prossimi mesi del suo assessorato sarà la questione Pat. «Occorre tornare sui temi fondamentali per mettere dei punti fermi con i gruppi politici e lo si fa con serenità. Se si andrà ad una riscrittura è un aspetto tecnico che valuteremo con il sindaco - dice Micelli - di certo non butteremo via il lavoro fatto in questi anni dagli uffici». Tre anni di lavoro dell’Urbanistica e dell’ex assessore Gianfranco Vecchiato, costati 2 milioni e mezzo di euro. Ma ora i tempi sono destinati ad allungarsi ancora con la decisione della nuova giunta Orsoni. Per il sindaco si tratta di una «delibera decaduta» con la vecchia giunta. Il Pd con il segretario Gabriele Scaramuzza ha reagito invitando il sindaco a riprendere la questione «senza azzerare il lavoro fin qui fatto». Dal Pdl, Renato Boraso ha minacciato in Consiglio di rivolgersi alla Corte dei conti. Il piano non era stato approvato a fine legislatura per critiche e veti che Cacciari aveva definito figli di «miopia politica», criticando sia parte del centrosinistra che il centrodestra. «L’ambiguità del Pat non sta nel lavoro fine degli uffici ma nel fatto che non si capisce se si vuole uno sviluppo sostenibile o una decrescita felice. Quest’ultima non è nella mia agenda», spiega Micelli. Quadrante di Tessera e sviluppo di Marghera, assieme al dimensionamento del piano (le previsioni sui nuovi residenti), i temi su cui lavorerà. «Il Quadrante va visto come un polo con processi da governare e un forte contenuto di sviluppo sostenibile, collegato ai temi della Mobilità. Va visto anche come una porta d’acqua verso Venezia, che raddoppia gli spazi verso piazzale Roma, e riunisce parti di città oggi distanti». Certo è, e lo sanno tutti, che sul Quadrante non si può modificare, pena la soppressione del piano, figlio di un accordo tra Comune, Regione e Save. Su Marghera, dice il nuovo assessore, occorre puntare su un futuro di logistica e prime lavorazioni industriali «senza chimere e progetti monumentali che poi nessuno vuole realizzare e riconoscendo l’entità portuale». Serve poi snellire la burocrazia: da qui il lavoro di riforma degli uffici Suap e Suer.

Domenica, 09 maggio 2010

Il rettore Amerigo Restucci prende le distanze

dalla mostra sulle megastazioni

«Iuav non spinge la sublagunare

adesso il convegno sulle alternative»

di Alberto Vitucci

«Il contributo di una comunità scientifica consiste nel mettere a confronto idee e proposte diverse»

Laguna stravolta da enormi piattaforme di cemento. Fondamente invase da megastazioni, scavi, scale mobili, tunnel, calcestruzzo e una marea di nuovi turisti. Si riaccende la polemica sulla sublagunare.

Un assaggio si è avuto l’altr mattina in Marittima, all’inaugurazione della mostra organizzata dal professor Giovanni Fabbri sulle nuove stazioni. «Sublagunare al servizio della Grande Venezia», c’è scritto con enfasi sui pannelli esposti. «Incubo futurista e stravolgimento della città e dei suoi equilibri», hanno risposto gli studenti arrivati in forze a protestare. Ora arriva una netta presa di distanza del rettore dell’Iuav Amerigo Restucci. «Mi hanno invitato e sono andato», dice, «mi aspettavo che fossero illustrate tesi di laurea e non una sola tesi esposta contanta magniloquenza. L’Iuav non è schierato in favore dell’opera. Anzi, ci sono posizioni molto differenziate tra gli studiosi, ed è mia intenzione metterle a confronto. Entro il mese di maggio organizzeremo un grande convegno per discutere sulla sublagunare, ma anche di alternative. Questo deve essere il contributo della comunità scientifica».

Gherardo Ortalli, docente di storia a Ca’ Foscari ed esponente di Italia Nostra, definisce la sublagunare «un progetto pericoloso». «Avrebbe un impatto pericoloso e causerebbe gravi danni alla città. Italia Nostra darà battaglia in tutte le sedi», dice.

A sostenere il treno sotto la laguna sono forti interessi economici, con un consenso politico trasversale. Ugo Bergamo, attuale assessore alla Mobilità della giunta Orsoni, era sindacao nel 1990 quando la prima proposta di sublagunare (da Tessera al Lido, a San Marco) venne bocciata sull’onda dell’indignazione internazionale. Dodici anni dopo, la giunta Costa aveva approvato un nuovo progetto da Tessera all’Arsenale, non fermato dalla giunta Cacciari e ora al Cipe per il finanziamento. Per questa tratta servono 700 milioni di euro (erano la metà nel 2005), ma adesso i progetti parlano di prolungare l’annello fino al Lido e Chioggia. La grande opera va avanti, anche se sono 12 mila le firme raccolte dal comitato «Nosublagunare» in pochi giorni e sempre più numerose le voci che chiedono di puntare su motonavi e hovercraft.

Lunedì 10 maggio 2010

«Con le dighe mobili sviluppo sostenibile»

Il sindaco al congresso con il principe Alberto di Monaco

di Giacomo Cosua

Lo stato del Mose, i suoi progressi e il futuro della laguna: saranno questi i temi che verranno trattati oggi durante la seconda giornata del 39º convegno della Commissione scientifica del Mediterraneo (Ciesm), presieduta dal principe Alberto di Monaco, presente ieri al Lido. Proprio sul Mose è intervenuto ieri il sindaco Giorgio Orsoni: «Venezia si candida ad essere una città esempio dello sviluppo sostenibile per quanto riguarda le attività marine e marittime, focalizzando la propria attenzione per il Mediterraneo», ha detto, «tra qualche anno inaugureremo in sistema di regolazione della maree unico al mondo».

Il ministro per l’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ha invece sottolineato come «la difesa del Mediterraneo deve passare da politiche coerenti per un ambiente condiviso, anche perché il riscaldamento globale impone delle scelte non rinviabili». Ieri, dopo il convegno, il principe Alberto e il ministro Prestigiacomo hanno pranzato insieme all’Harry’s bar.

Questa mattina intanto a parlare del recupero della laguna di Venezia, ci saranno tecnici chiamati da Cnr, Ismar, Consorzio Venezia Nuova, Magistrato alle acque e Ciesm. A parlare dalle 9 sarà Alberto Giulio Bernstein del Consorzio Venezia Nuova e Roberto Zonta del Cnr di Venezia. Tra i professori universitari veneziani è previsto l’intervento di Patrizia Torricelli dell’Università di Ca’ Foscari. Nutrito anche il contributo del Cnr-Ismar con Luca Zaggia, Sandro Carniel e Daniele Cassin.

Non solo recupero della laguna tra gli argomenti trattati dal convegno, ma anche un approfondimento sui segnali di cambiamento, attraverso un dibattito sulle modificazioni idrologiche connesse al cambio di temperatura. Il dibattito sarà moderato dal professor Paolo Nunes dell’Università Ca’ Foscari. Il principe Alberto di Monaco ieri ha sottolineato l’importanza del convegno: «In questi giorni di dibattito e di relazioni scientifiche si potrà capire di più per quanto riguarda le condizioni della laguna». Il sindaco Orsoni inoltre ha dato segnali di fiducia sul Mose: «La grandezza di quest’opera consiste nel fatto che regolerà e non interromperà il rapporto tra Venezia e il mare, ma anche per quanto riguarda le attività marittime del Porto, che potranno continuare», ha concluso Orsoni. Oggi e domani il convegno tenterà di portare all’attenzione di tutti le problematiche del Mediterraneo, mare che di giorno in giorno sta diventando un ecosistema sempre più fragile.

Martedì 11 maggio 2010

«Vogliamo garanzie sul Mose»

Tre ingegneri contestano il Magistrato alle Acque

«Dateci garanzie precise sul funzionamento del Mose». Mentre il sindaco Giorgio Orsoni ne ha parlato ieri al Lido in termini entusiastici, i dubbi sulla grande opera non sono dissolti. Tre ingegneri specializzati in tecnologìe marine, autori di un progetto alternativo alle dighe mobili, puntano ora il dito contro le «non convincenti» risposte date dal Magistrato alle Acque alle critiche della società di ricerche marine Principia. In uno studio commissionato dal Comune lo scorso anno, i tecnici della società francese avevano puntato il dito contro «l’instabilità» delle paratoie in condizioni di mare agitato. Il Magistrato alle Acque ha fatto rispondere i suoi consulenti. Ma adesso gli ingegneri Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani introducono nuovi elementi di dubbio. Secondo gli ingegneri non è stata dimostrata la certezza che la instabilità di una singola paratoia - ammessa anche dai progettisti - non si rifletta sull’intero sistema.

Non basta nemmeno, secondo Di Tella, aver verificato il comportamento delle paratoie su un modello fisico in scala ridotta, perché qui «non si possono verificare gli effetti delle forze viscose». Gli esperti del Magistrato alle Acque (i consulenti del Mit, l’ingegnere cinese Chan Mei e il Comitato tecnico di magistratura) non hanno considerato il confronto con la paratoia a gravità, progettata da Di Tella. Gli ingegneri ribattono che «le procedure da loro usate per la progettazione sono corrette» e le paratoie a gravità (che si alzano e affondano con la sola forza della corrente, a differenza di quelle del Mose che hanno bisogno di energìa per essere sollevate controcorrente) «sono stabili».

Una polemica che rischia di riesplodere proprio nelle ore in cui al Lido si celebra in pompa magna la bontà del progetto Mose. Dubbi che sono stati anche ricordati nel rapporto della Corte dei Conti e della Bei, la banca europea degli investimenti che prima di concedere il prestito per l’ultima fase dei lavori del Mose ha chiesto alcuni chiarimenti. Il rapporto di Principia era stato consegnato al sindaco Cacciari nell’autunno dello scorso anno. Le risposte del Magistrato alle Acque sono state inviate al Comune «in forma privata» nel novembre scorso e mai rese note. La Nuova le ha pubblicate qualche giorno fa.

Postilla

Riassumiamo. La nuova giunta è schierata a difesa del MoSE, nonostante il giudizio negativo della nota società francese Principia, interpellata a suo tempo dal sindaco Massimo Cacciari, e la contrarietà che lo stesso comune aveva più volte espresso (e nonostante la VIA negatva, le critiche della Corte dei conti ecc. ecc.); del resto, un rappresentante del Consorzio Venezia Nuova è stato chiamato dal sindaco tra gli assessori. Da qualche accenno del sindaco e del nuovo assessore all’urbanistica sembra che non ci siano troppe esitazioni a costruire qualche nuovo grattacielo a Mestre, a confermare la nuova città degli affari a Tessera e a dare i via libera alla metropolitana sublagunare. A favore di quest’ultima si schiera una parte dell’Iuav, mentre il nuovo rettore, Amerigo Restucci, prende le distanze e prepara una contromossa.

Intanto i comitati e le associazioni chiedono un incontro al nuovo sindaco per chiedergli di rispettare almeno la doverosa trasparenza sugli atti della giunta, prima che vengano presentati, blindati, in Consiglio, e di aprire il dibattito su “ragionevoli alternative” alle scelte più rilevanti. Ma di questo le cronache non parlano ancora.

L’elezione del sindaco di Venezia non è solo una questione locale. Per la straordinaria bellezza di questa città, per la sua storia, il sindaco di Venezia ha grandi responsabilità e verrà giudicato non solo da chi a Venezia vive, ma anche dai molti che nel mondo amano questa città. Dopo il ritiro di Massimo Cacciari, il suo successore sarà probabilmente scelto domenica, nelle primarie del Partito democratico.

Diversamente dal pasticcio pugliese, le primarie di Venezia sono un caso riuscito, un confronto leale fra tre candidati molto diversi: una socialista, un indipendente cattolico, un rappresentante della sinistra «verde». E tuttavia la campagna elettorale che si è svolta in laguna non ha finora affrontato alcuno dei veri nodi di Venezia. Domenica conosceremo il nome del probabile nuovo sindaco (alle provinciali dello scorso anno il vantaggio del centrosinistra, senza l’Udc, fu di 9 punti), ma non il suo progetto per la città. Non è troppo tardi: Laura Fincato, Giorgio Orsoni e Gianfranco Bettin dovrebbero in questi giorni, prima del voto, spiegare come pensano di affrontare quattro questioni vitali per il futuro di Venezia.

1. Marghera o Tessera? Il porto di Marghera è un’area industriale in dismissione, molto inquinata e che blocca la trasformazione di Mestre in una città aperta sul mare. Mi ricorda il waterfront di Boston, prima che la città abbattesse le barriere che la separavano dal mare e trasformasse quell’area un tempo degradata in uno dei quartieri più belli ed eclettici di tutti gli Stati Uniti. Sul waterfront di Mestre, aperto su Venezia, si potrebbe trasferire, come è avvenuto a Boston, il porto turistico: sia per imbarcazioni da diporto che per grandi navi da crociera. Il nuovo porto darebbe un futuro a migliaia di lavoratori oggi occupati in cantieri e raffinerie senza alcuna prospettiva. In questo modo si libererebbe Santa Marta, un’altra area che soffoca Venezia— senza parlare della follia di transatlantici di oltre 100 mila tonnellate che passano a poche decine di metri dalla Punta della Dogana. Ci sarebbe spazio anche per il nuovo casinò che tanto sta a cuore all’amministrazione della città. La giunta Cacciari ha scelto invece un progetto diverso: la costruzione di un nuovo insediamento vicino all’aeroporto di Tessera, in aree oggi ancora agricole. Questa scelta ha certamente favorito chi, anticipandola, ha acquistato terreni a Tessera: ma ha senso cementificare la campagna e lasciare Marghera nel degrado? Poiché, se si investe a Tessera, non ci saranno i soldi per riqualificare Marghera, né per spostare il porto. Che ne pensano i tre candidati?

2. Il decreto legge sul Federalismo demaniale, approvato il mese scorso dal governo, consente il trasferimento alla città del «patrimonio culturale» oggi di proprietà dello Stato, una definizione che a Venezia è alquanto vaga perché comprende tutto. Che progetti hanno i tre candidati? Per l’Arsenale, l’isola di Poveglia, Sant’Andrea e tanti altri luoghi? Intendono insistere perché siano inclusi nell’elenco dei beni trasferiti? Con quali denari li riqualificherebbero? E per l’Arsenale, intendono accettare la privatizzazione di fatto di quest’area (che rappresenta circa un settimo dell’intera superficie cittadina) consentendo che sia assegnata all’impresa che vincerà la gara europea per le opere di manutenzione del Mose?

3. Per evitare di diventare Disneyland, Venezia potrebbe puntare sull’università e i suoi studenti. Cà Foscari ha dato un segnale, voltando pagina ed eleggendo un rettore giovane e intelligente. Ciò che manca sono studenti che risiedano a Venezia e facciano vivere la città. Non ci sono perché i palazzi vuoti si contano a decine, ma non c’è una Casa dello studente degna di questo nome. Quali sono i progetti dei tre candidati?

4. Per accelerare la costruzione di un secondo palazzo del cinema al Lido (costerà la bellezza di oltre 70 milioni), il governo ha nominato un commissario. Bene, ma le competenze del commissario si sono via via estese e oggi egli ha di fatto pieni poteri sull’intera isola. Anche qui vi sono interessi potenti: una società immobiliare ha acquistato entrambi gli alberghi storici (Excelsior e Des Bains), uno dei quali verrà trasformato in appartamenti. E dopo gli alberghi sarà la volta dell’ospedale al mare. Da queste scelte il sindaco è stato di fatto estromesso: al Lido potrà sempre andare, da turista. Sono d’accordo con tutto ciò i tre candidati?

P.S. Mi sono rivolto ai tre candidati del Partito democratico. Il ministro Brunetta dice che fare il sindaco gli piacerebbe, e non poco. Per lui aggiungerei una domanda. Conosciamo la sua predilezione per Aleksey Stachanov, ma crede davvero che gestire una città bizantina e complicata come Venezia sia compatibile con le sue responsabilità di ministro, con un sindaco a mezzo servizio?

Sabato 16 gennaio 2009

Tessera City decolla nella notte

di Alberto Vitucci

Una raffica di contestazioni, ricorsi, accuse di illegittimità. Ma alla fine la delibera su Tessera city ha avuto la maggioranza. Nella notte si discuteva ancora di mozioni e emendamenti. Ma l’orientamento emerso già in commissione nel pomeriggio non lasciava spazio a dubbi: una maggioranza trasversale - anche il Pdl con il Pd - sostiene il megaprogetto del Quadrante di Tessera. Che adesso entro il 18 gennaio sarà restituito alla Regione per l’approvazione definitiva. Un accordo di ferro tra il sindaco Cacciari, il presidente della Regione Galan e il presidente della Save Enrico Marchi firmato nel 2008. Un iter ripreso dopo quattro anni di «stop» alla delibera aprovata nel 2004 dalla giunta Costa. E adesso la nuova Tessera prende forma. Un milione e 200 mila metri cubi di nuovi edifici, stadio e nuovo casinò, alberghi, centri sportivi e del divertimento, centri commerciali, uffici. Una nuova città in gronda lagunare che il sindaco Cacciari ha difeso a spada tratta. Firmando lui stesso la delibera in giunta superando così anche le perplessità dell’assessore all’Urbanistica Gianfranco Vecchiato. Alla fine a sostenere il progetto la maggioranza dei consiglieri del Pd e del Pdl. Contro, il leghista Alberto Mazzonetto, che ha presentato una mozione (respinta) per il ritiro definita illegittima. Molina e Casson (Pd), Caccia (Verdi), Bonzio (Rifondazione), Italia dei valori (Filippini, Lastrucci, Guzzo), Gruppo Misto (Conte e Pepe). Perplessità anche nel Pdl. Cesare Campa è uscito dall’aula, il presidente Renato Boraso (Pdl) ha proposto 25 osservazioni, tutte respinte e una mozione che prevede la riduzione delle cubature dei nuovi edifici. Approvata invece la mozione proposta da Pomoni (Pdl) e Borghello (Pd) per suggerire alla giunta di tener conto degli impatti delle nuove strutture commerciali e ricettive sull’equilibrio commerciale e turistico. Istanza che era stata ribadita nel pomeriggio dai rappresentanti di commercianti e albergatori.

Il sindaco Cacciari ha illustrato per la terza volta in due giorni dati e ragioni della delibera. «Per noi il percorso è legittimo», ha detto, forte del parere espresso dall’avvocatura civica e dal dirigente di Urbanistica Oscar Girotto, «non si può rinviare, perché il termine posto dall’articolo 46 è perentorio. Ognuno è libero di ricorrere al Tar contro la delibera se la ritiene illegittima, ma io mi prendo la responsabilità di andare avanti». Il pubblico ci guadagna, secondo Cacciari, perché con questa operazione potrà costruire a costo zero il nuovo stadio coperto e il Casinò, oltre al bosco di 100 ettari e il il valore dei suoi terreni aumenta. Altri 17 mila metri quadrati andranno per lo stadio coperto, 50 mila metri quadri per le strutture commerciali 150 mila per gli uffici, poi il palasport e centro congressi. «I dettagli e le cubature saranno discussi quando si parlerà del Pat, il Piano di assetto del territorio», dice Cacciari, «ma intanto questo progetto non lo possiamo fermare».

Quanto alle Olimpiadi, il sindaco precisa: «Le Olimpiadi sono arrivate dopo, e se la candidatura sarà accettata», dice, «potremo aggiungere anche piscina e palasport oltre al villaggio olimpico. In caso contrario la candidatura non andrà avanti, perché solo un matto può pensare di portare a Marghera, dove le aree sono ancora inquinate, il grande pubblico e le discipline sportive». Un tema, quello delle Olimpiadi, che deve aver convinto anche la Lega in Regione - tra i principali sostenitori dei Giochi 2020 - a non spendersi troppo per fermare la delibera. Anche se il partito veneziano ha sostenuto apertamente la battaglia del consigliere Mazzonetto. «La Confindustria dice che tutto va bene, non sono d’accordo», ha detto ieri Boraso, «non possiamo aggiungere metri cubi al territorio. In quell’area ci sono già i metri cubi dell’Aev, Dese, Campalto, Veneto city». Dibattito e polemiche nella notte.

