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Titolo originale: How to stop the urban sprawl – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La causa della spirale crescente dei prezzi delle abitazioni nel Regno Unito, sostiene l’economista Kate Barker nel suo esame del mercato edilizio, è un classico caso di domanda che supera di parecchio l’offerta. Mentre la domanda cresceva a causa delle tendenze demografiche e dell’incremento del reddito, il numero di abitazioni costruite stagnava.

Sui dieci anni al 2002, la produzione di case era del 12,5% più bassa del decennio precedente, e il 2001 ha visto il livello più basso di realizzazioni dopo la seconda guerra mondiale.

La scelta governativa di soluzione alla carenza di offerta residenziale è l’incremento degli obiettivi di realizzazione. Nel Regno Unito, il tasso di crescita dei prezzi negli ultimi trent’anni, al netto dell’inflazione, è stato del 2,4%.

L’analisi di Barker suggerisce che per ridurre questa tendenza alla media europea dello 1,1% sullo stesso periodo, dovrebbero essere costruire 120.000 case ogni anno da parte del settore privato, oltre quelle che già si realizzano oggi.

Si capisce meglio la dimensione di questo obiettivo se si considera il fatto che nel 2002/03 il numero totale delle abitazioni completate dal settore privato ammonta a 125.000.

Nonostante il governo abbia introdotto l’obiettivo di realizzare il 60% delle nuove case su ex siti industriali, l’annunciata intenzione di costruire altre case a attirato forti critiche da parte dei gruppi ambientalisti e dal mondo rurale.

Uno studio condotto nel 2003 dalla Campaign to Protect Rural England (CPRE) sugli structure plans locali di lungo termine, ha mostrato che c’è bisogno di tre milioni di abitazioni in Inghilterra, e che molte di questa saranno realizzate su zone attualmente aperte.

Lo studio calcola, ad esempio, che circa metà delle 65.000 abitazioni previste in Devon saranno su terreni non urbanizzati, e anche il Lancashire County Council prevede di costruire 11.000 case in greenfield.



Una densità più elevata

La Planning Policy Guidance Note 3: Housing (PPG3), pubblicata nel 2000, descrive in questo modo come le autorità urbanistiche locali debbano evitare un uso inefficiente del suolo: “I nuovi insediamenti residenziali il Inghilterra sono attualmente realizzati con circa 25 alloggi per ettaro, ma più della metà del totale delle nuove case si costruisce a meno di 20 per ettaro. Ciò rappresenta un consumo di suolo storicamente molto alto, e che non può più essere sostenuto” afferma la guida.

“Le autorità urbanistiche locali devono di conseguenza:

* evitare insediamenti che facciano un uso inefficiente del suolo (con meno di 30 alloggi per ettaro)

* incoraggiare insediamenti che ne facciano un uso più efficiente (fra 30 e 50 alloggi per ettaro)

* perseguire una maggiore densità insediativa in luoghi dotati di buona accessibilità col trasporto pubblico, come le città e cittadine, i centri di carattere locale, i principali nodi lungo i corridoi di mobilità”.

Sono poi state intraprese ulteriori azioni orientate a questi insediamenti a maggior densità, nel sud-est.

Nel dicembre 2002, il governo ha approvato una “Density Direction” per la regione, in attuazione della richiesta PPG3 su insediamenti con non meno di 30 case per ettaro.

L’edificazione residenziale e bassa densità non è solo dannosa in termini di utilizzazione del suolo. Pone anche altri problemi, come l’insufficienza della popolazione a sostenere un commercio locale, trasporti e altri servizi in modo economicamente coerente. Ciò a sua volta conduce a un aumento del traffico e dell’inquinamento, con gli abitanti più dipendenti dall’uso dell’auto per piccoli spostamenti locali.

“Abbiamo consentito troppo a lungo un’edificazione a bassa densità sulla nostra preziosa terra”, ha affermato John Prescott in un discorso dell’ottobre 2002 all’Urban Summit.

“Nel sud-est siamo a circa 20 case per ettaro. Paragonatele ad alcune parti di Londra, come Islington, dove ce ne sono più di 50. Nel nuovo Greenwich Millennium Village siamo oltre le 80, a Edinburgo sopra le 250 e a Barcellona circa 400: e stiamo qui a discutere se debbano essere 25 o 30!”.

Henry Oliver, responsabile generale (urbanistica e governo locale) per la Campaign to Protect Rural England (CPRE), dubita che ci sia davvero maggior impegno per nuovi insediamenti a più alta densità. “Trenta alloggi per ettaro non possono essere ragionevolmente descritti come alta densità”, dice.

“Si possono realizzare case con giardino e parcheggio a 80 alloggi ettaro e oltre. Dobbiamo andare oltre il poco ambizioso obiettivo minimo della PPG3. Se avessimo costruito a una densità di 40 alloggi ettaro nel 2001/02, avremmo potuto realizzare un 48% in più di case senza ricoprire un pezzettino in più di terra”.

Il Royal Institution of Chartered Surveyors è favorevole a insediamenti più densi. Nelle sue raccomandazioni finali al documento Barker, all’inizio di quest’anno, l’Istituto ha espresso il suo parere su come questi progetti possano essere benefici per le comunità.

“L’impegno a realizzare insediamenti ad alta densità e qualità, speso mescolando elementi commerciali e residenziali, deve essere utilizzato a fondo” afferma il RICS. “Le potenzialità principali per questo tipo di interventi sono attorno ai nodi di trasporto ... [utilizzando lo strumento] Transport Development Areas”.



Conquistare il favore del pubblico

Il RICS solleva anche la questione dell’importanza di superare una percezione diffusa negativa rispetto agli insediamenti ad alta densità: “Conquistare un più ampio consenso pubblico sui meriti delle costruzioni ad alta densità, come le tipologie in linea, condomini e altre, è cruciale”.

”Occorre da parte del Governo adottare un approccio più propositivo, a comunicare il messaggio secondo cui alta densità può corrispondere ad alta qualità della vita”.

“A ben vedere, la più alta densità abitativa del paese si trova a Kensington e Chelsea, che sono considerate fra le zone residenziali urbane più ambite del Regno Unito, come si riflette nella domanda di abitazioni in quei quartieri e nell’ascesa dei prezzi da molti anni”.

Insediamento ad alta densità non significa un ritorno ai blocchi a torre su moltissimi piani. Molte città, centri minori e villaggi hanno complessi a schiera realizzati su densità di 50 abitazioni ettaro o più. Si può anche utilizzare una miscela di tipologie per conseguire densità più elevate: ad esempio combinando case per famiglie più grandi con edifici ad appartamenti più piccoli.

“Uno dei più ostinati ostacoli alla diffusa accettazione del vivere con densità maggiori nel paese, è la radicata paura di ripetere gli errori del passato”, dice Oliver Foster, funzionario RICS per le questioni politiche e parlamentari.

“Le forme degli insediamenti popolari degli anni ’60 e ’70 erano ampiamente, anche se non universalmente, sbagliate, e nelle città di tutto il paese ancora oggi siamo circondati soprattutto da blocchi di calcestruzzo sviluppati in altezza, con problemi gravi di degrado interno, con poca o nessuna coesione sociale, o senso di appartenenza ad una più ampia comunità”.

“C’è evidente desiderio e volontà di realizzare modi di vita a più alte densità, e ne esistono alcuni ottimi esempi” aggiunge. “La sfida è di trasformare queste eccezioni nella regola”.

Ma se quartieri del genere offrono tanti benefici, come mai la densità dei nuovi interventi continua ad essere tanto bassa in molte zone? Gli insediamenti ad alta densità possono creare problemi se sono progettati male, e la consapevolezza di questi problemi spesso porta al blocco dei progetti da parte dei residenti, e da parte delle commissioni urbanistiche locali.

Le critiche riguardano i volumi di traffico aggiunto indotti, la mancanza di spazi per i parcheggi,una maggiore pressione su servizi locali già sovraccarichi (come scuole e ospedali), e la qualità progettuale dei nuovi quartieri che sarebbe di basso profilo e senza rapporti con le caratteristiche dell’edilizia esistente.

“Molta, se non tutta, l’opposizione si basa sull’assunto che si tratta semplicemente di progetti sbagliati” dice Henry Oliver della Campaign to Protect Rural England. “La densità non è un metro di misura per la qualità dello spazio. Alcuni dei comuni più ricchi del paese sono anche tra i più densamente popolati, mentre tante fra le zone urbane più desolate sono realizzate con blocchi sviluppati in altezza costruiti ad un livello di densità solo medio”.

Per capire meglio questa barriera mentale, la South East of England Regional Assembly (SEERA) ha effettuato un sondaggio e tenuto una serie di laboratori coinvolgendo membri di commissioni urbanistiche della regione, verificando il loro atteggiamento verso l’insediamento ad alta densità (usando i 30-50 alloggi ettaro come definizione di “alta densità”).

il principale risultato di sondaggio e laboratori è stato lo sviluppo di una “scatola degli attrezzi”: un documento ampio che aiuta i componenti le commissioni urbanistiche ad affrontare problemi e perplessità relativi ai progetti residenziali a densità maggiori.

Questa toolbox chiarisce gli ostacoli che si frappongono alla loro realizzazione, elenca le possibili politiche urbanistiche e propone una serie di approcci per affrontare le barriere. Comprende anche esempi di buona pratica, utilizzando i quartieri a densità più elevate già realizzati con successo nella regione sud-est (vedi casi studio).

La toolbox è stata lanciata in luglio, quando si è resa disponibile sul sito web del SEERA e ne sono state inviate copie ai responsabili degli uffici urbanistici delle amministrazioni del sud-est.

“La scatola degli attrezzi non è rivolta ai tecnici professionisti, ma ai consiglieri delle commissioni urbanistiche” dice John Pounder, responsabile per la pianificazione regionale al SEERA, che ha coordinato consultazioni e sviluppo della toolbox.

“Non si concentra strettamente su problemi di progetto e non tenta di dare risposte specifiche. Invece, chiarisce le questioni che devono essere affrontate dai consiglieri, e il percorso che devono compiere se vogliono raggiungere il miglior risultato possibile”.



La traduzione in realtà

Si possono usare molti altri mezzi per incrementare la densità dell’insediamento residenziale, continua Henry Oliver del CPRE: “Anche se alcune autorità locali e costruttori sono brillanti esempi di scarso coraggio e immaginazione, altri stanno facendo qualche passo in avanti”

“La “ Density Direction” dovrebbe essere estesa all’intero territorio nazionale. È proprio in alcuni dei luoghi dove essa non si applica, come il nord-est, che è più tenace il flagello della bassa densità”.

“Costruttori e amministrazioni devono essere spinti a far migliore uso della terra: gli uffici pubblici e i funzionari dovrebbero respingere sempre più gli sprechi di territorio” prosegue. “Le densità minime previste dalla Planning Policy Guideline 3 [sull’ Housing, n.d.T.] dovrebbero essere alzate da 30 ad almeno 40 alloggi ettaro”.

”Quello di cui c’è più bisogno è una maggior comprensione di cosa significa “densità”, come i modi di progetto la possano orientare alla creazione di spazi migliori, e che conseguenze comporta continuare la nostra storia d’amore con lo sprawl a bassa densità”.

Richard Wakeford, funzionario capo della Countryside Agency, afferma che la chiave per migliori insediamenti a maggior densità è un’alta qualità progettuale e la comprensione del contesto entro cui si collocano.

“Le autorità urbanistiche dovrebbero fare di più per promuovere realizzazioni di alta qualità” dice. “Gli strumenti proposti dalla Countryside Agency, come le indicazioni concettuali o quelle per la progettazione urbana e di villaggio, possono aiutare ad innalzare la qualità insediativa e coinvolgere gli abitanti locali nel pianificare il futuro della propria comunità.

“Un tipo di intervento che va bene in una parte della città può non essere appropriato in un’altra” continua Wakeford. “È importante che questi quartieri si traducano in ambienti di vita ad alta qualità, che le persone possano apprezzare: devono rispettare e migliorare il contesto locale”.

Nonostante le statistiche pubblicate dall’Ufficio di Vicepresidenza del Consiglio mostrino che alcune autorità locali, come Oxford e Nottingham, sono riuscite ad innalzare le densità residenziali (raggiungendo rispettivamente 61 e 56 case ettaronel periodo 1999-2002), in molte altre zone, compreso il collegio elettorale del Vicepresidente a Kingston-upon-Hull, si sta lottando per raggiungere l’obiettivo minimo delle 30 case ettaro.

È chiaro come ci sia molta strada da fare, prima che gli interventi a densità più alta possano diventare la norma in tutto il Regno Unito.

“Non possiamo negare le trasformazioni demografiche e nei modi di vita, così come non possiamo negare la quantità di terra disponibile per gli sviluppi futuri” dice Oliver Foster del RICS. “È tempo, allora, che la nostra psicologia nazionale si confronti con la realtà, e accetti come desiderabile un modello di vita a densità più alte”.



Caso studio: Lacuna, West Malling, Kent

Numero di case: 143

Superficie: 2.5ha

Case per ettaro: 57

Il progetto per Lacuna è un’interpretazione moderna della tipologia varia ad alta densità che si può realizzare nel centro di un villaggio. Fa parte dell’intervento a funzioni miste di Kings Hill, che una volta completato comprenderà 2.600 case, 190.000 mq di spazio per attività commerciali e terziarie, uno shopping centre e due scuole.

Chi ottiene la possibilità di realizzare un lotto di edilizia residenziale a Kings Hill è invitato a perfezionare il progetto per migliorare la qualità generale.



Caso studio: North Laine, Brighton

Numero di case: 80

Superficie: 0.29ha

Case per ettaro: 275

L’intervento di North Laine, che ha riutilizzato un sito già occupato da un impianto tipografico per quotidiani, si colloca in una zona urbana di strade strette con edifici a schiera, e pochi parcheggi organizzati.

Dato che la zona è accessibile a piedi e ha buoni collegamenti col trasporto pubblico, l’insediamento è stato concepito “ car-free”, e il costruttore ha anche sostenuto una causa legale avendo proibito ai residenti di ottenere permessi di parcheggio sulla strada.

Nota: qui il link al testo originale al sito della Royal Institution of Chartered Surveyors ; è anche possibile per chi fosse interessato scaricare direttamente da Eddyburg il manuale "scatola degli attrezzi", di oltre 60 pagine illustrate, per i membri di commissione urbanistica, descritto sopra (f.b.)

Titolo originale: The Relationship Between Retail and Leisure Development – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

Introduzione

Il National Retail Planning Forum ha commissionato uno scoping paper che chiarisca gli ambiti di ricerca da intraprendere allo scopo di:

• determinare le modalità operative attuali della miscela fra attività commerciali e per il divertimento, e quali trasformazioni ci si possa aspettare per il futuro;

• attivare politiche orientate a forme di insediamento che sostengano e migliorino economia e attrattività delle strutture urbane e dei centri città.

Nel prendere in considerazione questi problemi, abbiamo tenuto conto dei seguenti obiettivi, così come specificati nelle indicazioni di massima del NRPF:

1 – Valutare i seguenti ambiti di attività commerciale/tempo libero e il loro significato per il programma di ricerca: strutture di ristorazione; giochi per bambini; sale cinematografiche e teatrali, piste di pattinaggio, bowling, palestre e massaggi, altre strutture sportive come stadi di calcio, infine luoghi di attrazione storica.

2 – Passare in rassegna gli ambiti di ricerca intrapresa in relazione agli insediemanti commerciali/per il tempo libero.

3 – Considerare se l’attività del commercio in sé stessa possa essere considerata una attività di tempo libero.

4 – Considerare gli aspetti localizzativi delle attività, dai centri urbani a quelli extraurbani, compresi i centri commerciali.

5 – Tener conto del fatto che i nuovi insediamenti di grosse dimensioni sono soggetti all’approccio “sequenziale” stabilito dalla Planning Policy Guidance note 6 che si applica a tutti i principali complessi generatori di spostamenti.

6 – Considerare l’importanza delle “economie della notte” e i potenziali collegamenti con le attività commerciali.

7 – Considerare il ruolo dei centri minori nell’ambito commerciale/tempo libero, insieme a quello dei centri delle grandi città e delle localizzazioni extraurbane.

Per conseguire gli obiettivi di cui sopra, abbiamo esaminato le principali ricerche condotte in quattro ampi settori:

- comportamenti dei consumatori

- studi e conformazione delle zone centrali

- progettazione e gestione dei centri commerciali

- politiche: urbanistica, insediamenti commerciali per i centri città.

E pensare a queste quattro aree di riflessione rende chiare le varie domande da porre sull’argomento, nonché i vari soggetti che possono avere diversi interessi per le risposte. Ad ogni modo, prima di esaminare la letteratura scientifica disponibile in questi ambiti, è necessario definire il mercato delle attività per il tempo libero e i suoi rapporti con quello commerciale.

IL MERCATO DEL TEMPO LIBERO

L’ambito del Leisure Market

Il mercato è suddiviso fra tempo libero entro le pareti domestiche e al loro esterno [ Leisure in the Home - Leisure Away from Home]. Quello interno all’abitazione comprende quattro ampi sotto-settori: la lettura, i passatempi da casa, i lavori dentro casa e nel giardino, hobbies e passatempi vari. Ciascuno di questi a sua volta si suddivide in mercati più piccoli, come la lettura che si articola in tre sottomercati: libri, giornali e riviste. [...]

Il mercato delle attività per il tempo libero fuori casa comprende tre sottosettori: mangiare e bere; tempo libero di quartiere (che comprende divertimenti e attività sportive di tipo locale); vacanze e turismo. Ancora, ciascuno di essi si articola in parecchi sotto-mercati. Tutte le attività menzionate all’Obiettivo (1) ricadono in questo mercato. Mangiare e bere dominano, nelle attività fuori casa, con il 56% della spesa totale. Al secondo posto il settore vacanze e turismo (29% del totale). È interessante che la maggior parte dell’attenzione, nelle discussioni sul tema commercio/tempo libero, si sia concentrata su quello che è di gran lunga il settore più piccolo in termini di spesa del consumatore, ovvero il divertimento locale che comprende cinema, teatri, palestre e fitness, piste di pattinaggio, bowling e altre attrazioni di tipo urbano.

Caratteristiche della spesa per il tempo libero

Per la maggior parte del dopoguerra la spesa per il tempo libero è cresciuta ad un tasso leggermente più elevato della spesa generale per i consumi, ovvero la spesa per il tempo libero cresce in quanto percentuale della spesa totale. Nel 2000, ammontava al 29% del totale di spesa in consumi. Nonostante la tendenza di lungo termine all’incremento della quota, altra caratteristica della spesa per il tempo libero nel dopoguerra è stata la sua volatilità.

In generale, questa spesa cresce più dell’economia generale quando questa è in forte crescita, ma quando essa declina aumenta anche il declino nella spesa per tempo libero. Questa volatilità ha avuto effetti molto rilevanti nelle modalità di investimento immobiliare per strutture di tempo libero nel passato, dove le oscillazioni fra momenti di crescita e di declino sono state anche più esagerate. Verso la fine degli anni ’80, ad esempio, con una forte crescita nella spesa dei consumatori, era relativamente facile raccogliere capitali per qualunque investimento nel tempo libero. Il crollo di molti di queste programmi nei primi anni ’90, sta a significare che era diventato quasi impossibile trovare risorse per investimenti del genere.

Comunque, a partire dalla metà degli anni ’90 questa tendenza scompare. Dal 1995 l’economia britannica inizia a comportarsi in modo non caratteristico. Si evita un surriscaldamento, e così anche la necessità di reagire spingendo l’economia ad una recessione. La ampie oscillazioni economiche sono state ridimensionate e pare, almeno per il momento, esistere contemporaneamente capacità di crescita costante, bassa inflazione, disoccupazione relativamente bassa (secondo lo standard della storia recente). Si tratta di notizie particolarmente buone per il settore del tempo libero. In circostanze simili, la spesa in questa direzione continua a crescere ad un tasso più alto di quella generale [...] Una riduzione delle oscillazioni cicliche nella spesa per il tempo libero probabilmente ridurrà anche le oscillazioni negli investimenti in questo settore.

[...]

RASSEGNA DELLE RICERCHE DISPONIBILI

Comportamenti del consumatore

È possibile reperire una notevole quantità di ricerche sui comportamenti dei consumatori riguardo al commercio e tempo rispetto a vari temi. Nell’ambito delle ricerche di mercato, esiste un grosso volume di lavori ad orientamento pratico, per identificare e classificare i comportamenti di acquisto e segmentare i consumatori in gruppi. È qui che talvolta vengono affrontate le questioni dello shopping come possibile attività da tempo libero. Al livello più semplice, indagini mirate di vario tipo hanno chiesto ai consumatori se consideravano lo shopping un modo per trascorrere il tempo libero, e se si quale tipo di shopping, quanto tempo gli dedicavano, e così via. Le raccolte di dati su lunghi periodi di tempo e gli studi su larga scala, però, salvo nel caso di quello dello Henley Centre del 1999 sulle tendenze nel tempo libero. Ci si potrebbe aspettare che i lavori sugli stili di vita dei consumatori ci raccontino di più sugli interessi nelle varie attività di tempo libero e su valori e interessi collegati all’uso delle strutture commerciali, o alle possibilità di interesse per il leisure shopping; in realtà, sembra si rivolga poca attenzione a questi aspetti. La maggior parte dei dati è di proprietà privata, e appartiene a imprese come AC-Nielsen o Experian. Le serie di dati estese nel tempo, che tracciano le linee di trasformazione, non sono frequenti.

Di recente si è sviluppato un insieme di lavori antropologici e sociologici di matrice accademica sullo shopping. Affronta l’esperienza degli acquisti, e la natura dei consumi dal punto di vista del loro significato per l’identità personale e le relazioni sociali. (ad esempio Miller 1999, Glennie 1996, Jackson e altri 1995). Questi studi talvolta ci aiutano a comprendere il modo in cui si comportano i consumatori, anche se non è direttamente legato a politiche o a temi gestionali. Quello che qui ci pare più importante è il modo in cui aiutano a capire il vero significato dell’esperienza dello shopping per il singolo individuo.

Diversi studi nel vasto campo della psicologia del consumatore riguardano commercio e tempo libero. Quelli più significativi per i nostri scopi sono quelli che tentano di identificare e quantificare le motivazioni per gli acquisti. È da notare che la maggior parte delle ricerche è connessa alle decisioni di acquisto o a quelle del tipo di negozio, e non al genere di attività che comporta spostamenti verso i negozi, scelte multiple di destinazione, attività e acquisti. Alcuni lavori interessanti hanno sviluppato concetti e metodi di quantificazione riguardo ai valori non-utilitaristici del consumatore: in altri termini il piacere dello shopping anziché i suoi aspetti strettamente economici. (per esempio Babin e altri, 1994). In generale, la maggior parte degli studi consta di costruzione di modelli sulle decisioni individuali, interessanti ma di poco aiuto per noi quando si tratta di mutamenti nell’economia generale dei comportamenti.

Nonostante esistano frequenti riferimenti a questo concetto nella letteratura scientifica, sia di origine commerciale che accademica, (ad esempio McCarthy 1990, Cavanagh 1996, Timworth 1998, Wood 1999), solo alcuni studi just confrontano davvero, in termini empirici, le rispettive nature delle attività di acquisto e tempo libero, e ciò che significano per gli affari e per l’ambito della decisione. Tauber (1972) propone undici motivazioni per lo shopping:

- giocare un ruolo

- distrarsi

- scoprire nuove tendenze

- attività fisica

- auto-gratificazione

- stimolo sensoriale

- esperienza sociale fuori casa

- comunicazione con altre persone dagli interessi simili

- attrazione verso un gruppo di pari

- godere di status e autorità

- piacere della contrattazione.

Una ricerca svolta da Buttle & Coates (1983) ha tentato di confermare queste motivazioni, offrendo alcune prove di come questi concetti sociologici o psicologici vengono tradotti in realtà da chi fa acquisti. Carr (1990) individua un continuum di attività fra lo shopping inteso come tempo libero e quello di tipo funzionale, che sembra un modello utile, e il recente lavoro di Cox è svolto in una prospettiva simile. Un fattore chiave è il rapporto col tempo da parte di diversi consumatori in diverse occasioni, e ci sono diverse ricerche tese ad esplorare questi aspetti (ad esempio Davies 1994, Whysall 1991.)

Esistono quindi alcuni utili schemi concettuali, e strumenti di misurazione. Ciò premesso mancano ancora:

- dati generali e di buona qualità sui comportamenti dei consumatori negli spostamenti per acquisti e nelle spese, distinguendo fra tipi di comportamento più legati al commercio o al tempo libero

- studi su serie temporali, che mostrino come si sono trasformati atteggiamenti e comportamenti, e come stiano cambiando (quindi con la possibilità di effettuare previsioni)

- studi che colleghino l’aspetto psicologico con quello manageriale, per esempio, analizzando come i consumatori con diversi valori e atteggiamenti verso commercio e tempo libero, in differenti occasioni, reagiscano a diverse “offerte” nelle zone urbane o nei centri commerciali.

Studi sui singoli centri

Il filone dei lavori geografici generali sui centri urbani dovrebbe essere utile per prendere in considerazione le modalità di funzionamento della miscela commercio/tempo libero. La zona commerciale al cuore di un insediamento è considerata come elemento che consente di definirne il rango, ma si possono prendere in considerazione molte altre funzioni per valutare il ruolo generale della città. L’essenza di questi studi è di misurare la “centralità” di un luogo, le funzioni offerte e le dimensioni del bacino di riferimento verso cui si rivolgono questi servizi centrali. Si presume esserci una correlazione dimensione-funzione, con i centri più grandi che offrono più servizi e si rivolgono a un bacino più vasto. I centri con funzioni di tempo libero oltre che di commercio possono avere un ruolo diverso nel bacino di riferimento, e in generale in raggio di attrazione più ampio. Sorprendentemente non esistono studi di carattere generale sull’organizzazione spaziale delle aree urbane, o sulla gerarchia dei centri del Regno Unito, successivi a quelli di Smith (1968, 1970, 1978) fino a quello di Hall e altri di quest’anno.

Carruthers (1957) e Thorpe (1968) hanno affrontato le gerarchie dei centri commerciali. I contemporanei rankings di queste strutture of shopping centres, (ad esempio Schiller 1985, Reynolds & Schiller 1992, Management Horizons 1999) devono molto a queste indagini. Esse tuttavia si concentrano solo sul commercio tradizionale, e non sul tempo libero e altre strutture. Le discussioni sull’interazione fra varie funzioni, o la natura multi-funzionale dei centri, sono rare nei recenti studi di tipo accademico sul commercio. Il recente studio di Hall e altri comunque riesamina la gerarchia dei centri urbani, utilizzando indicatori di status che prendono in considerazione un ambito funzionale e di servizi (inclusi teatri, cinema, club sportivi e studi televisivi) e confrontandoli con le nuove gerarchie di status commerciale. Questo studio mostra l’enorme ascesa di rango delle città meridionali centri di mercato, il declino delle cittadine medie industriali e sulla costa, e le trasformazioni relative fra le città più grandi fino al 1998.

È necessario ulteriore lavoro per indagare le vari combinazioni di commercio e tempo libero connesse a questi rivolgimenti di fortuna fra diversi gruppi di centri urbani. Più in particolare, c’è bisogno di ricerche volte a stabilire se l’introduzione di nuove strutture per il tempo libero, e di diversi tipi di commercio e tempo libero nei vari centri, ha di per sé contribuito all’alterazione della gerarchia e alla trasformazione nella vitalità dei centri: e se si, come?

Un’ulteriore questione è: la crescita di tempo libero e commercio nelle città fa da contrappeso a quella del commercio extraurbano, oppure no? Se un terzo del commercio si trova ora fuori città (Verdict; DETR; cifre non ufficiali) quante attività di tempo libero o miste si collocano pure in area extraurbana?



Gestione

Un terzo campo di ricerca che abbiamo identificato riguarda il management. Naturalmente è relativo soprattutto ai centri commerciali. Che tipo di strutture per il tempo libero possono essere incorporate all’interno di un mall? Come devono essere progettate? Quali ne sono gli effetti sui comportamenti del consumatore? Quali le implicazioni finanziarie? Quali le conseguenze per la pratica di gestione in termini di ore di apertura al pubblico, parcheggi, e così via? A questo proposito circolano parecchi aneddoti, e anche i proprietari di centri hanno svolto proprie ricerche di mercato.

La fine degli anni ’80 e i ’90 hanno visto nascere una serie di progetti per grandi insediamenti extraurbani nel Regno Unito, e una parallela ascesa dell’interesse per inserire all’interno dei malls alcune strutture per il tempo libero. Numerosi articoli e comunicati sulla stampa specializzata e da parte di consulenti privati hanno descritto o elencato varie funzioni del genere nelle zone commerciali, e in particolare nei centri commerciali progettati in quanto tali. Potiriadis (1988) e McCarthy (1990) ad esempio, hanno dato orientamenti a progettisti e proprietari per questa nuova combinazione. Lo OXIRM ha sviluppato alcune ricerche sulle tendenze e i motivi di tutto ciò (Howard 1990). Questo studio identifica anche tre modelli di leisure shopping centre:

- un ambiente generale orientato al tempo libero [ ambient leisure]

- elementi di attrattività da tempo libero nei nuovi malls

- elementi di tempo libero nei luoghi di attrattività storica [ heritage-destination leisure]

Lichfleld nello stesso studio identifica tre bisogni del frequentatore a cui un centro può rispondere:

- riposo

- distrazione

- attrazione

Questo insieme di concetti offre una cornice di analisi per quanto è possibile integrare alle funzioni commerciali (distinto da quanto invece non può assumere questo ruolo).

Gli elementi concettuali esistono. Intuitivamente appaiono realistici; queste stesse, o idee riconoscibilmente simili, sono utilizzate nella gestione dei centri commerciali e nel dibattito sulle politiche. Quello che ci manca è:

- applicazione o verifica dei concetti per offrire una differente classificazione o gerarchia dei centri commerciali;

- ricerche “globali” per identificare la vera natura dell’offerta di attività da tempo libero nei centri città, nei centri commerciali, e in altri tipi di insediamento al momento attuale.

