Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici.
(GU n. 229 del 2-10-2003- Suppl. Ordinario n.157)
Stralcio: Condono edilizio
testo in vigore dal: 2-10-2003
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione;
Ritenuta la straordinaria necessita' ed urgenza di emanare disposizioni per favorire lo sviluppo economico e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 29 settembre 2003;
Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con i Ministri dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, delle infrastrutture e dei trasporti, dell'interno, delle politiche agricole e forestali, del lavoro e delle politiche sociali, delle attivita' produttive, per i beni e le attivita' culturali, dell'ambiente e della tutela del territorio, della salute e per gli affari regionali;
Emana
il seguente decreto-legge:
Artt. 1- 31
(omessi)
Art. 32
Misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione dell'attività di repressione dell'abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazioni di aree demaniali.
1. Al fine di pervenire alla regolarizzazione del settore è consentito, in conseguenza del condono, il rilascio del titolo abilitativi edilizio in sanatoria delle opere esistenti non conformi ala disciplina vigente.
2. La normativa è disposta nelle more dell'adeguamento della disciplina regionale al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in conformità al titolo V della Costituzione come modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, e comunque fatte salve le competenze delle autonomie locali sul governo del territorio.
3. Le condizioni, i limiti e le modalità del rilascio del predetto titolo abilitativo sono stabilite dal presente articolo e dalle normative regionali.
4. Sono in ogni caso fatte salve le competenze delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano.
5. Il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti fornisce, d'intesa con le regioni interessate, il supporto alle amministrazioni comunali ai fini dell'applicazione della presente normativa e per il coordinamento con le leggi 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modifiche e integrazioni.
6. Al fine di concorrere alla partecipazione alla realizzazione delle politiche di riqualificazione urbanistica dei nuclei interessati dall'abusivismo edilizio, attivate dalle regioni ai sensi del comma 33 è destinata una somma di 10 milioni di euro per l'anno 2004 e di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006. Con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del D. Lgs. 28 agosto 1997, n. 281, sono individuati gli interventi da ammettere a finanziamento.
7. Al comma 1 dell'articolo 141 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, è aggiunta, in fine, la seguente lettera:
"c-bis) nelle ipotesi in cui gli enti territoriali al di sopra dei mille abitanti siano provvisti dei relativi strumenti urbanistici generali e non adottino tali strumenti entro diciotto mesi dalla data di elezione degli organi. In questo caso, il decreto di scioglimento del consiglio è adottato di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Le disposizioni di cui alla presente lettera si applicano anche nei confronti degli altri organi tenuti all'adozione di strumenti urbanistici."
8. All'articolo 141 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, è aggiunto il seguente comma:
" 2-bis. Nell'ipotesi di cui alla lettera c-bis) del comma 1, trascorso il termine entro il quale gli strumenti urbanistici devono essere adottati, la regione assegna agli enti che non vi abbiano provveduto un ulteriore termine di tre mesi, alla scadenza del quale, con lettera notificata al Sindaco, diffida il consiglio ad adempiere nei successivi trenta giorni. Trascorso infruttuosamente quest'ultimo termine, a regione ne dà comunicazione al Prefetto. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche nei confronti degli altri organi tenuti all'adozione di strumenti urbanistici.".
9. Per attivare un programma nazionale di interventi, anche con la partecipazione di risorse private, rivolto alla riqualificazione di ambiti territoriali caratterizzati da consistente degrado economico e sociale, con riguardo ai fenomeni di abusivismo edilizio, da attuare anche attraverso il recupero delle risorse ambientali e culturali, è destinata una somma di 20 milioni di euro per l'anno 2004 e di 40 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006. Con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del D.Lgs. 28 agosto 1997, n. 281, sono individuati gli ambiti di rilevanza e interesse nazionale oggetto di riqualificazione urbanistica, ambientale e culturale. Su tali aree, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, d'intesa con i soggetti pubblici interessati, predispone un programma di interventi, anche in riferimento a quanto previsto dall'articolo 29, comma 4, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, come sostituito dal comma 42.
10. Per la realizzazione di un programma di interventi di messa in sicurezza del territorio nazionale dal dissesto idrogeologico è destinata una somma di 20 milioni di euro per l'anno 2004 e di 40 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006. Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del D.Lgs. 28 agosto 1997, n. 281, sono individuate le aree comprese nel programma. Su tali aree, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, d'intesa con i soggetti pubblici interessati, predispone un programma operativo di interventi e le relative modalità di attuazione.
11. Allo scopo di attuare un programma di interventi per il ripristino e la riqualificazione delle aree e dei beni soggetti alle disposizioni del titolo II del d.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, è destinata una somma di 10 milioni di euro per l'anno 2004 e di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006. Con decreto del Ministro per i bei culturali e le attività culturali, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del D.Lgs. 28 agosto 1997, n. 281, tale somma è assegnata alle regioni per l'esecuzione di interventi di ripristino e di riqualificazione paesaggistica delle aree tutelate, dopo aver individuato le aree comprese nel programma.
12. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto la Cassa depositi e prestiti è autorizzata a mettere a disposizione l'importo massimo si 50 milioni di euro per la costituzione, presso la Cassa stessa, di un Fondo di rotazione per la concessione ai comuni e ai soggetti titolari dei poteri di cui all'articolo 27, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, anche avvalendosi delle modalità di cui ai commi 55 e 56 dell'articolo 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, di anticipazioni, senza interessi, sui costi relativi agli interventi di demolizione delle opere abusive anche disposti dall'autorità giudiziaria e per la spese giudiziarie, tecniche e amministrative connesse. Le anticipazioni, comprensive della corrispondente quota delle spese di gestione del Fondo, sono restituite al Fondo stesso in un periodo massimo di cinque anni, secondo modalità e condizioni stabilite con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, utilizzando le somme riscosse a carico degli esecutori degli abusi. In caso di mancato pagamento spontaneo del credito, l'amministrazione comunale provvede alla riscossione mediante ruolo ai sensi del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46. Qualora le somme anticipate non siano rimborsate nei tempi e nelle modalità stabilite, il Ministro dell'interno provvede al reintegro alla Cassa depositi e prestiti, trattenendone le relative somme dai fondi del bilancio da trasferire a qualsiasi titolo ai comuni.
13. Le attività di monitoraggio e di raccolta delle informazioni relative al fenomeno dell'abusivismo edilizio di competenza del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, fanno capo all'Osservatorio nazionale dell'abusivismo edilizio. Il Ministero collabora con le regioni al fine di costituire un sistema informativo nazionale necessario anche per la redazione della relazione al Parlamento di cui alla legge 21 giugno 1985, n. 289. Con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, d'intesa con il Ministro dell'Interno, sono aggiornate le modalità di redazione, trasmissione, archiviazione e restituzione delle informazioni contenute nei rapporti di cui all'articolo 31, comma 7, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. Per le suddette attività è destinata una somma di 0,2 milioni di euro per l'anno 2004 e di 0,4 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006.
14. Per le opere eseguite da terzi su aree di proprietà dello Stato o facenti parte del demanio statale, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria da parte dell'ente locale competente è subordinato il rilascio della disponibilità da parte dello Stato proprietario per il tramite dell'Agenzia del demanio, rispettivamente, a cedere a titolo oneroso la proprietà dell'are appartenente al patrimonio disponibile dello Stato su cui insiste l'opera ovvero a garantire onerosamente il diritto al mantenimento dell'opera sul suolo appartenente al demanio e al patrimonio indisponibile dello Stato.
15. La domanda del soggetto legittimato volta ad ottenere la disponibilità dello Stato alla cessione dell'area appartenente al patrimonio disponibile ovvero il riconoscimento al diritto al mantenimento dell'opera sul suolo appartenente al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato deve essere presentata, entro il 31 marzo 2004, alla filiale dell'Agenzia del demanio territorialmente competente, corredata dall'attestazione del pagamento all'erario della somma dovuta a titolo di indennità per l'occupazione pregressa delle aree, determinata applicando i parametri di cui alla allegata Tabella A, per anno di occupazione, per un periodo comunque non superiore alla prescrizione quinquennale. A tale domanda deve essere allegata, in copia, la documentazione relativa all'illecito edilizio di cui ai commi 32 e 35. Entro il 30 settembre 2004, inoltre, deve essere allegata copia della denuncia in catasto dell'immobile e del relativo frazionamento.
16. La disponibilità alla cessione dell'area appartenente al patrimonio disponibile ovvero a riconoscere il diritto a mantenere l'opera sul suolo appartenente al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato viene espressa dalla filiale dell'Agenzia del demanio territorialmente competente entro il 31 dicembre 2004.
17. Nel caso di aree soggette ai vincoli di cui all'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, la disponibilità alla cessione dell'area appartenente al patrimonio disponibile ovvero a riconoscere il diritto a mantenere l'opera sul suolo appartenente al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato è subordinata al parere favorevole da parte dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo.
18. Le procedure di vendita delle aree appartenenti al patrimonio disponibile dello Stato devono essere perfezionate entro il 31 dicembre 2006, a cura della filiale dell'Agenzia del demanio territorialmente competente previa presentazione da parte dell'interessato del titolo abilitativo edilizio in sanatoria rilasciato dall'ente locale competente, ovvero della documentazione attestante la presentazione della domanda, volta ad ottenere il rilascio del titolo edilizio in sanatoria sulla quale è intervenuto il silenzio assenso con l'attestazione dell'avvenuto pagamento della connessa oblazione, alle condizioni previste dal presente articolo.
19. Il prezzo di acquisto delle aree appartenenti al patrimonio disponibile è determinato applicando i parametri di cui alla Tabella B ed è corrisposto in due rate di pari importo scadenti, rispettivamente, il 30 giugno 2005 e il 31 dicembre 2005.
20. Il provvedimento formale di riconoscimento del diritto al mantenimento dell'opera sulle aree del demanio dello Stato e del patrimonio indisponibile è rilasciato a cura della filiale dell'Agenzia del demanio territorialmente competente entro il 31 dicembre 2006, previa presentazione della documentazione di cui al comma 18. Il diritto è riconosciuto per una durata massima di anni venti, a fronte di un canone commisurato ai valori di mercato.
21. Con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economi e delle finanze, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono rideterminati i canoni annui di cui all'articolo 03 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494.
22. Dal 1° gennaio 2004, i canoni per la concessione d'uso sono rideterminati nella misura prevista dalle tabelle allegate al decreto del Ministero dei trasporti e della navigazione 5 agosto 1998, n. 342, rivalutate del trecento per cento.
23. Resta fermo quanto previsto dall'articolo 6 del citato decreto del Ministro di cui al comma 22, relativo alla classificazione delle aree da parte delle regioni, in base alla valenza turistica delle stesse.
24. Ai fini del miglioramento, della tutela e della valorizzazione delle aree demaniali è autorizzata una spesa fino ad un importo massimo di 20 milioni di euro per l'anno 2004 e di 40 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006. L'Agenzia del demanio, di concerto con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti predispone un programma di interventi volti alla riqualificazione delle aree demaniali. Il programma è approvato con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze.
25. Le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall'articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni, nonché dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 mc. Le suddette disposizioni trovano altresì applicazione alle opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 mc per singola richiesta di titolo abilitativi edilizio in sanatoria.
26. Sono suscettibili di sanatoria edilizia le tipologie di illecito di cui all'allegato 1:
a) numeri da 1 a 3, nell'ambito dell'intero territorio nazionale, fermo restando quanto previsto alla lettera e) del comma 27, nonché 4, 5 e 6 nell'ambito degli immobili soggetti a vincolo di cui all'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47;
b) numeri 4, 5 e 6, nelle aree non soggette ai vincoli di cui all'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, in attuazione di legge regionale, da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, con la quale è determinata la possibilità, le condizioni e le modalità per l'ammissibilità a sanatoria di tali tipologie di abuso edilizio.
27. Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora:
a) siano state eseguite dal proprietario o avente causa condannato con sentenza definitiva, per i delitti di cui all'art. 416 bis, 468 bis e 648 ter del codice penale o da terzi per suo conto;
b) non sia possibile effettuare interventi per l'adeguamento antisismico, rispetto alle categorie previste per i comuni secondo quanto indicato dalla ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 20 marzo 2003, n. 3274, pubblicata nel supplemento ordinario alla G.U. n. 105 dell'8 maggio 2003;
c) non sia data la disponibilità di concessione onerosa dell'area di proprietà dello Stato o degli enti pubblici territoriali, con le modalità e condizioni di cui all'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 ed al presente decreto;
d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativi e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici;
e) siano state realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente rilevante ai sensi degli articoli 6 e 7 del d. Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490;
f) fermo restando quanto previsto dalla legge 21 novembre 2000, n. 353, e indipendentemente dall'approvazione del piano regionale di cui al comma 1 dell'articolo 3 della citata legge n. 353 del 2000, il comune subordina il rilascio del titolo abilitativi edilizio in sanatoria alla verifica che le opere non insistano su aree boscate o su pascolo i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco. Agli effetti dell'esclusione della sanatoria è sufficiente l'acquisizione di elementi di prova, desumibili anche dagli atti e dai registri del Ministero dell'interno, che le aree interessate dall'abuso edilizio siano state, nell'ultimo decennio, percorse da uno o più incendi boschivi;
g) siano state realizzate nei porti e nelle aree appartenenti al demanio marittimo, di preminente interesse nazionale in relazione agli interessi della sicurezza dello Stato ed alle esigenze della navigazione marittima, quali identificate ai sensi del secondo comma dell'articolo 59 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616.
28. I termini previsti dalle disposizioni sopra richiamate e decorrenti dalla data di entrata in vigore dell'articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni, ove non disposto diversamente, sono da intendersi come riferiti alla data di entrata in vigore del presente decreto. Per quanto non previsto dal presente decreto si applicano, ove compatibili, le disposizioni di cui alla legge 28 febbraio 1985, n. 47, e al predetto articolo 39.
29. Il procedimento di sanatoria degli abusi edilizi posti in essere dalla persona imputata di uno dei delitti di cui agli articoli 416-bis, 648-bis e 648 ter del codice penale, o da terzi per suo conto, è sospeso fino alla sentenza definitiva di non luogo a procedere o di proscioglimento o di assoluzione. Non può essere conseguito il titolo abilitativi edilizio in sanatoria degli abusi edilizi se interviene la sentenza definitiva di condanna per i delitti sopra indicati. Fatti salvi gli accertamenti di ufficio in ordine alle condanne riportate nel certificato generale del casellario giudiziale ad opera del comune, il richiedente deve attestare, con dichiarazione sottoscritta nelle forme di cui all'articolo 2 della legge 4 gennaio 1968, n. 15 e successive modificazioni e integrazioni, di non avere carichi pendenti in relazione ai delitti di cui agli articoli 416-bis, 648-bis e 648-ter del codice penale.
30. Qualora l'amministratore di beni immobili oggetto di sequestro o di confisca ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, autorizzato dal giudice competente ad alienare taluno di detti beni, può essere autorizzato, altresì, dal medesimo giudice, sentito il pubblico ministero, a riattivare il procedimento di sanatoria sospeso. In tal caso non opera nei confronti dell'amministratore o del terzo acquirente il divieto di rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria di cui al comma 28.
31. Il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria non comporta limitazione ai diritti dei terzi.
32. La domanda relativa alla definizione dell'illecito edilizio, con l'attestazione del pagamento dell'oblazione e dell'anticipazione degli oneri concessori, è presentata al comune competente, a pena di decadenza, entro il 31 marzo 2004, unitamente alla dichiarazione di cui al modello allegato e alla documentazione di cui al comma35.
33. Le regioni, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, emanano norme per la definizione del procedimento amministrativo relativo al rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria e possono: prevedere, tra l'altro, un incremento dell'oblazione fino al massimo del 10 per cento della misura determinata nella tabella C allegata, ai fini dell'attivazione di politiche di repressione degli abusi edilizi e per la promozione di interventi di riqualificazione dei nuclei interessati da fenomeni di abusivismo edilizio, nonché per l'attuazione di quanto previsto dall'articolo 23 della legge 28 febbraio 1985, n. 47.
34. Ai fini dell'applicazione del presente articolo non si applica quanto previsto dall'articolo 37, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47. Con legge regionale gli oneri di concessione relativi alle opere abusive oggetto di sanatoria possono essere incrementati fino al massimo del 100 per cento. Le amministrazioni comunali perimetrano gli insediamenti abusivi entro i quali gli oneri concessori sono determinati nella misura dei costi per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria necessarie, nonché per gli interventi di riqualificazione igienico-saitaria e ambientale attuati dagli enti locali. Coloro che in proprio o in forme consortili, nell'ambito delle zone perimetrate, intendano eseguire in tutto o in parte le opere id urbanizzazione primaria, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni e integrazioni, secondo le disposizioni tecniche dettate dagli uffici comunali, possono detrarre dall'importo complessivo quanto già versato, a titolo di anticipazione degli oneri concessori, di cui alla tabella D allegata. Con legge regionale, ai sensi dell'art. 29 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, come modificato dal presente articolo, sono disciplinate le relative modalità di attuazione.
35. La domanda di cui al comma 32 deve essere corredata dalla seguente documentazione:
a) dichiarazione del richiedente resa ai sensi dell'art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, e successive modificazioni e integrazioni, con allegata documentazione fotografica, dalla quale risulti la descrizione delle opere per le quali si chiede il titolo abilititavo edilizio in sanatoria e lo stato dei lavori relativo;
b) qualora l'opera abusiva superi i 450 metri cubi, da una perizia giurata sulle dimensioni e sullo stato delle opere e una certificazione redatta da un tecnico abilitato all'esercizio della professione attestante l'idoneità statica delle opere eseguite;
c) ulteriore documentazione eventualmente prescritta con norma regionale.
36. La presentazione nei termini della domanda di definizione dell'illecito edilizio,l'oblazione interamente corrisposta nonché il decorso di trentasei mesi dalla data da cui risulta il suddetto pagamento, produce gli effetti di cui all'articolo 38, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47. Trascorso il suddetto periodo di trentasei mesi si prescrive il diritto al conguaglio o al rimborso spettante.
37. Il pagamento degli oneri di concessione, la presentazione della documentazione di cui al coma 35, della denuncia in catasto, della denuncia ai fini dell'imposta comunale degli immobili di cui al D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, nonché, ove dovute, delle denuncie ai fini della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e per l'occupazione del suolo pubblico, entro il 30 settembre 2004, nonché il decorso del termine di ventiquattro mesi da tale data senza l'adozione di un provvedimento negativo del comune, equivale a titolo abilitativo edilizio in sanatoria. Se nei termini previsti l'oblazione dovuta non è stata interamente corrisposta o è stata determinata in forma dolosamente inesatta, le costruzioni realizzate senza titolo abilitativo edilizio sono assoggettate alle sanzioni richiamate all'articolo 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e all'articolo 48 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
38. La misura dell'oblazione e dell'anticipazione degli oneri concessori, nonché le relative modalità di versamento, sono disciplinate nell'allegato 1.
39. Ai fini della determinazione dell'oblazione non si applica quanto previsto dai commi 13, 14 , 15 e 16 dell'articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724.
40. Ala istruttoria della domanda di sanatoria si applicano i medesimi diritti e oneri previsti per il rilascio dei titoli abilitativi edilizi, come disciplinati dalle Amministrazioni comunali per le medesime fattispecie di opere edilizie. Ai fini della istruttoria delle domande di sanatoria edilizia può essere determinato dall'Amministrazione comunale un incremento dei predetti diritti e oneri fino ad un massimo del 10 per cento da utilizzare con le modalità di cui all'articolo 2, comma 46, della legge 23 dicembre 1996, n. 662.
41. Ai fini di incentivare la definizione delle domande di sanatoria presentate ai sensi del presente articolo, nonché ai sensi del capo IV della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni, e dell'articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni, il trenta per cento delle somme riscosse a titolo di conguaglio dell'oblazione, ai sensi dell'articolo 35, comma 14, della citata legge n. 47 del 1985, e successive modificazioni, è devoluto al comune interessato. Con decreto interdipartimentale del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministero dell'economia e delle finanze sono stabilite le modalità di applicazione del presente comma.
42. All'articolo 29 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, il comma 4 è sostituito dal seguente: "4. Le proposte di varianti di recupero urbanistico possono essere presentate da parte di soggetti pubblici e privati, con allegato un piano di fattibilità tecnico, economico, giuridico e amministrativo, finalizzato al finanziamento, alla realizzazione e alla gestione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e per il recupero urbanistico ed edilizio, volto al raggiungimento della sostenibilità ambientale, economica e sociale, alla coesione degli abitanti ei nuclei edilizi inseriti nelle varianti e alla rivitalizzazione delle aree interessate dall'abusivismo edilizio."
43. L'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, è sostituito dal seguente: "32. Opere costruite su aree sottoposte a vincolo.
1. Fatte salve le fattispecie previste dall'articolo 33, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo e subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso. Qualora tale parere non venga formulato dalle suddette amministrazioni entro centottanta giorni dalla data di ricevimento della richiesta di parere, il richiedente può impugnare il silenzio-rifiuto. Il rilascio del titolo abilitativo edilizio estingue anche il reato per la violazione del vincolo. Il parere non è richiesto quando si tratti di violazioni riguardanti l'altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte.
2. Sono suscettibili di sanatoria, alle condizioni sottoindicate, le opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione e che risultino:
a) in difformità alla legge 2 febbraio 1974, n. 64, e successive modificazioni, e dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, quando possano essere collaudate secondo il disposto del quarto comma dell'articolo 35;
b) in contrasto con le norme urbanistiche che prevedono la destinazione ad edifici pubblici od a spazi pubblici, purchè non in contrasto con le previsioni delle varianti di recupero di cui al capo III;
c) in contrasto con le norme del D.M. 1° aprile 1968, n. 1404, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13 aprile 1968, e con gli articoli 16, 17 e 18 della legge 13 giugno 1991, n. 190, e successive modificazioni, sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico.
3. Qualora non si verifichino le condizioni di cui al comma 2, si applicano le disposizioni dell'articolo 33.
4. Ai fini dell'acquisizione del parere di cui al comma 1 si applica quanto previsto dall'articolo 20, comma 6 , del d. P.R. 6 giugno 2001, n. 380. Il motivato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, ivi inclusa la soprintendenza competente, alla tutela del patrimonio storico artistico o alla tutela della salute preclude il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria.
5. Per le opere eseguite da terzi su aree di proprietà dello Stato o di enti pubblici territoriali, in assenza di un titolo che abiliti al godimento del suolo, il rilascio della concessione o dell'autorizzazione in sanatoria è subordinato anche alla disponibilità dell'ente proprietario a concedere onerosamente, alle condizioni previste dalle leggi statali o regionali vigenti, l'uso del suolo su cui insiste la costruzione. La disponibilità all'uso del suolo, anche se gravato di usi civici, viene espressa dallo Stato o dagli enti pubblici territoriali proprietari entro il termine di centottanta giorni dalla richiesta. La richiesta di disponibilità all'uso del suolo deve essere limitata alla superficie occupata dalle costruzioni oggetto della sanatoria e alle pertinenze strettamente necessarie, con un massimo di tre volte rispetto all'area coperta dal fabbricato. Salve le condizioni previste da leggi regionali, il valore è stabilito dalla filiale dell'Agenzia del demanio competente per territorio per gli immobili oggetto di sanatoria ai sensi della presente legge e dell'articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, con riguardo al valore del terreno come risultava all'epoca della costruzione aumentato dell'importo corrispondente alla variazione del costo della vita, così come definito dall'ISTAT, al momento della determinazione di detto valore. L'atto di disponibilità, regolato con convenzione di cessione del diritto di superficie per una durata massima di anni sessanta, è stabilito dall'ente proprietario non oltre sei mesi dal versamento dell'importo come sopra determinato.
6. Per le costruzioni che ricadono in aree comprese fra quelle di cui all'art. 21 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, il rilascio della concessione o della autorizzazione in sanatoria è subordinato alla acquisizione della proprietà dell'area stessa previo versamento del prezzo, che è determinato dall'Agenzia del territorio in rapporto al vantaggio derivante dall'incorporamento dell'area.
7. Per le opere non suscettibili di sanatoria ai sensi del presente articolo si applicano le sanzioni previste dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380".
44. All'articolo 27 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, comma 2, dopo le parole: "l'inizio" sono inserite le seguenti: "o l'esecuzione".
45. All'articolo 27 del del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, comma 2, dopo le parole: "18 aprile 1962, n. 167 e successive modificazioni e integrazioni" sono inserite le seguenti: ", nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici".
46. All'articolo 27 del del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, comma 2, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: "Per le opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del d. Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del d.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, il Soprintendente, su richiesta della Regione, del comune o delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero decorso il termine di 180 giorni dall'accertamento dell'illecito, procede alla demolizione, anche avvalendosi delle modalità operative di cui ai commi 55 e 56 dell'articolo 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 662".
47. Le sanzioni pecuniarie di cui all'articolo 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, sono incrementate del cento per cento.
48. All'articolo 45 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, comma 2, le parole: "terzo mese" sono sostituite dalle seguenti: "trenta giorni".
49. All'articolo 46 del d. P.R. 6 giugno 2001, n. 380, comma 1, dopo le parole: "atti tra vivi" sono inserite le seguenti: ", nonché mortis causa".
50. Agli oneri indicati ai commi 6, 9, 10, 11, 13 e 24, si provvede con quota parte delle entrate recate dal presente decreto. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
Artt. 33-52
(omessi)
Art. 53
(Entrata in vigore)
1. Il presente decreto entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sara' presentato alle Camere per la conversione in legge.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sara' inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a Bruxelles, Ambasciata d'Italia, addi' 30 settembre 2003
CIAMPI
DENTRO LA MEGALOPOLI
Scendiamo a terra dallo spazio per vedere come è dal di dentro la megalopoli, per capire come funziona. Anzitutto la disomogeneità è solo un aspetto della diversità. La quale si ritrova anche nei suoi riflessi visivi, cioè nel paesaggio, con varie manifestazioni. Una delle più evidenti è quella che induce ad una discriminazione tra il tessuto delle permanenze, assai variegato, ed il tessuto formato dagli sviluppi più recenti, cioè della seconda metà del Novecento.
La descrizione delle preesistenze può essere sintetizzata da una bella pagina dedicata alla terra lombarda di Carlo Emilio Gadda:
La pianura lavorata persiste, nelle parvenze della natura e dell’opere, ad essere madre cara e necessaria, la base di nostra vita. Dai secoli, ormai remoti al pensiero, quando i Cistercensi di Chiaravalle sotto al Bagnòlo di Rovegnano ebbero ad intraprendere le prime livellazioni del terreno, i primi escavi dei canali adacquatori che captavano le polle di risorgiva della cosiddetta “zona del fontanili” per distribuirne la portata nei prativi ad irriguo, ad aumentarne il numero e la copia delle fienature: su su fino alle opere maggiori del comune e della munificenza viscontea, e ai consorzi e comprensorii irrigui delle età più vicine e addirittura della nostra; quale assiduità paziente, che amorosa tenacia! La derivazione del Naviglio Grande dal Ticino, il Naviglio di Pavia: poi la Martesana, il Villoresi. Il tipo della nostra terra è schiettamente rappresentato in queste vedute colte dall’aereo: della terra esse dicono la bontà verso gli uomini, la forma silente. Le opere allineate per il pane.
Una caratteristica fondamentale della megalopoli padana è quindi la sua immagine fortemente legata ancora al suo passato rurale. Di fatto, quando si parla di megalopoli si pensa subito a qualcosa di avveniristico, a paesaggi urbani di grattacieli, autostrade a più corsie, palazzi di vetrocemento, col cielo rombante di aerei ed elicotteri, cioè agli aspetti propri della modernità più avanzata, a forme urbane nuove, spregiudicate. Il pensiero va alle megalopoli americane. Niente di tutto questo nella megalopoli padana, ancora segnata dagli elementi del passato rurale, che si direbbero incancellabili, con i campanili e le torri medievali che dominano i centri urbani, le belle cattedrali di mattoni, antichi e pregevoli monumenti, che hanno fatto la storia dell’arte, case basse di periferia, con gli orti all’ombra di vecchi alberi, magari il gelso secolare sopravvissuto, vicoli e stradine che si inoltrano nei campi.
Le permanenze del passato sono rappresentate in primo luogo dai centri urbani storici, i nuclei di edifici che sorgono intorno alle piazze e alle antiche cattedrali, con i nobili palazzi della borghesia che spesso ha fatto la storia delle antiche città. Le quali, rispetto all’alluvione edilizia che ha portato alla formazione della megalopoli, appaiono come isole, nuclei fondativi di un arcipelago che ha disseminato intorno a se elementi minori ma importanti e rintracciabili nelle campagne più vicine alle città, dove sorgono, umiliate magari da nuove edificazioni, vecchie residenze della borghesia cittadina, tracce di giardini, di parchi, con le corti ora abbandonate del mondo contadino del passato: immagini spesso desolanti, monumenti alla caducità del tempo e dei successi sociali, alla mutabilità dei giochi economici.
Superata questa cintura intorno alle città, isole del passato, l’alluvione ha sommerso paesaggi agrari da cui affiorano vecchie case e corti contadine, qualche residuo lembo di campagna, alberate che fiancheggiavano un tempo strade e viali, le chiese e i campanili dei paesi, emergenze antropiche nei paesaggi padani avvolti dalle nebbie invernali. Tutto questo in generale: richiami ad un passato sommerso dai capannoni industriali, dalle nuove edificazioni, nuove case, condomini, residences ecc., per cui anche se lo spazio non è edificato dappertutto, esso ormai dappertutto ha perso le valenze, le qualità che per le vecchie generazioni avevano gli spazi esterni ai centri abitati, divisi e diversificati per storia, paesaggi, condizioni ambientali, organizzazione produttiva ecc. Differenze che l’alluvionamento economico ed insediativo ha eliminato, lasciando solo dei lacerti.
La profondità storica degli elementi sopravvissuti all’alluvione è però ancora richiamata, all’occhio dell’osservatore attento, da particolari che un tempo segnalavano in maniera. omogenea la varietà delle situazioni territoriali, per cui passando, ad esempio, dal Piemonte all’Emilia e al Veneto si vedeva cambiare il volto della terra e rivelarsi luci, colori, linguaggi diversi.
