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Il caso della storica Arena Borghesi, a Faenza, dove il cemento prevale sui beni comuni ed identitari e la prassi contrasta palesemente con i principi fondativi degli strumenti urbanistici. Documento di Italia Nostra e Legambiente, sezioni di Faenza. 8 maggio 2017 (p.d.)

Nel 1816, a ridosso delle mura urbane di Faenza, viene realizzato il Viale Stradone e dal 1824 il Fontanone è il suo fondale prospettico, un edificio neoclassico pensato per il paesaggio e la socialità del luogo, che ha origine da un intervento pubblico di valore etico. Con i fondi di una sottoscrizione popolare si costruisce, in una prima fase, la facciata della fontana; due anni dopo, con l’acquisto di un’area privata attigua, si realizzano una sala caffè e un giardino.

L’Amministrazione comunale di due secoli fa investe quindi sulla bellezza della città, con un progetto di paesaggio che nasce dal coinvolgimento della cittadinanza; o testimonia un’epigrafe che ricorda l’origine “popolare” di un luogo d’incontro che diventa patrimonio della comunità.
Nel 1891, all’inizio del Viale Stradone, viene realizzato il primo teatro dell’Arena Borghesi. Nel 1928, Vincenzo Borghesi ristruttura l’Arena realizzando un’architettura del paesaggio fatta di mattoni e alberi che si relaziona al vicino Viale Stradone. È una “piazza” per il teatro e il cinema inserita tra imponenti alberi che occupano un quinto dello spazio, non come oggetti di arredo, ma come elementi di “costruzione” fisica e identitaria del luogo.

L’Arena Borghesi è uno dei paesaggi più vissuti e riconoscibili della città, “esiste nella coscienza” individuale e collettiva. Nel 1957, il proprietario Vincenzo Borghesi dona l’Arena all’Ospedale Civile. Lungo il Viale Stradone, agli inizi dell’Ottocento e del Novecento, la città riceve in dote due lezioni di urbanistica; esempi anche di valore etico, per il lascito alla comunità di patrimoni paesaggistici e culturali che producono cittadinanza e senso di appartenenza.

All’inizio di questo secolo, il tema urbanistico dell’Arena Borghesi, modello di relazione col Viale Stradone, rischia però di essere stravolto da un intervento di anti-urbanistica. L’ASL (attuale proprietaria) ha posto in vendita, tramite asta, l’Arena. Un Accordo di Programma del RUE 2015, prevede che la nuova proprietà ceda l’area al Comune, ad esclusione di uno spazio reso edificabile, e copra parte dei costi di restauro.

La funzione pubblica di cinema all’aperto è garantita (una condizione ovvia per questo luogo) ma l’identità e il paesaggio dell’Arena sarebbero profondamente alterati. Infatti la parte di area resa edificabile confina con un supermercato che da anni “chiede” di allargarsi; l’Accordo di programma del Comune ne consente l’ampliamento dentro l’Arena.
L’espansione del supermercato produrrebbe alcuni effetti oggettivi che l’Amministrazione Comunale però “non vede”:
- la riduzione di un quinto della superficie dell’Arena;
- la cancellazione dello spazio alberato che determina il carattere del luogo;
- l’allargamento dell’errore urbanistico del supermercato realizzato nel 1981, un edificio incongruo e fuori contesto (come lo classificò lo stesso PRG del 1996);
- la disgregazione di un paesaggio storico e delle sue relazioni col contesto del Viale Stradone.
Non è a rischio la “bella vista” di 10 alberi, ma la qualità dell’abitare legata ad un paesaggio identitario che sarebbe svilito a servitù di un supermercato. L’invasione del cemento sull’Arena Borghesi rappresenta una sconfitta per la cultura del paesaggio ed è una “tomba” dell’urbanistica; l’Accordo di Programma rinnega gli stessi principi del RUE che ha tra i suoi obiettivi la qualità paesaggistica e identitaria.
In relazione al “movente” economico dell’Accordo di Programma, le Associazioni hanno proposto più volte al Comune l’opportunità di coinvolgere una pluralità di attori (sponsor, mecenati, cittadini), in alternativa all’accordo con un singolo privato. La proposta specifica (ignorata) si riferisce alla costituzione di Bene Culturale, una procedura che il Comune potrebbe avviare per riuscire ad inserire l’Arena Borghesi tra i beni finanziabili con l’Art Bonus e coinvolgere così la comunità, come insegna il caso storico del “Fontanone”.
Per sostenere l’esigenza di una tutela paesaggistica dell’Arena Borghesi, Italia Nostra e Legambiente di Faenza hanno presentato le osservazioni al RUE e realizzato un dossier informativo inoltrato alla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Ravenna, all’Assessore all’Urbanistica della Regione Emilia Romagna, alla Provincia di Ravenna. La relazione contiene il quadro storico delle trasformazioni urbanistiche e l’analisi del contesto paesaggistico che introducono le motivazioni della richiesta di tutela paesaggistica dell’Arena Borghesi, ai sensi del D.Lgs. 42/2004.
Attualmente esiste il vincolo per la conservazione degli edifici (il proscenio, l’ingresso e l’ex locale per ristoro), mentre il vincolo esistente sull’area aperta è stato cancellato alcuni anni fa. Il solo vincolo sugli edifici rende possibile “l’invasione edilizia” del vicino supermercato e quindi l’alterazione di un paesaggio storico. L’identità dell’Arena Borghesi dipende da un’architettura del paesaggio unitaria; la conservazione della sua integrità è il presupposto della tutela di questo luogo.
Con questa motivazione le Associazioni hanno realizzato varie iniziative per coinvolgere i cittadini. Nel settembre 2016, è stata realizzata l’installazione Red carpet, un unico tappeto visivo per segnare la continuità di un paesaggio storico vissuto che unisce l’Arena col Viale Stradone. 200 teatrini di cartoncino rosso, appesi agli alberi del Viale, davano forma alla finalità di conservare l’integrità dell’Arena Borghesi; i modelli (del proscenio reale) erano infatti il risultato di pieghe, tagli, incastri e della totale assenza di scarti. L’iniziativa attualmente in corso è la petizione, indirizzata al Sindaco di Faenza, per scongiurare la minaccia del cemento e l’alterazione del paesaggio identitario. Nelle prime due settimane sono state raccolte circa 1200 firme, attraverso i consueti banchetti in piazza e la sottoscrizione on line sulla piattaforma digitale Change.org.

Due testimonianze della miopia e della sudditanza della politica italiana di fronte ai poteri forti di un mondo ottuso. Articoli di Daniele Matini e Francesco Musolino. il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2017 (p.d.)

LO SCALO LOW-COST CHE

AI BENETTON NON CONVIANE

di Daniele Martini
C'è un progetto alternativo per il potenziamento dell’aeroporto di Fiumicino che costa quattro volte meno di quello preparato dalla società AdR-Aeroporti di Roma della famiglia Benetton che gestisce lo scalo: 5 miliardi di euro invece di 20. È un piano efficace e dettagliato per dotare la capitale di una struttura più capiente ed efficiente dell’attuale in vista degli aumenti di traffico sperati, circa 10 milioni di passeggeri in più dal 2021 rispetto ai 40 attuali.

Rispetto al piano ufficiale, quello alternativo ha anche il merito di non intaccare le zone pregiate della Riserva statale del litorale romano riperimetrata appena tre anni fa con vincoli più stringenti grazie a un decreto del ministero dell’Ambiente dopo 7 anni di trattative che hanno coinvolto i comuni di Roma e Fiumicino. Infine quel piano non stravolge il reticolo di canali di irrigazione delle campagne della zona così come prevede invece il progetto ufficiale. Il piano alternativo è stato elaborato per l’agguerrito Comitato “Fuoripista” di Fiumicino da tecnici di primo livello ed è una roba seria. Ma resta al palo.
Procede invece come un treno l’altro progetto, quello dei Benetton nonostante sia un concentrato di difetti. A partire dai costi, circa tre volte superiori a quelli del Ponte sullo Stretto, tanto per avere un punto di riferimento noto. E nonostante i danni sicuri e irreversibili che infierirebbero su un ambiente prezioso e supertutelato di cui utilizzerebbe un’area enorme, 1.300 ettari circa per far posto a una quarta e quinta pista, terminal, piazzole, alberghi, negozi. Superfici, guarda un po’ i casi della vita, in gran parte di proprietà dei Benetton che verrebbero espropriate a peso d’oro facendo più che felici i Benetton stessi.
Gli imprenditori veneti si atteggiano come benefattori anche a Fiumicino, investitori illuminati in grado di risolvere i problemi della collettività togliendo le castagne dal fuoco a uno Stato che fa la figura di un mendicante con il cappello in mano. Per l’aeroporto di Roma lo Stato non ha i soldi per il potenziamento, mentre i Benetton quei quattrini ce li hanno, in parte cash e in parte sanno come farseli dare. Il paradosso è che una bella fetta di quei liquidi entra a fiumi ogni giorno nelle casse della società aeroportuale grazie proprio allo Stato e al suo buon cuore.
Il regalo ha una data e un donatore certi: vigilia di Natale del 2012, ultimo giorno di vita del governo presieduto da Mario Monti. Alla chetichella fu concesso allora ad Aeroporti di Roma di aumentare di colpo e in modo consistente le tariffe, circa 10 euro a biglietto aereo, soldi pagati dagli ignari viaggiatori. In cambio i Benetton si impegnavano a investire per lo sviluppo dello scalo. Il raddoppio che propongono è proprio strettamente collegato a quel patto e, a prima vista, sembrerebbe quindi giusto che venisse rispettato. Solo che si tratta di un’intesa truccata, perché il raddoppio è inutilmente eccessivo, costoso e pure dannoso per l’ambiente.
Ai Benetton però piace tanto per almeno due motivi. Primo: serve per ricevere dallo Stato un’altra montagna di quattrini con gli espropri dei terreni. E poi perché per costruire piste, terminal e alberghi i Benetton, presumibilmente, utilizzerebbero le ditte di casa, dalla Spea alla Pavimental, guadagnandoci di nuovo.
Il piano alternativo del Comitato “Fuoripista” è come il classico granello di sabbia che può bloccare un ingranaggio gigantesco. È per questo che la sola esistenza di quel progetto crea imbarazzi a non finire a tutti gli interlocutori a cui è stato presentato, dai dirigenti del ministero delle Infrastrutture agli stessi manager di Adr. I quali non se la sentono di liquidarlo come si trattasse di un opuscoletto di propaganda, ma non sono neanche nella condizione di poterlo ricevere per quel che è: un contributo gratuito per lo sviluppo a basso costo dell’aeroporto. Gli affari sono sempre affari. Negli incontri al ministero e nella sede di Adr a Fiumicino, i rappresentanti del Comitato “Fuoripista” hanno incassato un’attenzione tutt’altro che di circostanza, ma senza concessioni.
Dirigenti ministeriali e tecnici aeroportuali hanno consigliato di trasmettere il piano alternativo per Fiumicino all’Enav, l’ente nazionale per il controllo del traffico aereo. Forse l’avranno pure fatto per scaricare ad altri la patata bollente, ma il passaggio all’Enav è comunque davvero necessario. Il progetto alternativo costa molto meno dell’altro perché si basa su due capisaldi: un migliore utilizzo degli spazi aeroportuali attuali e un diverso scaglionamento dei decolli e degli atterraggi. E siccome è proprio questa la materia di cui si occupa l’Enav, ovvio che intervenga per dire la sua.
L’incontro tra il Comitato e l’ente di assistenza al volo c’è stato nella prima settimana di maggio ed è sembrato la fotocopia degli altri. L’Enav ha comunque messo al lavoro i suoi tecnici per esaminare il progetto nei dettagli. In attesa di queste valutazioni, logica vorrebbe che per precauzione non venisse messo il turbo al piano di raddoppio dei Benetton. E invece sembra che i dirigenti di Adr siano presi da una fretta irrefrenabile. E con essi l’Enac, l’ente dell’aviazione civile, in teoria controllore anche di Adr. Dopo che i tecnici dell’aeroporto avevano aggiunto una serie di modifiche al gigantesco progetto originario con robette tipo un nuovo tracciato della pista quattro e la costruzione di un troncone autostradale dell’A12 a Nord di Roma, Enac ha deciso di saltare il passaggio della Valutazione Ambientale Strategica (Vas), obbligatorio per opere di quelle dimensioni.
Il 30 marzo l’ente dell’aviazione diretto da Vito Riggio si è rivolto direttamente alla Commissione Via (Valutazione impatto ambientale) del ministero dell’Ambiente. E sempre sull’onda della fretta ha deciso pure di non aspettare neanche le valutazioni che il Consiglio di Stato è in procinto di consegnare al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, perché possa esprimersi sulla faccenda fondamentale del perimetro della Riserva statale. E già che c’era l’Enac ha fatto finta di non sapere che su quel perimetro un parere autorevole e vincolante già c’è: quello del ministero dell’Ambiente, contrario a qualsiasi modifica delle aree della Riserva, compresa la cosiddetta zona 1. Proprio quella dove si espanderebbe l’aeroporto in versione Benetton e sulla quale non si può costruire non una pista o un terminal, ma nemmeno un capanno.


G7, CITTA' IN OSTAGGIO

CON ELIPORTO PRIVATO
PER DONALD TRUMP
di Francesco Musolino
Donald Trump l’ha preteso e noi non abbiamo saputo dirgli di no. Il 26 maggio atterrerà a Sigonella con il suo Air Force One per poi ripartire con un elicottero alla volta di Taormina, toccando terra su una pista tutta sua. Evidentemente per un vertice di capi di Stato e di governo di due giorni non era sufficiente un solo eliporto. È ciò che sta accadendo a Taormina, dove si terrà il prossimo G7 (26 e 27 maggio), con i militari al lavoro per spianare entrambe le aree: una nei pressi della piscina comunale, l’altra nel cosiddetto “piano porto”. Ma una volta atterrato nel suo eliporto, ve lo immaginate Trump sfrecciare lungo vicoli e stradine con l’inevitabile corteo di auto superblindate?
In questa situazione di assoluta incertezza, come sempre in Sicilia, si va avanti giorno dopo giorno. Più sperando nella Provvidenza divina che nella programmazione dei lavori. Accogliere i leader di Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Usa dovrebbe essere un’occasione di riscatto; intanto è diventata una corsa contro il tempo.
E se gli albergatori sono gli unici a fregarsi le mani, i timori sulla sicurezza sono molti. Gli occhi sono rivolti ai Giardini Naxos, dove il 27 maggio si terrà un corteo di protesta internazionale, il “Contro G7” per paura di eventuali scontri con le forze dell’ordine. Il sindaco di Taormina, Eligio Giardina, dribbla le polemiche e garantisce che tutto andrà per il

meglio. Ma gli scongiuri non servono, visto che Taormina è uno dei pochissimi Comuni siciliani ancora sprovvisto di un piano di protezione civile (“fermo in fase di bozza al 2013, mentre si starebbe procedendo ad aggiornarlo d’ufficio”), con i tecnici comunali “travolti dal G7”e nessuna segnaletica sul territorio che indichi vie di fuga e aree di attesa.

Ma prima di annunciare il G7 a Taormina forse sarebbe stato sensato informarsi sullo stato delle infrastrutture e sulla mole dei lavori da attuare. Certo non basteranno i 35 mila euro promessi - e non ancora versati - dal governatore siciliano Rosario Crocetta come generoso contributo. E intanto il tempo passa e Taormina è un cantiere fra strade da bitumare, militari che presidiano le vie con le mitragliette in bella vista e una lunga lista di disagi inflitti agli incolpevoli turisti disorientati.
Chissà, magari speravano di poter respirare l’atmosfera che stregò Truman Capote e Tennessee Williams, invece devono fare i conti con squadre di operai che scoperchiano i tombini per potenziare la fibra ottica. E gli abitanti di Taormina e Castelmola (il comune di mille anime sovrastante) che non hanno già previsto un weekend fuoriporta, dovranno munirsi di un pass per la circolazione pedonale nel centro storico. Per due giorni la città verrà blindata e consegnata ai componenti delle delegazioni internazionali (circa 1.500 persone), cui si sommeranno i reporter accreditati e le oltre 10 mila unità preposte alla sicurezza, fra polizia ed esercito. Uno stato d’assedio costoso e imposto dall’alto per soddisfare le esigenze di sicurezza. Il G7 a Taormina, fortemente voluto da Matteo Renzi, rischia d’essere una dimostrazione di lassismo Made in Italy.
A poco più di due settimane dall’appuntamento alcuni cantieri verranno chiusi in extremis, altri riceveranno un’agibilità solo provvisoria, come il PalaCongressi (cui sono stati assegnati 806 mila euro per “lavori di manutenzione ordinaria” con consegna il 15 maggio). Ma se era noto sin dal luglio 2016 che la sede prescelta sarebbe stata Taormina, perché si è atteso sino al 3 aprile per l’avvio di questo cantiere? Inoltre, a causa di un improvviso aumento dei costi è definitivamente saltato il previsto “ampliamento di videosorveglianza territoriale” ovvero l’installazione di un circuito di 700 telecamere di sicurezza dislocate fra Messina, Taormina e Catania, permettendo un ampio monitoraggio delle aree (doveva occuparsene Leonardo-Finmeccanica). Pazienza, ne dovremo fare a meno.
Taormina con due sole vie d’accesso che risalgono la collina sino a 204 metri d’altitudine, verrà chiusa ermeticamente e pochi sanno che l’A18, la Messina-Catania, è considerata la peggiore autostrada non solo siciliana ma italiana, con ampi tratti in cui si procede a doppio senso su un’unica carreggiata a causa della frana del 4 ottobre 2015(!).
Disagi su disagi protratti nel tempo con buona pace di pendolari e turisti. A questo punto è lecito porre una domanda: in base a quali criteri oggettivi, Taormina è stata scelta come sede del G7? Forse per il panorama e il profumo di zagara?