Non esistono risultati generalizzabili di studi o valutazioni di macro-livello su cosa funziona e cosa sta succedendo, oppure no, nel Regno Unito. Harrison (1990) ha individuato le strutture per il tempo libero all’interno dei “principali” centri commerciali del Regno Unito, ne ha ricavato alcuni elementi e raccolto gli studi pubblicati disponibili. Lo OXIRM ha esaminato gli effetti sui frequentatori di questa combinazione di funzioni nel caso del Metro Centre e poi del Meadowhall (Howard 1992). Questo studio riassume le ipotesi del mondo dei costruttori e gestori riguardo all’impatto del commercio/tempo libero (o a quello che da parte degli interessati si riteneva avesse) e le verifica nel caso di questi due soli centri. L’ipotesi è che la combinazione dei due aspetti commercio e tempo libero possa:

- ampliare il bacino di attrazione

- incoraggiare i visitatori a fermarsi più a lungo

- incoraggiare i visitatori a spendere di più

- attirare altri clienti

- attirare in modo più efficace il cliente tipo.

Nei casi studio esaminati si conclude che la combinazione leisure/retail offre un’immagine vendibile, e che nel caso specifico dei due centri la proposta sul mercato ha avuto molto successo.

Sfortunatamente c’è poca ricerca successiva a questo lavoro iniziale. La cosa di cui c’è più bisogno è un lavoro di tipo comparativo. Le ipotesi non sono state verificate su diversi tipi di funzioni da tempo libero e su tipi diversi di centri. Ancora, esiste una situazione in cui è disponibile una cornice teorica generale, ma manca la ricerca empirica sul campo. Servono lavori per stabilire, o mettere insieme, i dati da molti singoli centri, così che se ne possa ricavare:

- che risultati hanno i diversi tipi di combinazioni commercio/tempo libero? Che influenze hanno sui risultati le diverse dimensioni e caratteristiche dei vari centri?

- come si relazione questa “offerta” ai rientri degli investimenti, alla vitalità generale del commercio e a quella del singolo centro?

Si noti che una ricerca di buona qualità su questi problemi dovrebbe utilizzare “controlli”, come comparazioni fra i risultati dei centri con o senza alcuni tipi di combinazione leisure-retail. La sola descrizione dei bacini di attrattività o della spesa ecc., per alcuni particolari centri, non sarebbe sufficiente a dare una risposta.

Si potrebbe ipotizzare anche un lavoro parallelo per i centri città tradizionali.

È necessario pure un lavoro di raccolta dati sugli sviluppi finanziari di questa combinazione. La ricerca OXIRM si concentra su mercati e clienti, non su costi e risultati degli investimenti.

Studi sulle politiche

La quarta area di studi riguarda le politiche: organizzazione dei centri città, pianificazione commerciale e per le attività di tempo libero. L’elemento chiave di alcuni importanti studi è quello delle politiche: sulla città viva 24 ore al giorno o sull’economia della notte (per esempio Jones, Hillier, e Turner, 1999); sulla progettazione urbana e le funzioni miste nel centro; sulla vitalità e affidabilità economica delle zone centrali.

Un lavoro fondamentale è quello URBED, Vital and Viable Town Centres (1994). Una serie di altri studi sviluppa queste tematiche, sulla salute del centro, sull’impatto delle forme di gestione degli spazi, e così via. Sull’argomento del tempo libero lo studio URBED commenta: “gli spazi di maggior successo, come i centri storici, hanno creato una sinergia tra il fascino per i visitatori dell’offerta artistica, culturale, per il tempo libero, e l’attività commerciale, che ha consentito di sostenere servizi che la popolazione da sola non avrebbe potuto permettersi”. Le prove a sostegno di questo punto di vista sono di tipo aneddotico, ma sembrano un’opinione ampiamente condivisa. Quello che è meno chiaro, è come questa sinergia possa essere determinata in centri meno dominati dal turismo. È possibile per tutti i tipi di centro creare una sinergia attrattiva? La tesi di URBED è che un centro città vitale dipenda da accessibilità, bellezza, attrazioni. Queste includono arte, cultura, divertimento, con “diversificazione” e “massa critica”. Abbiamo una buona comprensione dei livelli e tipi di attrazioni da commercio (grazie alle ricerche sulla gerarchia urbana) e su come funziona una miscela di attività commerciali. Ma non abbiamo a disposizione una parallela ricerca che ci aiuti a capire la miscela di arte, cultura e tempo libero, ei loro livelli di attrattività rispetto ai centri. Né disponiamo di lavori su quali attività dipendano o meno da un rapporto con l’offerta commerciale, e in quali modi. E infine mancano buoni lavori analitici sul modo in cui alcune attività commerciali traggono beneficio dalla localizzazione comune con alcune funzioni per il tempo libero nelle città.

Ci sono altre domande sull’importanza relativa delle attività per il tempo libero e le nuove offerte comparate col commercio nei centri urbani. La maggior parte del commercio ora è esterna ai centri città. Alcuni centri sono più vitali di altri. Le attività per il tempo libero possono aiutare a mantenere interesse per gli investimenti nel tessuto e nelle attività de centri cittadini, se tanta parte del commercio sta altrove? Ravenscroft e altri (2000) hanno recentemente messo in dubbio questa possibilità: suggerire che il tempo libero semplicemente debba colonizzare zone non più richieste per il commercio, non basta ad assicurare affidabilità economica ai centri, e significa solo poco più di un rallentamento del degrado. Il problemi sollevati dai casi studio necessitano di ulteriori analisi. Le metodologie devono essere ampliate: si basano su un solo studio locale di usi successivi del suolo. Gli investitori e operatori dei centri città hanno bisogno di studi più completi, che mettano nel conto i risultati economici.

Le verifiche di vitalità dei centri urbani hanno cominciato ad essere comuni. Poche hanno a disposizione dati sui cambiamenti nel corso del tempo. Gli studi comparativi sono relativamente pochi e di obiettivi limitati: nessuno fornisce davvero una prospettiva ampia. Ci si concentra poco sulla comprensione del vero ruolo delle attività per il tempo libero nei centri urbani. L’indagine comparativa di maggior significato (Lockwood 1999) si concentra sulle attività di gestione, non sui rapporti leisure/retail o sulla vera natura dei centri. Le priorità delle ricerche sul town centre management sinora non hanno incluso le domande sulle correlazioni fra commercio e tempo libero.

UN PROGRAMMA DI RICERCA

Questa rassegna sulle ricerche disponibili ha individuato una grande varietà di lavori che danno alcune visuali delle correlazioni fra commercio e tempo libero. Ma molta parte di queste ricerche è stata svolta per rispondere a questioni diverse da quelle sollevate dal presente studio. Se ne deve concludere che semplicemente non esistono materiali che possano rispondere ad alcune delle questioni. Abbiamo indicato i vuoti più significativi.

Oltre alle quattro aree di lavoro passate in rassegna sopra, suggeriamo che nuove indagini sui comportamenti dei consumatori possano fornire importanti risultati rispetto all’investimento in ricerca. Il punto di partenza per questo lavoro potrebbe essere l’arco dei comportamenti shopping/leisure sviluppato da Cox (2001) [fa parte dei paragrafi esclusi da questa traduzione: si rinvia al link al sito originale, alla fine del brano, anche per inquadrare in modo chiaro le questioni seguenti n.d.T.]. La ricerca potrebbe essere organizzata per rispondere alle seguenti domande:

• In una settimana media, quanti spostamenti dei quattro tipi si compiono?

• Qual’è il tempo medio impiegato per ciascun tipo di spostamento?

• Qual’è la spesa media associata a ciascun tipo di spostamento?

• Quali tipi di spostamento sono in crescita, quali in declino, quali restano costanti?

• Possiamo identificare la distribuzione dei tipi di spostamento rispetto a particolari raggruppamenti di stili di vita?

• Quali destinazioni (es. Centro città, extraurbana, grandi città, piccoli centri) sono associate a ciascun tipo di spostamento?

• Quale è il rapporto fra un comportamento di “solo acquisti” e uno di “acquisti casuali” con l’attività di tempo libero?

[...]

Nota: al sito del National Retail Planning Forumil testo integrale originale, con i riferimenti bibliografici (f.b.)

Lodi Shopping Center: Environmental Impact Report, 2004, Vol. 1, II: Environmental Settings, Impacts and Mitigation Measures. A: Land Use Planning – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

Premessa

Nel corso del 2004, la City of Lodi (Cal), circa 60.000 abitanti qualche decina di chilometri a sud di Sacramento, sviluppa le procedure di approvazione per un nuovo grande insediamento commerciale nella estrema fascia periferica occidentale. Gli elementi di interesse non solo locale sono almeno due, e strettamente correlati: la presenza di Wal-Mart, che fa la parte del leone nel nuovo complesso (chiudendo un altro negozio nei paraggi), e il fatto che, come insinuano i critici a livello nazionale Sprawl-Busters o Reclaim Democracy , la grande distribuzione commerciale sta incassando i dividendi dei suoi finanziamenti alla campagna repubblicana della California che ha eletto governatore Arnold Schwarzenegger.

L’altro elemento di interesse, è il contesto urbanistico niente affatto smart growth , che vede una progressiva occupazione dei corridoi di mobilità da parte di funzioni specializzate come la grande distribuzione commerciale, a spese delle attività agricole (che in questa zona sono di tipo anche piuttosto pregiato), e in forma di massiccia concentrazione monouso. Insomma, nonostante la ricchezza di procedure e strumenti di controllo e revisione, siamo piuttosto lontani dalle intenzioni progressiste per quanto a volte superficiali e di facciata della cultura new urbanism . O almeno dei suoi tentativi di incoraggiare spazi urbani meno frammentati e socialmente stimolanti dei soliti parcheggi, svincoli, contenitori più o meno luccicanti.

Resta l’interesse indubbio per i metodi e l’approccio della procedura di valutazione ambientale richiesta dalle leggi statali della California, di cui propongo di seguito un breve estratto relativamente agli aspetti urbanistici.

(Fabrizio Bottini)

QUADRO GENERALE

L’area dell’intervento

La zona, di circa 20 ettari, è un’ex area agricola a cereali. La maggior parte dei sito è ora tenuta a maggese (anche se falciata per contenere la crescita le erbe selvatiche), con l’eccezione della parte in cui è prevista la vasca temporanea per le acque piovane, piantata a alfalfa. Non esistono strutture edificate, con l’eccezione di due pozzi ad uso agricolo, più le condutture idriche in cemento e allacciamenti elettrici di servizio ai pozzi. I pozzi un tempo alimentavano un canale di irrigazione che scorre attraverso la parte centro-occidentale del terreno, in direzione nord-sud, e lungo i margini settentrionali e meridionali.

Manca in gran parte vegetazione arborea, con l’eccezione di tre imponenti noci della California e due mandorli, collocati a intervalli lungo il confine meridionale, e di due altri noci più piccoli e una giovane quercia, lungo il fronte della Lower Sacramento Road.

L’area circostante

Il sito di progetto si colloca al margine occidentale dell’area urbanizzata di Lodi, ed è circondato da una miscela di usi urbani e rurali. I terreni a est e nord-est sono occupati da due zone commerciali, ovvero quella Target/Safeway all’angolo nord-orientale fra la Kettleman Lane e la Lower Sacramento Road, e la Sunwest Plaza a est, oltre la Lower Sacramento Road rispetto al sito del progetto. A sud della Sunwest Plaza, oltre la parte sud-orientale del progetto, sta una piccola enclave di 10 abitazioni unifamiliari, collocate all’esterno dell’area municipale di Lodi, e sottoposte all’amministrazione della Contea di San Joaquin. Quattro di queste abitazioni si affacciano direttamente sulla Lower Sacramento Road, e le altre sei sulla Olive Avenue, che corre a est di questa. I terreni adiacenti al margine sud del progetto sono occupati da vigneti di proprietà della Van Rujten-Taylor Winery, e con l’edificio più vicino dell’impresa vinicola circa 100 metri a sud del sito. I terreni a ovest sono tenuti a prato per taglio del fieno. La proprietà a nord oltre la West Kettleman Lane è attualmente in corso di costruzione, per realizzare il centro commerciale di Vintner’s Square. Ci sono poi due o tre edifici di residenza rurale più o meno a 200 metri a ovest della zona di progetto, lungo il margine nord della Kettleman Lane. Tutti i terreni a sud e a ovest della zona di progetto sono esterni alla circoscrizione municipale di Lodi.

PIANIFICAZIONE URBANISTICA

Piano Generale

Il General Plan in vigore designa completamente l’area del progetto NCC: Neighborhood/Community Commercial. Si tratta di una definizione che il piano descrive così:

”Questo tipo di destinazione d’uso offre commercio e altri servizi a scala di parte di città e locale, residenza multifamiliare, spazi pubblici e semipubblici, altri usi compatibili coi precedenti. Il rapporto di copertura non deve superare lo 0,4 per gli usi commerciali, e le densità residenziali lorde devono essere comprese fra 15 e 40 unità per ettaro. Questo calcolo presume una media di 2,25 componenti per famiglia nelle parti residenziali”.

I terreni immediatamente a ovest e sud del sito sono classificati PR: Planned Residential, ovvero una miscela di tipologie residenziali, da quella unifamiliare alle densità maggiori, insieme a funzioni compatibili come parchi, spazi aperti, usi pubblici e semipubblici.

I seguenti obiettivi e politiche del General Plan, sono rilevanti per il progetto preso in considerazione:

Sezione 3. Capitolo: Uso del Suolo e Governo della Crescita

Obiettivo E: Offrire terreni e strutture adeguati allo sviluppo delle funzioni commerciali di distribuzione beni e servizi ai residenti di Lodi e del suo bacino di riferimento.

Politica 1: La Città intende promuovere e sostenere mantenimento e crescita del settore commerciale a Lodi, per rispondere ai bisogni di cittadini e visitatori.

Politica 3: La Città incoraggia nuovi centri commerciali di grande scala localizzati lungo le principali arterie urbane e agli incroci fra queste e le freeways.

Politica 6: La Città assicura la disponibilità di adeguati spazi per nuovi sviluppi commerciali.

Politica 7: Nell’approvazione dei nuovi progetti commerciali, la Città dovrà assicurare che tali progetti riflettano il suo impegno per realizzare e mantenere un insediamento di alta qualità.

Sezione 10: Capitolo: Disegno Urbano e Elementi Culturali

Politica 1: La Città sviluppa particolari standards di progetto per aumentare la qualità delle strade quali la Statale 12 e la Statale 99. Tali caratteristiche comprenderanno gli arretramenti, la segnaletica e insegne, l’arredo a verde, i parcheggi, il miglioramento dell’edilizia commerciale lungo queste strade, la schermatura di strutture commerciali e industriali visivamente poco attraenti.


L'area regionale vasta del nuovo centro commerciale di Lodi

Zoning

L’area di progetto è interamente classificata C-S: Commercial Shopping. Come si afferma alla Sezione 17.30.020 del City of Lodi Municipal Code, scopo delle aree C-S è:

“di consentire lo sviluppo di strutture commerciali localizzate all’esterno dei quartieri terziari centrali. Le relative regole sono fissate per guidare l’edificazione secondo i seguenti principi: proteggere le aree residenziali adiacenti da disturbi e influenze negative, minimizzando gli effetti delle strutture commerciali sulla sicurezza e capacità di traffico delle strade circostanti, promuovere il raggruppamento degli edifici commerciali anziché la loro estensione in fasce longitudinali, incoraggiare la localizzazione delle strutture secondo il piano generale e una loro ordinata e rapida realizzazione”.

Le funzioni consentite nelle aree C-S comprendono una varietà di commercio, uffici e servizi di quartiere. Sono consentiti anche grandi magazzini, piccole sale spettacolo, bar connessi a ristoranti. Sono vietati tutti gli usi di tipo residenziale. L’altezza massima degli edifici permessa nella zona C-S è di due piani, o 12 metri, e la copertura massima il 25 per cento della superficie netta.

Standards di Progetto per i Grandi Insediamenti Commerciali

Questo tipo di progetto è sottoposto agli standards per i grandi insediamenti commerciali, adottati dal Consiglio municipale il 7 aprile 2004. Scopo degli standards di progetto è di affiancare i requisiti richiesti dall’ordinanza di zoning e dal regolamento edilizio, a mitigare gli impatti negativi dell’edilizia commerciale di grosse dimensioni. Le questioni affrontate dagli Standards comprendono: progetto generale dell’insediamento, progetto architettonico e dettagli; minimi e massimi di parcheggi; illuminazione e arredo a verde delle aree a parcheggio; schermatura delle zone di carico e scarico merci; accesso e circolazione pedonale e ciclabile. Oltre gli adeguamenti visivi, obiettivo degli standards è migliorare la qualità dell’insediamento promuovendo caratteristiche architettoniche che aumentino l’interesse spaziale a scala di pedone, riducano l’incombenza fisica dell’edificato, si adeguino ad alcune caratteristiche locali. Gli standards vengono applicati in primo luogo dal personale per l’esame dei progetti presentati, e poi attraverso il Site Plan and Architectural Review Committee (SPARC) della città.

CRITERI DI GIUDIZIO

Per gli scopi di questo studio di impatto ambientale, il progetto verrà considerato come avente significativi effetti urbanistici se:

Impatto 1: coerenza col Piano Generale e l’ordinanza di Zoning. Il progetto di insediamento commerciale proposto è coerente con le funzioni stabilite dal piano generale e dallo zoning di Lodi (Impatto meno-che-sigificativo)

Piano Generale

I tipi di offerta commerciale previsti per il progetto comprendono un grande magazzino discount con alimentari e spazi per servizi automobilistici, tre ristoranti fast-food, due ristoranti tradizionali, una drogheria-farmacia, uno sportello finanziario e altre funzioni commerciali varie. È da tempo politica della città di Lodi, quella di permettere per questi tipi di complessi i criteri della zona di piano generale NCC: Neighborhood/Community Commercial. È la stessa zona applicata alle aree commerciali esistenti sul lato est della Lower Sacramento Road, che contengono tipologie e usi molto simili a quelli proposti.

Il rapporto di copertura proposto dal progetto generale di insediamento è di 0,23, ovvero significativamente inferiore allo 0,40 consentito per le zone NCC.

Il progetto corrisponde a scopi e politiche del piano generale per quanto riguarda la collocazione e organizzazione dei grandi spazi commerciali lungo le principali arterie. Il progetto dovrà seguire i recentemente adottati standards, che assicurano ulteriormente la coerenza rispetto a scopi e politiche del piano generale per un’alta qualità insediativa degli spazi commerciali.

Nell’ambito di questo studio di impatto ambientale, gli obiettivi e politiche del piano generale per i vari aspetti sono sempre elencati in dettaglio. Con la messa in pratica delle misure di adeguamento qui identificate, il progetto sarà coerente a tutti gli obiettivi e politiche.

Zoning

Le attività commerciali proposte sono tutte consentite nell’ambito della zona definita C-S: Commercial Shopping, che si applica anche agli insediamenti commerciali esistenti sul lato est di Lower Sacramento Road e a quello recentemente approvato di Vintner’s Square sul lato nord della Kettleman Lane. Gli edifici del nuovo insediamento occuperanno circa il 23 per cento della superficie netta, che rientra nel 25 per cento consentito per le aree C-S. Tutti i fabbricati saranno entro l’altezza massima di 12 metri delle zone C-S. L’intento della categoria C-S è di offrire un insediamento commerciale ordinato, e si realizza attraverso l’applicazione degli Standards di Progetto per i grandi complessi commerciali, e il processo di Site Plan and Architectural Review.

In definitiva, il progetto proposto è coerente al piano generale e alle norme di zoning previste per l’area. NON SI RICHIEDE ALCUN ADEGUAMENTO.


Foto aerea dell'area del nuovo Shopping Center

Impatto 2: Compatibilità con le funzioni insediate. Il progetto costituisce una trasformazione sostanziale nell’uso del suolo; ad ogni modo, non risulterà in significativi conflitti o incompatibilità con altre funzioni adiacenti o vicine (Impatto meno-che-sigificativo)

Il progetto proposto altererà l’uso del suolo, da spazio aperto di tipo agricolo, a centro commerciale, il che rappresenta un cambio sostanziale. Ma, come argomentato sopra, questa trasformazione non si risolverà in conflitti o incompatibilità con le funzioni vicine.

Il sito è circondato su due lati da altri insediamenti commerciali, esistenti o in corso di realizzazione, e sarà compatibile con queste funzioni. L’edificazione qui potrebbe essere considerata come un logico ampliamento dell’insediamento contiguo sui margini urbani, così come ipotizzato dal Piano Generale. In più, il progetto comprenderà fasce di arretramento organizzate a verde e altre zone verdi interne che, combinate con la qualità notevolmente alta della progettazione architettonica generale (come assicurato dall’adeguamento agli standards di progetto commerciale fissati dalla municipalità) offriranno un elemento esteticamente attrattivo per l’accesso occidentale alla città.

L’analisi delle compatibilità nell’uso del suolo è comunque funzione di altri fattori, come l’estetica, i rumori da traffico, e altre potenziali caratteristiche nocive, che saranno esposte di seguito.

L’illuminazione notturna di parcheggi e edifici può produrre riflessi indesiderati, in particolare verso le residenze oltre la Lower Sacramento Road a est. Gli impatti potenziali di illuminazione e riflessi, saranno ridotti da appositi schermi di interposizione che impediscano l’illuminazione diretta oltre i margini dell’insediamento. Combinato con gli effetti di schermo dell’arredo a verde interno e lungo i bordi, questo impedirà impatti negativi.

Come esposto nella sezione dedicata al Rumore, la realizzazione del progetto non produrrà impatti relativi ai rumori sulle funzioni confinanti e adiacenti. Le funzioni che producono rumore sono connesse alle attività di parcheggio, la circolazione di mezzi pesanti per il carico e scarico merci, macchinari, strumenti di trattamento dei rifiuti, mezzi per la pulizia dei piazzali. Per quanto riguarda le aree più sensibili a questo tipo di effetto, ovvero le residenze oltre la Lower Sacramento Road a est, questi rumori in generale non saranno avvertibili oltre il rumore di fondo dell’arteria di traffico. In modo simile, il nuovo traffico generato dall’insediamento non risulterà in significativi incrementi dei livelli di rumore sulle strade circostanti.

Dato che l’area del progetto è adiacente a zone agricole attive a ovest e sud, esiste un potenziale conflitto con queste funzioni. Tale potenziale si riduce parzialmente perché l’uso commerciale è meno sensibile di quanto non siano le funzioni residenziali, rispetto alla polvere, odori, rumori e altri effetti dell’agricoltura. Ad ogni modo, l’aratura potrebbe generare polvere, fino alla zona commerciale, nonostante questo possa accadere solo occasionalmente, in condizioni di forte vento. Questo effetto sarebbe fortemente ridotto dal fatto che la zona sud del sito è occupata dal bacino per le acque piovane, e in quella nord sono previsti una sottostazione elettrica e un serbatoio d’acqua municipale. Queste strutture saranno essenziali nell’offrire una superficie di interposizione larga 150-200 metri lungo la maggior parte del bordo occidentale. In più, la Westgate Drive corre lungo il margine a ovest, e nella parte centrale offre una fascia di separazione con un minimo di 24 metri di larghezza. Nel progetto sono anche incluse pareti di schermatura alte tre metri lungo due terzi del bordo occidentale, che offriranno protezione da qualunque polvere soffiata dal vento.

Nonostante il sito sia adiacente a vigneti coltivati, a sud, i potenziali conflitti sono ridotti dalla parete di 2,5 metri prevista lungo l’intera lunghezza del margine meridionale. Dato che i venti prevalenti spirano da nord-est, il potenziale di invasione da polvere è ridotto, visto che il progetto sta a nord dei vigneti. In più, i terreni a sud e ovest sono destinati a sviluppo residenziale dal Piano Generale, così che qualunque conflitto fra funzioni urbane e rurali sarà risolto al momento dell’edificazione di quei terreni (come esposto nella sezione III, Impatti Cumulativi, gli spazi adiacenti a ovest e sud sono oggetto di una proposta di annessione alla circoscrizione municipale, inoltrata dalla città di Lodi all’inizio del 2004). Alla luce dei fatti e considerazioni sopra esposte, gli impatti potenziali dei conflitti fra funzioni urbane e agricole saranno meno che significativi. NON SI RICHIEDE ALCUN ADEGUAMENTO.


Progetto del nuovo insediamento, Wal-Mart sulla sinistra

Impatto 3: Potenziale degrado a causa degli impatti socioeconomici. Il progetto comprende nuove attività commerciali che entreranno in concorrenza con altre già esistenti nella città di Lodi; comunque, non esistono prove tali da suggerire che questa aumentata concorrenza si risolva in chiusura di esercizi, e di conseguenza essa non avrà effetti indiretti negativi sul deterioramento fisico, o generale degrado, degli immobili (Impatto Meno-che-significativo)

Premessa

Secondo il California Environmental Quality Act (CEQA), devono essere presi in considerazione solo gli effetti fisici diretti e indiretti di un progetto. La sezione 15064(d) delle Linee Guida CEQA prevede:

”Nella valutazione degli effetti ambientali di un progetto, l’ufficio responsabile considererà le trasformazioni fisiche dirette comportate e immediatamente collegate all’inervento”. La sezione 15064(d)(3) afferma inoltre: “Qualunque impatto fisico diretto di una trasformazione deve essere considerato solo se è ragionevolmente prevedibile. Una trasformazione solo ipotizzata, o che sia di difficile attuazione, non è ragionevolmente prevedibile”. In più il CEQA chiede che l’affermazione della possibilità di significativi impatti da parte di un progetto debba essere sostenuta da prove concrete (Linee Guida, sezione 15064(f)).

Rispetto agli effetti secondari socioeconomici dei progetti, la sezione 15131(a) delle Linee Guida CEQA afferma:

”Gli effetti economici e sociali di un progetto non saranno considerati come significativi effetti ambientali. Uno studio di impatto ambientale può rilevare una catena di cause ed effetti da una decisione di progetto alle previste trasformazioni economiche o sociali indotte, ai mutamenti fisici a loro volta causati da quelli economici o sociali. Le trasformazioni economiche e sociali non devono essere analizzate in dettaglio maggiore di quanto necessario per ricostruire la catena di cause ed effetti. Il fulcro dell’analisi sarà la trasformazione fisica”. In altre parole, i mutamenti economici e sociali non sono, di per sé, presi in considerazione dal CEQA come significativi per l’ambiente.

Dato che il CEQA indica di considerare solo gli effetti fisici, quelli economici e sociali vanno analizzati se a loro volta producono cambiamenti nell’ambiente fisico. In questo contesto, l’effetto fisico specifico che ci si può aspettare come risultato di un impatto negativo socioeconomico, è il deterioramento fisico delle strutture, o degrado [ blight]. Il termine “ blight” ha un significato accettato generalmente nella legge della California. Secondo le sezioni da 33030 a 33032 del California Safety and Health Code, un’area degradata è caratterizzata da alcune caratteristiche che:

”causano una riduzione, o l’assenza, di usi appropriati in un’area, al punto che ciò costituisce un grave carico fisico, sociale, economico per la comunità, che non ci si aspetta di risolvere o alleviare attraverso la sola azione dell’impresa privata”. Fra le condizioni descritte di degrado, ci sono edifici e strutture “inadatti o insicuri all’occupazione ... veicoli di scarsa igiene, trasmissione di malattie, mortalità infantile, delinquenza giovanile e criminalità”, a causa di alcuni elencati fattori.

Alla luce di quanto esposto sopra, anche se si potesse mostrare che il progetto dovesse con qualche probabilità risultare nella crisi e fallimento di una o più attività commerciali concorrenti, la risultante inutilizzazione degli edifici, da sola, non significherebbe condizione di degrado. In quanto tale, la sola inutilizzazione di un edificio non costituisce secondo il CEQA una soglia di trasformazione fisica significativa per l’ambiente. Per causare significativi impatti fisici, sarebbero necessari altri elementi complementari, come la chiusura di attività circostanti, combinata con scarsi o nulli sforzi da parte della proprietà immobiliare per mantenere o aumentarne il valore, fino ad una condizione favorevole all’affitto e utilizzo. Per raggiungere una condizione definibile come impatto fisico secondo il CEQA, sarebbe necessaria trascuratezza, o un totale abbandono delle proprietà per un lungo periodo, in modo tale da provocare sostanziale deterioramento fisico e degrado. Come affermato sopra, un impatto fisico indiretto di questo tipo deve essere un risultato ragionevolmente prevedibile del progetto, con dimostrazione di cause ed effetti, con risultati sostenuti da prove concrete.

Nonostante il CEQA non richieda analisi di effetti economici, si espone la seguente indagine di questo tipo a sostegno delle conclusioni sugli impatti potenzialmente negativi del progetto nei riguardi delle attività commerciali di Lodi:

Analisi Socioeconomica

Al fine di determinare il potenziale impatto del progetto e delle attività connesse su quelle esistenti concorrenti di Lodi, sono stati intrapresi due studi socioeconomici dalla Applied Development Economics (ADE). Il primo si concentrava sugli impatti rispetto alle attività di downtown, il secondo considerava gli effetti a scala urbana. Entrambi gli studi (riportati integralmente in allegato) sono riassunti brevemente di seguito.

Nell’analisi degli effetti sulle attività del centro, ADE ha rilevato che l’impatto generale sarà una perdita di vendite annuali dell’uno per cento, a favore del Lodi Shopping Center. Lo studio ha delimitato l’effetto ad alcune categorie commerciali, escludendone la maggior parte, che non saranno toccate, in primo luogo perché i commercianti downtown si sono già adattati alla concorrenza con le catene nazionali, trovandosi una propria nicchia, stabilendo relazioni di qualità con la clientela e mantenendone la fedeltà. È stato rilevato che le uniche categorie che perderanno affari a seguito della realizzazione del progetto saranno le farmacie, i ristoranti tradizionali e quelli fast-food. Le farmacie del centro perderanno circa il 2 per cento di vendite a favore del progetto. I ristoranti tradizionali perderanno il 4 per cento, e i fast-food il 2 per cento, a favore di servizi del genere collocati all’interno del progetto. Queste percentuali di perdita in affari sono relativamente basse, e non si prevede che provochino chiusura di attività.