Ad esempio, semplicemente passando dalla Lombardia all’Emilia, cioè scavalcando il Po, subito si coglievano e ancora in parte si colgono, sotto l’ondata di piena dei capannoni industriali e dei quartieri d’abitazione nuovi fatti di banali architetture, differenze riconducibili a tradizioni diverse e a particolari umori della terra, talora quasi inavvertibili eppure significative: ad esempio, il diverso colore dei laterizi di cui sono fatte le case, le torri, i castelli, i coppi dei tetti. Scuro, ferrigno il rosso dei laterizi della Lombardia, chiaro, rosa pallido che sfuma nel giallo la tinta dei laterizi dell’Emilia. Diversità che dipende dalle argille con cui sono fatti i laterizi, a loro volta dipendenti dai diversi apporti alluvionali delle Alpi e degli Appennini. Una differenza che rimanda a quei rapporti diretti fra attività umane e ambiente naturale che gli sviluppi recenti hanno obliterato, anche se non del tutto. Ma poi, superato il Po, ecco ancora la diversità delle architetture, delle case coloniche, delle campagne con gli usi diversi degli alberi, le diverse alberate, la maggior tendenza a creare scenografie sul lato dell’Emilia piuttosto che su quello lombardo, il fascino diverso delle strade cittadine porticate, delle piazze e degli antichi monumenti, insomma di tutti quegli elementi che oggi ci appaiono come relitti del passato, in qualche caso assunti e riconvertiti dalla modernità megalopolitana, in qualche altro emarginati o eccezionalmente mantenuti come sacre testimonianze, nei contesti urbani o rurali della megalopoli.
Ma poi, oltre questi elementi ricordati che rimandano al passato, emergenze non ancora sommerse dall’alluvione edificatoria più recente, quella che ha conferito una struttura megalopolitana allo spazio padano, che cosa si ritrova nel paesaggio? Per rispondere, percorriamo qualcuna delle strade su cui si impernia la struttura urbana della megalopoli: prendiamo ad esempio il percorso da Treviso a Vicenza, da Vicenza a Verona, da Verona a Brescia e a Milano, percorrendo non le autostrade, ma le storiche strade nazionali che seguono le più antiche direttrici di collegamento tra una città e l’altra, le quali sono state brutalmente utilizzate come direttrici di espansione urbana, non come “corridoi urbani”, “vie di città” capaci di attrarre vita urbana e dispensarla intorno a se, tenendo lontane le infrastrutture più oppressive e funzionali (autostrade, industrie ecc.). Il richiamo, in proposito, può andare alla ciudad lineal di Soria y Mata, o alla “città continua” di C.A. Doxiadis, ma con una funzione più di asse urbano che di via di traffico.
Oggi invece si presentano come arterie malate del corpo megalopolitano. Esse anzitutto sono sempre intasate di automezzi, invischiate dai traffici locali oltre che da quelli di raggio maggiore: ciò, perché tutto si concentra intorno a queste arterie, attività industriali, aree residenziali, servizi ecc. Ed ecco a riprova di ciò quartieri di villini, sempre di architettura banale, residences condominiali, capannoni industriali, negozi per l’automobilista (gommisti, meccanici, carrozzieri, elettrauti), supermercati e ipermercati, edifici in vetro cemento di una modernità dozzinale dove si esibiscono i prodotti delle industrie locali, dai mobilifici ai piastrellifici e ai calzaturifici, dai magazzini dove si esibiscono prodotti dell’industria nazionale (dagli elettrodomestici alle motociclette ecc.) ai grandi negozi di abbigliamento, dagli autosaloni alle industrie dolciarie, e così via. Ma i modelli di urbanizzazione sono diversi, soprattutto passando dal Veneto alla Lombardia dove si trova, a nord di Milano ad esempio, il complesso residenziale concepito come blocco abitativo (copie di Milano Due) ai margini dei nuclei storici ancora centrati sulla chiesa parrocchiale e la vecchia piazza, il quartiere di villette tipo città-giardino, oltre ai vecchi assembramenti di condomini che rimandano agli anni sessanta e settanta. I rapporti delle aree residenziali con le piazze, i supermercati, gli impianti sportivi, la stazione ferroviaria o la linea del trasporto urbano sono vari.
Le tipologie urbanistiche che formano il tessuto insediativo della città diffusa nell’alta pianura lombarda sono state studiate nella ricerca sugli sviluppi urbani recenti dell’area metropolitana milanese da S. Boeri, A. Lanzani e E. Marini, che ne hanno riconosciute diverse e tutte in generale con una loro logica che sintetizza persistenze tradizionali e nuove esigenze. A parte stanno le realizzazioni che recuperano le aree industriali dismesse, come nel territorio di Sesto San Giovanni, che sta diventando uno dei centri più nuovi dell’area metropolitana milanese, con i suoi slarghi, le sue architetture avveniristiche, il suo paesaggio che ha in larga parte cancellato le tracce della grigia e rugginosa città-fabbrica del passato. Da Company Town a New Town che guarda al futuro, anche se tutt’intorno alle nuove realtà succedono uno dopo l’altro i capannoni delle più diverse industrie.
Anche se si decide di lasciare le intasate vie nazionali per imboccare, sulle stesse direttrici, l’autostrada, si resterà affranti dall’impossibilità di vedere il paesaggio, perché i capannoni industriali si moltiplicano lungo le maggiori arterie autostradali, come accade in una misura che ha qualcosa di ributtante e angoscioso, tra Brescia e Milano, dove i varchi in cui lo sguardo può infilarsi per rimirare l’incredibile Bergamo alta e i profili dei non lontani massicci prealpini (le Grigne, il Resegone, la Presolana ecc.) che avevano affascinato Leonardo da Vinci, sono rari e brevissimi, come ha mostrato uno studio della Regione Lombardia, peraltro colpevole per non aver provveduto ad impedire un simile disastro paesistico. Certo, in tutto questo c’è una logica, ma è di puro interesse economico e se questa è l’immagine che la Lombardia ambisce dare di se, industriale, vitalistica, laboriosa e cementificata, si può anche lasciarle questo primato; ma i conti presto o tardi dovrà farli con altre istanze che finiscono sempre per esplodere nel giro di pochi decenni, tanta è la rapidità dei processi oggi.
D’altra parte l’automobilista in viaggio su quelle stesse autostrade non avrebbe certo il modo di guardarsi intorno, perché il traffico che le percorre non consente disattenzione tra sfilate di autocarri Tir che riempiono le due corsie, il correre indisciplinato degli automobilisti dalle macchine potenti o dalle macchine troppo lente, come se andare sull’autostrada fosse una corsa alla morte, una gimkana infernale, incredibile, eppure manifestazione stessa della vitalità della megalopoli, corpo sanguigno che ha bisogno, oggi, di queste vene portanti che, data la diversa funzione delle autostrade e delle ferrovie, collegano una città all’altra, un assembramento di capannoni alla città, una città alla cittadina, questa ai più piccoli paesi e alle case sparse, la rete delle strade interconnessa alle grandi direttrici del corpo megalopolitano.
Intanto su questo fremente vivere della megalopoli, che non ha momenti di sosta, che non ha respiro, che non allenta a nessun’ora il traffico di autocarri, di autovetture, questo fiume ininterrotto di fragori, vi è poi lo sfondo, quando è percepibile, della campagna e delle montagne lontane. L’eternità da una parte, l’accadimento dall’altra, la vita con i suoi mille effimeri episodi, avvenimenti. E allora si pensa che andando verso questi paesaggi appartati si possa trovare la quiete perduta. Ma è un’illusione, anche tra le campagne e nelle vallate si ritrovano i capannoni e il traffico lungo le strade che congiungono le direttrici pedemontane ai paesi e ai quartieri residenziali proliferati dappertutto. La tranquillità e il silenzio (un certo silenzio) si possono trovare soltanto nei giardinetti delle case isolate, le ville della ricca o media borghesia che hanno realizzato il sogno di vivere in campagna, nei paesi lontani dagli inferni urbani ma attrezzati come le città, con gli ipermercati, la piscina comunale, la palestra, i campi sportivi, il giardino pubblico per i quattro passi pomeridiani, i giochi dei bambini.
Ma questa è la città diffusa che ha dilatato lo spazio urbano, ha riempito la pianura di edificazioni, con sprechi enormi di spazio, di verde, di silenzi. E che comporta il moltiplicarsi del traffico con la reticolarità degli insediamenti, la loro diffusione particolare che distanzia l’abitare dal lavorare, lo spazio pubblico dallo spazio privato. E crea veri e propri labirinti data la complessità delle reti stradali, delle loro confluenze molteplici prima di arrivare alla centralità che interessa. Spesso vengono meno i riferimenti per muoversi nel labirinto: un tempo essi potevano essere rappresentati dai campanili dei paesi, ora invisibili dentro le quinte dei capannoni. I quali sorgono in aree industriali che si raggiungono lungo viali asfaltati che, per la loro stessa dimensione, si pensa che portino in un paese o in un centro urbano; si resta delusi poi quando si vede che il viale costituisce l’accesso all’area industriale; oltre la quale non c’è ancora il paese ma un’altra area industriale oppure un’area residenziale sorta tra i campi, assurda geografia della campagna urbanizzata, in realtà del territorio massacrato, dilacerato, che suscita scoramenti, delusioni in chi un tempo trovava nella campagna una sorpresa dopo l’altra, piccoli ma significativi episodi, come un’alberata, un fossato, una chiesuola o un’edicola votiva, riferimenti che diventavano elementi inscindibili di una geografia sentimentale. La domenica e nei giorni festivi questo paesaggio dei capannoni intristisce nella solitudine, nell’abbandono, nel silenzio metafisico, irreale, come fossse l’immagine di un mondo vivo sino al giorno prima ed ora abbandonato dagli uomini fuggiti via per paura o per non vivere nell’angoscia che quei luoghi di lavoro suscitano appena si smette di lavorare.
Spesso a sostituire il riferimento territoriale in passato costituito dal paese c’è oggi il supermercato o la città mercato, coagulo di vita nuova, non più all’ombra delle vecchie chiese, dei vecchi palazzi signorili, del vecchiume che, si dice, non serve più alle nuove generazioni. Ma gli urbanisti spesso guardano poco dentro l’animo della gente, ai suoi vuoti, ai suoi smarrimenti, che sicuramente non si possono escludere in una fase di trasformazione come quella a cui stiamo assistendo. n riferimento storico,’ d’ altra parte, il sentimento del vivere in un humus lievitato attraverso il tempo costituirà sempre un’esigenza profonda dell’uomo, al di là di tutte le possibili libertà di scelta ubicative e residenziali che la città diffusa consente e che, secondo alcuni urbanisti, rappresenta la sua qualità migliore (P. Rigamonti).
Così intanto appare la megalopoli dal di dentro, risultato spontaneo, non ordinato secondo un disegno funzionale, un uso più efficiente dello spazio che la natura ha fornito alla Padania tra le Alpi e gli Appennini. Eppure, nonostante gli errori e gli orrori, la mancanza di stile, gli aspetti confusi di una società industriale che non ha saputo funzionalizzare per il meglio lo spazio in cui abita, la megalopoli funziona, vive, produce. Funziona perché nonostante le inefficienze del sistema stradale, autostradale e ferroviario la circolazione arteriosa non si ferma, ma soprattutto perché gli abitanti della megalopoli si sono adattati alle disfunzioni, alle brutture, alla mancanza di grazia e di ordine della megalopoli, alla morte sulle autostrade, ai sacrifici, alle angosce e ai vuoti imposti dalla città diffusa. Con pazienza o perché quello che ricevono dalla megalopoli è più di quanto potrebbero ricevere tornando indietro ad una vita diversa, al lavoro nei campi o nella fabbrica esigentissima, condizione che le vecchie generazioni ricordano ancora, data la rapidità con cui si è affermata la condizione megalopolitana. Le certezze di oggi sembrano più solide di quelle di ieri e questo fa loro accettare i disagi di una vita che non ha più niente di rurale anche se non ha ancora realizzato l’urbanità a cui forse aspirerebbero.
L’ARTICOLAZIONE MEGALOPOLITANA
La megalopoli non è nata per caso o semplicemente per un moto disordinato e illogico; esso al contrario ha obbedito a precisi interessi, il cui difetto più vistoso era quello di avere un significato puramente locale e immediato. Ciò vuol dire che sono stati trascurati altri e non meno importanti interessi, ritenuti secondari e rimandabili rispetto ai primi, più urgenti.
La prima logica che ha dato forma alla megalopoli è stata quella di soddisfare le richieste di avere lavoro e residenza. Esigenza a cui è stata data una risposta bruta, immediata, che va considerata come il primo fattore che ha fatto quantitativamente crescere l’urbanesimo padano. In un secondo tempo però vi è stata, da parte dei nuovi cittadini, la richiesta di servizi urbani, di un livello di vita via via più elevato con lo stabilizzarsi della situazione e il comporsi della condizione urbana. Passaggi successivi segnati da storie diverse, da ribellioni o adattamenti che in diverso modo ogni abitante padano delle generazioni oggi anziane ha vissuto.
Vi sono state sofferenze, situazioni penose, lunghi calvari da parte dei cittadini (specie nelle città più cresciute, nelle loro periferie) sulla via che doveva portare ad un tipo di vita urbana migliore, la quale aveva i suoi modelli irraggiungibili nei cuori aristocratici delle belle città padane, riservati a pochi o fruibili solo occasionalmente o illusoriamente, dato che stare nella periferia di Bologna o di Milano non voleva dire stare in belle e ricche città come erano, nell’immaginario provinciale, Bologna e Milano. L’espansione progressiva e inarrestabile dell’urbanesimo intorno ai cuori storici non ha potuto evitare che il cittadino di periferia fosse costretto a diuturni spostamenti per lavorare e vivere nella città. Ed ecco la condizione che la nuova vita urbana ha imposto e che gli sviluppi megalopolitani non sono riusciti a risolvere sino ad ora, come dimostra il gigantesco traffico che intasa le sue strade, il pendolarismo quotidiano che scarica sulle tangenziali milanesi, come sulle circonvallazioni di tutte più o meno le maggiori città, file ininterrotte di autovetture, come migliaia di pendolari alle stazioni ferroviarie.
La dipendenza spaziale non è stata risolta dall’organizzazione attuale della megalopoli, anche se forse non potrà mai essere risolta sinchè non si avrà la moltiplicazione delle centralità autonome secondarie, allentando il peso gravitazionale sulle grandi centralità che per prime hanno dato origine alla megalopoli. D’altra parte l’eccessiva frammentazione delle centralità toglierebbe ad esse la forza propulsiva e generatrice di nuova cultura e di nuova vita economica che può essere sola delle grandi polarità urbane. E anche questa un’ impasse che pesa sugli sviluppi della megalopoli padana.
Queste osservazioni pongono una domanda importante, se cioè la megalopoli, nella sua essenza di grande e unitaria costruzione urbana, debba essere considerata come manifestazione di un momento, di una fase transitoria dell’urbanesimo o come una sua tendenza irrinunciabile e irreversibile. Si può rispondere osservando che la megalopoli nei suoi attuali sviluppi è forse principalmente una risposta al bisogno di moltiplicazione delle polarità urbane, alla distribuzione dei servizi urbani più avanzati in più centri che possano integrarsi tra loro funzionalmente grazie alla contiguità spaziale, consentendo in tal modo risparmi di tempo e di spazio. In rapporto a questi assetti tendenziali ecco non solo il moltiplicarsi delle funzioni urbane in più città (anche in tal senso R. Guiducci parlava di “pluricittà”) ma anche la popolazione distribuirsi intorno alle centralità più attrattive, formando come degli aloni, destinati a loro volta a produrre alloro interno nuove centralità che, pur di grado inferiore, riducano il peso gravitazionale, centripeto, verso poche centralità. I miracoli della comunicazione, così come si prospetta per il prossimo futuro, consentiranno forse nuove ristrutturazioni della megalopoli.
Sulla base dell’attuale polinuclearità urbana intanto la megalopoli padana si struttura su pochi centri che assolvono a funzioni diverse nei confronti di spazi limitati, anche se gerarchicamente si riconosce un ruolo prioritario a Milano e a poche altre città. Essa quindi non è un tutto continuo ma risente delle preesistenti centralità urbane, la cui evoluzione oggi tende non ad eguagliarle ma a mantenerle differenziate. Da ciò il suo sezionamento, la sua articolazione geografica in base alla quale si riconoscono settori megalopolitani diversi, ognuno facente capo ad una delle città che si snodano linearmente lungo,le grandi direttrici pedemontane.
Il sezionamento megalopolitano comporta differenziazioni che trovano nella città locale la loro espressione, nel senso che città come Modena o Verona o Asti svolgono il ruolo richiesto dalle specificità dei rispettivi territori. Così a Modena, a Verona o a Asti si trovano cose e servizi diversi, che non hanno nulla in comune; ciò che richiedono allo stesso modo però dovranno cercarlo in una città di rango superiore, come Milano, dove di fatto si svolgono manifestazioni e attività che non possono trovare sede ad Asti o a Modena. Inversamente certe altre attività e manifestazioni possono benissimo svolgersi a Modena o a Verona o a Asti, che da ciò trarranno una loro qualificazione.
Alle spalle di Asti, di Modena e Verona del resto stanno territori complessi, estesi tra la pianura e la montagna, che alle loro città si legano economicamente e culturalmente, cosicché la megalopoli deriva la sua forma da questa articolazione legata ad un urbanesimo che ha nelle città capoluoghi di provincia una forza gravitativa capace di plasmare i territori particolari che la compongono. La loro varietà è di pochi altri spazi regionali in Europa e non solo in Europa. Un territorio come quello astigiano non ha nulla che lo fa assomigliare al Varesotto o questo al Bellunese o al Forlivese. Tessere diversissime tra loro sia per ciò che riguarda il paesaggio, sia le caratteristiche dell’urbanizzazione passata e recente, sia il rapporto tra pianura e rilievi, oltre naturalmente le condizioni naturali, le tradizioni, il sentimento di se ecc.
La diversità d’altra parte è la forza stessa della megalopoli padana, la sua bellezza, il fattore primo del suo dinamismo. Ma è anche la causa della sua complessità, la quale se è vero che genera flessibilità, autonomia nei confronti dei sistemi esterni, pone non indifferenti problemi di gestione al suo interno. Come deve essere governata perché al suo interno siano armonicamente combinati gli interessi e le istanze dell’abitante di Asti, con quelli dell’abitante del Forlivese o delle valli bergamasche?
Dentro il dibattito autoreferenziale degli addetti ai lavori, irrompe talvolta il punto di vista di chi specialista non è, e forse proprio per questo finisce per vedere quello che sfugge agli esperti. È il caso, mi pare, dell´articolo di Michele Serra («Le periferie dimenticate dalla società dei sapienti» uscito su Repubblica il 26 agosto) a commento dei fatti di Rozzano.
Sul tema delle "periferie", dell´assenza di qualità dello spazio fisico e sociale che le caratterizza, Serra propone una elementare domanda che sembra fare piazza pulita dei tanti dibattiti degli addetti ai lavori: «Ma io vivrei lì, in quel clima sociale, con quel paesaggio davanti alle finestre?».
Una domanda a lungo elusa da noi architetti, che sembra porsi tuttavia persino la gente comune. Meglio sarebbe dire che da almeno trent´anni si è posta la gente comune mentre quella che Serra definisce la "società dei sapienti" - cioè gli architetti, gli urbanisti, gli amministratori - continuava a progettare, in cieca buona fede, i Corviale, gli Zen, i Tor Bella Monaca, i Laurentino 38. Uno iato ormai quasi incolmabile, quello tra le attese della gente comune e la cultura architettonica, che è possibile far risalire almeno agli anni Settanta. È a partire dalla seconda metà di quel decennio, infatti, che si segnala una svolta nel fenomeno dell´abusivismo edilizio. La casa abusiva diviene strumento di una società che non è più in grado di condividere i valori e la cultura abitativa proposta nella città pianificata. «Il rifiuto di un quartiere costituito da case multipiano è espressione di un giudizio negativo sulla incongruenza dell´impianto urbanistico con tipologie ad alta densità, che determinano una sindrome da ghetto appartenente alla tradizione dei quartieri popolari di periferia (...). L´indiscussa vincitrice del referendum sulla casa desiderata è risultata la piccola dimensione: il 56,9% degli intervistati ha indicato nella casa di borgata il luogo preferito dove vivere».
Era il 1983 e il Censis (nella Indagine conoscitiva sul fenomeno dell´abusivismo edilizio, realizzata su incarico del Comune di Roma) proponeva un´interpretazione dell´abusivismo edilizio come risposta alla deludente qualità della vita che gli ambienti urbani della città pianificata moderna sapevano garantire ai loro abitanti: «Il trasferimento nell´alloggio costruito illegalmente solo in pochi casi si configura come un evento dettato da una stringente necessità. Nella generalità esso appare invece come l´occasione di un miglioramento voluto e consapevolmente pianificato dagli standards abitativi. L´alloggio abusivo rappresenta quindi, per la maggioranza degli intervistati, la conquista di un miglioramento sostanziale del comfort abitativo. Accanto all´incremento della superficie abitabile e del numero medio di stanze si può rilevare un pronunciatissimo incremento delle superfici accessorie dell´alloggio e delle superfici scoperte di pertinenza dell´abitazione, specialmente costituite dai giardini e dalle aree libere».
Una bella lezione per gli architetti: a fronte della nostra incapacità di garantire qualità all´ambiente urbano, la gente comune cominciava ad autocostruirsi la sua villettopoli. Cominciava a percorrere quella strada che oggi consegna i nostri territori metropolitani a un oggettivo paradosso: da un lato ettari di aree suburbane informi (nelle quali, tuttavia, la gente vive volentieri); dall´altro interventi pianificati per mano pubblica (dove ogni persona in regola con la propria intelligenza non vorrebbe vivere).
Fin da allora dunque ce ne sarebbe stato a sufficienza per allertare "la società dei sapienti", che però ed al contrario, proprio in quegli anni metteva a segno alcuni tra i meno amati interventi edilizi di mano pubblica. Un "fiasco", a cogliere il giudizio pressoché unanime dei non addetti, che non ha nulla a che vedere, si badi bene, con la speculazione edilizia e con i cosiddetti "palazzinari", se è vero che le forze messe in campo per la progettazione provengono in buona parte dalle file giuste. Proprio in quegli anni e di fronte a quelle attese, Vittorio Gregotti e Franco Purini realizzano il quartiere Zen a Palermo (1970); Mario Fiorentino il Corviale a Roma (1974). Mi limito a citare questi due esempi perché in questi due casi, forse più che per i tantissimi altri esempi che si potrebbero citare, la divaricazione tra quello che in campo cinematografico chiameremmo il giudizio della critica ed il giudizio del pubblico, misura la maggiore distanza.
Perché dunque noi architetti abbiamo tanto apprezzato il Corviale e lo Zen che al contrario ogni persona "in regola con la propria intelligenza" ha individuato come manifestazione evidente dell´invivibilità dello spazio urbano contemporaneo?
Mi convince solo parzialmente la spiegazione che fornisce Vittorio Gregotti (Repubblica del 30 agosto): lo Zen non ha funzionato perché mai furono realizzati i servizi previsti, perché il progetto fu compiuto in modo frammentario, perché da subito l´amministrazione Ciancimino tentò di sottrarre ai progettisti ogni possibilità di controllo della realizzazione. Non è poco, certo. Anzi ce n´è a sufficienza per assicurare il fallimento di qualsiasi buon progetto. Ma tutto questo non coglie quello che a me pare il dato essenziale, e cioè lo scollamento irreversibile che con il Corviale e lo Zen noi possiamo misurare tra i modelli urbanistici messi a punto dal Movimento Moderno nel corso del Novecento, ed i modi e le attese e la cultura (o la sub-cultura) abitativa contemporanea nelle società post-capitaliste. Lo Zen e il Corviale rappresentano il punto di arrivo di una ricerca che in campo architettonico parte dal lavoro delle avanguardie degli anni Venti e Trenta, e si alimenta del pensiero dei grandi maestri del Movimento Moderno come Gropius e Le Corbusier. Un modello fondato in quegli "eroici" decenni della prima metà del Novecento, a partire dalle tumultuose esigenze di una società e di un´economia fondata sulla produzione industriale, sulle fabbriche, sulla manodopera, sulle lotte operaie, su un pensiero ancora di stampo modernista-determinista che garantiva un futuro inscindibilmente legato al progresso. Lo Zen e il Corviale sono il punto di arrivo di tutto questo: il che spiega l´apprezzamento degli architetti.
Ma proprio per questo essi rappresentano allo stesso tempo quanto di più distante possa essere percepito dalla società contemporanea. Dentro la quale sembrano scomparsi tutti gli attori che popolavano sino a ieri la società moderna: non più operai con le chiavi a stella; non più fabbriche; non più classe operaia ed anzi definitivamente non più classi sociali in assoluto; non più politica; niente più determinismo; e un futuro che appare non più irreversibilmente legato al progresso ed allo sviluppo.
Più consone alle attese e alla cultura abitativa dell´uomo contemporaneo, le tipologie autocostruite della città non pianificata, le casette della città diffusa, rappresentano la mediocre utopia liberista di un soggetto che in quelle architetture senza architetti realizza il suo contraddittorio paradiso individualista. Basterebbe guardarle con meno disgusto per rileggere, in filigrana, il soggetto metropolitano che le abita, le sue attese, la sua cultura abitativa. Un uomo metropolitano contemporaneo che a differenza di quello moderno si caratterizza subito per il suo fortissimo individualismo. È un soggetto che sembra l´opposto esatto di quello per il quale il moderno aveva efficacemente costruito una precisa cultura abitativa attraverso altrettanto precise tipologie edilizie. Sui Corviale, sugli Zen, sui Tor Bella Monaca, allora, si addensa il confronto, irreale, tra due culture dell´abitare: l´uomo e la cultura urbana moderna per il quale quelle tipologie furono messe a punto nel corso del secolo ormai passato; e l´uomo e la cultura che dovrebbe abitarle oggi, senza avere più nulla da spartire con i valori che quello spazio metteva in figura. Le motivazioni di Gregotti non percepiscono la crisi "strutturale" delle periferie di stampo modernista dentro la metropoli contemporanea. Una crisi che proviene dall´inadeguatezza del modello di città proposto e che ben poco ha a che vedere con la sua completezza.
Ma allora tutto questo mi sembra converga verso un limite: la cultura urbana espressa dal moderno, che è alla base della formazione di noi architetti, che è tuttora la struttura principale dell´insegnamento di architettura, è ampiamente superata nei fatti e dalla cultura materiale della gente comune. Solo partendo da questa definitiva consapevolezza potremo, e dobbiamo con urgenza e con passione, rifondare un rapporto accettabile tra urbs (cioè città fisica) e civitas (cioè società civile).
Ricordo com’erano le periferie delle nostre città, mezzo secolo fa. Erano luoghi lontani dalla città. Le periferie erano oltre le mura, oltre i sobborghi legati alla città vecchia dalla crescita di poche case, allineate lungo una strada. Erano, prevalentemente, in campagna: la interrompevano con i quartieri popolari di casermoni a molti piani, abitati prevalentemente dagli operai e dai contadini immigrati, o con le casette dei vari stili impiegati dagli architetti del regime (fascista) o da quelli della democrazia, oppure ancora (soprattutto a Roma) nei tuguri e nelle baracche di legno, lamiera e carrozzerie sfasciate.
Del resto l’Italia, fino allora, era ancora prevalentemente costituita da paesi e piccole città. Il fascismo aveva tentato, non senza successi, di frenare quello che veniva definito (e deprecato) come “urbanesimo”, considerato un pericolo anche socialmente: qualcuno si sarà ricordato, allora, il detto “l’aria della città rende liberi”? Nelle stesse terre che aveva bonificato, le Paludi Pontine, non aveva costruito metropoli, ma poche cittadine e una miriade di piccoli borghi.
Gli italiani vivevano ancora prevalentemente dell’agricoltura. Ogni palmo di terra era coltivato: nell’economia, la regola dell’autarchia aveva cancellato tutte le altre: la produttività non contava, contava solo la produzione. Le campagne, le colline, e anche le pendici e le valli delle montagne erano abitate da paesi, borghi, gruppi di case, casolari. Avevano magari la dimensione (ma non la struttura, non la vita) delle città i grandi paesi nelle terre del latifondo, in Calabria, Sicilia, Puglia, Lucania, dove i contadini vivevano a ore di distanza (a piedi o a dorso di mulo) dalla terra che coltivavano.
I quartieri e le borgate, che costituivano la periferia della città, ospitavano abitanti espulsi dai centri (come a Roma, a causa delle operazioni di bonifica edilizia nel centro), oppure contadini immigrati, respinti dalla povertà e attirati dal lavoro nelle fabbriche. Spesso erano paesi trapiantati in città, oppure ne avevano l’aspetto. I loro abitanti erano segregati dalla vita urbana: conoscevano la città attraverso i luoghi di lavoro: le case dei borghesi dove andavano a servizio, le fabbriche dove si inserivano nella catena di montaggio. Quasi come contropartita, le periferie avevano una identità precisa. Erano dei “luoghi”, ciascuno caratterizzato da un evento, da un comune destino, da un nucleo elementare di servizi (è bene ricordare che in quegli anni anche la fontana era un servizio: non serviva per abbellire, ma per gli usi domestici).
Le cose sono cambiate, violentemente e drammaticamente, proprio a cavallo del 1950. Per una serie di ragioni che sarebbe lungo raccontare, la decisione politica che fu assunta fu quella di affidare lo sviluppo economico e sociale ad alcuni settori portanti, tra cui svolgevano un ruolo di primo piano l’edilizia e la produzione di beni di consumo durevoli, e di inserire questo sviluppo in una cornice in cui, alle regole e alla libertà di una democrazia sempre più dispiegata, si accompagnava la difesa, ideologicamente motivata, della proprietà privata: anzi, la sua promozione, con l’assistenza dell’intervento pubblico.
Fu su queste basi che si raggiunse l’obiettivo di inserire l’economia italiana nel mercato mondiale, di spostare l’asse della vita economica dall’agricoltura all’industria manifatturiera, di accrescere il benessere e di ridurre le sacche di malcontento. Il prezzo più visibile che fu pagato dalle generazioni che sono succedute fu la distruzione della città e del territorio. La modernizzazione del paese fu raggiunta con quello che, dalle denuncie di Antonio Cederna, ricordiamo come lo scempio del Belpaese.
Lo scempio non fu solo costituito dalla distruzione di paesaggi, dalla devastazione di architetture, dalla dispersione di testimonianze della storia, dal saccheggio e dalla degradazione di preziose risorse naturali. Fu costituito anche dalla degradazione della città nel suo insieme. Gli antichi nuclei formati nei secoli che precedettero la cultura del cemento armato e del dominio del privatismo proprietario, accresciute con misura, e in una sostanziale continuità di disegno, nel secolo che precedette la seconda guerra mondiale, sono stati affogati da un’espansione indifferenziate di case e strade, in un caotico insieme di aggregati di alloggi uniti soltanto dalla rete del traffico automobilistico, dove la società si è tendenzialmente dissolta in una massa di individualismi, la complessità si è annullata in monofunzione, la comunicazione si è rovesciata in solitudine. La tendenza è stata insomma quella della distruzione della città da parte della periferia: anzi, delle periferie.