Questi industriali nostalgici! Per contrastare un'opera dannosa e devastante adoperano contro chi protesta un linguaggio che usavano i nazisti contro i partigiani. Il Sole 24Ore, 27 aprile 2017, con riferimenti

È ormai guerriglia attorno al cantiere del gasdotto Tap a Melendugno, nel Salento. Sebbene non ci siano lavori in corso, nè espianto di ulivi, poiché quest’ultima operazione è stata completata nei giorni scorsi, si susseguono attacchi e azioni vandaliche. Tap ha infatti denunciato che la scorsa notte «per l’ennesima volta si è svelato il volto violento del gruppo che dal cosiddetto presidio NoTap cerca di imporre contro le leggi dello Stato quella della giungla, della prevaricazione, dell’aggressione. Per più di un’ora – denuncia la società – è stato impedito il cambio turno delle guardie giurate che vigilano sul cantiere e quelle rimaste intrappolate nell’area recintata sono state fatte ripetutamente oggetto di lanci di sassi che fortunatamente non hanno colpito le persone causando però danni alle automobili di servizio. Il gruppo di scalmanati – rileva Tap – ha pesantemente insultato e minacciato i lavoratori presenti, mentre altri, con arnesi professionali provvedevano a tagliare ben 35 grate della recinzione, 5 delle quali sono state rimosse e rubate». «Chiediamo alle istituzioni locali di fare il possibile per assicurare un presidio di legalità nel territorio» sollecita Tap.

L’episodio ultimo è l’ennesimo di una serie. Domenica scorsa, infatti, per consentire che un’autobotte innaffiasse gli ulivi espiantati e sistemati nella stessa area di cantiere con una soluzione provvisoria, al contrario degli altri rimessi a dimora a masseria del Capitano, è stata necessaria la scorta dei Carabinieri e della Polizia locale di Melendugno perché il presidio No Tap impediva l’accesso e anche lo svolgimento di una semplice operazione finalizzata ad assicurare il mantenimento degli alberi. E appena qualche giorno prima era stato necessario l’impiego di un centinaio di poliziotti e delle ruspe per effettuare gli ultimi espianti nell’area del microtunnel del gasdotto, tutti lavori per i quali Tap non solo è autorizzata ma s’è vista riconoscere la regolarità anche dal Tar. Ruspe resesi necessarie per abbattere le barricate stradali, parte delle quali fatte anche con le pietre portate vie dai muretti a secco della campagna. Senza trascurare, infine, che lo stesso espianto dei 211 ulivi, anche se provvisorio, nelle scorse settimane è stato possibile solo perché le forze di polizia hanno massicciamente presidiato l’area evitando che le proteste accese degenerassero in scontri

riferimenti
sull'argomento vedi su eddyburg i seguenti articoli: TAP Mafia e soldi sporchi dietro il gasdotto, da l'Espresso, 1 aprile 2017, Montanari: l'Italia del No è la migliore, da Micromega, 15 aprile, La lunga storia dell'opposizione, da Lettera43, 23 aprile 2017, Sul gasdotto l'OK del Consiglio di Stato, da la Repubblica, 28 marzo 2017

«A maggio cambia la valutazione d’impatto ambientale Da Italia Nostra al Fai: un aiuto alla lobby del cemento.In ballo strade e ferrovie per 21 miliardi di euro Il ministero: sono regole chieste dall’Europa». la Repubblica, 29 aprile 2017 (c.m.c.)

Cambieranno le norme che regolano la valutazione d’impatto ambientale delle Grandi opere, ma non solo di quelle grandi: linee ferroviarie, autostrade, ponti e anche gasdotti come il Tap. In meglio? In peggio? In meglio, secondo il ministero dell’Ambiente, che ha preparato un decreto legislativo sostenendo di dover recepire una direttiva europea e preoccupato soprattutto di semplificare le procedure. In peggio, secondo il fronte ambientalista, che denuncia un ritorno alle opacità e alle pratiche fallimentari della Legge Obiettivo (2001, uno dei trofei del governo Berlusconi). In gioco ci sono opere infrastrutturali, da una parte, territori, paesaggi e comunità di cittadini, dall’altra.

Venti associazioni imputano al ministro Gian Luca Galletti d’aver voluto un provvedimento, gradito alle imprese di costruzioni, che, fra le altre cose, stabilisce possa essere esaminato dalla Commissione Valutazione d’impatto ambientale già il progetto di fattibilità di un tunnel o di un’autostrada, cioè un progetto molto preliminare e non quello definitivo. La Via dovrebbe stabilire se un’opera arreca danni basandosi sulle linee generali e non sui dettagli di un intervento, dove si annidano molti rischi. Il ministero ribatte di voler sbloccare lavori per 21 miliardi, incastrati nelle procedure di valutazione ambientale. Procedure che durerebbero un anno per verificare l’assoggettabilità di un progetto alla Via e tre per la valutazione.

Questo in media, ma si può anche arrivare a sei anni. Replica Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente (che con Italia Nostra, Wwf, Fai e altre sigle si oppone al provvedimento): «I ritardi non dipendono dalla Via, ma da progetti in molti casi mal fatti». Sui tempi lunghi si è pronunciato il Nucleo di valutazione del Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica, addebitandoli solo in parte alla Via.

La preoccupazione del ministero è di fornire tempi certi ai proponenti di lavori, pubblici o privati. Ma qui la questione si aggroviglia. Secondo gli ambientalisti, dando il via libera a un progetto preliminare si avvia un cantiere che può incappare in inciampi che, questi sì, rallentano i tempi generando varianti che fanno schizzare i costi. Questo insegnano molte vicende del passato, in particolare dopo la Legge Obiettivo (dal 2001 al 2016, calcola il Wwf, i costi delle infrastrutture sono lievitati da 125 a 375 miliardi), vicende che hanno dato luogo a inchieste giudiziarie, ai rilievi dell’Anac e hanno indotto il governo ad approvare nel 2016 un Codice degli appalti che supera la Legge Obiettivo. Inoltre una Via così concepita, insistono gli ambientalisti, riduce le informazioni ai cittadini e la loro partecipazione alle decisioni.

Secondo il Wwf, «ci sono voluti anni perché nella Via ci fosse un confronto vero sulle opere. Ora si torna indietro». Il ministero insiste sulla necessità di attuare una direttiva europea, pena una procedura d’infrazione. L’argomento non convince Maria Rosa Vittadini, che la Commissione Via ha diretto in passato: «L’Europa chiede una Via che contempli anche la biodiversità o i mutamenti climatici, che presti attenzione alla salute, al paesaggio e alla partecipazione. Quel che propone il ministero è assai riduttivo. Sarebbe utile dividere la Via in due fasi, una su un progetto più avanzato rispetto al preliminare, un’altra su un progetto definitivo. In entrambe le fasi è però essenziale la presenza delle amministrazioni locali e dei cittadini».

«Nuova finanza pubblica . Si utilizza lo shock del debito per scaricarne i costi sugli enti locali e sulle comunità territoriali allo scopo di costringerle alla privatizzazione dei beni comuni». il manifesto 29 aprile 2017 (c.m.c.)

L’attacco alla funzione pubblica e sociale degli enti locali prosegue senza soluzione di continuità. D’altronde, è nella disponibilità dei Comuni la ricchezza sociale cui da tempo mirano i grandi interessi finanziari e immobiliari: territorio, patrimonio pubblico, beni comuni e servizi.

Una ricchezza, quantificata a suo tempo dalla Detsche Bank in 571 miliardi di euro, da mettere sul mercato attraverso la trappola del debito e la gabbia del patto di stabilità e del pareggio di bilancio.

Che il debito per i Comuni sia una trappola risulta evidente da un dato: nonostante l’apporto degli stessi al debito complessivo del paese non superi il 2% (dati Anci 2017), il contributo richiesto ai Comuni – tra tagli ai trasferimenti e patto di stabilità – è passato dai 1.650 miliardi del 2009 ai 16.655 miliardi del 2015 (dati Ifel 2016). Ovvero, si utilizza lo shock del debito per scaricarne i costi sugli enti locali e sulle comunità territoriali allo scopo di costringerle alla privatizzazione dei beni comuni.

Un dato è ulteriormente significativo: la spesa per il servizio al debito – gli interessi – copre in media il 12% della spesa corrente dei Comuni, con punte del 25% negli enti locali medio-piccoli. Si riducono drasticamente i servizi, in particolare alle fasce deboli della popolazione, per onorare con inusitata efficienza le date di scadenza degli interessi sul debito.

Senza porsi almeno due domande fondamentali. La prima: perché gli interessi sul debito continuano a essere così alti quando il costo del denaro per il sistema bancario è a tasso quasi negativo? Si dirà: sono mutui contratti molto indietro nel tempo e dunque con tassi di interesse non attuali. Logica dunque vorrebbe che gli enti locali, invece di pagare interessi da usura sottraendo risorse agli abitanti delle comunità, si ribellassero collettivamente e chiedessero una drastica ristrutturazione dei mutui contratti.

La seconda: perché se la grandissima parte dei mutui è stata contratta con Cassa Depositi e Prestiti, non si richiede con forza un intervento del governo che riporti Cdp alla sua vecchia funzione, ovvero quella di utilizzare il risparmio postale per finanziare gli investimenti degli enti locali a tassi agevolati? Si dirà: perché Cdp nel frattempo è diventata una società mista pubblico-privata (con all’interno le fondazioni bancarie) ed opera come un soggetto di mercato. Logica dunque vorrebbe che si rivedesse radicalmente quella scelta nefasta.

Niente di tutto questo sta avvenendo. Al contrario, ecco la grande novità contenuta nella «manovrina» in discussione in Parlamento: arrivano gli sponsor.

I Comuni non possono assumere personale? Bene, se trovano uno sponsor privato che ne paga lo stipendio potranno farlo. Naturalmente, «senza pregiudicare le funzioni primarie degli enti locali, ma solo per prestazioni aggiuntive» si precisa. Ora, a parte l’utilizzo della funzione lavorativa pubblica come operazione di marketing commerciale, sappiamo bene come, abbassata anche questa asticella della soglia d’ingresso ai privati, sarà un attimo saltarla e privatizzare la gran parte delle prestazioni lavorative comunali.

Viene spontanea una domanda finale: se tutti i servizi pubblici sono stati privatizzati attraverso le Spa e se si iniziano a privatizzare persino le prestazioni lavorative comunali, a che serviranno i sindaci? Niente paura, a loro hanno già pensato Minniti e Orlando: una stella sul petto, un vigile urbano con pistola nella fondina al fianco, e via per la città alla ricerca di mendicanti, marginali, profughi o semplicemente poveri. D’altronde, è il «decoro» la vera funzione pubblica e sociale dei Comuni.

Finché non tornerà soffiare, territorio per territorio, la ribellione.

«Cancellato con un tratto di penna dalla vecchia normativa il divieto di legare la costruzione di nuove palazzine alla realizzazione di impianti sportivi». il Fatto Quotidiano online, 27 aprile 2017 (p.s.)

Due curve, due tribune e quattro condomini, con appartamenti da rivendere e milioni da incassare: ora si può. Perché se fino a ieri chi voleva costruire nuovi stadi poteva pensare di rientrare nell’investimento realizzando solo cinema, negozi e centri commerciali, dal 24 aprile può mettere in cantiere anche palazzi, case, villette e relativi profitti di vendita. Un affare. Con un tratto di penna su una frase ben precisa contenuta nella vecchia legge sugli impianti sportivi, infatti, il governo Gentiloni ha cancellato il vincolo che impediva di inserire la realizzazione di complessi di edilizia residenziale all’interno del progetto dei nuovi campi sportivi.

Che siano dedicati al calcio o ad altri sport poco importa: basta disegnare arene con capienze da almeno 20mila posti, trovare un imprenditore che fiuta l’affare, una società ambiziosa e un’amministrazione comunale compiacente ed il gioco è fatto. Lì dove c’era l’erba (del campo) ci saranno tante belle casette: lo stadio con gli appartamenti intorno, ovvero l’articolo 62 della manovrina firmata da Mattarella pochi giorni fa.

Altr che norma salva "stadio della Roma” – L’hanno chiamata norma “salva stadio della Roma”, ma in realtà la posta in palio è molto più alta perché di fatto l’esecutivo ha riaperto al grande business della speculazione sugli impianti sportivi. Che, di fatto, potrebbero diventare cavallo di troia per imponenti colate di cemento. Anche residenziali come detto, in deroga ai piani regolatori: perché il divieto esplicito per cui i renziani si erano battuti strenuamente nel 2013 (quando erano ancora forza di minoranza del governo di centrosinistra) è stato ora cancellato dal ministro dello Sport, Luca Lotti, che ha già messo la firma sull’articolo della “manovrina” di primavera. “Una rivoluzione”, ha rivendicato in un’intervista al quotidiano L’Arena. E come dargli torto: prima la legge “non prevedeva nessun altro intervento” se non quelli “strettamente necessari” (definizione che già aveva prestato il fianco a interpretazioni discutibili), ora “può ricomprendere” praticamente tutto.

Con la scusa di un nuovo impianto sportivo (neanche troppo grande: 20mila posti di capienza minima) le società potranno alzare condomini e palazzine, senza neppure il bisogno di una vera e propria variante urbanistica: dal ministero spiegano che la decisione finale spetterà sempre ai consigli comunali, ma di fatto i piani regolatori potranno essere superati semplicemente con il parere positivo della conferenza dei servizi.

Sparitio il vincolo sul residenziale – Si tratta a tutti gli effetti di un colpo di mano. A sorpresa, peraltro. Perché nella “finanziaria-bis” licenziata dal consiglio dei ministri prima di Pasqua era atteso un capitolo dedicato agli investimenti sportivi, dove inserire la tanto attesa garanzia da 97 milioni di euro per la Ryder Cup e alcune misure per i mondiali di sci di Cortina. Ma nessuno si aspettava che spuntasse dal nulla anche un articolo dedicato alla “costruzione di impianti sportivi”.

Una paginetta scarsa che modifica la normativa vigente in un paio di punti cruciali. La vera novità è riassunta tutta in una frase: in quello che c’è scritto (o meglio, in quello che non è scritto) all’interno del comma 1 dell’articolo 62: «Lo studio di fattibilità può ricomprendere anche la costruzione di immobili con destinazioni d’uso diverse da quella sportiva, complementari e/o funzionali al finanziamento e alla fruibilità dell’impianto». Dal testo è stata cancellata la frase «con esclusione della realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale» che compariva nella precedente legge n.147 del 2013 e che fino ad oggi aveva messo al riparo i progetti dall’invasione di nuove palazzine. Basta questa piccola spunta per aprire le porte alla speculazione.

“Rischio speculazione” – «Il provvedimento è molto chiaro, nulla da interpretare: prima c’era un vincolo sul residenziale, ora non c’è più», commenta Roberto Della Seta, ex presidente di Legambiente e deputato del Partito Democratico, da sempre attivo sulla questione stadi. «A me pare che questa operazione non riguardi tanto il nuovo stadio della Roma (a cui lui ora sta collaborando come consulente per la certificazione ambientale per i proponenti, nda), quanto altre città: ultimamente si è parlato di Firenze, mi vengono in mente anche i piani di Lotito per la nuova casa della Lazio che prevedevano una parte residenziale. Di sicuro in molti saranno contenti di questa legge». La misura era stata presentata come un favore allo stadio della Roma perché propone una conferenza dei servizi più rapida, il cui parere conclusivo d’ora in poi servirà anche da variante urbanistica (lo scoglio su cui la giunta Raggi si era incagliata negli scorsi mesi, anche per le spaccature interne). Ma all’interno dello stesso Movimento 5 stelle romano ritengono che il vero obiettivo sia un altro: «Per quel che ci riguarda non ci sono grosse novità», conferma a ilfattoquotidiano.it Daniele Frongia, assessore allo Sport del Comune. «Dopo la ‘manovrina’ l’assessore all’Urbanistica, Luca Montuori, ha incontrato l’As Roma, ma è servito solo per ribadire gli accordi già presi: le carte in tavola non cambiano». Ovvero a Tor di Valle non ci sarà nessuna riconversione degli edifici commerciali previsti dal dossier: «Con la vecchia o con la nuova legge, possiamo garantire che il residenziale non entrerà nel progetto. Prendiamo atto invece dell’accelerazione nell’iter della conferenza: nel nostro caso, dove tutto è già stato approfondito a lungo, potrebbe avere un risvolto positivo, il rischio è che abbia effetti deleteri altrove».

La giravolta dei renziani – L’articolo 62 della manovrina, insomma, serve anche per chiarire che il parere della conferenza dei servizi sostituirà l’eventuale variante urbanistica necessaria in caso di cambio di destinazione d’uso dei terreni. Virginia Raggi vi avrebbe fatto volentieri ricorso negli scorsi mesi, quando il progetto di Tor di Valle si era arenato proprio per la difficoltà ad approvare un atto in giunta e poi in consiglio comunale (data la contrarietà dell’ex assessore Berdini e di alcuni consiglieri).

Ora il processo accelerato sarà un aiuto in più, ma non sposterà gli equilibri che sembrano già raggiunti. Mentre potrebbe essere determinante per quei progetti ancora tutti da definire nel resto del Paese. C’è anche un ulteriore favore ai proponenti: la sospensione dei permessi per l’occupazione di suolo pubblico nel raggio di 300 metri dallo stadio in occasione delle partite, che rimetterà nelle mani delle società anche il business degli ambulanti. Ma queste sono briciole, in confronto alla possibilità di costruire palazzine e condomini, magari un intero nuovo quartiere, dove non potrebbe sorgere nulla. Un affare da milioni di euro.

Naerdella: «Non ho seguito la vicenda». Ma il 10 marzo annunciava novità sulla normativa – È curioso che quattro anni fa, quando il governo Letta aveva provato a cancellare il vincolo sul residenziale, tra i tanti a insorgere c’era stata anche l’ala renziana del Pd. Dario Nardella, uno dei primi promotori del ddl sugli stadi, aveva difeso personalmente quella clausola, definita come “discrimine” contro la «tentazione di usare la realizzazione di grandi impianti sportivi come pretesto per altre finalità».