Domenica 17 gennaio

Le aree del Casinò valorizzate

un «jackpot» da 140 milioni di euro

di Enrico Tantucci

Operazione che assesta in un «battibaleno» i conti della società

Un «jackpot» patrimoniale da circa 140 milioni di euro. E’ quello che ha «vinto» istantaneamente la Casinò spa con l’approvazione in consiglio comunale alla Variante al Prg che dà il via al famoso Quadrante di Tessera, anche se manca ancora l’ultimo sì della Regione per la definitiva ufficializzazione. I circa 400 mila metri quadri di terreni agricoli di proprietà della Marco Polo srl - la controllata della casa da gioco, che avrà il compito di costruire stadio e nuovo casinò nell’area - si sono infatti tramutati, dopo il sì alla Variante, in terreni edificabili, con un incremento di valore commerciale di quasi una ventina di volte, rispetto a quello precedente, intorno agli 8 milioni di euro.

Il risultato è appunto il possesso di un’area pregiata - a due passi da Venezia e dalla laguna - che vale appunto ora (ed è destinata a crescere) intorno ai 140 milioni di euro, anche se da essa andranno poi “scontati” gli oneri di urbanizzazione relativi alla costruzione di Casinò e Stadio, per alcune decine di milioni di euro.

Non a caso, la Casinò spa starebbe ora pensando a una possibile fusione con la Marco Polo srl, per portare i benefici nel proprio bilancio 2010 che è comunque a questo punto “blindato” - al di là dei tagli di spesa già programmati e della riduzione di circa 6 milioni di euro del contribuito assicurato al Comune sui propri incassi con la convenzione modificata, che porta a circa 93 milioni e mezzo di euro il «tesoretto» per Ca’ Farsetti, rispetto agli iniziali 107 milioni annui - senza necessità di ricapitalizzazioni.

Si era chiuso con un «rosso» di circa 20 milioni di euro il bilancio consuntivo 2008 della casa da gioco, ma il passivo non si era scaricato sulle casse di Ca’ Farsetti, grazie all’operazione di ricapitalizzazione già attuata dalla Casinò spa, aumentando il capitale sociale da 8 a 48 milioni di euro, con il conferimento patrimoniale dell’ex Casinò del Lido e degli arredi di Ca’ Vendramin Calergi da parte del Comune. Successivamente, il capitale era stato ulteriormente elevato oltre i 60 milioni di euro.

Anche il consuntivo 2009 - dopo il forte calo degli incassi nell’ultimo anno - vedrà il bilancio della Casinò spa in passivo di qualche milione di euro, ma l’operazione di valorizzazione patrimoniale sui circa 400 mila metri quadri di terreni del quadrante di Tessera porrà la società presieduta da Mauro Pizzigati in una situazione di tutta tranquillità sul piano economico, nonostante l’andamento degli incassi. Il 2010 è però partito piuttosto bene, con una media di circa 800 mila euro al giorno di incasi e gli ultimi dati statistici resi noti Giocomews mostrano che nel biennio «orribile» 2008-2009, il Casinò veneziano è quello che - dopo Campione - ha retto meglio alla crisi delle case da gioco italiane, seguita da Sanremo e Saint-Vincent, pur con una flessione vicina al 16 per cento nei due anni.

E, in prospettiva - con il nuovo Casinò all’americana in stile Las Vegas da realizzare, con albergo, a Tessera - altri introiti arriveranno dalla vendita dell’attuale Casinò di terraferma di Ca’ Noghera, destinato probabilmente a trasformarsi da casa da gioco in megacentro commerciale, anch’esso ceduto a caro prezzo.

Postilla

La città quale il mondo l’ha conosciuta e amata sta crepando. Annotiamone quattro episodi hard dell’imprevista agonia. 1) Le gigantesche opere che sono state realizzate alle Bocche di porto, utili solo ai cementieri e al consorzio che li rappresenta, poiché le barriere mobili non funzioneranno mai e le condizioni della laguna stanno peggiorando. 2) Le “valorizzazioni immobiliari” che avvengono al Lido, con il pretesto di trovare finanziamenti per il nuovo Palazzo del cinema (un alacre ex assessore della giunta Cacciari e un nuovo commissario straordinario che sarà nominato da Berlusconi concorreranno in questa operazione). 3) L’avvio, di un pesante insediamento in margine alla Laguna, oggi chiamato Tessera City, una vecchia idea di De Michelis avanzata alla fine degli anni 80, ripresa e portata alla vittoria dalla coppia bipartisan Massimo Cacciari e Giancarlo Galan. 4) Una metropolitana sublagunare che lega Tessera City a Venezia e al Lido (scaricando altre migliaia di turisti nella città storica) per ricucire il tutto e agevolare la “valorizzazione immobiliare” degli antichi sestieri. Questi sono gli elementi materiali del contesto nel quale Venezia corre verso la sua definitiva scomparsa. Allegramente, fra poco è carnevale.

La vicenda di Tessera City è esemplare dell’arroganza e della presunzione d’impunità dei suoi protagonisti, come del resto del disprezzo che i governanti dimostrano per la legalità. Una rapida sintesi degli avvenimenti basterà a dimostrarlo. Nel 2004 il comune di Venezia approvò una variante che raddoppiava i volumi già previsti dal vigente PRG per la realizzazione di uno stadio e numerosi annessi (commercio, ricreazione, ricettività, uffici ecc.). Passarono gli anni: la Regione non approvò, e il comune non sollecitò. Nel frattempo avvenivano transazioni immobiliari nelle aree circostanti, dove si comprava a prezzi agricoli. A un certo punto il maggiore proprietario (la Save s.p.a, che gestisce l’aeroporto), cui si accodò subito la società di proprietà comunale che gestisce il casinò, presentò alla Regione una ulteriore “osservazione” alla variante del 2004. Avvennero incontri pubblici tra i rappresentanti delle due società, il sindaco Cacciari e il presidente Galan, nei quali i quattro concordarono trionfalmente ed approvano il piano presentato dalle società.

La Regione restituisce nel 2009 la variante del 2004 al Comune e gli dice: te l’approvo, se tu accetti formalmente la nuova soluzione delle società.

Una procedura mai vista: una osservazione presentata da privati quattro anni dopo l’approvazione della variante, concordata coram populo dai portatori d’interessi pubblici e privati: una modifica non marginale (si tratta del raddoppio della cubatura già raddoppiata); una modifica non nell’interesse pubblico (i promotori dichiarano che la modifica serve perché “bisogna produrre risorse”). Oltre un milione di metri cubi sul margine della Laguna, in una delle aree definite a più alto rischio idraulico dell’intero Veneto. Un mega-affare senza nessuna relazione con qualsiasi analisi dei fabbisogni locali. Affari, e basta.

Il sindaco-filosofo dichiara (vedi il Gazzettino del 16 gennaio) “è il giorno più bello della mia vita”. Anche per i proprietari delle azioni della società che gestisce il casinò: le azioni sono aumentate in poche ore del 20%, e il casinò ha vinto “un jackpot patrimoniale da circa 140 milioni di euro”.

La maledizione di Venezia: troppi turisti, pochi abitanti. «E dov’è la novità? Non certo la differenza tra 60.000 residenti e 59.999». Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, con una battuta ironica, sdrammatizza il segnale d’allarme. Ovvero gli ultimi dati sulla «fuga» della popolazione dal centro storico lagunare. Ormai ridotto a «una collezione di monumenti» (questa, invece, è la sintesi dell’ex primo cittadino, Paolo Costa, oggi presidente del Porto). Per l’esattezza, il numero dei residenti segnalato dall’Ufficio statistica del Comune (rilevazione del 21 di ottobre) è 59.984. Cifra più cifra meno non fa la differenza, ma a preoccupare è la tendenza. Se ne va circa un abitante al giorno. Irreversibile. Così, l’andare sotto i 60.000 assume anche un significato simbolico. Venezia e i suoi abitanti, insomma, sono numericamente assimilabili ai nuclei di Molfetta, Crotone, Vigevano. Messi insieme, i veneziani doc riempirebbero lo stadio di Firenze.

La curva dell’erosione, lenta e costante, tradotta in cifre: 174.000 (Venezia e Giudecca) nel 1951, circa 100.000 nel ’78. 80.000 nel 1989, 70.000 nel ’96. Fatto sta che un gruppo di «indigeni » (riuniti nel sito venessia. com) si prepara a celebrare li funerale della città. Il sindaco- filosofo, c’è da scommetterlo, bollerà la cerimonia come folklore. Cacciari del resto, non è pessimista. Sostiene, infatti, che oggi non ha senso considerare il centro storico staccato da Mestre, da Marghera. Poiché quel che succede a Venezia, più o meno succede anche a Milano e a Roma: per varie ragioni, la gente tende a trasferirsi nelle cinture urbane. Il fatto è — e qui starebbe la differenza — che a Venezia il distacco fisico tra centro e periferia è ben visibile: il ponte della Libertà unisce/ divide la terraferma dalla città lagunare. Ma che cos’è rimasto, obiettano altri, del tessuto urbano? I veneziani fuggono, chiudono le botteghe storiche, gli artigiani danno forfait. Victor Gómez Pin, docente di Filosofia a Barcellona, si è aggiudicato il Premio 2009 dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, con un articolo pubblicato dal País , che denuncia le ricadute negative dello spopolamento della storica e famosa Serenissima.

«Venezia — scrive — si svuota di veneziani e si popola di centinaia di migliaia di turisti che dall’alba al tramonto vagano, guida alla mano, alla ricerca di qualche briciola dell’anima cittadina...». Luca Marzotto, amministratore delegato di Zignago holding, quest’anima riesce a vederla. «Il mio lavoro è a Portogruaro, ma da qualche anno vivo a Venezia — racconta —. Qualche disagio c’è, tuttavia il contesto è così affascinante che ne vale la pena». L’imprenditore Luigino Rossi e la moglie Roberta risiedono in Laguna, soprattutto per i bambini. «I pericoli sono inesistenti, le scuole sono buone, non c’è traffico», spiega lei. «Certo, non tutti possono permetterselo, la vita è costosa», ammette lui. Rossi, che è anche presidente di uno dei 24 Comitati privati per la salvaguardia di Venezia, rilancia una proposta, che già fece capolino in passato: «Dobbiamo far diventare Venezia una città speciale, una sorta di porto franco. Ciò servirebbe non solo ad attrarre capitali, utili per la vita di questa città fragile, ma le agevolazioni fiscali ed altri benefici ne stimolerebbero il ripopolamento ».

Paolo Costa punta invece sul lavoro. «È una mia vecchia idea, in cui continuo a credere — afferma l’ex sindaco —. Per trattenere i veneziani, ma anche i forestieri, occorre creare un tessuto produttivo moderno, che attragga colletti bianchi. Servono, però, agibilità, trasporti veloci, Ecco perché ritengo indispensabile la metropolitana sublagunare». «Vene­zia con pochi abitanti langue nel degrado sociale e materiale — osserva Elio Dazzo, neopresi­dente dell’Apt —. Meno buro­crazia e più agevolazioni aiute­rebbero a portare abitanti nel centro. Inoltre, si potrebbero in­centivare taluni settori. Penso alla creazione di atelier, di aree urbane per residenze di artisti». Il lamento sulla città in decli­no, a onor del vero, riemerge puntualmente quando cala il si­pario sulla sfavillante stagione mondana e culturale. Non si di­ceva, infatti, nei mesi scorsi, du­rante la Biennale, la Mostra del Cinema, mentre si inaugurava, tra folla e consensi, Punta della Dogana del magnate Pinault, «com’è grande Venezia»? Mari­no Folin, presidente della Fon­dazione Iuav, invita (come il sindaco Cacciari) a smetterla di vedere il bicchiere mezzo vuo­to. «Venezia non è mai stata vi­tale come ora — asserisce —. La fuga? Le statistiche sono fuorvianti. Abitare a Venezia non significa per forza avere la residenza. Moltissimi, italiani e stranieri, la abitano molti mesi l’anno. E’ linfa nuova che spaz­za via i luoghi comuni».

C’era una volta la Punta della Dogana. Un punto cardinale, un luogo magico. L’ombelico di Venezia, della laguna, un tempo dell’intero Adriatico. L’anti-monumento verso cui guardano tutti i monumenti, a incominciare dalle chiese del Palladio che si affacciano sul Bacino di San Marco. Se uno vuole capire che cosa è urbanistica vada a fare quattro passi su quel triangolo di terra che separa le acque del Canal Grande da quelle del canale della Giudecca. Credo che pochi edifici al mondo siano riusciti meglio ad integrare contesto ambientale, funzionalità, estetica. Un controcanto tra il massimo del barocco (e del sacro) del cupolone di marmo della Madonna della Salute di Baldassarre Longhena e l’essenzialità piana, bassa della teoria dei saloni di mattoni, depositi di granaglia e mercanzie varie (navate di una cattedrale laica al lavoro e ai mercati) che formano la Dogana da Mar disegnata (nel 1677) da Giuseppe Belloni, un ingegnere idraulico, “sottoposto del Magistrato alle Acque”, che per rispetto di tanto contesto e nella consapevolezza dell’azzardo dell’inserimento si è concesso (oltre all’essenziale) solo un simbolico segno architettonico, una torretta che fa da piedistallo ad un mappamondo (una sfera dorata, un punto luminoso) e una fortuna alata che ancora oggi segna la direzione del vento ai naviganti. Insomma uno dei tanti contrasti che catturano il cuore e la testa del visitatore della città d’acqua che ha ispirato Calvino per parlare della città, di qualsiasi città immaginabile.

Non solo. L’edificio in sé risolve in pianta – con evidenza assoluta – una tensione tra la proiezione dell’angolo acuto del triangolo che si slancia in mezzo al Bacino di San Marco, e le capriate ortogonali dei magazzini, scansite dalle grandi porte d’acqua sovrastate da archi nei due prospetti, come onde mosse dalla prua della nave Dogana. Un “taglio” a pelo d’acqua e una “increspatura” ortogonale lunga otto capriate a scalare. Cesure e congiunzioni.

Una lettura così facile e persino banale della “fabbrica della Dogana” che si faceva al primo esame di restauro della indimenticata professoressa Egle Trincanato all’Istituto universitario di architettura. Un corso che evidentemente non ha frequentato l’archistar Tadao Ando, giapponese “architetto autodidatta”,” meglio noto per edifici che ha progettato interamente” (come si legge onestamente nella, brutta, pubblicazione, Punta della Dogana François Pinault Fondation, Beaux arts èdition, 12 Euro), grande esperto di cemento, tanto da averlo definito “il marmo del XX secolo”, giunto in laguna compreso nel pacchetto “chiavi in mano” (restauro, allestimento, gestione) del nuovo centro espositivo permanente d’arte contemporanea che lo Stato italiano nelle sue varie articolazioni istituzionali e sfaccettature politiche (ministeri, sopraintendenze, Regione, Comune) ha deciso di appaltare, offrendo in concessione per 99 anni la Punta della Dogana a privati facoltosi. Ma a presentarsi sono stati solo due “collezionisti”: la più nota fondazione Guggenheim e, il vincitore, François Pinault, già subentrato alla famiglia Agnelli nella gestione di palazzo Grassi.

Non sappiamo e non vogliamo discutere qui se Venezia avesse più bisogno di un nuovo museo d’arte, piuttosto che di una adeguata sede per l’Accademia delle Belle Arti, o per gli archivi storici, o per sevizi sociali ai residenti o d’accoglienza per turisti, che potrebbero accampare qualche diritto di prelazione essendo la vera moderna mercanzia della città. Basti sapere che nessun dibattito ha coinvolto le assemblee elettive e tantomeno i cittadini. La questione è che il progetto del signor Ando ha letteralmente sventrato due degli antichi capannoni (per costruirci un cubo del suo prezioso cemento armato), tagliato in due in altezza altre capriate, oscurato con una grata di bande di ferro intrecciato tutti i portali, compresi i finestroni del “belvedere”, interdetto l’entrata principale dalla Torre, aperto lucernai, fatto sparire pavimentazioni antiche, montato uno scatolotto di vetro sulla fondamenta a protezione della scultura di Charles Ray, Boy with Frog. Prossimamente saranno eretti due obelischi (in cemento, vera ossessione di Ando) sul campo della Madonna della Salute, contro cui si sta però battendo Italia Nostra.

14 mesi il tempo del restauro, 20 milioni di euro il costo dei lavori, cinque mila metri quadrati la superficie utile per esporre le passioni private accumulate da un multimiliardario con un patrimonio stimato dalla rivista americana Forbes nel 2007 in 14,5 miliardi di dollari, questo lo rende il 34esimo uomo più ricco del mondo. Grande amico dell'ex-Presidente della repubblica francese Jacques Chirac e dell’ex ministro alla cultura Jean-jacque Aillagon, che di François Pinault scrive sul suddetto catalogo una agiografia esilarante: “Nessun atavismo lo predisponeva, nessuna eredità lo invitava, nessun contesto lo determinava. E’ dunque una sorta di libero arbitrio o, ad ogni modo, una singolare capacità di non opporre alcuna resistenza inutile alla grazia, al richiamo, alla vocazione che lo stimolavano, che gli ha permesso (sempre a François Pinault, ndr) di fare dell’arte la passione essenziale di una vita, peraltro già piena”. Un tempo queste parole venivano usate per principi e papi che si distinguevano per mecenatismo. Con il neoliberalismo i grandi committenti diventano gli imprenditori. Ma come un tempo - quando si studiava, oltre che il restauro anche la storia sociale dell’arte - ci permettiamo di mettere in discussione il loro disinteresse. Dovete sapere che il nostroFrançois Pinault possiede e gestisce la catena di vendita e produzione di beni di lusso PPR ed è anche proprietario della holdingArtemis S.A.che possedeva Converse (ora di proprietà della Nike), Samsonite, il Vail Ski Resort nel Colorado e la prestigiosa casa d'aste Christie's. Insomma compra e vende marchi, inventa e promuove mode, gusti, stili di riferimento. In una società tecnologicamente avanzata come la nostra, dove le difficoltà non risiedono più nel produrre (a quello ci pensano i nuovi proletari di Cindia) ma nel riuscire a vendere, la creatività, le dimensioni immateriali, gli attributi simbolici ed estetici sono ciò che più fa aumentare di valore le merci. Gli oggetti materiali sono solo supporti poveri, quel che conta nella produzione di plusvalore è la capacità delle merci di attrarre e stimolare i consumatori, di allargare i mercati, di accelerare l’obsolescenza dei messaggi. Questo, signori, è biocapitalismo; quello che ti legge nel cervello e che ti scorre nelle vene.

Nel signor Pinault l’arte come forma di esplorazione dei sentimenti umani si fonde magnificamente con l’arte di espandere i propri business. Peccato che per farlo abbia deciso di appropriarsi di uno dei più bei luoghi del mondo e di adattarlo alle proprie finalità, megalomani e banalizzanti. Peccato che le istituzioni culturali (sopraintendenze, università, commissioni di salvaguardia) siano ridotte a zerbini dei promotori/costruttori. Peccato che le istituzioni politiche intendano il loro ruolo come ufficiali liquidatori del suolo e dei beni pubblici.

Franco Mancuso, Venezia è una città. Come è stata costruita e come vive, introduzione di Francesco Erbani, Corte del Fòntego editore, Venezia 2009, 22,00 €. Un nuovo libro che completa il libro di Luigi Scano, Venezia. Terra e acqua, delle stesse edizioni.

L’unica cosa gratuita è forse l’ottimismo. Per il resto il libro “Venezia è una città”, scritto con competenza professionale e passione civile dall’architetto veneziano Franco Mancuso (Corte del Fontego editore), è una vera e documentatissima summa sul farsi città di quella che in origine fu una misera costellazione di sparsi insediamenti di profughi disperati.

Ancora un altro libro su Venezia?, potrà dire qualcuno, ma avrebbe torto: Mancuso, infatti, docente di Progettazione urbanistica allo Iuav, guarda alla città con l’occhio del professionista più che dello storico, e racconta da una prospettiva in qualche modo inedita come con pochi materiali e inventando una sorta di arte del riciclo ante litteram i veneziani abbiano costruito case e palazzi, e come questa architettura, eretta non sulla terra ma sull’acqua resa terra, sia stata nello stesso tempo urbanistica, abbia cioè dettato le forme della città, e come questo processo, pur nel mutare delle forme esteriori, abbia sempre seguito delle regole che i veneziani hanno elaborato nei secoli per rispondere ai problemi posti da un’ambiente unico e particolare.