Esistono in effetti molti tipi di periferie. Come ogni altra parte della città, le caratteristiche sono determinate soprattutto dalla loro nascita. Le periferie della “città pubblica”, nate per un programma socialmente orientato, su aree preventivamente acquisite dalla mano pubblica, secondo un progetto urbanistico definito e chiaro (a volte vittorioso alla prova dei fatti, altre volte sconfitto). Le periferie della speculazione tipica degli anni Sessanta, su un impianto urbanistico simile a quello della città dei decenni precedenti ma con un’estensione cento volte maggiore e densità edilizie decuplicate. Le periferie della speculazione fondiaria più moderna, condizionata dalla regole della lottizzazione convenzionata introdotta dalla “legge ponte”, meno povere di qualità edilizia e urbanistica ma nettamente separate dal resto della città. Le periferie dell’abusivismo urbanistico (attorno a Roma e le città del Mezzogiorno), manifestazione al tempo stesso proterva e miserabile dell’assenza, o del disprezzo, delle regole comuni della civitas. E le periferie della “città diffusa”, pulviscolo periurbano di case, casette, ville, villette e villettine, prevalentemente figlie del permissivismo delle legislazioni regionali, o delle loro applicazioni comunali nell’interpretare e nel piegare a fini di “sviluppo” le normative delle zone agricole.
Queste diverse tipologie si articolano poi e si declinano a seconda del luogo e del tempo. Così, i “quartieri” della città pubblica nati prima della legge 167 del 1962 scontano la segregazione provocata dai provvedimenti di finanziamento, destinati ora a quella categoria sociale, e le difficoltà nell’acquisizione di aree a prezzo sopportabile dai bilanci pubblici: in quelli successivi invece, almeno nelle regioni dove si è affermata una prassi di pianificazione urbanistica e di governo del territorio, l’integrazione tra i diversi ceti sociali, il livello di dotazione di servizi, l’efficienza degli impianti e della gestione urbani, l’integrazione con la città ne fanno degli esempi a livello dei migliori casi europei. E così, ancora, l’abusivismo straccione delle centinaia di casette tirate su dal tramonto all‘alba su lotti di 500 o 1000 mq uguali l’uno all’altro nella periferia romana degli anni Cinquanta è ben diverso da quello che ha impiegato i modelli edilizi e il i target di consumo del mercato legale.
Un fatto è certo. Le periferie rappresentano oggi la città: è qui che si gioca la scommessa sul futuro della civiltà urbana. Ciò che è stato urbanizzato e costruito fino alla fine della seconda guerra mondiale ha seguito, in un modo o nell’altro, le regole che fino allora avevano determinato le trasformazioni urbane: dopo, le regole sono state travolte. La quantità (si calcola che il territorio urbanizzato è aumentato, nel cinquantennio, di cento volte) è diventata negazione della qualità. Nelle periferie, èla città stessa che si è degradata.
Così come sono state configurate nella grande maggioranza dei casi le periferie sono infatti la non città. Se la città è comunicazione, incontro, condivisione, identità (piazza, viale, passeggiata, centro, municipio, fontana, giardino), la periferia è divenuta “dormire e mangiare”, televisione, parcheggio e automobile, solitudine, anomia e anonimia.
Il fatto è che - come ho accennato - fino ai primi anni del dopoguerra le periferie erano parti della città: vivevano dei suoi servizi, del suo centro, e possedevano esse stesse (i quartieri e le borgate delle periferie) nuclei elementari di vita sociale. Oggi, gli antichi centri, le antiche città sono ricordi affogati nell’indistinta ameba del continuum urbano. La sete di relazioni, di vita sociale, di incontri rimane inappagata. Quanto essa sia intensa lo dimostrano gli episodi di vitalizzazione del centro storico, che richiamano nel luogo della centralità e degli incontri la parte più mobile della popolazione: i giovani.
Il primo episodio fu quello promosso da Renato Nicolini, assessore alla cultura a Roma, Sindaco Giulio Carlo Argan, negli anni Ottanta. Con una serie di iniziative culturali aperte si invitarono i giovani a venire, la sera, nelle piazze del centro. I locali rimanevano aperti fino a tardi, le strade e le vetrine illuminate. Fu un trionfo. In autobus e in motoretta, in automobile e a piedi, centinaia di migliaia di abitanti delle lontane borgate e dei quartieri intensivi delle periferie venivano nel centro, si impossessavano della città che non avevano mai conosciuta. Era voglia di evasione dai luoghi senza vita dove la maggior parte della popolazione era costretta a vivere, ed era voglia d’incontro, di scambio, di condivisione: era voglia di città.
È possibile soddisfare questa aspirazione, rispondere in termini non episodici ed eccezionali alla voglia di città? È possibile “urbanizzare” le periferie, renderle città? Questa è la grande scommessa dei prossimi decenni. Vincerla non sarà facile. Occorrerebbe in primo luogo avere chiare le direttrici dell’azione, gli obiettivi da raggiungere, i percorsi da seguire. Bisognerebbe comprendere, in primo luogo, che le periferie non si rinnovano se non si rinnova la città. Occorre una visione strategica, un progetto d’insieme della città, un “piano”: se non c’è , oppure se non è adeguato all‘obiettivo di riqualificare le periferie, occorre farlo. La città è un organismo unitario: non si salva a pezzi se i pezzi non sono tessere d’un mosaico chiaramente definito e condiviso. È solo a livello dell’intero sistema urbano e territoriale, del resto, che si possono risolvere due dei più gravi problemi che affliggono la vita delle periferie: quello del traffico e quello dell’organizzazione dei servizi e dei “luoghi centrali”.
Bisognerebbe poi assumere consapevolezza piena, nelle regioni devastate dall’abusivismo, che il ripristino della legalità violata è la premessa necessaria per qualsiasi operazione di riqualificazione della città e delle sue parti. Il recupero dei quartieri abusivi non può essere la premessa della sanatoria: esso deve essere possibile, invece, solo là dove le condizioni (urbanistiche, amministrative, patrimoniali) hanno consentito la sanatoria e questa è già avvenuta.
Bisognerebbe poi stabilire priorità precise, per rendere attendibile l’esito della riqualificazione. Due mi sembrano i parametri da prendere in considerazione per individuare le situazioni dove maggiori sono i margini di manovra e migliori le possibilità di riuscita: la densità territoriale e la situazione patrimoniale. È evidente, infatti, che il ridisegno dei quartieri, l’arricchimento delle funzioni (la “complessificazione” funzionale), la progettazione degli spazi pubblici sono operazioni praticabili dove la densità è ragionevolmente bassa e dove una configurazione vivibile può essere raggiunta senza riduzione del numero degli abitanti. Ed è altrettanto chiaro che la proprietà indivisa dell’area costituisce un requisito di base difficilmente sostituibile dalle improbabili alchimie delle contrattazioni tra proprietà suddivise.
In molte aree urbane, soprattutto dell’Italia del sud e del centro, i quartieri pubblici sono stati additati come il simbolo del degrado urbano: basta evocare lo Zen a Palermo o le Vele di Scampia a Napoli o Corviale e Laurentino 38 a Roma. Un’analisi attenta farebbe comprendere come le colpe siano più nell’assenza di gestione sociale che negli errori dei progetti. Ma mi sembra che proprio da quei quartieri potrebbe partire una sperimentazione nella quale la bassa densità territoriale e il controllo pubblico degli immobili potrebbero consentire l’introduzione di servizi e di funzioni urbane qualificate (e quindi la “complessificazione”), il miglioramento dell’accessibilità (e quindi dell’appetibilità per le utilizzazioni rare), e dunque la trasformazione dei quartieri dormitorio in parti della città.
Molto più difficile una riqualificazione delle vaste plaghe della periferia a bassa densità dove il modello sociale e urbanistico della casa unifamiliare su lotto recintato. In esse, la bassa densità territoriale consentirebbe, dal punto di vista tecnico, di definire soluzioni soddisfacenti e praticabili. Ma quando l’assetto fisico e sociale è profondamente segnato dall’individualismo proprietario il riscatto urbano apre contraddizioni difficilmente gestibili: occorreranno molto tempo e molta pazienza per far maturare le condizioni (innanzitutto sociali e culturali) che consentano di riqualificare porzioni significative delle fasce perturbane.
Ancora più complessa, e addirittura improbabile, una riqualificazione profonda dei quartieri ad alta densità. Lì ci si dovrà limitare a promuovere la “complessificazione” funzionale, attraverso un impiego rigoroso del controllo pubblico delle destinazioni d’uso, e a ridisegnare l’assetto degli spazi pubblici utilizzando le disponibilità delle abbondanti reti stradali dopo avervi “banalizzato” il traffico, e unificando in un unico disegno i brandelli di aree destinate al consumo sociale.
La difficoltà che si incontreranno, se si vorrà assumere sul serio l’obiettivo della trasformazione delle periferie in città, danno la misura degli errori che si sono compiuti nel mezzo secolo trascorso. Non è questa la sede in cui interrogarsi sulle responsabilità di quegli errori, nà sulle loro matrici. Vale però la pena di sottolineare un rischio nel quale si può cadere di nuovo, in questi tempi nei quali l’allentamento delle regole, la valorizzazione del “privato”, il consenso dei ceti sociali più forti sembrano gli obiettivi centrali degli amministratori delle città. Il rischio di dimenticare che la città, per la sua stessa natura, richiede l’esercizio di un potere pubblico forte, autorevole, determinato, dotato di una visione lungimirante e capace di far prevalere gli interessi della collettività su quelli dei singoli individui e gruppi, di tutelare gli interessi delle generazioni future a fianco di quelli del presente.
Nelle aree e nelle città in cui si è saputo comportarsi così nel cinquantennio che sta alle nostre spalle, oggi le periferie sono città, non pongono i problemi gravi che inquietano altrove. Non sarebbe male ricordarlo. Altrimenti, l‘impresa di riqualificare le periferie correggendo mezzo secolo di errori non meriterebbe neppure d’essere avviata, perché sarebbe condannata al fallimento.
Ho letto qualche intervento sulle periferie sul tuo sito. Ho letto anche le sciocchezze sui giornali, di chi, alla ricerca (inconsapevole, naturalmente) di una sorpassata "ecologia sociale", tenta grottescamente di correlare certo sviluppo urbano con la devianza dei cittadini: un semplicismo bigotto che raggela l'animo ma non stupisce, perché cosi va questo mondo "real tv", e questa "politica tg4". Ho pensato, appena ho visto il ritorno del tema "periferia", che si trattasse del solito "tormentone" estivo, ed in parte, credo, lo è stato.
Ma c'è di più. La memoria, per esempio. Che è diventata un problema mantenere ("manutenere") nonostante le capacità archiviative e consultative di cui oggi disponiamo. Quanta ignoranza ruspante c'è nelle righe di chi scrive articoli (anche strumentali) su fatti e luoghi che hanno una storia, profonda e (tra l'altro) assai studiata, e vengono raccontati con argomentazioni funamboliche e anacronistiche? Come se 150 anni di filosofi, sociologi, architetti, urbanisti (ecc.) e quintali di carta stampata - sul tema "periferie" e "cittadini periferici" - non fossero mai esistiti, i moderni "informatori" ci "aggiornano" sulle loro scoperte: come antropologi in una nuova foresta, a contatto con tribù remote e incontaminate, lavorano a reportage strepitosi, per lettori vergini; conviti d'essere originali! Forse questi "peones" dell'informazione sono il veicolo più (pericolosamente) audace per riscrivere la storia. Perché, com'è noto, la storia l'hanno scritta i comunisti.
Ma c'è ancora dell’altro. Che dire della "periferia" che sta in alcuni centri storici, o in alcuni centri e basta, di alcune città italiane. Troviamo bellissimi edifici e paesaggi costruiti da lasciar il fiato sospeso, nei centri storici. Non c'è (molto spesso) l'ombra di casermoni né la mano di architetti post moderni (e vetero comunisti). Eppure, vivendo o passando, in qualche centro storico, mi sembra di vedere "sporcizia", "degrado", "incuria", "assenza di servizi alle famiglie", "insicurezza"; che sono, mi pare, gli attribuiti delle neglette periferie. È vero, c'è la "bellezza" del centro che compensa. Ma può l'uomo vivere di solo pane?
E ancora. Ho rivisto qualche notte fa il film "I piccoli maestri" (di Daniele Lucchetti), dove si tenta (con buon esito) di raccontare la storia (una parte) dell'ultima guerra mondiale dopo l'8 settembre (?); dove i protagonisti (i piccoli maestri) si danno regole per bandire la retorica della loro azioni. La punizione, per chi non rispetta la regola, è "pane e acqua per una settimana". Non mi astengo allora dall'augurare "pane e acqua per una settimana", a chi si spinge sulla fune dell'informazione saldamente legato alla retorica. Molti giornalisti (e politici, e pensatori, e opinionisti, e...) sparirebbero, credo, per la magrezza provocata da questo austero pasto.
Mi ha colpito una originale interpretazione musicale della nuova periferia milanese. Il ricorso alla musica nei discorsi sull’architettura e sull’arte che vanta non pochi autorevoli precedenti del Novecento (Ginzburg, Taut, Le Corbusier, Badovici, Ozenfant, Kandinsky…) è sempre più abituale fra architetti e urbanisti. Mi devo adeguare. “Lo spazio periferico e della dispersione” sarebbe ”qualcosa di più importante, di più coerente alla nostra società, al nostro sistema di valori, anche alle nostre aspirazioni, solo che lo si sappia cogliere. […] la periferia è come il passaggio dalla grande musica che tra Rinascimento e secolo scorso [XIX) si assesta nelle grandi forme dello ‘stile classico’ alla musica di Shönberg, Berg, Debussy […]. Dall’abbandono delle grandi forme compositive sono derivati alcuni fondamentali problemi” [1]. L’autore sta scrivendo del “dilagare metropolitano” [2], circa il quale fenomeno altrove mette in guardia da esprimere un giudizio, talora diveniente “esplicito rifiuto” infine impedimento “a cogliere il nuovo che è in marcia” [3]. Allora l’autore giudica, questo “nuovo” è un avanzamento, direi una rivoluzione se lo si paragona alla musica dei due viennesi (Debussy sembra appiccicato lì). Quanto ai problemi: non risolti, si direbbe. Il “passaggio”, mi pare, avviene altrimenti: sull’onda del Romanticismo, accensione del pieno sentimento sulla base della ratio nei secoli verificata. Schönberg secondo la critica condivisibile di Adorno appartiene al filone romantico, in lui la ragione dodecafonica vive nel permanere di quello spirito [4]. Proviene da Wagner e da Brahms; la vocazione rivoluzionaria risale a Bach. La dodecafonia, una piena rifondazione delle strutture musicali, da un lato è costruzione di un nuovo ordinamento, la mirabile rete di sostegno costituita dalla funzione prioritaria delle serie di dodici note; dall’altro, proprio grazie alla chiarezza dei vincoli, è invito, se colti nel loro cuore già pulsante di creatività, a libertà forse sconosciute sia alla musica esclusivamente tonale, sia alle forme dell’espressionismo più coraggiose (egli stesso, qui, precedente protagonista). Vincoli e libertà che riconducono alla potenza della revisione bachiana (l’equabilità nelle ventiquattro paritarie tonalità del Clavicembalo ben temperato). D’altronde i quartetti di Schönberg antecedenti o successivi al manifesto della dodecafonia stanno alla pari dei quartetti di Beethoven. Se per “grandi forme compiute” si intendono le sinfoniche, nemmeno queste mancano, sebbene non possa essere questo il solo punto dirimente.
Cosa c’entrano con tutto ciò quelle periferie se non al contrario quanto a simbiosis fra ragione e sentimento? Chi sa ascoltare l’architettura, lo spazio umanizzato, la composizione urbana, il paesaggio, quando ha cercato di ascoltare anche quei pezzi di “città esplosa […] brutta” [5], non ha udito, sentito (recepito con tutti i sensi) musica. Svagavano nell’aria suoni fessi o muti, cosa ben diversa dal silenzio delle pause, indispensabile deuteragonista della composizione musicale. La musica è forse la suprema delle arti dal momento che raduna a sé tutte le altre, compresa l’architettura [6]. Come accostarvi tale periferia? Né reggerebbe un paragone fra spontaneismo di certi assetti residenziali neo-coreani, all’apparenza, e la musica popolare o la musica improvvisata. La prima è piena di convenzioni molto serie. Le improvvisazioni, sia la più frequente espressione nell’età barocca fino a metà del Settecento, sia un Mozart al clavicembalo (che poi le trascriveva), sia le cadenze (tutte tramandate in scrittura), sia la forma più significativa, il jazz dei due periodi d’oro, non avrebbero potuto sussistere senza le strutture, architettoniche direi, di riferimento. Peraltro questa città esplosa potrebbe essere così “perché qualcuno l’ha pensata” [7]. Quanto ai nuovi mostri del terziario finanziario e/o commerciale sparpagliati nella metropoli, non dovrebbe restare a noi architetti , non alla musica, che un rumoroso silenzio di protesta per tanta protervia. Sempre altrove l’autore attribuisce alle “lottizzazioni della città diffusa” caratteri di “discontinuità, eterogeneità, apertura, assenza di narratività, di una logica narrativa e dispositiva” [8]: un mondo opposto a quello del progettista Schönberg, rigore ed espressione in uno, ma anche a quello di tutti gli altri grandi compositori. Sicché solo per benevolenza, penso, altri concede che la necessaria “educazione [degli studenti] alla dimensione sinfonica, alla complessità del progetto possa corrispondere “l’ascolto della musica schönberghiana che forse si può rintracciare nella periferia” [9]. Diverso dall’impossibile rintracciamento per inesistenza della cosa nella realtà è la possibile scoperta di un incitamento al progetto attraverso difficili percorsi mentali spirituali corporei nell’ascolto. Si dà il caso, davvero interessante sul piano della trasmissione per vie misteriose di messaggi non inviati per vie normali, che parecchi anni prima facessi ascoltare agli studenti il terzo quartetto di Schönberg (1927, dodecafonico) mentre ci si accingeva a progettare “nuovi spazi locali” in comuni dell’hinterland. Cosa ne venne, da Schönberg? Non so nulla di risultati diretti. So di un piccolo deposito di sensazioni in alcuni studenti, so delle discussioni non banali con loro: giovani che forse avrebbero conquistato in seguito la maturità degli allievi del maestro viennese, ai quali egli si rivolge con grande rispetto nella prefazione al corposissimo Manuale di armonia, poche pagine di un grande insegnante ed educatore [10].
Città “diffusa”… Aggettivo insufficiente per indicare sia negatività sia positività. Se si aggiungono le definizioni citate e altre note, per esempio “confusa”, tutte convergono verso l’immagine di uno spappolamento, letteralmente, come in medicina, un processo di alterazione delle strutture di un tessuto prodotto da gravi lesioni, una perdita di consistenza riducentesi a poltiglia, come “il tessuto perduto della coscienza” [11] di urbanisti e architetti. Emerge la realtà del circondario milanese nella mezza corona settentrionale, e di altre agglomerazioni ravvicinate quali la Brianza, Busto Arsizio con Legnano e Gallarate, ecc. [12].Ma una metropoli diffusa potrebbe consistere in tutt’altra organizzazione e forma del territorio. Definendole policentriche vi si attribuisce un titolo di assoluta positività. Esse persistono, dure a morire, anche nel milanese, rappresentate grosso modo dalla semi-corona opposta alla precedente: eredità residuale, modesto e vacillante lascito da un ben più grande patrimonio non gravemente intaccato fino al secondo dopoguerra. Troppi urbanisti italiani, usando l’aggettivo “diffusa” puro e semplice in senso positivo riguardo al “dilagare metropolitano” e nascondendone i risvolti affatto preoccupanti, esprimono la portata della svolta culturale: perdita di ogni legame con la storia sia del territorio lombardo e milanese sia delle teorie e sperimentazioni corse in un secolo e mezzo di sviluppo del pensiero sociale e urbanistico. Quando essi un po’ piegati a sociologi avvisano del pericolo insito in prese di posizioni culturali ritenute elitarie (osare giudicare persino il bello e il brutto) a fronte di fenomeni insediativi metropolitani tipo le lottizzazioni residenziali piccolo-borghesi o i Monte Bianco del terziario e i centri commerciali dell’ultima generazione (i finti paesetti), e dei relativi comportamenti, sanno bene qual è l’oggetto in discussione: quella poltiglia invasiva e pervasiva a flussi e a salti come una lava o come i baccelloni del vecchio film di fantascienza Una cosa dall’altro mondo. Può darsi che le popolazioni residenti o frequentanti siano soddisfatte o, meglio, credano di esserlo. Quanto si sa, fuori da sociologismi e badando ai fatti, di cultura, sentimento e scelte socio-politiche degli attuali ceti maggioritari, quanto soprattutto riguardo ad ambiente, natura, architettura, arte e così via, non ammette inganni. In tanti casi di penosità, vista da fuori, dello stare, lavorare, muoversi, consumare, svagarsi ci sarebbero state rivolte se non si fosse verificato una sorta di mutamento antropologico: adatto ad accondiscendere a un modello sociale e territoriale conveniente non a quei ceti, né ad atri meno favoriti, ma alla classe occupante l’intero fronte della mancata contesa sociale: produzione, distribuzione, consumo, territorio, cultura. Che poi ai meteci vengano sparse appaganti briciole non è una contraddizione, è l’ultimo tornar di conto. Sarebbe dunque sorprendente che l’abitante medio di territori privi delle dotazioni e delle qualità che non troppo tempo fa l’urbanistica e l’architettura italiane ritenevano loro compito progettare e ambivano realizzare (l’esempio proveniva da altri paesi), persona inoltre tutta diversa da “l’uomo della metropoli” del terzo decennio del XX secolo secondo Willy Hellpach [13], non fosse o non pensasse di essere contento della sua debolezza. Fra l’altro gli si è insegnato l’odio contro la città compatta, il cuore a cui è pur costretto a rivolgersi continuamente. Gli abitanti delle Lewittowns, certamente campioni di americano conformismo, secondo il sociologo Herbert Gans, ricercatore né troppo grave né troppo indulgente, espressero consenso, come certi inglesi, allo “stile suburbano” [14]. Lo fecero però dopo aver verificato le dotazioni, la congruenza dell’offerta rispetto non solo o non tanto alle risorse familiari bensì a una serie di istanze, inusuali agli italiani, corrispondenti a linee-desiderio da giudicare sapendo il diverso rapporto fra la città esistente e i nuovi insediamenti nello spazio regionale vuoto. William Lewitt e i suoi specialisti li progettavano con qualche cura, tipi di case a uno a due piani soltanto, giardinetto, servizi della comunità civili e commerciali (non troppo generosi…) [15]. Così l’habitat dei Lewittowners che noi “gente di gusto” [16] non possiamo non criticare se non denigrare (i tre “stili” di case poi… [17]) è migliore dell’habitat dell’hinterland milanese. Dove , incredibile dictu, per trovare un quartiere realizzato in base a un progetto urbanistico e architettonico di qualità si va all’arcaico quartiere Ina-casa di Cesate, non per caso presentato al Ciam di Aix-en-Provence nel 1952: quartiere che i cantori del nuovo che avanza riterranno patetico [18].
Una parte consistente, penso maggioritaria, della cultura urbanistica nazionale considera doverosamente liberista l’accantonare Come in altri campi, ai signori Lewitt nostrani, ai nostri imprenditori di urbanistica e di edilizia non importa nulla dell’urbanistica, dell’architettura, del paesaggio, degli uomini. Si affidano alla comune insipienza o costrizione della domanda. È di nuovo la “ Cacotopia: la dissipazione privatistica” di cui in Patrick Geddes [19] poco meno che un secolo fa. Una parte consistente della cultura urbanistica nazionale considera doverosamente liberista l'accantonare non solo qualsiasi piano ma ogni idea di città. Come in una guardinga tautologia l’urbanistica è la stessa realtà fisica della città e del territorio, quali sono e mutano grazie al mercato e alle forze economiche più dinamiche. È “la mera cultura dell’esistente” [20]. Gli imprenditori privati, ben poco simili agli inassistiti omologhi americani, sono essi gli urbanisti autentici del fare sostenuti dagli urbanisti del dire (tale per esempio la sostanza del documento programmatico fornito alla giunta comunale di Milano l’anno scorso). Gli uni e gli altri ora hanno disponibile un nuovo perfetto manuale, il libro di Massimiliano Fuksas, Caos sublime: una laudatio della deregulation, del magma informe quale unico contesto territoriale ammissibile, delle baraccopoli abusive, della Tokio cresciuta senza piano [21]. Tali atteggiamenti sono del tutto diversi dalla oggettività e serietà della ricerca scientifica. Caratteri che riconosco allo studio citato Il territorio che cambia. Ambienti…, tra l’altro dotato di efficaci foto aeree. Tuttavia s’impone una critica di fondo: è talmente malthusiano nell’evitare valutazioni di merito, consistendo essenzialmente in una “descrizione” benché apprezzata dal commentatore come creativa se la definisce “ricerca fertile del ‘nuovo’ che investe lo spazio urbano dell’area milanese” [22], da sfiorare talvolta soglie pericolose, a mio parere, circa la destinazione alla formazione scientifica e artistica degli studenti: vedo per esempio la pubblicazione di fotografie di quei mostri edilizi, come il Procaccini Center di via Messina o la sede della Bnl in via Lorenteggio, a Milano, senza alcun commento sull’architettura [23]. Se anche quest’ultima la si ritiene sempre oggettiva, fenomeno naturale indiscusso, un “nuovo” derivante inevitabilmente da nuovi processi, rapporti e procedure economici sociali politici (nella sfera del pensiero filosofico una miscellanea di necessità e casualità, una specie di determinismo necessaristico, cioè Stalin che dà la mano al capitale e alla chiesa), si dovrebbe abolire nella scuola ogni ragionamento dialettico sulla costituzione dello spazio e sull’architettura anche nella sua interiorità, oltre che sulle questioni strutturali che la sottendono e le sovrastrutturali che la sovrintendono.
Tanto vale chiuderla, la scuola.
Note
[1] B. Secchi, Progettarela periferia e la città diffusa, in C. Macchi Cassia (a cura di), Il progetto del territorio urbano, Politecnico di Milano, 1993, 1996, Angeli, Milano 1998, p. 194.
2 Ivi.
3 B. Secchi, Un commento ai risultati dello studio, in S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Segesta Cataloghi, Milano 1993, p.269.
4 Cfr. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna ( Philosophie der neuen Musik, 1949), Einaudi, Torino 1979 (1959), p.24. “Oggi la musica della scuola di Schönberg è il contrario di quella ‘vuotezza di pensiero e di sentimento’ che Hegel temeva”. Vuotezza di pensiero e di sentimento, è questo la nuova periferia.
5 G. Consonni, Urbanistica come medicina e come musica, in C. Macchi Cassia (a cura di), cit., p.196.
6 “La musica prima di tutto”, “tutte le arti tendono alla musica”, così B. Barilli a proposito del pensiero di Kandinsky, in Kandinsky e la smaterializzazione dell’arte, in Aa.Vv., Wassily Kandnisky. Tradizione e astrazione in Russia 1896-1921, catalogo della mostra alla Fondazione Mazzotta , Milano febbraio-giugno 2001, pp.41 e 42.
7 G. Consonni, cit.
8 B. Secchi, cit., p.267.
9 G. Consonni, cit.
10 Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia ( Harmonielehre, 1922), a cura di L. Rognoni, Il Saggiatore, Milano 1963, Prefazione, pp.1-5.
Ho dato rilievo alla musica nel libro Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, Milano 2000, capitolo Intermezzo (così detto anche a causa di non brevi incursioni musicali) sulle sensazioni, in particolar nel sottocapitolo Paesaggi sonori. Architettura musica / Musica architettura, pp. 65-70.
11 H. James, La tigre nella giungla ( The Beast in the Jungle, 1903), Cederna, Milano 1947, p.89, anche in Romanzi brevi, II, Mondadori, Milano 1990, p.986.
12 Circa l’individuazione e descrizione delle aree più fortemente urbanizzare della “regione milanese” vedi la ricerca citata Il territorio che cambia. Ambienti…Sulla conurbazione a nord di Milano e il diverso tipo di espansione nella pianura irrigua a sud vedi anche C. Bianchetti e B. Secchi, Milano, ad esempio, in “Casabella”, n.596, dicembre 1992, pp.44-47. Fra i miei interventi di anni fa si possono consultare: Ambiente e forme del suburbio urbano milanese, in Aa.Vv, Morfologia e progetto per le trasformazioni urbane, (a cura di A. Bazzi e C. Morandi), Clup, Milano 1986, pp.144-149; Introduzione a Aa.Vv., Progetto e contesto: il ruolo della storia, in Aa.Vv. Complessità e progetto: quali politiche per il territorio, (a cura di L. Diappi e S. Tintori), Clup, Milano 1987; Paesaggio agrario e periferia metropolitana (con O. Valli), in Aa.Vv., L’origine, le trasformazioni e l’uso del territorio. Un approccio didattico interdisciplinare: il caso di Rozzano (a cura di C. Capurso), Cieds, Rozzano 1987, pp. 75-83; Ricerca e progetto nella periferia della metropoli, in “qa16. Quaderni del Dipartimento di progettazione dell’architettura del Politecnico di Milano”, n.16, marzo 1994, pp. 154-164.
13 Vedi W. Hellpach, L’uomo della metropoli ( Mensch und Volk der Grosstadt, 1938, 1952) Comunità, Milano 1960.
14 J. M. Richards, in L. Rodwin, Le città nuove inglesi ( The British New Town Policy, 1956), Marsilio, Padova 1964, p. 239.
15 Cfr. H. J. Gans, Indagine su una città satellite Usa., ( The Lewittowners, 1967), Il Saggiatore, Milano 1970, pp. 303-309.
16 J. M. Richards, in L. Rodwin, cit.
17 Cfr. Herbert J.Gans, cit., p.34.
18 Progettisti F. Albini, G. Albricci, Bbpr, E. Castiglioni, I. Gardella. La pubblicazione più esauriente è in “Casabella continuità”, n.216, giugno 1957, pp.452-457.
19 P. Geddes, Città in evoluzione ( Cities in evolution, 1915), Il Saggiatore, Milano 1970, p.93.
20 Documento del Dipartimento di progettazione dell’architettura Quaderni di architettura 23. La nuova periferia, 6 luglio 2001, p. 1.
21 Vedi M. Fuksas con P. Conti, Caos sublime, Rizzoli, Milano 2001. Confesso di non aver letto il libro. Mi fido dei commenti sui quotidiani del 29 e 30 luglio 2001.
22 B. Secchi, Un commento…, cit., p.265.
23 Cfr. S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, cit., figg. a pp. 91 e 90. Quasi tre lustri fa lamentavamo i fenomeni nuovi relativi alla lacerazione del territorio nella fascia meridionale della metropoli: “passaggio diretto e immediato da un’agricoltura altamente qualificata, seminativo irriguo di forte produttività, per esempio ai pretenziosi torvi estranei edifici di Assago”, L. Meneghetti e O.Valli, L’origine…, cit., p.81: Milano fiori, in provocazione botanica; a cui avrei potuto aggiungere fra l’altro, perché altrettanto botanico oltre che berlusconiano anziché cabassiano, Girasole di Lacchiarella. Oggi nella metropoli i manufatti a cui mi riferisco rappresentano una violenza anche maggiore a causa della loro imponenza altezza obesità e del loro “stile”.