Oggi, contattato da ilfattoquotidiano.it, il sindaco di Firenze spiega di essere «preso dagli impegni locali in città» e di «non aver seguito la vicenda». Eppure la città da lui amministrata è una di quelle maggiormente interessate dalle novità, visto che la famiglia Della Valle costruirà nel quartiere di Novoli (inizio lavori previsto nel 2019) un nuovo impianto da 40mila posti. Il progetto è stato presentato il 10 marzo e in quella occasione Nardella sottolineò – con grande soddisfazione – di aver saputo dal suo amico Luca Lotti che a breve ci sarebbero state modifiche importanti alla legge sugli stadi. Che quindi gli interessava eccome.

Dagli uffici del ministero dello Sport, invece, precisano che si tratta di una norma che vuole solo snellire alcuni passaggi burocratici e dare una spinta positiva alla ristrutturazione e costruzione di nuovi impianti. E i rischi speculativi? Chi lavora con Luca Lotti è sicuro: non ci sono perché la decisione finale spetterà sempre ai consigli comunali. Ed in effetti gli enti locali (il Comune, la Regione laddove competente) continueranno ad avere l’ultima parola all’interno della conferenza dei servizi. Ma stravolgere i profili delle città italiane grazie ad uno stadio medio-piccolo sarà molto più facile e veloce. E soprattutto redditizio, specie per chi al pallone vuole abbinare il mattone.

«Un manifesto per il Veneto e Acqua guerriera: due libri che raccontano un paesaggio disordinato e consumato dalla politica a corto di idee». il manifesto 28 aprile 2017 (c.m.c.)

Nel vuoto della politica, lo sprawl in Veneto (la regione è stata spesso paragonata alla città diffusa di Los Angeles) continua ad estendersi. Il risultato di un’urbanistica disordinata, non programmata e spesso spinta solo dalla rendita speculativa, ha portato la regione ad essere la seconda in Italia (dopo la Lombardia) per consumo di suolo, con oltre il 12% di territorio impermeabilizzato (ma nel Veneto centrale, cioè escludendo le montagne e la costa, siamo a oltre il 20).

La questione ambientale a Nordest non riguarda però solo il cemento. Certo, la prima conseguenza visibile della crisi dell’ultimo decennio è la marea di capannoni e fabbriche abbandonati. Ma c’è anche un immenso patrimonio residenziale vuoto o sottoutilizzato, c’è l’antico paesaggio di acque inquinato e deteriorato, ci sono quei tre milioni e mezzo di auto e moto private (su una popolazione di quasi cinque milioni di abitanti) a rappresentare più di tutto l’incapacità di pensare il territorio come un campo aperto di possibilità e di innovazione.

E proprio da qui prende le mosse Un manifesto per il Veneto, volume che raccoglie alcune riflessioni del dipartimento di urbanistica dell’università Iuav di Venezia (a cura del raggruppamento di ricerca Nuq, Mimesis, pp.90, euro 10). Un libro scritto da specialisti ma pensato per portare al grande pubblico questioni fondamentali e quanto mai urgenti. Partendo dai principali assi tematici, cioè i trasporti, le acque, l’agricoltura, l’energia, il team di studiosi prova a portare delle proposte che potrebbero indirizzare in modo virtuoso la futura politica non solo locale. Ogni «crisi» in fondo non è altro che un cambio di paradigma, che rappresenta anche la fine di un ciclo di vita per un edificio o una porzione di territorio.

Serve pensare, anche a livello territoriale, ad azioni orientate al riciclo. Significa ripensare le funzioni e immaginare nuovi modi d’uso per il complesso delle costruzioni esistenti. E rinunciare a costruire ancora. Lavoro che richiede meno risorse economiche e più fantasia, oltre a un presupposto di partenza: il futuro di questi spazi appartiene a tutti.

Propositi forse un po’ troppo astratti per una classe politica che, almeno da queste parti, sembra dedicarsi più che altro a operazioni di marketing territoriale (brand come il Prosecco, il fiume Piave, l’eterna Venezia), totalmente slegate dalle conseguenze ambientali (tutto ciò quando non è invischiata in casi di corruzione e mala gestione, spesso legata alle grandi opere come il Mose).

A riportare questi argomenti su un piano più concreto aiuta la pubblicazione Acqua guerriera, raccolta di reportage della giornalista friulana Elisa Cozzarini, in cui racconta le esperienze di comitati, attivisti, pescatori e produttori che vivono in simbiosi con il fiume Piave. Il volume esce per Ediciclo Nuova Dimensione (pp.144, euro 12,50), piccolo editore che negli ultimi anni ha affrontato in modo eccelso le problematiche legate all’ambiente in questo lembo d’Italia. Al tema l’autrice aveva già dedicato il documentario La piave nel 2013.

Il libro torna sugli stessi luoghi, esplorando modi di vivere i corsi d’acqua apparentemente in contrasto con quegli interessi economici che in pochi decenni hanno stravolto equilibri secolari in ecosistemi delicati. La Piave come metafora del nostro modo di rapportarci alle acque: artificializzata per il 90% del suo corso, intubata, deviata, utilizzata in modo eccessivo per scopi agricoli o energetici, riempita di rifiuti. Ma ridare centralità ai fiumi vuol dire modificare il nostro rapporto con quella che resta una risorsa, l’acqua.

Riscoprire la cultura dell’acqua (soprattutto nei luoghi della Serenissima) è la premessa per un turismo non invasivo, per una produzione di beni più rispettosa dell’ambiente, per la ridefinizione dell’identità collettiva che torna a legarsi a un territorio concreto e alle sue problematiche.
L’azione di comitati e associazioni poi, in molti casi, ha ispirato nuove forme di governance, in cui la partecipazione attiva dei cittadini si è posta come complementare al lavoro di chi governa questi territori. Percorso disseminato di ostacoli, ma in grado di apportare nuova linfa ad amministrazioni spesso a corto di idee e di finanze. Piccoli passi per un modello di civiltà sostenibile.

«Se chi governa “perdona” ciclicamente il ripetersi di un reato, di fatto induce in chi pratica quel reato la convinzione che ciò che ha fatto magari non sia lecito, ma tollerato sì». il Fatto Quotidiano online, 27 aprile 2017 (p.d.)

La madre di tutte le battaglie a tutela di quel paesaggio di cui all’articolo 9 della Costituzione e della quale ci si ricorda solo nei preamboli delle leggi e mai nella sostanza, è la lotta all’abusivismo edilizio. Lotta? Ma che dico mai? Semmai “lotta a favore all’abusivismo”. Tappeti rossi sul nostro già martoriato suolo a chi costruisce abusivamente. La nostra legislazione è un susseguirsi di condoni veri o mascherati che consentono il mantenimento dello status quo e di fatto legittimano il perdurare dell’illegalità. Perché se chi governa “perdona” ciclicamente il ripetersi di un reato, di fatto induce in chi pratica quel reato la convinzione che ciò che ha fatto magari non sia lecito, ma tollerato sì.
L’esordio della mani per i condoni data 28 febbraio 1985, quando la legge n. 47 del governo Craxi-Nicolazzi disegna un quadro normativo sull’edilizia “provvisorio”, ma che ha come maggiore conseguenza quella di ammettere al condono tutti gli abusi realizzati fino all’1 ottobre del 1983. Secondo i dati del Centro ricerche economiche e sociali del mercato dell’edilizia (Cresme), l’effetto annuncio del primo condono avrebbe provocato l’insorgere – nel solo biennio 1983-84 – di 230.000 manufatti abusivi, mentre quelli realizzati fra il 1982 e tutto il 1997 sarebbero stati 970.000.
A riaprire i termini del condono, meno di 10 anni dopo, è la legge n. 724 del 23 dicembre 1994 (primo governo Berlusconi), intitolata significativamente “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”. La 724 spalanca le porte della precedente legge 47/1985, estendendola agli abusi realizzati fino al 31/12/1993. Nel biennio successivo si contano 14 decreti, (l’ultimo fu il Dl 495/1996) tutti decaduti per mancata conversione in legge e tutti contenenti una norma, un richiamo, anche solo un riferimento alla sanatoria edilizia. La raffica di decreti termina solo quando la Corte costituzionale (sentenza 360 dell’ottobre del 1996) stabilisce l’illegittimità della prassi di reiterare all’infinito le decretazioni d’urgenza facendone poi salvi gli effetti.
L’ultima sanatoria ex lege risale al 24 novembre 2003 (ancora Berlusconi) con la conversione del decreto 30 settembre n. 269, “Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”.
Perché oggi parlo di abusivismo? Perché il tema resta sulla cresta dell’onda. Partiamo dal governatore piddino Vincenzo De Luca che in Campania vuole sanare 70mila case abusive. E pensare che quelli del Pd campano, quando a legiferare sull’abusivismo edilizio era la giunta di centrodestra guidata da Stefano Caldoro (Pdl), usavano questi toni: “Finché il territorio sarà considerato oggetto di baratto in cambio di consensi elettorali, quelle che poi verranno saranno lacrime di coccodrillo“. Passiamo poi al governatore Pd della Sicilia Rosario Crocetta: secondo un’anticipazione del quotidiano La Repubblica dell’8 aprile scorso, “il governo Crocetta e una maggioranza trasversale all’Assemblea regionale siciliana presenteranno il piano sull’abusivismo, un pacchetto di norme che, per almeno un anno, sospende le demolizioni di case costruite sulla costa, anche all’interno dei 150 metri dalla battigia: “Nessuno parli di sanatoria – ha detto Crocetta – Si tratta di una norma che evita l’abbattimento se lì si possono realizzare opere di servizio pubblico, come lidi o altro, e nelle more dei piani che dovranno fare i Comuni si bloccano le ruspe per almeno un anno”.
Soprattutto, il tema dei condoni va affrontato perché è proprio di questi giorni la discussione in Parlamento di un disegno di legge titolato (“Disposizioni in materia di criteri per l’esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi“, presentato nel 2013 da tale Ciro Falanga, deputato trasformista campano, prima Forza Italia, ora in Ala, la compagine dei verdiniani. Votato al Senato il 22 gennaio 2014, poi trasformato alla Camera e lì votato il 18 maggio 2016, licenziato all’unanimità dalla commissione Giustizia del Senato il 12 aprile scorso, il testo andrà presto al voto finale del Senato. In esso si fissa l’aberrante criterio secondo cui non tutti gli abusivismi sono uguali: ci sono quelli di speculazione e quelli di necessità. Dato questo presupposto, in futuro dovrà darsi priorità ai primi nell’abbattimento. E non lo si chiami condono edilizio, perché formalmente non lo è: come definire, però, un provvedimento di legge che torna a distinguere tra “abusivismo di necessità” e “abusivismo di speculazione”, stabilendo che il primo deve finire in coda nella scala di priorità quando c’è da decidere sugli abbattimenti, rinviandoli a data da destinarsi, ossia mai.
Il Ddl prevede anche che a occuparsi delle demolizioni future non saranno più i sindaci, bensì i prefetti, stanziando 10 milioni di euro ad hoc l’anno dal 2017 al 2020. Dato che si calcola che ogni demolizione costa 80 mila euro, in sostanza si potrebbero demolire appena 130 edifici l’anno. In tutta Italia. Attualmente sono 46.760 le ordinanze di demolizione che attendono esecuzione (dati fermi al 2011) e ogni anno vengono realizzate circa 20.000 case abusive.
Sempre di più mi vergogno di essere italiano. E mai e poi mai, a maggior ragione, entrerei in politica in una nazione in cui si varano norme che favoriscono la delinquenza allo scopo di accumulare consenso elettorale. Se in una remota ipotesi entrassi in politica e addirittura facessi parte del governo, cosa farei io in materia di lotta all’abusivismo edilizio?
Ecco alcuni spunti. 1) Accertamento di tutti gli abusi esistenti sul territorio e relativa pubblicità cartacea presso l’albo pretorio comunale e in rete; 2) monitoraggio costante del territorio al fine di evitare nuovi abusi; 3) commissariamento di quei comuni che non hanno uno straccio di piano regolatore; 4) inasprimento delle pene per coloro che realizzano costruzioni abusive; 5) immediata esecutività delle ordinanze (contingibili e urgenti) di abbattimento, una volta accertata l’assenza di titolo abilitativo (il procedimento penale segua la via che gli compete); oneri per l’abbattimento e il rispristino a carico del delinquente; obbligo di riutilizzo del materiale derivante dalle demolizioni.
Voglio concludere con un’osservazione sul cosiddetto “abusivismo per necessità”. Di cosa parliamo, per favore? Con tutti gli alloggi liberi che ci sono sul territorio italiano, è davvero “necessario” costruire una villetta? Possibile che con tutti gli alloggi in vendita o da affittare, una famiglia abbia come unica alternativa all’andare a dormire sotto i ponti, pagare un’impresa che le realizzi una casetta?


«Per un intero secolo, pensatori e utopisti si sono esercitati sul tema della nuova frontiera di uscita dallo spazio angusto (mentale e fisico) tradizionale». Città Conquistatrice, 23 aprile 2017 (c.m.c.)


In principio era il concetto di crescita infinita ai suoi albori, unito alla meccanica specializzazione: per così dire, ci si allargava e ci si restringeva allo stesso tempo. Lo stabilimento o ufficio amministrativo più grande, per produrre più pezze di tela, barre di ferro, pratiche e pacchi di fogli stampati, aveva bisogno di spazio, e quello spazio si doveva automaticamente cercare «un po’ più in là».

Il medesimo luogo, in parallelo, perdeva concettualmente dei pezzi, dedicandosi in esclusiva a certe pezze di tela, certi tipi di barre di ferro, certe pratiche e servizi. Per le altre, erano disponibili altri spazi, contenitori, personale, e all’inizio questo processo era chiamato virtuosamente «decentramento», a evocare ariosità, salute, benessere, visto che il problema pareva giusto quello di una angusta soffocante «congestione».

Per un intero secolo, pensatori e utopisti si erano esercitati su questo tema della nuova frontiera di uscita dallo spazio angusto (mentale e fisico) tradizionale, e finalmente una innovazione tecnico-sociale pareva rispondere a quasi ogni difficoltà incontrata sul terreno pratico: l’automobilismo di massa. Che cancellando insieme alle telecomunicazioni l’idea stessa di distanza, poneva le basi di quanto sarebbe stato poi ribattezzato lo sterminato Tecnoburbio.

Matrix

E al centro di tutto questo azzeramento virtuale dello spazio e delle distanze, vera e propria torre d’avorio della modernità, stava il concetto di campus, luogo di ultraconcentrazione mentale degli eletti che sfornava puro pensiero, per spalancare ancora nuovi orizzonti di crescita ed espansione per il resto del mondo. Da lì, un po’ come da una sorta di computer centrale come ci si immagina qualunque organizzazione gerarchica, emanava la ragnatela di comando strategico per il mondo, i mercati, il futuro.

Che si trattasse di una struttura universitaria o legata alle imprese industriali, il campus ci è da sempre stato presentato secondo i medesimi criteri: cittadella esclusiva autoreclusa, anche se amichevolmente aperta, col verde a fungere sia da sfondo rilassante che da elastica barriera di reclusione, dentro cui si muoveva l’élite del pensiero creativo. Ma già agli albori, di quella che pareva l’alba dell’utopia, una versione migliorata di medioevo monastico, senza nessuno dei rovesci della medaglia draghi e barbari inclusi, qualche sociologo e studioso notava vistose crepe: disaffezione, stress da isolamento, e addirittura (udite udite) scarsa propensione a produrre pensiero, o almeno qualità innovativa nettamente inferiore a chi continuava a meditare e ricercare «congestionato» in città. Piccoli sintomi, all’inizio: il campus di impresa giusto un filino meno innovativo di quello universitario, era solo la dimostrazione dei prevalere naturale del pubblico rispetto al privato? Macché: c’era ben altro.

Sprawl di cervelli

Accadeva, e ancora accade semplicemente, che un ambiente chiuso e autoreferenziale, così come tende a diventare tutto ciò che si isola rispetto al resto della società, perde in vitalità complessiva e quindi proprio in ciò che dovrebbe esprimere al massimo grado. Se per il quartiere suburbano residenziale monoclasse dormitorio, questo isolamento poteva tradursi in stress, se per il centro commerciale introverso diventava occasione di sbilanciare l’offerta o incrementare gli aspetti pubblicitari e identitari, nel caso dello office park direzionale, e peggio ancora del campus di ricerca, la crisi tocca un nervo vitale, quello della sua fondamentale ragione d’essere produttiva.

Un centro di innovazione che non riesce a innovare, perché ha perduto i contatti con la società e il mondo con cui dovrebbe interagire, deve recuperarli in fretta, e il modo più immediato è quello di tornare a immergersi a strettissimo contatto. Da qui, tutte le tendenze, a partire dagli ultimi scorci del ‘900 sino ad oggi, al ricentraggio dei quartieri generali di riflessione di tante imprese, a volte si dice a «inseguire la propria materia prima», ovvero la creative class a cui lo sprawl suburbano non è mai andato troppo a genio. Basta così? Torniamo alla città tradizionale dopo mezzo secolo di ricreazione a piedi nudi nei prati dell’ex Nuova Frontiera suburbana? Molto probabilmente no, ma la lezione da imparare è che schematizzando troppo, schiacciando esseri umani e natura secondo qualche schema meccanico di breve respiro e troppo semplificato, si rischiano grossi guai. Evitiamoli, per quanto possibile.

Riferimenti:
– AA.VV. Rethinking the corporate campus, SPUR, San Francisco, aprile 2017
– Per la citata definizione di Tecnoburbio, si veda qui su questo sito l’estratto tradotto da The Bourgeois Utopia di Robert Fishman

«La storia del Comitato è iniziata il 16 marzo del 2011.Le ragioni vanno oltre gli ulivi da difendere. il Tap è un'opera inutile dal un punto di vista tecnico».Lettera43, 23 aprile 2017 (c.m.c.)