Mancuso identifica la regola delle regole, mostra cioè il metodo che solo può dare ragione delle tante domande che Venezia pone, ed esso in fondo è semplice, mutuato dalla secolare gestione della laguna, e si può riassumere in una sola parola: sperimentazione. “Scomenzàr”, dicevano i veneziani: ovvero avviamo un intervento in laguna e vediamo che succede, poi decidiamo se andare avanti. Per questo ancor oggi molti canali a Venezia si chiamano “scomenzera”.

Oggi forse questa prudenza si direbbe “sostenibilità”, “conservazione degli equilibri”, e sembra l’uovo di colombo, ma la chiave del successo non è tanto nel metodo in sé quanto nell’avere la forza di applicarlo, perché il suo primo e fondamentale corollario è il subordinare l’interesse parziale, l’utile contingente, all’interesse collettivo e al bene futuro. E il secondo corollario è il poter tornare indietro. Hai detto niente!

Visto il metodo, Mancuso ha anche mostrato come la Modernità lo abbia stravolto, cominciando a piegare nell’Ottocento la laguna alle ragioni della portualità e nel Novecento la gronda lagunare alle esigenze dell’industralizzazione. Rotture traumatiche e irreversibili, che ancora producono i loro effetti, alle quali se ne assommano di nuove, che Mancuso elenca: la pesca della vongola verace, che qualche apprendistra stregone ha introdotto nel 1983 in laguna, condotta con metodi distruttivi; il Mose, “che nulla ha – avverte Mancuso – degli essenziali caratteri della gradualità, della sperimentalità e della reversibilità”; le grandi navi da crociera, incompatibili con la città, per le quali l’Autore si augura un avamporto in mare ma che invece, come è stato annunciato in questi giorni, l’Autorità Portuale continuerà a far entrare in laguna; un turismo invadente e onnivoro, che travolge coi suoi numeri immensi residenzialità e servizi.

Ebbene, qui può cascare l’asino: è proprio l’aver svelato il metodo e l’aver visto come la Modernità lo abbia stravolto a non giustificare l’ottimismo di Mancuso il quale, dopo aver descritto col puntiglio di un innamorato tradito come Venezia stia perdendo le sue funzioni di città, si dice certo che “Venezia è ancora una città”. E con lui lo dice nella sua bella prefazione anche Francesco Erbani, convinto che Venezia “città non può che restare in futuro”.

Davvero ne sono sicuri? Davvero ne siamo sicuri? Il libro verrà presentato dall’Autore il 7 ottobre prossimo all’Ateneo Veneto: sarà una buona occasione per discutere se i segnali di recupero, che pure ci sono e che Mancuso ha indicato, siano sufficienti a fermare una tendenza alla non città o alla città cartolina di se stessa che ad altri sembra invece irreversibile.

Se non trovate il volume in libreria potete chiederlo direttamente all'editore, Corte del Fòntego

Sul dibattito attorno alla proposta di realizzare a Venezia nel 1997 l'Expo mondiale, riceviamo e volentieri pubblichiamo un intervento di Edoardo Salzano, presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica.



Nell'ultimo dei suoi interventi sulla proposta «Expo a Venezia» ( Repubblica del 19 novembre), Bruno Visentini accenna al problema dell'Arsenale, il quale, secondo gli sponsor e i sostenitori della proposta, dovrebbe costituire la clliegina sulla torta dell'Esposizione internazionale 1997 (sempre che, non prevalendo il buon senso, la manifestazione debba tenersi effettivamente a Venezia). E nella sua recente intervista a questo giornale (26 novembre) Gianni De Michelis dichiara che la localizzazione dell'Expo all'Arsenale è «una scelta abbastanza obbligata» (come quella di disporre sulla sponda lagunare una grande Disneyland). Il riferimento all'Arsenale mi sembra particolarmente utile per far comprendere come a Venezia servano ben altre cose che non l'Expo, e come anzi le volontà (o velleità) che stanno dietro quest'ultima abbiano già allontanato la soluzione già alcuni rilevanti problemi. Valgano i fatti.

Nel 1982, promotore l'allora ministro per i Beni Cultura li, Enzo Scotti, il Comune e i tre ministeri interessati (Difesa, Beni Culturali e Finanze) avevano raggiunto un accordo volto a riaprire alla città l'Arsenale, oggi largamente inutilizzato, per una serie di utilizzazioni pienamente rispettose del carattere monumentale e della struttura storica del complesso, e funzionali rispetto a una strategia di rilancio economico di Venezia: si trattava di offrire spazi alla cantieristica minore, di fornire una sede ai laboratori del Consiglio nazionale delle ricerche già presenti a Venezia rafforzandone la consistenza con un nuovo istituto volto allo studio e alla sperimentazione della cantieristica, e infine di restituire alcuni spazi al servizio del patrimonio culturale della città.

Sulla proposta non si andò avanti, con gli approfondimenti e le verifiche che sarebbero state necessarie. Essa fu di fatto bloccata solo perché il ministro De Michelis e i suoi uomini vi opposero la velleità di utilizzare l'Arsenale come una grande struttura in cui arte contemporanea e mercato, innovazione tecnologica e incentivazione di tradizionali flussi turistici, convenienze private e sostegni pubblici, avrebbero dovuto accomodarsi come un pulcino di struzzo nel guscio d un uovo di passero.

E' la proposta nota come «Beaubourg all'Arsenale»: la città la respinse, ma essa fu tale da paralizzare ogni iniziativa per tl recupero dell'Arsenale. Tant'è che oggi il grande complesso è ancora vuoto e chiuso, e se i grandi progettisti internazionali chiamati da De Michelis a progettare una faraonica piramide sulle antiche strutture del Sansovino e del Da Ponte hanno ripiegato i loro disegni e sono tornati a New York, restano anche largamente inutilizzati i finanziamenti destinati dallo Stato alla liberazione degli spazi e a un corretto restauro delle strutture arsenalizie.

Rievocare questa vicenda è utile oggi. La proposta «Expo a Venezia» è infatti una chiara enfatizzazione della proposta «Beaubourg all'Arsenale»: ne esprime la stessa «linea di pensiero», è funzionale alla stessa strategia, è gravida degli stessi rischi. In realtà, ciò che si vuole è dare un piglio «moderno» all'antica prassi di vendere la «merce» Venezia sul mercato internazionale, sollecitando i più potenti interessi economici mondiali con l'intenzionne di manovrarli, ma in concreto lasciando a essi di foggiare il futuro della città. E', insomma, offrire la «vetrina» costituita dal prestigio di Venezia per esporre qualsiasi prodotto vendibile, e adoperare la sinergia tra le attrattive della città lagunare e la capacità di richiamo delle grandi «firme» dell'economia mondiale per i incrementare ulteriormente t flussi dei visitatori (e dei potenziali consumatori). In definitiva, ciò che ci si propone è di sfruttare il «giacimento» costruito da secoli di cultura e lavoro così come si sfrutta una miniera di carbone: con la prospettiva, se non l'intenzione, di disperdere in fumo ogni frammento.

Ma il rischio maggiore non è che una simile proposta si realizzi. Già il presidente della Giunta regionale, il Dc Carlo Bernini, ha compiuto due non indifferenti correzione di rotta rispetto all'impostazione demichelislana (e Bernini rappresenta una forza politica che, come dice Visentini, se è subalterna a Venezia, è però egemone. nel Veneto). La prima, è di spostare l'epicentro della proposta Expo dà Venezia alla terraferma. La seconda, è di sottrarre la proposta all'esclusivo gioco degli interessi privati e di ricondurla nelle sedi istituzionali. La mia opinione e che allontanare di qualche chilometro l'Expo da Venezia non scongiurerebbe l'accelerazione del degrado della città, inevitabilmente provocato da sterminati flussi turistici; del resto, utilizzare l'Arsenale non come cuore dell'Expo, come vorrebbe De Michelis, ma come sua «biglietteria», come ha proposto Bernini, provocherebbe identici guasti.

Tuttavia, se sulla proposta sponsorizzata da De M1chelis e da Bernini, si aprirà una riflessione seria, poco permeabile agli immediati tornaconti economici e alle miopie munìcipalistiche, fondata sui fatti e su valutazioni realistiche (proprio come quella che Visentini auspica) sarà facile dìmostrare che la contraddizione tra l'Expo e Venezia e la conservazione del patrimonio culturale della città non è sanabile.

C'è da credere, quindi, che i rischi più gravi saranno scongiurate. Non sarà scongiurato però, se e finché della questione si continuerà a discutere, il rischio di distrarre una volta ancora l'attenzione, l'impegno, le risorse, il tempo, dalla soluzione dei problemi reali di Venezia. Che non sono pochi, e che troppe volte (l'Arsenale insegni) sono stati lasciati a marcire perchè al lavoro paziente e quotidiano, teso a costruire soluzioni ragionevoli realistiche, attento ai consensi possibili e già maturi, si è preferita la fuga in avanti di proposte a volte fantasiose spesso devastanti sempre naufragate nell'impotenza.

A sentir loro, ci sarebbe un gruppo di benefattori che per puro amore della laguna gestiscono in perdita una ventina di aziende faunistiche venatorie su 1.600 ettari di valli da pesca (bacini arginati con acque a livello controllato che coprono un terzo della intera laguna), con relativi “casoni”, “botti” da caccia, cavane. Si chiamano Zacchello, Andrea Riello, Vitaliano Rossi, Giuseppe Stefanel, Ferruzzi, Marzotto, Foscari Widman e altri fortunati. Panto, meno fortunato, si recava in valle in elicottero. Servono per incontri conviviali (Galan è un noto frequentatore) e spensierata vita familiare all’aria aperta. “Le valli non sono un guadagno, al massimo un blasone”, ha dichiarato il noto avvocato prof. Orsoni, dopo aver intascato le parcelle dai presunti “proprietari”.

Per sapere che le valli da pesca sono proprietà demaniale inalienabile basta leggere una delle tante ricerche storiche condotte fin dal dopoguerra. Da ultimo, in edicola si trova ancora una pubblicazione di Elvi Longhin, edita dalla Provincia di Venezia. Non solo la Serenissima Repubblica di Venezia, ma anche lo stato asburgico Lombardo-Veneto e il Regno d’Italia avevano ben delimitato le acque dalla terra ferma. Anche lo Stato repubblicano con una sentenza del tribunale superiore delle acque pubbliche del 1950 stabiliva intelligentemente che: “la laguna veneta costituisce un sistema idraulico unitario che non consente distinzioni tra le singole componenti le quali invece nel loro complesso organico dimostrano attitudine a fini di pubblico interesse di tutta la laguna nella sua interezza, comprese le valli costituenti la così detta laguna morta”. Gli studi scientifici sugli ecosistemi di transizione, sulle biocenosi e la biodiversità non hanno fatto che confermare l’unitarietà dell’ambiente lagunare. Infine la legge speciale per la salvaguardia di Venezia del 1973 imponeva una gestione del regime delle acque integrato anche nelle valli.

Come sia potuto accadere che le varie amministrazioni dello stato (Magistrato alle Acque in primis) abbiano nel corso degli anni chiuso tutti gli occhi di fronte a translazioni immobiliari e fondiarie del tutto illegittime fa parte del capitolo connivenze e mala-amministrazione pubblica.

Per contro, se le cose oggi finalmente sembrano prendere un verso diverso, il merito va riconosciuto ad uno sparuto gruppo di ambientalisti (Lega per l’Ambiente con Angelo Mancone, Natura Viva con Pino Sartori, Urbanistica Democratica con Giorgio Sarto, i Verdi con Michele Boato) che iniziarono una vertenza giudiziaria a fine anni ’80, guidati dagli studi di un appassionato funzionario provinciale del Lido, Sergio Sartori, e al tenace avvocato Luca Partesotti. Gli esposti furono presi sul serio da un integerrimo avvocato dello Stato, Michele Botta, che dopo alterne vicende sono giunti ora alla sentenza di secondo grado della Corte d’Appello, presieduta da Nicola Greco. Anche la causa penale è stata portata fino in Cassazione con l’accertamento della demanialità delle valli.

Insomma, finalmente, i tribunali hanno ristabilito un principio vitale per la Laguna. Gli attuali tenutari usurpatori – pur prosciolti in sede penale - sono chiamati a restituirle e a pagare le indennità di occupazione mai versate. Uno studio della Intendenza di Finanza di qualche anno fa aveva calcolato un risarcimento di 400 milioni di euro, più interessi. Ma di questo si occuperà il tribunale civile con separato giudizio.

Tutto bene, quindi? Una battaglia di giustizia e di salvaguardia dell’ambiente giunta a buon fine?

C’è da superare ancora il terzo grado in Corte suprema di Cassazione, ma soprattutto c’è la canea mediatica e politica sollevata dai signorotti “estromessi” dai lori fondi che chiede a gran voce una iniziativa legislativa a sanatoria. Vari deputati della destra avevano già tentato negli anni passati. E solo grazie ad una attenta interdizione era stato possibile impedire la ennesima alienazione di un bene pubblico. Le tesi a favore della privatizzazione si riferiscono al fatto che le pubbliche amministrazioni non sarebbero in grado di sostituirsi nella gestire delle valli con efficienza e criteri di conservazione ambientale. Alle istituzioni pubbliche mancherebbero i denari (anche se i potenziali produttivi della vallicoltura semintensiva non sembrano affatto irrisori) e soprattutto le capacità tecniche. Questo secondo punto è sicuramente vero. Le prove storicamente date dal magistrato alle Acque sono semplicemente disastrose. Del resto, al di là del nome magniloquente, si tratta di un ufficio periferico del Ministero alle infrastrutture (ex Lavori Pubblici), la cui vocazione è appaltare lavori al Consorzio privato di imprese Venezia Nuova.

Per trasformare questa vittoria giudiziaria in un reale passo avanti nella battaglia per la salvaguardia della laguna occorrerebbe un ente di gestione di scopo, con una missione specifica, come esistono in tutti gli ambienti con grandi valenze naturali in pericolo di degrado irreversibile. Servirebbe il Parco. Se fossimo in un paese a normale sensibilità civica e ambientale, la proclamazione della demanialità delle valli dovrebbe essere la molla per far scattare una iniziativa locale, delle associazioni, delle comunità dei residenti, dei Comuni, della Provincia, della Regione per rivendicare l’uso sociale e pubblico di una risorsa naturale, paesistica, economica che non ha pari al mondo. Una occasione unica. Ci sono esempi vicini (le valli polesane autogestite dalle cooperative di miticoltori) e lontani (il parco naturale delle Camargue sul delta del Rodano) che ci mostrano come si potrebbe fare. Anni fa la Giunta Galan non volle inserire le valli da pesca tra i beni dell’odiato stato centrale da trasferire alle regioni: gli amici non andavano disturbati. Né la Regione ha mai voluto rispettare le sue stesse leggi e istituire un parco della laguna. La legge nazionale sui parchi ha proprio nell’omissione della laguna di Venezia uno dei suoi punti più deboli. Del resto non mi pare che nemmeno la Provincia e i nove Comuni che si affacciano sulla laguna (Campagnalupia escluso, con i suoi ottimi esempi di valle Averto e valle Millecampi) abbiano alcuna intenzione di occuparsi dei loro beni pubblici. L’unica speranza è che associazioni e comitati così fortemente impegnati contro il Mose, il transito delle grandi navi e altre devastazioni turistico-industriali, sappiano anche occuparsi propositivamente delle inestimabili ricchezze che ancora contiene la laguna veneziana.

Paolo Cacciari

Ecco perché dobbiamo vergognarci

di aver detto "no"

Venezia 2000, Milano 2015. Tre lustri non sono niente, anche se è passato un secolo, la rabbia resta uguale. Sono contentissimo per Milano. 20 miliardi di euro e 70mila posti di lavoro, una vittoria italiana, una sconfitta per la turca Smirne. Con tutta la simpatia per Smirne città mediterranea. Mi offende sentire che Milano punterà in pieno sulla dimensione acquea dei Navigli. Sì, Milano punta sull'acqua per la futura Expo. Giuseppe De Rita uno dei principali intellettuali che si sbilanciarono assieme a Renzo Piano per Venezia oggi scrivono che " Venezia 2000 fu suicidata da una campagna di stampa ben concentrata da goliardiche raccolte di firme e dal prudente ritiro da parte del Governo di allora". Fu preferita Saragozza. La Venezia delle contesse e del Fronte del No vinse la sua partita. Anch'io che all'epoca scrivevo per il Gruppo dell'Espresso nei quotidiani locali, ho fatto parte a quella campagna. Una vera schifezza di cui vergognarsene. Con quei soldi, con il Magnete di Renzo Piano. con i grandi progetti, Venezia e il Veneto avrebbero bonificato Porto Marghera, restituito dignità al sestiere di Castello, recuperato in pieno l'Arsenale, fatto sistema tra le realtà urbane di Padova e Treviso. Oggi che Milano punta sulla sua acquaticità mi vengono in mente le Cassandre degli anni Novanta, i Soloni universitari di allora. Venezia avrebbe subìto la peste di 50 mila visitatori al giorno! Oggi che i turisti sono oltre 20 milioni quegli intellettuali anti-Expo dovrebbero fare pubblica ammenda. Abbiamo sbagliato. l piano urbanistico di Leonardo Benevolo del 1995 era illuminato e utile per la comunità veneziana. Quante occasioni perse dalla insipienza degli amministratori locali. Per curiosità storica ho recentemente letto le cronache del Gazzettino del 1955: alla inaugurazione del cavalcavia ferroviario di Mestre, raddoppiato, tagliava il nastro tricolore il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. I lavori erano stati coordinati dalla provincia di Venezia presieduta dal democristiano Armando Favaretto Fisca. Ebbene, il sindaco comunista Giobatta Gianquinto non vi partecipa per protesta perchè l'opera era "una cattedrale nel deserto". Opera inutile, per le auto private, come inutile era costruire le nuove autostrade. E' passato mezzo secolo e i tempi dettano giustizia. Del povero Giuseppe Volpi, sepolto per pietà ai Frari dalla volonta del futuro papa Giovanni XXIII°, fu scritto che "causò i disastri di Porto Marghera e l'acqua alta". Non è giunto forse il tempo di ripensare il nostro futuro?

(Maurizio Crovato)

Venezia "porto franco"?

Inizia a farsi strada un'idea di autonomia

(da.sca.) Potrebbe essere una nuova sfida per testare la forza della classe politica locale. Comunque un progetto di lungo respiro: Venezia porto franco o, comunque, con una qualche autonomia fiscale e legislativa che dia agli amministratori locali gli strumenti per governare meglio la città. Il tema era stato lanciato a gennaio dall'assessore Mara Rumiz proprio sul Gazzettino, ma non era stato raccolto, passato quasi sotto silenzio. L'assessore aveva citato Barcellona a proposito del tetto alla trasformazione degli edifici residenziali in turistici, un limite che la città catalana ha potuto applicare in forza di una sua autononomia legislativa.«Oggi - aveva detto Mara Rumiz - si deve dare un nuovo valore alla specificità veneziana, parlare non solo di trasferimenti finanziari, ma anche dell'introduzione di normative specifiche per la città, per garantire non solo la sua salvaguardia, ma anche per incentivare attività economiche diverse dal turismo, per portare nuova residenzialità».

Un appello alle forze politiche locali, che se a livello regionale puntano su un federalismo fiscale conaltre sfumature, a livello veneziano hanno glissato. Qualche giorno fa, però, sul sito di Fondaco, società che si occupa di comunicazione istituzionale e di marketing, l'amministratore Enrico Bressan ha ripreso la palla.

«Lo strumento fiscale - scrive Bressan - è l'unico in grado oggi di garantire e programmare il futuro di Venezia. Risorse finanziarie pubbliche per mantenere e valorizzare la città non ce ne sono e quindi è necessario, e non più rinviabile, pensare all'innovazione e a strumenti che possano generarne di alternative. Sono necessari interventi strutturali per evitare il continuo spopolamento ed avviare una stagione di progettazione. E l'unico modo per affrontare e risolvere questi problemi è quello che Venezia diventi fiscalmente zona franca».