[1] B. Secchi, Progettarele periferie la città diffusa, in C. Macchi Cassia (a cura di), Il progetto del territorio urbano, Politecnico di Milano, 1993, 1996, Angeli, Milano 1998, p. 194.
[2] Ivi.
[3] B. Secchi, Un commento ai risultati dello studio, in S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Segesta Cataloghi, Milano 1993, p.269.
[4] Cfr. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna (Philosophie der neuen Musik, 1949), Einaudi, Torino 1979 (1959), p.24. “Oggi la musica della scuola di Schönberg è il contrario di quella ‘vuotezza di pensiero e di sentimento’ che Hegel temeva”. Vuotezza di pensiero e di sentimento, è questo la nuova periferia.
[5] G. Consonni, Urbanistica come medicina e come musica, in C. Macchi Cassia (a cura di), cit., p.196.
[6] “La musica prima di tutto”, “tutte le arti tendono alla musica”, così B. Barilli a proposito del pensiero di Kandinsky, in Kandinsky e la smaterializzazione dell’arte, in Aa.Vv., Wassily Kandnisky. Tradizione e astrazione in Russia 1896-1921, catalogo della mostra alla Fondazione Mazzotta , Milano febbraio-giugno 2001, pp.41 e 42.
[7] G. Consonni, cit.
[8] B. Secchi, cit., p.267.
[9] G. Consonni, cit.
[10] Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia (Harmonielehre, 1922), a cura di L. Rognoni, Il Saggiatore, Milano 1963, Prefazione, pp.1-5.
Ho dato rilievo alla musica nel libro Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, Milano 2000, capitolo Intermezzo (così detto anche a causa di non brevi incursioni musicali) sulle sensazioni, in particolar nel sottocapitolo Paesaggi sonori. Architettura musica / Musica architettura, pp. 65-70.
[11] H. James, La tigre nella giungla (The Beast in the Jungle, 1903), Cederna, Milano 1947, p.89, anche in Romanzi brevi, II, Mondadori, Milano 1990, p.986.
[12] Circa l’individuazione e descrizione delle aree più fortemente urbanizzare della “regione milanese” vedi la ricerca citata Il territorio che cambia. Ambienti…Sulla conurbazione a nord di Milano e il diverso tipo di espansione nella pianura irrigua a sud vedi anche C. Bianchetti e B. Secchi, Milano, ad esempio, in “Casabella”, n.596, dicembre 1992, pp.44-47. Fra i miei interventi di anni fa si possono consultare: Ambiente e forme del suburbio urbano milanese, in Aa.Vv, Morfologia e progetto per le trasformazioni urbane, (a cura di A. Bazzi e C. Morandi), Clup, Milano 1986, pp.144-149; Introduzione a Aa.Vv., Progetto e contesto: il ruolo della storia, in Aa.Vv. Complessità e progetto: quali politiche per il territorio, (a cura di L. Diappi e S. Tintori), Clup, Milano 1987; Paesaggio agrario e periferia metropolitana (con O. Valli), in Aa.Vv., L’origine, le trasformazioni e l’uso del territorio. Un approccio didattico interdisciplinare: il caso di Rozzano (a cura di C. Capurso), Cieds, Rozzano 1987, pp. 75-83; Ricerca e progetto nellaperiferia della metropoli, in “qa16. Quaderni del Dipartimento di progettazione dell’architettura del Politecnico di Milano”, n.16, marzo 1994, pp. 154-164.
[13] Vedi W. Hellpach, L’uomo della metropoli (Mensch und Volk der Grosstadt, 1938, 1952) Comunità, Milano 1960.
[14] J. M. Richards, in L. Rodwin, Le città nuove inglesi (The British New Town Policy, 1956), Marsilio, Padova 1964, p. 239.
[15] Cfr. H. J. Gans, Indagine su una città satellite Usa., (The Lewittowners, 1967), Il Saggiatore, Milano 1970,pp. 303-309.
[16]J. M. Richards, in L. Rodwin, cit.
[17] Cfr. Herbert J.Gans, cit., p.34.
[18] Progettisti F. Albini, G. Albricci, Bbpr, E. Castiglioni, I. Gardella. La pubblicazione più esauriente è in “Casabella continuità”, n.216, giugno 1957, pp.452-457.
[19] P. Geddes, Città in evoluzione (Cities in evolution, 1915), Il Saggiatore, Milano 1970, p.93.
[20] Documento del Dipartimento di progettazione dell’architettura Quaderni di architettura 23. La nuova periferia, 6 luglio 2001, p. 1.
[21] Vedi M. Fuksas con P. Conti, Caos sublime, Rizzoli, Milano 2001. Confesso di non aver letto il libro. Mi fido dei commenti sui quotidiani del 29 e 30 luglio 2001.
[22] B. Secchi, Un commento…, cit., p.265.
[23] Cfr. S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, cit., figg. a pp. 91 e 90. Quasi tre lustri fa lamentavamo i fenomeni nuovi relativi alla lacerazione del territorio nella fascia meridionale della metropoli: “passaggio diretto e immediato da un’agricoltura altamente qualificata, seminativo irriguo di forte produttività, per esempio ai pretenziosi torvi estranei edifici di Assago”, L. Meneghetti e O.Valli, L’origine…, cit., p.81: Milano fiori, in provocazione botanica; a cui avrei potuto aggiungere fra l’altro, perché altrettanto botanico oltre che berlusconiano anziché cabassiano, Girasole di Lacchiarella. Oggi nella metropoli i manufatti a cui mi riferisco rappresentano una violenza anche maggiore a causa della loro imponenza altezza obesità e del loro “stile”.
Piaga, bubbone, verruca, metastasi. Non sono lusinghiere le immagini che usiamo per parlare delle nostre periferie. Quando ne parliamo: moltissimo sull’onda emotiva del massacro di Rozzano; pochissimo invece negli ultimi anni e decenni, dopo l’abbuffata ideologica dei Sessanta e dei Settanta, e prevedibilmente anche in quelli che verranno, sparatorie permettendo. È davvero una terra di nessuno quella dei quartieri-dormitorio, espulsa dal dibattito, dimenticata da giornali, libri e cinema, spesso sconosciuta anche ai cittadini delle medesime metropoli che contorna e soffoca. "Non conosco quasi nessuno che c’è stato a Corviale", dice Franco Cordelli che al serpentone romano, monumento all’utopia urbanistica prima e al degrado poi, ha dedicato un romanzo, ‘Un inchino a terra’.
Già. Si può vivere a Roma, a Milano, a Palermo, a Napoli, a Bari, senza neppure vederli, i ‘mostri’: Corviale, Rozzano, lo Zen, le Vele (finché c’erano), San Paolo. Ma dalla ‘zona rimozione’ i malanni urbanistici ineluttabilmente riaffiorano, più insanguinati e febbricitanti, più repellenti e incattiviti di prima. E allora, in attesa del prossimo insabbiamento collettivo, ecco la domanda: che fare? Ed ecco le risposte, paradossali o ragionevoli, opportunistiche o sconsolate, dalla proposta di Renzo Piano di far adottare dall’Unesco le periferie del mondo come patrimonio dell’umanità, a quelle due righette nella bozza del prossimo Dpef, il documento di programmazione economico-finanziaria per il 2004-2007: riqualificare "attraverso interventi di demolizione e ricostruzione sui tessuti urbani degradati".
Tutto giù per terra? E un diluvio di calcinacci che sommerga, infine, la sventata Babele orizzontale dei quartieri-dormitorio? Il germe radicale del distruzionismo si fa vivo in giro per l’Europa (200 mila alloggi popolari saranno demoliti nei prossimi cinque anni in Francia, a Milano destra e sinistra concordano sugli abbattimenti a San Siro, Stadera, Lorenteggio, Ponte Lambro). E riaccende la discussione sulle periferie urbane, sulla metastasi socio-economica prodotta, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, dall’inurbamento di massa di milioni di immigrati, prima interni e poi stranieri.
Ma la tentazione distruzionista incontra i favori degli urbanisti e degli architetti, che si schierano, con i distinguo e le sfumature del caso, per un ‘migliorismo’ che tenga in debito conto le ‘tre ecologie’ (sociale, culturale, materiale) indispensabili secondo il maestro belga Lucien Kroll a uno sviluppo urbano a misura umana e non inquinato "dall’ostinazione modernista". Ovvero da quelle "finestre messe di sghimbescio" che secondo Pier Luigi Cervellati, architetto bolognese e docente di Urbanistica a Venezia, sono il segnale altrettanto distorto e malsano di periferie sgangherate dall’incultura, dal degrado, dal luogo comune.
"I distruzionisti sono degli imbecilli", ride Vittorio Gregotti: "Il bisogno di abitazioni è in crescita, i poveri aumentano, occorre semmai costruire di più, rimettere a posto quello che c’è. Demolire è senza senso. È grave, piuttosto, che non ci sia più una lira per le case popolari, che non ci sia più una politica per le case a basso costo". Secondo Gae Aulenti, "è un modo per fare confusione, per continuare a non fare niente. Che gli amministratori facciano il loro dovere, amministrino. Anche se vengono incaricati dei buoni tecnici, con i tempi abnormi imposti dagli enti pubblici tutto si sfascia. All’estero esistono tre fasi: programma, progetto, manutenzione. Da noi il concetto di manutenzione non esiste, e il progetto veleggia sospeso in tempi vaghissimi".
A Parigi, spiega Aulenti, del rifacimento delle vecchie case popolari (le Hlm, habitations à loyer modéré, quattro milioni, costruite fra il 1945 e il 1965) "vengono incaricati i giovani architetti, appena laureati. A Barcellona le periferie sono pensate urbanisticamente come zone dove non si va solo a dormire. Qui no, niente di tutto questo. L’errore delle periferie italiane è strutturale, quartieri-dormitorio è un’espressione che ne fotografa perfettamente i difetti, e non vedo alcun segno di nuove espansioni pensate in un altro modo".
In altre parole, stavolta di Pier Luigi Cervellati, "stiamo allargando la periferia invece di progettare la città del presente". La metafora tumorale si colorisce ulteriormente: crosta cementizia, malattia infettiva. "Per noi urbanisti", dice Cervellati, "il problema dovrebbe essere quello di evitare la crescita della periferia. Il contrario esatto dello spreco edilizio attuale, degli indici di inquinamento sempre più alti, della devastante impermeabilizzazione del territorio con l’asfalto, dello scadimento qualitativo". E il recupero, la riqualificazione? "Bisognerebbe cambiare mentalità, ripensare l’edilizia pubblica. Invece si vende il patrimonio immobiliare pubblico. E continua a esserci, anzi aumenta, la speculazione edilizia". Meglio demolire, allora? "Certo. Le case abusive, però. Altrimenti il distruzionismo è puro, furbesco usa-e-getta: costruisci e poi demolisci per ricostruire. Cioè per continuare a vendere".
Il "volgarissimo mercato", secondo Gregotti, serve però a volte a "rimettere in circolo" energie nel corpaccione bolso e infermo dell’edilizia popolare e periferica. Le case dei ferrovieri d’inizio Novecento oggi sono considerate bellissime (e carissime). Quartieri come Roehampton o Golden Lane, a Londra, sono stati esemplari. A Rozzano c’è la Fondazione Arnaldo Pomodoro, e ci sono magari più balordi intorno alla centralissima Stazione Centrale di Milano. E la Bicocca ridisegnata da Gregotti & associati (slogan: ‘Un centro storico per la periferia’) "non avrà mai un destino di degrado perché oltre ai servizi fondamentali include tante funzioni diverse, non soltanto il dormitorio. È questo che dà vitalità, ed è così che sono fatte le città: non monofunzionali, non monosociali".
Le città, non le periferie. Almeno non quelle di cui si ventila la demolizione, sola igiene del mondo irrecuperabile di hinterland, cinture, sobborghi. Se nella ‘Belle Équipe’ (era il 1936) Jean Gabin prendeva la fisarmonica e scendeva in strada a festeggiare la gioia di vivere nella periferia, la ricetta attuale non è poi così diversa. Che i quartieri emarginati diventino "un luogo pieno, dove si lavora, si vive, si sogna, si lotta" (Alain Bertho, autore di ‘Banlieue, banlieue, banlieue’). Che si studino dei sistemi, anche mediante incentivi fiscali, "che favoriscano l’insediamento nelle periferie di attività vere, lavorative, che mescolino la vita" (Gregotti). Che si recuperi "il senso della città, della comunità, della partecipazione alle vicende del territorio. E non costruendo stadi per olimpiadi demenziali, ma palestre, giardini, spazi pubblici" (Cervellati). C’è un sacrosanto elemento di nostalgia, di confronto con il passato. "Prima avevamo case brutte e città belle, adesso abbiamo case belle e città brutte", sintetizza Cervellati. Appartamenti tirati a lucido e pattume fuori dalla porta, "l’Italia era una meraviglia, la proprietà pubblica era straordinariamente bella: oggi siamo tutti proprietari in città pessime". Nei condomini, popolari o di lusso in stile Milano 2, ma anche in quella che l’architetto e urbanista chiama villettopoli, l’Italia scempiata dalle mono, bi e pluri-familiari, una periferia di nuovo genere, immensa, dilagante, in una parola brutta.
Brutto, bello. Tornano parole semplici e antiche, che nessuno sembra maneggiare più. E invece: "La bellezza è una componente della centralità", dice ancora Cervellati: l’opposto della periferia. "La periferia si produce sempre per incultura e per mercato". E al contrario, Gregotti: "Del lato estetico non me ne frega niente, se non è connesso alla funzionalità".
Bello, brutto. Periferie brutte e quindi anche cattive, sarà per questo che si parla di lifting, di bisturi, di microchirurgia negli interventi di risanamento? La repressione della bellezza è la causa "dei maggiori problemi sociali, politici ed economici del nostro tempo", come predicava James Hillman? Gli architetti concordano che gli architetti servono a poco, almeno a garantire l’etica e l’estetica delle nostre periferie. Per Gregotti "l’architettura non è determinante per il sistema sociale", contano di più le istituzioni, quelle stesse che per vent’anni non hanno costruito fogne e scuole nel suo Zen. Per Cervellati "bisognerebbe chiudere un po’ di facoltà di architettura, ci sono oltre 100 mila iscritti. Che sanno a malapena raccapezzarsi in una mappa topografica, che non sanno disegnare né misurare". È l’estinzione di una specie, di un mestiere? Dall’estero, quell’estero che sempre inseguiamo, proviene il requiescat di Rem Koolhaas: "Dieci anni fa deploravamo l’autoritarismo degli architetti, oggi rimpiangiamo la loro scomparsa". Chissà se le periferie hanno altre lacrime da versare, stavolta per loro.
E intanto lui abitava in via Giulia. ‘Lui’ è Mario Fiorentino, l’autore di quel chilometrico emblema delle periferie che è il Corviale a Roma, "bravissimo architetto", secondo Vittorio Gregotti; "cattivello", invece, per Massimiliano Fuksas. Il giudizio parte da elementi concreti, tecnici. "Al Corviale i muri sono di cemento, non era neanche possibile unire due appartamenti. È invece la flessibilità, che permette di impossessarsi di una casa costruita magari in termini anonimi, badando solo alla quantità. Come a Port de Bouc, banlieue difficilissima di Marsiglia: lì era tutto rivolto a nord, per risanarla abbiamo demolito e ricostruito, interrompendo quella inospitale, rigidissima barriera di torri".
Demolirebbe anche in Italia, e che cosa?
"Bisogna fare una graduatoria. I luoghi di vera e propria disperazione vanno abbattuti; sono tanti, forse il 30 per cento delle periferie. Va salvaguardato il patrimonio di qualità: il Tiburtino di Ridolfi e la Garbatella a Roma. Per il resto bisogna studiare, studiare, studiare: valutando caso per caso".
La demolizione suona a volte come un repulisti, una soluzione sommaria per sbarazzarsi di magagne non soltanto architettoniche.
"C’è chi vorrebbe buttar via le case con tutti gli abitanti, certo. È arduo risanare se non esiste un parco abitativo pubblico che faccia da calmiere e da compensazione, mentre demolisci. E questo governo, cosa gravissima, sta vendendo il patrimonio abitativo sociale".
Quale origine hanno i disastri delle nostre periferie?
"Un combinato di cause, dall’industrializzazione al neo-illuminismo che negli anni Sessanta immaginava utopie urbane poi rivelatesi fallimentari. L’architetto-demiurgo ha forti responsabilità. Il quartiere Zen di Palermo è tutto uguale, le ‘insulae’ sembrano campi di deportati. È una visione militare dei problemi umani: una città che rende felici è invece il contrario della rigidità".
Parecchie volte, negli ultimi giorni, leggendo le litanie di proclami e scempiaggini con cui il centrodestra si è gettato a capofitto sulla “emergenza periferie”, mi è tornata in mente un’immagine dimenticata. Un’immagine solo letta, per ovvi motivi anagrafici: il borgomastro di Bruxelles Charles Buls, che all’alba del Novecento, passeggiando nei giardinetti sottobraccio al ministro Luigi Luzzatti, perorava la causa della bellezza anche nelle abitazioni da realizzarsi da parte dei neonati Istituti Case Popolari. Buls, paladino dell’arte di costruire le città, e a modo suo (via Gustavo Giovannoni) fra i “padri” dell’urbanistica italiana, intuiva vagamente come non potesse esistere “città pubblica” senza tutte le caratteristiche della città, incluse riconoscibilità, identità, insomma tutte le cose che poco più tardi iniziarono a sparire, spazzate via soprattutto da un’idea: la macchina per abitare.
In sé l’idea non era male, anche e soprattutto perché si inseriva in pieno nella logica “meccanica” dello sviluppo industriale, e soprattutto all’inizio poteva contare su un notevole slancio di ricerca, riflessione, innovazione. Nell’Italia fascista, però, non poteva nemmeno iniziare a svilupparsi l’apporto critico delle discipline sociali che per esempio, in Inghilterra, avrebbero di lì a poco definito certe idee urbanistiche “un modo per portare la gente da dove non sta a dove non vuole andare”. Gli allora presidenti degli ICP erano certamente più propensi a sottoscrivere il commento del collega Giuseppe Gorla a proposito dell’uso della polizia nell’imporre abitudini igieniche e moderne agli inquilini: “una volta abituati, non c’è più bisogno di costringerli”. Perché, come osservano il più delle volte inascoltati i critici di questo modello di città pubblica, gli oggetti principali della faccenda non sono le più o meno aggraziate scatole di cemento, ma il loro contenuto, che ha la brutta abitudine di camminare, e di farsi opinioni (di solito pessime) sullo spazio che occupa.
Dopo la seconda guerra mondiale, all’inizio della grande modernizzazione e urbanizzazione italiana, una piccola e discutibile eccezione alla regola è quello che Rinascita bolla come “l’incredibile parto della fantasia del professor Fanfani”. Un incredibile parto che, se non altro, dal punto di vista della progettazione fisica degli spazi si pone almeno due obiettivi: ricostruire una atmosfera da villaggio, e usare gli operatori sociali per “alfabetizzare” i contadini neoinurbati alla vita di città e di relazioni umane. Detto terra terra, è un po’ la replica democratica dei metodi spicci di Giuseppe Gorla; qui non si usa la milizia, ma comunque si spiega agli ex contadini che in città non ci si accoltella, al massimo ci si denuncia, che non si usa il bidet per piantare il basilico, e via di questo passo. Ma le critiche della sinistra, come specifica Giuseppe Di Vittorio (relatore di minoranza del progetto di legge Fanfani), vanno un po’ più in là dell’idea di villaggio o di modernizzazione “guidata”, e implicano una diversa idea di società e investimenti per lo sviluppo.
Un’idea diversa che, guarda un po’, sembra poter trovare spazio ancora nelle grandi “macchine per abitare”, tanto gradite agli architetti di sinistra che Piero Bottoni anche nell’ambito dell’INA-Casa ha progettato un enorme candido monolite, che affacciato sul Corso Sempione (un po’ lontano, in effetti, dalle “periferie”), racconta che anche con l’edilizia popolare si fa città moderna a tutti gli effetti. Ma per ogni Bottoni versato alla ricerca e alla riflessione sul piano e il progetto, ci sono (come ovvio e prevedibile), schiere di progettisti che stanno a le Corbusier più o meno come Teo Teocoli sta a Elvis Presley. E saranno soprattutto loro, insieme ai pochi soldi, alla disorganizzazione, alla malafede, a progettare gran parte delle periferie che ora il centrodestra chiama “frutti del comunismo”, o altre sciocchezze del genere.
Frutti del comunismo che, tra l’altro, vengono a maturazione, cioè cominciano a rimpolparsi di contenuto umano, proprio mentre con le prime avvisaglie di crisi del modello di sviluppo la grande fabbrica non è più centro di riferimento, aggregazione, simulacro e surrogato della città.
In cosa si identificheranno, ora, gli abitanti di questi cimiteri sociali? Non certo con le città radiose dei grandi blocchi su vasti spazi aperti, che come ben sanno per esperienza sono labirinti puzzolenti dentro, e campi di battaglia fuori. Forse, con quello che rimane del centro storico, fra la boutique dell’insaccato e la factory del gioiello etnico, ma più probabilmente con l’altra periferia, quella che discende perversamente non da Le Corbusier, ma da Raymond Unwin: la città diffusa di villette, lottizzazioni produttive, centri direzionali e quant’altro. Chi può permetterselo, c’è già andato da parecchio. Qui l’architetto non si può sbizzarrire con diavolerie come l’ existenzminimum o il cottage plan and common sense, ma se vuole essere pagato deve fornire il cliente di tutte le cucine abitabili, tavernette, e giardini con nani richiesti. Con buona pace di tutte le ricerche progettuali astruse, e del piano regolatore che pretende anche di entrare in casa tua a dirti quello che devi o non devi fare. E basta.
La storia raccontata sopra, è ovviamente, anche se non completamente, falsa. I nomi propri citati hanno fatto più o meno le cose descritte, le quali cose descritte sono più o meno tutte così, anche se sono molto di più, e in definitiva qualcos’altro.
La cosa difficile, è spiegare queste cose ai poveretti a cui casca il soffitto del cesso in testa, o ai loro parenti che non li vanno più a trovare per paura di giocarsi l’auto parcheggiata in strada. Ditegli che “qui ci vuole la mano pesante”, e vi seppelliranno di voti. Diteglielo da mezza dozzina di reti televisive, con le immagini giuste, e vi porteranno in trionfo.
Il che non toglie, che della questione periferie anche da sinistra si inizi a dire pane al pane e vino al vino, a partire per esempio da uno slogan simil-berlusconiano: LASCIATECI FINIRE IL LAVORO. Come, è un altro discorso, ma questo per esempio è “partire dal programma”. Una frase già sentita. O no?
Posso da profana anche io dire la mia? Magari scriverò una raffica di banalità, ma sento una vaga insofferenza nel leggere gli interventi nel tuo sito, uno dopo l'altro. Facile ora, puntare il dito contro l'architettura comunista, i palazzoni Ina casa e Iacp: ma bisogna ricordare quel che era la condizione abitativa prima degli anni '80. Drammatica. Le lotte per la casa sembrano completamente cancellate dalla memoria, eppure sono state una parte importantissima del movimento operaio e, si direbbe oggi, progressista. Si è costruito in emergenza, forse troppo: vero. Ma senza dimenticare verde e servizi che poi nessuno ha fatto. E non è poco.
Ma ha ragione Vezio De Lucia: quando le case non si gestiscono - oppure: se si gestiscono male, se si mettono ad abitare insieme tutte le famiglie dei carcerati, tutti i tossici nell'altra scala, dall'altra parte tutti i meridionali - non si fa che aggiungere esclusione ad esclusione. Se poi si rinuncia del tutto a mantenere quel minimo di legalità che impedisce ai malavitosi di demolire con il piccone la porta di una casa di un'anziana ricoverata all'ospedale, ecco, in questa situazione neppure Le Corbusier sarebbe in grado di rendere vivibile in quartiere. In più, una certa pigrizia giornalistica che parla di Bronx, e il pasticcio è fatto. Tanto per dire, nel Bronx ci sono zone di qualità urbana più che accettabile. Seconda riflessione. Non sempre la bellezza basta. Ricordate le rapine in villa? E i grandi delitti - più o meno risolti - che vi accadono? Non so perché, ma la paura di chi vive in quelle periferie ricche e opulente, doviziosamente dotate di servizi e verde, è la stessa di chi vive nelle periferie. Allora il problema mi sembra un altro: la criminalità fa paura, sia che venga da fuori, sia che abiti nella porta accanto. Non è questione di urbanistica, né di architettura. Come dimostra la bellissima la villetta di Cogne.
Un altro discorso - inutile aprirlo qui, lo cito solo a margine - sarebbe quello dell'ideale tutto italiano della villetta che ha distrutto agro e campagne. La voglia di far dell'Italia, ricca di tanti centri storici, una finta paperopoli di pretesi ricchi ha prodotto mostri, anche se imbellettettati, e assai scarse possibilità di socialità.
Proviamo a eliminare la questione criminalità. Resta nei quartieri popolari la povertà di servizi e di verde, la povertà di funzioni che rende differente un ragazzo che vive con la piscina comunale a 100 metri a quello che deve prendere il treno per arrivarci, e quindi non ci va. Ma quei quartieri, dalle Vele a Corviale, con i servizi erano stati progettati. Che la qualità urbana sia pessima è anche responsabilità di chi non li ha voluti, o se ne è disinteressato, lasciando che i negozi venissero occupati di notte da disperati senza casa, né ha pensato di offrir loro un'alternativa abitativa. Le Vele? Non sono affatto brutte: pensate se su quelle terrazze ci fossero alberi e rampicanti, pensate se ci si potesse vivere senza paura e senza sbarre, e sfruttare al meglio proprio quel che oggi è la debolezza di quegli edifici: la permeabilità. Se la facilità di accesso diventa il canale con cui la camorra controlla i suoi, sarà un ghetto, e punto. Ma pensate se fosse altro, che so, un residence per studenti fuori sede: la facilità di accesso può diventare facilità di rapporto, e forse persino la nascita di una comunità.
Infine un'ultima disordinata nota. Il patrimonio di edilizia pubblica è privato. E' privato nei fatti, visto che nessuno lo gestisce. Mi piacerebbe sapere quante sono le chiavi che tornano in istituto perché un affittuario è morto. Sospetto pochissime: sia perché c'è un racket che se ne occupa con grande efficienza, sia perché implicitamente non è previsto nemmeno dagli uffici. Nella migliore delle ipotesi capita quindi che l'appartamento di ex periferia ormai diventato semicentrale sia stato affidato cinquant'anni fa alla famiglia di un operaio, e che il figliolo dottore ci faccia il suo studio, ed è solo un esempio. Ancora a margine noterei che molti sono gli esempi di edilizia pubblica più che dignitosa, magari costruiti anche in epoca fascista ma con evidente rispetto per chi ci sarebbe andato ad abitare. Non solo alla Garbatella.
Che ci sia ancora una domanda di case è ovvio, ed è però evidente che ciò non possa essere una buona giustificazione per costruire ancora. Sta di fatto che la domanda più drammatica viene da ceti depauperati di qualsiasi potere, dagli immigrati, dagli emarginati… tanto che persino i Cim faticano a trovare case che ospitino le loro residenze protette. In queste condizioni, ammainare la bandiera dell'edilizia pubblica e lasciare senza alcuna gestione il patrimonio che c'è, come mi pare si faccia nell'indifferenza di tutti, mi sembra una sciocchezza. Una sciocchezza politica, figlia della pochezza dei tempi.
«E´ vero, certi modi di costruire gli edifici favoriscono la criminalità. Mentre l´architettura che consente alle persone di stare per strada e di incontrarsi, di avere tanti luoghi pubblici a disposizione, quella che mette in condizione chi abita di potersi affacciare e di guardare ciò che accade di fronte, è un naturale ostacolo ai fenomeni criminali». Joseph Rykwert è uno dei massimi storici dell´architettura. Adesso vive a Londra, ma originario della Polonia, ha insegnato all´Università della Pennsylvania. Conosce benissimo l´Italia e non si sottrae a una polemica tutta italiana: le periferie dove svettano anonime torri, dove gli spazi pubblici sono inesistenti oppure manomessi e degradati, quelle periferie, insieme alla marginalità sociale, sono accusate di essere esse stesse causa di teppismo e di violenza.
Dopo i quattro omicidi di Rozzano si è sbattuto sul banco degli imputati il modo di costruire degli anni Settanta. Il suo ideale di razionalità, la sua tendenza al gigantismo, una terapia forse troppo drastica per curare una malattia di quegli anni: tante case, ma non per chi aveva pochi mezzi. Corviale, Le Vele, lo Zen, il Laurentino 38: mostri, qualcuno ha detto, che generano altri mostri. Non si è andati per il sottile. Non si è fatta differenza fra periferie realizzate dalla mano pubblica e periferie costruite da privati con finalità speculative. Un urlo - demoliamoli - ha coperto le voci di chi invitava a distinguere, di chi sottolineava gli sforzi compiuti da molte amministrazioni per risanare quei pezzi di città, o di chi valorizzava le iniziative di comitati e gruppi di abitanti.
Ragionarne al Festivaletteratura produce effetti spiazzanti. Ma non tanto. Il rapporto fra scrittori e lettori che qui si realizza è il risultato di un senso civico, di un culto per l´urbanità che Mantova custodisce nei suoi edifici e nelle sue piazze. E Rykwert, studioso di Giulio Romano, ma ancor più di Leon Battista Alberti, esordisce ricordando che uno dei suoi libri più celebri, L´idea di città (ripubblicato un anno fa da Adelphi), sia nato discutendone con Italo Calvino e che nei progetti doveva essere solo il primo capitolo di una storia delle città italiane concepita insieme al sociologo Carlo Doglio.
Letteratura e idea di città, dunque. «Un paio di anni fa ho comprato una casa a Venezia», racconta Rykwert, «nella zona di San Giobbe, vicino a un ospizio per anziani. Sono sempre attratto dalla quantità di tempo che quegli anziani trascorrono alla finestra. Osservano il passeggio, non fanno altro. Ecco, quella di poter guardare fuori è una condizione ideale perché un quartiere abbia una sua vita, una sua autonomia. Questo tipo di realtà comunitaria è un antidoto alla violenza».
Ma lei li abbatterebbe quei grandi edifici che popolano tante periferie?
«Qualcuno sì, soprattutto quando prevale la forma della torre. Ma, per restare agli esempi usati, Palermo non aveva certo bisogno dello Zen perché crescesse la violenza. Qualsiasi eccellente progetto architettonico, se mal realizzato, è una provocazione».
Nel suo libro più recente, La seduzione del luogo (Einaudi), Rykwert insiste sul fatto che per capire la storia e l´essenza di una città non si può ricorrere solo alle ragioni economiche o politiche.
«Si era sempre sostenuto che dietro la città romana ci fosse il castrum, cioè l´accampamento militare. Io sono convinto del contrario, perché nella fondazione di una città entrano con prepotenza elementi simbolici e metaforici. Che poi si trasferiscono anche nel castrum. Una città deve avere elementi che la rendano riconoscibile. Houston, per esempio, che pure è la città dei petrolieri - e si sa quanto i petrolieri contino ora negli Stati Uniti - non diventerà mai una vera metropoli. Perché è cresciuta solo accumulando parti su parti, e nessun nuovo innesto riuscirà a far sentire vivo quel tessuto urbano. Ed è sintomatico che oggi gli elementi monumentali di una città non siano più i palazzi delle istituzioni, ma i musei. Pensi al Guggenheim di Bilbao».