Non solo gli ulivi da difendere. Dal 2011 presìdi, battaglie, tribunali, 18 mila pagine di progetto scandagliate. Genesi e ragioni del Comitato anti-pipeline raccontate dal suo portavoce Gianluca Maggiore.Le nostre ragioni vanno oltre gli ulivi da difendere. Per noi il Tap è un'opera inutile e lo diciamo da un punto di vista tecnico: anche se li espiantassero, la fattibilità del progetto è ancora tutta da dimostrare». Gianluca Maggiore è il portavoce del Comitato No Tap. Di formazione perito meccanico, dal 2011 si è studiato oltre 18 mila pagine di documenti sulla Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto di 878 chilometri che dalla Grecia dovrebbe raggiungere la spiaggia di San Foca, in Puglia, nel 2019.

«Non ci siamo svegliati ora». Almeno questo è ciò che desiderano la Commissione europea, il governo e la società Tap Ag, con sede a Baar, in Svizzera. Al contrario, Maggiore, insieme con i sindaci salentini e il governatore della Regione Puglia Michele Emiliano, pensa ancora di poter fermare le macchine. Ormai, dice, migliaia di persone gravitano intorno al movimento No Tap. «Quello che più mi infastidisce», racconta, «è leggere articoli che ci dipingono come gente che si è svegliata adesso, come se fossimo soli. Questa non è solo la battaglia del Comitato No Tap, ma della popolazione». Secondo il portavoce dei contrari al gasdotto, l'opera non è stata pensata per funzionare.

La storia del Comitato è iniziata il 16 marzo del 2011. Su media locali e nazionali uscì per la prima volta un comunicato stampa di Tap Ag, la società svizzera, in cui si descriveva a grandi linee l'idea del progetto e la sua finalità. Il Comitato ancora non esisteva: c'era solo un'associazione cittadina, Tramontana, che iniziò a volerci capire di più. «Non avrei mai immaginato che sei anni dopo saremmo arrivati a questo punto», dice Maggiore.

«Tutti i sindaci erano contrari». A ottobre 2011 il progetto cominciò a prendere forma: sul territorio salentino il piano prevedeva che dal punto di approdo di allora - una zona scogliera - partisse una rete di tubi di 21 chilometri per raggiungere la rete di gas regionale. Il 16 febbraio 2012 in un'aula piena Tap Ag presentò il progetto rivisto a Melendugno, alla presenza di centinaia di persone: «Tutti i sindaci presenti erano contrari», racconta Maggiore. In sostanza fu l'atto di nascita del Comitato No Tap.

Nuovo progetto, nuovi problemi. La seconda versione prevedeva l'approdo alla spiaggia di Melendugno, come oggi, e un allaccio alla rete del gas, stavolta nazionale. La conduttura pensata all'inizio non era sufficiente, così il piano si dovette spostare di 55 chilometri verso Brindisi. Il Comitato No Tap continuò a studiare e presentò le contromosse. Già all'epoca l'idea degli attivisti era che il Tap fosse inutile, in Salento come altrove.

Ingresso delle istituzioni. Ad aprile 2013 i sindaci, di cui diversi vicini ai No Tap, formularono le prime osservazioni, che a settembre produssero la prima bocciatura a livello regionale e nazionale. La notizia si fece sentire in Puglia. I No Tap entrarono nelle istituzioni: Maggiore insieme con altri tre attivisti (un professore di economia, un ingegnere e un fisico) furono nominati tra i 40 esperti del Comitato di volontari di Melendugno voluto dal sindaco Marco Potì, uno che nelle interviste televisive ha sempre alle sue spalle la bandiera del Comitato No Tap. Competenze locali che hanno dato corpo e argomenti alla protesta.

La battaglia per il Tap diventò poi istituzionale: governo contro Comune e Regione. Tra la fine del 2013 e il 2014 arrivò una nuova vittoria per il fronte del no: il ministero dei Beni culturali considerò il punto d'approdo in Italia nella spiaggia di San Foca inadeguato. Il ministero dell'Ambiente nel 2014 approvò la Valutazione di impatto ambientale (Via) con 58 prescrizioni, ma poi - è la versione del Comitato - intervenne il Consiglio dei ministri per limitarli.

In contatto con i NO TAV. Il 10 settembre 2014 fu il giorno della grande manifestazione contro il Tap organizzata in Puglia. "No Tap" non era più solo uno slogan salentino: «Da allora siamo in contatto con altre realtà di cittadini, come i No Tav», prosegue Maggiore.

Migliaia di pagine di memoria. Il portavoce del Comitato No Tap è diventato anche uno dei personaggi de L'alleato azero, graphic novel edita da Round Robin e prodotta dalla Ong Re:Common, una delle voci più critiche al progetto del gasdotto. Ovviamente è quello che durante un'assemblea del Comitato cita a memoria alcune delle migliaia di pagine di commenti e osservazioni sulla Valutazione di impatto ambientale.

osservazioni sulla Valutazione di impatto ambientale.

«Le riqualificazioni per attrarre turisti fanno schizzare i prezzi delle case. Equo canone abolito, defiscalizzazioni, visti gold per immigrati di lusso... Il precedente governo di centro-destra ha stravolto tutto». il manifesto, 20 aprile 2017 (c.m.c.)

Il mercato immobiliare lisboneta sta subendo negli ultimi anni una vera e propria rivoluzione. Ormai la capitale portoghese è una delle mete principali del turismo internazionale e quindi è necessario creare posti per i visitatori in arrivo.

La globalizzazione non conosce regole, anzi, le vuole abbattere. Occorre attrarre capitali, si dice, e poco importa se poi si alterano gli equilibri a tal punto che la vita delle persone si fa drammatica. Il fenomeno è in realtà più complesso di quanto non appaia. Da una parte è innegabile che i quartieri “tipici” dell’Alfama, Mouraria, Santa Caterina e della Baixa Pombalina stessero cadendo a pezzi. Una situazione di degrado che ben presto sarebbe diventata irreversibile. Chi aveva un po’ di soldi preferiva aree di nuova costruzione e anche i negozi erano stati sostituiti dai centri commerciali. Questo ha fatto sì che le parti più antiche fossero e siano vissute generalmente dagli strati più poveri.

In un batter di ciglio lo status quo viene stravolto. Durante gli anni in cui al governo c’è stato il centro-destra sono state poste le basi per quello che è uno dei più grandi stravolgimenti degli ultimi decenni.

Primo: riforma della legge sugli affitti, per cui i contratti a equo canone sono stati definitivamente aboliti. Secondo: chi, tra gli extracomunitari, investe almeno 500 mila euro, ha diritto a un visto gold con cui muoversi liberamente nell’area Schengen. Terzo: defiscalizzazione per gli stranieri che spostano la propria residenza in Portogallo.

Insomma non solo Airbnb. Lisbona è stata invasa da un’orda di stranieri molto facoltosi che, ovviamente, preferiscono comprare nelle zone più belle e romantiche, meglio se su una collina vista fiume. I prezzi sono saliti fino a 10 mila euro al mq, in un paese in cui il salario medio mensile è di 800 euro. Una quantità di soldi impressionante e quindi non si va troppo per il sottile. Spesso i palazzi sono disabitati da tempo, quindi, a livello teorico, perché no se si ristruttura? Il punto è che a Lisbona, oggi, non si trova una casa in affitto a pagarla oro.

Il bloco de esquerda vorrebbe limitare la possibilità di affittare a turisti ma per ora non è stato fatto molto. Gli investimenti per il sostegno all’edilizia popolare sono pochi e per gli sfollati dal centro le alternative quasi inesistenti. Il Programa Especial de Realojamento (Per) istituito nel 1993, non è più finanziato dal 2009. Così, anche nelle periferie dove il turismo non arriva, si fanno i conti con l’aumento degli sfratti. Fernando Medina, il sindaco socialista della capitale, ha promosso un piano per immettere appartamenti sul mercato a con affitto calmierato, ma i numeri non rispondono alle effettive esigenze e poi ci vuole tempo. Da poco il governo Costa ha approvato un programma di reabilitação de bairros sociais, con un finanziamento di circa 100 milioni di euro, che dovrebbe riguardare 25 mila persone.

«Italia fanalino di coda per occupazione e pil pro capite. E per la sanità pubblica investiamo meno di Germania e Francia. Il governo firma un memorandum che lo impegna verso chi ha meno. Camusso: "Servono più risorse"» Articoli di A. Carra e A. Sciotto, il manifesto 15 aprile 2017

OTTO MILIONI DI POVERI,
E LA METÀ NON RIESCE A COMPRARSI ILCIBO
di Antonio Sciotto

Otto milioni di poveri in Italia, di cui più della metà (4,5milioni) è in uno stato di povertà assoluta (non può permettersi cioè neancheil minimo necessario per vivere): la fotografia di Noi Italia, ultimo rapportoIstat, è raggelante. Una serie di diapositive che ci fanno comparire agli ultimiposti in Europa per livelli di occupazione, pil pro capite e altri indicatoridel benessere.
I DATI DELLA POVERTÀ sono relativi al 2015:quella al livello assoluto coinvolgeva il 6,1% delle famiglie residenti (pari a4 milioni 598 mila individui). Il 10,4% delle famiglie – in tutto 2 milioni e678 mila – è relativamente povero, mentre le persone in povertà relativa sono 8milioni 307 mila (pari al 13,7% della popolazione). I valori risultano stabilirispetto al 2014, ma peggiorano soprattutto le condizioni delle famiglie conquattro componenti (passano in un anno dal 6,7% al 9,5%).
MALE ANCHE IL LAVORO: le cifresull’occupazione ci vedono agli ultimi posti in Europa. In Italia, spiega ilrapporto Istat, sono occupate poco più di 6 persone su 10 tra i 20 e i 64 anni,il dato peggiore nella Ue a eccezione della Grecia. Tra i 20 e i 64 anni nel2016 era occupato il 61,6% della popolazione con un forte squilibrio di genere(71,7% gli uomini occupati, soltanto al 51,6% le donne). Grande anche ildivario territoriale tra Centro-Nord e Mezzogiorno (69,4% contro il 47%). Nellagraduatoria comunitaria sul 2015 solo la Grecia ha un tasso di occupazioneinferiore, mentre la Svezia registra il valore più elevato (80,5%).
Pil pro capite a terra: quello dell’Italia, misurato in standarddi potere d’acquisto (per un confronto depurato dai differenti livelli deiprezzi nei vari paesi), risulta inferiore del 4,5% rispetto a quello mediodella Ue, più basso di quello di Germania e Francia (rispettivamente del 23,6%e 9,2%). Il valore italiano è però superiore del 5% al pil pro capite spagnolo.
LA PRESSIONE FISCALE risulta essere incalo. Nel 2016 in Italia è scesa al 42,9%, in riduzione di 0,7 puntipercentuali dal massimo del biennio 2012-2013. Tuttavia, il nostro Paese rimanefra quelli con i valori più elevati, superato, tra i maggiori partner europei,solo dalla Francia. Per quanto riguarda la spesa pubblica, lo Stato ha spesonel 2015 circa 13,6 mila euro per abitante, un valore sostanzialmente in lineacon quello medio della Ue. Tra le grandi economie dell’Unione, Germania, RegnoUnito e Francia presentano però livelli più elevati, mentre la Spagna spendemeno dell’Italia.
SANITÀ PUBBLICA, si spende meno deglialtri. Nel 2014 la spesa sanitaria pubblica italiana si è attestata attestaintorno ai 2.400 dollari pro capite, a fronte degli oltre 3 mila spesi inFrancia e dei 4 mila in Germania (fonte Ocse). Le famiglie italiane hannocontribuito alla spesa sanitaria complessiva per il 23,3%, e la quota è inleggero aumento.
IN ITALIA I DECESSI per tumori e malattiedel sistema circolatorio sono stati rispettivamente 25,8 e 31 ogni 10 milaabitanti nel 2014. Nel Mezzogiorno la mortalità per tumori si confermainferiore alla media nazionale, mentre quella per malattie del sistemacircolatorio è più elevata. La mortalità per queste cause è in continuadiminuzione e inferiore alla media Ue (27,4% e 38,3% nel 2013).
IL TASSO DI mortalità infantile, importanteindicatore del livello di sviluppo e benessere di un paese, continua a diminuire:nel 2014 in Italia è di 2,8 per mille nati vivi, tra i valori più bassi inEuropa. Spesa per la protezione sociale: nel 2014 nel nostro Paese harappresentanto il 30% del Pil e il suo ammontare per abitante ha sfiorato gli 8mila euro l’anno.
MEMORANDUM: Il presidente del Consiglio, PaoloGentiloni, ha firmato ieri il Memorandum di intesa con l’Alleanza contro lapovertà sull’attuazione della legge delega che istituisce il Rei, il reddito diinclusione, e ha spiegato che i decreti attuativi saranno pronti entro finemese. «Siamo passati dai circa 200 milioni del Sostegno inclusione attiva acirca 2 miliardi – ha spiegato il premier – un intervento che interesserà circa2 milioni di persone, tra cui ci sono 7-800 mila minori». Tra i firmatari ancheCgil, Cisl e Uil: «Messa una prima pietra, ma i fondi sono ancora insufficienti– ha commentato la segretaria Cgil Susanna Camusso – E oltre ai sussididobbiamo anche attuare politiche per l’inclusione nel lavoro».

SE LA POLITICA SI MISURASSE
SULLA FOTOGRAFIA DELL’ITALIA INEUROPA
di Aldo Carra
Abituati come siamo a rincorrere le statistiche quotidiane ed icommenti politici espressi in Tweet, analizzare il volume Noi Italia prodotto dall’Istat e al nono anno divita non è semplice. Si tratta infatti di 100 statistiche che inquadranol’Italia nel panorama europeo. Però una volta tanto vale proprio la pena diuscire dalla guerra quotidiana dei numeri in libertà e, vista anche laattualità del tema Europa, cercare di capire come ci collochiamo nelladimensione europea e soprattutto se miglioriamo o peggioriamo. Se, in sostanza,diventiamo più o meno europei.
Diciamo subito, ricopiando quello che nel rapporto si dice, chenella maggioranza degli indicatori analizzati l’Italia appare ancorasistematicamente collocata al di sotto della media europea. Questo valesoprattutto per la performance del sistema produttivo, con debolezze pesantinell’ambito dell’economia della conoscenza, della formazione e nel mercato dellavoro. Ma c’è un settore del quale possiamo andare orgogliosi: è quello delleeccellenze agroalimentari, fattore di competitività delle realtà agricolelocali dove i prodotti di qualità contribuiscono al mantenimento degliinsediamenti umani e dell’attività agricola di tante aree interne altrimentidestinate all’abbandono. Non casualmente, un altro campo nel quale l’Italia siposiziona addirittura meglio rispetto alla media europea è la tuteladell’ambiente, la promozione di una crescita economica sostenibile.
Come pure notizie positive riguardano innanzitutto la salute.Affermazione che cozza contro il senso comune: la spesa sanitaria pubblicaitaliana è inferiore a quella dei principali partner europei, ma gli indicatoridi mortalità ed altri indicatori della salute sono migliori della mediaeuropea. Altrimenti detto, la nostra riforma sanitaria ed il sistema di welfareconquistato, riescono ancora a resistere ai colpi di piccone dell’austerità, aifenomeni corruttivi e di ingerenza della politica.
Pesanti, invece, rimangono ancora i divari con l’Europa inmateria di istruzione e mercato del lavoro. Il tasso di abbandono scolastico èancora superiore alla media europea, la percentuale di laureati ancora moltolontana dal 40% fissato come media europea. Se passiamo al mercato del lavoroed al tasso di occupazione, per il quale la strategia europea prevedeva unaumento soprattutto nel campo della partecipazione femminile, abbiamo un belrecord. Siamo nell’ultima posizione rispetto ai partner europei, anzipenultimi: solo la Grecia ha un tasso di occupazione più basso del nostro.
Questo quadro generale suggerisce considerazioni. In questi anniil sistema economico europeo ha goduto di condizioni favorevoli (prezzo delpetrolio diminuito, euro svalutato, Quantitativeeasing). Mediamente i paesi europei hanno registrato tassi dicrescita modesti. L’Italia è cresciuta meno degli altri e quindi il divario tranoi e l’Europa è aumentato. Di chiacchiere e di promesse ne abbiamo sentite moltedi più, però. Forse qui, siano primi in Europa.
Seconda considerazione. È interessante che si comincia concentrare l’attenzione non più solo sul Pil, ma su altri indicatori cherispecchiano le condizioni non solo economiche ma anche sociali e culturali delnostro paese. Nella nuova legge finanziaria finalmente si cominceranno aprendere in considerazione anche gli indicatori Bes (Benessere EquoSostenibile). Quando si sarà in grado di sintetizzare questi indicatori in unmegaindicatore affiancabile al Pil si potrebbe registrare un paradosso: che ilPil non cresce, ma che il Bes al contrario cresce, oppure che il Bes cresce piùdel Pil. Ma stiamo parlando di un futuro non vicinissimo. A oggi siamo ancoralontanissimi dai livelli di Pil di prima della crisi e le nostre contraddizionie disuguaglianze aumentano.
Come attivare una ripresa economica, anche con investimentipubblici, che possa creare un circolo virtuoso di miglioramento di condizionieconomiche e di benessere sociale in una fase di risorse scarse. Comeaffiancare in sostanza una politica di nuova crescita ad una politica diredistribuzione di redditi, ricchezze, lavoro per avere maggiore uguaglianza.Sarebbe un bel compito per la politica collocarsi a questo livello edaffrontare questi che sono i problemi del futuro. Ma per adesso non se neparla. Siamo impegnati nelle prove muscolari tra i tre capi del populismoall’italiana.

«Territorio. Il decreto del governo Gentiloni cambierà in peggio la Valutazione d’impatto ambientale, producendo accentramento, sanatorie e regali alle lobby». il manifesto, 15 aprile 2017 (c.m.c.)

Contro il governo, che vuole escludere i cittadini e gli enti locali dall’esprimere il proprio parere nella Valutazione impatto ambientale (Via) delle grandi opere pubbliche, centinaia di associazioni, in tutta Italia, lanciano l’allarme. Nel dossier Questa non è la Via spiegano le criticità del decreto proposto per le nuove procedure di Valutazione di impatto ambientale, che in teoria dovrebbe limitarsi a recepire una direttiva comunitaria del 2014. Una riforma ritenuta «pericolosissima».