«È necessario - aggiunge Bressan - un fisco capace di trattenere coloro che vogliono vivere in città: dall'esenzione totale per l'acquisto della prima casa all'esenzione totale per chi affitta, dalla deducibilità integrale del canone di locazione (sia per residenti che per studenti, questi ultimi finiti gli studi potrebbero decidere di fermarsi definitivamente a Venezia e facendo così magari qualche bella testa pensante anziché andare in cerca di nuovi lidi potrebbe rimanere qui) alla deducibilità totale per coloro che fanno interventi di restauro. Agevolazione massima per le aziende che desiderano aprire una loro sede in città (sia nel centro storico che nelle aree dove è necessaria la riqualificazione urbanistica) questa volta però in modo serio (sedi reali e non fantasma come avviene nei paradisi fiscali) con un periodo minimo garantito di residenza (10 anni) e l'obbligo di offrire nuovi posti di lavoro e quindi nuove opportunità per i giovani. L'esempio in Europa lo abbiamo: l'Irlanda. Da ultimo per reddito pro capite e prodotto interno lordo è diventato in pochi anni il Paese con il più alto tasso di sviluppo perché ha saputo attrarre con misure fiscali intelligenti la disponibilità di numerose multinazionali senza che l'ambiente subisse stravolgimenti».In conclusione, dice l'amministratore di Fondaco «prima dei soldi, è necessario attrarre intelligenze e competenze in forza delle quali individuare i migliori percorsi di sviluppo. Così Venezia può ritornare ad essere la città del futuro. L'invito che rivolgiamo alle istituzioni, a tutti i livelli, è quello di chiedere all'Unione Europea una deroga speciale per il territorio comunale di Venezia (forse in quella sede incontreremo maggiore sensibilità e quindi maggiore chance che tutto ciò si realizzi). Un provocazione, un'utopia, un sogno, forse di tutto un po' ma per raggiungere grandi risultati è necessario pensare in grande

Venezia

Tre aree: l'area delle ...

Tre aree: l'area delle nazioni, il network delle idee, quello della produzione. Un'invasione stimata tra i 45 e i 26 milioni di turisti tra il 1° marzo e il 30 giugno 2000, con una presenza media di 250mila persone al giorno. Erano questi alcuni dei dati dell'Expo 2000 che si sarebbe dovuta tenere a Venezia, un "sogno" che stimolò anche la fantasia dei creativi. Ci fu chi, come gli architetti Emilio Amnasz e Antonio Foscari, arrivò a immaginare uno stadio in mezzo alla laguna raggiungibile sia con l'auto che con la barca, spettacoli su padiglioni e teatri galleggianti, percorsi acquei illuminati. Si parlò di numero chiuso per regolare gli afflussi in città e accessi gestiti con sistemi elettronici. La sede strategica dell'Expo doveva essere l'area delle nazioni, prevista a bordo della laguna nella zona di Marghera o in quella di Tessera, con rivalutazione del waterfront.

Il network delle idee avrebbe invece dovuto trovare posto all'Arsenale, vero e proprio cuore della manifestazione in centro storico con dibattiti, confronti, centro di produzione, cervello operativo e sede espositiva. Il network della produzione, la sede espositiva vera e propria, avrebbe invece coinvolto il Veneto, soprattutto il sistema fieristico, da Verona a Padova. Il tema dell'Esposizione doveva essere l'equilibrio del sistema Terra, facendo di Venezia la città simbolo di una nuova cultura. Si parlava, allora, di risorse in arrivo per 5mila miliardi di lire dell'epoca, praticamente una mini Finanziaria.

L'intera manifestazione, poi, avrebbe avuto ricadute sul territorio, con l'acceleraizone del Piano regionale di coordinamento e del Piano regioinale dei trasporti. Per gestire i flussi si pensava a una ExpoCard per controllare gli arrivi nei giorni di maggiore affluenza. Tema tornato (o rimasto) d'attualità.

Venezia

«Venezia porto franco, ...

«Venezia porto franco, con una sua autonomia legislativa e fiscale? Una proposta difficile, quasi impossibile da far passare».Il vicesindaco Michele Vianello è scettico, perché si tratterebbe di una riforma pesante, per la quale la classe politica locale e italiana dovrebbe impegnarsi a livello europeo. Eppure, su un altro fronte, questo impegno c'è.Proprio ieri i presidenti di Friuli-Venezia Giulia e Veneto, Illy e Galan, hanno rilanciato l'Euroregione. Progetto istituzionale certo diverso da quello di una Venezia "a statuto speciale", però indicativo del fatto che, quando un obiettivo è condiviso, non esistono steccati di parte. L'importante, insomma, è crederci.E Illy ci crede a tal punto da affermare che «se non arriverà il "via libera" da Roma per l'Euroregione, noi la costituiremo lo stesso». Non solo, ma Illy ribadisce anche che continuerà «a essere al fianco di Galan e degli altri presidenti delle Regioni a statuto ordinario nel pretendere che il nuovo titolo quinto della Costituzione, modificato nel 2001, venga attuato pienamente, che significa anche realizzare il federalismo, incluso quello fiscale».

A dargli manforte, lo stesso Giancarlo Galan, il quale afferma di ritrovarsi «nell'ormai tradizionale sintonia accanto al Friuli-Venezia Giulia». Tuttavia, secondo il governatore, non basta l'impegno di Illy e Galan perché si realizzino Euroregione e federalismo fiscale».«Ciò che desidero per davvero - conclude Galan - è che attorno alla costituzione dell'Euroregione (Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Carinzia, Slovenia, Croazia e Contea dell'Istria) si formi una forte unità tra tutte le forze politiche del Friuli Venezia Giulia e del Veneto, e lo stesso avvenga a livello nazionale».

Venezia

«Per carità, "pentimento" ...

«Per carità, "pentimento" è una parola grossa. Però con il senno di poi la spinta modernizzatrice dell'Expo a Venezia poteva far comodo...».La vittoria di Milano nella competizione per l'Esposizione universale 2015 ha riaperto nel vicesindaco Michele Vianello e tra alcuni degli "exposcettici" una ferita non ancora così antica da essersi rimarginata, quella dell'Expo 2000. Resta ancora un pericolo evitato per Venezia o, alla luce delle lodi che piovono in capo al sindaco milanese Letizia Moratti, è diventata un'occasione mancata?Tra gli anni Ottanta e Novanta la città si logorò nel dilemma e alla fine i dubbi ebbero la meglio, scoraggiando il governo di allora a sostenere la candidatura veneziana. «Un caso unico - commenta oggi Nereo Laroni, sostenitore dell'Expo al fianco di Gianni De Michelis, eletto europarlamentare tra i socialisti proprio nel 1989 dopo l'esperienza di sindaco tra il 1985 e il 1987 - Ricordo politici locali e italiani spendersi addirittura contro Venezia...».

A una ventina di anni di distanza, c'è dunque chi rilegge le sue convinzioni di allora, come Vianello. O anche, in parte, come il viceministro ai trasporti Cesare De Piccoli, vicesindaco tra il 1987 e il 1990.

«Il "no" all'Expo allora era basato su due motivazioni - spiega De Piccoli - Il primo ideologico: c'era chi respingeva una certa idea di modernità. Il secondo, e io lo scrissi chiaramente all'epoca, era dovuto alla convinzione che Venezia non era compatibile con un evento simile, non lo avrebbe sopportato. Lo vediamo anche oggi: Venezia non regge il peso dei grandissimi eventi, figuriamoci un'Expo che in 4 mesi avrebbe portato in città 30 milioni di visitatori. Certo, il "no" giustificato con l'antimodernità non era però condivisibile. De Michelis forse vide in prospettiva, sbagliò chi sottovalutò la spinta propulsiva dell'Expo».

Michele Vianello invece conserva i ritagli e i documenti di allora, ha tenuto i verbali delle riunioni del Pci, i documenti, gli ordini del giorno in consiglio comunale.Oggi il Pci non esiste più. «E mi diverte vedere - insinua Laroni - che chi allora faceva parte del partito del "non fare", come Cacciari, oggi è diventato più morbido, presenta progetti su Tessera con la Save di Marchi. Perfino Bertinotti plaude al successo di Milano...».

«È vero - ammette Michele Vianello - l'Expo allora avrebbe dato alla città un'utile e necessaria spinta di modernizzazione, avrebbe portato a Venezia una grande firma come Renzo Piano, avrebbe innovato un tessuto infrastrutturale. Invece vent'anni fa hanno prevalso i veti ideologici. Perché? Per il semplice motivo che vedevamo nell'Expo un acceleratore di quei processi di degrado che poi, però, si sono verificati lo stesso».A partire dalla deriva turistica, che puntualmente c'è stata. Così scriveva nel 1990 il professor Edoardo Salzano, urbanista dello Iuav e fiero oppositore all'Expo: «Ora, dopo aver perso 5 anni a contrastare una proposta sbagliata, si può ricominciare a lavorare per risolvere i problemi, ma nella direzione opposta: per governare il turismo, anziché per esaltarlo, per difendere le attività ordinarie della città, per costruire le ragioni e le occasioni di uno sviluppo economico e sociale non effimero». Parole e speranze che oggi appaiono tradite dai fatti. E lo ammette lo stesso Salzano, che a 78 anni continua a studiare e a produrre idee con il suo sito web Eddyburg. «È vero - ammette Salzano - allora c'era quella convinzione, ma la città poi ha preso un'altra direzione. Personalmente sono deluso dalla classe politica che si è succeduta da allora, non si è saputo indirizzare la città verso uno sviluppo positivo, legato alla sua tradizione e alla sua vocazione. La deriva di Venezia ci è sotto gli occhi quotidianamente. Ho nostalgia dei "vecchi" amministratori, di Gianni Pellicani e anche di Gianni De Michelis che, Expo a parte, negli anni Settanta sapeva guardare lontano. Oggi manca proprio questo: la lunga prospettiva. La politica è diventa conquista di voti a breve termine».Tuttavia sull'Expo Salzano non ha cambiato idea. «Continuo a pensare che sarebbe stata un danno per Venezia - conclude - Anzi, a mio avviso è un pericolo anche per Milano. Il giorno dopo la notizia della vittoria, i terreni sui quali si costruirà avevano già decuplicato il loro valore. E penso alle conseguenze che l'Esposizione milanese potrà avere anche su Venezia».

Proprio per compensare questo impatto, il sindaco Cacciari ha chiesto che una parte delle risorse stanziate per l'Expo del 2015 arrivi anche a Venezia. «Più che soldi - corregge De Piccoli - coglierei l'occasione per mettere alla prova la classe politica del nord, lombarda e veneta, alla vigilia delle elezioni. L'Expo di Milano deve essere l'occasione per ricalibrare le priorità nelle infrastrutture. L'asse Torino-Milano ha già beneficiato dell'effetto Olimpiadi del 2006, ora le risorse a disposizione per l'Alta Velocità si destinino prioritariamente a completare il collegamento Milano-Venezia, finendo la linea mancante Verona-Padova. Si tratta di una decina di miliardi in gioco. Questa sarebbe una risposta concreta per far entrare nel gioco anche il Veneto e Venezia. È necessario entrare subito nel Comitato per l'Expo e far valere in quella sede le istanze del Veneto. A fianco di questo progetto, poi, viene da sè una seria organizzazione e gestione dei flussi, perché è impensabile che chi andrà a Milano nel 2015 non venga a fare una visita a Venezia».

L'Expo, dunque, come grande occasione. Anche se si tratta di quella di Shangai del 2010, dove Venezia è stata chiamata a partecipare con alcuni progetti. «Noto però - osserva Laroni - che tra i "fiori all'occhiello" di Venezia non è stato inserito il Mose. Strano: non vuol dire che, anche se Cacciari è contrario, non si possa presentare al mondo un'opera unica e altamente significativa come quella. E noto anche come si sia dimenticato che solo due settimane fa si voleva chiedere alla Fenice di non andare in tour in Cina per la repressione in Tibet, mentre ora si osanna la missione a Shangai. Evidentemente prevale l'opportunismo politico».

«E comunque - conclude Laroni - i fatti dimostrano che venti anni fa avevamo ragione. Oggi si sono presentati trionfalmente progetti come le bonifiche, il quadrante di Tessera, le varie infrastrutture, che l'Expo avrebbe accelerato. Invece tutto è stato ritardato di un ventennio...».

E a venti anni fa torna Mario Rigo, sindaco socialista tra il 1975 e il 1985, che ricorda come allora «non ci fu una posizione di contrarietà del consiglio comunale», ma un irrigidimento di Ca' Farsetti «perché - racconta Rigo - il progetto dell'Expo fu presentato a scatola chiusa, con una società di privati già costituita, senza alcun coinvolgimento del Comune».

«Cosa ben diversa - osserva Rigo - da quanto avvenuto con Milano, dove la spinta propulsiva è venuta proprio dal sindaco Moratti. Nel caso di Venezia il sindaco non venne assolutamente coinvolto, addirittura si era già dato l'incarico a Renzo Piano per il famoso "Magnete" che doveva diventare il simbolo architettonico dell'Expo 2000».

(Davide Scalzotto)

Postilla

C’è chi, come De Rita e Laroni, era già allora tra i promotori dell’Expo a Venezia. C’è chi allora l’aveva combattuta, e ora si pente. Nulla di male. I tempi sono cambiati, i principi pure. Il pensiero unico ha conquistato larghissima parte del mondo della politica (e non solo). In realtà è proprio nei primi anni 90, quando si evitò a Venezia la sciagura dell’Expo, che i tempi cambiarono. Le parole d’ordine che erano state di Craxi, e che Berlinguer aveva sdegnosamente respinto, divennero gli slogan di gran parte degli ex PCI. Una “modernizzazione” a base di grandi infrastrutture e di grandi occasioni d’investimento, un’omologazione che cancelli ogni diversità (anche se la diversità è quel gioiello d’equilibrio che si chiama Venezia), una rincorsa a inseguire tutto ciò che può aumentare il PIL (anche se, come il turismo, distrugge giorno per giorno ciò che tocca): questi i “valori” di oggi. Evidentemente diversi da quelli che si nutrivano quando si combatteva l’Expo; a meno che, già da allora non si ignorasse in nome di che cosa lo si faceva. (e.s.)

Qui l’editoriale de l’Unità con il quale si annunciava il ritiro della candidatura italiana all’Expo 2000

Accordo fatto, nasce la città aeroportuale

di Alberto Vitucci

MESTRE. Stadio, Casinò con albergo annesso, uffici e terminal sull’acqua. E terreni destinati alla seconda pista, se davvero arriverà il raddoppio dei passeggeri previsto per il 2015. La nuova «città aeroportuale», come la chiama il presidente di Save Enrico Marchi, prende forma. Con il plauso bipartisan del sindaco Massimo Cacciari e del presidente della Regione Giancarlo Galan.

Ieri mattina dopo un anno di tira e molla e qualche polemica dietro le quinte, l’accordo è stato ufficialmente presentato. Consiste in uno scambio di terreni tra la società aeroportuale Save e il Comune che consente una nuova localizzazione delle attività previste. Business da centinaia di milioni di euro. E la trasformazione della gronda lagunare di Tessera in uno dei «nodi intermodali più importanti d’Italia». Con lo stadio da 30 mila posti, la nuova sede del Casinò con albergo adiacente da 350 stanze in stile Las Vegas. Gli uffici commerciali e il terminal. E in mezzo la nuova viabilità, a cominciare dalla ferrovia regionale Sfmr e dall’Alta Velocità. Due milioni di metri quadrati la superficie complessiva della cittadella, di cui un milione sarà destinato a verde, 750 mila metri cubi di nuove costruzioni. Insomma, una vera e propria «città» in gronda lagunare, nata modificando radicalmente gli strumenti urbanistici in vigore.

La Regione ha garantito il suo appoggio all’approvazione della nuova Variante urbanistica, ferma negli uffici di palazzo Balbi da quattro anni. «Ma la vecchia Variante concentrava a ridosso dell’aeroporto tutte le funzioni», dice Cacciari, «cosa che non esiste sulla faccia della terra, perché impediva lo sviluppo aeroportuale. Adesso il progetto è molto più logico. Se non ci saranno intoppi che non riesco proprio a vedere potremo bandire le prime gare per Casinò e nuovo stadio entro la fine dell’anno». I lavori dunque potrebbero cominciare già nei primi mesi del 2009. Anche se i finanziamenti, come ha spiegato il progettista De Carli «ancora non sono del tutto disponibili».

Uno scambio di aree avvenuto a «prezzo di costo». «Nessuno ha speculato, abbiamo pagato i costi sostenuti da chi ha acquistato, come certificato dal notaio», scandisce il sindaco, «se fossi bravo a fare affari per me come li faccio per il Comune sarei miliardario». I terreni agricoli sono stati pagati a 8 euro il metro quadrato, 35 quelli acquistati più di recente dai piccoli proprietari. Il Comune ha acquistato le aree edificabili di stadio e Casinò a 500 euro.

Rispetto al progetto ipotizzato dalla giunta Costa, stadio e Casinò sono stati spostati più a nord, l’area degli impianti sportivi verso ovest, di là della bretella autostradale. La superficie dell’impianto è stata quasi raddoppiata. «Diventerà un modello a livello europeo», dice il presidente di Marco Polo spa Massimo Miani. Di qua della strada, il nuovo Casinò. «Se entro due-tre anni non c’è la nuova sede saremo bruciati dalla concorrenza», avverte il presidente della Casinò spa Mauro Pizzigati.

Più grande anche l’area business, perché la Save potrà costruire altri 100 mila metri cubi di uffici in cambio dei terreni ceduti al Comune per farne bosco e aree verdi. Espansione anche per l’area aeroportuale, con il via libera al progetto del terminal sull’acqua ideato dall’architetto canadese Frank Gehry e alla nuova viabilità, per cui saranno finalmente sbloccati 17 milioni della Legge Speciale fermi da anni. Una nuova strada di accesso è prevista sul terreno dell’Aeroterminal, la società dell’attuale presidente del Venezia calcio Arrigo Poletti. «Un’occasione per potenziare le nostre infrastrutture», dice Galan, «dopo l’accordo sul vallone Moranzani. Questo è il Polo di Nord est».

Maxi operazione immobiliare stadio e altri 750 mila metri cubi

di Nicola Pellicani

MESTRE. Fino all’ultimo l’accordo ha rischiato di saltare. Di fronte all’insistenza di Save d’inserire nell’accordo un capitolo che prevedeva a destinazione aeroportuale i terreni che corrono lungo la Triestina, il sindaco ha minacciato di disertare l’incontro. Alla fine è tornata la calma ed anzi la presentazione dell’accordo è avvenuta in un clima di grande cordialità tra Cacciari, Marchi e Galan. In ogni caso ciò che vuol fare Save in quei terreni è chiaro a tutti: sia che intenda realizzare la seconda pista, oppure sviluppare l’area cargo o altro, quel che è evidente è che vuole oltrapassare la barriera della Triestina. E prima o poi lo farà. Ma per ora le aree Save resteranno a destinazione agricola, com’è stato specificato ieri. L’oggetto dell’accordo presentato da Comune, Save e Regione è infatti un altro. Vale a dire il complicatissimo marchingegno in base al quale arriverà l’atteso via libera allo stadio e alla nuova sede del casinò.

Ciò significa che se gli amministratori si dimostreranno in grado di gestire la partita - e non è scontato -, per il territorio di Tessera sarà una vera rivoluzione. In assenza di mecenati sportivi e di soldi pubblici l’accoppiata stadio-casinò sarà finanziata da un’operazione immobiliare da circa 750 mila metri cubi che si aggiungeranno alla costruzione della cittadella sportiva e del piano della viabilità.

Lo scambio di aree tra Comune e Save, definito ieri dopo quasi tre anni di trattative, sblocca l’operazione. La cartina pubblicata mostra i terreni interessati alla permuta. Il Comune, attraverso la Marco Polo, il suo braccio immobiliare, ha chiuso un accordo con Save in base al quale, attraverso uno scanbio di terreni, l’area sportiva passa da 210 mila mq a 495 mila, mentre l’area Aev passa da 274 mila a 401 mila mq. Inoltre Save ha ceduto al Comune una fascia verde di 1.144.016 mq destinata a bosco che corre lungo il Dese. La compensazione a favore di Save è stata valutata in 17 milioni di euro che l’amministrazione comunale pagherà, cedendo a Save una volumetria equivalente all’interno dell’Aev, dove sorgeranno i 750 mila metri cubi. La volumetria prevista nell’area aumenta quindi, rispetto alla vecchia pianificazione, di circa un terzo. Save potrà costruire circa 90 mila metri cubi (30 mila mq), corrispondenti a quei 17 milioni. Ciò significa che il valore riconosciuto delle aree è stato di circa 585 euro per mq.