I musei e non i grattacieli, dunque. Rykwert ha una convinzione incrollabile: i grattacieli sono un disastro, non solo perché monopolizzano lo skyline di una città, ma perché commercialmente sono un equivoco.
«Ora stanno progettando due edifici di oltre 600 metri, i più alti del mondo, uno dei quali a Dubai. L´altro in India, in una piccola città del Madhya Pradesh. Dubai vuol dire petrolio, ma fra quaranta o cinquant´anni il greggio di quel paese potrebbe essere estinto. Cosa ci faranno allora con quell´edificio? Non è bastata la lezione londinese delle Docklands, dove i privati hanno fatto bancarotta, dopo aver costruito un immenso grattacielo?». Chi costruisce, insiste Rykwert, compie un atto pubblico. E perfino un eremo «è un atto pubblico». Ma gli architetti, molti architetti contemporanei, violano questo precetto. Le Torri Gemelle, conclude Rykwert, sono state identificate nei terroristi per la loro forza metaforica, perché «rappresentavano il trionfo del potere monetario». Ma nulla, nei 28 anni in cui sono vissute, «hanno aggiunto di positivo al tessuto urbano in cui erano inserite».
Non sono tanto d'accordo su quanto scrive Vezio De Lucia. Domanda: perché in Italia gli architetti e gli amministratori pubblici non abitano negli edifici di edilizia residenziale pubblica, magari sovvenzionata (salvo forse l'assessore alla pianificazione del capoluogo friulano e il vecchio sindaco di Grosseto del quale ha fatto cenno Salzano - ma era una persona speciale quel Sindaco di quella città) ? Solo per una questione di mancanza dei requisiti reddituali e familiari o forse perché non gli piacciono i quartieri (effetti della pianificazione urbanistica) e gli edifici (effetti della progettazione architettonica) essendo che sono dedicati ad altri strati sociali ? In Svezia, in Finlandia, in Danimarca ed in altri paesi più evoluti e civili del nostro in cui maggiore è l'attenzione al sociale ed alla qualità, accade spesso che i progettisti di edifici di edilizia residenziale pubblica ci vadano anche ad abitare nelle case pubbliche da loro progettate, magari a scomputo della prestazione professionale. Perché accade ?
Difendere ad ogni costo scelte culturali di pianificazione urbanistica e di progettazione architettonica (Corviale, Scampìa e lo Zen) non mi convince, seppure lo comprendo.
La realtà è sotto gli occhi di tutti: quei quartieri e quegli edifici sono invivibili, ghetti che producono emarginazione e contribuiscono al degrado sociale, brutture degne solo di essere eliminate fisicamente per rispetto degli abitanti e della città. L'ERP andrebbe spalmata, diluita nell'intera città e non segregata in un quartiere autonomo e separato dalla città.
Non è un caso che sono più apprezzate e vissute dagli abitanti in maniera più sentita quei quartieri di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata che sono frutto di scelte più attente alla qualità insediativa e del vivere. Minori densità fondiarie, unità di abitazione meno alienanti, spazi aperti pubblici più ariosi, più verde, attività complementari all'abitare, servizi sociali di base, rapporti più stretti con le parti della città. A Udine via San Rocco e il Villaggio del Sole, ancorchè vecchi e sicuramente problematici dal punto di vista tecnologico ed impiantistico, ben rappresentano queste caratteristiche qualitative. Bisogna quindi risalire a filoni culturali degli anni cinquanta, forse alle esperienze olivettiane che hanno influenzato l'urbanistica italiana del dopoguerra, per trovare livelli di urbanistica sociale per l'edilizia residenziale pubblica più umanizzante. La domanda abitativa sociale si affronta diversamente in chiave anche culturale altrove. Da noi spesso i quartieri di ERP sovvenzionata sono uguali alle esperienze urbanistiche ed edilizie dei paesi dell'ex blocco sovietico. Senza andare troppo lontano il raffronto con i quartieri periferici di Dubrovnik, Spalato, Fiume, Nova Gorica e Zara è eloquente in proposito, molto più di tanti altri discettamenti. Che poi anche in Francia l'HMLS (l'omologo degli Iacp/Ater) progetti e costruisca casermoni per arabi ed operai identici a quello che accade in Italia, non toglie nulla alle mie osservazioni. Anzi ne rafforza il senso.
http://www.italy.indymedia.org/news/2003/08/363474.php
Milano: continua la campagna di stampa sulle periferie
by dal corriere Sunday August 31, 2003 at 12:31 PM
Da Rozzano a Ponte Lambro, riprendiamoci le periferie.
Dieci anni fa, davanti alla vergogna di Ponte Lambro, dove la città degli onesti era in ostaggio di una banda di delinquenti, un funzionario di polizia dichiarò ai giornali che gli agenti erano troppo pochi per garantire la sicurezza e la legalità. Due anni dopo, di fronte alle proteste dei residenti di un casermone diventato inabitabile per i vandalismi, lo spaccio e il teppismo, le autorità (tutte) si impegnarono in una bonifica che rimase soltanto un annuncio. Uno dei tanti, nella rassegna stampa delle periferie milanesi che classifica le case popolari come ghetto, bronx, quartiere dormitorio, deserto urbano, lasciando un brivido di disagio e di fastidio ai cittadini perbene che ci vivono e una cronica indifferenza in tutti gli altri, che evitano, sfiorano e solitamente girano al largo. Per questo Ponte Lambro è ancora così, una ferita aperta nella civile Milano, un non luogo dove si disfa la città e fallisce ogni tentativo di riqualificazione. Abbiamo rivisto e risentito alcuni allarmi e alcuni giudizi in questi giorni, davanti ai cadaveri trapassati dai proiettili di Vito Cosco, il balordo di Rozzano che per una vendetta ha fatto una strage, e ci siamo interrogati su come contenere i rischi di una violenza che il degrado sociale può generare. Ma non abbiamo trovato altre risposte che non siano generici appelli, vaghe giustificazioni, inutili promesse.
E’ vero che Milano ha bisogno di agenti: dieci anni fa erano 5.300 e oggi ne ha un migliaio in meno, ma la forza pubblica da sola non basta a vincere la sfida delle periferie malate nei diciotto quartieri che l’Aler considera a rischio. Alla legalità, da garantire sempre per evitare che la moneta cattiva scacci quella buona, bisogna aggiungere il coraggio di sognare una normalità troppo a lungo rimandata per chi vive nelle case popolari.
Si faccia un’alleanza, tra il Comune che deve progettare e i tutori dell’ordine pubblico che devono vigilare, per garantire il controllo delle assegnazioni e lo sgombero degli abusivi. Si ripristino le portinerie, scioccamente abolite, con un sistema di incentivi e di tutele: valorizzeranno lo stabile, e aiuteranno nel controllo sociale. Si avvii, gradualmente, un piano per rompere la concentrazione di disperati nei condomini: con le regole attuali l’assegnazione non consente nessun mix sociale e i risultati si vedono a Rozzano come in viale Fulvio Testi o a Calvairate. Ormai, tra i 124 mila residenti delle case popolari, c’è una popolazione crescente di anziani impauriti, soli, esposti a ogni rischio, e di extracomunitari.
Infine, si prenda una volta per tutte una decisione seria: se rattoppare non basta, si demolisca, con un progetto di ricostruzione in tempi rapidi coinvolgendo banche e imprese. L’ha fatto Barcellona, può farlo Milano. Proviamo a vincere l’inerzia, prima di rassegnarci un’altra volta. Se lo stesso zelo con il quale è stata realizzata la cancellata in piazza Vetra per allontanare gli spacciatori si applicasse a Ponte Lambro, oggi potremmo avere un quartiere modello. Senza inutili «centri di aggregazione» (parola che ormai fa venire l’orticaria) ma con qualche sano bar dove la gente possa trovarsi con l’impressione di conoscersi un po’ di più.
Milano: i potenti pontificano su periferie dove non vivono nè vivranno mai....
by dal corriere della pera Sunday September 07, 2003 at 12:00 PM
Dateci più poteri e salveremo le periferie... Il sindaco di Milano: facciamole diventare un pezzo di città, subito un governo delle aree metropolitane. Gabriele Albertini: l’idea di demolire è impraticabile se non ci sono i soldi dei privati per ricostruire.
MILANO - Volete periferie migliori? «Dateci più poteri. E affrontate una volta per tutte il problema delle città metropolitane». Il sindaco Gabriele Albertini condivide l’opinione dell’architetto Renzo Piano, a proposito della necessità di «scommettere sulle periferie che devono diventare pezzi di città». Ma sottolinea i limiti di chi è costretto ad affrontare un’emergenza senza avere deleghe a disposizione: «Sugli abusivi possiamo fare meno di quello che sarebbe necessario. Sugli interventi complessivi dobbiamo restare all’interno di logiche di confine ormai prive di senso». E così, «quando un pazzo scatena la guerriglia a Rozzano, a poche centinaia di metri dal confine con Milano, scatta la polemica sulle periferie poco sicure e si punta l’indice contro chi governa nel capoluogo». Ma Albertini non ci sta. E chiama in causa il governo: «Il 24 settembre riuniremo a Cagliari i sindaci delle città metropolitane e presenteremo un documento congiunto proprio sulla questione delle città metropolitane. Ci vuole un governo sovracomunale, diverso dalla Provincia, in grado di affrontare complessivamente alcune questioni, a partire da quella della sicurezza, ma penso anche a trasporti, ambiente e così via».
Signor sindaco, il problema delle periferie è soltanto un problema di istituzioni?
«No. Ma il concetto di periferia è ormai molto vago: la Bicocca è periferia? E Rozzano è diverso da Milano? Per questo chiedo una svolta sulla questione della città metropolitana. Ma le pare che in sede di conferenza di servizi il voto di un sindaco che rappresenta 100 mila abitanti possa valere come quello di chi governa un milione di persone? Significherebbe che un abitante di Assago conta come 500 di Milano... Non ha senso: ci vuole un voto ponderale. E poi c’è un problema di soldi. Adesso si parla di abbattere e ricostruire...».
Un’idea che le piace?
«Un’idea impraticabile. Se demolisco un quartiere, devo pensare a dove sistemo centinaia di famiglie. Ma, se già oggi mi mancano 15 mila case, come posso figurarmi l’eventualità di abbattere e ricostruire? Ci diano soldi, si coinvolgano i privati: e allora possiamo ragionare».
Torniamo alle periferie. Quelle di Milano sono abbandonate?
«Le cito soltanto un dato: il listino della Borsa immobiliare segnala che il valore delle case in periferia è cresciuto: più 30 per cento a Musocco e più 28,9 in fondo ai Navigli, tanto per citare due esempi. Se il valore di un appartamento aumenta, è perché la gente cerca casa qui: e se lo fa è perché giudica queste zone vivibili».
Forse nei quartieri che avete riqualificato. Ma a Calvairate o a Quarto Oggiaro?
«Non sto sostenendo che le nostre periferie siano ovunque una meraviglia. Ribadisco però che, rispetto alla situazione trovata, abbiamo cercato di intervenire sia sulla sicurezza, con le telecamere, i portieri sociali, 11 nuove caserme o posti di polizia, sia sul sociale investendo per le case, per le metrotranvie che collegano queste zone estreme. E poi abbiamo fatto scelte precise: abbiamo portato il teatro degli Arcimboldi alla Bicocca e l’Università a Niguarda, abbiamo riqualificato molte piazze, abbiamo creato una cintura vastissima di parchi a Nord di Milano. Come insegna Piano, abbiamo portato le eccellenze lontano dal centro».
Ma non basta.
«Non basta, ne siamo consapevoli. Abbiamo anche tentato di lanciare un modello, con il laboratorio di Ponte Lambro».
Quello affidato a Renzo Piano quattro anni fa. Dov’è finito quel modello?
«Come tutti i grandi disegni, perché qui non stiamo parlando di una ristrutturazione ma di una diversa filosofia del vivere in periferia, bisogna fare i conti con i piccoli intoppi. Nello specifico, il modello si è arenato su 44 famiglie che non vogliono essere trasferite e quindi il laboratorio di Piano è fermo».
E quindi?
«E quindi continuiamo a trattare. Più della metà di questi nuclei hanno accettato il trasferimento e li abbiamo spostati, stiamo lavorando agli altri. Ma ci vuole tempo. Le rivoluzioni, in democrazia e non in dittatura, richiedono tempo e convinzione».
Lei passa per essere un decisionista, quello delle lotte intransigenti contro i vigili e i taxisti. Si è arreso di fronte agli abusivi che spadroneggiano nelle case dell’Aler?
«Abbiamo fatto la nostra proposta al Comitato dell’ordine pubblico: abbiamo chiesto un nucleo interforze per governare esclusivamente la questione dei troppi abusivi delle case popolari. Ma, se il prefetto, il questore, i giornali, i comitati e i cittadini non stanno dalla nostra parte, non combiniamo nulla. Da soli non possiamo vincere questa battaglia: nè noi, né i sindaci delle altre metropoli alle prese come noi e peggio di noi con morosi, abusivi, periferie degradate».
Il degrado delle periferie di Milano ed il problema della casa
by problema casa Wednesday June 18, 2003 at 12:04 PM
Denuncia in Comune sul degrado dei quartieri. I Ds: un fallimento da Ponte Lambro a Quarto Oggiaro.
Il problema di Milano si chiama casa. E’ la casa popolare che cade a pezzi perché non ci sono i soldi per la manutenzione straordinaria, e qui l’elenco dei quartieri dimenticati è lungo. Ma è anche la casa, sempre popolare, cui ricorre chi arriva in città per lavorare e scopre che i prezzi sono impazziti e che, al massimo, si può permettere un monolocale in zona periferica. Stiamo parlando di operai e conducenti Atm, ma anche di impiegati e insegnanti che vengono dal sud con un contratto a termine e che fanno domanda all’ente pubblico per un minialloggio a prezzo calmierato. Grazie al protocollo «Casa e lavoro» sottoscritto tra Comune, Regione e Aler il 27 febbraio 2002, sono stati assegnati finora 75 appartamenti al di sotto dei 35 metri quadrati (la maggior parte è di 25 metri), ma la sorpresa arriva proprio da chi ha fatto richiesta per un tetto più che modesto - non i disperati, appunto, ma colletti bianchi, maestri e professori - ed è il segno dell’emergenza abitativa che pesa sulla città. L’altra faccia della medaglia è l’emergenza delle periferie. Da Corvetto a via Fratelli Zoia, da via Rizzoli a via Lopez a Quarto Oggiaro, da San Siro allo Stadera, dal Gratosoglio allo Spaventa. E poi via San Bernardo a Chiaravalle, via Feltrinelli a Rogoredo, via Mar Nero e via Teramo e il quartiere Monterotondo. Erano più di 50, ieri a Palazzo Marino, i rappresentanti delle case popolari venuti per raccontare il degrado, su invito dei consiglieri diessini e del segretario della Quercia, Pierfrancesco Majorino. I cittadini hanno denunciato infiltrazioni dai tetti, citofoni perennemente guasti, parti comuni disastrate, rigurgiti dai lavandini per problemi di fognatura, camini privi di manutenzione da anni, bonifiche da amianto mai avviate. «Sono i figli di un dio minore, i dimenticati dal Polo - riassume il capogruppo ds Emanuele Fiano -. Sono quei cittadini che abitano nei quartieri di edilizia residenziale pubblica dove i progetti per interventi di manutenzione straordinaria avviati nel 2002, per un totale di 53 milioni di euro, sono stati poi sospesi per mancanza di fondi».
I Ds, che ieri hanno dato l’avvio a un tavolo permanente sulle periferie, chiedono con una mozione che si usi l’avanzo di bilancio del 2002 (94,2 milioni di euro) per finanziare proprio i lavori di manutenzione degli immobili popolari delle periferie. «Alcuni di questi interventi - sottolinea il consigliere Aldo Ugliano - erano in bilancio addirittura nel 1991 e non sono mai iniziati». Si tratta di quartieri dove vivono complessivamente 6 mila famiglie, «e dove crescono insoddisfazione, occupazioni abusive, spaccio di droga mentre diminuiscono i presidi delle forze dell’ordine». I comitati puntano il dito anche sulla mancanza di custodi.
«La giunta non autorizza l’Aler ad assumerli nelle 24 portinerie a Quarto Oggiaro», denuncia l’opposizione. Ma il vicesindaco Riccardo De Corato replica: «Ringrazio i Ds, ma era cosa già decisa: quest’anno destineremo l’avanzo di bilancio, come primo obiettivo, alla manutenzione di tutta l’edilizia comunale». E sui custodi, puntualizza: «Noi alle portinerie preferiamo le telecamere». La giunta intanto rilancia sul fronte delle nuove case. Ieri è stato firmato un altro protocollo tra Comune, Aler e associazioni imprenditoriali e di categoria per 889 nuovi alloggi in affitto (tra due anni) per categorie deboli e lavoratori.
Pur con un alto numero di anticipazioni che risalgono all’inizio del XIX secolo ed ancora più indietro, la letteratura prima sulla profonda mutazione e poi sul disfacimento della città ha occupato negli ultimi quarant’anni, con progressiva accelerazione, lo spazio più ampio negli scritti di pianificazione, di sociologia urbana e di disegno urbano. Regione metropolitana, città diffusa, dispersione e concentrazione, mobilità, comunicazione immateriale hanno mosso descrizioni e tentativi di interpretazione dell’esistente mescolandosi ad accanite difese dei monumenti e dei tessuti storici, a tentativi di organizzazione dell’espansione o al contrario alla sua completa deregolazione, nell’ideologia dalla restituzione di un automatico (ed illusorio) equilibrio dello sviluppo. Queste preoccupazioni, ben giustificate da molti motivi, si sono in molti casi rovesciate, nonostante la drammaticità delle contraddizioni, in entusiasmo estetico e sociale in mancanza di proposte alternative fondate.
Pietro Rossi nell’introduzione alla sua ricerca sui modelli di città, circa 40 anni or sono ha ipotizzato (ma certo non è stato il solo) la cessazione del fenomeno urbano così come esso si è caratterizzato (soprattutto in Europa) negli ultimi 2000 anni. Eppure noi seguitiamo a muoverci tra città. Prendiamo un aereo, un’autostrada, un treno per andare da una città all’altra, ne riconosciamo la presenza anche se il costruito si è confuso con la campagna. Seguitiamo a nominare città piccole o grandi, Parigi o Orvieto, Monaco e Bath, persino Shanghai o Città del Messico, identificandole senza troppi dubbi. Il numero di abitanti delle città è enormemente aumentato anche se questo ha prodotto intensificazioni e sviluppi abnormi delle città stesse, sino al cambiamento della loro identità ma non della loro natura urbana. La coreografia interpone ancora spazi (forse non più di natura) che permettono di individuare le città pur con tutte le loro deformazioni.
Questo spostamento di interessi e di attenzioni della cultura dell’insediamento non è però senza conseguenza. Da un lato descrive e cerca di conoscere la natura dei nuovi fenomeni di ampliamento e di diffusione ma dall’altro trasferisce più o meno consciamente i risultati di questa sociologia della constatazione nel fatto urbano (più o meno consolidato) cercando di conferirgli, in modo del tutto improprio, i caratteri morfologici provenienti dalla diffusione e dalla deregolazione ma soprattutto abbandona lo studio sulla città e la cultura del suo rinnovamento in termini di proposte appropriate. Proposte appropriate, appunto, e non solo difese (spesso per giustificata paura del peggio) od offese (sovente per imitazioni servili a ciò che si pensa ipermoderno, cioè futuro).
Né i rinnovamenti in corso in Italia promettono di più. A Milano il concorso per la grande centralissima area un tempo occupata dalla Fiera ha visto allinearsi una serie di star internazionali (anche con alcuni ottimi architetti) ma tutti scelti tra coloro che nella loro carriera hanno dimostrato scarsissimo interesse al disegno urbano: anche se la scelta sarà alla fine determinata essenzialmente dall’offerta economica, che a sua volta fisserà difficili condizioni a partire da una alta densità.
Certo la ricostruzione della parte del «Chado» di Lisbona dopo l’incendio è un caso (raro) di rinnovamento architettonico di alto livello civile ma persino la straordinaria tradizione urbana di Amsterdam capace di miracoli come Amsterdam sud, è in gravi incertezze nelle sue decisioni di ampliamento. E l’elenco (almeno per l’Europa) potrebbe continuare. Ciò che sospetto è che non siano tanto le condizioni economiche e funzionali (anche se la speculazione immobiliare gioca un ruolo ancora più importante da quando tra gli speculatori si elencano anche le istituzioni pubbliche) quanto l’assenza di una cultura urbana attiva e di una esigenza collettiva alla ricerca di sé.E’ solo in questo quadro generale che si deve collocare anche il degrado delle periferie: sia quelle interne che quelle esterne, come caso quantitativamente significativo. Di recente sui quotidiani italiani sono comparse molte denunce intorno allo stato sociale delle periferie (ma ci voleva proprio questo orrendo delitto di Rozzano per accorgersene?) ed anche molte accuse direttamente nei confronti dell’ambiente fisico costruito ed anche naturalmente dei progetti degli architetti. Solo l’articolo di Michele Serra pone il problema strutturale della relazione tra bellezza e ragione, o ancora di più tra qualità ambientale e qualità della vita, mettendo in gioco la responsabilità di costruttori, architetti, istituzioni (non si tratta di categorie ma di insiemi internamente molto diseguali) intorno alle questioni che discute. Certo l’ambiente fisico non è tutto ed il modo come esso viene socialmente vissuto, le questioni di sradicamento è radicamento, di povertà, di dissociazione sono assai più ampie: ma cominciamo almeno dal problema architettonico con tutti i suoi limiti.
L’articolo di Serra è comparso sullo stesso numero di Repubblica su cui si annuncia, in una piccola nota, che dopo una trentina di anni di dimenticanza, l’amministrazione di Palermo si è accorta che al quartiere Zen mancano i servizi principali e vorrebbero provvedere.
Poiché il quartiere Zen di Palermo (insieme con il Corviale di quel bravissimo architetto che fu Mario Fiorentino) è ormai da molti anni sotto accusa come luogo esemplare del degrado, è necessario parlarne. La sua storia è esemplare come appunto storia di degrado (rimando per chi volesse conoscere i dettagli al bel libro scritto da Andrea Sciascia sull’argomento). Il concorso vinto nel 1969 restò congelato per contrasti speculativi per qualche anno (sindaco Ciancimino). Poi si cominciò a costruire avendo cura di estromettere i progettisti da ogni possibilità di controllo. Vennero costruite in parte solo alcune «insulae», come erano stati definiti gli isolati di 3-4 piani (niente «grattacieli senza vanità», come si vede) che cercavano di proporre insiemi comunitari di scala inferiore al quartiere. Erano previste in progetto due scuole, un centro di servizi e negozi, un centro sportivo e un gruppo di edifici per attività artigianali o di lavoro organizzato. Niente di tutto questo fu mai eseguito. Gli aventi diritto trovarono gli alloggi già abusivamente occupati e per quasi venti anni non funzionarono né le fognature, né gli altri servizi tecnici indispensabili, per non parlare naturalmente del verde. Ad un certo momento una delle insulae venne incendiata e abbandonata, e così è rimasta. Le uniche due insulae costruite e felicemente abitate sono chiuse da cancelli per difendersi dalla piccola criminalità. Le condizioni abitative offerte dal progetto erano infinitamente migliori di gran parte del costruito a Palermo durante gli ultimi 50 anni, ma niente resiste all’abbandono. Provate ad immaginare una villa palladiana abbandonata, senza servizi ed abusivamente occupata da persone senza mezzi per un ventina d’anni.
Qui a Londra (da dove scrivo) ho visitato ieri, a distanza di più di vent’anni, due quartieri popolari, Roehampton ed il Golden Lane, che hanno avuto fortune sociali molto differenziate. Il primo, costruito dagli architetti del soppresso (dalla signora Thatcher) London County Council nei primi anni Sessanta e nell’oggi odiato stile razionalista, ha avuto una vita felice e ben gestita, il secondo, disegnato dai bravissimi architetti Alison e Peter Smithson alla fine degli stessi anni, è stato abbandonato a sé stesso, non finito, occupato da abusivi e costante teatro di delitti. Oggi, risistemato, completato e razionalizzato, presenta opportunità abitative di una qualità assai superiore alla media della periferia londinese.
Tutto questo non vuole scagionare le colpe degli architetti, che sono molte, proprio nell’ambito delle responsabilità specifiche della costruzione di un ambiente urbano civile: almeno nelle premesse progettuali. Queste questioni, ha ragione Michele Serra, dovrebbero essere pane quotidiano non solo della discussione politica ma delle sue attuazioni perché «quando ci si arrende al brutto si smette di ragionare sulla propria vita quotidiana».
Allora, da dove cominciare? Rozzano, follie, ammazzamenti, crisi sociali. Come al solito si parte dall'emergenza o meglio ci si accorge duramente della quotidianietà del vivere nelle nostre città brutte e piene di padelle rivolte verso l'infinito alla ricerca della falsa felicità.
Mariangiola è scandalizzata, direi incazzata, per le fesserie partigiane e ignoranti che il bischero di turno spara ad alzo zero: è la moda della fase storica alla quale non ci si deve rassegnare e ben fa Mariangiola ad arrabbiarsi, visto il popò di fonte: Milano 2 e dintorni.
Però Serra e lo scritto di Edoardo ripropongono alcuni dei temi che sono stati e rimangono, in quanto non superati, problemi grossi: la spaventosa inciviltà della qualità degli spazi urbani e della città moderna italiana, la pessima qualità delle progettazioni architettoniche ed edilizie.
Qualità: chiave di volta di ogni discorso sull'urbanistica e sulla città. Bellezza (altra parolaccia di cui spesso si è diffidato e si continua a diffidare) e qualità che non siano il casale in Umbria e in Maremma, dice Serra, ma tratti correnti dell'agire.
Insomma: si può vivere bene nelle nostre città, possiamo tutti aspirare a una qualità che non sia solo lo slogan di un convegno ? Abbiamo o no diritto a vivere bene dentro e fuori la casa dove abitiamo, anche se non c'è la piscina e non c'è la vista sulle colline di Montemerano spruzzate di oliveti e rigate dalle viti? Possiamo aspirare a vivere in spazi cittadini un pò più civili ed europei, in cui forse anche il bello ha un suo ruolo riconosciuto, o dobbiamo rassegnarci al bel vivere all'italiana ? Perchè se è vero che le Milano 2 sono speculazioni e se è vero che sono indirizzate a precise domande abitative espresse dai redditi alti, se è vero che i quartieri sorti negli anni del boom edilizio a Roma e nelle città italiane, quelli dei palazzinari d'assalto, hanno densità indiane e sono rivolte al ceto medio, è anche vero che spesso la qualità urbanistica ed abitativa dei quartieri e dell'edilizia residenziale pubblica sovvenzionata, in Italia è veramente oscena. Rozzol Melara a Trieste, tanto per dire un caso bestiale. Farci un giretto fa inorridire: mi sono sentito in colpa quando l'ho visto.
Colpa dei "comunisti" ? Colpa degli "urbanisti comunisti" ? Colpa dell'urbanistica ? Responsabilità, errori, si non c'è dubbio.
Basta pensare contro quale difficoltà culturale ci si scontra quando si parla di spazi urbani: si va dall'arredo (panchine, segnaletica, lampioni, pavimentazioni, cestini, ecc.) che comincia a vedersi spesso con esiti incerti e cialtroni demandando alla panchina la soluzione facile delle indicibile falle delle nostre città, alle strade residenziali che non sono solo una soluzione viaria dei vigili urbani ma sono vere pianificazioni urbanistiche di dettaglio e progetti di intervento mirati ad elevare ed a recuperare la qualità e anche la bellezza dei quartieri attraverso il restauro ed il riuso dello spazio urbano aperto. A Udine in questi giorni l'Amministrazione comunale ha programmato ben dieci aree urbane cittadine da trattare come le strade residenziali olandesi mediante specifici piani particolareggiati di iniziativa pubblica. Tre sono quasi pronti. Si tratta di un passo culturale significativo nel verso di una ricerca ed attuazione di qualità e di bellezza.
Certo: l'esigenza di dare risposte alla fame di case si è rivelata una facile scorciatoia dove il concetto di bellezza e di qualità apparivano fronzoli, sovrastrutture borghesi. E' storia del nostro Paese, è storia di noi italiani. Ma mi pare così elementare e civile convincersi che il diritto alla bellezza ed alla qualità urbana non ha limiti di censo.
Certo le sentenze sui vincoli si sono rese corrresponsabili dei risultati anche della qualità urbana. La ricerca delle economie di scala (vi ricordate del tunnel ?) nella ERP pure. E il facile falso egualitarismo che è la perequazione non credo che porterà tanto lontano. Però una certa cultura - i falainsteri, per gli altri - dell'architettura e dell'urbanistica ha avuto un peso rilevante, ha in qualche modo legittimato svariati scempi. Rozzol Melara a Trieste, come accennavo prima, e non solo. Certe schifezze a Roma, a Genova, a Napoli, certi quartieri a Bologna, a Palermo, ovunque. Ce li abbiamo davanti agli occhi quotidianamente, purtroppo.
Quante volte la bellezza è tutt'ora oggetto di battaglie perdenti in Italia ?
Forse in fondo noi italiani preferiamo interessarci della bellezza del tavolo nel tinello di casa nostra, ma se sul portone del palazzo dove abbiamo la nostra casa c'è una merda di cane, ce ne freghiamo e la lasciamo lì: il portone mica è nostro.
Concludo questi piccoli ragionamenti. Eccome se c'è della responsabilità nella cultura architettonica e urbansitica italiana, così come c'è nella politica e nell'economia che hanno sancito la costruzione delle città italiane, perlomeno nel secondo dopoguerra. Che poi l'ignorante di turno scarichi le oscenità delle città italiane sulle spalle dell'urbanistica è una provocazione che va rigettata. Come se le amministrazioni locali democristiane in primis, i costruttori, le banche e il capitale, i proprietari fondiari fossero estranei. Il blocco edilizio evidentemente per costui è un mattone forato. Povero strullarello: ma chi vuol prendere per i fondelli. Se ne stia nella sua Milano 2 che in Maremma non lo vogliamo.