«Meno partecipazione, accentramento, sanatorie e regali alle lobbies. Il governo Gentiloni – viene denunciato nel documento – intende mettere il bavaglio a quanti vogliono parlare e capire». Su diversi punti il decreto, ora all’esame delle Commissioni parlamentari e della Conferenza Stato-Regioni, «oltre a rappresentare una vera e propria involuzione sul tema del rapporto tra comunità e interessi privati che sostengono i progetti, si rivela criminogeno e, in qualche passaggio, anche eversivo dello stato di diritto. Occorre coniugare procedimenti snelli e partecipazione popolare alle scelte, – dichiarano associazioni, comitati e movimenti – migliorando anche i contenuti degli studi di impatto ambientale che spesso sono carenti, se non fatti direttamente con il copia-incolla». E di proposte, in tal senso, ne vengono avanzate diverse.

Il decreto – fa presente il dossier – prevede di poter accedere in qualsiasi momento e per qualsiasi tipologia di opera alla Via «in sanatoria». «Addirittura c’è la possibilità di continuare i lavori anche se “scoperti” e realizzare un progetto (una cava, un gasdotto ecc.) senza Via; oppure, quando il parere Via, se esistente, è stato sospeso o annullato dal Tribunale amministrativo regionale. Il cantiere, in sostanza può andare avanti anche se irregolare. Tanto poi si rimedia».

«La verifica di assoggettabilità a Via, che oggi è un primo filtro per impianti anche pericolosi e distruttivi,- si evidenzia – praticamente diventerà un orpello. Infatti per ben 90 categorie di opere e impianti è stata eliminata completamente la fase di partecipazione per cittadini ed enti, che oggi hanno 45 giorni per presentare osservazioni. Il governo si arroga il diritto di decidere d’imperio».

Attualmente, per la procedura di Via, bisogna depositare il progetto definitivo ai fini delle analisi. Invece con il nuovo provvedimento aziende e imprese proponenti possono presentare anche «quattro schizzi, privi di dettagli tecnici fondamentali per verificare gli impatti oppure, come sta accadendo frequentemente, per accorgersi di eventuali abusi già commessi».

I componenti della commissione Via nazionale saranno scelti dal ministro espressamente, «senza fare ricorso a procedure concorsuali». Questa specifica viene introdotta dopo la bocciatura della Corte dei Conti della nomina di Galletti per la nuova commissione Via, bocciatura avvenuta proprio per l’assenza di criteri selettivi. «Il controllo partitico – è l’accusa – diventerà totale. Si cerca così anche di superare surrettiziamente l’esito referendario del 4 dicembre, quando è stata bocciata anche la riforma dell’articolo117 della Costituzione che prevedeva un forte accentramento».

«Molti dei progetti di estrazione del petrolio e di prospezione, con l’uso dell’airgun e di esplosivi, verrebbero esclusi dalla Via diretta. Inoltre il governo vuole fare un grande regalo da centinaia di milioni di euro alle multinazionali: permettere di non smontare piattaforme e gasdotti a fine lavorazione lasciandoli ad abbellire il paesaggio».

«L’idea di un tunnel sostitutivo nasce dopo il sisma del 1980. Il tracciato originale porta acqua a 1 milione e 300mila persone. In 37 anni scavati solo sei chilometri su 10». Il Fatto Quotidiano online, 15 aprile 2017 (c.m.c.)

A Caposele c’è chi ormai la chiama “la Tav dell’acqua”. Eppure la Pavoncelli Bis, che in questo Comune di 3600 abitanti in provincia di Avellino ha il suo imbocco, non sembra affatto paragonabile, per dimensioni e costi, alla Torino-Lione. Appena 10 chilometri di galleria, per una spesa totale di poco più di 163 milioni. «Ma è ugualmente dannosa per l’ambiente, e ugualmente inutile», protestano alcuni attivisti dei comitati che si oppongono alla realizzazione del tunnel, che dovrà costituire il tratto iniziale dell’Acquedotto Pugliese e sostituire la Pavoncelli originale, quella realizzata a inizio ‘900 e rimasta danneggiata dal terremoto dell’Irpinia.

Era il 1980. Trentasette anni dopo, la galleria sostitutiva non è ancora stata ultimata. Tanto che c’è chi parla anche di maledizione del conte Giuseppe Pavoncelli, banchiere di Cerignola e ministro dei Lavori pubblici del Regno d’Italia, che nel 1906 diede avvio agli scavi per la galleria che avrebbe portato il suo nome. «Ma i fantasmi del passato c’entrano poco», sbuffano gli abitanti di Caposele. Questa, dicono, «è una classica storia di grande opera all’italiana». Con tanto di promesse mancate, tempi che si dilatano, macchinari presentati come avveniristici che improvvisamente si bloccano in mezzo alla galleria.

L’odissea della galleria: progettata nel 1985, cantieri aperti nel 1990. Poi un lungo stallo – L’idea di costruire una galleria sostituiva, “la Bis”, nasce subito dopo il 23 novembre del 1980. La Pavoncelli ha retto al terremoto, ma le perizie evidenziano danni alla struttura. L’ipotesi di un crollo è preoccupante, dal momento che dalla galleria dipende l’approvvigionamento idrico di 1 milione e 300mila abitanti. Per scongiurare il rischio di un’interruzione, nel 1985 l’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese realizza il progetto della Pavoncelli Bis: la galleria originale, si stabilisce, resterà in funzione fino a quando la nuova non sarà completata. I cantieri si aprono nel 1990, ma nel giro di pochi anni due contratti d’appalto vengono rescissi a seguito di contenziosi con le imprese. Si capisce subito che le cose si complicano. Si arriva al 1998, quando parte il valzer dei commissari straordinari. Senza che però la tanto attesa svolta nei lavori arrivi.

Roberto Sabatelli, lo “sblocca-cantieri” che dal 2005 sovrintende all’opera – Poi, nel 2005, arriva “lo sblocca-cantieri”. Così, almeno, si autodefinisce l’ingegnere Roberto Sabatelli. Barese, classe 1947, è lui il nuovo commissario straordinario. Carica che mantiene fino al 2010, quando il governo Berlusconi lo promuove Commissario delegato: nomina, quest’ultima, che gli conferisce il ruolo di stazione appaltante. Nonché uno stipendio annuo di 290mila euro. «Equivale allo 0,3% dell’importo a base d’appalto», precisa Sabatelli. Che da allora ha rischiato più volte di essere sollevato dall’incarico, salvo ottenere, puntuali, le conferme necessarie per poter andare avanti. L’ultima nel Milleproroghe del dicembre scorso, che prevede un rinnovo di altri 12 mesi.

La talpa incastrata: «È bloccata in un restringimento dall’agosto 2016» – Basteranno, perché la Pavoncelli bis venga conclusa? Sicuramente no. Perché nel frattempo la talpa scavatrice fatta arrivare appositamente dalla Germania nella primavera del 2014 si è bloccata. «Un imprevisto aumento di tensione», è la frase che Sabatelli utilizza per spiegare lo stop. In sostanza, questa fresa meccanica lunga 220 metri è rimasta incastrata in un restringimento della galleria. Era il 28 agosto del 2016, e non si è ancora riusciti a rimediare. Inutile, a distanza di oltre 7 mesi, anche solo pretendere di capire la causa dell’incidente. «Non la conosciamo», ammette il commissario. «Stiamo facendo degli studi per capire le possibili cause». Nell’attesa che il rebus venga sciolto, si continua anche a provare a rimettere in funzione la fresa. I vari tentativi, fin qui effettuati, si sono rivelati tutti fallimentari. «Siamo passati ora a soluzione più impegnative. Dopo Pasqua – annuncia Sabatelli – proveremo a muovere la talpa».

Dopo 32 anni, completati 6 chilometri su 10. «Le sacche di gas? A volte siamo costretti a sospendere gli scavi» – Risultato: dei 10,3 chilometri di galleria previsti, a 32 anni dal varo del progetto ne sono stati completati appena 6,2. «Siamo a buon punto», dice comunque Sabatelli. Che argomenta: «Dal momento in cui la talpa si sblocca, se non risulterà danneggiata in 5 o 6 mesi gli scavi termineranno. Poi ci vorrà circa un altro anno per ultimare i lavori». Sempre che, nel frattempo, non sorgano altri problemi. Come quelli legati alla presenza di gas, più volte denunciati dai comitati ambientalisti locali. «Delle sacche effettivamente ci sono, ma fin dall’inizio sapevamo a cosa saremmo andati incontro. Nel corso dei lavori sono state rilevate quantità superiori alle attese, e per questo abbiamo incrementato le misure di sicurezza per i lavoratori». Sabatelli ci tiene comunque a ridimensionare gli allarmi. «Quando si parla di rischio esplosione, non si deve pensare all’eventualità che la galleria salti in aria, a meno che qualcuno non vada lì con un accendino in mano. Semplicemente, quando il livello di gas rilevato supera i valori minimi di sicurezza, interrompiamo gli scavi e aspettiamo che tutto torni nella norma».

La vecchia galleria? «Potrebbe cedere con un’altra scossa» – Intanto la vecchia Pavoncelli continua a funzionare regolarmente. Tanto che c’è chi pensa che costruire un doppione sia inutile. «Lo pensa chi non conosce l’opera», protesta Sabatelli. «La galleria originale sta, come diciamo a Bari, tienimi che ti tengo. Presenta insomma vari problemi, in particolare legati al rialzamento della calotta di fondo. Potrebbe chiudersi del tutto se arrivasse una nuova scossa». E a quel punto, 37 anni dopo il terremoto del 1980, un’alternativa ancora non ci sarebbe.

Continua a trasformarsi in Italia il sistema dei poteri: è la volta dell'unificazione di due monopoli privati, le ferrovie e le strade. Un pezzo alla volta si costruisce un nuovo Leviatano: la differenza è che è privato, non pubblico. la Repubblica online, 13 aprile 2017, con postilla

Semaforo verde al matrimonio tra Ferrovie dello Stato e Anas. Il primo via libera all'operazione di incorporazione della società che gestisce la rete stradale e autostradale - confermano fonti del governo - è arrivato nel consiglio dei ministri di questa mattina. Anas diventerà così una delle controllate del gruppo Fs e le azioni verranno trasferite a Ferrovie dello Stato. La norma che regola l'operazione - ha detto il ministro dei trasporti Graziano Delrio - è presente nel decreto di correzione dei conti che ha accompagnato la presentazione del Def. I ministeri avrebbero trovato un'intesa su uno dei punti che in questi mesi hanno bloccato la fusione, quella dei maxi contenziosi che pesano sul bilancio della società, attraverso l'autorizzazione di un piano triennale di definizione in via bonaria dei pendenti con l'accantonamento di riserve per 700 milioni di euro.

Un altro snodo fondamentale per il buon esito del matrimonio è che la norma permetta alla nuova entità di rimanere al di fuori del perimetro della Pubblica amministrazione, in modo da non sovraccaricare il debito che verrà contratto per gli investimenti sul bilancio dello Stato. Perché ciò sia assicurato, serve il placet di Eurostat (che “bollina” i grandi numeri del bilancio pubblico) ma sembra che su questo fronte siano arrivate le sufficienti rassicurazioni.

Con l'operazione, il nuovo soggetto avrebbe un fatturato di 10 miliardi di euro, una capacità di investimenti di 7 miliardi di euro e immobilizzazioni per circa 60 miliardi di euro Il nuovo soggetto avrebbe inoltre 75 mila dipendenti e 41 mila chilometri di reti gestite.

postilla

I liberali veri (alla Luigi Einaudi, se questo nome dice qualcosa agli abitanti di questo secolo) avevano idee molto chiare sulla concorrenza, sui servizi pubblici e sul monopolio. In sintesi, se c’era un bene o un servizio che non poteva non essere gestito in regime di monopolio (come una risorsa naturale scarsa e rara, o un servizio pubblico essenziale) il monopolio non doveva essere lasciato in mano a privati, ma doveva essere della nazione (dello Stato). Non sostenevano questo per ragioni ideologiche nè ideali, né parchè fossero “di sinistra”, ma per ragioni strettamente economiche: se un monopolio è in mano a privati la loro posizione li indurrà fatalmente a estorcere ai consumatori una “rendita”, cioè un sovrapprezzo, possibile grazie non a un’attività imprenditiva, ma solo alla loro posizione dominante. I liberali alla Einaudi si riferivano a singoli settori dell’attività di produzione o di servizio: per esempio, le ferrovie, o le comunicazioni telegrafiche ma oggi si parla d’altro: dell’unificazione di due grandi monopoli già privati: le ferrovie e le strade.
La decisione del governo Gentiloni è efficacemente sintetizzata dai due giornalisti quando affermano candidamente che «lo snodo fondamentale per il buon esito del matrimonio è che la norma permetta alla nuova entità di rimanere al di fuori del perimetro della Pubblica amministrazione». Ora la “nuova entità" è l’unificazione d due settori portanti delle comunicazioni terrestri, già debitamente privatizzati. Non è necessario galoppare con la fantasia per comprendere quali legami si costituiranno con il trasporto aereo e marino, con le telecomunicazioni via etere, le radioteletrasmissioni, gli altri rami della formazione e informazione, e poi giù giù fino alla salute e all’assistenza
L’immagine hobbesiana del Leviatano si affaccia prepotente, ma senza la correzione della democrazia rappresentativa. Il “sovrano” che dominerà ogni cosa non sarà il risultato di un pur insufficiente sistema istituzionale basato sul voto degli elettori, ma un gruppo di una ventina di persone sconosciute che da un un nuovo Olimpo collocato nella “infrastruttura globale” decidono giorno per giorno come deve svolgersi la vita quotidiana della moltitudine di cui facciamo parte.

«Il Def congela l'ipotesi autostradale e apre all'adeguamento dell'Aurelia da Grosseto a Civitavecchia. Ambientalisti soddisfatti, ma sui finanziamenti per ora ci sono solo 120 milioni ». il manifesto, 11 aprile 2017 (c.m.c.)

Ritorno al duemila per la Tirrenica, l’anno in cui – dopo una prima bocciatura della valutazione di impatto ambientale – i governi dell’epoca (D’Alema e poi Amato) ipotizzarono una superstrada a quattro corsie da Grosseto a Civitavecchia. Passati ben 17 anni fra maxi progetti autostradali, interni o costieri, e una opposizione sempre più radicata sul territorio maremmano, ora il Documento di economia e finanza congela l’ipotesi autostradale. Più per i problemi dell’iter amministrativo, visto che la concessione data senza gara dallo Stato a Sat (Società autostrada tirrenica) portava dritta all’apertura di una procedura d’infrazione Ue, che per dare, una volta tanto, ragione ai contestatori. Ma attenzione: «Ci auguriamo che Anas sia stata incaricata dal ministero alle infrastrutture e trasporti di predisporre le risorse – osserva Anna Donati di Green Italia – quindi il nostro impegno continua per arrivare davvero alla messa in sicurezza dell’Aurelia».

Tecnicamente sulla grande opera verrà fatta una “project-review”. «Con valutazione delle possibili alternative – è scritto nel Def – inclusa la riqualifica dell’attuale infrastruttura extraurbana principale». «Del resto la Conferenza dei servizi è ancora aperta», ha osservato sul punto un fan dell’autostrada come il il viceministro Riccardo Nencini. Comunque le associazioni ambientaliste festeggiano. Italia Nostra, che per prima denunciò i problemi dell’intervento infrastrutturale, ricorda: «Nella battaglia si sono unite a noi le altre grandi associazioni nazionali, come Lega Ambiente, Fai e Wwf. Ma sono soprattutto le tante associazioni locali come Colli e laguna di Orbetello, Maremma viva di Capalbio e la Lega dei comitati di Grosseto, oltre ad altre sigle ugualmente importanti, che ci hanno permesso di tenere duro». In altre parole la civile contestazione ambientalista ha trovato terreno fertile lungo l’intera Maremma.

Dal canto suo Legambiente, con Angelo Gentili, riepiloga quanto successo nell’ultimo periodo: «Dopo la bocciatura del progetto da parte dei Comuni interessati e delle associazioni, si blocca un progetto impattante sul profilo ambientale che non rispetta le esigenze del territorio e delle comunità, con pedaggi salati, complanari inadeguate, e flussi di traffico che non giustificano affatto un’opera autostradale. Ora quello che serve sono cantieri per mettere in sicurezza subito i punti più critici, partendo dai pericolosissimi tratti a due corsie e dagli incroci a raso».

Il problema è che, al momento, l’Anas ha stanziato solo 120 milioni, per la manutenzione del tratto già a quattro corsie – la Variante Aurelia – che va da Rosignano fino a Grosseto. Lavori comunque indispensabili, visto che quei 120 chilometri erano stati da anni abbandonati a se stessi, forse per forzare la mano da parte dei fan autostradali. Ma da Grosseto al confine con il Lazio di soldi ne occorreranno molti di più. Circa un miliardo, lavorando con oculatezza.

Proprio di finanziamenti sembra parlare la senatrice Alessia Petraglia di Sinistra italiana: «Sono stati persi anni importanti per una ostinazione che non rispondeva alle richieste che arrivavano dal territorio. Adesso il governo, il Pd e lo stesso Enrico Rossi si impegnino a mettere in sicurezza la strada, velocemente. Se non si può recuperare il tempo perso dietro alla loro ostinazione, magari si può provvedere alla sicurezza di chi utilizza tutti i giorni quel tratto di strada». In quel “velocemente”, a due mesi dalle elezioni amministrativa e a dieci dalle politiche, c’è il senso dell’ennesima, possibile beffa di un adeguamento superstradale apprezzato dagli elettori, ma poi bloccato sine die dalla mancanza di risorse.

Per certo anche il Pd toscano, con il capogruppo (e maremmano) Leonardo Marras avverte: «Se confermate, le anticipazioni sulla Tirrenica sono in linea con le richieste del partito. Credo che quella del ministero sia la scelta più saggia, a patto però che la revisione del progetto e la decisione definitiva avvengano in tempi rapidi». Visto che la Conferenza dei servizi è ancora aperta, non resta che stare a vedere. Per scoprire eventuali bluff, sulla Tirrenica non sarebbe la prima volta.