Nel secondo studio economico, ADE ha rilevato gli effetti probabili delle attività insediate nel progetto su quelle delle stesse categorie a scala dell’intera città. Le categorie prese in esame sono i negozi discount (ad esempio K-Mart, Target), i supermercati alimentari (Safeway, Raley’s, Albertson’s, Food 4 Less, ecc.), famacie/ drugstore, altri tipi di commercio al dettaglio (abbigliamento, negozi specializzati, arredamenti, materiali per l’edilizia), ristoranti fast-food e tradizionali, e funzioni non di vendita come i servizi personali e professionali, o finanziari.

Complessivamente, l’indagine ha rilevato che le attività del progetto toglieranno approssimativamente l’8,5 per cento delle vendite totali ai negozi esistenti di Lodi nel breve termine, il che rappresenta circa il 55 per cento dei nuovi affari dell’insediamento (il rimanente 45 per cento rappresenta spese che sarebbero effettuate fuori dall’area di Lodi, e che le nuove attività catturerebbero). La percentuale di affari persi varia da categoria a categoria, come segue: negozi discount – 6%; supermercati e alimentari – 11%; farmacie/ drugstores – 9%; ristoranti tradizionali – 20%; fast-food – 9%; servizi alla persona, all’impresa, finanziari, - 0%. Vista la bassa pecentuale di perdite per le categorie toccate, ADE ha concluso che poco probabilmente il progetto provocherà chiusure di attività esistenti a Lodi. Rispetto ai supermercati, è stato anche osservato che le perdite saranno temporanee, e che la futura crescita di aree residenziali e popolazione in città consentirà loro di recuperarle.

Viste le conclusioni degli studi socioeconomici, e il fatto che non sono probabili chiusure di attività come effetto della realizzazione del nuovo insediamento, non esiste prova evidente di probabili edifici resi inutilizzati dagli effetti delle nuove attività, o che una catena di effetti possa causare deterioramento fisico o degrado delle proprietà. Dunque il progetto non avrà effetti socioeconomici che possano indirettamente causare impatti fisici o urbanistici negativi.

Chiusura dell’esistente punto vendita Wal-Mart

Quando sarà completato il Superstore Wal-Mart proposto, verrà chiuso il Wal-Mart esistente nel vicino Sunwest Plaza. Questo produrrà edifici inutilizzati per circa 12.000 metri quadrati. Il promotore del nuovo progetto, che è anche proprietario del Sunwest Plaza, si assume responsabilità degli spazi Wal-Mart lasciati inutilizzati. Dato che gli altri occupanti dell’area sarebbero danneggiati da un lungo periodo di inutilizzazione, il proponente ha un forte incentivo finanziario a riaffittare quello spazio. A questo scopo, lo manterrà in buone condizioni per attirare nuove attività commerciali. Secondo ADE, è ragionevole prevedere che il responsabile riuscirà grazie alla sua esperienza consolidata a collocare uno o più negozi di catene nazionali. Da questo punto di vista, è gia stato comunicato alla municipalità che esiste un interessamento da parte di numerosi potenziali occupanti, e ci si aspetta la firma in breve tempo di una Lettera di Intenti. Considerato tutto questo, è poco probabile che la chiusura di Wal-Mart risulti in una prolungata inutilizzazione degli spazi commerciali, o che il proprietario trascuri e abbandoni le strutture al punto da provocare un serio deterioramento fisico e degrado. Dunque, non esistono prove che la chiusura del magazzino Wal-Mart esistente possa causare impatti socioeconomici che risultino in effetti fisici o urbanistici.

In conclusione, né il calo di vendite delle attività esistenti derivante dal progetto, né la chiusura del Wal-Mart esistente, causeranno effetti socioeconomici che possano causare a loro volta significativi impatti di tipo fisico. NON SI RICHIEDE ALCUN ADEGUAMENTO.

Nota: a titolo complementare, allego qui almeno uno dei documenti citati più volte in questa sezione dello studio di impatto ambientale, ovvero le Project Guidelines adottate dalla città di Lodi nel 2004. Si tratta naturalmente della versione originale e integrale, che comprende tutti i tipi di insediamento e non solo quello commerciale. Per la documentazione integrale (di oltre 600 pagine) sul progetto del nuovi Shopping Center, faccio riferimento al sito ufficiale della Città di Lodi (f.b.)

domenica, maggio 16, 2004

Così, un pò inaspettatamente, Ale lunedì scorso (o martedì, non ricordo di preciso) mi chiede se mi va di fare questo weekend fuori. Contento gli dico di sì. Dato che più o meno abbiamo bazzicato tutto il Veneto, il Trentino - Alto Adige e parte dell'Emilia, optiamo su Mantova. Io non c'ero mai stato, lui sì, ma dice che è carina. E poi non è troppo lontana, circa un'oretta da casa sua. Così si cerca un albergo. Mantova centro è un po’ costosa vista la durata del soggiorno e così Ale, bazzicando nella rete, mi trova quest’alberghetto tre stelle alle porte della città, vicino all’uscita di Mantova sud (a dire il vero un pò scomoda da usare - per raggiungerla abbiamo dovuto prendere l’autostrada a Mantova nord e uscire a Mantova sud...vabbè!). Si arriva e si vede che è attaccato ad una zona artigianale/industriale, chiamata il quadrilatero della moda. Chissà che faranno (la risposta è ovvia, ma lasciamo stare le mie elucubrazioni). Prendiamo l’auto e andiamo a Mantova. Bellina, carina (tra parentesi, cara Franci, il negozio di scarpe non l’ho trovato), molto vivibile, bei negozi, ristoranti un pò meno. Certo che dopo un pò la si è vista tutta. Così, anche perchè io ero stanchissimo e Ale pure abbastanza, decidiamo di tornare all’albergo. Ma è presto: perchè non vediamo che cos’è questo quadrante della moda? Ale non è convinto, crede che ci siano solo fabbriche. In realtà ci troviamo di fronte ilFashion District, un mega centro commerciale fatto solo di spacci e di outlet. Praticamente un paradiso terrestre: da Ferrè all’Energie, da Viceversa alla Fornarina. E senza dimenticare il mio piccolo paradiso: lo spaccio di Intimissimi e Calzedonia. Ognuno ha le proprie fisse: l’intimo e i calzini sono le mie fisse. Non che abbia comprato molto. Ho quasi speso più soldi per Nicolò (una tshirt dell’Adidas) e per Giulia (una tshirt della Fornarina), i miei nipoti. Ma comunque poco. Io voglio vivere lì e ogni giorno avere soldi da spendere. Chissà che la Carrà torni con il suo programma Sogni, così le chiedo almeno 100.000 € da spendere in un tour di questo genere di centri commerciali, fatti solo da outlet. Perchè non c’è solo a Mantova. Eh, no! Ma anche vicino Roma, Santhià, Bari. Perchè non uno sotto casa di ognuno di noi. E’ un nostro diritto. E un dovere di chi eleggiamo. Un impegno concreto: più outlet per tutti.

Nota: qui il link al sito Vibelicious, blog di Nicola Zanchetta da cui è tratta la pagina. Per chi volesse invece annoiarsi con le opinioni del sottoscritto, qui su Eddyburg c'è la cronaca del "parto" dell'Outlet di Bagnolo, nel vecchio pezzo sui Cugini di Campagna Riporto doverosamente, di seguito, lo scambio di messaggi chiarificatore col Dott. Zanchetta (f.b.)

Sono l'autore del testo che voi avete pubblicato, prendendolo tale e quale e presentandolo come una guida turistica che si prende sul serio scritta da quella che gli intellettuali italiani più snob considerano per l'italiano medio.

Dopo questa breve precisazione credo che sia utile spiegarle cos'è un blog. I blog, come il mio da cui voi avete attinto, è uno spazio personale che chiunque, dotato di una minima conoscenza informatica, può sfruttare nell'immenso mare del web. I blog di conseguenza possono essere sia un canale alternativo alle solite fonti di stampa, sia uno sfogo per i pensieri del suo autore.

Il mio blog è strettamente personale. Sia chiaro, non nel senso che scrivo cose molto personali che non voglio confidare (altrimenti sarebbe controproducente), ma nel senso che sono i miei pensieri, le mie "cose". Anche le cazzate, come capita a volte di dire. Capita così che a volte si finisca col parlare di cose vacue, sciocche e completamente inutili, come il colpo di fulmine per un outlet center. Perchè credo che a volte ci si debba gustare anche le cose più futili. Non credo in chi dice che la vita va presa unicamente sul serio. Bisogna dotarsi di autoironia e imparare ad alternare i momenti seri con quelli che lo sono molto meno. Il mio blog, proprio perchè io voglio che sia così predilige i momenti meno seri, ma non esclude gli altri. Non so se l'autore dell'articolo ha letto tutto il mio blog, ma si accorgerà che spesso parlavo dei momenti più neri, delle difficoltà per un laureato in sociologia a trovare lavoro e di mille altre cose.

Mi spiace molto che il mio blog sia stato citato in modo improprio. Perchè così è stato fatto. Mantova è una citta bella, non eccezionale come mi aspettavo, ma bella. Tanto che ho insistito perchè i miei genitori la visitassero.

Che poi mi fa strano sapere che vengo citato ad esempio di chi predilige i centri commerciali ai centri storici, proprio io che ho sviluppato tesi e ricerche nel periodo universitario sull'importanza di un turismo nuovo, focalizzato sulla rivalutazione degli ambienti naturali. Se fosse interessato la mia tesi è disponibile presso la biblioteca dell'università di Trento (la comunità locale e la gestione di un'area protetta. Il caso di Valle Vecchia di Caorle).

Infine vorrei precisare che il mio non è un redazionale. Non ho visto nemmeno un soldo (e visto quello che è stato scritto forse dovrei aggiungere un ahimè). Mi spiace che un classico consiglio da "suocera" sia stato scambiato per un redazionale (ne ho scritti tanti prima di trovare l'attuale lavoro e devo essere sincero con lei: quando mi pagano vengono molto meglio): io ho semplicemente trasposto il classico racconto orale agli amici nel mio blog.

Sperando che l'autore o lei possiate capire il dispiacere che mi avete causato, le porgo i miei più cordiali saluti

Dott. Nicola Zanchetta

gentile Dott. Zanchetta,

ricevo dall'amico Salzano la sua lettera di disappunto, dopo aver letto sul sito Eddyburg il suo resoconto della visita a Mantova/Bagnolo, totalmente decontestualizzato ad opera del sottoscritto.

Me ne dispiaccio moltissimo, ovviamente, e vedremo in qualche modo di rimediare anche in altro modo più concreto, magari pubblicando la Sua lettera o altra comunicazione che vorrà inviarci. Come ha giustamente capito, non ho guardato il resto del suo blog, dentro al quale ero capitato via motore di ricerca, parola chiava appunto Outlet. E devo dire che, a parte il linguaggio molto più brillante della media (il motivo che mi ha fatto decidere di prendere a prestito il suo breve resoconto) i contenuti erano in tutto e per tutto paragonabili ad altri, stavolta reperibili su siti di informazione e/o pubblicità, che trattano lo stesso argomento. C'era appunto il suo paragonare (ironicamente, come avrei dovuto capire) gli spazi dell'outlet di Bagnolo con quelli del centro storico mantovano, ovvero la tesi che da un paio d'anni stiamo sostenendo: ci sono questi centri storici finti, fatti di quinte teatrali, che stanno svuotando quelli veri, fatti di persone e complessità sociale e culturale.

Ecco brevemente il motivo per cui non sono andato tanto per il sottile, provocandole inutilmente quanto involontariamente un dispiacere.

Il secondo dispiacere, quello di sospettare che si trattasse di pubblicità redazionale, si deve allo stesso motivo generale: il tono, simile a quello di altre cose già lette sull'argomento, e il link alla sola Fashion District (ci sono altre tre grosse compagnie presenti in Italia, oltre a siti generali con moltissimi links).

Beh: ecco tutto. Rinnovo le scuse, e la disponibilità ad ospitare qualunque suo chiarimento in proposito vorrà farci pervenire, oppure semplicemente la Sua lettera. E la ringrazio anche per averci aiutato, con il suo gentile messagggio, a stare più attenti in futuro all'uso di alcune fonti di informazione.

Cordiali saluti

Fabrizio Bottini

http://xoomer.virgilio.it/fabrizio.bottini

Gent.mo Dott. Bottini,

la ringrazio per la risposta alla mail che avevo inviato al dott. Salzano. Ho scritto a lui in quanto non ho potuto scrivere direttamente a lei.

Non chiedo retifiche o dichiarazioni particolari al suo breve articolo, se non il fatto che venga modificata l'indicazione del redazionale e la contestualizzazione del mio blog. Soprattutto perchè ci tengo che il mio blog (quindi non solo il testo che lei ha citato) venga inteso nel modo più corretto: un modo leggero di affrontare le cose di tutti i giorni.

Colgo l'occasione, comunque, di complimentarmi sia con lei sia con il dott. Salzano per il lavoro che sta alla base del sito eddyburg.it. In fondo se non ci fossero provocazioni come quella che avete lanciato attraverso la presentazione del testo preso dal mio blog, l'urbanistica rimarrebbe confinata nelle università.

Cordialmente, i miei migliori saluti.

Dott. Nicola Zanchetta

Titolo originale: Little Italy: Why a casino that looks like a Tuscan Village is one of South Africa's most democratic public spaces – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Ho sentito parlare per la prima volta di Montecasino a una festa di espatriati che altrimenti sarebbe stata parecchio noiosa, a Lomé in Togo, la piccola città dell’Africa occidentale dove vivo. La mia fonte era una signora sudafricana piuttosto alta sui cinquanta di nome Ebeth (diminutivo di Elizabeth, come ci spiegava, nello stesso modo in cui si dice Joburg per Johannesburg). Suo marito era un geologo. Entrambi erano appassionati di bird-watching: insomma sembravano presi direttamente da un film. Me la potevo immaginare sulla veranda con vista su un grande lago, col cameriere in giacca bianca occupato a tenere a distanza gli ippopotami.

”Dovete assolutamente venire a Joburg” ci diceva Ebeth, facendolo suonare più come un rimprovero che un invito. “Hanno appena aperto una nuova meravigliosa zona commerciale. È piena di caffè e piazzette, tutta fatta come l’Italia, e sul soffitto c’è proiettato un cielo artificiale, così che sembra di passeggiare la sera in un villaggio toscano.

Non era esattamente quello che mi aspettavo, ma era parecchio più strano, e forse più interessante. Dopotutto esiste una lunga tradizione di tentativi per ricreare nostalgici paesaggi europei di fantasia in Africa. Evelyn Waugh ha scritto che durante il suo viaggio in Kenya del 1931, chiunque incontrasse sembrava voler tentare di ricreare lo scomparso clima della campagna nobiliare inglese, con le tribù locali arruolate a recitare la parte dei contadini.

Waugh, in quanto Waugh, considerava questo stile di vita perfettamente accettabile, ma non notava quanto fosse assurdo essere interrotti nel bel mezzo del rito del tè sul prato da una donna Kikuyu nuda che chiedeva medicine. E nonostante questo tipo di assurdità possa apparire esotica, dovrebbe essere piuttosto familiare agli americani. Non è tanto diverso dalla lattaia della Williamsburg coloniale con l’accento da mall-girl. Pensiamo all’ironia e alla decontestualizzazione come caratteri tipici del ventesimo secolo, ma erano forse meno presenti nel diciannovesimo? Prendete un’idea tipica del genere Las Vegas come Montecasino (il centro commerciale e casa da gioco a tema toscano di cui mi parlava Ebeth) e paracadutatelo in Sudafrica. Non sembra uno sviluppo naturale delle magioni in stile inglese dei coloni rhodesiani, o anche delle fattorie olandesi con gli abbaini dei primi coltivatori del Capo?

Qualche mese più tardi, a un convegno di urbanistica a Lagos, ho proposto questa idea a Lindsay Bremner, direttore del dipartimento di architettura alla University of the Witwatersrand di Johannesburg. Non era d’accordo. “Non credo che esista particolare continuità fra queste fantasie originarie e Montecasino” mi ha risposto. Bremner colloca Montecasino in un contesto diverso, ed egualmente curioso. A quanto pare, non si tratta affatto dell’unico insediamento a tema toscano della Joburg contemporanea. Negli ultimi dieci anni, i quartieri di tipo gated-community fatti di “ville toscane” sono spuntati in tutti i suburbi che si estendono a nord del centro. Hanno nomi come Via Reggio e Villa Toscana. Le pubblicità di queste residenze invadono le pagine immobiliari dei giornali locali, invogliando i potenziali compratori con promesse di “giardini privati a corte in stile fiorentino” e invitandoli a “vivere la dolce vita [in italo-felliniano nel testo]”. Bremner vede questi insediamenti come fantasia consolatoria per il ceto medio bianco: una fuga estetizzante da una società razzialmente frammentata dal mutamento politico e sociale, e da un tasso di criminalità altissimo. Il saggio che ha presentato a Lagos descrive come l’Italia sia diventata la metafora favorita nel Sudafrica contemporaneo, per “fingere di stare altrove”, abitare “un’illusione storica liberandosi del peso di agire al suo interno”.

Tutto questo mi faceva sembrare Johannesburg sempre più interessante, e alla fine mi decisi a visitarla. La signora Bremner gentilmente si offrì volontaria per farmi da guida e mostrarmi quello di cui ci aveva parlato. “Le prima case in stile italiano che mi ricordo di aver visto erano a un’esposizione nel 1990”, mi raccontò mentre eravamo fermi al semaforo in uno dei più vecchi sobborghi di Joburg. “Eravamo al massimo della tensione politica. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo”. Per tutti gli anni ’90, mentre i negoziati per il futuro del paese andavano avanti con fatica, si minacciò quasi una guerra civile fra i partiti neri sudafricani e il governo bianco, e anche fra partiti neri rivali. Dopo la transizione verso una democrazia multirazziale nel 1994, la violenza da strada cresciuta nella lotta politica si orientò alle rapine, e il tasso di criminalità andò alle stelle. Il ceto medio abbandonò il centro città verso quartieri recintati, e gli affari lasciarono downtown.

Gli effetti su Johannesburg furono simili allo svuotamento di molte città americane dopo le battaglie per i diritti civili degli anni ‘70. Il suo centro simile a quello di Chicago ora è una città fantasma dopo l’imbrunire, controllata da migliaia di telecamere della polizia. Restano parecchi uffici centrali delle grandi imprese, ma altri edifici sono stati abbandonati. In maggio, quando presero fuoco alcuni piani di un grattacielo da uffici in disuso, si scoprì che ci vivevano centinaia di famiglie povere. Probabilmente pagavano l’affitto (a bande che hanno il controllo sui diritti di occupazione).

Bremner mi portò a un insediamento commerciale di tipo edge-city che aveva preso il posto del centro in decadenza. Costruita nei primi anni ‘90, Sandton Square è organizzata attorno a una piazza su cui si affacciano dei caffè, completa di fontana, con l’elemento di attrazione principale nel Michelangelo Hotel, il più costoso della città. Lo stile dell’edificio appare familiare a chiunque sia sopravvissuto aglia nni di Donald Trump: trionfo di post-modernismo con accenti mediterranei: colonne, portici, mosaici sparsi.

Contemporaneamente, nei sobborghi residenziali, le vecchie case in stile inglese di campagna stanno cedendo il passo ad abitazioni cittadine sul modello della villa toscana, organizzate in complessi chiusi da cancelli di ferro e filo spinato. In uno di questi, chiamato Verona, abbiamo incontrato il costruttore, la bionda vaporosa Donna Lee, che controllava i tocchi finali. Sembrava uscita da un manifesto pubblicitario sul sogno della Toscana sudafricana. Si è dichiarata, come il marito, “pazza per l’Italia”, dove vanno di frequente in vacanza; hanno la cantina piena di vini italiani, e nel garage il marito ha una Ferrari. Ogni villa, a Verona, ha un nome diverso. Lee abita a Villa Bellissima; per gli altri clienti resta al massimo Villa Piccolo.

Infine, sono andato a vedere Montecasino. È grosso e strano in modo impressionante: la “tematizzazione”, come si usa dire nel mondo dei complessi per il tempo libero, è più meticolosa che al Bellagio di Las Vegas. Le torri sulla cima della collina e le merlature che salutano gli automobilisti di passaggio sono incredibilmente convincenti, soprattutto nella luce del pomeriggio sull’altopiano. Dentro il complesso, una ragnatela di strade selciate si inoltra fra ville sui toni del rosa e del giallo. Gli angoli degli edifici sono consumati, come dal passaggio ripetuto di macchine italiane per la pulizia stradale; i marciapiedi sono fatti di calchi di plastica di vere pietre da pavimentazione toscane. Un’automobile Fiat d’annata, coperta di finte contravvenzioni per divieto di sosta, se ne sta di fianco a un canale. Sopra, il sedicente cielo brilla color acquamarina, con il rosa sparpagliato di prime nuvole serali.

Ma la cosa più impressionante di Montecasino è che i frequentatori non sono in stragrande maggioranza bianchi. La maggioranza, a dire il vero, ma non la stragrande maggioranza. Possono non avere l’ossessione dell’Italia come la signora Lee, ma i frequentatori neri sembrano apprezzare le architetture. “Sono edifici molto speciali, molto diversi, molto belli” mi racconta Frans Mudzugu, un disoccupato di 28 anni. “Puoi andare da qualunque parte, e non troverai un altro edificio così”. Mudzugu e il suo amico Alson Mukwewi, anche lui di 28 anni e disoccupato, amano venire a Montecasino il pomeriggio; qualche volta giocano, qualche volta guardano solo gli altri giocare. Stanno seduti sotto gli alberi finti attorno alla fontana centrale, chiacchierando in lingua Xhosa coi dipendenti, e guardando uomini d’affari del Qatar e turisti inglesi perdere i loro soldi

È una scena assurda almeno quanto la donna nuda di Waugh al tè, ma con una differenza: né i sudafricani bianchi, né quelli neri, hanno niente da spartire con la Toscana. Nessuno di loro è quello che sta bevendo il tè, sono tutti la donna nuda sul prato. La storia dell’architettura in Sud Africa trabocca di stili europei trapiantati: l’eclettismo imperiale britannico del XIX secolo di Sir Herbert Baker; il brutalismo fascista degli anni ’30 del Voortrekker Monument a Pretoria; i grattacieli international-style di Johannesburg negli anni ‘50. Ma queste architetture si prendevano sul serio; tentavano davvero di imporre norme europee agli spazi sudafricani. Montecasino non impone niente a nessuno. È totalmente, esuberantemente falso. E come a Las Vegas, è proprio questa falsità ad assicurare la sua popolarità egalitaria. Neri e bianchi si sentono egualmente a casa in questa rassicurante Toscana contraffatta. Il prezzo della democrazia, pare, è l’inautenticità.

Sono finito a far colazione al Palazzo Intercontinental Hotel di Montecasino, con Bremner e il suo progettista, l’architetto Ed Batley, che si conoscono bene. L’architetto e il critico che considera Montecasino una fantasia politica reazionaria, vanno d’accordo sulla maggior parte delle questioni. In particolare, concordano sul fatto che c’è stato un cambiamento di clima ultimamente, in Sduafrica. “La gente si sente a suo agio con la società interraziale ora” dice Batley. “Ci sono vibrazioni positive. Nessuno parla più di emigrare. Non riesco a ricordarmi un altro momento in cui la gente si è sentita più fiera di essere sudafricana”. Allo stesso tempo la tendenza dell’architettura è di spostarsi dal revival toscano post-modernista, verso il neo-modernismo contemporaneo. Batley trova sollievo in questo: per inclinazione lui è un modernista, e nonostante sia fiero del lavoro fatto a Montecasino, preferirebbe fare qualcosa che guardi un po’ più avanti

”C’è un abbandono della logica della fuga, ultimamente” continua Bremner. “Ora ci ispiriamo ad altri eroi, i neo-modernisti francesi e olandesi. Ma è ancora in parte un tentativo di essere europei. Forse non è tanto diverso”. Si guarda attorno, agli arredi dell’hotel: “Trovo ancora l’estetica moderna più piacevole di questa robaccia”.

Nota: qui il testo originale al sito di Metropolis, e una nota su Montecasino focalizzata sul solo gioco d’azzardo, dall’Economist . Qui infine il link diretto a Montecasino (f.b.)

La destra politica e culturale stavolta se ne è stata zitta. Sono passati un po’ di mesi dall’omicidio plurimo di Rozzano, dalle fiaccolate, dalle urla contro le periferie degradate per colpa dei soliti comunisti, dalla polemiche sul che fare (a colpi di manganello o metro cubo), e anche dal dibattito che si accese per una breve fiammata sulle pagine di Eddyburg.

Qualche giorno fa il balordo prodotto dell’ambiente di “degrado sociale” è stato condannato a un po’ di anni di reclusione, e alla cosa si sono dedicate poche parole diluite fra le cronache d’altro. Del resto era abbastanza ovvio che l’ondata giornalistico/speculativa avesse il fiato corto. Di più ampio respiro sembra invece essere lo spirito improvvisatore (se non peggio) con cui sembra vengano affrontati, anche lontano dalla luce più viva e cruda dei riflettori, i problemi veri di queste periferie a tre dimensioni, quelle con gli abitanti che ci abitano proprio, lì dentro. È il caso, solo per fare un piccolo esempio neppure troppo lontano dall’originale, di via Turati a Bollate.

Bollate sta agli antipodi, agli antipodi di Rozzano. Mica antipodi qualititativi: semplicemente Rozzano è nella cintura milanese sud, e Bollate in quella nord. Cambiano un po’ il panorama, il nome dello svincolo più vicino della Tangenziale, ci sono le ferrovie Nord invece del Naviglio, e il Parco Groane anziché il Parco Sud. Ma siamo indubbiamente dentro la stessa Milandia, come si capisce subito guardandosi attorno, anche dalle parti di via Turati dov’è ambientata la nuova disfida sulle periferie. Una disfida che stavolta anziché i temi della sicurezza tocca “le ragioni dell’Arte”, per usare parole care a certa polemica di fine Ottocento, e alle origini dell’urbanistica moderna.

Via Turati di Bollate, oltre a stare agli antipodi di Rozzano, sta anche subito dietro la chiesa parrocchiale, e se non ci fossero il muro della canonica e qualche parcheggio di troppo si potrebbe anche chiamare una propaggine del centro storico, almeno in potenza.

Certo è difficile confondere le architetture moderne delle case di via Turati con le altre più vecchie e tradizionali dei dintorni, ma qui nessuno si azzarderebbe mai a parlare di terre di nessuno, labirinti metropolitani selvaggi voluti dai comunisti, e compagnia bella. Forse per questo la cosa non ha avuto troppo clamore in cronaca. La qual “cosa” è il progetto di demolizione delle case, e di completo rinnovo dell’area nell’ambito del Contratto di Quartiere, costruito passo passo attraverso quella progettazione partecipata che pare il toccasana per ripensare le periferie di ogni ordine e grado.

”Bestemmia!”, esplodono i cultori dell’Arte. Quelle non sono case malandate, ambienti malsani forieri del famigerato “degrado sociale”, ma capolavori di architettura del Novecento, che necessitano di restauro attento, rispettoso delle volontà del progettista originario, e se la cosa costasse anche molto di più ne vale certamente la pena. No: di rifare il quartiere non se ne parla nemmeno, checché ne dicano tutti i possibili laboratori di progettazione democratica e partecipata. E come spesso succede in questi casi, la verità e le colpe non stanno né dall’una né dall’altra parte della contesa, e neppure nel mezzo. Non sarò certo io a trovare la verità, ma almeno le colpe mi pare di intravederle: nel manico, che in questo caso è rappresentato dalla trafila di passaggi e filtri che si frappongono tra gli agognati investimenti per aggiustare grondaie, aiuole, ripulire cantine, e la loro effettiva elargizione. Perché la cosa sicura, e visibile anche a occhio nudo, è che le case progettate trent’anni fa da Guido Canella non sono in ottima salute, e a sentire chi di mestiere ci sta dentro l’interno è messo anche peggio. Ed è facile immaginarsi le aspettative di quelle assemblee di progettazione partecipata, coi toni accesi di chi ha gli scarafaggi in camera da letto, o litiga da lustri per l’uso di un passaggio pubblico che pubblico nei fatti non è mai stato, e via dicendo. Insomma il repertorio di guai della progettazione novecentesca che dalle ricerche un po’ paranoiche di Oscar Newman nel complesso popolare Pruitt-Igoe di St. Louis in poi ha fatto tutta la strada che conosciamo. Ma, come ricordava lo stesso Newman ad ogni piè sospinto, lo studio dei microterritori percepiti e controllati dagli esseri umani che a vario titolo si aggirano in questi spazi, è altra cosa rispetto ad un’idea realistica di cosa sono, e cosa invece dovrebbero essere, gli ambiti del quartiere popolare, in sé e nel rapporto col resto della città. Proprio qui, mi pare, sembra esserci una lacuna metodologica: quali sono gli obiettivi di un Contratto di Quartiere?

Senza andare fino a St. Louis, Missouri (dove sono esplosi i problemi socio-spaziali del quartiere popolare), e neppure a Porta Pia, Roma (dove al Ministero delle Infrastrutture si promuovono i Contratti di Quartiere, a tentare di risolverli, questi problemi), basta dare un’occhiata qui vicino a Milano, sede della Regione Lombardia responsabile del Bando II, che recita alle finalità: “ una serie coordinata ed integrata di interventi edilizi e di azioni sociali che complessivamente sono finalizzati alla riqualificazione definitiva di un quartiere degradato”. Bene, c’è la miscela spaziale e sociale da dosare ed equilibrare in un approccio coordinato e “complessivo” di “riqualificazione definitiva” del quartiere. Il quale quartiere, come ci insegnano la vulgata e l’alto dibattito da quasi un secolo, è “parte costitutiva della città”, o altra declinazione del medesimo concetto generale. Ancora senza andare a St. Louis o a Porta Pia, basta fare quattro passi fra via Turati e il sagrato della chiesa parrocchiale, o magari nelle strade e parcheggi lì attorno che sfumano nel cuneo verde del parco del Castellazzo e delle Groane, per toccare con mano che questi posti parte costitutiva della città lo sono, eccome. Grazie alle dimensioni minuscole dell’insediamento, grazie alla vicinanza al nucleo centrale consolidato, grazie a tanti fattori non ultima la capacità del progettista anche oltre i singoli manufatti, tutto si tiene. E, grondaie colanti, corridoi trappola e scarafaggi in camera a parte, c’è molta più qualità potenziale da queste parti che non nelle strisce di villette pochi isolati più in là, verso il tracciato delle ferrovie Nord. Il che fa capire ancora meglio che questa piccola polemica nasce da una interpretazione miope, burocratica, magari un po’ in malafede, sia di cosa possa essere quella “ serie coordinata ed integrata di interventi edilizi e di azioni sociali”, sia degli obiettivi generali che si pone.