Caro Eddy, due o tre veloci considerazioni sulle periferie, cominciando dal tuo giudizio, francamente troppo sbrigativo [vedi link in calce-ndr], sugli "errori" delle Vele, dello Zen, di Corviale. Anche tu cadi nel tranello di attribuire a certe soluzioni architettoniche, o addirittura a certi architetti, responsabilità che appartengono invece al modo in cui quei quartieri sono stati gestiti. Ti ricordi la parola d'ordine che accompagnava le grandi manifestazioni popolari (e le grandi speranze di progresso e di riforma) della fine degli anni Sessanta: "la casa come servizio sociale"? Fummo tutti impegnati nel tentativo di trasformarla in pratica sociale. Ci hanno provato anche alcuni architetti, fra i migliori che hanno operato in questo paese. Le Vele, lo Zen e Corviale sono una generosa configurazione architettonica di quella parola d'ordine. Io sono d'accordo con te che la residenza ordinaria dev'essere tessuto e non monumento, eccetera, eccetera. Ma non credo che questo convincimento possa essere imposto per norma. Finiremmo nell'estetica di stato. In altre società e in altre epoche la "monumentalizzazione" della residenza ordinaria è andata a buon fine. E anche a Napoli, a Palermo e a Roma le cose potevano andare diversamente se non fosse successo che i tre quartieri di cui parliamo sono stati, tutti e tre, oggetto delle più selvagge e criminose occupazioni abusive che si ricordino. Gli edifici furono sistematicamente vandalizzati. Nelle Vele, alte fino a 15 piani, non sono mai entrati in funzione gli ascensori. Per lustri è mancata acqua e luce. Per non parlare di quello che succedeva tutt'intorno, terra di nessuno dove, tra l'altro, non sono mai state realizzate le urbanizzazioni previste. E dove prosperavano delinquenza e malavita. Nell'inerzia, talvolta peggio, dei pubblici poteri. Franco Ferrarotti ha scritto che il "serpentone" di Corviale resta un monumento all'insipienza di chi ha scambiato i valori collettivi con la mancanza di rispetto per i diritti individuali. E' una belle frase, ma è sbagliata. Mi pare che negli ultimi anni a Corviale abbia infine prevalso la ragione e il quartiere è adesso avviato a diventare ordinario. Penso che fra dieci anni possa essere, come pensavano Mario Fiorentino, Gino Petrangeli e altri, un quartiere modello. Non so niente dello Zen. Potrei scrivere a lungo, e in parte l'ho fatto (cfr. Napoli, cronache urbanistiche, Baldini e Castoldi) delle Vele. Lì era stata scelta la strada della demolizione, accompagnata da un'insopportabile retorica sul piccone risanatore. Scampìa, è un mostro istituzionale. E' addirittura una circoscrizione di Napoli, 30 - 40 mila abitanti (le Vele ne sono un frammento), fatta esclusivamente di edilizia pubblica. Non c'è altro che edilizia pubblica, neanche una casa di edilizia privata, un ufficio, un negozio. Solo edilizia pubblica, di basso rango. In un orizzonte di inverosimile povertà, con la disoccupazione al 60 per cento. A che serve demolire le Vele, se non si trasforma radicalmente il contesto? E' quello che abbiamo cercato di fare, portando a Scampìa l'università (nelle Vele), la metropolitana, importanti uffici pubblici e privati, anche residenze di iniziativa privata. Ma nessuno ha saputo sottrarsi, da Bassolino in giù, alla soddisfazione della dinamite. Che sarebbe meglio, a certe latitudini, riservare all'abusivismo. Par non fare un polverone che confonde il brutto (presunto) con l'illegale.
Ancora due parole sulla questione delle periferie. Secondo me, chi si occupa di governo del territorio, deve partire dal fatto che, delle tre funzioni essenziali di un sistema urbano - abitare, lavorare, consumare - le ultime due nelle periferie mancano, o sono assolutamente marginali. Per quantità e qualità. A Firenze, gli abitanti di giorno (popolazione reale o city users) sono il doppio dei residenti ufficiali. Nella periferia di Napoli ci stanno il 45 per cento dei residenti e solo il 32 per cento dei posti di lavoro. Rispetto alla provincia, a Napoli si concentra un terzo della popolazione e il 51 per cento dei posti di lavoro. Nella media delle grandi città italiane, per ogni pendolare che esce dal capoluogo, ne entrano 4,5. Quando esisteva l'urbanistica, si cercava almeno di correggere questi difetti (ti ricordi lo Sdo?). Adesso, con il rito ambrosiano e simili, la polarizzazione centro-periferia sarà sempre più esasperata. Sempre per colpa dei comunisti. Che portano sfiga.
Un'ultima telegrafica osservazione riguardo al disegno di legge del ministro Urbani sull'architettura di qualità. Te ne sei già occupato. Ti immagini che può succedere se si determina una contaminatio con la questione delle periferie. Bisognerebbe ricordare quel che ripeteva Cederna e cioè che la buona architettura nasce solo dalla buona urbanistica.
Lo sapevate che delitti come quello commesso a Rozzano, nella cintura milanese, in cui hanno perso la vita quattro persone, fra cui una bambina di due anni, sono conseguenza, fra le altre cose, di "un'urbanistica di stampo sovietico" che ha operato in Italia negli scorsi decenni? Lo sapevate che quei pericolosi urbanisti sovietici hanno avuto l'idea di costruire luoghi pensati "non per viverci, ma per dormirci"? lo sapevate che è stato "il comunismo" a realizzare le grandi periferie operaie destinate col tempo a trasformarsi in ghetti e covi della criminalità? Ebbene sì, i "comunisti" hanno fatto di tutto, per ottenere questo risultato: quando il "mercato" dava la possibilità di realizzare quartieri-giardino a bassa densità e a basso costo, integrati da servizi plurimi e soprattutto gratuiti, questi "comunisti" hanno voltato la faccia da un'altra parte; perché era la "città sovietica" a stare in cima ai loro pensieri, e per nulla al mondo avrebbero accettato i metri quadri di servizi e di verde, di caserme dei carabinieri e di farmacie, che benevolmente ed ingenuamente - e soprattutto gratuitamente - il povero "mercato" offriva loro.
Ciò è quanto rivela ai lettori ignari di tutto questo e sbigottiti Roberto Caputo, presidente del consiglio della Provincia di Milano in quota Forza Italia, mentre propone ora di procedere alla demolizione (non è crollato anche il muro di Berlino?) di simili scempi ("Abbattete quelle periferie", Repubblica, 25 agosto 2003, articolo di Luigi Pastore). Si suppone perciò che la Provincia di Milano abbia qualche idea in merito al come finanziare le demolizioni, al come affrontare il problema inevitabile dell'alloggio temporaneo degli occupanti (abusivi o meno che siano, e posto che non si vive solo per dormire, questi poveracci da qualche parte dovranno pure trovare un letto), e soprattutto in merito al come gestire le ricostruzioni, e sia pronta in questo senso a tendere una robusta mano ai Comuni...
Del resto, se non sapevate tutto questo, potete sempre mettervi in pari, semplicemente riaprendo il "quaderno" che il Presidente del consiglio recapitò a tutte le famiglie italiane prima delle ultime elezioni politiche, là dove è scritto che il suo "vero" mestiere, fra i tanti, è l'urbanista, e si possono ammirare le immagini lussureggianti ed esotiche scattate lungo fiumi e laghetti di Milano 2. Visto?, era così facile! Ma perché non hanno progettato le "periferie" in questo modo, i "comunisti"?
Rozzano è comune di prima fascia della cintura metropolitana milanese, in direzione di Pavia e cioè nella “Bassa” tradizionalmente agricola. Le singolarità della vicenda della sua urbanizzazione sono motivate da alcune circostanze che, a posteriori, possiamo anche considerare “fortunate”, e cioè:
- la collocazione nella fascia meridionale del milanese, ciò che significa aver subito l’impatto dell’espansione metropolitana solo a partire dalla fine degli anni 50 e dunque quando cominciava a maturare qualche capacità diffusa di apprezzare i problemi politici e urbanistici del controllo delle trasformazioni territoriali, sia da parte dei tecnici che degli amministratori;
- la struttura proprietaria, caratteristica di quest’area di produzione agricola intensiva, e cioè formata soltanto da nove grandi proprietà, ciò che ha reso possibile una gestione dei rapporti tra ente pubblico e proprietà dei suoli estremamente controllata;
- la continuità del governo, rappresentata dall’amministrazione di sinistra dal dopoguerra ad oggi, dalla permanenza dello stesso sindaco dal 1960 al 1985, dalla permanenza dello stesso consulente urbanista dal 1956 al 1977.
Oltre a queste circostanze oggettive ne vanno enumerate almeno altre due, di carattere soggettivo, e cioè:
- la qualità degli amministratori, e in particolare del sindaco, ai quali si devono riconoscere non comuni doti di coerenza, di perseveranza, di onestà;
- la disponibilità di alcuni proprietari, in particolare i primi contattati, che ha consentito di inaugurare una politica di trattative capace di condizionare poi tutti gli altri rapporti in senso positivo.
Queste circostanze hanno formato il quadro favorevole per una vicenda di pianificazione che si è svolta con i caratteri specifici della realizzazione sistematica, concordata e programmata, di politiche predeterminate per il territorio.
Queste politiche, e le singole scelte che le hanno tradotte in pratica, sono senza dubbio valutabili da diversi punti di vista con esiti e giudizi di valore anche diversi e non sempre positivi, ma non vi può essere dubbio sul fatto che si è realizzato sul territorio con notevole approssimazione proprio ciò che si è voluto e scelto. Questa affermazione è tutt’altro che banale, non solo perché avviene raramente nell’esperienza italiana della pianificazione del dopoguerra che vi sia coincidenza sostanziale tra intenzioni dichiarate ed esiti, ma anche perché si è soliti attribuire, nel dibattito teorico, alle politiche di “concertazione” e ai piani convenzionati proprio il limite e il difetto intrinseco di portare ad esiti non controllabili e a processi che si svolgono “a rimorchio” degli interessi privati più estemporanei.
Il caso di Rozzano sta viceversa a testimoniare la possibilità, in condizioni particolari di volontà politica e di disponibilità del campo, di conseguire risultati significativi sotto il profilo della coerenza delle politiche territoriali e urbane. Gli esiti sono stati senza dubbio condizionati dal “contratto”, sia nel dimensionamento che in alcune scelte di merito, talvolta a causa di puri incidenti di percorso, più spesso nella trattativa sul convenzionamento, ma le grandi scelte qualificanti sono state impostate autonomamente dall’ente pubblico e sono state conseguite, come vedremo nel seguito, in modo sostanziale.
Il primo decennio del dopoguerra si configura, dal punto di vista dell’evoluzione del territorio, come un periodo di assestamento e di riassetto delle forme di conduzione dell’agricoltura.
A Rozzano non si sono avuti danni nel conflitto, e dunque non vi sono problemi di ricostruzione, ne si registrano fenomeni migratori che provochino domanda di nuove costruzioni, se non a partire dal 1953 e per modeste entità che tuttavia segnalano l’avvio di un fenomeno in rapida progressione e poi dirompente.
La modificazione più rilevante è dunque quella che si registra nella conduzione dell’agricoltura, e che consiste nell’accorpamento aziendale e nella riduzione degli addetti: le aziende più piccole chiudono a causa delle difficoltà economiche e della impossibilità ad affrontare da meccanizzazione spinta che si impone per garantire la produttività, e dalle 213 aziende del 1930 si passa alle 17 del 1955 con una superficie coltivata pressoché identica (1115 ha sui 1230 ha totali del comune).
A Rozzano esistevano dall’inizio del secolo due aziende manifatturiere, ambedue di trasformazione dei prodotti agricoli, e cioè il Risificio e la Filatura (originariamente dei cascami di seta), ambedue collocate lungo il Naviglio per sfruttarne la corrente come fonte di energia.
La Filatura, installata dal 1865, chiude tuttavia la propria attività nel 1953. Ma già nel 1951 si contavano complessivamente 30 aziende con 353 addetti, in seguito in continuo aumento: nel 1953 si costruiscono tre nuovi fabbricati industriali e a partire dal 1955 i nuovi insediamenti produttivi saranno in progressione continua per diversi anni.
Nel 1954 registriamo la triplicazione dei nuovi edifici di abitazione rispetto alla media dei tre anni precedenti (14 contro 5) , anche questi in seguito in continuo e vertiginoso aumento.
Sono le avvisaglie del fenomeno di ripercussione dell’attrazione del capoluogo milanese, e in partico1are delle difficoltà di reperimento di aree edificabili e dall’incremento del loro prezzo a seguito dell’approvazione ed entrata in vigore (1953) del nuovo Piano regolatore generale di Milano. Le attività marginali (l’artigianato, le piccole industrie, magazzini, depositi, alcune attività di servizio) e la residenza più povera (soprattutto l’autocostruzione dei nuovi immigrati) o escono dalla città per fuggire al ricatto dei prezzi, o meglio ancora evitano di entrarvi fermandosi ai suoi confini.
Il “fermarsi ai confini” è da intendere in senso letterale, perché i primi insediamenti del “vorrei ma non posso” si localizzano proprio sul confine dei comuni contermini, che per Rozzano significa Valleambrosia e Quinto Stampi in corrispondenza delle due arterie di uscita (o di entrata) di Milano, la statale dei Giovi e la via dei Missaglia.
Negli anni 1954 e 1955 sorgono qui trenta fabbricati di abitazione e tre industriali.
Il comune, a questa data, non ha ancora adottato alcuna misura di disciplina edilizia ed urbanistica, e le licenze di costruzione vengono rilasciate in base alle domande senza alcun criterio restrittivo. La proprietà di Valleambrosia è della famiglia Visconti di Modrone (Castello di Cassino Scanasio) che non ha, al momento, particolari interessi nel campo immobiliare, ma ritiene di fare cosa socialmente utile cedendo aree a lotti lungo la strada statale a quanti insistentemente li chiedono per costruirsi l’abitazione: degli stessi criteri di insediamento (di urbanizzazione e di lottizzazione) la proprietà si disinteressa. Diversa è la situazione di Quinto Stampi, piccola frazione in riva al Lambro, dove un tempo sorgeva una zecca (donde il toponimo), le cui aree circostanti sono state acquistate dalla società immobiliare Franchi Maggi che promuove commercialmente la vendita a lotti per residenze e industrie propagandandola in Milano, sulla base di una elementare progetto di lottizzazione predisposto a solo uso interno. Ciò comporta che qui almeno si riservano strade di lottizzazione che non misurano mai meno di m. 6 di larghezza (mentre a Valleambrosia le servitù di accesso ai lotti sono quasi sempre di tre o quattro metri).
L’amministrazione comunale non tarda a rendersi conto che questo modo di procedere rischia di provocare problemi di difficile soluzione a posteriori, e che pertanto si rende necessario disciplinare i nuovi insediamenti con maggiore previdenza e seguendo criteri tecnicamente verificati.
Nel 1956 vengono avviati i primi contatti esplorativi per scegliere la strada più adatta, che sboccano nel 1957 in un incarico per la formazione di un nuovo regolamento edilizio e per la redazione del piano regolatore generale.
La scelta del Prg, rispetto al più economico Programma di fabbricazione, è motivata da due ordini di considerazioni: una strategica, consistente nella più ampia e indiscutibile potestà operativa su tutto il territorio comunale, molto rilevante in un caso in cui i punti critici del territorio erano proprio quelli più periferici; l’altra tattica, consistente nella maggiore autorevolezza ed efficacia derivante anche dalla recente introduzione della normativa di salvaguardia, e quindi nel maggior potere contrattuale che il comune immediatamente acquisiva nei confronti dei privati con la forza di un’elaborazione di Prg in corso. La consapevolezza circa il percorso che si sarebbe dovuto e voluto seguire era dunque ben presente fin dall’inizio dell’operazione.
La scelta di questo percorso, sinteticamente definibile forse col termine “contrattazione guidata”, era a quell’epoca motivata dalla particolare situazione di debolezza della strumentazione urbanistica sul terreno giuridico, a causa della sperimentata inefficacia degli strumenti attuativi in carenza di norme specifiche per l’espropriazione; i tentativi di applicazione dei piani particolareggiati di attuazione a Milano non potevano essere considerati incoraggianti, visto l’estenuante contenzioso che mettevano in moto.
L’obiettivo di una riforma della legislazione urbanistica non era neppure all’orizzonte, anzi non era ancora proposto dato che appena ci si muoveva con impaccio nelle prime esperienze di applicazione della L. 1150/1942, rimasta inapplicata a causa della guerra fino al 1945, e poi sciaguratamente sospesa dalle procedure straordinarie dei piani di ricostruzione per diversi anni.
Per gli urbanisti impegnati nella commissione tecnica della Lega dei comuni democratici della Provincia di Milano, il problema prioritario era quello di rafforzare e aumentare il potere contrattuale dell’ente pubblico rispetto ad una aggressività degli interessi immobiliari che già cominciava a manifestarsi ed era sicuramente destinata ad aumentare. La minaccia del ricorso a un Prg molto vincolante e dotato di misure di salvaguardia è l’arma forte e l’unica, nelle mani della pubblica amministrazione, e viene tenuta in serbo, pronta per l’uso in caso di necessità: nel frattempo si pongono le basi delle scelte territoriali con uno schema-guida per il piano, che subisce gradualmente le specificazioni (ed eventualmente le modifiche compatibili) derivanti dal progressivo perfezionamento di convenzioni con le proprietà intenzionate alla trasformazione urbanistica.
Questo criterio di comportamento è adottato contemporaneamente e uniformemente da tutti i comuni aderenti alla Lega, ma solo a Rozzano perviene a risultati così globali per le ragioni oggettive e soggettive citate al paragrafo precedente.
Quando nel 1957 viene approvato l’incarico per il Prg e l’operazione viene avviata, Rozzano conta 3659 abitanti, dunque ha già subito un incremento del 35% rispetto ai 2712 del 1951, e tra il 1954 (primo anno di attività edilizia sostenuta) e il 1957 si sono costituiti 60 edifici di abitazione e 18 industriali. Oltre a Valleambrosia e Quinto Stampi l’incremento interessa ora anche Cassino Scanasio, primo nucleo preesistente sulla statale dei Giovi uscendo da Milano.
Col sindaco Ambrogio Vidè e con la giunta vengono rapidamente definite le linee strategiche del piano, riassumibili nei seguenti punti:
- sviluppo policentrico, al fine di riassorbire e riorganizzare quanto è stato già costruito nelle frazioni e nei nuovi nuclei, e anche per conseguire l’obiettivo dello scostamento dello sviluppo dalla statale dei Giovi.
- freno allo sviluppo continuo lungo la statale dei Giovi, impedendo il congiungimento dei nuclei di Valleambrosia, Cassino Scanasio, Rozzano capoluogo, e valorizzando un nuovo collegamento con Milano via dei Missaglia;
-verifica delle disponibilità intercomunali alla creazione di un collegamento trasversale, in ipotesi da San Giuliano a Corsico, per incentivare relazioni non esclusivamente col capoluogo e comporre un sistema non appoggiato solo sulle radiali;
- salvaguardia del Naviglio Pavese, delle manifatture storiche, del Castello di Cassino Scanasio;
- salvaguardia delle cascine e delle conduzioni agricole per le proprietà che non manifestino la precisa intenzione di abbandono.
Non viene stabilito alcun limite quantitativo allo sviluppo, l’unica vera preoccupazione in questa fase è quella di riuscire realmente a piegare le tendenze spontanee a un disegno alternativo che riguarda la collocazione dei pesi insediativi e la creazione di nuove direttrici di relazione col centro di Milano, tra i comuni della cintura sud, e tra i nuclei di Rozzano.
La decisione politica intorno a queste linee strategiche incontra un solo punto di difficoltà, peraltro determinante e globale, e riguarda il fatto che la scelta policentrica e di spostamento del baricentro dalla Statale dei Giovi comporta una sicura perdita di primato per il capoluogo originario, collocato appunto sulla statale. La preoccupazione non è infondata, tanto è vero che i fatti successivi si incaricheranno di confermare che addirittura la sede comunale dovrà essere trasferita, e al momento della decisione del trasferimento non si incontrerà alcuna difficoltà tanto la cosa è ovvia. Tuttavia la consapevolezza a priori di questa sorte si può capire che determini perplessità, riserve, e addirittura incredulità.
Queste incertezze vengono comunque superate, mentre rimane invece un grosso ostacolo pratico da superare per mettere in moto il disegno alternativo, rappresentato dal fatto che l’allacciamento del territorio comunale all’asse della via dei Missaglia è condizionato, se si prescinde dalla frazione di Quinto Stampi, alla realizzazione di un ponte sul Lambro, opera costosa, assolutamente al di fuori delle capacità di spesa del piccolo comune agricolo.
La via dei Missaglia, in Milano, è tutto quanto resta di un asse nord-sud (Milano-Pavia) perfettamente orientato, probabile prosecuzione esterna del Cardo romano e tracciato originario della strada per Pavia: sul Lambro sono (erano) ancora visibili le tracce dei piedritti dell’arcata di un ponte di mattoni, mentre le divisioni catastali più a sud denunciano la preesistenza di un elemento fisicamente determinato.
Non si conosce il motivo dell’abbandono di questo tracciato, senza dubbio il più breve e rettilineo tra Milano e Pavia, né se ne conosce traccia nella cartografia storica. A prescindere dal vantaggio locale di questo collegamento ai fini dello spostamento delle direttrici di sviluppo, resta il fatto che lo sgravio della statale dei Giovi, già congestionata, dal traffico locale, è provvedimento che comunque si impone. La Provincia di Milano sta procedendo proprio in questo periodo all’inalveamento e alla rettifica del corso del Lambro meridionale, dunque il momento è propizio per la definizione del posizionamento del ponte.
L’opportunità di risolvere questo problema-chiave per tutto l’impianto del piano è offerta dall’iniziativa della proprietà della Cascina Villalta di Pontesesto. Come spesso accade, la successione ereditaria in comproprietà fra numerosi fratelli mette in crisi la gestione aziendale, e la separazione dei diversi interessi si vede conseguibile solo attraverso una vantaggiosa vendita del terreno come area edificabile. Tuttavia in questo caso la posizione non è certo fortunata: è una delle più marginali del territorio comunale, esclusa da ogni via di comunicazione importante; la vicinanza con la frazione Quinto Stampi è puramente geografica, dato che il Lambro rappresenta un valico insuperabile anche per il singolo privato.
Saranno proprio queste condizioni di marginalità a indurre la proprietà a chiedere l’aiuto del comune: si faccia il comune promotore di un progetto per il ponte e relativa strada, e del coinvolgimento dell’altra proprietà, che potrebbe essere interessata anche se non ha manifestato finora alcun interesse immobiliare, cioè la proprietà Gambarone e Cascina Ferrabue. Unendo le forze e le capacità di investimento delle due proprietà si potrebbe coprire la spesa del ponte e della strada, fino al congiungimento col capoluogo di Rozzano, costruendo così l’asse portante del previsto sviluppo alternativo alla strada dei Giovi.
Non esistono sostanziali difficoltà a riconoscere alle due proprietà una quota di edificabilità, dato che ciò coincide con la previsione dello schema-guida, ma naturalmente il problema sarà quello di mettersi d’accordo sulle quantità e sugli oneri di urbanizzazione.
L’introduzione del concetto degli oneri di urbanizzazione a carico dei privati è naturalmente un elemento di grande rilievo, con ripercussioni di livello nazionale su tutto il modo di concepire la gestione urbanistica e sulla legislazione (L 765/67): rappresenta il primo e più concreto e fertile tentativo di spostare una parte della rendita immobiliare dal privato al pubblico, e di consentire ai dissanguati bilanci dei piccoli comuni dell’area metropolitana di far fronte agli oneri sproporzionati della marea migratoria.
Non è Rozzano il primo comune che applica questi principi, ma San Giuliano milanese nel 1954, sempre nell’ambito dell’attività coordinata dalla Lega dei comuni democratici. Rozzano sarà viceversa il comune dove questa applicazione avrà il carattere più generalizzato e dove il miglioramento progressivo delle condizioni contrattuali realizzerà i risultati più interessanti negli anni tra il 1957 e il 1977, data di adozione del Prg.
La misura degli oneri da mettere a carico dei privati rappresenta logicamente un punto molto delicato e di ardua definizione: siamo ancora lontano dai primi studi validi e convincenti sugli standard urbanistici.
La prima convenzione, relativa come sidiceva ad un area posizionalmente marginale e quindi la meno favorita, si è conclusa con l’attribuzione alla proprietà di tutta l’urbanizzazione primaria (ivi compreso un consistente onere a copertura della metà della spesa del ponte sul Lambro), e con la cessione gratuita al comune di mq. 6 per abitante insediabile per l’urbanizzazione secondaria. Ciò avveniva nel 1958.
Poiché la realizzazione della prima convenzione era subordinata al coinvolgimento dell’altra proprietà interessata al ponte sul Lambro, ben presto veniva conclusa anche questa seconda convenzione con oneri analoghi.
Queste due prime lottizzazioni convenzionate prevedono una capacità insediativa di 18.500 abitanti con mq. 750.000 di area industriale. Con questi accordi alle spalle il comune acquisiva maggiore forza contrattuale anche con le altre proprietà, poiché si profilava con maggiore concretezza l’eventualità dell’adozione di un piano che avrebbe sancito l’urbanizzazione e la lottizzazione a scopo edificatorio di sole aree convenzionate. L’area di Quinto Stampi, per di più, si veniva a trovare in una situazione di mercato modificata dall’apertura del ponte sul Lambro e dalla conseguente offerta di aree edificabili sulla stessa direttrice, di poco più lontano da Milano, e a prezzi ovviamente concorrenziali. In quel momento si era già realizzato più di un terzo delle previsioni sia residenziali che industriali rispetto al programma della società immobiliare, ma senza alcuna previsione di spazi e servizi pubblici.
Non è stato facile costringere questa proprietà a concludere una convenzione, ma alla fine ci si è riusciti nel 1959. Significativamente, in questo caso più difficile e ormai ampiamente compromesso, le cessioni di aree per servizi pubblici ammontavano a soli mq. 3/ab.
A questo punto l’operazione doveva spostarsi e interessare le aree più pregiate lungo la statale dei Giovi (Valleambrosia e Cassino Scanasio), cioè la proprietà Visconti di Modrone, anche queste in buona parte compromesse ma con pessime condizioni di urbanizzazione e pertanto con urgente necessità di recupero urbanistico.
La difficoltà di pervenire a soluzioni accettabili con questa proprietà induceva l’amministrazione comunale ad una manovra di aggiramento e di pressione consistente nell’intavolare trattative con una proprietà confinante (Agricola Alma, tra Valleambrosia e Quinto stampi) senza reali intenzioni di concludere, poiché l’urbanizzazione di quest’area esulava dallo schema di piano, ma solo per ragioni tattiche.
Effettivamente questa manovra otteneva l’effetto di portare a conclusione soddisfacente la trattativa con la proprietà Visconti (aree cedute per urbanizzazione secondaria mq. 2/ab.), ma contro ogni intenzione, a causa di un malinteso con gli uffici del Provveditorato Oo.pp. che avrebbe dovuto respingere la proposta di convenzione con la società Agricola Alma, al termine delle trattative, nel 1960, anche questa convenzione non desiderata si trovava approvata. Questo incidente comportava due effetti negativi, quello di un insediamento in una posizione che espressamente lo schema non prevedeva allo scopo di salvaguardare una penetrazione continua di verde in direzione nord-sud tra l’urbanizzato gravitante sulla statale dei Giovi e quello gravitante sulla direttrice di via dei Missaglia, e quello di rompere l’omogeneità dei criteri di convenzionamento con un contratto nettamente inferiore alla media degli altri.
L’insegnamento che se ne doveva trarre era naturalmente quello di contenere la tendenza ad eccessivi tatticismi nella gestione della concertazione.
Nel 1961 si concludeva anche la convenzione con la proprietà Zanoletti (Rozzano capoluogo e Cascina S. Alberto) portando così a compimento l’intera operazione prevista
Le quantità messe in gioco erano rappresentate da una superficie urbanizzabile di mq. 3.643.900 (30% del territorio comunale) di cui il 50% residenziale e il 50% industriale, da una volumetria residenziale complessiva di mc. 5.838.000 corrispondenti a 58.400 abitanti (valutati allora invece in 45.000 con riferimento ad uno standard di 130 mc./ab.), e da una superficie per usi pubblici (standard urbanistici) ceduta gratuitamente all’amministrazione comunale di mq. 153 mila e 700 pari a mq. 3,4/ab. prev. (mq. 3/ab. per la previsione di 58.400).
Poteva dirsi completamente realizzato l’obiettivo dello spostamento del peso delle nuove espansioni dalla statale dei Giovi verso l’interno del territorio comunale, con realizzazione a carico dei privati di tutti i collegamenti stradali di livello comunale e intercomunale necessari all’intelaiatura dello schema alternativo. Era stato anche conseguito in modo soddisfacente il criterio della salvaguardia delle aziende agricole intenzionate a proseguire l’attività (Ponte Sesto, Bandeggiata, Torriggio e Persichetto interamente; Ferrabue, Cassino Scanasio, S. Alberto in parte sufficiente a garantire la sopravvivenza delle conduzioni).
La salvaguardia del Castello di Cassino Scanasio era pure garantita. Meno integralmente quella del Naviglio pavese e della fascia agricola ad ovest del Naviglio, in parte compromessa da previsioni di insediamento industriale che non si erano potute evitare nella contrattazione. Anche sull’impedimento alla continuità dell’urbanizzazione lungo la statale dei Giovi si era dovuto pagare un pesante scotto (per l’estensione delle lottizzazioni in Valleambrosia, Cassino Soanasio, Rozzano capoluogo), pur riuscendo a salvaguardare alcune importanti pause tra Valleambrosia e Cassino e in corrispondenza della filatura.
L’importanza di questo programma di fabbricazione consiste tuttavia soprattutto nell’aver messo l’amministrazione comunale in una posizione di totale sicurezza nei rapporti con i privati per tutta la fase successiva di realizzazione e di miglioramento del piano. Da tale posizione, da tale base contrattuale consolidata, l’ente pubblico è infatti potuto partire per modificare i patti in senso migliorativo ogni volta che una deliberazione del piano intercomunale o una nuova legge nazionale o regionale hanno potuto creare un motivo o un pretesto per imporre adeguamenti (diminuzione delle capacità insediative, riduzione delle superfici destinate all’industria, aumento delle superfici per usi pubblici, ecc.). Una sola volta si è dovuto in seguito consentire un incremento delle capacità residenziali, ed è avvenuto quando l’intera lottizzazione Ferrabue è stata acquistata dallo Iacp milanese per realizzare un quartiere di edilizia pubblica.
Una singolarità di questo Pdf che vale la pena di segnalare è rappresentata dalla scelta distributiva delle funzioni: se si prescinde dalle localizzazioni industriali a ovest del Naviglio, più subite che volute (e del resto successivamente in gran parte cancellate), il grosso della previsione industriale è tutto concentrato nella fascia verticale centrale del comune in fregio al nuovo asse in prosecuzione della via dei Missaglia e sui due lati di questo asse. Rispetto a questo cuore produttivo, i nuovi quartieri residenziali si distribuiscono al suo contorno con una logica che si può dire rovesciata rispetto all’assetto tradizionale che vede le attività produttive spinte alla periferia (e nei piani dei piccoli comuni quasi sempre ai confini del territorio comunale creando problemi ai comuni confinanti). Tale scelta è conseguenza in parte della necessità di prevedere quartieri residenziali separati (in funzione degli accordi conclusi con diverse proprietà, della necessità di recuperare le iniziative spontanee del dopoguerra, della scelta di spostamento del peso insediativo dalla statale dei Giovi verso l’interno del territorio comunale), in parte della preoccupazione di compattare per quanto possibile le attività produttive per meglio controllare l’impatto morfologico e ambientale, comunque infine conseguenza di un criterio di valutazione delle attività produttive che non le considera più necessariamente come elementi infimi nella costruzione del passaggio urbano.