La valorizzazione dell’area Aev - che ospiterà anche il nuovo casinò -, attraverso un bando che gestirà la Marco Polo, in collaborazione con Save, servirà a finanziare parte degli interventi. Dalla vendita dei terreni si ricaveranno almeno 116 milioni. Ma lo stadio, essendo considerato un’opera di urbanizzazione secondaria, sarà finanziato con gli oneri urbanizzazione. Per stadio e viabilità connessa serviranno circa cento milioni, mentre per il casinò e l’abergo ce ne vorranno almeno 70. Sembra infine chiarito anche il nodo dei 17 milioni che la legge speciale ha destinato 10 anni fa alla Save per la realizzazione della viabilità esterna al Marco Polo. E dovranno essere utilizzati esclusivamente per questo scopo.

Zoggia e Scaramuzza danno forfait

Le assenze tra qualche malumore

MESTRE. Non c’era il presidente della Provincia Davide Zoggia, più volte critico con le scelte della Save e i superstipendi ai loro dirigenti. Non c’era nemmeno il presidente della Municipalità di Favaro Gabriele Scaramuzza, ex segretario Ds ora responsabile provinciale del Pd. E non c’erano nemmeno i rappresentanti in giunta della Quercia. «Ma i Ds non ci sono più, adesso c’è il Pd», sorride il presidente della Municipalità di centro Massimo Venturini. In realtà qualche malumore circola. Soprattutto in casa degli ex diessini. Solo poche settimane fa la polemica contro il superpremio di 2 milioni e 200 mila euro che Marchi si è attribuito per i «buoni risultati» del 2007. E poi le interrogazioni parlamentari, la richiesta di un Consiglio regionale straordinario. Non tutto è superato. Anche se sulla scelta strageica di stadio e Casinò l’accordo è trasversale.

Ieri nell’affollata sala del Cda di Save a Tessera, oltre a Galan, Cacciari e Marchi c’erano il presidente della Casinò Spa Mauro Pizzigati, gli assessori alla Mobilità Enrico Mingardi e all’Urbanistica Gianfranco Vecchiato, la nuova amministratrice delegata di Save Monica Scarpa. C’erano inoltre Renato Boraso e una folta pattuglia di capigruppo in Comune, da Piero Rosa Salva a Ezio Oliboni (Psdi), Alfonso Setta (Udc), Giacomo Guzzo (udeur). (a.v.)

VENEZIA. Il ponte di Calatrava riserva regolarmente nuove «sorprese». L’ultima? Dovrà essere monitorato 24 su 24. Per sempre. Ogni minuto ci sarà un operatore a leggere i dati inviati dai sensori che registreranno i movimenti delle fondamenta. E una squadra di tecnici dovrà essere pronta a intervenire notte e giorno. E’ la clamorosa novità emersa nel corso dell’audizione in Comune del direttore dei lavori, Roberto Casarin. Lo scheletro d’acciaio è un’opera «viva»: si dilata e restringe, si può spostare lateralmente sotto la pressione della folla. Il progetto prevede una tolleranza di 4 centimetri: di più e l’arco cede. Per ridurre i rischi ci vogliono i guardiani. E intanto lievitano i costi di manutenzione.

Il Ponte di Calatrava dovrà essere monitorato 24 ore al giorno. Per sempre. Ogni minuto ci dovrà essere un operatore pronto a leggere i dati inviati da una serie di sensori (già posati) che registreranno ogni minimo movimento delle fondamenta. Una squadra tecnica dovrà poi essere pronta ad intervenire seduta stante, in caso di emergenza. Questa la clamorosa novità emersa ieri nel corso dell’audizione del direttore dei lavori Roberto Casarin, alla commissione d’indagine sul quarto ponte.

«Il collaudo è andato bene, il ponte è sicuro», ha detto l’ingegnere ai consiglieri, «ma ci siamo resi conto della necessità di monitorarlo costantemente». Lo scheletro di acciaio è un’opera «viva»: si dilata e restringe con il variare della temperatura e si può spostare lateralmente sotto la pressione della folla. E’ poi un arco ribassato che scarica 1500 tonnellate di peso su ogni riva. Da progetto - e non è una novità - è prevista una tolleranza massima di 4 centimetri: di più e l’arco si trasforma in una trave e finisce in Canal Grande. Nel corso del collaudo la struttura si è spostata di un solo centimetro e le rive hanno retto. Tant’è, è stato deciso di «blindarlo» con un monitoraggio costante: del resto, ogni giorno il moto ondoso erode questa o quella riva.

«E’ una notizia che ha dell’incredibile», commenta il presidente della commissione, Raffaele Speranzon, «perché il ponte - dopo tutti i rialzi di prezzo, che con l’ultima richiesta di riserva avanzata dalla Cignoni per quasi 5 milioni, saliranno a 20 milioni di euro (compreso l’aumento da 740 mila euro a 1,2 milioni della spesa per l’ovovia) - dovrà avere anche una manutenzione quotidiana, delicata e certamente costosa. Eppoi questo è un ponte “artigianale”, che va fatto pezzo per pezzo, tutti pezzi unici, gradino per gradino, balaustra per balaustra: sostituirne uno in caso di rottura, sarà molto caro».

L’ingegnere Casarin (subentrato a Roberto Scibilia nel giugno 2006) non ha fornito una data per l’inaugurazione: «Ogni giorno c’è una sorpresa, che va affrontata nello specifico e concordata con lo studio Calatrava di Zurigo». Ha poi ribadito che, a suo giudizio, «nella fase iniziale c’è stata una grande sottovalutazione delle difficoltà e dei costi di un progetto tanto particolare». Da qui la necessità di continue modifiche, con relativi aumenti di tempo e costi: tutti giustificati, secondo il direttore. L’ultima scoperta è che anche la corsia centrale in trachite che separa i gradini di vetro, affinché la pietra resti allineata con il vetro in caso di assestamenti, va tagliata secondo una sezione sinora mai immaginata. Pezzo per pezzo.

«Come ci ha confermato anche l’ingegner Casarin», conclude Speranzon, «fidandosi della fama del progettista, si è messo a gara un progetto esecutivo che tale non era e si è preso per buono il preventivo - 4,7 milioni di euro - bandendo una gara in economia e facendo vincere l’offerta più bassa, come previsto per le opere sotto i 5 milioni. Non si è evidenziata la categoria prevalente “carpenteria”, cosicché ha vinto una ditta specializzata in edilizia, che nulla sapeva di acciaio, tanto che ha dovuto affidare la fusione alla Lorenzon: ma essendo la spesa superiore al 30% dell’appalto, non ha potuto subappaltare l’opera, ma ha dovuto ricorrere ad una fornitura d’opera, sottraendola al controllo del Comune. Ma perché continuare ad errare affidando alla Cignoni anche l’ovovia? E, ancora, in corso d’opera è stato messa e rimessa più volte mano al progetto, per correggerlo nella fase esecutiva: la direzioni lavori avrebbe dovuto essere affidata a Calatrava, che avrebbe dovuto curare le modifiche e che, invece, adesso può dire di aver dato al Comune un progetto perfetto, tanto che ad ottobre ha chiesto al Comune di cambiare impresa. Lo stesso dicesi dei costi, gravemente sottostimati. Per non dire del fatto che ci si era dimenticati delle legge per l’abbattimento delle barriere architettoniche. Errori e responsabilità sono stati molti». La commissione chiuderà i lavori a fine febbraio.

Punta della Dogana: quello che era possibile con il progetto di Vittorio Gregotti per il museo Guggenheim - poi rimasto solo sulla carta, una decina d’anni fa - sembra ora impossibile per il progetto di Tadao Ando per il nuovo museo Pinault. La Commissione di Salvaguardia, dopo il sopralluogo compiuto lunedì e l’illustrazione del sovrintendente ai Beni Ambientali e Architettonici di Venezia Renata Codello, dovrà votare entro pochi giorni il via libera al progetto, per il quale, però - nonostante le obiezioni dei commissari - non si prevedono modifiche sostanziali.

La «scatola». Resta, in particolare, la collocazione degli impianti tecnologici in una «scatola» sul tetto della Punta della Dogana - sia pure parzialmente nascosta - perché per la Soprintendenza non è possibile fare altrimenti. Ma esaminando il progetto di Gregotti e ascoltando lo stesso architetto, si scopre - guardando al passato - una realtà diversa.

Impianti. «Non riesco a credere - commenta l’architetto Gregotti - che la Soprintendenza consenta ora l’installazione degli impianti di condizionamento sul tetto della Punta della Dogana. Nel nostro caso sarebbe stato impossibile, trattandosi di un edificio monumentale. Per questo, per gli impianti tecnologici, avevamo studiato una soluzione diversa, collocando quelli verticali vicino alle pareti, ma staccati da esse, protetti da un’intercapedine lignea; e quelli orizzontali sotto il pavimento con un parziale scavo. Una soluzione che era stata approvata dalla Soprintendenza, come del resto l’intero progetto definitivo, visto che il nostro era, in pratica, un intervento di restauro. Del resto io stesso ho passato ad Ando le nostre tavole progettuali, proprio perché potessero servirgli come eventuale riferimento».

Simili? Il progetto di Gregotti prevedeva la conservazione della tipologia originale a saloni paralleli dei sei magazzini e del contemporaneo mantenimento delle fronti ottocentesche del Pigozzi. Ricostituiva anche i muri paralleli in mattoni a vista, mentre prevedeva anche la scopertura delle capriate e la chiusura dei lucernai aperti sulle coperture. Per dotare il nuovo museo d’arte contemporanea degli impianti tecnologici e di climatizzazione indispensabili, senza alterare la struttura dell’edificio, il progetto di Gregotti prevedeva appunto di costruire una scatola interna in legno di 4 metri aperta verso l’alto che permettesse la costituzione di un’intercapedine staccata da pavimento e pareti di circa 40 centimetri. Una scatola molto diversa da quella di cemento armato prevista dall’intervento dell’architetto giapponese. In questa veniva garantito sia il passaggio degli impianti tecnici, sia la disponibilità di una superficie continua di esposizione, a un’altezza delle pareti largamente inferiore a quella prevista da Ando - permettendo così di «leggere» le coperture originali - e che, secondo la Soprintendenza, non è modificabile se non in minima parte per il progetto Pinault.

Più piccole. C’è da presumere che le opere della collezione Pinault siano gigantesche, rispetto a quelle - più piccole - della collezione americana. C’è poi da capire perché - al di là della diversità dei progetti - alcune modifiche, previste in passato, oggi non siano più possibili.

1. La mareggiata

Alle 22 del 3 dicembre 1966 l'«acqua alta» invade Venezia, con raro impeto ed elevata ampiezza. Alle 5 del mattino successivo dovrebbe ritirarsi seguendo la regola del flusso e riflusso mareale. Così non è, e verso mezzogiorno, con la nuova onda di marea, l'allagamento viene ulteriormente alimentato: saltano la luce, i telefoni, il gas. Mentre tutta la regione e sconvolta dalle piene dei fiumi che scendono tumultuosamente a valle dalle montagne manomesse, disboscate, abbandonate, rompendo argini non più mantenuti, il mare, battendo a forza nove contro i litorali, e le secolari difese dei «murazzi», ha invaso i primi e sbrecciato le seconde. La penisola del Cavallino e l'isola di Sant'Erasmo sono sommerse dal mare e battute dalle onde, nell'isola di Pellestrina i marosi irrompono dalle falle aperte, la allargano, invadono gli abitati, si congiungono anche per questa via con le acque lagunari. Ed il vento di scirocco continua a sospingere il mare in laguna. Alle 18 del 4 novembre l'acqua, ancora una volta, dovrebbe ritirarsi secondo il ritmo delle maree, ma non avviene: soltanto verso le 21, cambiato il vento, l'acqua defluisce violentemente, come una fiumana.

Ha raggiunto l'altezza di un metro e novantaquattro centimetri sul livello medio del mare, ha sommerso tutti i pianiterra abitati, ha distrutto le merci nei magazzini e devastato i negozi e le botteghe artigiane, ha fatto saltare anche, in molti punti, le tubazioni dell'acquedotto ed i depositi della nafta, ha deteriorato libri, documenti, mobili, masserizie, ha lesionato fondamenta, ha sconquassato imbarcazioni. Ritirandosi, lascia immondizie, rottami, neri segni di nafta un po' dappertutto.

E quaranta miliardi di danni stimati: quelli non monetizzabili pesano molto di più.

2. Il grande dibattito: caratteristiche, limiti, equivoci

L'«acqua alta» eccezionale del 4 novembre 1966, rivelando quanto sia precario l'equilibrio tra gli insediamenti umani lagunari ed il loro supporto ambientale, e quanto siano compromesse le stesse prospettive di sopravvivenza fisica di tali insediamenti, finisce per divenire un formidabile suscitatore di interesse e di dibattito attorno al «problema di Venezia», ed un potente acceleratore di prese di coscienza, revisioni di idee, proposte, iniziative.

Non manca, all'inizio, sulla stampa, alla radio ed alla televisione, la somministrazione del consueto minestrone di scadente letteratura estetizzante, di retorica e di invettive alle forze cieche e brute della natura.

Ma le rettifiche del tiro non si fanno attendere: nel dicembre del 1966 «La rivista veneta», promossa sostanzialmente dagli ambienti della sinistra socialista di cui, dopo la scissione del PSIUP, é «leader» Gianni De Michelis, ma sulla quale scrivono anche comunisti ed indipendenti genericamente «di sinistra», pubblica un numero significativamente intitolato «Il Veneto sott'acqua». Nell'editoriale si respingono le tesi dell'«eccezionalita dell'evento» e dell'«imprevedibilita», concludendo che vi é «un atto d'accusa per tutta la nostra classe dirigente di ieri e di oggi in quanto é avvenuto il 4 novembre».

[…]

Nei giorni e nelle settimane successive gli articoli ed i servizi, sulla stampa quotidiana e periodica, si moltiplicano. A quelli tranquillizzanti, espositivo-laudativi delle iniziative intraprese, od anche soltanto prospettate, dalle competenti autorità, si aggiungono e si contrappogono quelli allarmati, che cominciano a mettere sotto accusa le industrie in quanto produttrici di inquinamento (Marco Valsecchi, in Il Giorno del 19 marzo), ovvero perché «collocandosi su terreni di bonifica ai margini della laguna e dunque sottraendole copiose estensioni d'acqua, ne hanno ristretto il catino così favorendo l'accentuarsi e l'elevarsi delle maree e la loro forza di pressione sul corpo della città» (Giulio Obici, in Paese Sera del 19 marzo), che iniziano a dubitare dei possibili «effetti sconvolgenti» sul regime lagunare degli escavi dei canali, degli ampliamenti dei porti, della modifica dell'orografia delle barene (Ettore Della Giovanna, in Il Tempo del 30 marzo 1967).

All'inizio del 1967 é stato pubblicato il volume di Giulio Obici Venezia fino a quando?, con prefazione di Teresa Foscari Foscolo, vice presidente nazionale di «Italia Nostra», e nota storica di Cesare De Michelis (3). Ricordati e descritti gli eventi del 4 novembre 1966, Obici (vengono qui di seguito citati essenzialmente titoli e sottotitoli) ribadisce che «la colpa» di quanto é avvenuto «é della terra e degli uomini», cita il fatto che «Venezia sprofonda sempre più in fretta» e precisa che la ragione ne va individuata soprattutto negli «emungimenti delle falde artesiane» da parte dei pozzi ad uso della zona industriale, afferma che «l'insidia viene dal mare» e denuncia l'abbandono in cui sono stati lasciati i cordoni litoranei ed i «murazzi», aggiunge che «l'insidia viene anche dalla terraferma» perché «abbiamo rimpicciolito la laguna ed allargato i porti» e «così abbiamo aiutato la marea a salire e a sbriciolare le isole», denuncia il canale Malamocco-Fusina-Marghera, ovvero, come ormai lo si chiama, il «canale dei petroli»; come «il più grande, e forse incauto, intervento idraulico di tutti i tempi... dentro il meccanismo lagunare». E conclude (ma il resoconto ora fatto ha terribilmente impoverito la ricchezza delle argomentazioni), che la laguna e la terraferma, «i due tradizionali protagonisti della storia di Venezia, che in passato da nemici furono tradotti in alleati della città, oggi sono in grave conflitto; ma il conflitto va risolto, e anche `attualmente, come una volta, non si tratterà di una soluzione meramente tecnica. Due punti: primo, la terraferma va allontanta, non respinta, così come lo sviluppo economico che vi prospera non va respinto, ma controllato e orientato; deve cioè rendere conto di sè a Venezia... Secondo, la laguna ha i suoi argomenti da propugnare, che sono la salvaguardia di Venezia, ma questa salvaguardia contro le minacce della natura e della terraferma sarebbe sterile se non contemplasse le cause che stanno a monte di quelle minacce: vale a dire, in parole brevi, la disordinata espansione industriale, la quale all'offesa mossa alla laguna accompagna... la decadenza economica della città.

«Il problema é diverso da un tempo ed é pur sempre lo stesso: oggi come allora, Venezia non può rinunciare al suo ruolo di controllo e di direzione, che le é indispensabile condizione di vita; e dire che questo ruolo deve essere esercitato sulle acque e sulla terra e come dire che deve anche svolgere un'avveduta funzione di disciplina dello sviluppo economico, perché questo sia vigilato nel suo modo di crescere ed orientato verso obiettivi di equilibrio territoriale e sociale... In fondo, si puó dire che niente e mutato, quanto alla problematica lagunare, rispetto al passato: il problema dell'equilibrio tra acqua e terra è ancora un superiore equilibrio politico».

La polemica, quindi, comincia ad incentrarsi su due elementi: l'espansione delle zone industriali, soprattutto in quanto realizzata attraverso sempre più massicci imbonimenti di porzioni di laguna, e l’escavo del canale Malamocco-Marghera. La «terza zona» ed il «canale dei petroli» vengono identificati da segmenti crescenti di cittadini e d'opinione pubblica con i «nemici di Venezia».

C'è, fuor di dubbio, in ciò, non poco «riduttivismo», e semplicismo, e perfino faciloneria. E non tanto, o non solamente, perché e indubbio che, al momento del verificarsi dell'evento del 4 novembre 1966, i lavori per la realizzazione di entrambi gli interventi sono appena iniziati (giacché questo nulla toglie in validità alla preoccupazione che il loro proseguire ed il loro integrale attuarsi possa aggravare una situazione già gravemente compromessa da interventi di analogo segno, e di ugual natura) quanto perché anche molti altri sono i problemi che urgono: da quello degli inquinamenti atmosferici ed idrici, a quello della persistente sottrazione alla libera espansione delle maree di poco meno di 9 mila ettari di «valli da pesca», da quello del degrado del patrimonio edilizio storico e delle sue manomissioni a quello della devitalizzazione di molte attività cittadine, per citarne solo alcuni, fra quelli certamente anche «appariscenti», e per rimanere - errando - in un'ottica «lagunare» ed «insulare».

Ma in questo ridurre la «battaglia per Venezia» a quella contro la «terza zona» ed il «canale dei petroli» (operazione, occorre precisarlo, effettuata non del tutto e soprattutto non da tutti i soggetti più impegnati nella «contestazione»), o comunque nel fare del controllo c/o del blocco di tali due interventi l'obiettivo centrale e prioritario dell'impegno, c'e anche una profonda, avvertita o meno che sia, «verità»: quella che deriva dall'essere, i predetti interventi, nella fase storica in atto, gli elementi più emblematici, ed oggettivamente «portanti», di una linea di tendenza, di un «disegno», di una «cultura», affermatasi, come s'e visto, da più d'un secolo e mezzo.

Si tratta, battendo quegli elementi, e soprattutto la realizzazione della «terza zona», di scardinare quel «disegno», di inceppare un ben preciso «modello» di governo delle trasformazioni dell'area veneziana. Non v'è dubbio che inceppare un «modello» non significa di per se stesso costruirne uno nuovo ed alternativo: ma presumibilmente e indispensabile per porne le premesse.