«Nel contestato maxi-progetto per portare il gas dell'Azerbaijan in Puglia spuntano manager in affari con le cosche, oligarchi russi e casseforti offshore. L'inchiesta integrale sul'Espresso in edicola domenica». l'Espresso, 1° aprile 2016

Il Tap è la parte finale di un gasdotto di quasi quattromilachilometri che parte dall'Azerbaijan. Il costo preventivato è di 45 miliardi.In Salento, a Melendugno, sono iniziati gli scavi del tunnel in cementoautorizzato dal ministero dell’Ambiente per passare sotto la spiaggia. Da lìsono previsti altri 63 chilometri di condotte fino a Mesagne. Il consorzio TapAg prevede di dover trapiantare, in totale, circa diecimila olivi.

L'Espresso ha potuto esaminare documenti riservati della Commissione europea,che svelano il ruolo cruciale di una società-madre, finora ignota: l’aziendache ha ideato il Tap. Si chiama Egl Produzione Italia, ma è controllata dalgruppo svizzero Axpo. Le carte, richieste dall’organizzazione Re:Common,dimostrano che Egl ha ottenuto, nel 2004 e 2005, due finanziamenti europei afondo perduto, per oltre tre milioni, utilizzati proprio per i progettipreliminari e gli studi di fattibilità del Tap. Gli ultimi fondi pubblici sonoarrivati nel 2009. I ricercatori avevano chiesto altri atti, ma la Commissioneli ha negati «per rispettare segreti industriali, sicurezza e privacy» dellemultinazionali interessate.

In questa Egl, la società-madre del Tap, anchel’amministratore delegato è un cittadino svizzero: Raffaele Tognacca, unmanager che in Italia ha lavorato anche con il gruppo Erg. Tornato in Svizzera,ha lanciato la finanziaria Viva Transfer. Che un'indagine antimafia ha additatocome una lavanderia di soldi sporchi. Intervistato dalla tv svizzera italiana,il pm Michele Prestipino descrisse la vicenda come «un caso esemplare diriciclaggio internazionale di denaro mafioso».

Tutto inizia nel 2014, quando la Guardia di Finanza scopre un presunto clan dinarcotrafficanti collegati alla ’ndrangheta. Il gruppo, capeggiato dalcalabrese Cosimo Tassone, è accusato di aver importato oltre mezza tonnellatadi cocaina. E viene intercettato mentre deve versare un milione e mezzo di euroai narcos sudamericani. I calabresi reclutano un promotore toscano e i suoi duefigli, che accettano di «portare quei soldi in contanti, dentro due trolley, aLugano, nella sede della Viva Transfer», come confermano le confessioni deglistessi corrieri poi arrestati. A ricevere i pacchi di banconote è «RaffaeleTognacca in persona». Proprio il manager che ha tenuto a battesimo il Tap.

ra sudamericani e calabresi scoppia anche una lite: i narcoshanno ricevuto mezzo milione in meno. Tassone sospetta dei corrieri toscani:«Gli spacco la testa!». Un figlio del promotore viene sequestrato in Brasile.Finché il clan si convince che è Tognacca ad aver incamerato una parcella dioltre 400 mila euro («il 35 per cento!»). Quindi scattano gli arresti. Alprocesso, in corso a Roma, i pm hanno formulato una specifica accusa diriciclaggio. E hanno chiesto ai magistrati svizzeri di indagare sulla parteestera. Tognacca si è difeso pubblicamente dichiarando di «non essere statooggetto di nessuna misura penale». Per i pm italiani il reato resta assodato.Ma i giudici elvetici potrebbero aver archiviato per «mancata prova del dolo»:Tognacca poteva non sapere che erano soldi di mafia. Magari mister Tap pensavadi aiutare onesti evasori.

Dopo aver ottenuto i fondi europei, la Egl è stata cancellata e assorbita daAxpo. Questo spiega perchè oggi il gruppo svizzero è azionista della Tap Ag conl'inglese Bp, l’italiana Snam, la belga Fluxys, la spagnola Enagas e l’azeraAz-tap.

L'articolo integrale de l'Espresso racconta molti altriretroscena . Come un accordo segreto per favorire un oligarca russorappresentato da amici di politici italiani. E le tesorerie offshore,documentate dai Panama papers, dei manager di Stato in Azerbaijan e Turchia. <

«I costi per Juve (155 milioni), Sassuolo (3,75 milioni) e Udinese (500 mila euro all'anno) sono stati irrisori. Per impianti non nuovi. Mentre Roma (1 miliardo) e Fiorentina (420 milioni) fanno mega progetti. I rischi». Lettera43, 3 aprile 2017 (c.m.c.)

Famostistadi. Nella versione al plurale non è ancora diventato un hashtag, ma intanto la vicenda dello stadio della Roma ha fatto compiere uno scatto in avanti. I giorni delle polemiche tra la società giallorossa e la Giunta romana guidata da Virginia Raggi sono per il momento messi alle spalle. Non è detto che lo siano definitivamente, poiché la storia sembra tutt’altro che risolta. Molte cose vanno ancora messe a fuoco, e in ogni caso entrambe le parti vogliono provare a rimaneggiare la soluzione di compromesso raggiunta, per tirarla un po’ più verso sé.

Ottimismo sulle prospettive. Ma intanto la conseguenza immediata dell’accordicchio raggiunto è stato il modificarsi del clima intorno al dossier degli stadi privati. Perché da un giorno all’altro è parso che gli umori siano mutati in positivo, facendo percepire come più prossima un’innovativa stagione dell’impiantistica sportiva in Italia: quella degli stadi privati, posti sotto il controllo dei club calcistici con prospettiva d’incremento esponenziale dei ricavi.

Una narrazione di fortissima presa, costruita con semplificazioni spesso ai limiti del rudimentale, e condotta con l’utilizzo di un registro emotivo del discorso. Il risultato è una rappresentazione delle cose fondata sull’equazione “stadi privati = nuova età dell’oro”. Con la creazione di un mito sociale difficilissimo da confutare, perché la forza del ragionamento sarà sempre deficitaria rispetto alle passioni tifose, e perché il già carente senso italico per i beni collettivi non ha possibilità alcuna contro gli impeti da Curva Sud.

Anche Lolito ci riprova. E dunque, ecco che il sofferto compromesso raggiunto fra l’As Roma e la Giunta della capitale attizza le mire delle altre società calcistiche (e dei relativi gruppi d’interesse), incoraggiate a rilanciare progetti che parevano accantonati. Il primo è stato Claudio Lotito: al presidente e proprietario della Lazio non è parso vero di poter tornare alla carica per la costruzione del suo stadio. Ci aveva provato qualche anno prima proponendo l’edificazione di un impianto sulla via Tiberina, un’idea bocciata dalla giunta di Walter Veltroni. Ma adesso che l’altro club romano si è visto dare l’ok la prospettiva cambia, e il massimo dirigente laziale l’ha messa sul piano del diritto alla par condicio: se la sindaca ha detto sì alla Roma non può dire no alla Lazio. E che non si parli di ristrutturazione dello Stadio Flaminio, ché di contentini Lotito non vuol proprio saperne.

Dobbiamo credere in modo acritico al fatto che una nuova generazione di stadi di proprietà possa essere la panacea per il calcio italiano?

E dunque eccoli tutti lì, pronti e schierati per avventarsi su un business che se si fondasse soltanto sulla retorica avrebbe già prodotto perlomeno 5 punti di Pil. A sentire il coro, sembra quasi che ci sia un ventaglio di chance che aspettano soltanto di essere colte, con una cascata di soldi che aspetta soltanto di veder liberare le chiuse per potersi riversare sul calcio italiano.

Una narrazione contro i "Gufi". Se ciò tarda a succedere, continua la narrazione, è soltanto perché vi sono elementi esterni al calcio che ritarderebbero l’evento: dapprima le lentezze della legislazione nazionale, poi la miopia e i ritardi dalla politica e delle burocrazie di livello locale, e infine il vituperato comitatismo che nella lettura del Ptf (il Partito trasversale del fare, che nel mondo del calcio allinea una delle sue sezioni più parolaie) esprime nei territori una nuova forma di luddismo anti-pallonaro. Una sorta di Santa alleanza contro la modernità del calcio italiano cui addebitare ogni colpa. Ma le cose stanno davvero così? E soprattutto, dobbiamo credere in modo acritico al fatto che una nuova generazione di stadi di proprietà possa essere la panacea per il calcio italiano?

In Italia ci sono tre impianti sotto il controllo dei club: lo Juventus Stadium, la Dacia Arena dell’Udinese e il Mapei Stadium del Sassuolo. In nessuno dei casi si può parlare di "nuovo" stadio

Bisogna partire proprio da quest’ultimo punto, e dallo stato dell’arte. Che in Italia parla della presenza di tre stadi interamente sotto il controllo dei club: lo Juventus Stadium, la Dacia Arena dell’Udinese e il Mapei Stadium del Sassuolo. Tre storie diverse sotto tutti gli aspetti, ma accomunate da un dato: in nessuno dei casi si può parlare di nuovo stadio.

Il J-Stadium? Quasi come Higuain. Lo Juventus Stadium, che pure è quello per il quale sono state necessarie le opere più radicali, nasce dalle macerie (anche economiche e morali) dello Stadio delle Alpi. Cioè uno dei monumenti allo spreco di cui è costellata la storia di Italia 90. Disegnato su una capienza quasi dimezzata rispetto all’impianto antecedente (da poco meno di 70 mila a 41.500 mila posti a sedere), lo J-Stadium è stato inaugurato nel 2011 e realizzato in due anni con una spesa di circa 155 milioni di euro. Se si considera che nell'estate del 2016 il club bianconero ne ha spesi quasi 100 per strappare Gonzalo Higuain al Napoli, si capisce quanto relativa sia la cifra.

Per quanto riguarda la Dacia Arena, altro non è che il vecchio Stadio Friuli sottoposto a ristrutturazione e concesso per 99 anni all’attuale proprietà del club bianconero, retta dalla famiglia Pozzo. Costo delle opere: circa 50 milioni. Che spalmati su una concessione di 99 anni fa 505 mila euro e rotti all’anno. Non indicizzati. Il budget per una modesta società di serie D. Anche in questo caso la capienza è stata drasticamente ridotta: poco più di 25 mila, rispetto ai quasi 40 mila dei tempi di Italia 90.

Dacia , la colorazione "Anti-vuoto". Un quasi dimezzamento che non ha avuto effetti apprezzabili sugli ampi vuoti delle gare di campionato. Si è provato a tamponare l’effetto-stadio vuoto piazzando sugli spalti i seggiolini colorati, un’idea copiata da dal nuovo Alvalade, lo stadio dello Sporting Clube de Portugal rinnovato in occasione degli Europei 2004. Con la differenza che nello stadio di Lisbona i seggiolini colorati vengono occupati da spettatori in carne e ossa.

Scontro sul nome dell'impianto. Un’ultima annotazione sul “nuovo” stadio dell’Udinese: riguarda la denominazione “Dacia Arena”, che è stata oggetto di proteste "identitarie" da parte di una frangia della tifoseria (schierata in difesa del nome “Friuli”, espressione del legame col territorio), nonché tema di dispute da sudoku giuriduco in sede di istituzioni locali. Attualmente la questione è sotto la lente del Consiglio di Stato, con l’Udinese che giura non si tratti di pubblicità, ma di “naming right”. E adesso si attende il parere che farà giurisprudenza, però intanto si può dire che è molto difficile distinguere il confine fra pubblicità e naming right.

E infine c’è il Mapei Stadium. Che è lo stadio del Sassuolo, ma non ha sede a Sassuolo. Si trova a Reggio Emilia, ed è finito nelle mani della società neroverde capitanata dall’ex presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, attraverso un’asta fallimentare. Costo dell’acquisizione: 3,75 milioni, il prezzo di un buon calciatore di serie B. Anche in questo caso c’è un naming che potrebbe far discutere, ma la verità è che parlando dello stadio-del-Sassuolo-che-non-ha-sede-a-Sassuolo si entra in contatto con la sfera delle deformazioni della realtà e dell’indicibile.

Lo stadio Giglio,un autogol. Perché ci si sforza di vederlo come “lo stadio del Sassuolo” e intanto si rimuove la sua storia. Che è la storia dello Stadio Giglio, il primo impianto calcistico privato nella storia italiana. Nuovo di pacca - altro che J-Stadium e Dacia Arena -, sorto su impulso della Reggiana in un momento di hybris del club granata. La squadra era in serie A nella prima metà degli Anni 90, e pensava come se ci dovesse rimanere in pianta stabile. Per questo volle dotarsi di un impianto nuovo, sorto da un progetto ambiziosissimo ed esageratamente costoso per quella che era la dimensione del club: 25 miliardi di lire.

Come sia andata a finire, è noto: la Reggiana disputò soltanto altri due campionati di A nel giro di tre anni, poi a partire dalla fine della stagione 1996-97 cominciò a sprofondare nelle categorie inferiori. Il carico di debiti generato dalla costruzione dello Stadio Giglio portò al fallimento della società nell’estate del 2005, con ripartenza dalla serie C2 grazie al Lodo Petrucci.

Tribune riempite dagli ospiti. E dal fallimento veniva interessato anche lo stadio, messo all’asta dal curatore. Una prima asta tenuta nel 2010, con base di 6 milioni, andò deserta. Tre anni dopo, la svendita a 3,75 milioni. Per la serie: il grande business degli stadi privati. Ma, per carità di patria, di questo non si parla. Meglio dire che «il Milan ha vinto in trasferta a Sassuolo», cancellando pure l’evidenza della dislocazione. Ultima annotazione: gli spalti del Mapei Stadium sono popolati soprattutto dalle tifoserie avversarie. Altro dato di fatto su cui vige la congiura del silenzio.

Tutto ciò per dire che siamo ancora alle premesse di una vera stagione degli stadi privati. Che gli esempi citati fin qui, di nuovo, hanno poco o punto. E che sull’unico, reale precedente di stadio privato costruito ex novo, come si è visto è meglio stendere un velo pietoso, altro che boom di entrate e economie di scala. Questi ammonimenti vanno tenuti presenti intanto che altri due nuovi progetti vengono magnificati: lo stadio della Roma a Tor di Valle e quello della Fiorentina nell’area Mercafir.

Solo suggestive presentazioni. Due interventi di ben altra portata, anche in termini di costi: circa 1 miliardo di euro per l’impianto giallorosso (che invero è soltanto minima parte dell’intera operazione fondiaria), “soltanto” 420 milioni per quello della società viola. Costi enormi, con ritorni la cui certezza e i cui tempi sono tutti da dimostrare. Sempre che nel frattempo si esca dalla vaghezza. Perché bisognerà vedere in che modo riaggiustare il progetto dello stadio romanista dopo la soluzione di compromesso. E perché l’impianto della Fiorentina, al momento, è una suggestiva presentazione in power point e poco altro.

Le cubature salveranno il calcio. Tutto il resto è da scrivere, a partire dal piano finanziario e dall’individuazione dei privati che dovrebbero metterci il capitale di rischio. Ma l’importante è continuare a raccontarsi la favoletta. Dateci le cubature e faremo tornare il calcio italiano all’età dell’oro.

«In Bretagna, tra i comitati stile No Tav che da anni bloccano il progetto del nuovo aeroporto. E la rivolta dilaga dove soffia il vento radicale “In Francia stop opere inutili”». la Repubblica, 1° aprile 2017 (c.m.c.)

Notre-Dame-des-Landes.«Insorgere è nostro dovere». Julien Durand è sulle barricate, anzi in mezzo a un “parco di bastoni”, migliaia di ceppi issati come una frontiera invalicabile a protezione della “Zone à défendre”. «La rivolta ce l’ho nel sangue» spiega l’agricoltore settantenne. «Durante la guerra, mio padre è scappato sei volte dai campi di prigionia » ricorda Durand, giubbotto di pelle e jeans, aria da eterno ragazzo. Il portavoce dell’Acipa, l’associazione che da anni lotta contro la costruzione dell’aeroporto a Nord di Nantes, ha il suo quartier generale in un piccolo capannone. «Basta con lo spreco delle terre e del denaro pubblico » è scritto su un cartello.

La protesta di Notre-Dame- des-Landes ha illustri precedenti. Negli anni Settanta anarchici, contadini, attivisti di estrema sinistra avevano dato battaglia contro l’allargamento di una base militare sull’altipiano del Larzac. Julien il ribelle, ovviamente, c’era. Il presidente socialista François Mitterrand aveva dovuto cedere e rinunciare al progetto. Già allora circolava l’ipotesi di inaugurare un nuovo scalo in Bretagna per far decollare il Concorde direttamente sopra all’Atlantico. Non se ne fece nulla. L’aereo supersonico è vissuto e morto nella prima estate del ventunesimo secolo, sempre a Roissy.

Eppure nel momento in cui si celebrava l’addio all’avventura del Concorde tornava l’idea di un nuovo aeroporto vicino a Nantes per sviluppare economia e turismo sulla costa Ovest. Il progetto è avanzato, con un costo di 500 milioni di euro, la gara d’appalto vinta nel 2008 dal gruppo Vinci e il via libera alle procedure di esproprio.

«Togliere la terra a un contadino è come chiudere una fabbrica per un operaio» commenta Durand che ha nel suo ufficio un manifesto di Jean-Luc Mélenchon, il leader di estrema sinistra candidato alle presidenziali. «Mi piace più il suo programma che il personaggio » commenta l’agricoltore “insoumis”, indomito, il nome di militanti del movimento di Mélenchon, “La France Insoumise”. Nessuno immaginava in quel momento che la landa desolata e paludosa a cinquanta chilometri da Nantes si sarebbe trasformata nella roccaforte degli irriducibili, con l’invenzione del nuovo concetto di “Zad”, replicato in altre parti del Paese. Da allora, decine di cantieri sono occupati da attivisti ostili a quelle che definiscono “Grandi opere inutili”.