Perché, anche considerando un lusso decadente (cosa che non è) l’idea del progettista Guido Canella, e delle autorità di tutela artistica che considerano questi edifici di alto valore, di procedere a un restauro anziché ad una demolizione, c’è dell’altro. Quanto “valgono” questi spazi? La polemica restituita dalla stampa locale ci risponde: molto, ovviamente, per chi li considera dal punto di vista dell’opera di architettura di alto profilo; meno, molto meno, per chi “sa fare i conti”, e cifre alla mano ti dimostra che costruendo un nuovo quartiere si avranno alloggi migliori e spese infinitamente ridotte. Il che coi tempi che corrono, viste anche le opinioni positive dei residenti, è un gran risultato. Curioso che nessuno si accorga del convitato di pietra: lui sul “prezzo” da pagare conta, eccome se conta.

Il convitato di pietra (o cemento e asfalto che dir si voglia) non c’è bisogno di affannarsi molto per cercarlo. Basta sporgersi dai balconi e percorsi delle case popolari di via Turati. Oppure mettersi in piedi nel parcheggio sulla prospettiva del campanile parrocchiale, o nelle aiuole spelacchiate, e fare un giro di 360 gradi con gli occhi aperti. Eccolo lì, il convitato: esattamente come l’ha visto, e tentato di interpretarlo – a quanto pare con un certo successo e consenso critico – il progettista Guido Canella trent’anni fa. Eccolo lì, il convitato/resto della città, arricchito da trent’anni di uso, percezione sociale, adattamenti spaziali e stratificazioni varie. Questo, e non altro, è il “quartiere”, come ricordava un’ottantina di anni fa Thomas Adams introducendo per il Piano Regionale di New York la teoria della neighborhood unit (unità di quartiere, o di “vicinato”) di Clarence Perry. Si stava formando la prima mastodontica area metropolitana del mondo, negli anni ruggenti di New York, e dentro alla griglia di asfalto e cemento gli studiosi “scoprirono” un possibile punto di incontro fra la progettazione urbanistica, quella architettonica, e la percezione e uso dello spazio quotidiano da parte degli abitanti. Era il moderno quartiere, certo accoccolato in grembo al grande convitato di pietra della città metropolitana, e circondato dalle rampe delle strade di comunicazione veloce, ma raccolto attorno a due-tre concetti quantitativi e percettivi facili e articolabili: l’abitazione, gli spazi aperti immediati, i servizi quotidiani soprattutto per bambini e anziani. Insomma un prolungamento dell’abitazione nello spazio esterno, che opera da trait-d’union "amichevole" con la città e la regione metropolitana, e di converso fra questa e lo spazio privato dell'abitazione. E questa sensibilità è anche quella che ha guidato bene o male la formazione delle nostre periferie, specie nei quartieri di iniziativa pubblica, della seconda metà del Novecento.

Ma se andiamo a leggere le “ LINEE GUIDA PER LA PROGETTAZIONE E REQUISITI PRESTAZIONALI DI CONTROLLO DELLA QUALITÀ” proposte dalla Regione per il bando dei Contratti di Quartiere, non c’è nessuna traccia di nessuna idea, di città, di quartiere, a stento di cortile. Per trovare un tema diverso dall’alloggio in senso stretto (umidità, illuminazione, l’immancabile sicurezza ecc.) bisogna arrivare al punto 5.4 Fruibilità dell’organismo edilizio e spazi multifunzionali comuni”, dove lo sguardo tecnico si avventura oltre il tinello con televisore, nel territorio vasto di corridoi, cortili, e financo spazi comuni alberati. E basta. Abbastanza ovvio, che i criteri di valutazione economico-sociale del quartiere escano piuttosto distorti da una prospettiva dentrocentrica del genere. Ed è abbastanza ovvio, che anche qualunque laboratorio di progettazione partecipata, muovendosi nel quadro di queste linee guida, finisca per focalizzare le migliori aspettative e sforzi degli abitanti sul lavandino che perde, gli spazi comuni colonizzati dai campionati di skateboard, e a definire quello che si può chiamare al massimo “Contratto di manutenzione Edilizia”. Quando la manutenzione edilizia è troppo cara, come ben sa il geometra, si tira giù tutto e si rifà daccapo, magari spostandosi di qualche metro. Pensare che anche Thomas Adams originariamente era un geometra ( surveyor). Ma questa è un’altra storia ...

Per tornare a Bollate, e chiudere queste note, credo si possa buttar lì un’ipotesi: al contrario di Rozzano, stavolta la destra politica e culturale non ha strepitato, perché aveva già vinto. Vinto, trasformando di fatto cent’anni di riflessioni sul quartiere in una sommatoria di rilievi tecnici sulle qualità dei singoli alloggi. Vinto, proponendo con un certo successo la contrapposizione fra un “artista” che legittimamente tenta di difendere la sua opera, e i bisogni residenziali altrettanto legittimi di chi dentro a quell’opera ci deve mangiare, dormire, fare l’amore, buona parte dell’esistenza. Insomma separando di fatto quello che è il cuore dell’idea di quartiere come cellula costituente dell’organismo urbano, e la sua pur perfettibile interpretazione (a un tiro di sasso dal centro storico) da parte del progettista, arricchita dalla trentennale interpretazione degli abitanti.

Perché quella che sembra essersi affermata, comunque finisca questa piccola vicenda, è la logica del quartiere popolare così come interpretata da un vecchio presidente dell’Istituto di epoca fascista, Giuseppe Gorla: “Una volta abituati, non c’è più bisogno di obbligarli”. Gorla, diventato noto poi per altri meriti urbanistici, con questa frase si riferiva all’uso dei servizi igienici e dei bagni. Interpretata dai neoburocrati del Contratto di quartiere e dell’arredamento partecipato, questa frase può essere riferita allo schermo televisivo, unica vera finestra sulla realtà.

Per il resto, lasciate fare agli specialisti: partecipazione sì, ma solo tra uno spot pubblicitario e l’altro.

Titolo originale: The impact of Levittown on Local Government– traduzione di Fabrizio Bottini (parte seconda)

Traffico, parcheggi, trasporti

Levittown ha avuto effetti rilevanti sui parcheggi dei villaggi vicini, al punto che le strutture esistenti sono sovraccariche. Dato che ci sono pochi servizi di autobus nell’area, i pendolari utilizzano l’automobile, e la parcheggiano per tutta la giornata nei villaggi circostanti. Le esperienze di parchimetri in due località indicano che così si mantengono liberi gli spazi in alcune zone commerciali, ma che il problema del parcheggio si sposta verso le strade residenziali retrostanti i tratti a parchimetro.

Non sembra essere in vista alcuna soluzione a breve termine, dato che le municipalità sono riluttanti a spendere denaro per aree a parcheggio. Sono stati proposti distretti speciali, ma è sorta la questione della responsabilità, e i distretti sono stati respinti con voto contrario dai residenti dei villaggi. Il problema se i parcheggi siano responsabilità delle autorità municipali o di villaggio resta senza risposta. È possibile che i villaggi possano fornire spazi autofinanziati dalle tariffe di parcheggio, ma ciò non è stato fatto.

Il problema indica una debolezza nella pianificazione sia da parte delle municipalità che della contea, ed è dovuto in parte alla divisione di circoscrizioni riguardo allo zoning. Levittown è direttamente responsabile di gran parte di questo problema, e la ditta Levitt non ha fatto nulla per la sua soluzione, né le agenzie di governo sono state tanto lungimiranti o potenti abbastanza per fare qualcosa riguardo al grande afflusso di veicoli.

In materia di trasporti, Levittown ha mostrato il grande bisogno di un sistema di autobus a scala di contea. C’è solo una linea di autobus in zona, e i viaggi sono sia poco frequenti che costosi. A causa di ciò, si devono usare molte automobili. In più la Long Island Railroad, il mezzo più efficiente di spostamento nell’area (nonostante quello che dicono i pendolari), non tocca Levittown. I trasporti pubblici ora disponibili non sono efficienti, sono scoordinati e inadeguati. Levittown ha mostrato come ci sia un grande bisogno di trasporti, sia sull’asse nord-sud che su quello est-ovest. Non c’è dubbio che il nuovo insediamento abbia considerevolmente caricato le strutture esistenti.

Lavori pubblici

Il compito di fornire Levittown con tutte le opere pubbliche e servizi, è affidato alle note strutture dei distretti speciali, e ad alcuni uffici ordinari della pubblica amministrazione. Le agenzie statali e di contea non sono direttamente interessate alla fornitura di questi servizi nell’area immediata di Levittown.

L’illuminazione stradale è fornita dal distretto speciale apposito. Tale distretto ha un contratto con la Long Island Lighting Company per la fornitura e manutenzione delle strutture di illuminazione stradale. Le relative tariffe sono esatte tramite prelievi sulla tassazione delle proprietà immobiliari entro il distretto. La struttura, in questo caso, opera esclusivamente in senso amministrativo. I contratti per i servizi della compagnia per l’illuminazione sono negoziati dagli uffici municipali interessati.

Al momento attuale la fornitura d’acqua è effettuata tramite distretti speciali per le acque, di cui il più importante è il Levittown Water District, attivato nel 1949. Le spese operative e di capitale sono caricate sulla valutazione immobiliare all’interno del distretto. Prima che fosse stabilito il Levittown Water District, la ditta Levitt provvedeva al servizio acqua senza costi diretti per i residenti. La municipalità di Hempstead aveva richiesto ai Levitt di costruire pozzi e strutture di pompaggio, oltre alle reti di distribuzione. Ai termini di un accordo con l’autorità comunale la Levitt & Sons aveva consegnato a titolo gratuito il sistema distributivo alla città. Il comune si era impegnato ad acquistare i sistemi di pozzi e pompaggio ad un ammontare pari al 50 per cento del costo di costruzione sostenuto.

Non esiste a Levittown impianto di fognatura o smaltimento. Lo smaltimento avviene attraverso pozzi singoli presso le abitazioni, nonostante si prospetti un sistema di fogne. Visto che gli abitanti devono ottenere la propria acqua potabile dai pozzi, il gran numero di impianti di smaltimento individuali solleva un problema di possibile saturazione dei terreni. Il Nassau County Department of Public Health ritiene che questo pericolo sia più di una possibilità. L’ufficio Lavori Pubblici ritiene invece che non ci sia pericolo. Non è stata trovata alcuna prova di inquinamento delle acque dovuto a infiltrazioni nel terreno. La County Planning Commission ha richiesto che i pozzi perdenti siano collocati di fronte alle abitazioni, per facilitare l’allaccio con le linee fognarie al momento della eventuale costruzione.

La rimozione dei rifiuti è effettuata da operatori privati a contratto, e non attraverso distretti speciali. Nell’ultimo anno il problema di gestione dei rifiuti è stato piuttosto grave. Le ditte private hanno utilizzato le strutture di smaltimento a Oyster Bay, ma quanto gli impianti sono stati sovra-tassati, i gestori hanno rifiutato di accettare materiali dalle aree esterne al territorio comunale. Sono stati raggiunti accordi con l’ufficio dell’Ingegnere capo di Hempstead, per scaricare la spazzatura in una cava, fino al completamento dell’impianto di Hempstead, che è ora in costruzione. Le imprese privato di rimozione dei rifiuti si lamentano perché i propri bilanci sono peggiorati dalle molte bollette non pagate, in particolare nella zona di case in affitto di Levittown.

Le strade interne dell’insediamento sono di tipo approvato, e sono state consegnate gratuitamente alla città. Dato che si tratta di vie nuove, non ci sono stati seri problemi di manutenzione. Non ci sono stati sollevamenti del manto stradale. C’è stato lavoro di manutenzione quotidiana, e qualche allargamento di strade che esistevano prima della costruzione di Levittown. Lo Hempstead Highway Department ha un piccolo gruppo di lavoro operante a Levittown per manutenzioni minori. Le riparazioni principali e la pulizia stradale sono responsabilità dell’ufficio centrale. Le strade costruite dai Levitt a Oyster Bay sono state solo recentemente consegnate a titolo gratuito alla città, e sinora non ci sono state trasformazioni degli uffici municipali responsabili. C’è stata una notevole domanda di riparazioni e ricostruzioni nelle strade di contea e statali nella zona circostante Levittown. Dopo qualche scaricabarile, ora si sta provvedendo a riparazioni e allargamenti.

Il fatto di prescrivere che le strade e altre strutture principali fossero realizzate dai costruttori e consegnate alla città, si sono ridotte di molto le spese dirette in opere pubbliche. Ora tutti i costruttori devono realizzare le strade e i sistemi di distribuzione idrica, da consegnare gratuitamente alle municipalità. Ai costruttori viene rimborsato il 50 per cento dei costi di realizzazione degli impianti per l’acqua. Le opere devono essere approvate dall’ufficio dell’Ingegnere Capo di Hempstead.

Ci sono segni del fatto che i residenti di Levittown ricevano un migliore servizio in termini di opere pubbliche, di quanto non avvenga in altre zone della municipalità di Hempstead. Non è chiaro se questo sia dovuto a considerazioni politiche. La struttura compatta di Levittown certamente rende efficace la domanda. La maggior parte dei macchinari acquistati dall’ufficio strade di Hempstead è utilizzato a Levittown. Questo può essere dovuto al fatto che lì le strade sono più nuove, e i macchinari moderni possono essere usati al meglio. L’equipaggiamento per la pulizia stradale usato a Levittown, per esempio, non può essere usato per le strade più vecchie. Non ci sono indicazioni che le strade di Levittown ricevano più attenzione pubblica di quanta ne abbiano vie simili in altre zone.

È degno di nota il ruolo avuto dalla ditta Levitt nella realizzazione di opere pubbliche. Le sue grosse dimensioni l’hanno posta in una posizione tale da attivare un processo di scambio con gli enti pubblici. In generale, la Levitt è andata oltre il proprio ruolo cooperando alla fornitura di servizi in un modo che altri costruttori non avrebbero saputo o voluto.

Strutture per il tempo libero e parchi

L’impatto di Levittown per quanto riguarda il tempo libero si può misurare al meglio nella sua area immediata. L’effetto del nuovo insediamento sulle strutture offerte dalle cittadine di Hempstead e Oyster Bay e dalla Nassau County non può essere valutato con precisione a causa del generale aumento di popolazione a livello regionale.

Levittown è unica per composizione in classi di età. C’è una forte concentrazione di giovani adulti nei gruppi da 25 a 35 anni ed una egualmente alta concentrazione di bambini in età da 0 a 8 anni. È evidente che questa distribuzione demografica ha peso diretto sui tipi di strutture e programmi ricreativi di cui hanno necessità i residenti di Levittown.

Nel 1947 e 1948 la ditta Levitt ha costruito approssimativamente 6.000 abitazioni destinate all’affitto. Non sono state realizzate abitazioni Levitt destinate ad essere vendute fino al 1949, e solo in questa data successiva la Levitt & Sons Inc. ha iniziato a costruire strutture per il tempo libero. Erano stati destinati spazi a questo uso nelle zone d’affitto, e furono completati nel 1949.

Ora a Levittown ci sono dieci parchi e nove piscine, completati o in corso di realizzazione. Due dei parchi e tre delle piscine solo localizzati entro i confini di Oyster Bay. Il resto nella circoscrizione di Hempstead. Un parco contiene un campo da baseball con tribune fisse, un altro un campo da soft-ball. Campi da gioco di varie dimensioni sono collocati in ciascun parco e dentro ad ogni spazio verde di vicinato. Piste da bowling si trovano in due degli spazi verdi vicinali. Queste piste, insieme ad altre strutture negli stessi spazi, sono affittate a imprese private per la gestione.

Dopo che la Levitt aveva completato le strutture per il tempo libero entro la circoscrizione di Hempstead, chiese agli uffici municipali di istituire un ufficio parchi di area a cui affidare la gestione dei parchi, piscine, campi da gioco. Come risultato, nell’agosto 1950 nacque il Levittown Park District, attivato dallo Hampstead Town Board. Mentre vengono stese queste note, solo le piscine adiacenti ai campi da gioco sono state date in gestione al Park District. Le piscine naturalmente rappresentano una grossa spesa di gestione, rispetto a quanto avviene per parchi e capi da gioco, che sono stati pesi in carico per primi. Per le altre strutture ci si aspetta un’acquisizione da parte del distretto parchi nel prossimo futuro. Nessuna delle strutture per il tempo libero di Levittown entro la circoscrizione di Oyster Bay, sinora, è stata ceduta al comune. Questi impianti si trovano nelle zone più nuove di Levittown e al momento attuale non sono ancora state completate.

Uno dei più ambiziosi progetti per il tempo libero intrapresi dalla Levitt è la sala comune attualmente in corso di costruzione. Il fatto che l’edificio sia localizzato entro i confini di Oyster Bay pone un difficile problema amministrativo. La ditta Levitt, volendo disfarsi dal carico delle spese correnti di gestione e manutenzione, vuole cedere l’edificio ai residenti di Levittown. Ma non esiste un distretto speciale adatto che copra tutto l’insediamento. I due principali distretti per i parchi (Levittown e Hicksville) sono separati dalla linea di confine Hempstead-Oyster Bay. Un distretto congiunto sarebbe legalmente fattibile, ma una proposta del genere incontrerebbe l’opposizione dei funzionari di Oyster Bay, i quali escludono che Levittown possa essere considerata un’entità definibile.

Qualunque discorso sulle strutture per il tempo libero, deve tener conto del gran numero di apparecchi televisivi installati dalla Levitt Corporation. Durante i due anni di picco delle costruzioni residenziali (1949-1950) gli apparecchi televisivi facevano parte dei servizi standard delle case.

Non possiamo dire che le strutture ricreative a Levittown siano inadeguate. Quelle attuali sembrano sufficienti, per famiglie con figli piccoli. Comunque, quando i bambini cresceranno e saranno più liberi da uno stretto controllo dei genitori, i piccoli campi da gioco e parchi saranno probabilmente inadatti; il tempo libero per adolescenti e adulti sarà il problema più pressante.

Va sottolineato che i residenti di Levittown beneficiano delle strutture realizzate dalla Levitt. Essi non le hanno chieste, né ora ne chiedono di nuove. Il Levittown Park District è stato creato si richiesta della ditta Levitt, non dei residenti. Allos tesso modo, non c’è stata alcuna visibile domanda da parte dei cittadini per la sala comune, che è realizzata su iniziativa del costruttore.

Sanità pubblica

Lo studio sull’influenza di Levittown nei confronti dei servizi sanitari pubblici è stato condotto esaminando: 1) la natura dei problemi sanitari di Levittown; 2) il tipo e quantità di strutture di servizio sanitarie e personale fornito dalle agenzie pubbliche, prima e successivamente alla costruzione di Levittown, e ultimo 3) i programmi generali correlati ai bisogni di Levittown.

I principali problemi sanitari si devono in parte alla composizione demografica della comunità, in parte come risultato della rapida crescita di popolazione in un’area che prima richiedeva pochi servizi sanitari. Il Nassau County Department of Health è la struttura locale responsabile per la salute dei residenti anche nella zona di Levittown.

Una delle due divisioni del Dipartimento più toccate è stata la Nursing Division. Il numero di visite domiciliari fatte dalle infermiere è più che raddoppiato dal 1945 e il personale infermieristico per l’area di Levittown è cresciuto da una a quattro unità. Il carico di assistenza riguarda gli aspetti sanitari della maternità e dell’infanzia prescolare, a causa dell’alto tasso di nascite nell’area. Hanno dovuto essere aperti ambulatori, e c’è ancora bisogno di centri per la salute del bambino.

L’epidemia di poliomielite del 1949-1950 ha fatto aumentare la richiesta di tempo impiegato da assistenza infermieristica. I programmi, a Levittown, differiscono da quelli di altre zone del paese, dove l’enfasi si pone sull’assistenza agli anziani e convalescenti.

L’altra sezione del Dipartimento sanitario di contea che richiede un ampliamento nei servizi e nel personale, è la Division of Sanitation. La carenza nelle fognature e nello smaltimento dei rifiuti, di cui si è riferito sopra, pone una grossa minaccia di ordine sanitario. L’aumento del carico di lavoro per gli ispettori sanitari ha richiesto l’assunzione di personale aggiuntivo. I nuovi controlli attivati riguardano la fornitura d’acqua, le piscine, e i numerosi nuovi ristoranti e negozi nelle vicinanze di Levittown.

Il Meadowbrook Hospital, e i distretti speciali di contea, sono di grande utilità nel segmentare e distribuire l’impatto finanziario di questo grosso insediamento residenziale. I carichi di costi aggiunti per nuove scuole, fognature, campi da gioco e altri servizi localizzati, sono limitati ai nuovi gruppi che richiedono i servizi aggiuntivi. Lo strumento del distretto speciale probabilmente è utile, anche, per il suo effetto di controllo; le persone che richiedono servizi aggiunti hanno di fronte una richiesta di tasse più alta, a ricordare concretamente come più servizi significhi più spese pubbliche.

Effetti finanziari e programmi di modernizzazione delle entrate

In un’epoca precedente, quando la tassa sugli immobili aveva una relazione più diretta rispetto alle entrate pubbliche totali, era senza dubbio possibile misurare l’impatto finanziario in modo piuttosto preciso. Oggi questo obiettivo è più difficile, quando una parte crescente della struttura delle entrate dipende dal sostegno di sovvenzioni e tasse speciali. I programmi di sovvenzioni statali per la salute, l’istruzione e altre attività, promettono di inviare grosse somme nelle casse degli enti pubblici nell’area di Levittown (il primo di questi incrementati sussidi attende la determinazione dell’importo in base alle cifre del censimento 1950). I versamenti per le licenze edilizie, le ispezioni, i permessi di lavoro, non sono sufficienti per essere considerati un ritorno economico congruo per un insediamento delle dimensioni di Levittown.

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Aprirà i battenti nel marzo 2007 il parco divertimenti di Roma-Valmontone (40 chilometri dalla capitale) la megastruttura ideata e finanziata da Alfa Park (la Srl costituita per il 55% dal gruppo Draco, per il 25% da Gruppo Hopa, per il 16% da Zorzafin Srl e per il 4% da Maxinvest Spa, con un patrimonio netto di 50 milioni).

Il parco rappresenta la seconda tappa del polo turistico integrato di Valmontone, un intervento nato sulla base di un accordo di programma firmato con le istituzioni locali nel 2001, che prevede un investimento complessivo di 500 milioni di euro, su un'area di 200 ettari.

Gli investimenti previsti per il parco a tema ammontano a 300 milioni, di cui 200 nella prima fase ripartiti tra interventi di urbanizzazione e parcheggi (20 milioni), opere civili (45), tematizzazioni (35 milioni), impianti (30), attrazioni (65), start up (cinque).

Il progetto esecutivo prevede la realizzazione, sui 770mila metri quadrati del parco, di quarantanove attrazioni complessive, cinque teatri, cinque ristoranti, sette self service. Prevista, tra l'altro, anche la realizzazione di dieci sale di intrattenimento, tredici bar, ventiquattro negozi e due cinema. Dei 70 ettari, 25 circa saranno adibiti a verde e parcheggio per circa seimila posti auto, mentre le superfici coperte ammonteranno a 40mila metri quadrati.

Secondo Giuseppe Taini, amministratore delegato di Alfa Park Srl «il giro di affari intorno al megaparco frutterà cento milioni l'anno tra ingressi, ristorazione, negozi e giochi».

All'interno dell'area sarà avviato anche un progetto sperimentale per la realizzazione di una centrale-laboratorio di produzione idrogeno da fonti rinnovabili per l'alimentazione del polo turistico.

Nella stessa area ha già aperto i battenti, con un investimento, in corso, di 100 milioni, l'outlet factory store previsto dallo stesso polo turistico integrato, che si completerà a marzo, con una seconda inaugurazione.

Il master plan del polo turistico integrato prevede inoltre, a partire, dal 2007, la realizzazione di strutture turistico-alberghiere e congressuali (60 milioni di investimenti previsti). A completare il piano complessivo da 500 milioni, i 40 milioni stimati per le infrastrutture.

Sempre a Valmontone sta per aprire i battenti (l'inaugurazione è prevista per il mese di maggio 2005) anche il megastore della pubblica amministrazione, una sorta di sportello unico, allestito all'interno della stazione ferroviaria, dove sarà possibile espletare ogni tipo di pratica amministrativa.

Lo spazio, che il Comune ha inserito nel piano triennale delle opere pubbliche con un bilancio di circa 800mila euro, sarà dotato anche di un parcheggio multipiano (in fase avanzata di realizzazione) con decine di posti macchina, spazi di sosta per gli autobus pubblici e per gli esercizi commerciali, di giardini pubblici.

Il progetto prevede inoltre la realizzazione di trenta negozi e sportelli dell'amministrazione pubblica centrale e locale, tra cui uno sportello anagrafe comprensoriale collegata con gli uffici anagrafe del territorio, punti informativi della questura, degli uffici delle imposte, dell'Inps e delle Poste, collegati fra loro da un sistema informatico.

Lo spazio sarà inserito all'interno della stazione ferroviaria della cittadina, oggetto di radicali interventi infrastrutturali quantificati in 15 miliardi di vecchie lire.

Nota di premessa : Il testo che segue non è in versione integrale: mancano i paragrafi sulla demografia, i mezzi di trasporto circolanti urbani e non, l'economia e altro . Oltre ai passi segnalati di seguito con "[...]" omessi, mancano tutte le tabelle, tranne una, anche se credo bastino i riferimenti nel testo a dare almeno un'idea generale dei loro contenuti. Sono state omesse per motivi di tempo anche le (poche) note bibliografiche a pie' di pagina. Le fotografie a colori inserite nel testo a titolo soprattutto "ornamentale" sono mie, e rappresentano tratti urbani e suburbani di una delle componenti base del "corridoio padano": la Statale 11 Padana Superiore. Per sapere quale tratto di strada raffigurano, basta cliccare sull'immagine.

Fabrizio Bottini

l. Generalità del “Corridoio Padano” ed altri esempi similari nel mondo

Se da Torino a Venezia si traccia una linea ideale, corrente mediamente fra il tracciato della ferrovia Torino-Milano-Venezia, quello dell’autostrada e quello della Strada Statale n. 11 Padana Superiore, se si considera un’area racchiusa entro una fascia larga circa 40 km, il cui asse sia rappresentato dalla linea ideale sopraindicata, se a questa fascia si aggiunge, fra Ticino e Adda, una espansione a nord di altri 20 km ed infine si racchiude l’area, alle due estremità di Torino e di Venezia, con linee aventi, grosso modo, andamento semicircolare, con raggio di 20 km e centro rispettiva mente in piazza Castello a Torino e Piazza S. Marco a Venezia, si delinea un territorio estendentesi in lunghezza per quasi 400 km da Ovest a Est, corrente lievemente più a nord del 45° parallelo, avente caratteristiche singolari ed una importanza geo-demografico-economica eccezionalissima; denomineremo tale territorio metropolitano Corridoio Padano, per analogia con altre aree ad elevata concentrazione demografica aventi pure una distribuzione lineare.

Come indicato nelle tabelle 1 e 2, riassumenti l’ampiezza demografica (cioè la distribuzione dei comuni in funzione del numero degli abitanti) del Corridoio Padano e nelle tabelle 3 e 4 (vedremo nei capitoli successivi i criteri con cui queste ed altre tabelle sono state elaborate), nonché nelle tavole I e II fuori testo, si rileva anzitutto che questa vera e propria megalopoli padana interessa direttamente e sensibilmente le province piemontesi di Torino, Novara, Vercelli, quelle lombarde di Milano, Varese, Como, Brescia, Bergamo e quelle venete di Verona, Vicenza, Padova e Venezia; interessa in minor misura le province lombarde di Pavia, Cremona e Mantova e la provincia veneta di Treviso, e infine riguarda solo marginalmente ed in misura esiguissima le province piemontesi di Asti e di Alessandria.

Dalle tabelle riassuntive 3 e 4 si rileva altresì che la popolazione complessiva residente nella megalopoli lineare padana al 31-12-1968 era di ben 11.140.279 abitanti, distribuiti su 20.022,2 kmq di superficie che, al netto delle aree lagunari venete, si riducono a 19.497,1 kmq.

La densità di popolazione pertanto, riferita alla superficie emersa, risultava al 31-12-1968 mediamente di 571 abitanti per kmq, con un valore massimo di oltre 1.500 abitanti per kmq, per la parte compresa nella provincia di Milano, valori fra 700 e 800 abitanti per kmq, per le parti comprese nelle province di Torino, Varese, Como e Venezia (terre emerse), e per il resto (salvo Mantova, Vercelli e le due zone marginali di Asti e Alessandria) valori di almeno 250 abitanti per kmq. Se in particolare si tiene presente che una certa parte del Corridoio Padano, appartenente alle province di Torino, Novara, Vercelli, Como, Varese, Verona, Vicenza, e soprattutto Bergamo e Brescia, comprende anche zone orograficamente accidentate, per cui in tali zone l’area realmente utilizzabile per gli insediamenti umani è assai minore di quella complessiva delle circoscrizioni comunali prese in esame, le densità, risultanti statisticamente, possono considerarsi apparenti e mascherare, per talune province a densità media minore, delle densità reali ben più elevate.

Senza entrare in ulteriori particolari, che saranno oggetto dei paragrafi successivi, in rapporto al complesso delle tre regioni entro cui si estende la Megalopoli Lineare Padana (Piemonte, Lombardia e Veneto) e in rapporto all’intera nazione, l’area del Corridoio Padano (riferita alle terre emerse e cioè esclusa la zona lagunare veneta, che però statisticamente figura compresa, a differenza di quella lacuale, nei comprensori dei relativi comuni) costituisce rispettivamente il 28,8 e il 6,5%; la popolazione residente è invece (al 31-12-1968) il 67,1% e il 20,7%.