Del resto, che lo scontro si stia incentrando sulla «terza zona» ed il «canale dei petroli» viene bene e rapidamente recepito, forse (magari confusamente, come dai loro avversari) anche nei suoi aspetti «emblematici», dai gruppi dirigenti veneziani più legati agli interessi delle industrie di Porto Marghera, e comunque, anche con rilevanti diversità di approccio e di orientamenti, interni alla particolare logica dello sviluppo industriale affermatosi nel XX secolo. Ne e un esempio l'iniziativa assunta, nel gennaio 1967, dal Rotary club di Venezia, che invita in città tre illustri ingegneri idraulici olandesi, il dottor J. van de Kerk, il professor L. van Bendegon ed il dottor H. A. Ferguson, per ottenere un loro parere sulle misure da prendere per difendere l'insediamento lagunare dalle acque. «L'iniziativa, che è stata presentata come un disinteressato e altruistico contributo alla città, ha rivelato i suoi veri moventi» quando, nell'ottobre del 1967, i dirigenti del Rotary club, capeggiati dal dottor Mario Valeri Manera, presidente dell'associazione veneziana degli industriali, presentando al Presidente della Repubblica la relazione stilata dai tre tecnici, dichiarano, «aiutati dalla compiacente complicità di alcuni organi di stampa assai poco scrupolosi, che lo studio dei tecnici olandesi afferma in maniera inequivocabile che il... canale dei petroli... non avrebbe affatto alterato in senso negativo l'equilibrio lagunare. Ecco dunque rivelato lo scopo dell'iniziativa: non già contribuire all'individuazione di soluzioni per il problema della difesa di Venezia, ma prevenire e combattere eventuali riserve sulla realizzazione di un'opera che evidentemente sta a cuore a precisi interessi privati. Per di più tale obiettivo viene perseguito addirittura distorcendo e falsando il senso della relazione dei tecnici olandesi: infatti basta leggerne il testo... per rendersi conto che essi, oltre a sottolineare ripetutamente il carattere non conclusivo delle affermazioni che fanno, intendono chiaramente sottolineare sia gli eventuali effetti positivi che quelli negativi della realizzazione del canale, concludendo comunque col sostenere l'assoluta necessità di ulteriori approfonditi studi per poter fare previsioni effettivamente fondate»(4).

[…]

NOTE

(1) Si veda: Comune di Venezia, Venezia: problemi e prospettive, I servizi giornalistici, Venezia, marzo 1967, anche per gli articoli successivamente citati nel testo.

(2) g.d.m., Cronache veneziane, in «La rivista veneta», n. 6, febbraio 1968.

(3) Venezia fino a quando? Marsilio Editori, Padova, 1967.

(4) g.d.m., Cronache veneziane, cit.

"Noi crediamo che sia ora di affermare chiaramente che non è possibile continuare con un metodo di gestione del territorio il cui obiettivo fondamentale è lo sfruttamento cieco e irrazionale delle risorse naturali senza alcuna attenzione per le conseguenze che ciò potrà avere.

Noi ci rendiamo conto che l’evoluzione tecnologica, il progresso industriale hanno reso utili e anche necessari negli ultimi cinquant’anni molteplici interventi artificiali […], anche se essi alterano l’equilibrio naturale in maniera molto maggiore di quanto la presenza dell’uomo non abbia alterato l’ambiente naturale in tutte le centinaia di anni precedenti.

"Non possiamo però accettare che ciò avvenga nel più assoluto disinteresse delle possibili conseguenze, in uno spirito di cieco egoismo per cui si guarda solo alla utilità economica dell’opera senza badare ai danni che essa potrà arrecare alle zone circostanti e alle popolazioni che vi abitano; con una mentalità assolutamente incapace di una visione unitaria del territorio e dei suoi problemi; con una miopia inconcepibile per cui i vantaggi di oggi non vengono confrontati con gli svantaggi di domani. […]

"Necessità di uno studio serio e organico della situazione idrogeologica […] che non si limiti però all’astratta individuazione delle opere da realizzare, ma affronti concretamente il problema della produttività economica e sociale degli investimenti da compiere in questo settore.

Riconoscimento della priorità da assegnare agli interventi per la sistemazione idrogeologica rispetto ad altri interventi infrastrutturali la cui utilità (vedi il settore dei trasporti) può risultare gravemente inficiata in una situazione di fragilità permanente dell’assetto naturale del territorio.

"[…] nel Veneto il problema della sistemazione idrogeologica e della difesa di Venezia devono essere considerati prioritari rispetto a qualsiasi altro problema […].

"Per questo fine devono battersi tutte quelle forze politiche, sociali e culturali, il cui obiettivo non sia uno sfruttamento irrazionale ed egoistico delle risorse naturali nell’assoluto dispregio degli interessi generali della comunità".

Da dove sono tratti i passi sopra riportati? Dall’intervento del portavoce di un qualche gruppo “ambientalista” particolarmente arrabbiato (sostanziamente “estremista”, e malamente mascherante il suo “vetero-sinistrismo radicale”) in occasione degli eventi accaduti nella provincia di Venezia i giorni 16 e 17 settembre appena trascorsi, allorquando assai intensi fenomeni meteorici hanno provocato, essenzialmente per cattivo drenaggio delle acque e crisi delle reti idrografiche locali, l’allagamento di vastissime zone, sia urbane che rurali, provocando danni approssimativamente stimati in 200 milioni (di euro)? Oppure da uno scritto “d’annata” di Antonio Cederna? Ipotesi entrambe errate.

Sono tratti dall’editoriale d’apertura del numero 3/4 (pressoché monograficamente dedicato a “Il Veneto sott’acqua”) di la Rivista veneta del dicembre 1966.

Per chi all’epoca non fosse ancora nato, o non avesse raggiunto l’età, o maturato l’interesse, per la lettura di siffatti organi di stampa, come per chi, non vivendo, affatto, o almeno all’epoca, né in Venezia né nel Veneto, e non essendo un appassionato cultore dei temi trattati da tali organi di stampa, e un fanatico topo di biblioteca, mi premuro di precisare che “la rivista veneta” era un “bimestrale di problemi regionali” (così il sottotitolo) di indiscutibile spessore e autorevolezza culturale e politica, animata, sin dall’inizio, dagli esponenti della sinistra socialista “lombardiana” veneziana che facevano capo a Gianni De Michelis (il quale per un certo periodo assunse direttamente la direzione, essendo comunque la distribuzione affidata alla “Marsilio Editori” del fratello Cesare De Michelis). Vi collaborarono (cito all’impronta, e alla rinfusa) Gianfranco Bertani, Giorgio Bellavitis, Romano Chirivi, Bruno Dolcetta, Gianni Fabbri, Fabrizio Ferrari, Roberto Fiorentini, Tonci Foscari, Nereo Laroni, Franco Mancuso, Franco Mocellin, Renato Nardi, Giulio Obici, Franco Posocco, Giuliano Segre, Simona Sereni, Otto Tognetti, Virginio Bettini, e molti, molti altri. I cui percorsi, culturali e politici (e ovviamente non mi riferisco al profilo epifenomenico e formalistico dell’iscriversi a questo o a quel partito, o a nessuno, ovvero del contrassegnare, sulla scheda elettorale, questo o quel simbolo, o nessuno), furono, negli anni che seguirono all’intensa stagione di elaborazione e di confronto dipanatasi a Venezia e (meno, purtroppo) nel Veneto tra gli ultimi anni ’60 e i primissimi anni ’70, assai diversificati, e frequentemente conflittuali, e spesso del tutto incompatibili.

Personalmente, mi incuriosirebbe sapere quanti, tra gli ancora viventi personaggi che nella stagione che ho detto gravitarono attorno a la Rvista veneta, sottoscriverebbero oggi i passi dianzi riportati. Ma ciò deriva dal fatto che, invecchiando, coltivo morbosamente ricordi, nostalgie e rimpianti.

Ben più rilevante è sapere, oggi, quanti tra gli attuali leader politici, culturali, amministrativi, di Venezia e del Veneto non soltanto sottoscriverebbero quei passi, ma lo farebbero credibilmente, cioè traendone, nell’operare quotidiano “a tutto campo”, ogni coerente conseguenza. A me pare che ciò difficilmente si possa dire per chi, all’indomani degli eventi dianzi ricordati, ha soprattutto invocato (per l’ennesima volta) le virtù taumaturgiche della nomina di un “commissario straordinario” con poteri eccezionali (cioè innanzitutto di deroga alle leggi e agli strumenti di pianificazione e programmazione vigenti). Con ciò riducendo un complesso problema di pianificato e programmato “governo” del territorio, di tutela della sua integrità fisica (assieme con quella della sua identità culturale), di conseguente “sostenibilità” (non vaniloquentemente retorica) delle sue trasformazioni, e del suo “sviluppo”, a una faccenda di semplificazione (intesa come accelerazione autoritaria) delle procedure decisionali relative alla realizzazione di “opere”. Ma questa è un’altra storia.

Il progetto di massima per la difesa dalle «acque alte»

(Capitolo XIV, 3)

La legge 16 aprile 1973, n. 171, come già si é accennato, attribuisce alla competenza dello Stato la «regolazione dei livelli marini in laguna, finalizzata a porre gli insediamenti urbani al riparo dalle acque alte», mediante «opere che rispettino i valori idrogeologici, ecologici ed ambientali ed in nessun caso possano rendere impossibile o compromettere il mantenimento dell'unità e continuità fisica della laguna». In adempimento a quanto previsto dalla stessa «legge speciale», il Consiglio dei ministri approva, il 27 marzo 1975, gli «indirizzi» per la formazione del piano comprensoriale relativo all'area veneziana, nei quali definisce altresì le linee secondo le quali dovrà muoversi la progettazione delle opere, di competenza dello Stato, per la regolazione dei livelli marini in laguna. Gli «indirizzi» stabiliscono infatti che «la conservazione dell'equilibrio idrogeologico della laguna e l'abbattimento delle acque alte nei centri storici, entro limiti tali da non turbare la funzionalità del sistema portuale e lo svolgimento delle attività quotidiane della popolazione, devono essere ottenute mediante un sistema di opere di regolazione fisso delle bocche che possa essere successivamente integrato da parti manovrabili, qualora si renda necessario, in relazione ai livelli di marea, addivenire alla chiusura totale delle bocche medesime».

Gli stessi «indirizzi» precisano che «nella definizione delle soluzioni tecniche va considerata l'influenza sul regime idrodinamico dell'apertura alla espansione delle maree delle valli da pesca... nonché delle aree già imbonite dalla cosiddetta terza zona industriale» che non siano destinate dal iano comprensoriale all'espansione delle strutture portuali commercia, e che «ulteriori interventi possono essere previsti per la accentuazione degli effetti riduttivi indotti dal restringimento fisso, quali:

- la riduzione delle resistenze alle maree della zona nord orienta­le della laguna;

- la riduzione a livello normale dei fondali, ora profondamente erosi dalle correnti, nel canale di S. Nicolò... nonché allo sbocco in la­guna dei porti-canale di Malamocco e Chioggia;

- l'aumento, con opportuni accorgimenti, delle dissipazioni di energia del flusso di marea lungo il percorso entro i porti-canali».

Secondo le indicazioni degli «indirizzi» il Ministro dei lavori pubblici dev'essere autorizzato, e lo é formalmente con la legge 5 agosto 1975, n. 404, a bandire un appalto-concorso internazionale «per la esecuzione delle opere necessarie ai fini della conservazione dell'equilibrio idrogeologico della laguna di Venezia e dell'abbattimento delle acque alte nei centri storici».

Tale appalto-concorso viene indetto con Decreto ministeriale l'11 settembre 1975; il termine di presentazione dei progetti, già previsto al 31 luglio 1976, viene prorogato al 31 dicembre dello stesso anno. Vengono presentati sei progetti, ma, non essendo uno di essi dichiarato ammissibile dalla Commissione giudicatrice, nominata con DM 7 aprile 1977, soltanto cinque restano in gara. Dopo 13 riunioni collegiali, e numerose riunioni di gruppi di lavoro, la Commissione giudicatrice, il 31 marzo 1978, conclude che nessuno dei cinque progetti esaminati, pur ritenuti meritevoli di particolare considerazione, può essere dichiarato idoneo, e pertanto delibera la non aggiudicazione della gara, auspicando, peraltro, idonee iniziative al fine di acquisire la disponibilità dei progetti e di utilizzare specifici contributi di taluni di essi in un quadro progettuale globale del problema di Venezia e della sua laguna.

Il 5 febbraio del 1979 il Consiglio comunale di Venezia approva all'unanimità un documento da inviare al Ministero dei lavori pubblici, in cui, fatte proprie sia le conclusioni che i suggerimenti della Commissione giudicatrice, chiede la costituzione di «una Commissione da parte del Ministero... d'intesa con la Regione, con il Comprensorio, con i comuni di Venezia e di Chioggia» per la messa a punto di un «progetto operativo».

Nello stesso documento si afferma che «la soluzione che sarà elaborata dovrà presentare caratteristiche tecniche e costruttive che rispondano ai criteri di gradualità, di flessibilità, di reversibilità», che «la regolamentazione del rapporto mare-laguna deve ottenersi progressivamente, mediante interventi opportunamente articolati che consentano la difesa dei centri storici dalle acque alte in misura sempre più incisiva con il procedere degli interventi, per i quali si potranno utilizzare con certezza i risultati tecnici, specie per gli aspetti idraulici, ricavati dalle fasi realizzate a partire dalle bocche di S. Nicolò di Lido e di Chioggia» e che «comunque, anche se si riterrà di procrastinare l'attuazione, i programmi tecnici degli interventi dovranno prevedere la possibilità di raggiungere nel tempo la difesa dalle acque alte eccezionali con efficaci sistemi».

II 22 dicembre 1979 un nuovo evento di «acqua alta» eccezionale riproduce largamente i danni e i drammi dell'inondazione del '66. Pochi giorni dopo, il 14 gennaio 1980, il Consiglio comunale, all'unanimità, vota un ordine del giorno in cui, preso atto dell'emanazione, avvenuta tre .orni prima, di un Decreto legge del Governo con cui il Ministero dei avori pubblici era stato autorizzato ad acquistare i progetti presentati all'appalto-concorso ed a conferire incarichi professionali «ai fini della soluzione tecnica da adottare per una idonea riduzione dell'acqua alta nei centri storici e per la progettazione esecutiva degli interventi», chiede «che il Parlamento converta in legge il... decreto..., che la progettazione sia completata sollecitamente e che vengano individuate procedure eccezionali anche per l'espletamento dell'appalto».

Ribaditi i contenuti dell'ordine del giorno del 5 febbraio 1979 il documento sottolinea l'esigenza di un «riassetto complessivo della laguna», nell'ambito del quale afferma essere necessario provvedere a:

«- la protezione dei litorali, mediante tutti gli interventi atti a ri3pascerli;

- la protezione verso laguna delle rive dell'estuario e delle isole; - il controllo costante e interventi conseguenti sui fondali della laguna al fine di provvedere all'adeguamento degli stessi ed alle esigenze di difesa della città e del suo estuario;

- l'adeguamento costante dei fondali alla profondità strettamente necessaria alle esigenze della navigazione»;

nonché predisporre «le iniziative per realizzare il massimo recupero del­le aree e zone da destinare alla libera espansione della marea».

Il 22/23 dicembre 1980 il Consiglio comunale di Venezia approva (con il voto favorevole di PCI, PSI, PRI, PSDI, PLI, contrario della Dc e di astensione del MSI) un ordine del giorno in cui, ribadita la necessi­

tà «di procedere alla regolamentazione del rapporto mare-laguna», sottolinea «l'assoluta necessità di perseguire un disegno volto ad invertire il processo di degrado in atto nell'ecosistema lagunare», ed in particolare si sofferma sugli «interventi... per la protezione ed il ripascimento dei litorali», sul. «ripristino e mantenimento dei fondali», sui provvedimenti atti ad «arrestare l'erosione dell'invaso, assicurare la vivificazione di tutti gli spazi lagunari, tutelare i tessuti barenosi», sulle «opere necessarie per il recupero di aree e zone da destinare alla libera espansione delle maree, ivi comprese Valle Brenta, le aree imbonite della terza zona (ad eccezione della cassa di colmata A...)» e le «valli da pesca», sulla accele­razione della «prevista conversione del sistema di approvigionamento petrolifero che dovrà avvenire attraverso oleodotti». Quanto agli inter­venti di «regolazione delle tre bocche di porto» tale documento afferma che essi «dovranno essere sperimentali, graduali, reversibili, flessibili», che dovranno' «conservare e garantire l'intangibilità dell'unità fisica ed ecologica della laguna», che dovranno «avere inizio partendo dalla boc­ca del Lido», ed «evitare realizzazioni che possano, anche in via transi­toria, aggravare la situazione idrodinamica della laguna».

Nel frattempo il Parlamento ha convertito in legge, il 10 marzo 1980, il Decreto prima citato, ed il Ministro dei lavori pubblici provve­de all'acquisto dei progetti presentati all'appalto-concorso nonché, l'11 1 giugno 1980, alla stipula di una convenzione con un gruppo di eminenti tecnici, il professor Augusto Ghetti, il professor Enrico Marchi, il professor Pietro Matildi, il professor Roberto Passino ed il professor Giannatonio Pezzoli, ai quali si aggiungono, a seguito di una ulteriore convenzione stipulata 1' l agosto dello stesso anno, il professor Jan Agema ed il dottor Roberto Frassetto.

I citati professionisti consegnano ufficialmente l'elaborato da loro prodotto, recante il titolo «Studio di fattibilità e progetto di massima» per la «Difesa della laguna di Venezia dalle acque alte», il 26 giugno 1981, al Ministro dei lavori pubblici.

Tale «Studio di fattibilità e progetto di massima» prevede, in estrema sintesi, la realizzazione di una serie di almeno due sbarramenti fissi trasversali (costituiti da dighe «a gettata», o «a scogliera») in ciascuna delle tre «bocche di porto» (di Lido, di Malamocco e di Chioggia), i più interni dei quali dotati di barriere mobili e sommergibili (realizzate con paratoie del tipo a ventola galleggiante diritta oscillante), capaci di attuare la chiusura totale dei varchi di comunicazione tra mare e laguna nei casi di marea superiore a 1/1,10 metri sul livello medio del mare [1].

Il Ministro dei Lavori pubblici, ricevuto lo «Studio di fattibilità e progetto di massima», provvede ad inoltrarlo, oltre che alla Commissione per la salvaguardia di Venezia ed al Consiglio superiore dei lavori pubblici, anche al Comune di Venezia, intendendo acquisire il parere in merito dagli enti locali interessati.

La Commissione per la salvaguardia di Venezia esamina l'elaborato nelle sue sedute del 23 settembre 1981 e del 13 gennaio 1982, e nella seconda occasione esprime un parere di massima favorevole.

Il Comune di Venezia, d'intesa con la Provincia di Venezia ed il Comprensorio dei comuni della laguna e dell'entroterra di Venezia, promuove l'esposizione al pubblico degli elementi essenziali dello «Studio di fattibilità e progetto di massima», dapprima, a partire dal 24 ottobre 1981, nell'Ala napoleonica di Piazza S. Marco, poi nella chiesa sconsacrata di S. Leonardo in Cannaregio, quindi nell'isola di Pellestrina. Provvede inoltre alla pubblicazione, in gran numero di copie, di un volume riproducente i testi e gli elaborati grafici esposti ed all'organizzazione di pubblici dibattiti.

Almeno trentamila persone visitano l'esposizione, e buona é la presenza e la partecipazione ai dibattiti promossi dal Comune, e ad atri, organizzati da associazioni di categoria e culturali e da partiti politici.

Pervengono al Comune di Venezia ben tredici pareri organici e motivati [2], e molte altre osservazioni e valutazioni.

Il dibattito nel Consiglio comunale di Venezia, apertosi l'8 febbraio 1982, con un'introduzione del sindaco Mario Rigo, ed un'ampia relazione del vice sindaco Gianni Pellicani, si conclude il 22/23 febbraio 1982 con il voto unanime di un documento in cui il «progetto di massima» é giudicato rispettare gli indirizzi dello stesso Comune e della «legge speciale», ma «limitatamente agli interventi volti a porre al riparo gli insediamenti urbani lagunari dalle acque alte».