Esiste ormai un Tour de France delle Zad, che va da Bure, in Lorena, dove dovrebbe sorgere un centro industriale per il stoccaggio dei rifiuti radioattivi, fino a Roissy, dove è previsto EuropaCity, il più grande centro commerciale del Paese, continuando al confine con il Belgio, dove c’è l’allevamento gigante “1000 vaches” accusato di distruggere le piccole aziende agricole.

Soffia un vento radicale sulla Francia. Al primo turno delle presidenziali, il 23 aprile, Mélenchon potrebbe superare Benoît Hamon che pure rappresenta la corrente più radicale del partito socialista. La Bretagna è da sempre una terra rossa. «A sinistra c’è una lunga tradizione di estremi » ricorda Thierry Pech, direttore associazione Terra Nova e autore del saggio Insoumissions portrait de la France qui vient.

«La vera novità - continua - sono le nuove forme di radicalismo a destra, con elettori che contestano il sistema politico, chiedono non più autonomia e libertà, ma più ordine, autorità, più chiusura, oggi sono questi gli irriducibili che dominano la scena». Il risultato è quello che Pech definisce «voti insurrezionali», dal Brexit all’elezione di Trump negli Stati Uniti alle presidenziali dove i due principali partiti di governo potrebbero essere spazzati via dal ballottaggio. «Ci sono masse di elettori che esprimono nell’urna la voglia di cancellare l’attuale sistema politico, cambiare le regole del gioco, senza poter tuttavia esprimere un’alternativa». È una spinta rivoluzionaria molto particolare, conclude il direttore di Terra Nova, perché ha interpreti, come i populisti, ma non pensatori, teorici: nessuno ha trovato un Montesquieu, un Rousseau, che possa dare forma e sostanza alla spinta insurrezionale che si propaga in Occidente.

Tra i “zadistes”, gli squatter che hanno occupato ruderi, costruito capanne, la priorità sembra l’insurrezione più del voto. «La prossima elezione? La nostra è un’esperienza di autonomia politica » dice un portavoce che, come tutti qui, si fa chiamare “Camille” per mantenere l’anonimato. La fattoria Vache qui Rit, la mucca che ride, è il punto di ritrovo della piccola comunità di duecento persone tra ruderi, baracche e roulotte su 1600 ettari attraversati da una strada provinciale ormai chiusa, su cui dovrebbero passare le due piste di atterraggio. Nel posto dov’è prevista la torre di controllo dell’aeroporto “Grand Ouest”, adesso c’è un spaccio alimentare, senza cassa, vige il baratto. La sera si svolgono le assemblee, una o due volte a settimana, con un’“autogestione orizzontale”.

Notre-Dame- des-Landes ha una fama che ha superato le frontiere, in passato ci sono stati scambi e incontri con i No Tav della Val di Susa. Tanti militanti stranieri sono chiamati in soccorso non appena si avvicina la minaccia di un’operazione di polizia. L’ultima tentativo delle autorità di evacuare la zona risale al 2012. Ci furono scontri, arresti, e tutto si fermò. Il primo ministro era allora il socialista Jean-Marc Ayrault, ex sindaco di Nantes, tra i più convinti sostenitori del progetto.

La morte di un attivista ventenne, Remi Fraisse, colpito nel 2014 da una granata dei gendarmi durante le manifestazioni contro la costruzione di una diga nel Sudovest del Paese, ha provocato un nuovo stop. François Hollande ha mediato, appoggiando l’idea di organizzare un referendum tra gli abitanti.

Nel giugno scorso la maggioranza si è espressa in favore della costruzione dell’aeroporto ma il progetto resta bloccato. E toccherà al prossimo governo decidere. Marine Le Pen si è dichiarata “personalmente” contraria al progetto ma vuole rispettare la volontà del popolo, e quindi il risultato del referendum. Emmanuel Macron è in dubbio, ha promesso di fare nuove consultazioni per decidere.

L’unico davvero chiaro è il candidato della destra François Fillon. A sinistra, Hamon e Mélenchon sono per archiviare il cantiere e non se ne parli più. Nella sua roulotte, Jean-Joseph fuma una sigaretta e sentenzia: «L’aeroporto non si farà mai, almeno non qui». Lo dice con lo sguardo velato di malinconia. Anche lui sa che il giorno in cui le autorità rinunceranno ufficialmente al progetto scomparirà anche la Zad.

La tassa regionale stravolge il senso del project financing con il risultato contrario rispetto agli obiettivi per i quali è nato, cioè di far pagare agli utilizzatori l’autostrada e non a tutti i cittadini come si prospetta con questa tassa. Il Fatto Quotidiano on line, 24 marzo 2017, con riferimenti (m.p.r.)

Per continuare a finanziare la Pedemontana veneta, 94 km con un costo stimato di oltre tre miliardi di euro, la Regione Veneto vuole introdurre un’addizionale Irpef “temporanea” per i suoi cittadini in alternativa all’aumento dei futuri pedaggi (che sarebbero già doppi rispetto a quelli della media nazionale). Il motivo? L’aumento dei costi dell’opera, frutto di previsioni sbagliate e sottostimate. La tassa regionale, però, stravolgerebbe il senso del project financing con il risultato contrario rispetto agli obiettivi per i quali è nato, cioè di far pagare agli utilizzatori l’autostrada e non a tutti i cittadini veneti come si prospetta con questa tassa.

Eppure il project financing doveva essere approvato solo se avesse avuto una base di fattibilità economica. Ora, invece, il committente pubblico (Regione e Stato) deve spiegare “perché” quest’opera ha avviato la sua realizzazione “come se fosse” un project financing: è evidente che il fine è stato solo per poter dire, sul piano politico, che l’infrastruttura si sarebbe realizzata con finanziamenti privati.

Con la recente invenzione del canone di disponibilità e della tassa, Zaia garantisce la remunerazione alla società concessionaria Sis mentre la Regione e lo Stato si accollano tutto il rischio dell’opera, come se l’avessero realizzata con un appalto tradizionale. In tal modo è venuta meno un’altra ragione per il ricorso al project financing: minimizzare le risorse pubbliche impegnate e non far ricadere totalmente l’investimento sulla spesa pubblica.

È evidente che, al netto di ogni considerazione ambientale, il progetto non aveva basi di fattibilità economica perché il committente ha voluto fin dall’inizio sgravare la società concessionaria dal rischio imprenditoriale, accollandolo tutto alla mano pubblica, compreso il nuovo prestito di 300 milioni richiesto alla Cassa depositi e prestiti.

La Pedemontana veneta, come era stata pensata, non serve più visto che è stato ammesso che dai 33mila veicoli giornalieri previsti si passerà (forse) a 18mila. Così, anziché studiare una via d’uscita, ad esempio una riduzione della lunghezza della tratta e la riduzione delle carreggiate, con minor consumo di suolo e minori costi, si vuole proseguire su una strada fallimentare.

Strada che ha aperto uno strascico legale con l’inevitabile ricorso di Salini, secondo classificato nella gara del 2009, che ora denuncia come, per dirla chiaramente, le carte in tavola non si possono cambiare: Salini ha denunciato come che il Consorzio Sis non stia adempiendo ai suoi obblighi di convenzione e non stia riuscendo neppure ad acquisire le risorse finanziarie che era tenuto a reperire per realizzare l’opera nel rispetto della convenzione sottoscritta. Il tutto mentre la Pedemontana lombarda, 87 km di asfalto per un costo di 4,6 mld di euro, è ferma da due anni a un terzo dell’opera. Qui, il miracolo di portare avanti i lavori è stato chiesto a Antonio Di Pietro.

Quella dell’ex magistrato di Mani pulite è l’ultima, disperata carta che gioca il governatore lombardo Roberto Maroni per un’opera impossibile da realizzare per motivi finanziari e ambientali: l’ultimo piano finanziario, approvato dal Cipe nel 2014, non prevedeva che dopo un aiuto di 350 milioni di defiscalizzazione anche la recente garanzia “rischio traffico” (di 450 milioni) per la realizzazione della Pedemontana lombarda.

Tariffe troppo alte e traffico pendolare e residenziale (di corto raggio) tengono distanti automobili e tir rendendo impossibile l’equilibrio del piano finanziario a pochi mesi dall’apertura di 22 km di rete. In Veneto come in Lombardia non servono nuove autostrade ma l’eliminazione dei “colli di bottiglia” e una buona gestione e manutenzione della rete esistente.

La foglia di fico del project financing non tiene più per le due “bandiere federaliste” autostradali di Veneto e Lombardia: per andare avanti ci vorranno ancora nuovi aiuti e nuove garanzie di Stato. Teem e Brebemi, le nuove autostrade lombarde, sono la prova del fallimento: tristemente vuote, non incassano neppure i pedaggi sufficienti per pagare le spese di gestione, facendo restare i debiti da pagare sul groppone pubblico.

Questi esempi dimostrano che i project financing (farlocchi) italiani non sono strumenti per realizzare opere pubbliche con risorse e rischi privati, ma “creatori di debito occulto” per le casse dello Stato. L’unico risultato raggiunto: disperdere ricchezza anziché crearla con opere più utili.


riferimenti

Sulle previsioni di traffico sbagliate si veda l'analisi di Carlo Giacomini. Su eddyburg è possibile ripercorrere la vicenda. I comitati avevano tenacemente provato a contestare «l’iperviabilizzazione privata con soldi di noi tutti, devastatrice per il territorio e il bilancio», si legga a proposito Nuovo stop alla Pedemontana Veneta. 
“Resistere alla cementificazione di Federico Simonelli, e non erano mancate analisi di esperti che documentavano le distorsioni normative «al solo scopo di consentire al concessionario di ripagarsi l’opera che non regge con i soli ricavi da pedaggio» come quella di Anna Donati Grandi opere e consumo di suolo sempre su eddyburg, dove numerosi sono gli articoli sulla vicenda della Pedemontana. Ora il presidente Zaia per completare l'opera è «Costretto a tassare i veneti ma non è un tradimento», lo stesso presidente che quando il Tar aveva bloccato l'opera per il ricorso di un cittadino aveva commentato che era stato «per un eccesso di democrazia».

«Per le ferrovie i 40 miliardi di euro previsti sono interamente destinati all’Alta velocità. La maggior parte degli interventi risultano privi di “obbligazioni giuridiche vincolanti”. Significa che si potrebbero ancora cancellare». Altraeconomia, 23 marzo 2017 (c.m.c.)


Nel Paese delle “grandi opere”, c’è chi attende con trepidazione il 10 aprile. Entro quel giorno, infatti, il Consiglio dei ministri dovrebbe licenziare il nuovo DEF (Documento di economia e finanza) per il 2017, e il primo DPP, ovvero il “Documento pluriennale di pianificazione”. Si capirà, insomma, se il governo –che nel 2017 dovrebbe tagliare altri 1,6 miliardi di euro alle Province– continuerà ad allargare i cordoni della borsa per finanziare le grandi infrastrutture. Quel che è certo, intanto, è che tra il 31 marzo e il 31 dicembre del 2016 sono state stanziate risorse pari a circa 6 miliardi di euro per “coprire” gli interventi sulle cosiddette “infrastrutture strategiche”.

Una fotografia dello stato dell’arte è scattata nella nota di sintesi elaborata dal Servizio studi della Camera dei deputati in merito allo “stato di attuazione del programma”, che fa riferimento alla fine dello scorso anno (e pubblicato a marzo). Spiega che il valore complessivo delle future “grandi opere” è pari a quasi 280 miliardi di euro. La lettura integrale della relazione offre però ulteriori spunti di analisi.

1) Non è più possibile stabilire con certezza, né ha alcun valore giuridico farlo, quante siano in totale le “grandi opere”. È vero che vengono elencate le 25 opere considerate “prioritarie”, ma per quelle “non prioritarie” anche nell’analisi del Servizio studi della Camera si fa ormai riferimento a “lotti”, in totale 981. Gli interventi infrastrutturali, infatti, possono anche avanzare per fasi successive, e anche tutte quelle attività che dovrebbero essere considerate propedeutiche -come la progettazione e la copertura del finanziamento- possono essere completate in momenti successivi: non c’è alcune certezza, insomma, che un’opera di cui viene posata la prima pietra verrà in futuro effettivamente terminata; la legge offre infatti anche la possibilità di procedere alla realizzazione di “lotti costruttivi non funzionali”.

Un effetto di questo paradosso -senza entrare per il momento nel merito degli interventi- è che mentre mancano 25,5 miliardi di euro al fabbisogno delle “opere prioritarie”, il CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) ha già deliberato finanziamenti per 74 miliardi di euro a favore di lotti di opere non prioritarie.

2) A leggere in modo superficiale l’elenco delle opere prioritarie, si potrebbe immaginare che (alla fine) l’esecutivo si sia adeguato alle richieste di chi, come il Wwf o Legambiente, criticava da anni la netta prevalenza di strade e autostrade tra le infrastrutture strategiche ereditate dalla legge Obiettivo del 2001. Oggi, infatti, il 63% delle opere, in valore, riguarda progetti per la mobilità collettiva, ferrovie (per 41,08 miliardi di euro, pari al 46% del costo complessivo delle 25 opere prioritarie) e metropolitane (per 14,94 miliardi di euro, il 17% del totale).

Alle “strade” restano appena 28 miliardi di euro, cioè il 31% del totale. Le ferrovie di cui si parla, però, sono esclusivamente nuove linee ad Alta velocità: 26 miliardi di euro servirebbero per quello che la relazione definisce un “completamento” della rete al Nord (comprende il Terzo Valico tra Genova e l’alessandrino, la Torino-Lione attraverso la Valsusa, la Brescia-Padova, la galleria di base del Brennero, tutte opere contestate da comitati locali ed organizzazioni ambientaliste, e in alcuni casi anche al centro dell’interesse della magistratura per casi di corruzione e di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata, mentre è in corso di revisione l’intervento per il sotto-attraversamento di Firenze); altri 15,1 miliardi di euro, invece, andranno a finanziarie due itinerari nel Meridione, cioè la Napoli-Bari e la Palermo-Catania-Messina (ricordiamo che il governo Renzi con lo Sblocca-Italia ha “sottratto” queste due infrastrutture ai normali iter procedurali, assegnandone la gestione ad un commissario straordinario che sta procedendo a colpi di ordinanze, ben 27, emesse tra il dicembre del 2014 e il primo dicembre 2016).

3) Allargando lo sguardo a tutto l’elenco delle opere strategiche, si scopre che «il 59% del costo complessivo delle opere non prioritarie, 112,2 miliardi su 188,6 miliardi totali, riguarda opere stradali». Per questi interventi, il CIPE ha già impegnato il 38% dei finanziamenti richiesti, pari a oltre 42 miliardi e mezzo di euro; il 62% delle opere (in termini di costi) risulta in fase di progettazione.

4) Nella nota di sintesi viene utilizzato un acronimo (da addetti ai lavori) che potrebbe rappresentare l’architrave di un cambiamento, se davvero il governo volesse arrivare a ridiscutere le “infrastrutture strategiche” per il Paese. È OGV, e sta per “obbligazioni giuridicamente vincolanti”. Indica, cioè, quelle opere per cui esiste un contratto, e quindi un legittimo vincolo nei confronti di un soggetto che si è aggiudicato o è stato incaricato dell’esecuzione dell’opera. Sono quelli, cioè, che in caso di cancellazione, potrebbero aprire per lo Stato la porta di contenziosi.

Ecco, la maggioranza delle opere non risulta coperta al 31 dicembre 2016 da obbligazioni giuridicamente rilevanti: ben 178 miliardi di euro, pari al 64% del totale, riguardano infatti opere «in fase di progettazione (circa 152 miliardi), in gara o aggiudicate (circa 25 miliardi) e con contratto risolto (meno di 1 miliardo), che dovrebbero rappresentare le opere senza OGV». Così è scritto nella nota di sintesi del Servizio studi, che nell’elaborazione si è avvalso della collaborazione dell’Autorità nazionale anticorruzione, che svolge anche la funzione di autorità di vigilanza sui contratti pubblici. Se consideriamo che «l’84% del costo delle opere senza OGV, pari a circa 150 miliardi di euro, riguarda opere non prioritarie», è plausibile auspicare un ripensamento. E un rimaneggiamento dell’elenco delle infrastrutture strategiche, in particolare per quanto riguarda l’Alta velocità e le autostrade.

5) A meno che governo e Parlamento non subiscano l’influenza di portatori di interesse come AITEC, l’associazione italiana dell’industria cementiera. Nel mese di febbraio, in audizione di fronte alla Commissione lavori pubblici del Senato, i rappresentanti dell’organizzazione confindustriale hanno chiesto «il rilancio di una politica infrastrutturale italiana effettuata con risorse pubbliche credibili». Di fronte al “fenomeno della corruzione”, che viene definito “un problema grave” e riguarda -secondo la campagna “Riparte il futuro”- oltre la metà delle infrastrutture strategiche, si spiega che «inseguire il ‘sistema perfetto’ non deve fermare la macchina di investimenti pubblici che alimenta e, in questi anni di crisi tiene in vita, la filiera dei lavori pubblici e dei materiali da costruzione».

Tra il 2007 e il 2016 la produzione di cemento in Italia è calata del 59,3%, da 47,5 a 19,3 milioni di tonnellate. Guardando ai bilanci delle aziende del comparto, tra il 2010 e il 2015 si è registrata una perdita complessiva pari a 1,23 miliardi di euro, solo parzialmente mitigata dalla possibilità di vendere sul mercato i “diritti di emissione” assegnati gratuitamente dalla Commissione europea.

«La Regione Calabria finanzia uno scalo fra la Riviera dei Cedri e la costa di Maratea. Italia Nostra e Legambiente presentano una denuncia al Ministero dell’Ambiente: “Non potrà mai funzionare, è rischioso e contro le leggi». la Repubblica online, 22 marzo 2017 (p.s.)


Scalea. Politici e imprenditori da mesi non parlano d’altro: “Costruiremo strade e alberghi. Villaggi turistici e stabilimenti balneari. Grazie al nuovo aeroporto porteremo i turisti di tutto il mondo nelle nostre meraviglie”, dicono. Ed effettivamente non hanno tutti i torti: perché chi mai atterrerà a Scalea, Calabria, un passo dalla Riviera dei Cedri e dalla costa di Maratea, lo farà proprio all’interno di una di quelle meraviglie, il letto del fiume Lao, dove da quasi un anno stanno realizzando la nuova aerostazione.