Significativa la dinamica demografica che pel momento ci limitiamo ad indicare nel suo assieme. Dal censimento 1961 al 31-12-1968 la popolazione è aumentata del 14%, contro il 9,46% delle tre regioni Piemonte, Lombardia, Veneto e il 6,06% della intera Nazione. Per contro l’aumento della popolazione residente nei comuni delle tre regioni, esclusi dal Corridoio Padano, è stato, dal 1961 al 1968, solo dell’1,2%. Se poi facciamo riferimento agli anni più recenti, l’aumento demografico assoluto del Corridoio Padano (mediamente di circa 180.000 abitanti all’anno); ha raggiunto i 2/3 di quello relativo all’intera nazione e praticamente costituisce la quasi totalità dell’aumento demografico delle tre regioni.

Per quanto riguarda il reddito lordo totale, nell’area del Corridoio Padano si concentra quasi il 30 per cento del prodotto nazionale.

Premessi questi dati fondamentali che, come si è detto, verranno successivamente illustrati, vediamo ora di stabilire qualche elemento di raffronto con altre grandi aree metropolitane similari esistenti.

In Europa concentrazioni demografiche con caratteristiche tipicamente metropolitane, estendentisi linearmente per circa 400 km, praticamente non esistono.

Nel mondo invece sono ben noti il Corridoio Nord-Est degli Stati Uniti e la Megalopoli Lineare del Tokaido in Giappone che, pur essendo di dimensioni maggiori del Corridoio Padano, presentano notevoli analogie.

Riassumiamone le caratteristiche.

Il Corridoio Nord-Est degli Stati Uniti è costituito da una fascia relativamente stretta (in taluni punti non più larga di 50 km), che si svolge lungo un allineamento Nord-Est Sud-Ovest, praticamente parallelo alla costa atlantica, fra Boston, ubicata poco più a nord del 42° parallelo e all’incirca sul 71° meridiano, e Washington, sul 39° parallelo e ad ovest del 75° meridiano. La distanza in linea d’aria fra i centri delle due città terminali è di 625 km; le vie terrestri correnti fra i due suddetti centri e colleganti anche i vari grossi insediamenti abitati intermedi (autostrada e ferrovia) si sviluppano per circa 700 km.

Il litorale lungo il quale si svolge questa fascia metropolitana è dotato di numerose attrezzatissime installazioni portuali, tutte aventi facile accesso dall’Oceano Atlantico.

I centri urbani, che si sono sviluppati lungo questa fascia, costituiscono, salvo limitate interruzioni, una continuità abitata, cui giustamente si attribuisce la denominazione di megalopoli. È l’area degli Stati Uniti che presenta la più forte densità di popolazione, in quanto al suo interno trovansi concentrazioni urbane che raggiungono i 40.000 abitanti per kmq (del tutto inesistenti in Europa e possibili solo in America, per gli edifici eccezionalmente elevantisi in altezza).

La popolazione racchiusa nel Corridoio Statunitense, che ricopre solo l’1,6% della superficie totale della Nazione (all’incirca 175.000 kmq), è di oltre 40 milioni di persone, che si prevede, entro la fine del secolo, divenga di 70 milioni.

In questa megalopoli lineare si svolge il 50% dell’attività finanziaria dell’intera nazione, il 30% delle vendite all’ingrosso e il 20% della produzione industriale e praticamente la stessa percentuale del reddito totale lordo degli Stati Uniti.

La città di New York trovasi press’a poco in mezzo a questo asse di 650 km di lunghezza e, sebbene la sua regione metropolitana si estenda fino a 100 km dal suo centro, l’influenza di questo gigantesco agglomerato intermedio abbraccia l’intera area del corridoio.

Le zone comprese nel corridoio statunitense sono state divise in:

a) zone urbane di particolare concentrazione abitata ad elevata densità (oltre 4.000 abitanti per kmq), estendentisi solo per 2.000 kmq circa, con 15,4 milioni di abitanti;

b) zone urbane a media densità (da 400 a 4000), che coprono poco più di 12.000 kmq, con 14,6 milioni di abitanti;

c) zone suburbane (con densità compresa fra 40 e 400 abitanti per kmq, che si estendono per circa 52.000 kmq e raggruppano quasi 7 milioni di abitanti;

d) zone rurali (densità minore di 40 abitanti per kmq) con 2 milioni di abitanti, che circondano le precedenti e che si estendono nel resto del Corridoio.

Come vedesi, poco meno di 40 milioni di abitanti sono raggruppati nelle aree urbane e suburbane del corridoio statunitense, che coprono globalmente un’area di circa 66.000 kmq, sui 175.000 totali della megalopoli, con una densità media di 600 abitanti per kmq.

La Megalopoli Lineare del Tokaido si estende invece esattamente lungo il 35° parallelo fra Tokyo e Kobe, nell’isola di Konshu, la maggiore dell’Arcipelago Giapponese, ed essa pure collega una serie di grossi centri fra cui sussiste pressoché una continuità abitata. Come il corridoio statunitense molti centri della Megalopoli del Tokaido sono facilmente accessibili anche via mare, essendo importanti porti del litorale sud-orientale giapponese sull’Oceano Pacifico.

La distanza in linea d’aria fra i centri delle città estreme è di 450 km; le vie terrestri di comunicazione si sviluppano invece per quasi 600 km, collegando tutte le grosse località intermedie; (sei delle sette città giapponesi con più di 1 milione di abitanti sono situate lungo la megalopoli del Tokaido).

La popolazione totale compresa (al 1968) in questa gigantesca area urbana è di poco superiore ai 40 milioni di abitanti, all’incirca il 43% della popolazione totale della nazione, ed è in forte espansione demografica.

La superficie si aggira sui 60.000 kmq, per cui la densità media è di poco inferiore ai 700 abitanti per kmq, oltre due volte e mezzo la media dell’intera nazione. In quest’area è concentrata più della metà del reddito totale lordo dell’intero paese.

Per quanto riguarda le infrastrutture di trasporto a servizio delle due suddette megalopoli lineari, si ricorda che in quella statunitense, con un investimento di circa 2 miliardi di dollari, era stata ampliata la gigantesca autostrada corrente lungo tutta l’intera estensione fra Boston e Washington e con l’investimento di altri 2 miliardi di dollari erano state ampliate le infrastrutture aeroportuali.

Dimostratisi insufficienti tali interventi di fronte all’ingentissimo e sempre crescente traffico svolgentesi lungo l’asse del corridoio, recentemente l’attenzione dei politici si è rivolta all’ammodernamento dell’infrastruttura ferroviaria, il cui potenziamento, mediante un servizio frequentissimo e ad elevatissima velocità, pressoché a carattere metropolitano, dovrebbe decongestionare le attuali vie di comunicazione stradali ed aeree, al limite di saturazione e di difficile ulteriore potenziamento, ed in pari tempo con sentire nuove rapide, frequenti e comode relazioni fra i centri serviti.

Nel corridoio giapponese del Tokaido i servizi di trasporto interno dapprima erano disimpegnati per via aerea, per autostrada e con una ferrovia a doppio binario, inserita nel resto della rete giapponese a scartamento ridotto; in questi ultimi anni, come è noto, è stata costruita la ferrovia del Tokaido, vera e propria ferrovia metropolitana interregionale, a elevatissima velocità, di cui è previsto un ulteriore prolungamento oltre Osaka.

Si richiama infine l’attenzione sul fatto che mentre negli Stati Uniti la motorizzazione individuale è elevatissima (alla fine del 1968 circolavano circa 83 milioni di autovetture, rispetto ad una popolazione di 200 milioni di abitanti), assai modesta è invece la motorizzazione individuale giapponese; alla stessa data circolavano poco più di 5,2 milioni di autovetture, per un centinaio di milioni di abitanti.

Quale è la posizione del Corridoio Padano rispetto alle due massime Megalopoli del mondo, di cui ora abbiamo richiamato sommariamente le principali caratteristiche?

Per estensione territoriale il Corridoio Padano è circa 1/3 delle aree di maggior concentrazione demografica appartenenti alle due suddette megalopoli; poco meno ne è la consistenza demografica, mentre la densità media è pressoché la stessa, superando alla fine del 1968 i 570 abitanti per kmq, cioè pari a quella delle aree urbane e suburbane del corridoio statunitense e di poco inferiore alla densità media della megalopoli del Tokaido.

Economicamente, come meglio vedremo più avanti, il Corridoio Padano corrisponde ad 1/3 di quello giapponese e ad oltre un decimo di quello statunitense.


Zone Demografiche Corridoio Statunitense Corridoio Padano
Sup. (kmq) Ab. (milioni) % Sup. % Pop. Sup. (kmq) Ab. (milioni) % Sup. % Pop.

Urbana (oltre 400 ab/kmq) 14.250 30,0 8,2 78 5.900 8,71 30,3 78,2

Suburbana (40400 ab/kmq) 51.800 6,7 29,5 17 13.400 2,42 68,7 21,7

Rurale (meno di 40 ab/kmq) 109.400 2,0 62,3 5 0,200 0,01 1,0 0,1
175.450 38,7 100 100 19.500 11,14 100 100

2 .Caratteristiche geografiche del Corridoio Padano

Si è detto che la Megalopoli Lineare Padana è costituita da una fascia, compresa fra il 45° e il 46° parallelo corrente fra Torino e Venezia, larga all'incirca 40 km, salvo un breve tratto intermedio in cui è larga 60 chilometri.

La distanza in linea d'aria fra i centri delle città estreme è di 360 km; le comunicazioni terrestri (strada statale, autostrada e ferrovia) hanno invece uno sviluppo alquanto superiore ai 400 km.

Fra il Ticino e l’Adda questa fascia, ad andamento lievemente arcuato verso settentrione, si estende a nord per altri 20 km, fino al confine svizzero, così da comprendere un’area urbanizzata avente caratteristiche del tutto simili a quelle della restante fascia.

Per la sua posizione pedemontana, una parte dei comprensori delle circoscrizioni comunali, comprese in questa fascia è orograficamente accidentata e di conseguenza le superfici disponibili, per insediamenti umani di notevole produttività (attività industriali o commerciali), sono inferiori a quelle figuranti statisticamente.

Il Corridoio Padano è completamente entroterra, dispone di un solo porto marittimo (Venezia) ad una delle sue estremità, per cui le relazioni commerciali promiscue terra-mare, interessanti la maggior parte dei centri, dislocati lungo la megalopoli, devono svolgersi secondo direttrici più o meno inclinate rispetto all’asse della megalopoli stessa. Per il suo traffico interno comunque non dispone di vie marittime; non solo, ma a tutt’oggi praticamente non dispone neppure di idrovie; il corso del Po, che da anni è in via di canalizzazione, non può considerarsi una efficiente via di acqua interna al servizio delle aree comprese nel Corridoio Padano, e i progettati canali Milano Po e Mincio-Ticino sono ancora lontani da una loro completa realizzazione, anche se sono stati iniziati i lavori di costruzione del primo.

Nel Corridoio Padano esiste un susseguirsi di numerosi importanti centri abitati di varia grandezza, di cui 2 oltre il milione di abitanti, 4 da 200 mila a 1.000.000, 3 da 100 a 200.000 e 11 da 50 a 100.000; fra i 10 e i 50.000 abitanti si contano 131 centri, cui se ne aggiungono 76 compresi fra i 7.500 e 10.000 abitanti; tutto ciò dimostra il notevole frazionamento amministrativo dell’area da noi considerata, ma pone anche in particolare evidenza le sue caratteristiche urbane.

Geograficamente la distribuzione di questi centri costituisce un’unica continuità; rare e molto ridotte sono le zone meno affollate, che si trovano solo nella parte piemontese.

Questa circostanza determina una netta distinzione fra il concetto di megalopoli lineare, che qui è stata definita Corridoio Padano e che è l’oggetto del presente studio, ed altri raggruppamenti demografici che si possono ricavare fra i maggiori centri dell’Italia settentrionale. Un esempio di tali raggruppamenti è la Metropoli Padana che recentemente ha autorevolmente esaminato, sotto i suoi molteplici aspetti, il Prof. ZIGNOLI, riprendendo un precedente studio di G. VIGLIANO. Tale raggruppamento si riferisce al famoso triangolo industriale Torino-Milano-Genova, dove però fra il vertice genovese e gli altri due esiste una netta separazione, costituita dalla barriera appenninica, che, per quanto possa essere attraversata da infrastrutture ferroviarie, stradali e autostradali sempre più efficienti, rappresenta una soluzione di continuità non indifferente.

Inoltre se in tutta l’estensione della megalopoli lineare Torino-Venezia esiste qualche punto di minore continuità questo trovasi proprio nel tratto piemontese fra Torino e Milano.

Considerando all’interno dell’area del Corridoio Padano la ripartizione dei comuni in funzione della loro densità, con gli stessi criteri secondo cui è stato suddiviso il Corridoio nord-est degli Stati Uniti (criteri che si è ritenuto opportuno adottare come base, anche nel presente studio, per facilità di raffronto, la superficie complessiva di 19.497,1 kmq (escluse le aree lagunari) si distribuirebbe per kmq 361,2 in zone urbane ad elevata densità, con oltre 4.000 abitanti per kmq, praticamente limitate ai comprensori comunali di Torino, di Milano e di alcuni grossi centri contigui a Milano (Bresso, Cinisello Balsamo, Cologno Monzese, Cormano, Corsico, Cusano Milanino e Sesto San Giovanni), e per kmq 5.551,4 in zone urbane con densità compresa fra 400 e 4000 abitanti per kmq. Le zone suburbane, da 40 a 400 abitanti per kmq, si estendono invece per kmq 13.396,5; infine le zone rurali sono limitatissime, complessivamente 188,0 kmq, di cui la maggior parte (155,1 kmq) in provincia di Vercelli. In particolare non figurano entro l’area del Corridoio Padano in Lombardia e nel Veneto, zone rurali, cioè con densità inferiore ai 40 abitanti per kmq.

La tab. 6 indica, per le varie province, la distribuzione della popolazione e l’ampiezza delle varie zone comprese nei limiti di densità demografica sopracitati. Complessivamente poco meno di un terzo della popolazione (il 28 % circa) risiede nelle aree di maggior densità, la metà nelle aree urbane di media densità (400-4000 ab/kmq); poco più di 1/5 (il 21,7 %) risiede infine nelle zone suburbane; trascurabile è l’apporto delle aree rurali (soltanto lo 0,1 %).

A differenza delle megalopoli lineari statunitense e giapponese, di cui uno degli estremi è costituito dalla capitale di stato, il Corridoio Padano non comprende la capitale della nazione italiana; ne comprende però il maggior centro economico (Milano), che è anche il capoluogo della provincia che ha il reddito lordo totale prodotto più elevato dell’intera nazione. Similmente a quanto avviene per il Corridoio Statunitense, in cui l’influenza di New York si estende praticamente a tutti gli altri centri della megalopoli, l’influenza di Milano si estende in modo sensibile da Torino a Venezia.

Vediamo ora altre caratteristiche geografiche del Corridoio Padano. Dato il suo andamento secondo i paralleli, esso taglia tutte le direttrici di traffico da nord a sud interessanti l’Italia, per cui buona parte dei suoi centri sono anche importanti nodi di traffico fra le correnti che si svolgono secondo i meridiani e il movimento trasversale che si effettua lungo il suo asse.

La maggior parte dell’area della Megalopoli Lineare Padana è pianeggiante, tuttavia una certa percentuale appartiene a zone collinari e una aliquota minore è montuosa. Questa circostanza, come si è detto, altera nella realtà e non di poco i valori ufficiali delle densità demografiche per taluni centri. Comunque ciò non muta la sostanza dei problemi che gravano sul complesso, salvo influire negativamente sulle difficoltà delle sue vie di comunicazione.

Nelle province piemontesi, ed anche in talune lombarde, il territorio è eccessivamente frazionato, comprendendo numerosissime circoscrizioni amministrative di limitatissima entità; 18 di esse, di cui una è in Piemonte e 17 sono in Lombardia, incluse nell’area del Corridoio Padano, ricoprono una superficie addirittura inferiore ai 2 kmq. Questo eccessivo fraziona mento territoriale, al quale per analogia corrisponde (vedi capitolo successivo) un frazionamento demografico pure eccessivo, rivela ancor viva l’esistenza, in una area ad elevatissimo livello economico e sociale, di una mentalità campanilistica ormai largamente superata, che si riflette sfavorevolmente sulla evoluzione generale della zona. Il fenomeno è poi stranamente in espansione; infatti non sono mancate anche in questi ultimi anni scissioni di piccoli comuni in circoscrizioni amministrative ancor minori.

Il Corridoio Padano, riguardo alla sua ubicazione, rispetto alle regioni contigue, è aperto verso sud sulla Pianura Padana ed è chiuso invece per gran parte a nord dalla barriera delle Alpi. Le regioni però che lo circondano, tanto a sud quanto a nord, sono pur esse aree demografiche attive ed intensamente abitate. Infatti la Liguria e l’Emilia Romagna a sud, la Valle d’Aosta, la Regione Trentino Alto Adige, il Friuli Venezia Giulia a nord e nord-ovest, nonché le regioni d’oltralpe francesi, svizzere, austriache e tedesco-occidentali, più vicine alla Megalopoli Lineare Padana, sono regioni che poco si scostano dal suo livello demografico ed economico, anche se meno densamente abitate.

[...]

5 La viabilità extraurbana

Premesso il quadro, che si ritiene sufficientemente esauriente, tratteggiato nei capitoli precedenti, nel quale sono state passate in rassegna tutte le caratteristi che geografiche, demografiche ed economiche del Corridoio Padano, vediamo ora come si presenta il sistema di vie e mezzi di comunicazione a servizio di detta area metropolitana, al fine di valutarne l’attuale consistenza nonché la eventuale sua corrispondenza alle esigenze future.

Consideriamo per prima la viabilità. Circa la rete di strade amministrativamente definite urbane, cioè di pertinenza dei maggiori centri abitati della zona, non esistono statistiche dalle quali trarre elementi per stabilirne la consistenza, l’efficienza nonché il grado di utilizzazione. È assodato comunque la circostanza che molte di tali strade, specie se importanti ed attraversanti i centri maggiori, si presentano oggi quasi permanentemente congestionate, cosi da esigere da parte delle autorità comunali competenti l’imposizione di norme restrittive (divieto di parcheggio, sensi unici, corsie riservate ai mezzi pubblici, ecc.) miranti a disciplinare in qualche modo la circolazione, dato che interventi infrastrutturali, in quel determinato settore, si presentano onerosissimi e di difficile attuazione, dovendo in gran parte interessare centri storici, vincolati da un complesso di esigenze (artistiche, residenziali, commerciali, ecc.), che non possono essere trascurate.

Elementi più precisi si hanno invece nei riguardi della rete stradale extraurbana, un esame della quale può di riflesso consentire importanti considerazioni anche nei riguardi della rete urbana.

Le statistiche ufficiali (ISTAT, ANFIA, ACI) danno l’estensione della rete stradale extraurbana, ripartita per ogni provincia e per ognuna delle varie categorie di strade, secondo cui amministrativamente è suddivisa la rete italiana (autostrade, strade statali, strade provinciali, strade comunali).

Stralciare dalle varie province interessate la parte relativa alla zona compresa nel Corridoio Padano, costituirebbe una valutazione, se non praticamente impossibile, comunque estremamente laboriosa; pertanto, nei riguardi della viabilità ci limiteremo anzitutto (e ciò dà già risultati sufficientemente significativi) a considerare, nel loro complesso, le sedici province più interessate alla Megalopoli Lineare Padana, cioè tutte quelle sin qui prese in esame, escluse Asti ed Alessandria, interessate in modo limitatissimo e marginale.

Nella tabella 12, per ognuna delle suddette province, è riportata l’estensione della rete stradale extraurbana alla fine del 1968, ripartita secondo la classificazione amministrativa sopracitata.

Dalla tabella stessa si rileva subito che, rispetto al complesso nazionale, le province interessate al Corridoio Padano, nel loro insieme presentano una buona disponibilità di autostrade, una disponibilità invece assai modesta di strade statali e disponibilibilità più favorevoli nel settore delle strade provinciali e soprattutto in quello delle comunali. Ciò è logica conseguenza del fatto che, essendo gli enti locali dell’Italia del Nord più ricchi di quelli dell’Italia meridionale, anche nel settore delle infrastrutture stradali, l’intervento dello Stato è minore, mentre percentualmente più elevato è l’intervento degli enti locali.

Nel complesso (tab. 12), ragguagliato alla superficie, lo sviluppo stradale delle sedici province considerate è maggiore della media nazionale, 1,24 km per kmq in luogo di 0,94; ragguagliato alla popolazione, 10 sviluppo stesso è invece minore, 3,98 km per 1000 abitanti anziché 5,26. Elemento significativo è la dotazione, cioè il prodotto dello sviluppo per kmq moltiplicato per quello relativo ad ogni 1000 abitanti, che, per il complesso delle suddette province, è praticamente uguale alla media italiana; cioè praticamente la deficienza di rete stradale rispetto alla popolazione è compensata dall’eccedenza rispetto alla superficie territoriale.

I dati sopra citati variano però notevolmente da provincia a provincia; nei riguardi della superficie, le province più dotate di strade sarebbero Varese, Verona, Mantova e Padova, le meno dotate Novara, Venezia, Vercelli, Pavia e Bergamo. In rapporto alla popolazione, la meno dotata risulta nettamente la provincia di Milano, seguita da Venezia e Torino; le più dotate sono Vercelli, Verona, Mantova e Novara. La dotazione maggiore si ha per Verona; dotazioni più basse si riscontrano a Milano, Venezia e Torino.

Volendo confrontare i valori relativi alla rete stradale extraurbana delle province interessate al Corridoio Padano, considerate nella loro estensione, con quelli, sempre riferiti alla fine del 1968, relativi a talune nazioni d’Europa e agli U.S.A., la conclusione è sconfortante; solo la Grecia e il Portogallo presentano uno sviluppo stradale per ogni 1000 abitanti inferiore alla media delle province padane; gli U.S.A. hanno invece uno sviluppo circa 8 volte maggiore.

Come si è detto all’inizio di questo capitolo, non sarebbe praticamente possibile ottenere, sia pure mediamente per tutta l’area del Corridoio Padano, valori esatti della rete stradale afferente. Tuttavia sembra ipotesi attendibile ammettere uno sviluppo della rete stradale extraurbana nell’area del Corridoio Padano (la cui superficie territoriale è circa il 40 % di quella complessiva delle sedici province maggiormente interessate), pari alla metà di quello totale risultante nella tabella 12.

Si tenga presente che se per talune delle province considerate una parte del territorio escluso dal Corridoio Padano è montuosa, per cui è da presumersi una estensione minore della rete extraurbana rispetto all’intero territorio provinciale, nelle zone incluse trovansi i centri abitati maggiori, all’interno dei quali esiste una rete urbana molto sviluppata, che non figura nei dati statistici, mentre più limitata risulta la rete stradale extraurbana.

Ammessa questa ipotesi, l’estensione complessiva della rete stradale extraurbana dell’area del Corridoio Padano si aggirerebbe su poco più di 29.000 km, in ragione di 1,5 km per kmq e 2,6 km per 1000 abitanti. L’indice di dotazione si ridurrebbe a 3,9. È evidente la carenza di sviluppo della rete stradale extraurbana a servizio della Megalopoli Lineare Padana. Questa carenza, come si vedrà meglio nel capitolo successivo, assume aspetti preoccupanti se viene ragguagliata alla massa dei veicoli motorizzati circolanti.[...]

Nota: per motivi di spazio, il resto del materiale relativo all'articolo di Matteo Maternini è reso disponibile in 5 PDF scaricabili. Quattro files riproducono la Tavola Fuori Testo n. 1 allegata all'articolo sulla rivista; un file è la seconda parte degli estratti, con le conclusioni (fb)

Titolo originale: Watsonville renews push to create industrial park– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini



WATSONVILLE — Vogliono creare centinaia di nuovi posti di lavoro, i rappresentanti della città, e hanno trovato un accordo per iniziare le procedure di annessione che trasformerebbero i terreni agricoli a destinazione industriale.

Il consiglio municipale esaminerà oggi la proposta di annettere 40 ettari, noti col nome di proprietà Manabe/Burgstrom, da inoltrare all’agenzia regionale responsabile per la revisione dei confini.

La proposta di annessione, elemento chiave della strategia economica della città, segue di cinque anni la bocciatura di un progetto simile da parte della Santa Cruz Local Agency Formation Commission, a seguito di alcune opposizioni. I rappresentanti della Città ritengono che i tempi – e l’atteggiamento - siano cambiati.

”Il momento è quello giusto” crede il sindaco Judy Doering-Nielsen. “Non conto i voti finché non sono stati espressi ... [ma] credo che il consiglio sia favorevole [all’annessione], e spero che anche la LAFCO veda le cose nello stesso modo ... Abbiamo bisogno di posti di lavoro”.

Il terreno, un appezzamento a forma di “L” ai margini occidentali della città, è il posto giusto per l’industria leggera, dice la signora Doering-Nielsen. Delimitato da una parte dalla zona industriale “pesante” della città lungo West Beach Street, e da nuove lottizzazioni residenziali sull’altro lato, si collega alla Highway 1 dalla vicina Riverside Drive.

In un’assemblea alla LAFCO nel 1999, centinaia di residenti si erano opposti gli uni agli altri, pro o contro l’annessione. Quelli a favore insistevano sul fatto che l’insediamento avrebbe generato posti di lavoro e entrate fiscali per il comune. I contrari erano preoccupati per la perdita di terreni agricoli, i danni alle zone umide e una potenziale espansione disordinata lungo il tracciato della Highway 1.

Dopo il no della LAFCO, rappresentanti dei vari gruppi di interesse (agricoltori, ambientalisti, imprenditori, politici) si sono riuniti a definire uno schema generale di crescita urbana. Il risultato si chiama Measure U: un piano di crescita per 25anni approvato dal 62 per cento degli elettori nel novembre 2002.

Measure U richiede che la città annetta i terreni Manabe/Burgstrom, insieme a circa 200 ettari nella zona di Buena Vista a ovest del Watsonville Municipal Airport, e a 30 ettari nell’area Atkinson Lane a sud della città.

La zona Manabe/Burgstrom è considerata il primo test per Measure U, mentre Buena Vista, un’area rurale che ha espresso forte resistenza all’annessione, può rivelarsi un caso più controverso.

Lisa Dobbins è direttore esecutivo della Action Pajaro Valley, l’agenzia non-profit formata per l’attuazione del piano Measure U. Anche lei ritiene che la situaizone sia cambiata rispetto al 1999.

Il lavoro per sviluppare un piano ha consentito alla gente di vedere “un quadro più ampio”, la necessità di un equilibrio fra residenza e crescita dei posti di lavoro, afferma Dobbins.

”Ero presente quando hanno liquidato la questione all’udienza della LAFCO” dice. “Dove aver visto quello, è sorprendente notare quanta strada abbiamo fatto in cinque anni ... È incoraggiante vedere che la città non è in guerra con la comunità, ma c’è collaborazione”.

Un esempio di questo nuovo rapporto è il sostegno della Watsonville Wetlands Watch all’annessione.

Marian Martinez, membro del gruppo ambientalista e residente della città, definisce l’impegno dell’amministrazione per il sistema delle paludi “un cambio di centottanta gradi”.

”Il vecchio progetto era semplicemente di annettere i terreni e destinarli all’urbanizzazione, senza riconoscere l’importanza della palude” dice.

Ma negli anni recenti, l’amministrazione ha dimostrato una nuova considerazione per la tutela dell’ambiente, con gli sforzi per sviluppare un sistema di percorsi attraverso le zone umide e un piano per il recupero della palude. Questo ha provocato un ribaltamento nelle prospettive del gruppo ambientalista, riguardo al futuro dell’area Manabe/Burgstrom.

”Abbiamo bisogno delle zone umide per la salute generale della valle” dice Martinez. Contiamo sull’annessione per raggiungere questo scopo”.

Il Santa Cruz County Farm Bureau, che si era opposto al precedente tentativo di annessione, non sembra incline ad opporsi al nuovo piano, dato che è parte della Measure U, afferma Jim Rider, che rappresenta il gruppo ai negoziati di Action Pajaro Valley. Ma distingue, fra il non opporsi e il sostegno all’annessione. La comunità degli agricoltori non rinuncerà alle buone terre coltivabili Manabe/Burgstrom senza guadagnarci qualcosa in cambio.

”È un grosso compromesso” afferma Rider. “Ma [ Measure U] ha messo le aree critiche, le zone agricole migliori, al sicuro, incoraggiando la crescita urbana verso zone con terreni poveri, come l’area di Buena Vista “.

Nota: qui il testo in originale al sito del Santa Cruz Sentinel online; per un esempio di assemblea partecipata locale, anche se su temi diversi come quello parallelo della residenza, un link al Watsonville Livable Community Workshop (fb)

Titolo originale: Is Urban Planning “Creeping Socialism”? – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il socialismo è comunemente definito come la proprietà governativa dei mezzi di produzione. Eccetto per un certo numero di servizi considerati monopoli naturali, come le fognature o l’acquedotto, il socialismo come forma di proprietà pubblica non ha mai avuto spazio negli Stati Uniti. Al suo posto, gli enti di governo si sono basati sull’emanazione di regole, come metodo per ottenere gli stessi scopi che il socialismo afferma di perseguire: efficienza, equità, controllo delle esternalità. Se questo approccio è socialismo, allora l’urbanistica rappresenta un socialismo strisciante più o meno dal 1920. Ma di recente ha subito un’accelerazione, e sembra correre anziché strisciare. In più, ha un tale vantaggio di partenza che gli amanti della libertà potrebbero anche non essere in grado di fermarlo, e men che meno di invertirne la rotta.

L’urbanistica si basa sull’idea che gli abitanti delle città impongano numerose esternalità l’uno sull’altro e che le norme di pianificazione e altre regole possano minimizzarle. Nonostante la loro affermazione di fondatezza scientifica, gli urbanisti spesso non hanno idea di quello che stanno facendo: le città sono semplicemente troppo complesse da capire, o controllare. Di conseguenza, la storia dell’urbanistica è la storia di una serie di mode stravaganti, la maggior parte delle quali si sono risolte in disastri. Lo urban renewal e le case poplari pubbliche sono due esempi evidenti.