L’occupazione di territorio è molto alta rispetto allo stato dell’edificazione, nel senso che le previsioni di capacità residenziale e produttiva non hanno alcun riferimento con la dimensione demografica e industriale del comune nel 1963. È ovvio che la logica consiste nel rendersi disponibili per accogliere quote di sviluppo metropolitano e funzioni rilasciate dal capoluogo milanese, e d’altra parte occorre ricordare che la rinuncia da parte di molte aziende agricole alla continuazione dell’attività aveva localmente anche altre motivazioni, diverse da quelle della seducente scelta immobiliare: la redditività negli anni critici tra la fine dei 50 e i primi 60 si era molto ridotta, difficili i rapporti e il reperimento della mano d’opera, costosa la meccanizzazione, ma soprattutto sempre più rara l’acqua utilizzabile per l’irrigazione e l’alimentazione delle marcite, sia per l’abbassamento della falda dovuta agli emungimenti della fittissima urbanizzazione a monte, sia per l’inquinamento dei corsi d’acqua provenienti da nord. Infine, saranno le clausole degli accordi Cee a mettere in crisi la produzione lattiera e gli allevamenti.
È comunque del tutto evidente, alla lettura di oggi, il dimensionamento enfatizzato e l’inadeguatezza degli standard urbanistici previsti nel primo strumento; ma sarebbe ingiusto non rapportarci alla situazione dell’epoca, rispetto alla quale i risultati registrati con quel piano, e ancor più la metodologia intrapresa, rappresentavano una assoluta novità, e una eccezione senza alcun riscontro non solo nell’area milanese ma in tutta 1a nazione.
Occorre infatti ricordare che le preoccupazioni relative al dimensionamento dei piani e all’accorciamento dell’orizzonte di previsione cominciano ad affermarsi solo in seguito ai lavori del Pim (1964) e del Piano intercomunale bolognese (pratica dei piani di minima previsione, 1965), mentre le prime definizioni formalizzate relative agli standard urbanistici sono quelle deliberate dal Pim nel 1967 e quelle del D.l. 2 aprile 1968.
La prima edizione del programma di fabbricazione del Comune di Rozzano corrispondeva viceversa al tentativo, perseguito fino alle estreme conseguenze, di sperimentare e applicare un metodo nuovo di gestione della pianificazione comunale, che facesse i conti fin dall’inizio e in modo aperto e dichiarato con gli interessi privati, affrontandoli sullo stesso terreno delle convenienze e contrapponendovi sistematicamente i conti incontrovertibili delle esigenze della collettività.
Dal 1960 è subentrato nelle funzioni di sindaco Giovanni Foglia, che manterrà 1a carica fino al 1985 e sarà pertanto il protagonista principale delle trasformazioni e dello sviluppo di Rozzano, peraltro validamente coadiuvato dagli assessori dell’urbanistica (prima Salvatore Anile, poi Francesco Blora) e da un ufficio tecnico che accresce il numero e la qualità dell’organico proporzionalmente all’aumento delle responsabilità.
Le responsabilità sono rilevanti, nonostante la relativa sicurezza rappresentata come sè detto dal piano convenzionato. I principali problemi che si propongono nella fase di gestione del programma di fabbricazione sono i seguenti:
- l’intervento Iacp su tutta la lottizzazione Ferrario di Ferrabue;
- la qualità dei piani esecutivi e della progettazione edilizia;
- il rapporto tra incremento delta popolazione e dell’occupazione.
L’inserimento di un grosso quartiere di edilizia pubblica nel contesto delle trasformazioni urbanistiche di Rozzano ha creato non pochi problemi, ma ha anche rappresentato un banco di prova dal quale le capacità politiche e gestionali dell’amministrazione comunale sono uscite complessivamente confermate attraverso alcuni risultati assolutamente eccezionali.
I problemi sono stati determinati: dall’aumento della popolazione prevista (si è passati dalla capacità iniziale della convenzione di circa 10.000 abitanti ad una popolazione doppia, al termine dell’operazione, sia attraverso ampliamenti dell’area edificabile, sia attraverso le minori altezze di interpiano consentite dall’edilizia pubblica, sia attraverso il maggior tasso di affollamento realizzatosi spontaneamente negli alloggi attribuiti in prevalenza a giovani famiglie immigrate); dalla prolificità nettamente superiore alla media e quindi alle previsioni, a causa della giovane età delle coppie insediate, con conseguenti problemi sulle dotazioni di asili-nido e scuole elementari; dalla rapidità dell’intera operazione (realizzata con prefabbricazione pesante), che non ha lasciato il tempo di registrare i problemi, di adottare le necessarie contromisure, e di metterle in esecuzione prima che i fenomeni si manifestassero in termini acuti e patologici; dal livello sociale ed economico delle famiglie insediate, prevalentemente esonerate dall’imposta di famiglia o addirittura bisognose di assistenza economica, con conseguente indebolimento delle già misere capacità finanziarie del comune.
Questi problemi erano stati almeno in parte previsti o intuiti dall’amministrazione comunale fin da quando (1961) la proprietà Ferrario aveva manifestato l’intenzione di cedere una parte prevalente delle proprie aree edificabili allo Iacp di Milano, e infatti attraverso fitte trattative, prima con la proprietà, poi con lo Iacp, poi con lo stesso comune di Milano, si sono chiesti e ottenuti impegni, assicurazioni e garanzie intorno ai seguenti temi: contemporaneità della esecuzione della parte privata, prevalentemente commerciale, rispetto a quella pubblica; reperimento di aree aggiuntive, rispetto a quelle previste da convenzione, per servizi pubblici, e loro acquisizione da parte dello Iacp; esecuzione a parziale (almeno) carico di Iacp e/o comune di Milano delle opere di urbanizzazione secondaria, e in particolare dell’edilizia scolastica.
Questi impegni sono stati poi, per vari motivi, quasi tutti disattesi, e il comune di Rozzano ha dovuto surrogare col proprio diretto intervento alle carenze sostanziali delle istituzioni responsabili. Ciò ha comportato necessariamente inconvenienti e disagi, soprattutto nella collocazione di alcuni edifici scolastici che hanno dovuto essere sistemati nelle strette maglie del tessuto residenziale, e nel ritardo di approntare delle scuole materne ed elementari rispetto all’impetuoso manifestarsi dei fabbisogni. Ciononostante, lo sforzo compiuto dall’amministrazione comunale per integrare nella comunità locale e nel tessuto urbano questo quartiere monoclasse è stato gigantesco, l’intervento residenziale Iacp è stato letteralmente circondato e integrato al suo interno di interventi pubblici (un parco urbano, un centro polisportivo, la sede comunale collocata al centro del quartiere, per citare solo gli interventi più eccezionali), e alla fine ne è uscito un quartiere certo non privo dei classici caratteri problematici dei quartieri di edilizia pubblica, ma sicuramente il meno ghettizzato tra quelli realizzati nell’area milanese, il più integrato nel contesto urbanistico e sociale.
Il secondo problema, quello della qualità del paesaggio edificato realizzata attraverso la progettazione urbanistica esecutiva ed edilizia, è forse quello che denuncia i risultati più insoddisfacenti. Scontando la pessima qualità degli episodi già compromessi prima dell’intervento di disciplina urbanistica del comune (Valleambrosia e Quinto Stampi), e i limiti oggettivi di un’operazione pur unitariamente progettata come quella del quartiere Iacp (limiti in gran parte insuperabili dati dalla tipologia bloccata del sistema di prefabbricazione adottato), sulle parti restanti l’effetto della pur richiesta progettazione urbanistica a livello di dettaglio (planivolumetrico) è stato sicuramente assai scarso e parziale. Una parte dell’edificazione ha seguito la logica dell’intervento privato sul singolo lotto, gli stessi piani di dettaglio approvati sono stati spesso realizzati solo in parte e poi assoggettati a modificazioni che li hanno privati del necessario senso di organicità dell’insieme, e in definitiva gli episodi di corretta costruzione dell’immagine urbana e di una identità riconoscibile sono dimensionalmente assai limitati tanto da apparire quasi casuali.
Il terzo problema ha rappresentato a lungo una grossa preoccupazione per l’amministrazione comunale, poiché si è potuto ben presto verificare, nel corso dell’attuazione del piano, che all’abbondanza di disponibilità di aree per l’industria e l’artigianato (destinata a contenere il fenomeno della pendolarità nei confronti di Milano) non corrispondeva un adeguata offerta di posti di lavoro, e ciò perché una parte consistente delle superfici disponibili veniva occupata da volumi non direttamente produttivi (magazzini, depositi, stoccaggio di prodotti e merci di provenienza esterna). Nel periodo che stiamo considerando, cioè fino alla fine degli anni ‘70, l’occupazione nell’industria aveva nettamente la prevalenza, l’esplosione del terziario avverrà sostanzialmente negli anni dal 1978 in poi, dunque le preoccupazioni di politica economica locale riguardavano prevalentemente il settore manifatturiero.
Gli addetti all’industria in Rozzano, che erano 374 nel 1951, diventavano 1968 nel 1961 e 4256 nel 1971; con incrementi notevoli che tuttavia rimangono sproporzionati all’incremento degli attivi (rispettivamente a 1007, 2337, 8672). Lo scarto tra addetti e attivi se si considerano insieme tutti i rami occupazionali è di 1088 unità nel 1951, scende a 770 nel 1961, e aumenta a 7690 nel 1971, e di queste ultime 4416 sono unità relative al settore industriale.
Ciò che si verifica a scala metropolitana e nazionale è che ormai la dislocazione delle attività produttive (anche quelle costrette ad abbandonare l’insediamento dentro alle città principali) non segue più la logica del passo più certo possibile (l’uscita dalle città verso la cintura, o la collocazione più vicina possibile alla città), ma si distribuisce indifferentemente nel territorio con preferenza per le zone meno dense e più isolate. Viceversa continuano ad avere interesse alla collocazione esterna, ma vicina, i depositi relativi ad attività commerciali e terziarie che nella città già rappresentano i settori di più intenso sviluppo.
Le possibilità di manovra dell’amministrazione comunale riguardano le eventuali restrizioni nelle destinazioni d’uso della normativa urbanistica del regolamento edilizio, peraltro difficilmente controllabili oltre che giuridicamente fragili a livello di programma di fabbricazione. Qualche risultato si ottiene caso per caso con la trattativa diretta con le proprietà, ancora una volta, mentre si profila nella seconda metà degli anni 70 l’incremento dell’occupazione locale nel terziario, che non risolve il problema della pendolarità passiva ma arricchisce il quadro occupazionale e introduce una valenza di pendolarità attiva che comunque riduce la subordinazione e fa rientrare anche Rozzano (anche i comuni del sud-Milano) nel sistema policentrico metropolitano.
Tutto il periodo che stiamo considerando (1963-1977) è contrassegnato da un continuo, operoso lavorio di miglioramento e di adeguamento della strumentazione urbanistica alle nuove condizioni socioeconomiche e legislative, portando avanti con coerenza la pratica della concertazione.
Che si trattasse di una prassi gestionale e non di una definizione una tantum è dimostrato dall’andamento degli anni successivi all’adozione del Pdf: dal 1963 al 1973, in dieci anni, sono state approvate quattro varianti al Pdf, ognuna delle quali ha portato un sensibile miglioramento al quadro precedente, ognuna rispecchiando sempre non un insieme di intenzioni o di vincoli deliberati dal comune, ma al contrario il risultato già consolidato di accordi perfezionati con le proprietà convenzionate.
L’applicazione sistematica e rigorosa di questa prassi e la progressiva imposizione agli stessi privati convenzionati di convenzioni integrative per il miglioramento dei parametri e l’adeguamento alle nuove disposizioni di legge, hanno permesso di affrontare a Rozzano un incremento di popolazione di undici volte in vent’anni (da 3260 a 36.000 abitanti circa) con pieno controllo delle fasi di urbanizzazione e con permanente soddisfacimento, in tutte le fasi, delle esigenze di incremento dei servizi e delle attrezzature pubbliche essenziali.
Qualche difficoltà si è registrata in alcune fasi nel settore dell’edilizia scolastica, dovuta esclusivamente al fatto che non poteva essere previsto un tasso di popolazione in età scolare così alto come quello che si è registrato negli anni successivi al massiccio insediamento di giovani coppie nel quartiere Iacp, e a questa anomalia si è dovuto far fronte anche con soluzioni di emergenza come l’istituzione di aule in locali d’affitto, e con aule ricavate adattando spazi destinati ad usi speciali nei nuovi edifici scolastici.
[...]
La prima variante (1967) aveva sostanzialmente lo scopo di adeguare lo strumento agli standard urbanistici proposti dal Pim, di inserire l’area commerciale relativa al Centro assistenza Fiat, di inserire il tracciato della tangenziale ovest, e di incrementare l’area residenziale a disposizione dello Iacp.
La seconda variante (1969) aveva lo scopo di adeguare lo strumento alle norme e agli standard della L.765/67 e del D.l. 2 aprile 1968, ottenendo contemporaneamente una riduzione della capacità residenziale e un incremento delle dotazioni di aree pubbliche. Tutte le aree così vincolate, ripetiamo, venivano gratuitamente cedute al comune progressivamente e parallelamente all’incremento insediativo, sulla base di atti di adeguamento delle convenzioni originarie.
Una terza variante (1972) aveva lo scopo di reperire aree adeguate per l’insediamento degli asili-nido in corrispondenza con un piano regionale di finanziamenti destinati a questo tipo di attrezzature. La quarta variante (1973) aveva lo scopo di reperire nuove aree per l’edilizia scolastica per far fronte a necessità imprevedibili, derivanti dall’altissimo tasso di natalità della popolazione insediata nel quartiere Iacp, e per destinare gli spazi necessari al centro scolastico superiore deliberato dall’amministrazione provinciale.
Una quinta variante (1974) aveva lo scopo di declassare dalla destinazione industriale a quella per attrezzature di allevamento intensivo una vasta fascia compresa tra la statale dei Giovi e l’autostrada dei Fiori conformemente ad una raccomandazione Pim relativa all’eccesso di superfici destinate all’industria in tutta la sub-area 7.
Nel 1976 è stato adottato il primo programma pluriennale di attuazione (Ppa).
Una sesta variante è stata proposta nel luglio del 1977 esclusivamente per alcune modificazioni normative, mentre contemporaneamente veniva adottato un piano di applicazione della L. 167/62 e una variante del Ppa.
La coerenza e la chiarezza di obiettivi della politica urbanistica condotta dall’amministrazione comunale di Rozzano, della quale le varianti al Pdf rappresentano solo le tappe formalizzate, ha consentito di controllare un ritmo di urbanizzazione impetuoso con risultati eccezionali per quanto riguarda la struttura urbana e il livello delle dotazioni pubbliche, realizzate e non solo previste nei piani.
Ciò non significa che non vi siano state difficoltà, problemi, sfasamenti tra manifestazione dei bisogni e loro soddisfazione: significa solo che non vi è mai stata carenza di iniziativa da parte dell’amministrazione comunale, né incertezza di comportamento.
5. 1977-1985: la gestione del piano regolatore generale
L’adozione del 1977 del piano regolatore generale rappresenta, come si vede, il coronamento di un lungo periodo di impetuose trasformazioni socio-economiche e di aggiustamento dellla strumentazione urbanistica e dei contratti con le proprietà, ed anche la conclusione di questa fase che raggiunge un grado di assestamento e di consolidamento dei risultati che per l’appunto consente di essere rappresentato e istituzionalizzato in uno strumento di maggiore autorità. Il Prg viene elaborato alla scala 1:2000 (per la prima volta a Rozzano), quindi con un grado di dettaglio e di precisione che non poteva essere raggiunto da precedenti Pdf, tuttavia non rappresenta solo la bella copia e la versione definitiva dei precedenti strumenti, perché contiene anche importanti elementi di novità.
Rispetto alla situazione regolata dal Pdf, ciò che si è voluto ottenere con l’elaborazione del Prg è riassumibile nei seguenti termini:
a. formulazione integralmente nuova della normativa, sia per adeguarla alle nuove disposizioni della legislazione regionale e nazionale, sia per renderla più chiara, più semplice, e più adatta alle mutate esigenze locali, per riflettere cioè una situazione nella quale diviene prevalente il già edificato rispetto alla nuova edificazione;
b. indagine puntuale su tutte le aree e su tutta l’edificazione compresa nelle zone A in modo da pervenire a prescrizioni specifiche per la pianificazione esecutiva e per gli interventi diretti;
c. miglioramento e riorganizzazione urbanistica delle zone edificabili residenziali di espansione onde conseguire un miglioramento complessivo della qualità dell’ambiente urbanizzato;
d. revisione, verifica e riclassificazione di tutte le aree a destinazione pubblica, e recupero di nuove aree pubbliche nell’ambito dell’edificato per una più capillare e articolata distribuzione degli spazi pubblici;
e. revisione del disegno e del calibro delle principali comunicazioni stradali, per renderle funzionali ai principali collegamenti e spostamenti pendolari e capaci di ospitare linee di trasporto pubblico adeguate;
f. revisione delle destinazioni specifiche per quanto attiene il rapporto tra attività produttive e terziarie, adeguandolo alle raccomandazioni Pim e alle verificate esigenze di espansione locale del terziario;
g. riduzione delle capacità insediative per quanto possibile, attraverso l’abbassamento degli indici di edificabilità più alti.
Emerge in particolare in questa fase, e con questo strumento, la preoccupazione per la qualità dell’ambiente, non solo come riflesso della contestuale evoluzione del dibattito culturale, ma anche come comprensibile risultato di un periodo in cui i maggiori sforzi sono stati collocati nel controllo dei fenomeni quantitativi che al momento invece cominciano a lasciare maggiore respiro e spazio per la riflessione.
Il Prg produce a questo proposito una disciplina particolareggiata per le zone A, quasi una normativa da piano esecutivo anticipata, che consentirà agevole applicazione degli interventi di recupero. Oltre a ciò, importanti effetti si otterranno con la progressiva realizzazione e attrezzatura delle aree pubbliche, e in particolare delle grandi superfici per il verde attrezzato, mentre occorre segnalare le modificazioni operate nella configurazione dell’azzonamento dell’area di espansione di Valleambrosia (convenzione Alma) che hanno lo scopo preciso di apportare un sensibile effetto di ricomposizione nell’ambiente e nel tessuto urbano della frazione che sono tra i più deteriorati: la compattazione delle zone destinate agli insediamenti produttivi e alla residenza lungo due fasce contigue all’abitato, e la continuità del verde così ottenuto verso il percorso del Lambro, non possono che determinare una configurazione più ordinata e funzionale.
Si è ormai configurata, negli anni di gestione del Prg, una situazione socioeconomica e urbanistica radicalmente diversa non solo da quella che abbiamo descritto per l’immediato dopoguerra, ma anche da quella degli anni 50 e 60. Non è tanto l’elemento quantitativo (l’edificato, l’occupazione del suolo ormai avviata alla saturazione delle pur abbondanti previsioni, la popolazione stabilizzata intorno alle 38.000 unità) che segna l’entità della trasformazione, quanto quello qualitativo: la rilevanza ormai raggiunta dal settore terziario nel quadro economico-occupazionale (dal 1971 al 1981 l’attività nel terziario passa dal 30% al 50% della popolazione attiva), il passaggio ormai definitivamente compiuto di Rozzano dal ruolo di fornitura di servizi elementari per l’area rurale al ruolo di polo in un sistema metropolitano policentrico, un impianto urbanistico nel quale nuclei già principali sono divenuti periferici e parti già marginali sono divenute centrali, una qualità urbana caratterizzata da una dotazione straordinariamente elevata (rispetto alla media provinciale e nazionale) di servizi e di spazi pubblici, e per la quale i residui problemi sono sostanzialmente rappresentati dalla necessità di continuare a migliorare le qualità ambientali attraverso operazioni progettuali e di recupero edilizio ed urbanistico.
In questo quadro registriamo l’adozione nel 1982 dei piani di recupero di Ponte Sesto, Cassino Scanasio, Rozzano ex capoluogo, il primo con prevalente destinazione pubblica, gli altri due con prevalente destinazione residenziale.
Ancora nel 1982 viene adottata una variante al Prg intesa a correggere alcune operazioni d’ufficio della regione in sede di approvazione risultate infondate, mentre nel 1985 viene introdotta infine una variante alla normativa delle zone industriali al fine di consentire insediamenti commerciali.
Qui sembra conveniente concludere questo capitolo relativo al governo delle trasformazioni territoriali inteso come storia del recente passato, poiché ciò che segue è piuttosto attualità e quindi oggetto di diverse considerazioni che attengono alle prospettive di evoluzione.
Gli spari di Rozzano fanno da innesco, sui giornali, a una faticosa e circospetta discussione sulle condizioni di vita nelle periferie urbane. È una discussione che ci coglie alle spalle, come certe rimozioni di dolori e disagi passati e irrisolti che riemergono da uno strato (inutile) di dimenticanza.
Già "periferia" è un termine anacronistico, da evo dell’industria, da padri e nonni inurbati a affastellati ormai mezzo secolo fa, come pezzi da immagazzinare, in tragici palazzoni che erano e sono grattacieli senza vanità, tristi parodie involontarie del lucente orgoglio dei centri direzionali e delle sedi del potere aziendale. Ma anche «condizioni di vita», o peggio ancora «qualità della vita», è un concetto che ci suona decrepito, e che maneggiamo con imbarazzo: perché ci rimanda diritti a un evo scomparso, quello nel quale i modi del vivere, dell’abitare, del lavorare, vennero tutti radicalmente messi in forse, e rivoltati alla luce critica dell’ideologia e delle utopie sociali.
Finita malamente e amaramente quella stagione, è come se le risposte sbagliate (perché brusche, e presuntuose) avessero condannato all’oblio anche le domande giuste. Tra esse, quella fondamentale era se fosse non solo accettabile, ma perfino possibile vivere nello squallore smemorato degli alveari periferici, deportati dai propri luoghi d’origine, scissi dalle proprie radici e impossibilitati - fuori dalla fabbrica e dalla politica: entrambe quasi estinte - a farsene delle nuove. In quel brutto istituzionalizzato galleggia oramai la seconda o terza generazione postoperaia, che neppure in lustri e lustri di panni appesi, e tanto meno grazie all’addobbo delle antenne paraboliche, è riuscita a trasformare quei depositi umani, quelle rotonde d’asfalto, quegli affacci sul nulla in identità sociale, in spirito di comunità, insomma in solida vita collettiva e in prospettiva di futuro.
C’è una domanda semplice semplice che ogni persona di questo paese, se in regola con la propria coscienza o almeno con la propria intelligenza, dovrebbe porsi: ma io vivrei lì, in quel clima sociale, con quel paesaggio davanti alle finestre? Attenzione: pur essendo una domanda morale, oltre che logica, non è quasi più posta, perché in quanto morale (e in quanto logica) puzza di altruismo, di preoccupazione sociale e di altri vizi oggi molto malvisti, e radunati a mazzo nella malapianta del "buonismo" ipocrita. Cioè: chiedersi se siano tollerabili le condizioni di vita di milioni di italiani, e chiederselo a partire da una strage insieme occasionale e endemica, è diventato un esercizio retorico degno di spregio. Indicare la bruttezza massificata, e la massificazione abbruttita (nelle città, in televisione, nelle vacanze ingorgate, ovunque) come matrice, o almeno una delle matrici, dell’infelicità e della violenza, è diventato un esercizio snobistico, da pensatore satollo e viziato, con casa in Umbria o in Maremma. Viceversa il classismo definitivo e feroce di chi depone la questione tra quelle insolubili (si sa, la società di massa è questa, non tutti possono abitare in Umbria o in Maremma) passa per realistico, e non ipocrita, e politicamente sapiente.
Più sapiente (per fortuna e per disgrazia) è però la realtà delle cose. Che costringe a infilare le telecamere, come in un viaggio a ritroso nella sostanza originaria del nostro vivere, nel dedalo informe dei suburbi della inutilmente ricca Lombardia, che vista dall’alto, dal cielo sopra Milano, è una immensa gettata di stradoni e case, capannoni e villette che si arrampica fino alle Prealpi, con la stessa precaria e misera ostinazione di uno sterminato insediamento post-terremoto.
Il terremoto è quello dell’industrializzazione, che in cambio di un benessere minimo ha devastato l’anima dei luoghi e delle persone. Siamo ancora lì, dopotutto e nonostante tutto, siamo al paese contadino che ha dovuto concentrare in pochi decenni quasi due secoli di trasformazione industriale deportando mezzo Meridione (l’industrializzazione forzata è stato il nostro stalinismo), e lo ha fatto in fretta e malamente, stravolgendo il senso di un abitare antico e coeso, fatto di borghi, di piazze, di trattorie e caffè.
Gli stranieri stanno comperando gli ultimi lembi di Italia centrale, i più intatti e vivibili, perché il censo e la cultura fanno loro da bussola. Da noi è accaduto che il censo, e l’ansia di conquistarlo a passi veloci, abbia reso la cultura (e le radici, e la coscienza di vivere in un paese che fu il più bello del mondo) una zavorra. Piccole élites nazionali condividono con il ceto medio europeo colto e abbiente la ricerca della sobria bellezza italiana, arroccata nelle piccole città e nelle splendide campagne. Per le masse, che pure da quei borghi e da quelle campagne hanno preso l’abbrivio, ci sono, ieri e oggi e sempre, le periferie delle metropoli, quelle che già Pasolini (quarant’anni fa) batteva cercandone inutilmente il cuore, e il nerbo umano.
Ma il discorso su bellezza e bruttezza, in un paese come l’Italia, non dovrebbe essere pane quotidiano, anche in politica, perfino in politica? Anche adesso che la televisione ha finito di demolire per bene il discrimine tra i due concetti, non basta Rozzano, povera Rozzano, a farci capire che, quando ci si arrende al brutto, si smette di ragionare sulla propria vita quotidiana? Mica su Giotto o su Svevo: sulla propria vita quotidiana.
Ho letto il testo di Paolo Desideri sulle periferie urbane pubblicato il 18 settembre su Repubblica e vorrei modestamente esporre qualche motivazione a completamento della mia parziale spiegazione dei problemi del quartiere ZEN a Palermo. Le motivazioni che ho addotto delle difficoltà di quel quartiere da me attribuite alla sua realizzazione parziale e senza i servizi previsti non sono poco. Vorrei qui aggiungere anzitutto che a conti fatti, credo, varrebbe ancora la pena di completare il quartiere ZEN, che potrebbe offrire così una condizione abitativa migliore dell´80% di ciò che è stato costruito a Palermo nel dopoguerra.
Belle o brutte poi, le costruzioni delle nostre periferie, nelle attuali condizioni di nessuna politica per le case a basso costo, sono tutte da utilizzare. Personalmente sono contro gli apparenti radicalismi delle demolizioni.
Desideri afferma però che la questione è più « strutturale» (come abbiamo imparato a dire da Karl Marx) e che esiste uno scollamento irreversibile tra i modelli offerti dal moderno per lo sviluppo della città e la cultura abitativa contemporanea. Giusto anzitutto il plurale perché i «modelli» sono molti e diversificati; dalla città giardino all´«unité d´habitation de grandeur conforme» e quindi diversi tra loro come lo ZEN e il Corviale di cui ho il massimo rispetto sia come qualità architettonica che come utopia. Mi pare invece che Desideri individui l´autentico nemico conservatore e passatista, nella pianificazione (flessibile o meno che essa sia) cioè nella costituzione di ipotesi di sviluppo compatibili e di regole da mettere in atto.
Quella che Desideri giustamente definisce «la mediocre utopia liberista» della deregolazione è invece ciò che presiede gli omogenei ed eterodiretti desideri della vastissima classe media. Giusto: anzi forse non ci sono più classi: solo ricchi e poveri, anche se questi ultimi aumentano sempre di più. Forse non si chiamano più proletari ma solo diseredati ma non per questo non necessitano di alloggi, di lavoro, di educazione, di sanità e, per far questo, uno sforzo collettivo, civile va fatto.
No, a me le questioni strutturali non sfuggono affatto; quello che mi sfugge sono le proposte alternative alle tradizioni del moderno; ciò che mi dispiace è che la cultura di architetti ed urbanisti non abbia saputo trovare nuove risposte credibili e durevoli dal punto di vista dell´architettura come da quello del vivere civile.
A meno di considerare una soluzione, una volta rivolto lo sguardo alla città diffusa, la sociologia e l´estetica della constatazione, del dilagare senza regole del costruito, della distruzione del bene finito territorio e della costruzione di un intrico costosissimo di infrastrutture all´inseguimento delle villette.
Dietro gli ideali del movimento moderno vi sono certamente illusioni, utopie e persino ingenuità, ma dietro alla città delle villette vi è solo la resa all´ideologia del soggettivismo postsociale: ci si può sempre arrendere ma penso che sia anche legittimo lottare per la ricostituzione proprio di quella «civitas» che viene invocata alla fine del suo testo.