E ciò in quanto il «progetto di massima»:

«- comprova la possibilità tecnico-gestionale di interventi che pongano al riparo i centri urbani dagli allagamenti nella piena ottemperanza del vincolo dell'unità fisica ed ecologica della laguna;

- assicura la contenuta influenza derivante dalla riduzione dei flussi tra mare e laguna sull'inquinamento delle acque lagunari, purché siano attuati i previsti programmi di disinquinamento;

- delinea soluzioni che possono esercitare un'influenza trascurabile sulla piena efficenza dell'essenziale ed irrinunciabile funzione portuale della laguna, anche nella prospettiva del rilevante aumento dei traffici previsto e voluto dalle scelte degli enti locali e dal progetto di piano comprensoriale».

Ribadendo peraltro come «l'abbattimento delle acque alte non possa che essere parte di un più generale intervento di riequilibrio idrogeologico della laguna, di recupero degli equilibri tra le diverse componenti dell'ecosistema, di arresto ed inversione del processo di degrado del bacino lagunare», il Consiglio comunale di Venezia invita, conseguentemente, «il Governo a definire, d'intesa con gli enti locali, un piano-programma organico... volto alle predette finalità e capace altresì di realizzare l'attenuazione dei livelli delle maree».

In tale prospettiva, tra l'altro, reputa:

«- irrinunciabile l'integrale attuazione del previsto piano di disinquinamento della laguna, prima del completamento delle progettate opere di regolazione del rapporto mare-laguna...;

- prioritaria la sollecita realizzazione, anche con la risistemazione degii assetti dei moli foranei, di tutti gli interventi necessari per la tutela, l ripristino ed il ripascimento dei litorali, la protezione verso laguna delle rive dell'estuario e delle isole, il contenimento dei fenomeni di erosione specialmene nel bacino di Malamocco, il controllo dei fondali ed il loro mantenimento costante alle quote da un lato necessarie alle esigenze della navigazione, dall'altro coerenti con le finalità di difesa della laguna, delle isole e dell'estuario;

- improrogabile la progettazione e la successiva immediata attuazione...; di tutte le opere necessarie per il recupero alla libera espansione delle maree di aree e zone ad essa sottratte...

- indilazionabile la già prevista conversione del sistema di approvigionamento petrolifero dell'area...».

Nel frattempo, il 14 dicembre 1981, il Consiglio comunale di Chioggia ha approvato (con il voto favorevole di DC, PSI, PSDI, e l'astensione del PCI) un documento in cui si afferma essere «impossibile esprimere... un parere positivo... senza precise indicazioni» in merito al «rispetto del sistema di trasporto e deposito dei detriti sabbiosi sul litorale», ali'«attuazione delle politiche di disinquinamento del bacino lagunare», alla «difesa dell'accessibilità alle bocche di porto», alla «verifica della possibilità di un intervento finalizzato alla difesa dei centri di Chioggia e Sottomarina dalle acque alte normali».

Il Consiglio superiore dei lavori pubblici, nella sua adunanza del 27 maggio 1982, giudica il progetto di massima «meritevole di approvazione», ma esprimendo una notevole quantità di osservazioni critiche, e comunque sottolineando la necessità di svolgere ulteriori ricerche prima di passare ad una fase realizzativa.

Intanto da piú parti, ed anche dal Consiglio comunale di Venezia (con l'ordine del 11 orno, già richiamato, del 22/23 febbraio 1982), si é auspicato, al fine di ottenere una celere realizzazione degli interventi in laguna, che si proceda all'esecuzione delle opere attraverso l'istituto della «concessione». In tale prospettiva si costituisce un consorzio di imprese denominato «Venezia nuova» [3]. Il 18 dicembre 1982 viene stipulata tra il Magistrato alle acque di Venezia, per conto del Ministero dei lavori pubblici, e tale consorzio, una concessione, a seguito della quale il consorzio avrebbe dovuto provvedere ad attuare parte degli studi, delle ricerche, delle sperimentazioni richieste dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, nonché a realizzare il tratto centrale dello sbarramento fisso alla bocca di porto di Lido. Il 15 luglio 1983 la Corte dei conti nega il visto di esecutività al decreto di approvazione della concessione, eccependo, sostanzialmente, che, ai sensi elle leggi vigenti, «le concessioni di sola costruzione possono essere affidate a trattativa privata... soltanto quando ciò sia espressamente consentito da una norma speciale», mentre ordinariamente é previsto che «l'affidamento avvenga previo esperimento di una qualche forma di gara», e che «la concessione considerata non contempla l'esercizio delle opere da realizzare» e pertanto «é da ritenersi di sola costruzione». La vicenda, che viene conosciuta soltanto a seguito dell'intervento della Corte dei conti, e grazie ad esso, suscita nuove polemiche. In particolare, l'onorevole Bruno Visentini, presidente nazionale del PRI, scrive: «a dieci anni dalla legge speciale di Venezia, i problemi della tutela fisica della città storica... sono rimasti non risolti. Si parla ora di affidare in concessione ad un consorzio di imprese... il compito di realizzare quanto é necessario: iniziando, a quanto pare, da un incarico per ulteriori studi e progetti... e continuando con l'incarico per la realizzazione delle opere... Ma se si procedesse in questo modo si incorrerebbe in alcuni fondamentali errori di metodo e in alcune inammissibili elusioni di competenze decisionali.

L'incarico non può avere per oggetto le scelte sull'avvenire della laguna... Tali scelte spettano all'organo politico... Sembra infine che gli ulteriori studi da effettuare, le ricerche da svolgere e le sperimentazioni da compiere... nonché i controlli tecnico-scientifici sugli interventi... non possano essere affidati al medesimo concessionario della realizzazione degli interventi, ma debbano essere attribuiti a soggetto diverso, che abbia grande autorità e sia capace di porsi in aperta dialettica con il concessionario».

Le polemiche rimbalzano in seno alla IX Commissione della Camera dei deputati, che ha all'esame alcune proposte di risoluzione su Venezia, presentate dalla DC, dal PCI e dal PRI. Alla fine, il 27 ottobre 1983, la Commissione vota all'unanimità una risoluzione che, seppur elusiva circa il nodo dell'affidamento degli studi, delle sperimentazioni, e della realizzazione delle opere, impegna il Governo da un lato «a presentare entro tre mesi un rapporto globale sullo stato degli interventi per la salvaguardia di Venezia» e dall'altro «a definire, sentiti gli enti locali interessati, un programma unitario e globale degli interventi».

Il Ministero dei lavori pubblici, Franco Nicolazzi, non se ne dà per inteso, e men che mai si preoccupa delle critiche rivolte al tentato uso dell'istituto della «concessione». Il 24 febbraio 1984, infatti, viene stipulata, tra il Magistrato alle acque di Venezia ed il consorzio «Venezia nuova», una seconda convenzione, aggiustata in maniera da superare le obiezioni formali mosse dalla Corte dei conti alla precedente, ma non dissimile da questa nei contenuti, ed ancor meno nella «filosofia»; questa volta il relativo decreto é registrato, in data 10 marzo 1984.

Ma, come si vedrà, le polemiche sui temi sollevati, e sulle loro implicazioni, non sono destinate a sopirsi, ed animeranno il dibattito sul nuovo provvedimento legislativo speciale per l'area veneziana, in gestazione presso il Parlamento".


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La nuovissima legge speciale (Capitolo XV, 5)

A pochi anni dalla loro entrata in vigore, la «legge speciale» 171/1973 ed il relativo DPR 791/1973 (concernente il risanamento conservativo dei centri storici lagunari), mostrano già i loro limiti, le loro carenze, l'arretratezza culturale della loro ispirazione. Certamente assai scarsa ne é stata l'incidenza sulla promozione del tessuto edilizio storico, e pressoché nulla in relazione all'obiettivo - pur generalmente ritenuto il più qualificante culturalmente e politicamente - di «governare» un quantitativamente rilevante recupero del patrimonio abitativo, garantendone la positività degli esiti sia «formali» che «sociali».

[…]

Il 27 dicembre 1983, approvando la legge finanziaria per il 1984, il Parlamento stanzia 200 miliardi per «nuovi interventi per la salvaguardia di Venezia», con l'impegno che altri due stanziamenti di pari entità siano successivamente disposti dalle leggi finanziarie per il 1985 ed il 1986.

Gli ultimi giorni di gennaio del 1984 i rappresentanti dei gruppi consiliari del Comune di Venezia consegnano al Ministro dei lavori pubblici una bozza, unitariamente sottoscritta, di «pre-articolato» di legge contenente proposte in ordine agli interventi da effettuare, nonché alle procedure realizzative degli interventi implicanti più dirette competenze comunali.

Il 6 febbraio 1984 il gruppo repubblicano della Camera presenta un proprio disegno di legge, non sostanzialmente difforme dall'elaborato comunale, ed in più, e particolarmente, volto a specificare gli obiettivi ed a fissare le procedure di realizzazione degli interventi di competenza dello Stato, cioè essenzialmente di quelli di sistemazione idrogeologica del bacino lagunare.

Il 14 giugno 1984 il Ministro dei lavori pubblici sottopone al governo una propria bozza di disegno di legge, che non e approvata perché dichiarata non condivisibile dei ministri repubblicani, la cui posizione viene appoggiata da quelli liberali.

Il 5 luglio 1984 la DC, il PSI ed il PSDI presentano congiuntamente alla Camera, di propria iniziativa, il testo elaborato dal Ministro dei lavori pubblici.

Il 20 luglio 1984 il PCI avanza una propria proposta che, quanto agli interventi in laguna, ricalca quella repubblicana, mentre si rifà piuttosto al testo ministeriale per gli altri aspetti.

Nel frattempo il Consiglio comunale di Venezia vota vari altri documenti, talora unitariamente, talaltra no, variamente stigmatizzando i ritardi di governo e Parlamento, nonché esprimendo critiche anche di merito all'elaborato ministeriale, ma senza misurarsi direttamente con la vera ragione dell'«impasse» protrattasi, e ciò grazie all'orientamento assunto (correttissimo sotto il profilo formale, ma anche certamente funzionale ad evitare l'esplodere di contraddizioni interne alla stessa maggioranza, PCI - PSI - PRI, che governa la città) di non esprimere, perché Consiglio comunale, giudizi circa i modi in cui la nuova legge debba regolare i processi decisionali e gestionali di opere, quali quelle in laguna, di competenza dello Stato.

Mentre, per converso, proprio su tali ultimi contenuti del nuovo provvedimento legislativo (o, il che e lo stesso, sul dovere o no il nuovo provvedimento avere anche tali contenuti) si verificano le più forti divaricazioni.

Il moltiplicarsi dei disegni di legge, infatti, così come l'incapacità del governo di definirne uno proprio, non sono frutto di «bizantinismi», o di scaramucce «di schieramenti». Si tratta, al contrario, di un dislocarsi delle forze politiche - certamente piuttosto anomalo rispetto agli schemi consueti - con esclusivo riferimento ad alcuni nodali «contenuti», di merito e di metodo.

I disegni di legge presentati, infatti, non contengono differenziazioni sostanziali in ordine alla tematica del risanamento conservativo dei centri storici lagunari, o a quella del «disinquinamento» idrico, ed anche sui previsti stanziamenti a favore delle attività produttive dell'area veneziana i contrasti, pur esistenti, paiono in qualche modo componibile. Ma quanto agli obiettivi degli interventi sulla laguna, e quindi alla regolamentazione delle modalità della loro effettuazione, sono palesemente coerenti gli uni con l'una, gli altri con l'altra delle due «logiche» che in materia da qualche tempo si confrontano e si scontrano 38.

La prima «logica» concepisce la laguna veneziana come un comune bacino d'acqua regolato da leggi essenzialmente «meccaniche», e rivolge il proprio esclusivo interesse all'eliminazione del fenomeno delle periodiche inondazioni dei centri abitati lagunari - le famose «acque alte» - attraverso interventi «ingegneristici» sui varchi di comunicazione tra mare e laguna: in buona sostanza, mediante l'installazione in tali varchi di apparati mobili di regolazione dei flussi mareali.

La seconda «logica» intende invece la laguna come un delicato ecosistema complesso, regolato da leggi che, con qualche forzatura, sono piuttosto apparentabil i alla «cibernetica», e rivolge i propri interessi alla conservazione ed al ripristino globale delle sue essenziali caratteristiche di zona di transizione tra mare e terraferma attraverso un complesso coordinato di interventi diffusi, capaci, tra l'altro, di attenuare i livelli di marea e quindi di porre al riparo gli insediamenti urbani delle «acque alte» medio-basse e più frequenti, riducendo la funzione degli sbarramenti manovrabili da realizzare ai varchi tra mare e laguna a quella di intercettare le maree di eccezionale livello e frequenza.

A questa seconda «logica» si vogliono richiamare il PRI, il PCI ed il PLI, ed é forse opportuno rammentare come questa sia la logica che si evince dalla precedente «legge speciale per Venezia», del 1973, che presiede agli «indirizzi» per la pianificazione del comprensorio veneziano dettati dal governo nel 1975, che e compiutamente sviluppata ed espressa nel progetto di piano comprensoriale votato nel 1980, nelle osservazioni - integrazioni a tale progetto avanzate dal Comune di Venezia nel 1982, in svariati documenti votati, talvolta all'unanimità, dallo stesso Comune negli ultimi anni.

Perciò i disegni di legge del PRI e del PCI, oltre ad enunciare compiutamente ed articolatamente gli obiettivi del complesso degli interventi da effettuarsi in laguna, prevedono la definizione di un «piano unita rio e globale» (da adottarsi dal governo, ed approvarsi dal Parlamento) di tali interventi (nonché dei necessari studi, ricerche e sperimentazioni), in cui, con particolare sottolineatura, si richiede siano evidenziate le correlazioni tra gli interventi previsti e venga definito l'ordine logico e cronologico della loro attuazione, che si prevede vincolante rispetto ad ogni finanziamento pubblico per interventi del tipo considerato, con l'eccezione di talune categorie di opere, di natura, per così dire, meramente «conservativa» o «manutentiva», e/o di riconosciuto carattere urgente.

Alla prima delle due «logiche» dianzi sommariamente esposte pare invece vogliano rifarsi il Ministro dei lavori pubblici e, appresso a lui, la DC, il PSI ed il PSDI. Lo si evince dal modo, generico e riduttivo, in cui nell'elaborato del primo, fatto proprio dai secondi, sono enunciati gli obiettivi degli interventi sulla laguna, e dall'assenza, nel medesimo elaborato, di ogni e qualsiasi previsione di inquadramento programmatorio degli interventi stessi.

I disegni del PRI e del PCI contemplano entrambi, inoltre, che per l'effettuazione del complesso degli interventi sulla laguna sia utilizzato l'istituto della «concessione» della realizzazione delle opere, ma al contempo prevedono:

- che se ne fondi normativamente la possibilità, definendone i lineamenti essenziali;

- che l'affidamento in «concessione» della realizzazione delle opere si riferisca e si conformi al piano unitario e globale degli interventi; - che vi siano fasi e momenti di verifica, controllo, eventuale adeguamento progettuale degli interventi «concessi», da parte dei pubblici poteri;

- che, infine, gli studi, le ricerche, le sperimentazioni (salvo quelle strettamente correlative agli aspetti esecutivi delle singole opere), nonché i controlli tecnico-scientifici, siano affidati a soggetti diversi dall'esecutore - «concessionario» delle opere, dotati di mezzi, strumenti ed autorità tali da potere esercitare pienamente ed efficacemente il proprio ruolo, anche ponendosi in aperta dialettica con il «concessionario».

L'elaborato del Ministro dei lavori pubblici, fatto proprio da DC, PSI e PSDI, tace affatto su tutto questo complesso di tematiche. Ma é ben noto essere convinzione e volontà del Ministro dei lavori pubblici di «concedere» allo stesso raggruppamento di imprese private, il consorzio «Venezia nuova», sia la realizzazione di tutti gli interventi (nell'ottica riduttiva di cui si é detto) che l'effettuazione dei relativi studi, ricerche, sperimentazioni, controlli tecnico-scientifici. In buona sostanza, di «concedere» al medesimo soggetto l'attuazione di opere, ed anche di giudicarne, a monte ed a valle, la validità.

Il 3 ottobre 1984 la IX Commissione della Camera dei deputati, dopo vivaci alterchi e concitate mediazioni, giunge ad approvare all'unanimità, in sede legislativa, un testo che, approvato anche dalla competente Commissione del Senato, sempre in sede legislativa, diviene la legge 29 novembre 1984 n. 798.

Quanto agli obiettivi degli interventi sulla laguna, la nuova legge stabilisce che questi ultimi devono essere «volti al riequilibrio della laguna, all'arresto ed all'inversione del processo di degrado del bacino lagunare ed all'eliminazione delle cause che lo hanno provocato, all'attenuazione dei livelli delle maree in laguna, alla difesa con interventi localizzati delle insulae dei centri storici, ed a porre al riparo gli insediamenti urbani lagunari dalle acque alte eccezionali, anche mediante interventi alle bocche di porto con sbarramenti manovrabili per la regolamentazione delle maree».

È quindi pienamente assunta, e puntualmente descritta, la «logica» che era stata espressa nei disegni di legge del PRI e del PCI, e sostenuta anche dal PLI.

In ordine alle modalità di realizzazione degli interventi si prevede la costituzione di uno speciale Comitato, composto dal Presidente del consiglio, dai ministri interessati e dai rappresentanti degli enti locali, cui «é demandato l'indirizzo, il coordinamento, ed il controllo», ma che non é espressamente sancito debba, per assolvere i suoi compiti, preliminarmente definire quel «piano unitario e globale degli interventi» che era indicato nei disegni di legge del PRI e del PCI, ed era stato ripetutamente richiesto. La previsione del predetto Comitato, ed i compiti, generali e specifici, che gli sono affidati, sono quindi soltanto la premessa logica ed istituzionale dalla quale partire per ottenere la formazione di tale «piano unitario e globale».

Per il resto viene normativamente fondata la possibilità di affidare la realizzazione degli interventi «in concessione», ma non si definiscono i lineamenti di quest'ultima, limitandosi a prevedere che il Comitato di cui s'e detto si pronunci sulle connesse convenzioni, si demanda ad un decreto del Ministro dei lavori pubblici la precisazione (seppure «sulla base delle convenzioni» decise dal Comitato) «delle modalita e delle forme di controllo sull'attuazione delle opere affidate in concessione», ed infine, e soprattutto, non solamente non si precisa che gli studi, le ricerche, le sperimentazioni debbono essere affidate a soggetti diversi dall'esecutore «concessionario» delle opere, ma si fa esplicita menzione della concessione «in forma unitaria» sia degli interventi che degli studi e delle progettazioni.

[…]


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Attualizziamo al 2003

Postilla di E. Salzano

Lo scontro di oggi, che vede opporsi i sostenitori del MoSE ai suoi avversari, trova le sue radici – come Luigi Scano ci ricorda in queste pagine datate 1985 – in anni molto lontani. Esse sono indubbiamente in quelle due “logiche” alle quali Scano si riferisce: quella che “concepisce la laguna veneziana come un comune bacino d'acqua regolato da leggi essenzialmente «meccaniche”, e quella che “intende invece la laguna come un delicato ecosistema complesso, regolato da leggi che, con qualche forzatura, sono piuttosto apparentabili alla cibernetica, e rivolge i propri interessi alla conservazione ed al ripristino globale delle sue essenziali caratteristiche di zona di transizione tra mare e terraferma attraverso un complesso coordinato di interventi diffusi”.

Se le concezioni che si confrontano sono le stesse, esistono comunque due differenze consistenti.

1) Allora, la posizione “meccanicista” era sostenuta, tra le forze locali, quasi esclusivamente dalla componente craxiana del PSI, autorevolmente rappresentata da Gianni De Michelis e da componenti minoritarie della DC, mentre a livello nazionale era appoggiata anche dalla potente pattuglia dei socialdemocratici del PSDI. Oltre che, naturalmente, dalle lobby legate all’edilizia e all’ingegneria pesante. Oggi quella medesima concezione è sostenuta dalla destra al potere a Roma e da una parte consistente del centrosinistra veneziano, a partire dal suo massimo esponente e sindaco della città.

2) Allora, anche per la presenza nello schieramento locale di personalita’ di rilievo a livello nazionale (come Bruno Visentini e Gianni Pellicani), la posizione “sistemica” godeva di un appoggio più largo rispetto a oggi dell’opinione pubblica nazionale, e in particolare nei settori legati all’ambientalismo e alla tutela dei beni culturali.