Per ironia, il fallimento dell’urbanistica passata rappresenta la premessa per l’ultima moda, variamente denominata new urbanism, neo-tradizionalismo, o smart growth. Gli urbanisti smart-growth notano numerosi problemi nelle nostre aree urbane, dalla congestione, all’inquinamento atmosferico, ai prezzi troppo alti delle abitazioni, alla scomparsa dello spazio pubblico, al costo dei servizi. Per tutti questi problemi, danno la colpa alle scorse generazioni di urbanisti che, dicono i sostenitori della smart growth, hanno sbagliato tutto. La soluzione, naturalmente, è di dare agli urbanisti di oggi più potere che mai, perché ora, affermano, hanno la soluzione giusta.

Le ricette della Smart-Growth

Le ricette della smart-growth comprendono variazioni sui temi:

La smart growth ha avuto impulso governativo nel gennaio 1999, quando ottenne il sostegno del Vice Presidente, Al Gore. Le agenzie di pianificazione metropolitane di tutto il paese stanno considerando se adottare politiche smart growth, o simili. La Environmental Protection Agency ma minacciato di tagliare i finanziamenti sui trasporti e altri sostegni federali a molte città che non adottano programmi del genere.

La smart growth sta tentando di invertire due solide tendenze del ventesimo secolo. La prima è il crescente uso del trasporto motorizzato personale. Col crescere del reddito, persone che un tempo si muovevano a piedi o sui mezzi pubblici hanno scelto invece di comprare e guidare automobili. La seconda, legata alla prima, è la domanda crescente di spazio di vita privato, sotto forma sia di dimensione della casa che del lotto fabbricabile. Dato che le auto hanno reso il trasporto meno costoso, le persone si sono spostate dai grandi centri urbani, acquistando grandi lotti per le proprie abitazioni.

Queste tendenze sono evidenti negli Stati Uniti, ma non sono soltanto americane. In tutto il mondo, al crescere del reddito, la gente compra automobili e si sposta verso sobborghi a bassa densità. Negli Stati Uniti, i sostenitori della smart-growth danno la colpa di questa tendenza ai sussidi governativi come quelli per le autostrade, o alle garanzie sui mutui per le abitazioni. Ma si possono osservare le medesime tendenze nei paesi dell’Europa occidentale, dove i sussidi sono stati orientati al trasporto pubblico e a insediamenti ad alta densità, mente chi desiderava automobili e abitazioni a bassa densità è stato penalizzato.

Già nel 1922 l’architetto Frank Lloyd Wright vedeva come le nuove tecnologie stessero decentrando le città. “In quest’epoca di energia elettrica, automobili e telefoni” diceva, la concentrazione urbana “diventa congestione senza senso: è una bestemmia”. Oggi, Wright aggiungerebbe gli aerei a reazione e internet alla sua lista di tecnologie decentratrici. Negli Stati Uniti, la quantità di guida pro capite è cresciuta costantemente dal 25 al 35 per cento a decennio, con una media dal 2 al 3 per cento l’anno, almeno dagli anni ‘20. Parallelamente, le persone si sono spostate sempre più verso zone a bassa densità, fino a che oggi circa la metà degli americani vive nei suburbi, e metà del rimanente in piccole cittadine a bassa densità e zone rurali.

Sin dagli anni ’50 i critici hanno denunciato i suburbi come luoghi sterili, senza vita e identità. John Keats definiva i sobborghi “concepiti per errore, alimentati dall’ingordigia, corrosivi per ogni cosa che toccano”. Little Boxes, una canzone del 1960 dell’autrice di Berkeley Malvina Reynolds, resa popolare da Pete Seeger, li etichettava “ ticky-tacky.” Più di recente, James Kunstler li ha descritti come “un habitat umano di scarto, pomposo e senza futuro” e “tic istintivo di una cultura mentalmente morta”. Opinioni negative di natura soprattutto estetica, e che non hanno impedito alla gente di spostarsi verso zone a bassa densità.

Sin dagli anni ’60 i critici sul versante dei trasporti avvertivano che le automobili stavano distruggendo le città. A. Q. Mowbry sosteneva che i favorevoli alle autostrade stavano “soffocando il paese in una coperta di asfalto”. Ancora nel 1997 Jane Holtz Kay afferma che l’automobile ha abbassato “sia la qualità del muoversi che quella della vita”. Ma gli americani continuano a guidare, sempre di più.

La smart growth rappresenta una fusione fra il movimento degli anti-suburbio and quello degli anti-automobile. Per invertire la tendenza a suburbanizzazione e uso dell’auto, gli aderenti vogliono imporre misure draconiane ai residenti urbani. Regole che vanno da requisiti minimi di densità, a rigide norme di progetto, a limiti sui parcheggi e i trasporti.

Requisiti minimi di densità

I requisiti di densità sono il logico passo successivo delle regole di zoning, che le città americane hanno iniziato a adottare negli anni immediatamente precedenti il 1920. Lo zoning originariamente era finalizzato a proteggere i valori immobiliari dalle esternalità. Nessuno vuole vivere di fianco a una fabbrica sporca e puzzolente. Per questo, la gente in molte zone residenziali si oppone a insediamenti commerciali al proprio interno, e quartieri di abitazioni unifamiliari non vogliono che si costruiscano edifici ad appartamenti.

Inizialmente, le città adottarono quattro zone base: industriale, commerciale-terziaria, case multifamiliari, case monofamiliari. Lo zoning originario era cumulativo, ovvero era disponibile a qualunque uso l’area industriale; si consentiva qualunque uso tranne quello industriale nelle zone commerciali, e via dicendo. Alla fine, si svilupparono categorie di zoning più raffinate, come case unifamiliari su lotti da mille metri quadri, o da cinquecento metri quadri, eccetera, ma si mantenne la natura cumulativa. Nessuno obiettava se si costruiva su un lotto da duemila metri in una zona destinata ai lotti da mille. Dopo la seconda guerra mondiale, lo zoning divenne sempre più esclusivo fra le quattro tipologie base. Un’area industriale consentiva solo industria, e non era permessa alcuna costruzione commerciale. Ma le sub-categorie restavano cumulative: le ordinanze di zoning potevano specificare densità massime, ma non minime.

Al contrario, l’azzonamento smart-growth è prescrittivo. È totalmente esclusivo, e comprende sia densità massime che minime. In più, tende a contenere molti altri requisiti di progetto, su cui tornerò più tardi. I requisiti di minima densità possono portare ad una rapida trasformazione del quartiere, specialmente quando è trasformato da area a tipi monofamiliari verso abitazioni multifamiliari. Questa trasformazione di usi è abituale nell’area urbana di Portland, Oregon, il cui governo regionale ha adottato un piano smart-growth diversi anni fa.

Orenco, sobborgo occidentale di Portland, è stato trasformato in zona ad altissima densità quando è stata realizzata lì vicino una linea di metropolitana leggera. Molti residenti possedevano grossi lotti, o secondi lotti adiacenti a quelli costruiti. Alcuni prevedevano di costruire una seconda casa su quei terreni per i figli, per i genitori, o semplicemente per venderla. Ma il nuovi azzonamento richiedeva invece che si costruissero edifici a quattro appartamenti o altri tipi multifamiliari. Non era permesso realizzare case unifamiliari.

A Gresham, all’estremità orientale della metropolinata leggera di Portland, è stato trasformato un altro quartiere da case unifamiliari a multifamiliari. Se una casa bruciava, le regole di zoning richiedevano al proprietario di ricostruirla in forma di edificio ad appartamenti. I residenti che tentavano di vendere le proprie case scoprirono in fretta di non poter trovare acquirenti, perché le banche non concedevano mutui su case che non potevano essere ricostruite dopo un incendio.

Anche se un proprietario non ha progetti per costruire su un lotto disponibile e non intende vendere, la trasformazione di un quartiere da unifamiliare a multifamiliare può essere molto stressante. Più persone portano più congestione. La natura temporanea degli abitanti gli appartamenti può portare all’aumento della criminalità o alla riduzione dei valori immobiliari.

Per ironia, lo zoning originariamente fu ammesso da una sentenza della Corte Suprema nel 1926, che consentiva ai quartieri di case unifamiliari di ricorrere ai poteri pubblici di polizia per tenere fuori le case ad appartamenti. In quartieri di case unifamiliari, “le abitazioni ad appartamenti, che in ambiente diverso sarebbero non solo totalmente ineccepibili, ma altamente desiderabili, vengono ad essere quasi nocive”, afferma la sentenza Euclid contro Immobiliare Ambler.Ora lo strumento dello zoning è usato per imporre le stesse cose nocive a quei quartieri.

Le zone della smart-growth consentono le abitazioni unifamiliari, ma di solito richiedono che tali abitazioni siano collocate su piccoli lotti. Là dove i lotti urbani tipo sono di circa 600 metri quadrati (17x35) e quelli suburbani anche parecchio più grandi, le dimensioni di quelli smart-growth possono essere anche di soli 300 metri quadri (circa 17x17), o anche meno. La smart growth incoraggia anche le case a schiera, nonostante a Portland recentemente gli urbanisti abbiano osservato che non sono dense a sufficienza: vorrebbero piuttosto case ad appartamenti e condomini.

Rigide norme di progetto

Oltre ai requisiti di densità, l’azzonamento smart-growth può contenere regole progettuali altamente prescrittive. Alcune forme progettuali, è sostenuto, favoriscono l’uso dell’automobile e riducono il senso comunitario di un quartiere. I nuovi codici di progetto sono orientati ad incoraggiare alternative all’auto, e a promuovere il senso di appartenenza. Un obiettivo prioritario delle regole per le zone residenziali è l’abitazione col garage sul fronte, derisa come “casa col muso.” Il fatto di richiedere garages sul retro e portici sul fronte, dovrebbe incoraggiare la gente a camminare anziché guidare.

Le norme progettuali possono anche specificare l’uso di fronti più stretti e giardini laterali, limitando severamente lo spazio a disposizione per parcheggiare le macchine. Per insediamenti di grosse dimensioni, dove vengono costruite anche le strade altre alle case, i codici specificano l’uso di sezioni stradali ridotte, e limitano il parcheggio ad un solo lato. Le regole per le zone commerciali limitano i parcheggi nello stesso modo. Là dove i moderni supermercati e centri commerciali hanno di solito ampi piazzali a parcheggio fra il negozio e la strada, i codici progettuali smart-growth richiedono che i punti vendita si affaccino direttamente sulla strada. Il parcheggio, sempre che sia consentito, deve essere nascosto sul retro. Questo tipo di organizzazione è inteso a rendere più facile ai pedoni raggiungere il negozio, e se possibile scoraggiare il traffico automobilistico.

Oltre a prescrivere densità e modi di progetto, l’azzonamento smart-growth può richiedere insediamenti a usi misti. Per esempio, un’ordinanza proposta in un sobborgo di Portland richiedeva che gli edifici di 4-5 piani destinassero il pianterreno ad uso commerciale, e quelli superiori a residenza. Gli abitanti avrebbero potuto andare a far la spesa a piedi, o anche a lavorare. Idealmente, questi insediamenti sarebbero localizzati vicino a stazioni ferroviarie, o lungo corridoi di mobilità serviti da autobus.

Limiti sui parcheggi e i trasporti

La smart growth cerca anche di scoraggiare gli spostamenti in auto con altri mezzi. A Portland si richiede a tutti i principali centri commerciali e per uffici di ridurre la disponibilità di parcheggi del 10 per cento. Le leggi federali richiedono che le principali imprese nelle città con inquinamento atmosferico trovino metodi per ridurre del 10% il pendolarismo in auto dei propri dipendenti.

Fra le principali strutture socializzate, negli Stati Uniti, spicca l’offerta di strade e autostrade. Anche se molte strade nel diciannovesimo secolo erano private e a pedaggio, l’attenzione al problema dei monopoli ha portato nel ventesimo secolo gli americani a realizzare e gestire quasi tutto il sistema stradale attraverso i governi statali e municipali. La maggior parte dei fondi destinati alle strade provengono dagli utenti, principalmente dalle tasse sui carburanti. Attraverso questo aggravio sugli utenti, le strade in larga parte si pagano da sole, ma il tipo di pagamento è inefficiente: gli utenti pagano nello stesso modo sia che utilizzino strade non asfaltate o freeways lastricate d’oro; pagano uguale se le percorrono a mezzanotte, o all’ora di punta. Una migliore gestione dei pagamenti potrebbe ridurre la congestione, ma questo fatto non va contro l’uso dell’automobile.

Durante la maggior parte del ventesimo secolo, gli ingegneri dei trasporti hanno controllato le politiche stradali e realizzato nuove infrastrutture dove erano necessarie. Ma gli urbanisti smart-growth affermano che costruire nuove strade semplicemente incoraggia nuovo traffico. Il loro obiettivo, al contrario, è di scoraggiare l’uso dell’auto riducendo le capacità stradali. Chiamano questa strategia “ traffic calming”. Consiste nel porre barriere sulle strade per ridurre le velocità o i flussi. Ora, un’arteria di comunicazione principale suburbana può avere due corsie per ogni direzione di marcia, con una corsia centrale continua per la svolta a sinistra, e una ausiliaria per la svolta a destra in prossimità degli svincoli. La corsia per la svolta a sinistra consente al traffico di accedere alle strade locali e ai piazzali dei parcheggi nelle aree commerciali. Quella per la svolta a destra consente di rallentare e curvare senza ostacolare chi non curva. Una politica di traffic calming potrebbe trasformare questa arteria di comunicazione in un viale: una strada a quattro corsie con aiuole e piante al centro. Le curve a destra sarebbero limitate ad alcuni specifici svincoli, e il traffico in uscita a destra rallenterebbe le auto che seguono. Il risultato sarebbe una riduzione delle velocità e della capacità stradale. La città di Portland sta spendendo 2 milioni di dollari l’anno in traffic calming.

Gli effetti della Smart Growth

Daniel Chirot sostiene che gli europei dell’est avrebbero accettato enormi restrizioni della propria libertà, se il comunismo avesse avuto successo economico. “Qualunque cosa avrebbe potuto essere tollerata, se questa promessa essenziale avesse trovato il modo di realizzarsi”. In modo simile, gli abitanti di Portland e altri cittadini tollerano la smart-growth e le sue regole perché è stato loro promesso che migliorerà la vivibilità dei centri. Ma lo farà davvero?

La vivibilità, come la sostenibilità e la comunità (due altre promesse della smart-growth), è un concetto sfuggente. Ma un’analisi della letteratura smart-growth suggerisce che nella vivibilità ci siano meno congestione, aria più pulita, case a prezzi accessibili, minori costi dei servizi urbani, tutela degli spazi aperti, e un maggiore senso comunitario. Visti i risultati della pianificazione centralizzata in altri campi, non sorprende che la smart growth manchi quasi tutti questi obiettivi. Tutti, eccetto l’ultimo, sono obiettivi quantificabili, e i dati disponibili indicano che la smart growth produce esattamente l’opposto di quanto promesso.

La congestione

Il Sierra Club e altri sostenitori della smart-growth sostengono che lo sprawl urbano (termine spregevole a indicare la suburbanizzazione a bassa densità) aumenta la congestione perché le persone devono guidare per distanze più lunghe per arrivare dove vogliono. In realtà, come sottolineano i professori di pianificazione Peter Gordon e Harry Richardson, della University of Southern California, “La suburbanizzazione è diventata il principale meccanismo di riduzione della congestione”.

L’affermazione che la smart growth ridurrebbe la congestione si basa su studi che affermano come chi abita in aree più dense, ben servite da trasporti pubblici, usi meno l’auto. Questi studi ignorano il processo di autoselezione, in cui chi desidera guidare meno tende a vivere in aree dove ci si può spostare senza macchine. Ma anche se questi studi fossero corretti, la smart growth continuerebbe ad aumentare la congestione. Raddoppiare la densità di un’area ridurrebbe la congestione del traffico solo se la media degli abitanti riducesse la guida di oltre il 50%. Ma gli studi smart-growth indicano che il raddoppio della densità riduce la guida pro capite solo dal 10 al 30%. Questo risultato, incrementa in modo significativo la congestione.

Il piano smart growth di Portland prevede un incremento di densità di popolazione di due terzi, di alloggiare molte più persone in appartamenti e in quartieri basati sui trasporti pubblici, e di realizzare un totale di 200 chilometri di trasporto su rotaia, ma poche nuove strade. Nel 1990, i portlandesi usavano l’auto per il 92% dei loro spostamenti urbani e il trasporto collettivo per meno del 2,5% (il resto erano movimenti a piedi e in bicicletta). Gli urbanisti prevedono ottimisticamente che il loro piano incrementerà l’uso del mezzo pubblico fino a circa il 5%, mentre gli spostamenti a piedi e in bicicletta aumenteranno dal 5 al 7%. Questo vuol dire che la quota delle automobili nel mercato degli spostamenti scenderà all’88%: non è una differenza significativa. Questo leggero decremento della guida pro capite sarà superato di gran lunga dal previsto incremento del 75% di popolazione. Gli urbanisti calcolano che il piano triplicherà la congestione da traffico, rallentando di parecchio i tempi di spostamento nella regione.

Nonostante i sostenitori della smart-growth usino la congestione come spauracchio per attirare sostenitori, è difficile vedere nei loro obiettivi qualcosa di diverso da un significativo incremento, della congestione. Alcuni in privato sperano che questa maggior congestione porti le persone a guidare di meno, nonostante i dati indichino il contrario. Ma gli urbanisti non sono sempre tanto riservati, riguardo al tema della congestione. Il piano regionale dei trasporti di Portland afferma che “la congestione è un segno positivo di sviluppo urbano”. Earl Blumenauer, già commissiario per la città e attualmente suo rappresentante al Congresso, ha detto alla National Public Radio che la congestione “è stimolante. Significa affari per i commercianti” a quanto pare perché gli automobilisti frustrati si fermano a fare shopping. Il Twin Cities Metropolitan Council ha deliberato una moratoria di vent’anni sulla realizzazione di superstrade nella dichiarata speranza che “all’aumentare della congestione da traffico diventino più attraenti forme alternative di spostamento”: compreso il sistema di autobus, che guarda caso è gestito dallo stesso ente.



Inquinamento atmosferico

È articolo di fede, fra i sostenitori della smart-growth, che meno distanze percorse in automobile porteranno automaticamente a meno inquinamento. Ma l’inquinamento è qualcosa di più complicato dei soli chilometri percorsi. Le automobli inquinano di più quando i motori sono freddi, perché i convertitori catalitici non funzionano finché non sono in temperatura. I motori devono lavorare di più, e dunque inquinare di più, quando si trovano in accelerazione. Fino a circa 70 km/ora per alcuni inquinanti, e a 90 per altri, le auto inquinano meno a velocità più alte. Quindi un sistema di trasporti che si risolve in moti spostamenti brevi a basse velocità, in un traffico che si muove a scatti, produrrà molto più inquinamento di uno a spostamento lunghi, in un traffico scorrevole ad una media di circa 70 km/ora. Dato che la smart growth probabilmente produrrà le condizioni del primo tipo, potrebbe degradare significativamente la qualità dell’aria. E a dire il vero i pianificatori di Portland prevedono che il loro piano porterà ad un incremento del 10% di smog.

La tabella seguente mostra come ci sia una stretta correlazione fra densità urbane e inquinamento atmosferico, misurato secondo i criteri dell’EPA (Environmental Protection Agency). Il peggiore inquinamento si associa alle medie più alte di densità di popolazione. Le città meno inquinate hanno le densità più basse. L’area urbanizzata in modo più denso degli Stati Uniti, Los Angeles, è anche l’unica classificata come avente problemi “estremi” di inquinamento.


Media densità di popolazione in Aree Urbanizzate, secondo la classificazione di inquinamento EPA
Tasso di Inquinamento Densità di popolazione
Estremo 2077
Molto serio 1168
Serio 918
Moderato 801
Marginale 673
Nessuno 581

Nota: “Area Urbanizzata” è un termine censuario che comprende la città centrale di un’area metropolitana più quella di tutto il territorio adiacente con densità di popolazione superiore a 386 ab/kmq [questo dato, come gli altri, è stato riportato al sistema decimale con piccoli arrotondamenti, n.d.T.]. Dati del Bureau of Census USA, 1993.



Abitazioni a prezzi accessibili

Costruendo più case ad appartamenti, condomini, abitazioni su piccoli lotti, la smart growth dovrebbe ottenere più case a prezzi accessibili. Ma se la gente non vuole vivere in questo tipo di abitazioni, non importa quanto siano convenienti. I sondaggi e i dati di mercato indicano che le persone preferiscono case su lotti relativamente ampi. Nella maggior parte dei mercati immobiliari, il costo del terreno è una piccola percentuale del costo delle abitazioni, e dunque i lotti più grandi non rendono le case più care. Ma i limiti rigidi all’espansione dell’area urbanizzabile e altri strumenti smart-growth per il controllo della densità creano una penuria artificiale di terreni, e portano a significativi incrementi nei costi del tipo di case desiderate dalla gente. La National Association of Home Builders effettua valutazioni trimestrali sull’accessibilità dei prezzi delle case, nei principali mercati urbani. Queste valutazioni sono basate sulla quota di famiglie presenti in un mercato che guadagnano abbastanza per comprarsi una casa a prezzo medio in quel mercato.

Quando Portland e altre città dell’Oregon posero limiti alle proprie aree urbanizzabili nel 1979, queste zone comprendevano una disponibilità stimata in vent’anni di terreni edificabili. Al 1989, gran parte di quei terreni era ancora disponibile, e il mercato delle abitazioni urbane in Oregon era considerato fra i più convenienti della nazione. Ma le aree disponibili divennero presto più scarse, e nel 1996 il prezzo dei terreni nella zona di Portland era sestuplicato. La Home Builders allora classificò Portland fra i cinque mercati meno convenienti del paese. Al 1998, tre delle quattro aree urbane dell’Oregon classificate dalla Home Builders stavano fra i dieci mercati immobiliari meno convenienti, e la quarta stava tra i primi venti. Le città in Oregon sono cresciute nel corso degli anni ’90, a dire il vero, ma l’hanno fatto anche altre città. Las Vegas, Reno, Boise, e Phoenix sono tra le città che sono cresciute più in fretta di quelle dell’Oregon, ma i loro mercati dell’abitazione non sono classificati come poco convenienti.

Per affrontare i costi crescenti delle abitazioni, la città di Portland ha approvato un’ordinanza che richiede per ogni nuovo insediamento di più di dieci unità residenziali, di destinarne almeno il 20% ad abitazioni per redditi bassi. Gli urbanisti di Portland stimano che questo si tradurrà nella costruzione di circa 1.600 unità del genere l’anno. A questo ritmo, ci vorranno più di 65 anni per fornire di abitazioni tutte le attuali famiglie a basso reddito. Nel frattempo, sottolinea l’ufficio studi Hobson-Johnson, l’ordinanza di Portland farà salire i costi delle abitazioni per tutti gli altri (compresi quelli a basso reddito non abbastanza fortunati da ottenere immediatamente una casa).



Costo dei servizi urbani

Un’altra delle principali affermazioni smart-growth è che la suburbanizzazione a bassa densità costa alla società più dell’urbanizzazione ad alta densità, a causa dell’estensione dei servizi urbani (fognature, acqua potabile, strade, scuole) fino alle zone di nuova urbanizzazione. Ma gli studi sui Costidello Sprawl che affermano di voler dimostrare questa correlazione sono tutti basati su dati ipotetici. Una ricerca condotta dalla dottoressa Helen Ladd, della Duke University, ha confrontato i costi reali dei servizi urbani in centinaia di contee degli USA. Ha rilevato che, a partire da densità superiori a 80 ab/kmq (approssimativamente la densità del Conncticut rurale) più densità significa costi dei servizi urbani più alti.

Gli studi sui Costidello Sprawl confrontano costi ipotetici dell’alta densità, contro quelli dell’insediamento a bassa densità su terreni liberi. È molto diverso, però, il programma della smart-growth per riurbanizzare i quartieri a bassa densità esistenti, verso densità maggiori. Queste riurbanizzazioni possono essere estemamente costose, perché spesso richiedono la demolizione delle infrastrutture esistenti per installare servizi di più alta capacità. Nel 1980, San Diego adottò un piano che incoraggiava lo infill development [riurbanizzazione “di riempimento” a maggiore densità n.d.T.] delle aree centrali e scoraggiava le coostruzioni a bassa densità nei sobborghi. Al 1990, la città aveva un deficit di un miliardo in carenza di infrastrutture perché le reti esistenti di acquedotto, fognatura ecc. non potevano reggere le nuove, maggiori densità. I costi dei servizi urbani sono aumentati ulteriormente da norme di azzonamento smart growth commercialmente irrealistiche. La maggior parte delle aree urbane ha zone residenziali ad alta densità sufficienti per la domanda. I costruttori sono naturalmente riluttanti a realizzare altre abitazioni del genere, per un mercato debole. Per rendere fattibile l’insediamento orientato ai trasporti pubblici, i governi locali devono fornire sussidi e riduzioni fiscali.

Portland, Oregon, ha realizzato linee di metropolitana leggera nella speranza che il trasporto su rotaia stimolasse l’urbanizzazione, in particolare quella ad alta densità. Dieci anni dopo il completamento della prima linea, il consigliere municipale e sostenitore della smart-growth, Charles Hales, comprese che si stava realizzando ben poca urbanizzazione lungo la linea dei binari. Persuase quindi il consiglio cittadino ad offrire dieci anni di esenzione fiscale ai costruttori. All’estremità orientale della metropolitana leggera, il comune di Gresham garantì a un costruttore 400.000 dollari di riduzione fiscale e altre facilitazioni, per realizzare una struttura per appartamenti a densità più elevate di quanto non avesse originariamente progettato. A ovest di Portland, la municipalità di Beaverton garantì 9 milioni fra riduzioni fiscali e sussidi alle infrastrutture per un quartiere orientato al trasporto pubblico, chiamato Beaverton Round. L’imprenditore non è riuscito a trovare inquilini e, quasi al fallimento, ha chiesto ed ottenuto altri 3,4 milioni di sussidi.

La stessa metropolitana richiede sussidi. L’urbanista di Portland John Fregonese afferma che la metropolitana leggera “non vale il suo costo se si pensa solo al trasporto. È un modo per sviluppare la città a densità maggiori”. Nonostante fossero originariamente presentai come meno costosi dei progetti stradali, quelli su binario considerati da più di sessanta città degli USA costano circa 30 milioni al chilometro: quanto basta per realizzare quattro chilometri di freeway a quattro corsie. Il trasporto su rotaia è spesso reclamizzato come capace di trasportare tante persone quanto un’autostrada da otto corsie, ma la maggior parte delle metropolitane leggere delle città americane oggi porta meno di quanto porti una sola corsia.



Conservazione degli spazi aperti

Per il Sierra Club, organizzazione molto interessata alla natura, il valore principale di un insediamento ad alta densità è che risparmia aree agricole, foreste, spazi aperti. Ma gli spazi aperti in campagna non sono una risorsa scarsa. Secondo il Natural Resources Conservation Service tutte le aree urbanizzate, sia in città che in campagna, occupano solo il 5% dei quarantotto stati. Secondo il censimento del 1990 le sole aree urbane sono appena il 2%.

Quello che manca sono gli spazi aperti urbani: parchi, campi da golf, agricoltura urbana, e anche gli ampi giardini privati normalmente usati e goduti dagli abitanti cittadini. La smart growth individua proprio questi spazi aperti urbani per la riurbanizzazione. Nell’area urbana di Portland, per esempio:

Nonostante queste misure, non esiste certezza che la smart growth proteggerà i grandi spazi rurali dalla frammentazione e dall’urbanizzazione. Se la smart growth porta a città congestionate e inquinate, molti residenti potrebbero scappare verso le zone rurali. Poche centinaia di abitazioni “esurbane” su proprietà da cinque a venti ettari, possono occupare spazio come migliaia di lotti suburbani da mille metri quadri.



Senso comunitario

Comunità è un concetto difficile da quantificare, ma almeno un sociologo urbano è convinto che l’alta densità urbana non produca maggior senso comunitario dei sobborghi a bassa densità Negli anni ’50 Herbert Gans visse due anni in un quartiere ad alta densità di Boston, e poi due anni a Levittown. Gans scoprì grandi quantità di coinvolgimento comunitario a Levittown, in particolare per quanto riguarda le decisioni di azzonamento e urbanistica. Gans non rilevò un senso comunitario più forte nel Boston West End. In realtà, conluse che i West Enders si sentivano leali rispetto al proprio gruppo etnico o sociale, ma “il West End come quartiere non era importante, per i suoi abitanti”.

In un lavoro successivo Gans contesta anche chi afferma che i sobborghi sono “senza vita”. Osserva che nei quartieri operai urbani “l’abitazione è riservata alla famiglia, in modo che la maggior parte della vita sociale avviene all’esterno ... La vita di strada, i piccoli negozi che tradizionalmente servono gruppi etnici e minoranze culturali, l’atmosfera esotica dell’area attirano visitatori e turisti”. Contemporaneamente, “nei sobborghi della middle-class non c’è vita di strada, perché tutte le attività sociali trovano posto dentro l’abitazione ... Questi quartieri appaiono monotoni, soprattutto al visitatore, e quindi possono sembrare meno vitali dei loro corrispondenti bohemien ed etnici. Ma la visibilità non è l’unica misura della vitalità, e zone poco interessanti per il visitatore possono egualmente essere vitali per la gente che ci abita”.



Obiettivi nascosti

Se la smart growth produce risultati così scarsi, perché trova sostegno? Un esame ravvicinato dei suoi sostenitori rivela che la maggior parte ha obiettivi diversi [ hidden agendas, n.d.T.]. I principali sostenitori sono funzionari delle grandi città preoccupati di recuperare o mantenere la rilevanza dei propri centri sui suburbi; oppure interessi della downtown che vogliono invertire il processo di declino dei propri affari rispetto a quelli dei centri commerciali suburbani; ancora, agenzie dei trasporti pubblici e imprese alla ricerca di bilanci più ricchi nonostante le quote di mercato in calo del pendolarismo e degli altri spostamenti urbani; i “ new urban planners” interessati a sperimentare le proprie teorie su varie città; gli ambientalisti urbani che si oppongono a nuove autostrade e all’automobile in genere; ditte di ingegneria e di costruzioni alla ricerca di fondi federali da spendere in opere pubbliche urbane, come le metropolitane leggere.