Per crederci basta guardare le foto dall’alto che Italia Nostra e Legambiente hanno scattato e inviato all’autorità giudiziaria, alla Regione e al Ministero dell’Ambiente per denunciare «l’assurdità di questo aeroporto che non potrà mai funzionare, è contro ogni legge e mette tutti a rischio: serve soltanto per far guadagnare soldi pubblici a imprenditori e non solo», spiega Renato Bruno, consigliere comunale del Movimento 5 Stelle che da mesi sta conducendo una battaglia contro la realizzazione dello scalo.

Le parole di Bruno non sono casuali. Perché due milioni di soldi pubblici sono già stati spesi, lo scalo chissà se mai aprirà ma certamente qualcuno ci ha già guadagnato: la ‘ndrangheta. Un’ultima inchiesta della procura Distrettuale antimafia di Catanzaro ha documentato come Luigi Muto, figlio del boss Franco, pretendeva una tangente dello 0,7 per cento del finanziamento pubblico intascato dal gruppo Barbieri. E - così per lo meno si evince dalle intercettazioni - Barbieri pagava.

Tant’è che in azienda si meravigliano del fatto che arrivi una seconda richiesta estorsiva: quando i dipendenti trovano una bottiglia piena di benzina e un accendino davanti al cantiere prima provano a non fare la denuncia («Queste sono cose di cui mi occupo io e basta!! Non se ne deve occupare nessun altro, sono cose che faccio io!!...perché io ce sono da cinquant'anni in questa cazzo di terra e sono cazzi miei queste cose qua, ok??!..» grida Barbieri al socio che premeva per installare la videosorveglianza al cantiere), e poi costretti dal passaparola portano una copia della denuncia proprio al boss, per dimostrare che era contro ignoti.

Ora al di là dell’interesse della ‘ndrangheta per l’opera, resta da capire se davvero un aeroporto in un fiume potrà mai aprire. La questione, come sempre in questi casi, da un punto di vista burocratico è assai complessa. La pista (lunga poco meno di duce chilometri e larga 30) è stata realizzata nel 2001 quando è stata creata l’aviosuperficie che fino a qui ha ospitato aerei leggeri o al massimo scuole di paracadutismo. Qualche tempo fa si decide però di fare il salto di qualità: utilizzando i fondi europei viene appaltato in project financing la realizzazione di un vero e proprio aeroporto.

Il pubblico mette sul piatto due milioni di euro, il privato ne promette circa cinque e in cambio intasca la gestione dello scalo per i prossimi 25 anni. «Faremo decollare charter turistici e compagnie aeree regionali, atterreranno aerei anche con 200 persone» spiegano dalla ditta Barbieri che ha vinto il bando. Un anno fa partono i lavori per realizzare terminal, strade, in attesa di ottenere dall’Enac, l’ente nazionale civile, le abilitazioni per fare atterrare un certo tipo di aerei. Arriveranno mai? «Certamente» dicono dall’azienda. «Sarebbe una follia» incalzano gli ambientalisti. «Secondo l’autorità di Bacino» denuncia il presidente regionale di Legambiente, Francesco Falcone, «si tratta di un’area soggetta ad alluvione e quindi in grado di dare problemi all’incolumità delle persone».

«E’ una zona naturale di interesse comunitario, tutelata da Bruxelles, con l’erosione del suolo richia di mangiarsi tutto» dicono quelli di Italia nostra.«Si sta creando un caso sul nulla» rispende però l’ingegner Alberto Ortolani, amministratore delegato della società Aeroporto di Scalea. «Non c’è nessun pericolo idrogeologico, il fiume ha la giusta distanza, la autorizzazioni sono a posto dal 2001 quando fu creata l’aviosuperficie, ora stiamo realizzando soltanto le infrastrutture attorno» Ma ci sarà una differenza se fare atterrare un superleggero o un charter? «No», dice Ortolani. Una posizione che non convince tanto ambientalisti, 5 Stelle e ora anche ministero dell’Ambiente che, dopo la denuncia di Italia Nostra, ha chiesto chiarimenti alla Regione Calabria dando di fatto una sorta di stop ai lavori.
«Ci sono dei ritardi, è vero, difficilmente si farà tutto entro il 2017 quando era previsto. Ma stiamo lavorando, il via libera dell'Enac è soltanto una formalità, ce la faremo» giura Ortolani, battezzando così il primo aeroporto anfibio del mondo.

«L’urbanista Oriol Ne-lo, tra i suoi autori, spiega a Venezia come fare. “Posti-letto bloccati a quota 160 mila per sempre e spostati via dal centro”». La Nuova Venezia, 21 marzo 2017 (m.p.r.)

Venezia. Mentre Venezia ancora si interroga sul problema del governo dei suoi flussi turistici, Barcellona - con un nuovo piano-pilota - ha già deciso di bloccarli. L’amministrazione catalana guidata dal sindaco Ada Colau - che aveva già dichiarato al suo insediamento che Barcellona «non avrebbe fatto la fine di Venezia» sul piano turistico, scatenando un piccolo caso internazionale - è però passata dalle parole ai fatti. Come spiega il professor Oriol Ne-lo, urbanista catalano che è tra gli esperti che hanno predisposto il piano appena provato che «cristallizzerà» le presenze turistiche di Barcellona al livello attuale, ma con un meccanismo dinamico, che sposterà progressivamente la ricettività dal centro storico alle altre zone della città.

Il professor Ne-lo è in questo periodo visiting professor a Venezia all’Iuav per il Corso di Laurea in Urbanistica e pianificazione territoriale e anticipa i contenuti del piano adottato per una città in forte espansione turistica come Barcellona, che potrebbe fornire spunti interessanti anche al Comune di Venezia.
Professor Ne-lo, come si è arrivati al nuovo piano turistico di Barcellona?
«Il cambiamento arriva sull’onda, nel 2011, dell’affermazione del movimento politico dei cosiddetti Indignados che è arrivato al governo delle principali città spagnole, superata la fase dell’antipolitica. Sindaco di Barcellona è divenuta appunto Ada Colau, che era prima la responsabile del movimento antisfratti della città. Barcellona è passata da 3 milioni e 700 mila presenze turistiche annue dei primi anni Novanta ai circa 30 milioni di presenze attuali, con una crescita esponenziale soprattutto negli ultimi cinque anni anche per lo sviluppo delle attività congressuali, commerciali e culturali della città. Una crescita che ha portato in particolare alla crescita degli alloggi turistici e degli hotel, all’esplosione dei prezzi del mercato immobiliare, all’aumento dei plateatici a fini turistici. Per questo il primo atto della nuova amministrazione Colau nel 2015 è stato il blocco delle nuove licenze alberghiere e delle affittanze turistiche, preparando nel frattempo due nuovi strumenti urbanistici, ora completati».
Di quali strumenti urbanistici si tratta?
«Del nuovo piano strategico per il turismo per l’orientamento dei flussi e soprattutto del Piano speciale urbanistico per le attività turistiche - il Peuat – per regolare la creazione delle strutture ricettive. Il piano strategico prevede che il turismo sia connaturato alla città ma in un equilibrato rapporto con i suoi cittadini. Turisti siamo tutti quando ci spostiamo, il problema è appunto governare la città insieme al turismo. Ma lo strumento più innovativo per il governo del turismo sarà appunto il Peuat, approvato a fine gennaio».
Come funzionerà?
«Avrà quattro obiettivi. Alleviare la pressione turistica, dare risposta alle esigenze dei cittadini, garantire il diritto alla casa ed evitare l’uso della città solo a fini turistici. Nel 2015, quando si è deciso di bloccare i posti-letto per i turisti, con il congelamento di tutte le nuove licenze, erano circa 158 mila, circa un 10% degli abitanti complessivi di Barcellona, tra alberghi, bed & breakfast, ostelli e alloggi turistici. Il piano speciale del turismo stabilisce che questa quota complessiva di posti-letto non sarà superata, Barcellona si ferma qui, ma in modo dinamico». Con che meccanismo? «Il Piano divide la città in tre zone: il centro storico è la zona 1, la griglia urbana ottocentesca la zona 2 e il resto della città la zona 3. Nella zona 1 è prevista una lenta diminuzione, perché hotel chiusi o alloggi turistici dismessi non saranno rimpiazzati. Nella zona 2 sarà mantenuto il numero di posti-letto turistici attuali, sostituendo quelli che verranno meno. Nella zona 3, infine, i posti-letto turistici potranno crescere, rimpiazzando quelli in diminuzione nella zona 1, con la concessione di nuove licenze. In questo modo, progressivamente, i servizi turistici si “spalmeranno” dal centro storico a tutto il resto della città».
Il problema sarà anche quello di controllare che tutti rispettino il Piano. Come si farà?
«Per questo l’Amministrazione di Barcellona ha appena assunto 150 nuovi ispettori che si occuperanno esclusivamente dei controlli sull’abusivismo, sia via Internet, sia sul campo. È stato inoltre creato un sito web comunale mediante il quale ogni turista che arrivi a Barcellona possa sapere in anticipo se la struttura in cui ha prenotato è regolare o abusiva. Uno studio del Comune ha già stabilito ad esempio che solo il 23 per cento degli alloggi turistici di Barcellona promozionati con il sito Airbnb sono regolari. Per questo alcune delle principali città turistiche europee come appunto Barcellona, Parigi, Amsterdam, Berlino tra le altre si sono già mosse insieme nei confronti dell’Unione Europea per un’azione coordinata nei confronti di Airbnb per regolarizzare i suoi iscritti, che sta già dando i primi effetti. Si cercherà inoltre di concentrare gli alloggi turistici in condomini, per evitare di spargerli per tutta la città, Partirà contemporaneamente un piano per la residenza, con la costruzione o il recupero di nuovi alloggi a prezzi calmierati per garantire i giovani e la cittadinanza».
Professor Ne-lo, lei che è qui già da diversi mesi, che idea si è fatto del problema del turismo a Venezia?
«Posso parlare di impressioni, perché non conosco il problema a fondo e perché qui c’è un problema di concentrazione dei flussi turistici che Barcellona non ha, per le dimensioni urbane. Ma direi che è essenziali che anche a Venezia non prevalga la sola monocultura turistica. È quella che appiattisce tutto e questa città ha certamente potenzialità straordinarie per molte altre attività: da centro per la ricerca e la cultura, a polo universitario internazionale, a sede di istituzioni internazionali, solo per fare alcuni esempi. Ci vuole però anche la volontà forte della città di muoversi in queste direzioni, per avere più carte da giocare. Il turismo, infine, deve essere un fattore economico che avvantaggia tutta la città, non solo alcune zone o alcune categorie. Questo è un modo “sano” di viverlo».

postilla

Barcellona è certamente diversa da Venezia per mille ragioni: il rapporto tra città antica e il resto dell'area urbana, la prevalenza degli escursionisti (24h) nell'una e dei visitatori nell'altra. Ma c'è una diversità dominante: Barcellona non è in vendita, Venezia antica è svenduta pezzo per pezzo.

«Quello che è successo, è il risultato di quello che già all’inizio alcuni esperti, allora inascoltati avevano capito e spiegato. La Nuova Venezia, 12 marzo 2017 con riferimenti (m.p.r.)

Nella figura 14 della presentazione del presidente Zaia al consiglio regionale dell’altro giorno risulta che le previsioni del traffico giornaliero medio “Tgm” sulla Pedemontana sono crollate dagli originari 33.000 veicoli della prima previsione del 2003 (del proponente) agli attuali 15.200 o 18.000 veicoli (previsioni 2016 Cassa Depositi e Prestiti-Banca europea investimenti, o 2017 Area Engineering, regionale). Ne risulta una riduzione di -54% o -45%; in entrambi i casi, in pratica un dimezzamento.

La presentazione lascia intendere che tale differenza riguardi tutte le concessioni autostradali esaminate e rilasciate a cavallo della crisi, come se sia stato non un errore previsionale ma solo la crisi a ridurre il traffico in generale, e quindi anche quello inizialmente previsto sulle nuove autostrade (con previsioni di traffico, che di per sé, per la situazione di allora, erano comunque attendibili e realistiche). Il grande buco finanziario prodotto dal crollo dei ricavi da pedaggio attesi sarebbe quindi effetto della crisi, esogena e non inquadrabile tra i rischi o le responsabilità di impresa del concessionario; di conseguenza quest’ultimo, dalla sua crisi finanziaria a lui non imputabile, merita di essere salvato con intervento pubblico.
Questa spiegazione non risponde a verità, perché in questo periodo 2003/2016 non c’è stata invece alcuna così drammatica “crisi di traffico”. Ecco infatti i dati ufficiali “Aiscat” disponibili ed elaborabili delle autostrade più vicine, nello stesso periodo (veicoli Tgm 2002 e 2015; e la relativa variazione): 1) A4 Padova-Brescia: 82.898, 90.509, +9%; 2) A27 Venezia-Belluno: 19.248, 23.316, +21%; 3) A22 Verona-Brennero: 36.494, 39.483, +8%; Allora, se con le più recenti previsioni 2016/17 risultano dimezzate quelle del 2003, allora non è colpa della crisi, perché nel frattempo non c’è stata alcuna reale grave crisi di traffico autostradale: nello stesso periodo, infatti, il traffico delle più vicine autostradali è aumentato; meno del periodo precedente, certo, ma comunque è aumentato ovunque, e non diminuito, e men che meno crollato.
Non c'è alcuna significativa perdita di traffico da presunta crisi, nemmeno tra il 2008 e il 2010; è infatti falsa anche l’affermazione di una “Crisi 2008” (come afferma un’altra scheda di quella presentazione, la numero16), perché il calo del traffico medio 2009/2010 sulla Venezia-Padova di quel diagramma è invece unicamente l’effetto statistico dell’apertura del Passante (la statistica proprio in quei due anni risente dell’incremento del numero di chilometri della rete, usato nel calcolo del traffico medio), e non di una invece inesistente Crisi 2008 di traffici.
Se il traffico previsto nelle recenti previsioni del 2016 e 2017 (redatte dalla Cassa Depositi e Prestiti e da Area Engineering per la Regione) risulta molto diverso da quello previsto nel 2003 non è perché la crisi abbia stravolto le condizioni di contorno delle previsioni iniziali, e quindi l’ammontare del traffico prevedibile sull’autostrada sia per queste crollato, ma senza alcuna responsabilità del proponente. Quello che è successo, invece, è che anche agli occhi delle banche (che adesso, prima di metterci i soldi... rifanno bene i conti e le previsioni!) è risultato ora quello che già all’inizio alcuni esperti avevano capito e spiegato (ma erano rimasti inascoltati): cioè che erano clamorosamente inaffidabili, irrealistiche e sbagliate quelle originarie previsioni e le strategie imprenditoriali e progettuali del proponente, questo per nessuna causa a lui esterna ma solo per suoi errori - se non addirittura, sue consapevoli bugie per farsi approvare l’opera - di esclusivo suo rischio e responsabilità.
Certo, la crescita del traffico realisticamente attendibile e atteso sarà stata un po’ più lenta, dal 2008 in poi, di quanto ci si poteva pur prudentemente attendere nel 2003, ma nel complesso tutto lascia intendere che il traffico che si poteva e doveva correttamente e onestamente prevedere sulla Pedemontana sia da allora pure esso persino cresciuto; e non ha certo subìto alcun crollo, come invece vuol far credere la presentazione recitata dal presidente, se non nelle irrealistiche e bugiarde promesse del proponente (e di chi voleva a tutti i costi questo progetto di autostrada, contro ogni evidenza di corretta valutazione), promesse che già allora non pochi esperti avevano tecnicamente dimostrato essere sbagliate, se non peggio artefatte e falsate.
I recenti dati statistici, correttamente interpretati, smentiscono qualsiasi ipotesi di una causa oggettiva di grave crisi delle condizioni esterne alla concessione; c’è solo una condizione soggettiva di grave inaffidabilità del proponente e delle sue previsioni. Si deve concludere che i termini di legge per il salvataggio di questo concessionario, dimostratosi inaffidabile e inadempiente, semplicemente non ci sono. Nemmeno mistificando dati o spiegazioni, come ha tentato di fare il redattore (anonimo) di quella presentazione.
In conclusione, anche nel caso che, dopo una doverosa verifica e discussione pubblica su tutti gli aspetti della vicenda e del progetto (con doverose analisi costi-benefici tra le diverse soluzioni alternative ora possibili), risulti dimostrato che sia effettivo interesse pubblico proseguire tutti quei lavori e tutto quel progetto così come è definito adesso (e non è affatto scontato, perché - ora è chiaro a tutti - è quanto meno sproporzionato rispetto ai veri traffici attendibili), se si cambia anche solo il piano finanziario - con maggiori contributi pubblici rispetto a quelli allora richiesti dal proponente/concessionario - allora si dovrà per legge affidarlo a un altro realizzatore. Ne risulterà confortato l’erario pubblico, oltre che il senso della giustizia (e delle buona amministrazione). E se questo riaffidamento permetterà anche qualche (più che opportuna) correzione, riduzione, graduazione di quello sproporzionato progetto, il vantaggio sarà anche per la mobilità e il territorio.
riferimenti

I comitati avevano tenacemente provato a contestare «l’iperviabilizzazione privata con soldi di noi tutti, devastatrice per il territorio e il bilancio», si legga a proposito Nuovo stop alla Pedemontana Veneta. 
“Resistere alla cementificazione” di Federico Simonelli, e non erano mancate analisi di esperti che documentavano le distorsioni normative «al solo scopo di consentire al concessionario di ripagarsi l’opera che non regge con i soli ricavi da pedaggio» come quella di Anna Donati Grandi opere e consumo di suolo sempre su eddyburg, dove numerosi sono gli articoli sulla vicenda della Pedemontana. Ora il presidente Zaia per completare l'opera è «Costretto a tassare i veneti ma non è un tradimento», lo stesso presidente che quando il tar aveva bloccato l'opera per il ricorso di un cittadino aveva commentato che era stato «per un eccesso di democrazia».
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