Ha indubbiamente inciso, nel provocare l’indebolimento del fronte antagonista alla “logica MoSE”, sia il profondo mutamento del quadro politico e culturale generale (Berlusconi non rappresenta solo se stesso, né solo l’ideologia della destra), sia l’immane potere di condizionamento dell’informazione dispiegato da quella vera e propria macchina di guerra che è il Consorzio Venezia Nuova, praticamente monopolista dell’informazione con i mezzi forniti dal contribuente. E per conquistare consenso ad una soluzione di un problema complesso come quello dell’equilibrio dellaLaguna, il monopolio dell’informazione è l’arma vincente.

* Nello scansire ed editare il testo ho corretto alcuni errori di battitura (e forse ne ho aggiunti altri) e ho eliminato alcune note di richiamo ad altre parti del volume (es)

[1]Per una più ampia esposizione degli elementi essenziali dello «Studio di fattibilità e progetto di massima», nonché -delle vicende connesse, si veda: Comune di Venezia, La salvaguardia fisica della laguna, a cura di Luigi Scano, Francesco Gostoli e Caterina Barovier, Marsilio Editori, Venezia, 1983.

[2] Da: Associazione fra le case di spedizione, spedizionieri e agenti marittimi della Provincia di Venezia; Provveditorato al porto di Venezia; Camera di commercio, indu­stria, artigianato e agricoltura; Azienda autonoma di soggiorno e turismo; Associazione degli industriali della provincia di Venezia ed Ente zona industriale di Porto Marghera; Associazione per la tutela del patrimonio naturale, storico, artistico, dell'estuario della laguna di Venezia «Estuario Nostro»; Associazione civica «Venezia Serenissima»; «Italia Nostra»; Unione commercianti ed esercenti della provincia di Venezia; Associazione Artigiani della provincia di Venezia, Associazione veneziana albergatori; Consigli di Quar­tiere di Dorsoduro, San Polo, Santa Croce, Giudecca e Pellestrina; Collegio degli ingegneri della provincia di Venezia; Unione veneziana del Partito Repubblicano Italiano; C.I.S.L.; Federazione dei portuali (F.I.L.P.).

[3] Del quale, salvo errori od omissioni, entrano a far parte (le cifre fra parantesi indicano la percentuale di partecipazione): Condotte d'acqua (2,0%); Impresit (20%); Fincosit (20%); Sacug (15%); Lodigiani (5%); Consorzio S. Marco-Furlanis, Grassetto, CIR, Maltauro, Cosma, Vittadello, Sacaim, Codelfa, CCC (15%); Consorzio Rialto-Foccardi, Scuttari, Boscolo, Busetto, Ferrari, Coop. San Martino, Rossi (5%).

Il testo integrale dei capitoli del libro di L. Scano:

Il progetto di massima per la difesa dalle acque alte.pdf

La nuovissima legge speciale.pdf

Devo essermi distratto. E quindi mi sono perso una puntata dell’evoluzione dell’ordinamento giuridico-istituzionale italiano: quella nella quale è stato deciso che dei soggetti chiamati “commissari”, e nominati per rispondere alle più varie “emergenze” (cioè per fare quello che questa o quella pubblica amministrazione, o più pubbliche amministrazioni di concerto, dovrebbero ordinariamente fare in un Paese “normale”, nel quale le competenze siano assegnate con criteri razionali), sono legibus soluti, cioè abilitati ad agire anche in contrasto con i dettati di qualsiasi legge, e non soltanto (come mi sembrava d’avere inteso, e ciononostante non condividevo), eventualmente, in deroga a qualche disposizione di legge, in genere di tipo “procedimentale”, puntualmente indicata e circoscritta sempre da atti aventi forza di legge. Anzi: parrebbe che per i suddetti “commissari” dovesse valere la massima per cui quod principi placuit, legis habet vigorem (“ciò che piace al principe ha vigore di legge”), caratteristica dell’età dell’assolutismo negli Stati d’antico regime, e traslata, esaltandola, nel Novecento, soprattutto nel fuehrerprinzip nazionalsocialista.

Così accade che, resocontano i quotidiani locali il 22 giugno 2006 (Il Gazzettino di Venezia, “Una nuova isola per depositare i fanghi”; la Nuova di Venezia e Mestre, “Mega discarica da 50 ettari”, quest’ultimo inserito in eddyburg), il “commissario” straordinario per lo smaltimento dei fanghi di escavo dai canali del porto (e dai canali portuali lagunari), nonché dirigente dell’assessorato all’ambiente della Regione Veneto, ingegnere Roberto Casarin, ha presentato alla speciale Commissione per la salvaguardia di Venezia (che lo stesso Casarin presiede su delega del Presidente della Regione Veneto, Giancarlo Galan) un progetto per la realizzazione, in Laguna, a fianco dell’esistente (in quanto realizzata alcuni decenni addietro, sempre in connessione con le sistemazioni dell’area portuale e industriale di Marghera, e in tempi più recenti innalzata sino a 9 metri sopra il livello dell’acqua) isola delle Trezze, di una nuova isola artificiale, di circa 55 ettari, elevata fino a 4,5 metri sopra il livello dell’acqua, costituita da fanghi inquinati di tipo B e C nelle parti centrali, circondate da palancolate metalliche, da fanghi di tipo A in una fascia circostante, rafforzata da palizzate, e da fanghi non inquinati digradanti verso il fondale in una ulteriore fascia.

Ora, si dà il fatto che la tuttora vigente legge “speciale” per Venezia del 16 aprile 1973, n.171, proclami, con la lettera c) del secondo comma dell’articolo 3, che tra le direttive vincolanti da dettarsi da parte del Governo nazionale per la definizione della pianificazione comprensoriale della laguna di Venezia e del suo entroterra debba esservi l’”esclusione di ulteriori opere di imbonimento” di parti del bacino lagunare.

Tale norma, di palese carattere “provvedimentale” e “sostanziale”, era stata inserita nel contesto della legge in itinere, verso la fine del 1972, raccogliendo le istanze di Italia Nostra e dei movimenti, che oggi sbrigativamente chiameremmo “ambientalisti”, locali, nati nell’area veneziana dopo l’acqua alta eccezionale del 4 novembre 1966. L’iiziativa parlamentare era stata dei senatori repubblicani, i cui emendamenti, contenenti tra l’altro il testo sopra riportato, erano stati accolti dal Governo e dalla maggioranza dell’epoca grazie, da un lato, al lavorio paziente di Giovanni Spadolini, da un altro lato alla esplicita minaccia di Ugo La Malfa di mutare l’atteggiamento non troppo malevolo mantenuto fino allora (“dall’esterno”) nei confronti del debolissimo esecutivo in carica (si trattava del cosiddetto Governo “Andreotti – Malagodi”).

In quanto disposizione di legge, per di più statale e speciale, l’esclusione di ogni previsione di imbonimento di nuove aree lagunari è stata, com’è ovvio, rigorosamente rispettata sia nel progetto di piano comprensoriale della laguna e dell’entroterra di Venezia (previsto dalla stessa legge 171/1973 e più specificamente disciplinato dalla legge regionale veneta 8 settembre 1974, n.49, redatto tra il 1977 e il 1979, fatto proprio dal Consiglio del comprensorio il 25 gennaio 1980, e poi bloccato nella prosecuzione del suo iter formativo), sia nel “Piano di area della Laguna e dell’area veneziana (PALAV.)”, di competenza della Regione Veneto, formato tra l’autunno del 1986 e quello del 1995 (e che, nel corso dell’iter formativo era dichiarato, dal comma 4 dell’articolo 3 della legge regionale 27 febbraio 1990, n.17, sostitutivo del piano comprensoriale), sia nel “Piano territoriale provinciale (PTP.)” della Provincia di Venezia, adottato con deliberazione del Consiglio provinciale del 17 febbraio 1999, n.51195/I (ma mai giunto alla definitiva approvazione, spettante alla Regione Veneto, e da questa restituito alla provincia per una rielaborazione in conformità alla nuova legge urbanistica regionale 23 aprile 2004, n.11), sia infine negli strumenti urbanistici dei comuni interessati, a cominciare da quello di Venezia.

In effetti, quando si volle, dopo l’entrata in vigore della legge 171/1973, introdurre limitate possibilità di eccezione al generalizzato divieto “di ulteriori opere di imbonimento”, si ricorse preventivamente, e doverosamente, a innovazioni legislative. Cosi nella legge 29 novembre 1984, n.798, si dispose (primo comma dell’articolo 16) che “al fine di provvedere alla discarica dei materiali di risulta delle demolizioni di opere edilizie effettuate nell’ambito dei centri storici di Venezia, Chioggia e della laguna, il Magistrato alle acque, di intesa con i comuni interessati, provvede a individuare le aree a ciò necessarie, Tali aree vanno individuate prioritariamente in relazione agli interventi di rimodellamento dei terreni necessari per le opere [di salvaguardia, restauro, risanamento, e altro, previste dalla stessa legge], ove queste non fossero sufficienti, o non fossero disponibili in tempi utili, è consentito derogare [al divieto di ulteriori imbonimenti], salvo il nulla osta delle autorità preposte alla tutela dell’ambiente”. Vale la pena, in proposito, di sottolineare che l’ipotesi di deroga è variamente circoscritta, a cominciare dal puntuale riferimento al tipo di materiale da sistemare, per cui nella fattispecie descritta non può di sicuro rientrare la progettata realizzazione di una nuova isola di 55 ettari con lo scarico di fanghi altamente inquinati. Analogamente, nella legge 8 novembre 1991, n.360, si dispose (articolo 4, comma 6) che “i siti destinati unicamente al recapito finale, ivi compreso il seppellimento, dei fanghi non tossici e nocivi estratti dai canali di Venezia, purché sia garantita la sicurezza ambientale secondo i criteri stabiliti dalle competenti autorità, potranno essere ubicati in qualunque area, ritenuta idonea dal Magistrato alle acque, anche all’interno del contermine lagunare, comprese isole, barene, terreni di gronda”. Pare che l’ingegnere Casarin abbia dichiarato (Il Gazzettino di Venezia) che il suo progetto “è rispettoso della legge 360/1991”: l’unica disposizione di tale legge che può presentare un’affinità con l’argomento della realizzazione di una nuova isola in laguna utilizzando i fanghi di escavo dai canali del porto, e dai canali portuali lagunari, è quella sopra riportata, la quale ammette il recapito di fanghi anche in isole, barene, terreni di gronda esistenti (seppure eventualmente alterandone la morfologia), e soprattutto stabilisce che essi debbano essere non tossici e nocivi (e non altamente inquinati come quelli che vuole sistemare Casarin) nonché estratti dai canali urbani della città storica di Venezia, e non dai canali di Porto Marghera, o da quelli di adduzione a tale area portuale-industriale.

L’ingegnere Casarin avrebbe anche dichiarato che il suo progetto “è conforme al protocollo d’intesa dell’aprile 2003 tra Stato, Regione, Provincia, Comuni di Venezia e Chioggia”, e che inoltre “ha avuto il 31 maggio scorso la Valutazione di impatto ambientale”. Ora, sempre che, come dichiaravo di temere all’inizio di questo scritto, non mi sia accorto dell’intervenire di qualche stravolgente mutamento dell’ordinamento giuridico-istituzionale italiano, a me risulta sempre che le disposizioni di legge possano essere variate soltanto dal Parlamento, secondo il procedimento costituzionalmente previsto, e non anche dai “protocolli di intesa”. E che la Valutazione di impatto ambientale (nella fattispecie, si presume confezionata dalla stessa Regione Veneto), da quando è stata introdotta in Italia, è stata spesso usata come un grimaldello per scassinare la pianificazione territoriale e urbanistica, ma, almeno, non anche come una legittima procedura per violare le disposizioni di legge.

Non resta quindi che attendere che le persone perbene (non necessariamente “ambientaliste”, ma semplicemente indisponibili a mettere in non cale il “principio di legalità”) che siedono nella Commissione per la salvaguardia di Venezia (e ve ne sono, per fortuna!) esigano dall’ingegnere Casarin, prima di qualsiasi presa in considerazione, sotto qualsivoglia profilo, del merito del suo progetto, l’esauriente dimostrazione, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, della sua legittimità.

La vicenda, a ogni buon conto, comunque si sviluppi, dovrebbe fare intendere agli ingenui creduloni fattisi convincere dal possente armamentario mediatico del Consorzio Venezia Nuova delle virtù salvifiche, per la sopravvivenza e la tutela di Venezia e della sua laguna, del MOSE (penso innanzitutto a certi amabili comitati privati stranieri “per Venezia”, a cominciare da quelli britannici), che, viceversa, il medesimo MOSE costituisce, per sua natura, e anche a prescindere dai disastri ambientali e paesaggistici che produrrebbe la sua realizzazione (e da quelli che già ha irreversibilmente prodotto l’avvio delle relative opere), un formidabile paravento al riparo del quale tornerebbe a essere possibile ogni forsennata (ma lucrosa) manomissione della laguna. La realizzazione del MOSE, infatti, costituisce, in buona sostanza, null’altro che l’installazione di tre “rubinetti” agli altrettanti varchi che connettono il mare a una laguna concepita come un qualsiasi “catino”, nel quale sarebbe quindi indifferente scaricare ogni corpo estraneo (nuovi imbonimenti, marginamenti in pietrame di barene mai esistite e di canali naturali e non, vecchi e nuovi, e via massacrando), essendo sufficiente regolare via via i “rubinetti” per rispondere alle esigenze veramente essenziali: far sfilare nel bacino di San Marco le sempre più immense navi da crociera, impedire alle “acque alte” (di qualsiasi ampiezza) di bagnare i preziosi piedini dei 16 milioni di turisti annui, pendolari giornalieri (ma grandi consumatori, prevalentemente di schifezze, nei pubblici esercizi della città storica) e anche pernottanti nelle migliaia di nuovi posti-letto negli alberghi, e soprattutto dai falsi affittacamere, lasciati attivare dalle amministrazioni comunali degli ultimi lustri sottraendo il patrimonio edilizio alla residenza ordinaria, evitare che le medesime “acque alte” diano disturbo alle miriadi di negozi di merce “griffata” ovvero di “prodotti tipici veneziani” rigorosamente provenienti dal sud-est asiatico.

Sul progetto dell’ingegnere Casarin, nel frattempo, si è fatto avvertire l’assordante silenzio degli organi (di norma loquacissimi) delle istituzioni locali, e in particolare del Comune di Venezia, durato (per ora) quattro giorni dalla prima dettagliata informazione sul progetto fornita dai quotidiani locali.

Ma consoliamoci. Lo stesso giorno in cui i quotidiani locali illustravano (entrambi con meraviglia e qualche ironia) il progetto dell’ingegnere Casarin, i medesimi quotidiani davano notizia dell’ufficializzazione dell’ingresso nella Giunta comunale veneziana dei “Verdi”, con l’onorevole Luana Zanella nel ruolo di assessore alla cultura. Prosit.

Chiunque può usare o riprodurre l’articolo a condizione di citarne l’autore e la fonte ( “tratto da http://eddyburg.it”).

Se il 2006 doveva essere l'anno della svolta per Venezia, la svolta non c'è stata. È stato l'anno del Mose, della polemica con Roma sul cinema, dell'avvio del nuovo Palazzo del Lido, della riapertura di Palazzo Grassi e del dibattito culturale e politico sul futuro di Punta della Dogana, ma non è stato ancora l'anno del ponte di Calatrava (questione di giorni). Come dire: tutti i progetti importanti sono arrivati da fuori. Il Mose l'hanno voluto i governi di centrodestra e centrosinistra, per riaprire Palazzo Grassi c'è voluto Pinault e per Punta della Dogana, se non sarà Pinault, toccherà comunque a una cordata non veneziana, guidata dalla Guggenheim. Aeroporto e Porto hanno visto aumentare i loro traffici, ma i trasporti locali soffrono ancora del sovraccarico dei turisti. Si sono messe le basi per ristrutturare il Tronchetto, per il people mover, per il tram e per un nuovo parcheggio in Marittima, ma la mobilità delle persone e la distribuzione delle merci in centro storico non sono ancora state riorganizzate. Che fine ha fatto il vecchio piano sulla logistica? Quando partiranno i nuovi terminal di Fusina e Tessera che toglieranno il centro storico dalla dipendenza dal Ponte della Libertà, l'unico cordone ombelicale che tiene unite la città di mare e la città di terra? È stata avviata la raccolta differenziata, ma c'è ancora chi differenzia a modo suo, gettando le immondizie in canale dalla finestra di casa o chi intende il porta a porta come portare i rifiuti davanti la porta di casa del vicino. Ciascuno può vedere con i propri occhi e giudicare quello che è stato fatto, quello che non è stato fatto e intuire quello che si farà. Ma Venezia non è solo progetti visibili, non è solo eventi, feste e cultura. Il 2006 non è stato l'anno della svolta perché non basta un'opera o un progetto per cambiare marcia, non si può fissare la svolta su una data del calendario. Il vero male di Venezia in realtà serpeggia sotto e sembra muoversi come i topi nelle calli, strisciando lungo i muri. Per questo male ci vuole una cura lunga che ancora non si vede. Nei giorni che hanno preceduto le festività natalizie, passeggiando per il centro storico, si transitava in calli e campi pressoché deserti. È la conferma che la vita e la vitalità di questa città dipendono dai turisti. Si sapeva, ma scoprirlo "sul campo" fa sempre un certo effetto.

Di nuovo c'è che nel 2006 è parso di respirare una rassegnazione crescente da parte dei veneziani. Le solite battaglie - contro il moto ondoso, contro lo spopolamento, contro la deriva turistica - paiono combattute da un esercito logoro e in disarmo.

Se nessuno - cittadino o istituzione - reagisce quando un hotel trasforma in camere appartamenti destinati all'edilizia residenziale; se nessuno si domanda perché mai i veneziani, con operazioni urbanistiche non accompagnate da trasformazioni sociali, dovrebbero rassegnarsi a trasferirsi ai margini della città (Santa Marta, Celestia, Giudecca) perché i sestieri centrali ormai territorio di seconde case e bed & breakfast; se nessuno si chiede di chi è la responsabilità di decine e decine di milioni di euro di legge speciale (soldi pubblici) elargiti in 30 anni anche per fermare l'esodo demografico ed economico, ma evidentemente spesi male o non spesi, visto che la città si spopola di residenti e imprese; se nessuno si domanda come mai la Curia sente il bisogno di ricorrere al microcredito, come avviene nei Paesi del terzo mondo, per sostenere un numero sempre maggiore di famiglie del ceto medio che non ce la fanno ad arrivare a fine mese; se nessuno si domanda perché, con due Università prestigiose, è difficile che un giovane dopo la laurea si fermi a vivere e lavorare in questa città; se tutto questo è stato assimilato come un male con cui ci si abitua a vivere, tanto vale invocare che qualcuno stacchi la spina.La soluzione ai problemi del turismo non può essere qualche tabellone con il decalogo dei comportamenti lasciato marcire attorno a Piazza San Marco, nè qualche commovente e stoico appello gracchiato sui vaporetti che invita a tenere pulita Venezia. In città si sprecano i dibattiti, ma nel luogo dove il dibattito viene istituzionalizzato - il consiglio comunale - si discute sempre meno. Le decisioni che contano, anche per come è fatta la legge sulle amministrazioni locali, vengono adottate spesso in giunta o con determine dirigenziali che a volte risultano sconosciute anche agli stessi assessori. E certe riunioni di Municipalità assomigliano più a reality show che a palestre di buongoverno. Sperare in una svolta che arrivi dalla società civile sembra un'utopia. La classe degli intellettuali locali invecchia, si assottiglia con il tempo e somiglia a un club di Cassandre. Quella economica è proiettata all'auto-conservazione. Decenni di turismo di bassa qualità hanno prodotto un ceto imprenditoriale su misura - le tanto invocate "categorie" - frammentato, blindato con logiche corporative e qualitativamente livellato verso il basso, salvo rare eccezioni. Il connubio tra cervello e portafoglio, tra capacità intellettuale e capacità imprenditoriale, si è spezzato da anni. Chi dice che a Venezia manca una classe dirigente e imprenditoriale ha però ragione a metà e compie l'errore di guardare solo al di qua del ponte. Perché la vera classe dirigente cittadina ormai è a Mestre, figlia di quei veneziani emigrati in terraferma, dove si sta formando una generazione di imprenditori e professionisti, che però sono pur sempre veneziani. Se è vero che la città è una e indivisibile, uno dei semi della rinascita ce l'ha già al suo interno. Davide Scalzotto

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