Tutti questi gruppi traggono beneficio dalla congestione suburbana. La congestione nei suburbi renderebbe le zone urbane e centrali meno repellenti. La congestione è usata anche per giustificare bilanci superiori dei trasporti pubblici, anche se le loro quote di mercato nella maggior parte delle città sono tanto piccole (tipicamente meno del 5% degli spostamenti urbani) da avere poche effetti sulla congestione. La congestione crescente porta alla domanda di pianificazione e nuovi lavori pubblici per risolvere il problema. Gli ambientalisti che non amano l’automobile sperano che la congestione porterà la gente a scegliere qualche altro mezzo di trasporto. Quindi la congestione è un obiettivo naturale della smart growth. Non dobbiamo stupirci se i suoi sostenitori fanno affermazioni come “la congestione è un segnale positivo di sviluppo urbano”.

La strategia del Governo Regionale

Nella maggior parte delle città americane la coalizione smart-growth descritta sopra ha poco potere sui suburbi. La maggior parte di questi ha una lunga storia di resistenza all’annessione o alla cooptazione entro autorità comuni con la città centrale. Per superare questa resistenza i sostenitori della smart growth promuovono agenzie di governo regionale con poteri sia sulla città centrale che sui suburbi.

Alcuni autori sono espliciti sul fatto che lo scopo del governo regionale è quello di prevenire la resistenza democratica alle proposte smart-growth. Douglas Porter dello Urban Land Institute scrive “della distanza fra il modo di vita quotidiano desiderato dalla maggior parte degli americani e il modo ritenuto desiderabile dalla maggior parte degli urbanisti e ingegneri del traffico”. Lo stesso autore sostiene “agenzie regionali [con] concreti poteri per influenzare le decisioni locali sulle questioni di uso dello spazio” e cita l’autorità metropolitana di Portland Metro come esempio di questo genere di agenzie. Metro fu istituita nel 1992 da una legge dal fuorviante titolo “limiti al governo regionale”. L’agenzia ha poteri decisionali vincolanti e definitivi riguardo all’uso del suolo e ai trasporti su ventiquattro città e tre contee. Ha usato di questa autorità per dare a città e contee obiettivi di popolazione da ottenersi modificando gli azzonamenti dei quartieri esistenti, verso densità più alte.

Nonostante non sia un sostenitore della smart-growth, l’economista Anthony Downs della Brookings Institution riconosce che un governo regionale composto di rappresentanti dei governi locali “può prendere posizioni difficili senza obbligare i propri singoli componenti ad impegnarsi verso queste posizioni”. “Ciascun membro può sostenere che “l’organizzazione” ha deciso, o dare la colpa a tutti gli altri membri”. La descrizione di Downs si adatta bene a quanto accaduto a Portland. È lapalissiano, in urbanistica, che la maggior parte del pubblico non sarà interessato sin quando non venga toccato direttamente il proprio quartiere. Metro è stata in grado di redigere il suo piano per l’area di Portland con poco o nessun coinvolgimento pubblico. Ma le città stanno incontrando formidabili opposizioni da parte dei quartieri che non vogliono farsi densificare. Le municipalità affermano che Metro le sta forzando a densificare. Metro risponde che non sta forzando le città a densificare alcuno specifico quartiere, ma solo ad adeguarsi ad alcuni obiettivi generali.

I residenti dei quartieri sono confusi e incerti su come fermare i cambi di destinazione d’uso. Gli elettori di un sobborgo hanno votato contro sindaco e consiglio, ma il nuovo consiglio uscito dalle elezioni deve ancora adeguarsi agli obiettivi fissati da Metro. Un altro suburbio ha votato di ignorare questi obiettivi, nonostante il voto non abbia effetti legali.

Nel 1992 il voto sull’istituzione di Metro vinse in parte perché i suoi sostenitori promettevano che un’agenzia di pianificazione regionale avrebbe evitato a Portland di diventare come Los Angeles, che è la città più congestionata d’America. Solo due anni dopo, gli urbanisti di Metro hanno comparato le cinquanta maggior città del paese per vedere quale si avvicinava di più ai loro obiettivi per Portland: alte densità con poco chilometraggio stradale pro capite. E hanno scoperto che Los Angeles è l’area urbanizzata più densa d’America, con il 30% più di New York (inclusi il New Jersey nord-orientale e il Connecticut sud-occidentale). In più, Los Angeles ha meno chilometri di autostrade per abitante: circa 80 chilometri ogni milione di persone, contro la media di 190 delle zone urbane degli Stati Uniti. Affollamento e sistema stradale inadeguato spiegano perché Los Angeles è tanto congestionata.

La Metro ha ammesso che “dalle discussioni pubbliche si è raccolta l’impressione generale che Los Angeles rappresenti un futuro da evitarsi”. Tuttavia “rispetto a densità e chilometraggio di strade pro capite mostra un quadro di investimenti che desideriamo replicare” a Portland. Metro ha approvato il suo piano per “replicare” Los Angeles a Portland. Ma la messa in pratica si sta rivelando difficile. Gli abitanti dei sobborghi non sono disposti ad accettare le restrizioni alla propria libertà chieste dalla smart growth.

Michael McCormick, autore della legislazione smart-growth recentemente approvata dallo stato di Washington, lamenta questa resistenza in una recente conferenza tenuta a Vancouver. “Mi piacciono gli abitanti della British Columbia canadese, per la loro voglia di essere governati” ammette. “Accettano le regole, e penso: non sarebbe grande, se potessimo far così anche a sud del confine?”.

La Environmental Protection Agency crede di avere il modo per superare la resistenza dei suburbi che non vogliono stare sotto il pugno di un governo regionale. Harriet Tregoning, direttore della divisione affari urbani dell’EPA, sostiene il governo regionale e aiuterà a fargli spuntare i denti trattenendo i finanziamenti federali per i trasporti ai governi locali che rifiutano di cooperare. Nel frattempo, i fondi per gli spazi aperti proposti dal Vice Presidente Gore saranno la carota, da dare solo alle comunità che adottano politiche smart-growth.



Conclusione

La smart growth è una minaccia alla libertà di scelta, ai diritti della proprietà privata, alla mobilità, al governo locale. Anche se le politiche smart-growth sembrano drastiche, si tratta solo della naturale estensione delle leggi di zoning adottate dalle città si dagli anni ’20. Queste leggi si sono fatte sempre più restrittive begli anni, e la smart growth le renderà anche più prescrittive. La smart growth è un chiaro esempio di strisciante regolamentazione sociale, se non di strisciante socialismo.

Nota: è scaricabile direttamente da Eddyburg il PDF col testo originale (e la bibliografia, che ho saltato per motivi ovvi di spazio). Per chi nonostante tutto volesse farsi un giro nel "socialismo reale" dell'urbanistica, questo è il link a Metro Regional Government. Il programma generale per il governo dello sviluppo di Metro Portland (con mappa) è disponibile in italiano su Eddyburg. Infine per chi fosse interessato all'argomento, il numero dell'autunno 2004 della Independent Review (che bisogna comprarsi) accusa di "socialismo" anche il famoso commissario ai parchi dello Stato di New York, Robert Moses. Che era tra l'altro un Repubblicano, ma evidentemente non abbastanza reazionario (fb)

In questa terza e conclusiva parte delle sue considerazioni sul rapporto fra sprawl e salute, Howard Frumkin si sofferma in particolare (almeno mi sembra) su aspetti di giustizia distributiva abbastanza intuibili: minoranze ceti deboli subiscono in modo molto maggiore degli altri le diseconomie dell’insediamento diffuso. E ancora una volta, l’appello non è minimamente moralistico, ma semplicemente scientifico e coerente ai fini della medicina, che non ha scritto da nessuna parte che il proprio obiettivo è di curare chi paga di più, trascurando gli altri. Ovvio, che questi argomenti suscitino le ire dei cosiddetti conservatori, vetero o neo che dir si voglia.

Ire di cui ho riportato una breve citazione in apertura della seconda parte, e che saranno certamente rinfocolate dai sempre più numerosi testi scritti sulla scia dei lavori di Frumkin: ultimi quelli del 2004 che legano soprattutto sprawl e obesità. Ho visto il modo in cui un sito web specializzato, Your Family Doctor , presentava uno di questi studi (coordinato dall’economista Roland Sturm nel 2004 per la Rand Corp.), e ho pensato che magari tra qualche anno i medici inizieranno a prescrivere ai bambini gracili una “vacanza in città” ...

Battute a parte, resta l’appello finale di questo articolo, al recupero della collaborazione fra professioni sanitarie e tecniche per la pianificazione del territorio e le politiche ambientali connesse. Un fatto che anche da solo appare positivo. (fb)

Titolo originale: Urban Sprawl and Public Health – traduzione di Fabrizio Bottini (Parte terza)

Gli aspetti sociali dello sprawl

Salute mentale

Una delle motivazioni originali della migrazione verso i suburbi è stata l’accesso alla natura. Alla gente piacciono gli alberi, gli uccelli, i fiori, queste cose sono più accessibili nei suburbi che nelle più dense aree urbane. In più, il contatto con la natura può offrire altri benefici oltre quelli puramente estetici; può far bene alla salute fisica e mentale. Si aggiunga che il senso di fuga dal turbinio della vita urbana, la sensazione di un calmo rifugio, può essere tranquillizzante e riposante per molte persone. Da questo punto di vista, gli stili di vita suburbani possono avere benefici per la salute.

D’altra parte, alcuni aspetti dello sprawl, come il pendolarismo, possono richiedere un prezzo in termini di salute mentale. Per un certo periodo, il pendolarismo automobilistico è stato fonte di interesse per gli psicologi come fonte di stress, di problemi di salute ad esso correlati, e anche di malattie fisiche. Ci sono dati che collegano il pendolarismo al mal di schiena, alle malattie cardiovascolari, e lo stress è testimoniato da molti. Dato che le persone passano sempre più tempo su strade sempre più affollate, ci si può aspettare un incremento in questi problemi per la salute.

Un possibile indicatore è la “furia da strada” [road rage], definita come “eventi nei quali un automobilista infuriato o spazientito tenta di uccidere o ferirne un altro dopo un diverbio per questioni di traffico”. Possono restarci coinvolti anche uomini di legge; un resoconto giornalistico descrive un avvocato in vista, ex deputato dello stato del Maryland, che ha fatto saltare con un pugno gli occhiali a una donna incinta, dopo che lei gli aveva temerariamente chiesto perché l’aveva tamponata con la sua Jeep.

I dati disponibili non chiariscono se la road rage sia in crescita. L’unico studio su un certo periodo di tempo, pubblicato dalla AAA Foundation for Traffic Safety nel 1997, riferisce di un incremento del 51% di incidenti di questo tipo nell’intervallo fra il 1990 e il 1996. La Foundation ha documentato 10.000 resoconti di questi incidenti, che hanno provocato 12.610 feriti e 218 morti. È stata usata una certa varietà di armi, che comprende pistole, coltelli, bastoni, o pugni e calci, e in molti casi lo stesso veicolo. Ad ogni modo, visto che le fonti dei dati sono i rapporti di polizia e i resoconti della stampa, è anche possibile che si tratti di incremento apparente, a riflettere invece una crescente consapevolezza e attenzione dei media, anziché un effettivo aumento di numero o percentuale di casi road rage.

La violenza stradale non è completamente compresa, e ci sono vari motivi per il suo verificarsi. Lo stress a casa o sul posto di lavoro può combinarsi con quello accumulato durante la guida, e generare rabbia. I dati dall’Australia e dall’Europa suggeriscono che possano essere fattori di rischio sia il volume di traffico che la distanza percorsa. Le lunghe code su strade affollate sono probabili fattori aggiuntivi.

Gli episodi di road rage possono riflettere sulla strada un accumulo di rabbia e frustrazione. In un’indagine telefonica condotta dalla Mississippi State University nel 1999 e 2001, un ampio numero degli intervistati ha riferito sia di essere stato protagonista di comportamenti aggressivi durante la guida, sia di esserne stato vittima. L’indagine non ha specificato se questi intervistati risiedessero o meno in località suburbane, anche se le risposte erano diverse in molti aspetti a seconda delle categorie geografiche utilizzate (zone rurali, piccoli centri, cittadine, grandi città), suggerendo un’influenza del fattore densità e di altri elementi legati al “fattore spazio costruito” nel determinare comportamenti di guida aggressivi. Nell’indagine NHTSA, le due principali ragioni di aggressività citate erano: a) essere di fretta o essere in ritardo (23% delle risposte); b) aumento del traffico o congestione (22%), ovvero esperienze comuni sulle affollate arterie delle città diffuse. In più, gli intervistati dell’indagine NHTSA ritenevano che la guida aggressiva (la loro e quella degli altri) stesse via via aumentando nel tempo, e solo il 4% pensava che fosse in diminuzione. Più di recente, Curbow e Griffin hanno compiuto un’indagine su 218 donne impiegate in una compagnia di telecomunicazioni. Si trattava di un campione professionalmente stabile, in cui il 67% aveva un titolo di studio di scuola superiore o oltre, il 76% aveva figli, e la cui media di anzianità nel lavoro era di 18 anni. Tra queste donne, il 56% ha riferito di aggressività nella guida, il 41% ammette di aver gridato o fatto gestacci verso contro altri automobilisti mentre si recava al lavoro, e il 25% ammette di sfogare la propria frustrazione da dietro il volante. Il comportamento aggressivo durante la guida sembra essere un problema diffuso.

Appare ragionevole ipotizzare che rabbia e frustrazione fra gli automobilisti non siano limitati all’abitacolo dell’auto. Quando una persona arrabbiata arriva a casa o al lavoro, quali sono le implicazioni per la vita familiare e professionale? Se il fenomeno noto come “stress da pendolarismo” mina il benessere e le relazioni sociali fuori e dentro la strada, e se questo insieme di problematiche si aggrava con l’allungarsi delle distanze e delle difficoltà di spostamento su strade intasate, allora lo sprawl può, in questo modo, minacciare la salute mentale.

Capitale sociale

Dalla fine della seconda guerra mondiale, i commentatori sociali hanno connesso alla vita suburbana un senso di isolamento e solitudine, nonostante queste affermazioni siano state di recente messe in discussione. “Non è una coincidenza – osserva Philip Langdon, professore di architettura a Yale – che nel momento in cui gli USA diventano una nazione prevalentemente suburbana, in tutto il paese si raccolga una amara messe di traumi individuali, disagio familiare, decadenza civica”. E in effetti, negli anni recenti è stata ampiamente notata e discussa un’erosione dell’impegno civico, della fiducia reciproca: una perdita di quanto si chiama “capitale sociale”. Alcuni autori hanno attribuito questo declino, in parte, alla suburbanizzazione e allo sprawl.

Una discussione esaustiva sulla complessa sociologia della vita suburbana, va oltre gli scopi di questo articolo. Ma alcuni fatti meritano menzione. In primo luogo, come sostiene Robert Putnam in Bowling Alone (Simon & Schuster, 2000), il semplice fatto di guidare per più tempo significa meno spazio per la famiglia o gli amici, e meno tempo da dedicare ad attività comunitarie, dal barbecue coi vicini alle riunioni del comitato genitori-insegnanti. Putnam valuta che ogni dieci minuti in più di guida provocano un 10% di diminuzione del coinvolgimento civico. In secondo luogo, gli schemi insediativi suburbani spesso implicano una considerevole stratificazione economica. Molti quartieri sono realizzati per specifici ambiti di prezzo, in modo tale che gli acquirenti case da 250.000 dollari sono di fatto segregati rispetto a quelli delle case da 500.000 dollari (con esclusione completa di quelli sul gradino economico più basso). Questo schema crea omogeneità economica nei quartieri, ma può intensificare la diseguaglianza fra aree di reddito nell’area metropolitana. In terzo luogo, sia i sondaggi che i risultati elettorali hanno dimostrato che i residenti suburbani preferiscono soluzioni più individualizzate, meno collettive ai problemi sociali, di quanto non facciano gli elettori delle zone urbane, di villaggio o rurali, con la possibile eccezione dei problemi scolastici. E per finire, i quartieri suburbani con abitazioni e giardini privati di grandi dimensioni, offrono poche scelte agli adulti anziani, una volta che i loro figli sono cresciuti e se ne sono andati da casa. Gli abitanti di questi “nidi vuoti” abitualmente devono cambiare quartiere se vogliono trovare case più piccole, che costino meno in manutenzione. L’impossibilità di restare nello stesso quartiere per tutto il ciclo della vita può anche minare la coesione interna alla comunità. Considerate complessivamente, queste tendenze suggeriscono che alcune caratteristiche dello sprawl spingono ad una maggiore stratificazione, e alla diminuzione del capitale sociale.

Una vasta letteratura ha esplorato le correlazione fra rapporti sociali e salute, soffermandosi sia a livello individuale (le relazioni personali), sia collettivo (capitale sociale). In generale, una più elevata quantità e qualità di relazioni sociali è associata a benefici per la salute. Al contrario, la stratificazione sociale, in particolare la diseguaglianza economica, è associata ad una più alta mortalità generale, maggior mortalità infantile, più alta mortalità per varie cause specifiche, indipendentemente dal livello di reddito o povertà, secondo i dati censuari di USA e Gran Bretagna. Esistono prove che questo effetto sia mediato, almeno in parte, dal capitale sociale. Dunque, visto che lo sprawl si associa alla stratificazione sociale e perdita di capitale sociale, e che questi fenomeni sono a loro volta associati ad una maggiore morbilità e mortalità, lo sprawl può avere impatti sanitari negativi a questa ampia scala.

Considerazioni di giustizia ambientale

Le ricerche degli ultimi 15 anni suggeriscono che poveri e membri di minoranze sono sproporzionatamente esposti a rischi ambientali. Potrebbe, qualcuna delle conseguenze sanitarie negative dello sprawl, avere effetti sproporzionati sulle stesse popolazioni?

In generale, il sistema di sviluppo urbano di cui lo sprawl fa parte può sottrarre ai poveri opportunità economiche. Mentre posti di lavoro, negozi, buone scuole e altre risorse migrano verso l’esterno del nucleo urbano, la povertà si concentra nei quartieri lasciati alle spalle. Un esame completo sull’impatto della povertà rispetto alla salute va oltre i limiti di questo articolo, ma esiste una vasta letteratura sul tema. Se lo sprawl aggrava gli effetti della povertà, può contribuire anche al peso di malattie e mortalità.

Più specificamente, esistono prove che parecchi dei rischi sanitari correlati allo sprawl interessano in modo sproporzionato la popolazione delle minoranze. Un esempio è l’inquinamento atmosferico. Poveri e popolazione di colore sono molto più colpiti dall’aria inquinata per almeno due ragioni: maggior esposizione e maggior presenza di malattie che aumentano la sensibilità. I membri delle minoranze sono più esposti all’inquinamento dei bianchi, indipendentemente dal reddito e dal tipo di insediamento. I dati della Environment Protection Agency mostrano che neri e ispanici tendono relativamente più dei bianchi a vivere in aree dove non si rispettano i requisiti ambientali standard. Aumenta in generale l’incidenza dell’asma, e resta più alta la sua presenza e mortalità fra le minoranze che fra i bianchi. Questa presenza è di 122 per mille fra i neri e 104 per mille fra i bianchi, e la mortalità è grosso modo tre volte superiore fra i neri che fra i bianchi. Nello stesso modo, la presenza di asma fra i bambini portoricani è tre volte più alta che fra bambini non ispanici. Fra i pazienti Medicaid, i bambini neri hanno il 93%, e gli ispanici il 34% in più dei bambini bianchi, di ospedalizzazioni multiple per asma. Nonostante una parte di queste percentuali sia dovuta alla povertà, la maggior quota rimane anche quando le analisi vengono condotte rispetto al reddito. La presenza e mortalità dell’asma è particolarmente alta, e in ascesa, nelle inner cities, dove si concentrano le minoranze. Sia l’esposizione all’inquinamento atmosferico e la sensibilità ai suoi effetti appaiono sproporzionatamente concentrate fra i poveri e la popolazione di colore. Con lo sprawl a contribuire all’inquinamento atmosferico nelle aree metropolitane, queste persone possono essere sproporzionatamente colpite.

La morbilità e mortalità connesse al riscaldamento interessano pure in modo sproporzionato i poveri e i membri delle minoranze. Nel 1995 l’ondata di caldo a Chicago ha provocato fra i residenti neri un tasso di mortalità superiore del 50% a quello degli abitanti bianchi. Risultati simili emergono per le ondate di caldo del Texas, di Memphis, St. Louis e Kansas City, e si rispecchiano nelle statistiche nazionali. Di particolare interesse nel contesto dello sprawl urbano, uno studio su un’ondata di caldo ha preso in considerazione il trasporto come fattore di rischio, rilevando che l’accesso limitato ai mezzi di trasporto (legato alla povertà, e all’essere o meno bianchi) si associava ad un tasso di mortalità per caldo più alto del 70%.

Ci sono significative differenze razziali/etniche nelle statistiche sugli incidenti stradali mortali. I risultati di una ricerca del National Health Interview Survey rivelano che i morti per incidente stradale sono 32,5 per centomila l’anno fra maschi neri, 10,2 fra maschi ispanici, 19,5 fra maschi bianchi, 11,6 tra donne nere, 9,1 per le ispaniche, 8,5 per le donne bianche. Molte di queste disparità si associano alla classe sociale. Ad ogni modo le differenze per quanto riguarda lo schema insediativo, la qualità stradale, la qualità dei veicoli, possono essere importanti, e devono essere comprese meglio.

Gli incidenti stradali che coinvolgono pedoni interessano in modo sproporzionato glia appartenenti alle minoranze e chi occupa l’ultimo gradino della scala economica. Ad Atlanta, per esempio, i tassi di mortalità per pedoni in incidente stradale fra il 1994 e il 1998 erano del 9.74 per centomila persone fra gli ispanici, 3,85 fra i neri, 1,64 per i bianchi. Nella suburbana Orange County, California, i latinoamericani rappresentano il 28% della popolazione, ma il 44% dei pedoni morti per incidente stradale. Nel suburbio di Washington nello stato della Virginia, gli ispanici sono l’8% della popolazione, ma rappresentano il 21% delle vittime da incidente. I motivi di questo impatto sproporzionato sono complessi, e possono essere legati alla probabilità di essere pedoni (forse legata al minore accesso alle automobili e ai trasporti pubblici), alla progettazione stradale nelle aree dove i membri delle minoranze camminano, e fattori culturali e comportamentali (come la scarsa abitudine al traffico veloce).

Questi esempi illustrano che gli effetti dello sprawl sulla salute possono essere diversi per diverse sub-popolazioni. In altri casi, ci sono meno prove dello squilibrio negli effetti sanitari connessi allo sprawl, o se ne esistono sembrano associate a fattori diversi dall’uso del suolo e dai trasporti. Questi casi comprendono l’attività fisica, gli aspetti sanitari connessi all’acqua, e i problemi di salute mentale.

Attività fisica e problemi di sovrappeso variano a seconda dei gruppi etnici e razziali. Le persone di colore hanno maggiore probabilità di essere sovrappeso, e di condurre vite sedentarie, di quanto non accada ai bianchi. Nel terzo National Health and Nutrition Exhamination Survey (NHANES-III) ad esempio, il 40% dei Messicano-Americani e il 35% dei neri non risultavano svolgere attività fisica nel tempo libero, contro il 18% dei bianchi. Nella stessa indagine, il medio Body Mass Index era di 29,2 per la popolazione nera, 28,6 per il Messicano-Americani, e il 26,3 per i bianchi. Le correlazioni fra i fattori di razza, etnia, genetici, di classe sociale, ambiente, dieta, attività fisica e peso corporeo sono complesse. Non c’è evidenza che lo sprawl condizioni in modo sproporzionato la popolazione di colore per quanto riguarda l’attività fisica. Nei fatti, le persone più povere hanno meno probabilità di possedere un’automobile e quindi maggior probabilità di camminare più delle persone con redditi superiori. Vista l’importanza per la salute collettiva del sovrappeso, obesità e condizioni sanitarie correlate, e il fatto che si è svolta relativamente poca ricerca sulle disparità ambientali provocate dallo sprawl, sono necessari dati ulteriori su questi aspetti.

Per contro, non esiste alcuna prova riguardo al rapporto fra sprawl e sproporzione degli effetti sulle minoranze della quantità e qualità d’acqua. Allo stesso modo, non c’è prova che le conseguenze dello sprawl sulla salute mentale, come la road rage, abbiano effetti diversi su gruppi etnici o razziali diversi. Nelle indagini sul comportamento dei guidatori citate sopra, non sono rilevate differenze di questo tipo nei comportamenti aggressivi. Nonostante per la popolazione di colore risultasse una percentuale leggermente più bassa di vittime di aggressione che per i bianchi o altri gruppi, non si trattava di una differenza statisticamente rilevante.

Riassumendo, alcune conseguenze dello sprawl sembrano avere effetti sproporzionati sui sub-gruppi di popolazione più vulnerabili, mentre per quanto riguarda altre questa tendenza non è dimostrata. In molti casi non abbiamo dati sufficienti per trarre solide conclusioni. Vista l’importanza degli effetti sulla salute coinvolti, l’imperativo morale di eliminare le disparità etniche e razziali in campo sanitario, e l’incremento continuo dello sprawl, queste correlazioni meritano un’attenzione pubblica costante.

Soluzioni

Come esposto sopra, sono necessarie ulteriori ricerche per chiarire le complesse correlazioni fra usi del suolo, modi di trasporto, e salute. Quali approcci alla pianificazione, progettazione e realizzazione urbana, sono i più adatti a ridurre l’inquinamento atmosferico, l’effetto isola termica, incoraggiare l’attività fisica, ridurre la morbilità e e mortalità connessa all’automobile, promuovere salute mentale e senso comunitario? Nonostante questo articolo si sia concentrato sulle conseguenze sanitarie dello sprawl, ci sono altre forme di ambiente costruito (città dense, aree rurali marginali, piccole cittadine) tutte dotate di vantaggi e svantaggi, che hanno necessità di essere valutati. È probabile che molti tipi di insediamento possano promuovere una migliore salute, e che un approccio ottimale possa prendere elementi dalla città, dal suburbio, dai piccoli centri.

Alcuni interventi possono essere relativamente semplici, come piantare più alberi o realizzare più marciapiedi. Altri sono più complessi e costosi da mettere in pratica, come i trasporti pubblici o le zone a usi misti. Per ciascuno di questi, alcuni metodi standard di ricerca sanitaria – dalle analisi cliniche all’osservazione epidemiologica – possono offrire indicazioni. Queste ricerche richiederanno collaborazioni innovative con altre professioni, come gli urbanisti, gli architetti, i costruttori.

È di importanza particolare per i ricercatori sanitari riconoscere e studiare gli “esperimenti naturali”. I modi di uso dello spazio urbanizzato stanno cambiando, con una migrazione di ritorno verso le aree interne urbane, con i limiti pianificati di espansione urbana [UGB, urban growth boundaries n.d.T.] che contengono lo sviluppo entro determinate zone, la nascita di quartieri a usi misti, innovazioni nel trasporto di massa, programmi per spazi verdi, e iniziative simili. Questi sforzi offrono ai ricercatori sanitari l’opportunità per studiarne gli effetti dal punto di vista della salute.

Visto che riconosciamo e comprendiamo i costi sanitari dello sprawl, possiamo cominciare a ipotizzare soluzioni. Molte di queste potenziali soluzioni si trovano nell’approccio urbanistico noto come “smart growth”, caratterizzato da maggiori densità, maggiore continuità nello sviluppo dell’urbanizzato, conservazione degli spazi verdi, usi misti del suolo e quartieri percorribili a piedi, quantità limitata di strade e alternative di trasporto pubblico, eterogeneità architettonica ed eterogeneità socioeconomica/etnica/razziale, equilibrio degli investimenti fra sviluppo del centro e della periferia, efficace e coordinata pianificazione di scala regionale. È importante il fatto che molti dei benefici per la salute che possono risultare da questo approccio (meno inquinamento atmosferico, più attività fisica, temperature più basse, meno incidenti stradali) possano portare anche benefici collaterali, come un ambiente più pulito, e quartieri più vivibili. Se le conseguenze sanitarie dello sprawl rappresentano una “sindemia” (combinazione di epidemie sinergiche che contribuiscono al carico di malattie della popolazione) anche le soluzioni possono operare in modo sinergico, migliorando di molto le condizioni sanitarie.

Le professioni della salute possono giocare un ruolo importante nel progettare e mettere in atto politiche di uso del suolo e dei trasporti. Nello stesso modo, chi ha tradizionalmente gestito questi aspetti (urbanisti, architetti, ingegneri, costruttori e altri) dovrebbe riconoscere le importanti implicazioni sanitarie delle proprie decisioni e cercare la collaborazione delle professioni legate alla salute.

Conclusioni

Lo sprawl urbano è un fenomeno di lungo periodo. È iniziato con l’espansione delle città verso le zone rurali, accelerando molto durante la seconda metà del XX secolo. Mentre comincia il XXI secolo, circa la metà degli americani vive nei sobborghi, e le caratteristiche dello sprawl (bassa densità, alta dipendenza dall’automobile per i trasporti, caduta delle opportunità per alcuni gruppi sociali, specie per quelli restati nelle inner cities) sono diffuse e familiari.

Questo articolo ha esposto le correlazioni fra sprawl e salute, basandosi su otto tipi di considerazioni: l’inquinamento atmosferico; il riscaldamento; i modi dell’attività fisica; gli incidenti stradali con feriti e morti anche fa i pedoni; quantità e qualità dell’acqua; salute mentale e capitale sociale. I dati mostrano sia i benefici che i costi per la salute. Come è vero per molti rischi sanitari collettivi, gli impatti dello sprawl non ricadono equamente sulla popolazione, e chi ne è maggiormente colpito merita particolare attenzione.

Dato che ci si occupa dello sprawl a vari livelli, dalle decisioni personali sulla mobilità alle ordinanze locali di azzonamento, dal trasporto pubblico a scala regionale alle decisioni federali e a quelle che modificano i modi d’uso del suolo, è essenziale incorporare considerazioni di tipo sanitario nella costruzione delle politiche. E dato che gli effetti sanitari dello sprawl sono distribuiti in modo ineguale tra la popolazione, è egualmente essenziale incorporare nelle politiche considerazioni di giustizia ed equità sociale.