Liberazione 8 agosto 2003
Cassonetti bruciati e rottami gettati in strada. Famiglie intere che bloccano il traffico. Una rabbia sociale che non si contiene. Sono le nuove barricate di periferia. Nuove trincee contro il degrado in cui versano i quartieri "dormitorio" di alcune metropoli italiane. Il tam tam silenzioso della rivolta contagia gli alloggi dello Iacp di Ostia, del Laurentino 38 di Roma o del S. Paolo di Bari. Da quindici giorni gli undici "ponti" del Laurentino 38 a Roma sono messi a ferro e fuoco. Gli abitanti sono scesi in strada, hanno formato barricate per manifestare contro le condizioni precarie nelle quali sono costretti a vivere. Si protesta per gli ascensori fuori uso da anni, per i rifiuti ammassati lungo le strade e nei giardini, per le infiltrazioni dell'acqua causate dagli scarichi a cielo aperto. Ed i cittadini denunciano una situazione sociale diventata insostenibile. Nella realtà i ballatoi dei "ponti" sono stati murati per farne alloggi abusivi. I nuovi poveri che bussano alla porta dell'Occidente ricco vengono a trascorrere qui le loro nottate dopo una giornata di fatica dedicata ad ingrassare qualche "padrone" dalla pelle più bianca della loro. E allora la protesta potrebbe innescare violenze a non finire. «Stiamo contenendo l'occupazione quotidiana di tanti extra-comunitari - ha dichiarato Salvatore Grilletto, residente al X ponte del Laurentino e rappresentante delle Rdb - Finora abbiamo dato un esempio di tolleranza, ma non vorrei che la situazione peggiorasse. Chiediamo maggiore vigilanza a tutela di tutti». E tre giorni, fa proprio al Laurentino, i residenti del IV e V ponte hanno incendiato i cassonetti e bloccato il traffico. I manifestanti chiedono la riparazione di un ascensore, maggiore pulizia, tutele contro la microcriminalità dilagante, la presenza della polizia. Il Laurentino, come lo Zen di Palermo o il S. Paolo di Bari sembra una polveriera sempre pronta ad esplodere. Analogamente a quanto avvenuto a Scampia a Napoli nel mese di giugno, la rivolta investe anche gli "occupanti della notte". La convivenza con gli extra-comunitari avviene in condizioni di completo abbandono da parte delle istituzioni. E la rivolta del Laurentino ha avuto un suo epilogo. Alle 3 del mattino, proprio al X ponte, si è verificato l'ultimo sgombero forzato. Benzina per dare fuoco ai giacigli della disperazione, ed è stato il fuggi-fuggi. Questi sono i quartieri delle nuove periferie. Enormi, densamente popolati, privi di servizi, nell'insieme paurosi. Che fare allora? C'è chi pensa alla demolizione e chi alla riqualificazione. E la mente va alle "Vele" di Napoli che saltano in aria oppure a "Sorridi città", operazione di capitalizzazione delle facciate del patrimonio immobiliare dello Iacp a Bari. A Roma con il piano regolatore del marzo 2003 si è proposto l'abbattimento degli ultimi tre ponti del Laurentino. Un'operazione limitata che non investe il quartiere nel suo complesso. Meglio allora, come sostiene Rifondazione comunista, dare impulso ai progetti di recupero e di integrazione sociale. Lavoro, istruzione e dignità, anzitutto. Il tam tam della rivolta invoca pari diritti nell'accesso alla vita. Per tutti.
Indagine: caro-abitazione al primo posto tra le spese degli italiani
Casa dolce casa. Corsa all'acquisto dell'abitazione nel centro Italia, e nel nord consumi soprattutto per prodotti non alimentari, mentre cresce la spesa alimentare nel Mezzogiorno anche se cala il consumo di olii e grassi. Tiene la carne anche dopo la paura di mucca pazza ma aumenta il consumo di pesce. Spendono così, gli italiani, secondo l'ultima indagine diffusa da Confcommercio che fotografa gli usi delle famiglie italiane nel quinquennio 1997-2002, evidenziandone le differenze geografiche. Dal borsellino delle famiglie italiane escono ogni mese soldi impegnati per il 24% in spese per la casa, 19,4% in alimenti e bevande, 14,3% in trasporti, 11,1% in altri beni e servizi, 6,8% abbigliamento e calzature, 6,4% mobili ed elettrodomestici, 4,9% tempo libero, cultura e giochi, 3,8% sanità. In questi anni la spesa media delle famiglie è cresciuta dell'8,3% con punte del 15% per le regioni del centro. Inferiore, invece, nelle regioni del sud (6,3%) che peggiorano di oltre un punto percentuale il gap che le separa dal livello medio di spesa familiare degli italiani. E se le famiglie del nord hanno incrementato in maniera significativa (7%) la spesa per i consumi non alimentari, nelle regioni meridionali il comportamento delle famiglie resta di tipo tradizionale ed evidenzia una maggiore attenzione alla spesa per la tavola (10%).
Somiglianze o differenze. Forse è questa l´alternativa o non vi sono differenze senza somiglianze e viceversa? E´ vero e necessario che solo le condizioni estreme siano non solo significative ma addirittura obiettivi a cui aspirare?
Come si scrive ormai da quarant´anni, «oggi il 50% del mondo abita in città, e di questo il 60% si trova in situazioni di periferia esterna, mentre alla fine del XIX secolo solo il 10% del mondo era urbanizzato». Ma si tratta di una città che è però scomparsa (o in via di sparizione) come afferma lo stesso Richard Ingersoll, nell´introduzione del suo nuovo libro dal titolo Sprawltown. Sprawl significa sdraiato, senza forma, ma anche nebuloso, diffuso.
Le quantità sono un fatto ma un fatto che si deve discutere,( vedi l´intervento di Massimo Cacciari di martedì scorso ndr ) anche se sembriamo travolti dall´accelerazione con cui questo è avvenuto e la constatazione di esserne superati ci fa sembrare anche la semplice presa di coscienza dello stato delle cose un obiettivo: persino un obiettivo estetico. Ma forse un mondo molteplice, mobile, senza limite non è il mondo della libertà ma solo il mondo dell´assenza di progetto.
Non vi è solo la resa alle forze inaccessibili «della città generica che è cinicamente utilitaristica, pronta a condonare e senza etica», cioè indifferente ai vincoli, né la risposta è ritorno alla piccola comunità chiusa della città di Leon Krier. Forse le questioni sono tra loro più intricate: permanenze e cambiamenti producono una dialettica più complessa e concreta ma assai più creativa socialmente per l´architettura. La cultura della Grecia antica ha vissuto per secoli in quella romana, quest´ultima ha attraversato il Medioevo costituendone materiale ineliminabile e così via.
Il nuovo è essenziale per le differenze quanto le memorie che ne costituiscono il terreno di costituzione. Il centro storico delle città forse non è solo materiale per le cartoline turistiche e per le attività della popolazione del periurbano ricolma di futuro, ma anche luogo delle identità collettive.
E´ vero: «Gli ingredienti dello sprawl - il turismo, i centri commerciali, le tangenziali, i parcheggi, gli svincoli, i mezzi telematici, le villette, i vuoti - possono apparire brutti, ma anch´essi possono essere indirizzati verso un ulteriore obiettivo di qualità», come scrive Ingersoll ma tutto questo non solo la cultura architettonica non ha ancora trovato i modi per attuarlo ma ci attraversa il sospetto che siano proprio i massimalismi, sia quelli dell´entusiasmo per lo sviluppo senza limiti che quello dell´ideologismo ecologico non meno di quello «neohemait», ad impedirlo. Senza dialettica con il passato non vi è nemmeno progetto di futuro.
La nozione di modificazione necessaria e quella di progetto come dialogo è da molti anni collocata accanto a quella di nuovo come valore: essa non è liquidabile solo come riformista, è il fondamento di un nuovo realismo critico, l´opposto cioè del relativismo empirista (e un po´ cinico) con cui oggi si trasforma la constatazione in valore.
Detto questo, consiglio di leggere con attenzione il libro di Ingersoll, che ha come sottotitolo (che interpreto a mio modo positivamente) "Cercando la città in periferia" come stimolo progettuale, cioè in ogni modo di costituzione di ordine: anche quello che "bergsonianamente" non si vede.
I cinque capitoli che lo compongono, ciascuno commentato con una didascalica sequenza di illustrazioni, cominciano con il descrivere gli estremi della sprawltown non solo come nuova metafora della città ma come inevitabile futuro dell´aggregato-disperso urbano.
Il secondo capitolo è dedicato alla trasformazione dei centri storici a causa del turismo di massa. Nella «città-cartolina» dove il senso civico è perduto, il cittadino ideale è il turista. Peraltro due miliardi di turisti producono quasi duecento milioni di posti di lavoro. E´ al cittadino turista di se stesso che è rivolta l´evoluzione dei centri commerciali che dalla periferia si stanno ritrasferendo nei centri urbani, con una sempre più importante percentuale di coniugazione con gli stessi musei: musei shopping mall.
Questa sostituzione dell´antico centro civico offre sicurezza e sorveglianza in cambio di privatizzazione e si espande come ideologia ai modelli delle aree urbane anch´esse privatizzate: le comunità-club ad ingresso controllato come Las Colinas presso Dallas e, più in piccolo, Milano 2. Anche se la connessione con il tema della sprawltown è più indiretta, è questo il capitolo nel quale più si esercita criticamente Ingersoll.
Poi l´autore si occupa della nuova percezione dell´urbano (anche attraverso la frammentazione della visione dall´automobile anche vecchia di ottant´anni) e vede nel montaggio cinematografico lo strumento adatto a rappresentare la periferia esterna, luogo senza centralità dove tutto è sfondo e figura nello stesso tempo, forse proprio perché, proprio al contrario, la sequenza cinematografica è sommamente e rigorosamente ordinata. Il capitolo successivo è un invito ad utilizzare le infrastrutture come occasioni di progetto, anzi d´arte, «alla ricerca però di readymade urbani» piuttosto che nell´imitazione dei grandi acquedotti romani: anche se non si può negare che i nodi autostradali siano al contempo i simboli della catastrofe ecologica.
Da ultimo Ingersoll paragona la «questione ecologica di oggi» a quella ottocentesca dell´alloggio posta da Engels. Da Ernest Haeckel (il fondatore nel 1866 dell´ecologia) attraverso Rudolf Steiner e poi le attenzioni al problema di Le Corbusier e di «Broadacre City», arriva ai movimenti sociali Usa degli anni Sessanta sino al social forum di Porto Alegre. L´autore ripensa in termini ecologici all´intera storia dell´architettura moderna per arrivare a un´ipotesi dell´agricoltura come componente importante della Sprawltown.
Il testo è pieno di citazioni colte che affondano nella tradizione della modernità e si muove in tutta Europa con i propri esempi e con le differenze e somiglianze tra questa e la cultura nordamericana.
Nell´insieme una felice, positiva contraddizione rispetto al «tutto-futuro» che sembra invece essere la preoccupazione centrale dell´autore.
Condono edilizio,
la Toscana lo disinnesca in due mosse
Una nota dell’Ufficio stampa della Giumta regionale spiega come la Regione combatte il decreto per la promozione dell’abusivismo. Da Prima pagina del 17 ottobre 2003
06/10/2003 - Una legge toscana sul condono edilizio. L'ha approvata oggi la giunta per dare una risposta che non sia solo "in negativo" alla questione della sanatoria sollevata dal decreto del governo. Un decreto che la Regione Toscana si appresta ora ad impugnare davanti alla Corte Costituzionale. Sono questi gli elementi chiave della strategia in due mosse decisa dalla giunta nella sua seduta di oggi, con l'obiettivo di disinnescare l'articolo 32 del decreto di accompagnamento alla Finanziaria 2004 che, a dispetto del titolo che parla di "Misure per la riqualificazione urbanistica (…)" e di "repressione dell'abusivismo edilizio", contiene disposizioni ritenute così pesanti per il territorio da consentire, tanto per fare un esempio, il condono di una costruzione abusiva fino a 250 metri di superficie.
Nel ricorso alla Corte costituzionale, basato sul fatto che la norma governativa interferisce con il potere legislativo concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio, la Regione Toscana chiederà anche la sospensiva del provvedimento governativo, così come faranno altre Regioni di centro sinistra.
In attesa del pronunciamento del massimo organo giurisdizionale, si completerà intanto l'iter legislativo della proposta di legge regionale. Una proposta che trova una sua legittimità nello stesso testo governativo. Nel secondo comma dell'articolo 32 del decreto di accompagnamento alla Finanziaria, infatti, si afferma che lo Stato interviene con il condono edilizio "nelle more" dell'adeguamento della disciplina regionale al testo unico in materia edilizia, approvato nel giugno 2001. In altre parole, lo Stato afferma di dover intervenire perché le Regioni non hanno adottato proprie leggi di adeguamento a quel testo. Ma tutto questo non vale per la Toscana che, unica regione, si è già adeguata dall'estate scorsa, approvando una sua legge edilizia: la numero 43 dell'agosto 2003. E' per questo che, secondo la Regione, le norme sul condono contenute nel decreto governativo sono, in Toscana, inapplicabili. E' questo il principio cardine della proposta di legge approvata oggi dalla giunta e che si compone di due soli articoli. Il primo ribadisce che il rilascio dell'attestazione di conformità in sanatoria (il cosiddetto condono) in Toscana è disciplinato esclusivamente dalla legge toscana in materia di edilizia, la 43 del 2003, appunto. Del testo governativo a poter essere applicate in toscana saranno soltanto le norme che riguardano i profili penali del condono. La legge pone inoltre termini precisi per la sua entrata in vigore, fissandoli fin dal giorno dopo la pubblicazione sul Bollettino ufficiale della Regione Toscana.
Quanto al ricorso, la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi entro sessanta giorni sulla sospensiva della normativa del governo.
Non è la prima volta che l'Italia fa ricorso allo strumento del condono edilizio, strumento peraltro del tutto sconosciuto nella legislazione degli altri paesi europei. Possiamo ricordare il decreto emanato dal governo Craxi nel 1985 e quello del governo Berlusconi nel 1994. In entrambi i casi i provvedimenti furono impugnati davanti alla Corte costituzionale che, pur non dichiarandoli incostituzionali, pose una serie di freni all'utilizzo indiscriminato della sanatoria.
Barbara Cremoncini
1 Premessa
E così, dopo smentite, annunci di emendamenti, polemiche interne e cifre di mirabolanti entità, si è arrivati al triste e ciclico provvedimento volgarmente detto “condono edilizio”.
Prima di sintetizzare i contenuti del provvedimento corre però l’obbligo di articolare qualche semplice riflessione.
Come premessa va detto che il condono edilizio, tra tutti, è il più violento: nei confronti del presente e del futuro. Esso ha, dal punto di vista “morale”, la medesima portata di tutti gli altri provvedimenti in sanatoria, ovvero di atti che premiano i furbi e i disonesti, in favore di chi cerca – nonostante tutto – di svolgere civilmente il proprio “mestiere” di cittadino. Ma, oltre a tale denominatore comune, il condono edilizio lascia un segno indelebile sul territorio, sul suo avvenire e sull’equilibrio dello sviluppo urbano. Tra vent’anni, quando magari anche in Italia ci si vergognerà di frodare le leggi, il condono fiscale sarà ricordato nei testi come una cattiva prassi di quadratura dei conti; quello edilizio, purtroppo, sarà ben presente nella vita di ciascuno, poiché gli scempi non riguardano i bilanci, ma hanno a che fare con i luoghi dove tutti i giorni viviamo. L’aggravante etica è poi quella connessa con il dato – ormai riconosciuto da tutti (o quasi tutti) – che il territorio è una risorsa scarsa e non riproducibile: valorizzarlo è un obbligo, svenderlo un crimine.
Vale poi la pena soffermarsi sul dato numerico, ossia sul fatto che il condono edilizio anche in termini meramente economico-fiscali, non è un vantaggio (e se lo è, ha carattere di brevissima durata) ma un costo per il futuro. È stato annunciato dal governo che l’introito che si vorrebbe garantire all’erario con questa misura dovrebbe aggirarsi attorno ai 2,5/3 miliardi di euro. Ma, un urbanista e amministratore come Vezio De Lucia ha stimato che:
“il condono edilizio è comunque un disastro per le pubbliche finanze. E' stato calcolato che, fatto 100 l'ammontare delle oblazioni, è pari almeno a 300 la spesa che i poteri locali devono sostenere per urbanizzare adeguatamente i territori infestati in ogni direzione dagli insediamenti abusivi”.
La dimostrazione di tale dato è resa palese dalle stime fatte dalle associazioni ambientaliste, su dati ufficiali, relativamente ai costi dell’analogo provvedimento del 1994 per il Comune di Roma, dove “a fronte di introiti dei condoni 1985 e 1994, pari a 477 milioni di euro, c’è stata una spesa del Comune in opere di urbanizzazione pari a 2.992 milioni di euro, cioè sei volte tanto.”. Dunque, anche razionalmente e non solo eticamente, si tratta di una misura incomprensibile.
Per concludere, ai soli fini della fredda cronaca storiografica, vale la pena ricordare la successione ciclica dei condoni negli ultimi 18 anni, con la relativa paternità politica:
1985, Governo Craxi, Ministro Nicolazzi;
1994, Governo Berlusconi, Ministro Radice;
2003, Governo Berlusconi, Ministri Tremonti e Lunardi.
La prima cosa che colpisce il lettore è il titolo. Infatti, con grande astuzia, l’art. 32 della finanziaria 2003, è intitolato:
“Misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione dell'attività di repressione dell'abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazioni di aree demaniali.”
Già da qui si comprende la volontà mistificatoria degli estensori del provvedimento e il timore di chiamare le cose con il loro nome. Sembra, infatti, che a differenza di qualche anno fa, la percezione dell’opinione pubblica rispetto a questo tipo di condono sia mutata, grazie anche alla mutata percezione del valore fondamentale della sostenibilità ambientale. Il legislatore pare abbia timore a chiamare, come nel 94, il condono con il nome di “misure di razionalizzazione della finanza pubblica”.
Tale atteggiamento - che non è avventato definire ipocrita – è sotteso a tutta la prima parte del provvedimento che, per chiarezza, possiamo dividere in tre corpi principali.
Una prima parte, dall’art 1 sino all’art. 13 è la parte delle “misure di salvaguardia” o, come mi permetto di definirla, del “bambino monello” (spiegherò poi la metafora).
Una parte centrale, dall’art. 14 all’art. 24, relativa ai “saldi territoriali”, ossia concernente la vera e propria svendita di lembi di territorio oggi in capo al Demanio dello Stato.
L’ultima parte, dall’art. 25 sino alla fine, relativa al condono in senso proprio del termine.
Nella prima parte dell’articolato si coglie il rimorso (o l’ipocrisia) del legislatore che, conscio di perpetrare un grave danno al territorio, si sente obbligato ad introdurre norme e danari – probabilmente fittizi – per sentirsi meno corrivo con un vero e proprio scempio. L’immagine più prossima che mi è sovvenuta alla mente è quella del discolo che, dopo aver rotto un vaso prezioso in una scorribanda casalinga, sente il dovere di lucidare tutti gli altri soprammobili e di rassettare la casa per coprire il danno fatto. Si tratta, in entrambe i casi, di un atteggiamento pavido e infantile; tollerabile forse da un bambino, sconcertante se tenuto da un Governo.
Perché questo paragone? Perché scorrendo i primi tredici articoli emerge un profluvio di ottime intenzioni e di parche elargizioni di danaro pubblico: 100 milioni di euro per la riqualificazione di ambiti territoriali, altrettanti per la realizzazione di un programma di interventi di messa in sicurezza del territorio nazionale dal dissesto idrogeologico, 50 milioni di euro per attuare il programma di ripristino e riqualificazione di aree soggette a vincolo paesistico/ambientale, 50 milioni di euro come facoltà alla Cassa Depositi e Prestiti di istituire un fondo di rotazione per la demolizione degli abusi.
In sostanza si stanziano (sempre in maniera fittizia, poiché non ci sono i riferimenti di finanziamento) soldi per mitigare gli effetti dirompenti della medesima legge: si ferisce e si ricuce la ferita per un quarto.
Va poi detto che non c’è un articolo, nella norma, che attui le annunciate misure per velocizzare la demolizione degli abusi. Infatti, le tranquillizzanti dichiarazioni di alcuni ministri avevano teso a rassicurare che il condono era sì brutto ma, d’altro canto, inevitabile: mancano i soldi; assieme a questo, avevano detto che, contestualmente all’amaro calice della sanatoria, si sarebbero semplificate le norme per la certificazione e distruzione degli abusi.
Qualcuno aveva visto, almeno in ciò, qualche flebile speranza “compensativa”: in effetti, oggi, per arrivare a demolire un abuso sono necessari molteplici e onerosi passaggi giuridici, burocratici e amministrativi. Purtroppo, in questo caso, così è e così sarà: nessuna delle procedure attuali cambia.
La parte compresa tra gli articoli 14 e 24 è, forse, la più inquietante. Infatti, tali parti sanciscono la possibilità di godere del condono anche per gli immobili costruiti abusivamente su aree demaniali, ossia pubbliche, a patto che vi sia “la disponibilità da parte dello Stato proprietario, per il tramite dell’Agenzia del demanio, rispettivamente, a cedere a titolo oneroso la proprietà dell’area appartenente al patrimonio disponibile dello Stato su cui insiste l’opera ovvero a garantire onerosamente al mantenimento dell’opera sul suolo appartenente al demanio e al patrimonio indisponibile dello Stato” (art. 14). In sostanza, sulle aree pubbliche, di proprietà dello Stato, patrimonio della collettività, si potrà - secondo i pareri dell’Agenzia del Demanio - o sanare l’abuso lasciando il bene condonato in “diritto di superficie” ventennale o, cosa ancor più grave, ad acquistare – tramite licitazione privata – un bene pubblico (che dovrebbe essere alienato tramite bando).
Dunque, non ci si limita a sanare un illecito ma – contemporaneamente - si vende ex post una parte di territorio, solo perché qualche furbo (o criminale, perché di questo si tratta) con la prepotenza ne ha occupato il sedime. Si tratta di un atteggiamento arrendevole, cinico e limitato che rende improbo il “mestiere” di essere italiani.
Appare ancora propagandistico quanto previsto nell’art. 24, in cui si stanziano altri 20 milioni di euro nel 2004, 40 milioni per il 2005 e altrettanti per il 2006 “ai fini del miglioramento, della tutela e della valorizzazione delle aree demaniali”. Viene da dire a chi ha scritto la norma: ma ci si rende conto che la migliore e più economica tutela e valorizzazione delle aree demaniali, sarebbe stata la ferma punizione e demolizione degli abusi, e che invece si alimenta l’esatto opposto per poi stanziare altri soldi per renderlo (forse) più digeribile?
L‘ultima parte, come detto, riguarda il condono vero e proprio.
L’articolo 25 stabilisce che la sanatoria si applica alle “opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento di 750 metri cubi per singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria”.
In sintesi, come si evince anche da una recente interpretazione riportata dal “Sole 24 ore”, sono sanabili le opere abusive “ultimate”, cioè complete nel loro sviluppo tridimensionale, anche se non corredate di impianti e immediatamente utilizzabili. Restano fuori dalla sanatoria i pilastri che al 31 marzo 2003 erano privi di solaio, oltre ai volumi non delimitati.
L’articolato prevede poi limitazione al diritto di ricorrere al condono a chi sia stato condannato per i crimini di cui agli art. 416 bis (associazione mafiosa), 648 bis e ter (riciclaggio e finanziamento illecito).
Le Regioni, che dovrebbero essere le titolari della potestà legislativa in termini di territorio, entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge, dovranno emanare solo norme per la definizione del procedimento amministrativo.
Infine, va detto che nemmeno la presenza di vincoli di inedificabilità ostacola la sanatoria, poiché la procedura resta solo subordinata a specifici, ulteriori pareri da parte delle autorità competenti a gestire il vincolo (ANAS, Soprintendenze, ecc.).
Dunque, non si tratta di un condono leggero.
Il giudizio su questo provvedimento è naturalmente da riferire all’opinione di ciascuno. È però certo che si tratta di una misura inefficace per l’erario, per il territorio e per il senso civico complessivo, aprendo nuovamente il fuoco per attacchi agli equilibri già compromessi dell’ecosistema.
Resta aperta la possibilità, innescata da un ricorso presentato dalla regione Toscana, che il condono edilizio possa essere ritenuto incostituzionale, poiché in contrasto con i disposti del modificato articolo V della Costituzione. Le tematiche urbanistiche e territoriali sono, infatti, materia “concorrente”, a prevalente competenza regionale. Dunque, se così fosse, lo Stato avrebbe compiuto una mossa falsa.
Al di là di ciò vi è comunque il dato relativo al fatto che questo provvedimento si inserisce in altri simili atti di questo governo, ispirati dal medesimo, pericoloso, disegno: pensare solo ed esclusivamente all’oggi, anche a costo di ferire principi sino ad oggi condivisi, compromettendo gli esiti futuri.
Per dirla con Edoardo Salzano, “… lo sciagurato condono edilizio, è solo uno degli episodi di dissipazione della ricchezza comune. Ricordiamo gli altri: ricordiamo la svendita del patrimonio immobiliare pubblico, ricco di beni culturali di grande pregio, di luoghi di straordinaria bellezza, che avrebbero potuto diventare produttivi anche conservando la proprietà nelle mani della collettività. Ricordiamo la smania di privatizzare tutto quello che può diventare lucroso per i privati anche a danno dell’efficacia del servizio pubblico: dall’energia elettrica ai trasporti collettivi, dalla sanità alle pensioni, dalla scuola alla ricerca. E ricordiamo anche le iniziative che impoveriscono la ricchezza morale del paese: come i condoni fiscali, che premiano i furbi e gli evasori e riducono la credibilità della legge, che dovrebbe essere uguale per tutti”.
Milano, ottobre 2003
Perdoni & codicilli - Condono edilizio ancora nel mirino. Con un blitz alle prime luci dell?alba di ieri è infatti passato un emendamento della maggioranza che abolisce il divieto di costruire per 10 anni nei terreni colpiti da incendi dolosi. Verdi e opposizioni insorgono gridando allo scandalo. Il senatore Luigi Grillo di Forza Italia, firmatario dell?emendamento insieme ad An, Lega e Udc recependo le preoccupazioni del suo collegio elettorale dopo gli incendi di settembre in Liguria, precisa il senso della modifica convinto di «aver fatto la cosa giusta». Dice: «Si potrà costruire solo laddove il piano regolatore lo consente». Una spiegazione che non convince il senatore verde Sauro Turroni con il quale Grillo nel pomeriggio ha avuto un acceso scontro verbale in sala stampa. Dopo la bocciatura del governo che ha visto cadere il limite di abuso di 750 metri cubi per singolo appartamento (lo sarà per l?intero edificio-condominio) quella di ieri è la seconda importante modifica all?impianto originario della sanatoria edilizia da 3,6 miliardi di euro. Tanto che il governo sta pensando a una riscrittura. Per il capogruppo di Forza Italia al Senato Renato Schifani «andrebbe elaborato un testo più organico» perché bisogna «evitare di condonare interi edifici». E avanzano nuovi emendamenti della Lega che propongono di effettuare i pagamenti delle sanzioni in una unica rata e di triplicare (da 15 a 45 euro al metro quadro) le vendite nelle aree demaniali. Maurizio Eufemi (Udc) proporrà, invece, «un aumento del 50% per gli abusi di necessità oltre la soglia dei 500 metri cubi».
A una ipotesi di revisione, visto che secondo i calcoli del ministero dell?Economia l?emendamento dei 750 metri cubi fa perdere 1 miliardo di euro di incassi, ha ammesso di pensarci anche il sottosegretario al Tesoro Maria Teresa Armosino. «E? opportuno riflettere - precisa Schifani - e non è escluso che tutte le modifiche al decretone finiscano in un maxiemendamento». Manovre che, in ogni caso, non piacciono agli ambientalisti. «Sugli incendi siamo contro qualsiasi modifica su un testo che per noi era un baluardo - ha affermato Maurizio Santoloci, vicepresidente del Wwf - così si rischia di demolire tutta la normativa, se ci sono casi specifici andranno affrontati di volta in volta».
Non si erano accorti, forse, che c'era una postilla: «I predetti limiti di cubatura non trovano applicazione nel caso di annullamento della concessione edilizia». Come sia andata si sa: dal '94 in qua, dice il Cresme, sono nate 362.676 case abusive. E il cavillo birbantello consentì a vari palazzinari di mettere in salvo interi complessi abusivi. Ad esempio, denunciano gli ambientalisti, le quattro palazzine di undici piani per un totale di 350 mila metri cubi costruite da Salvatore Ligresti ad Acilia grazie a un'autorizzazione ottenuta dalla Regione Lazio scavalcando il Comune di Roma che aveva negato la licenza. Procedura bocciata prima dal Tar, poi dal Consiglio di Stato.
Anche stavolta ci avevano provato, a scardinare il tetto massimo dei 750 metri cubi. Ma certo, ormai bruciato quel codicillo, dovevano inventare qualcosa di nuovo. Pensa e ripensa, una ignota testolina aveva dunque elaborato la seguente frase da inserire: «Le suddette disposizioni trovano altresì applicazione alle opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 mc per singola richiesta di titolo abitativo edilizio in sanatoria». Lì era il trucco: per ogni singola richiesta . Vale a dire che un palazzinaro, dopo aver costruito un villaggio turistico o un condominio abusivo, avrebbe potuto fare ottenere il condono, casa per casa, a ogni inquilino: uno a Giovanni, uno ad Alfredo, uno a Giuseppe...
Eppure, per tutta la primavera e tutto l'autunno, nel solco di quanto aveva detto un uomo vicino al premier come Franco Frattini («Va estirpata ogni forma di illegalità perché la questione morale è alla base di qualsiasi programma di governo») non si erano sentite che parole contrarie. «Si tratta di sanare solo i piccoli abusi, tutto quello che è già dentro la volumetria. Mica gli abusi edilizi, le costruzioni abusive», giurava l'aennino Alberto Giorgetti. «Il condono? Permetterà di risolvere una infinità di piccoli abusi che creano una situazione di assoluta incertezza sul territorio», confermavano i leghisti Francesco Moro e Paolo Franco. Macché rischi: sarebbe stato un «condono light , poco più ampio di quello per i piccoli abusi all'interno degli appartamenti», ribadiva il sottosegretario all'Economia dell'Udc, Gianluigi Magri. «Si potranno condonare solo piccoli abusi come le costruzioni delle case nelle periferie metropolitane», rassicurava il ministro Gianni Alemanno. «Il governo sta lavorando ad una ipotesi di condono che riguarda i piccoli abusi e non certamente la sanatoria degli ecomostri», garantiva il sottosegretario Antonio Martusciello.
Finché era arrivata, definitiva, la parola del portavoce di Forza Italia, Sandro Bondi, che un anno prima aveva bollato la sanatoria ipotizzata come «un provvedimento profondamente immorale, destinato a premiare i comportamenti illegali e scoraggiare quelli virtuosi». Contrordine: «Il condono è una misura volta a chiudere contenziosi che riguardano semplicemente delle piccole infrazioni che per lo più nascono dalla complessità e dall'astruseria di molte leggi che abbiamo nel nostro Paese». Ugo Martinat, viceministro infrastrutture, era andato più in là bacchettando le solite opposizioni sfasciste: «Non è vero quanto afferma la sinistra che si vogliono sanare i grandi abusi. Nessuno di noi intende farlo. Il condono per noi rappresenta un atto di giustizia». Verso chi? Ovvio: «I piccoli abusivi».
La svolta dell'altra sera, con l'abolizione di quelle righine che permettevano di sanare anche i mostri da centinaia di migliaia di metri cubi, fa giustizia anche di queste cose. Era proprio così come l'avevano annusato i criticoni: il condono puzzava.
Certo, restano perplessità sul messaggio immorale della sanatoria, sull'ambiguità del «silenzio diniego» e mille altri punti. Ma una toppa è stato messa. Gira voce, adesso, che la solita manina potrebbe reinserire qualche codicillo imperscrutabile lungo l'iter parlamentare. Il trucchetto abolito, a quanto pare, avrebbe portato un miliardo di euro. Mica facile per il Tesoro rinunciarci. Da ieri, però, il giochino è più complicato.
I 750 metri cubi Nella notte fra mercoledì e giovedì, con il parere contrario del governo è passato un emendamento che stabilisce un tetto di 750 metri cubi al possibile condono edilizio. Il tetto ora vale per ogni singolo immobile, non per le unità abitative che lo compongono. La modifica porterebbe un ammanco di cassa di circa un miliardo di euro