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(traduzione di Fabrizio Bottini)

C’è qualche correlazione, fra il Movimento Slow Food e la diffusa preoccupazione delle persone per la perdita di qualità della vita connessa al rampante sviluppo edilizio, che minaccia il carattere delle loro città? Il movimento Slow Food è nato in Europa come reazione all’assalto delle grandi catene americane di fast-food che aprivano nei centri storici delle città e cittadine. Queste attività interrompevano la tradizione di ristoranti e caffè che lavorava entro una rete locale e regionale di produttori, dal mercato alla tavola.

Negli ultimi dieci anni la popolarità dello Slow Food si è molto sviluppata a livello internazionale, con “Convivi” – piccole sezioni – locali in tutto il mondo. La lumaca è il suo simbolo “di movimento lento, per ricordarci che essere veloci rende sconsiderati e sciocchi”.

Il Manifesto dello Slow Food Manifesto afferma:

“Siamo resi schiavi dalla velocità, e abbimao tutti ceduto allo stesso insidioso virus: la Vita Veloce, che distrugge le nostre abitudini, invade la privacy delle nostre case e ci obbliga a mangiare fast-food. In nome della produttività, la Vita Veloce ha cambiato il nostro modo di essere, e minaccia il nostro ambiente e i nostri paesaggi. In questo momento, Slow Food è l’unica, vera risposta avanzata”.

Se nasce un convivio per incoraggiare il lento piacere del cibo, non potrebbe un movimento del genere abbracciare altri aspetti di qualità della vita? In Italia si è già formata una rete di “Slow Cities”. Nelle regioni degli U.S.A. dove si sono affermati i principi smart growth, esiste un crescente interesse anche a rallentare uno sviluppo rampante.

La città di Huntersville, North Carolina, ha sostenuto una politica di smart growth —chiamata qui new urbanism — nell’ultima mezza dozzina di anni, per controllare la rapida espansione all’esterno di Charlotte. È seguendo il credo del new urbanism che si sono realizzati o restaurati quartieri compatti, a funzioni miste e buona percorribilità pedonale, che saranno le basi per una regione più vivibile. Queste strategie, credono molti, sono anche la chiave per rivitalizzare i nostri centri città, a aiutare a mitigare gli effetti dello sprawl suburbano,

Ma la gente di Huntersville non è molto contenta per il tipo di sviluppo ch è risultato, anche dall’apporccio new urbanist. Questo si deve forse al modo in cui è stato interpretato qui. Anche se i regolamenti urbanistici promuovono il new urbanism per le nuove realizzazioni, nei quartieri questo tipo di progettazione si ferma ai margini di ciascun insediamento. C’è poca cura per la forma del quartiere, compresi i rapporti fra le zone, o fra queste e il contesto circostante. In più, non c’è uno studio generale degli effetti dei nuovi quartieri sulle infrastrutture e il tessuto esistenti: da qui, il continuo incremento dei guai col traffico, la carenza di scuole, la diminuzione di qualità dell’acqua, ecc.

Per ogni “buon progetto” di quartiere ci sono dozzine di grosse lottizzazioni dove file di case a forma di fette di pane (che hanno pure portici sul fronte, anche se troppo piccoli per una sedia a dondolo) e case tradizionali da città (anche se hanno un vicolo sul retro per i garages, ma giardini privati mal definiti) stanno separate. La connettività è debole, e per la maggior parte affidata alla circolazione interna. Gli usi misti non esistono: le gente deve ancora guidare per chilometri solo per spendere qualche soldo. I marciapiedi finiscono bruscamente di fronte a strade ad alta velocità, di fronte a scuole in stile suburbano accessibili soltanto in macchina. Il trasporto pubblico non funziona, in questo tipo di ambiente artificioso.

Nel degrado crescente della qualità della vita, qualcuno dà la colpa al new urbanism. Ma il new urbanism non ha colpe. L’adozione dei suoi principi, anche se in piccola parte, ha aiutato a rallentare il degrado. Però fino a quando i principi new urbanism non saranno applicati alla città di Huntersville nel suo insieme, continueremo a vedere questo sviluppo “ new urbanist agli steroidi”: una specie di versione fast-food della smart growth.

Parte della regione di questo ibrido locale è che le benintenzionate revisioni all’ordinanza di zoning di Huntersville offrono troppa flessibilità, comprese categorie ibride di zone. I grossi costruttori si stanno avvantaggiando di queste categorie, seguendo solo alla lettera i requisiti minimi della normativa.

Per fortuna gli amministratori locali si stanno occupando del problema. È stata votata una moratoria di alcuni mesi per dare alla città il tempo di sviluppare norme più restrittive per arginare l’espandersi degli ibridi malriusciti.

Le nuove norme appena approvate per le zone rurali e di transizione, che focalizzano maggiormente i quartieri sul trasporto pubblico, sono un grosso passo nella giusta direzione. Ma basteranno da soli i limiti allo sviluppo dell’urbanizzato [ Urban Growth Boundaries/UGB, n.d.T. ] a migliorare tipo di insediamento e qualità della vita? Suvvia: c’è ancora, dentro quei confini, abbastanza spazio per scatenare la devastazione.

Ho iniziato a capire che forse l’unico approccio efficace potebbe essere che ciascuno rallentasse abbastanza per pensare al tipo di insediamento che stiamo cercando di costruire. In realtà, parecchi costruttori e pianificatori new urbanist di successo hanno scoperto con l’esperienza che c’è più profitto, e si fanno progetti migliori, andando più piano.

Allora, come sarebbe lo sviluppo di Huntersville se le attuali regole di zoning e politiche urbanistiche fossero modificate usando i criteri del trattamento Slow Food, e trasformando alcuni dei principi-guida in una versione rallentata di new urbanism, vale a dire lo slow urbanism?

Il manifesto dello slow urbanism potebbe suonare qualcosa del genere:

“Lo Slow Urbanism incoraggia le persone a creare quartieri integrati; a valorizzare le tradizioni edilizie locali; e a prendersi il tempo — questa è la parte importante (e divertente) — di godere la vita comunitaria, in famiglia e con gli amici”.

Il nostro motto sarà “Sbrigarsi lentamente”.

Fonderemo Convivi di Slow Urbanism (o Clubs, per i meno pretenziosi) composti da cittadini, architetti, paesaggisti, urbanisti, imprese edilizie, arredatori, artisti, giardinieri, progettisti, negozianti, musicisti, ambientalisti, promotori immobiliari, operatori di mercato, restauratori, e poi funzionari pubblici, politici, e (anche loro) i costruttori. La cosa più importante: i convivi comprenderanno anche la gente comune.

Ci incontreremo nei fine settimana nei vari quartieri — o sui siti dei futuri quartieri — a fare “attività sociale slow urbanism”.

Formeremo un sottocomitato per la eco-urbanistica che affermi, “Non si ha ecologia senza urbanistica, e urbanistica senza ecologia!”. E questo perché “se vuoi che una comunità cresca bene, hai bisogno di veri modelli locali di sostenibilità, basati sulla tradizione”.

Sosterremo le attività e i fornitori locali. Nello slow urbanism i piccoli costruttori e studi di progettazione saranno gli eroi. A differenza dell’urbanizzazione intesa come prodotto per il consumo di massa, gli insediamenti slow urbanism creeranno spazi create di raffinata qualità e varietà. Occorre costruire quartieri usando metodi tradizionali, a bassa tecnologia, mettendo al centro le tecniche costruttive locali.

Il nostro Convivio slow urbanism organizzerà viaggi di ricognizione a visitare grandi città e quartieri, per lo studio intellettuale, e anche per divertirsi un po’, lontano dalle zone invase dallo sprawl.

I nostri incontri si svolgeranno davanti a gradevoli cibi e bevande, su sedie a dondolo, nei bar del quartiere, nelle caffetterie, nei parchi, sui portici davanti alle case, nelle piazze.

Durante le riunioni faremo passeggiate oziose per le strade accoglienti per i pedoni, a conoscere i nostri vicini. Non ci saranno le insegne dei Jack-in-the-Box, Friday’s, Old Navies, o Wal-Mart a lampeggiare dai margini di un parcheggio.

Slow Urbanism sarà per la gente vera, che vuole vivere in quartieri dotati di senso. C’è un modo migliore, per fare professione politica, che vivere in un posto ben progettato, ben costruito, solidale?

Una riunione locale dello Slow Urbanism Convivium sembrerà un altro modo rispetto alle zone dello sprawl suburbano, o della boomtown ammucchiata. È anche possibile che qualcuno qui sperimenti una vita comunitaria per la prima volta in vita sua.

Lo slow urbanism sarà l’antitesi al “ new urbanism agli steroidi”. Sarà un vero piacere! Coltivare come idea centrale della missione slow urbanism una comunità autentica e piena di significati, renderà il movimento attraente per tutti.

C’è qualcuno interessato ad associarsi? Io sarò il primo a firmare!

Nota: qui il link al testo originale al sito Terrain.org che contiene tra l'altro alcuni divertenti disegni sul tema (fb)

Titolo originale: Why Planners are Ambivalent About Gated Communities - traduzione di Fabrizio Bottini

Le nuove città recintate

Durante il Medio Evo, molte città costruirono lunghe mura per proteggere i propri abitanti. Con il cambiamento delle tecnologie militari e l’espandersi delle alleanze politiche, le mura urbane gradualmente divennero inutili. Ma negli anni recenti, si è visto un risorgere delle comunità chiuse. I progetti gated contemporanei sono a volte città complete, come nel caso di Hidden Hill, California, o Alphaville, in Brasile. Più spesso, però, si tratta di lottizzazioni con case e qualche struttura per il tempo libero. In queste nuove comunità recintate, mura e cancelli promettono sicurezza, privacy, privilegi per chi vive all’interno.

Alcune stime indicano che ben 4 milioni di americani vivono in circa 30.000 insediamenti ad accesso controllato. Queste enclaves chiuse compaiono nei quartieri residenziali di tutti i continenti. Insieme al commercio big-box e alle aree di sviluppo agevolato, questi progetti rappresentano la città globale postindustriale.

Se le persone agiate di oggi sembrano ovunque condividere un interesse in questa nuova forma urbana, si riscontrano considerevoli variazioni regionali nelle caratteristiche delle enclaves chiuse. Questo ci porta a indagare sulle comunità chiuse del Canada, su cui è stato scritto poco.

Gated Communities in Canada

Abbiamo utilizzato la seguente definizione: “ Gated Communities sono insediamenti residenziali su strade private che sono chiusi al traffico pubblico tramite un cancello all’ingresso principale. Questi insediamenti possono essere circondati da recinzioni, muri o altre barriere naturali che limitano ulteriormente l’accesso pubblico”.

I nostri metodi di ricerca hanno preso in considerazione l’esame della letteratura scientifica, domande via e-mail ad urbanisti, analisi dei listini immobiliari su internet, casi studio in tre province. Abbiamo identificato 314 gated communities in sei province. Non si tratta di uno studio esaustivo: riteniamo che ci possano essere due o tre volte tanti insediamenti del genere in Canada. Il numero maggiore dei quartieri chiusi è nella British Columbia. Alcuni costruttori hanno creato un mercato di nicchia di un certo successo per questo tipo di quartieri. Ci sono concentrazioni di queste enclaves nella Okanagan Valley e nei sobborghi di Vancouver. I gated projects sono popolari fra le persone più anziane e si trovano comunemente in località abitate da pensionati. Circa un terzo dei progetti identificati si rivolge selettivamente a residenti anziani. Per la maggior parte, gli insediamenti canadesi hanno meno di 100 abitazioni. A differenza dei quartieri chiusi USA, pochi di quelli canadesi impiegano guardie o videosorveglianza.

Le risposte dell’urbanistica

Nell’indagine via e-mail, abbiamo contattato 123 urbanisti ottenendo risposte da 78 (il 63%). Solo nove delle amministrazioni municipali avevano politiche di piano o linee guida di progetto orientate specificamente alle gated communities. Nonostante alcuni orientamenti di piano scoraggiassero la chiusura (a Burnaby, Coquitlam, Nanaimo, Kelowna, Qualicum Beach, piano per la regione di Ottawa), erano rare le indicazioni che esplicitamente tentavano di prevenirla. Alcune regole che proibiscono i lotti a “fronte inverso”, o limitano l’altezza delle recinzioni possono diminuire l’impatto della chiusura, ma non impedirla. Politiche che richiedano l’accessibilità pubblica o incoraggino la connettività stradale possono avere effetti maggiori (come a Surrey, Burnaby, Orangeville). Molte città hanno adottato linee guida per il verde e regolamenti per recinzioni progettate in modo da diminuire l’impatto di vaste chiusure.

Gli urbanisti intervistati spesso esprimono un certo disagio verso le gated enclaves. La loro preoccupazione principale è l’effetto visivo di lunghe muraglie lungo strade di connessione, e l’interruzione della rete viaria. Alcuni hanno sollevato questioni sociali sul senso di segregare gruppi di persone dietro un muro. Tutti riconoscono però che quelle cancellate sono molto popolari fra gli acquirenti di case, costruttori e amministratori. Parecchi hanno affermato che i loro consigli municipali non erano interessati nelle restrizioni agli insediamenti chiusi.

Forse, l’opposizione più attiva al gating viene dai gruppi locali di vigili del fuoco, preoccupati dai tempi di intervento. Se i quartieri della British Columbia sembrano aver raggiunto accordi col personale di emergenza, in Nova Scotia il servizio antincendi è ancora contrario a strade private di qualsiasi genere.

Nella maggior parte delle città canadesi, i costruttori non hanno ancora realizzato quartieri chiusi. I cancelli compaiono in genere dove la crescita è più forte, e il mercato più segmentato. In parecchie città e cittadine prive di gated enclaves, gli urbanisti indicano di aver dissuaso i costruttori dal proporle. Per la maggior parte però gli stessi urbanisti non hanno esperienze con questi tipi di quartiere, e non si aspettano di ricevere proposte riguardo ad essi per l’immediato futuro. Quindi, non hanno necessità di sviluppare alcun tipo di politica di prevenzione.

Conflitto con gli obiettivi urbanistici

La letteratura accademica che si occupa del gating dà quasi universalmente giudizi negativi. Queste enclaves sono descritte come paesaggi di paura e privilegio. Sono criticate in quanto esclusive, reazionarie, e socialmente isolanti. La letteratura sembra suggerire che la chiusura contraddica i principi della professione urbanistica, di apertura, accessibilità, diversità, eguaglianza.

La letteratura promozionale delle gated communities, per contrasto, è notevolmente positiva. Che vende e compra case nelle gated communities vede paesaggi di privacy, sicurezza, ambiente amichevole, senso comunitario.

Gli urbanisti municipali che non hanno mai avuto a che fare con richieste relative a quartieri chiusi possono farsi un’opinione a riguardo in base a quanto hanno visto nella letteratura, o nei loro viaggi, o in parte in base a valutazioni professionali e sensibilità personale. Chi si occupa di gated communities all’interno della propria circoscrizione può trovare molto più difficile lo sviluppo di un’opinione a riguardo. Se esaminiamo i valori urbanistici associati a questi quartieri, vediamo i motivi di questa ambiguità.

In qualche modo, il gating ha caratteristiche coerenti ad alcuni valori base dell’urbanistica. Per esempio, questi quartieri sono spesso edificati in zone destinate alle abitazioni multifamiliari. Con una proprietà di tipo condominiale, le abitazioni sono su piccoli lotti e realizate con densità medie, facilitano lo sviluppo compatto e le strategie di aumento della densità locale. All’interno dei quartieri, uno spazio aperto di qualità forma ambienti pedonali a dimensione umana. Con il traffico limitato, le strade sono sicure e quiete. Linee di progetto unificate, insieme a chiari limiti e fuochi, creano un senso dello spazio. Molti di questi principi si sono inseriti stabilmente nell’urbanistica canadese attraverso l’influenza del new urbanism, e si sono concretizzati nelle gated communities.

I residenti di queste enclaves possono godere di un senso comunitario. Lavorano insieme nella gestione del proprio quartiere, attraverso le associazioni di abitanti, costruendo un potenziale capitale sociale. Condividono i servizi comuni e gli spazi per il tempo libero, si vedono l’un l’altro mentre camminano nella zona. Sono disponibili all’aiuto reciproco. Dato che trasferirsi in una comunità recintata è una scelta di stile di vita, i residenti abitualmente hanno interessi personali e caratteristiche simili.

I fattori che rendono forti queste comunità – l’omogeneità economica e quella sociale – costituiscono una sfida ai valori dell’urbanistica contemporanea. Uno dei suoi principi chiave è l’idea di diversità. Le città devono contenere un ampia gamma di persone e possibilità. Gli urbanisti hanno tradotto tendenzialmente questo obiettivo nella pianificazione a usi misti, tipi di residenze e di famiglie all’interno della città I quartieri gated non seguono questo criterio, perché segregano usi, classi, e spesso anche età.

Dato che le loro strade non sono collegate alla più vasta rete urbana, le enclaves aumentano le dimensioni delle cellule della trama insediativa, obbligando pedoni e auto a circumnavigarle. Poche sono ben servite dai trasporti pubblici. Se i piani di oggi spesso auspicano una rete di forte connessione stradale, percorsi verdi e pedonali, le gated communities interrompono questo tessuto.

Anche se esistono pure parchi di case mobili recintati, la maggior parte dei quartieri chiusi sono enclaves di alto reddito. La chiusura presenta un’altra sfida all’obiettivo di assicurare una ampia scelta residenziale anche a prezzi accessibili, nei nuovi quartieri. Qualunque guadagno ottenuto costruendo a densità più elevate più essere vanificato dai costi aggiuntivi di costruzione e manutenzione di mura e cancelli.

Alcuni sostengono che anziché far diminuire il tasso di criminalità, le gated enclaves aumentano il timore dei crimini. La presenza di recinzioni, cancelli, videosorveglianza e guardie rivela la crescente insicurezza della società moderna. Allo stesso tempo, visto che gli urbanisti lavorano per collaborare a piani di città che siano vivaci, sicure, accoglienti e adattabili, la tendenza che vediamo nei sobborghi ci dice che non tutti credono alla città aperta.

Dobbiamo riconoscere anche che gli urbanisti lavorano entro limiti politici e fiscali, che rendono difficile resistere alla pressione per quartieri chiusi. In molte parti del paese, le strade private sono comuni nei nuovi suburbi. I consigli municipali approvano vie private per facilitare il trasferimento dei costi a costruttori e consumatori. Il problema è che le strade private sono la facile premessa ai cancelli.

I costruttori che cercano di dare un senso identitario ai nuovi quartieri vedono ingressi e mura come abbellimenti. Chiudere una strada può attirare abitanti preoccupati per la manutenzione stradale e la sicurezza. In alcune zone, i residenti fanno addirittura pressione per chiudere strade pubbliche, a impedire scorciatoie al traffico e limitare i fastidi. I cancelli sono diventati popolari nell’ambito del mercato: un tipo di estensione del concetto di cul-de-sac su larga scala. L’ enclave chiusa offre un ambito sicuro e avvolgente. Per la maggior parte questi quartieri offrono vicinati di buona qualità, invisibili ai passanti, e aumentano i valori delle proprietà immobiliari della zona. Dato che hanno ingressi poco vistosi sulle strade locali, e recinzioni gradevoli con ottimo arredo a verde, pochi le notano per lamentarsene. Anche gli urbanisti comunali possono non conoscerne l’esistenza, dato che i cancelli possono essere stati aggiunti dopo l’approvazione dei piani attuativi.

Chiudere gli occhi?

Visto che otto su dieci nuovi insediamenti negli USA sono di tipo chiuso, potremmo desumere che gli urbanisti americani stiano attivamente esplorando le implicazioni dei gated developments. Un’occhiata veloce al programma della recente conferenza dell’American Planning Association a Washington, dell’aprile 2004, chiarisce la questione. In un programma con parecchie centinaia di presentazioni – oltre 80 sui vari aspetti del new urbanism, della smart growth, degli spazi orientati al trasporto pubblico; oltre 50 sui GIS e le applicazioni dei computers – non c’era una sola sessione o presentazione sugli insediamenti chiusi. Nonostante molte relazioni sottolineassero l’importanza della connettività stradale negli insediamenti new urbanist, nessuna discuteva le conseguenza spaziali delle gated enclaves. Il problema rimaneva invisibile, e i partecipanti alla conferenza ignoravano le contraddizioni della pratica quotidiana a favore di una conferma dei principi operativi urbanistici in voga.

Il Canadian Institute of Planners sembra più interessato a favorire una discussione. Sia l’anno scorso che questo, la nostra proposta per un gruppo di discussione sui quartieri recintati è stata accettata nel programma della conferenza. Questo offre l’opportunità di stimolare un dibattito fra urbanisti. Crediamo che questo argomento sia uno di quelli da affrontare da parte degli urbanisti a viso aperto, al fine di formare una “opinione professionale” che possa guidare gli operatori locali che si trovano di fronte una crescente richiesta di approvare gated developments. Anche se l’estensione del fenomeno in Canada resta limitata, nuovi interventi stanno aprendo la strada giorno dopo giorno. Se i timori per la sicurezza personale aumentano (come è possibile nell’era del terrorismo globale), allora molti canadesi potranno sperare di scappare dietro ai cancelli. In quanto urbanisti, come gli risponderemo?

Nota: questo è il link al sito del Canadian Institute of Planning ; dato che per motivi di spazio e tempo ho escluso da questa traduzione tabelle e bibliografia, allego di seguito il file PDF originale completo (fb)

Questo pezzo doveva, in origine, essere una recensione a un libro uscito qualche settimana fa. Poi ho pensato che probabilmente molti lettori di Eddyburg avevano già letto la recensione (un po’ modaiola ma esaustiva a modo suo) di Patricia Leigh Brown su La Repubblica/New York Times del 30 giugno scorso. E alla recensione si è sostituita questa proposta di estratti dalla prima parte “teorica” del volume, alla quale segue un dizionario illustrato (da magnifiche/tragiche foto aeree) dei neologismi da sprawl suburbano. E guardando certi panorami pedemontani o di frangia rappresentati nelle foto di Jim Wark, qualche segno anche all’osservatore europeo sembra familiare. Purtroppo. (fb)

Titolo originale del capitolo Decoding Everyday American Landscapes – estratti e traduzione di Fabrizio Bottini

Una guida pratica allo Sprawl?



Parole come città, suburbio e campagna, non colgono più la realtà dell’urbanizzazione negli Stati Uniti. La maggior parte degli americani abita paesaggi metropolitani complessi, stratificazioni di zone omogenee, strisce e centri commerciali, parchi industriali e terziari, autostrade.

La diffusa insoddisfazione per l’edilizia speculativa ha generato molte critiche, ma spesso mancano termini precisi per definire gli elementi fisici dello sprawl. Se gli storici dell’arte scrivono dizionari illustrati di architettura, e gli urbanisti definiscono gli usi del suolo con termini legali, i costruttori creano un gergo vivace per discutere i loro progetti. Il vocabolario essenziale per dibattere le questioni correnti dell’edilizia comprende non solo parole familiari, come lottizzazione, strada, parcheggio, ma anche i termini più esotici di growth machine [il meccanismo inesorabile della crescita quantitativa n.d.T.], ruburb [gioco di parole che sta per “suburbio rurale”], category killer [tipo di mega negozio specializzato discount], privatopia, duck [edificio che serve anche da insegna architettonica della funzione contenuta], tower farm [raggruppamento di ripetitori per telecomunicazioni].

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Lo spazio costruito esprime le priorità materiali e politiche di una società. Sparpagliate per il paesaggio, le forme di insediamento residenziali e commerciali tipicamente americane e auto-orientate sono spesso chiamate sprawl. Il Collegiate Dictionary Merriam-Webster decima edizione definisce sprawl un verbo transitivo: “causare il distendersi in modo casuale o disordinato”. È una buona definizione generale, perché si concentra sul processo. Lo sprawl è una crescita non regolata che si esprime come disordinato uso del suolo e di altre risorse, oltre che abbandono di aree edificate di vecchia data. Mentre gli analisti delle politiche dibattono la cause e conseguenza dello sprawl, molti pianificatori e ambientalisti usano correntemente definire il fenomeno come processo di urbanizzazione su larga scala che produce un edificato a bassa densità, sparso, discontinuo, dipendente dall’auto, abitualmente alla periferia di sobborghi di più vecchia data in declino, o centri città in riduzione.

Durante la seconda metà del ventesimo secolo, gli Stati Uniti sono divenuti prevalentemente suburbani: le autostrade interstatali hanno dominato l’intervento pubblico, mentre l’edilizia orientata all’uso dell’automobile e a quello dei parcheggi, con zone residenziali omogenee, grandi catene di ristorazione fast-food, zone a uffici, centri commerciali, domina quello privato. Nel 2004, le località di tipo suburbano hanno superato quelle urbane in numero di residenti, elettori, offerta di nuovi posti di lavoro. Lo sprawl produce paesaggi ad una scala più adatta alle automobili e ai camion che agli esseri umani, paesaggi caratterizzati da ampie strade, nastri commerciali senza fine, piccoli baccelli di insediamenti monouso (come lottizzazioni residenziali o centri commerciali) e poco spazio aperto pubblico. La storica Lizabeth Cohen ha delineato come gli Stati Uniti si siano sviluppati in una “repubblica di consumatori” nel periodo seguente la seconda guerra mondiale, una società basata sul consumo di massa di automobili, abitazioni, beni industriali, molti di questi progettati per una rapida obsolescenza. Lo spreco evidente è parte dello sprawl, come si può vedere nel cattivo uso della terra, con i cimiteri delle automobili, le discariche traboccanti, l’esportazione dei rifiuti. Il visibile deterioramento dell’ambiente è pure una parte essenziale dello sprawl, che appare in forma di antichi sobborghi in decadenza, edifici abbandonati, sistemi di trasporto collettivo in declino o abbandonati. Nonostante lo sprawl possa apparire abbastanza ovvio allo sguardo nelle periferie metropolitane, dove la nuova edilizia speculativa è comune, i centri città più vecchi pure rivelano gli effetti dello sprawl, perché in un’economia organizzata su nuove costruzioni e rapida obsolescenza, le zone urbanizzate sono spesso lasciate andare in pezzi.

Osservare lo sprawl come processo è un esercizio di comprensione dell’habitat. C’è bisogno di capacità di osservazione, e di ascolto. Come storica delle città, e architetto di formazione, per prima cosa ho imparato a individuare i segni dell’edificazione che arriva in spedizioni sul campo ai tempi dell’università. Una ruspa che scava buchi per un test di drenaggio in una zona residenziale indica che qualcuno sta chiedendo l’autorizzazione per un edificio o un quartiere. Mucche a pascolare vicino a cartelli che recitano “Lotto in vendita, Destinazione commerciale”, seguiti dai paletti da geometra tra l’erba, e dall’installazione di impianti illuminanti da autostrada lì vicino, significa cambio di destinazione da agricola a grande negozio discount o centro commerciale. Spesso la velocità delle demolizioni e delle costruzioni sorprende i miei vicini. Gli uffici urbanistici locali archiviano autorizzazioni e progetti, ma pochi residenti li studiano con diligenza. Quando compare la scritta “Chiusura per fallimento” su attività a gestioni familiare che hanno prosperato per decenni sulla piazza del villaggio o sulla via principale, di solito è troppo tardi perché i comuni cittadini possano intervenire.

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La Guerra dello Sprawl

La Real Estate Research Corporation pubblicò The Costs of Sprawl nel 1974, un monumentale rapporto sui problemi creati ad abitanti e governi locali dallo sviluppo non pianificato dell’urbanizzazione residenziale e commerciale a bassa densità. Nel 1998 The Costs of Sprawl-Revisited ampliava queste considerazioni. Ma la critica più acuta dello sprawl, negli anni ’70 fu la monografia di Mark Gottdiener, Planned Sprawl: Private and Public Interests in Suburbia, un’analisi dell’edificazione a Long Island. Gottdiener esaminava la speculazione nell’industria edilizia, concludendo che gli ambienti edificati che apparivano visivamente caotici erano spesso il risultato di deliberate strategie di impresa per massimizzare i profitti. Egli sosteneva che lo sprawl avesse radici profonde nella politica economica del capitalismo avanzato, dove la produzione di spazi vendibili o affittabili univa gli interessi delle banche, delle assicurazioni, dell’impresa edilizia.

Fra gli anni ’70 e ’90 molti gruppi si sono cimentati nella guerra allo sprawl, come il Sierra Club, il Lincoln Institute of Land Policy, il National Trust for Historic Preservation. Hanno difeso le frontiere della crescita in Oregon, salvato fattorie in Vermont, combattuto battaglie contro i negozi big-box nello Iowa. Il Natural Resources Defense Council ha scritto: “L’urbanizzazione a sprawl divora fattorie, pascoli e foreste, trasformandoli in nastri commerciali e lottizzazioni che servono più alle automobili che agli uomini”. Negli anni Novanta mentre la crescita economica alimentava uno sviluppo incontrollato sulle fasce esterne di tutte le maggiori aree metropolitane, gli ambientalisti hanno costruito sfide legislative allo sprawl, sostenute sia dai Democratici che dai Repubblicani a livello locale, statale e federale. Cento organizzazioni hanno formato una coalizione: Smart Growth America.

Mentre gli attivisti parlavano con fiducia di smart growth, di sprawl-busting, di sprawl-solving, le loro vittorie stimolavano i conservatori a riorganizzarsi, in particolare dopo l’elezione a Presidente di George W. Bush nel 2000. Molte lobbies economiche come la National Association of Realtors e la National Association of Home Builders si sono unite alle associazioni anti- sprawl per tentare di persuaderle ad adottare punti di vista più favorevoli al mondo degli affari. Allo stesso tempo, i think-tanks di destra, come Heritage Foundation e Reason Public Policy Institute, hanno orientato i propri sforzi alla difesa dei diritti di proprietà privata, e alla promozione di principi di “libero mercato”. Secondo loro, lo sprawl deve essere capito, come entusiastica suburbanizzazione. I conservatori sottolineano come, visto che tanti americani scelgono di vivere nei suburbi, lo sprawl deve essere popolare. Giustificano il fenomeno come effetto del libero lavorio delle forze di “libero mercato”, senza chiedersi come i sussidi federali ai costruttori e proprietari immobiliari abbiano alterato i meccanismi di mercato per più di mezzo secolo.

Il dibattito sullo sprawl si sta intensificando. I ricercatori conducono studi statistici per definirlo in termini quantitativi, analizzando densità di popolazione e distanze da aree consolidatamente urbanizzate. Allo stesso tempo, architetti, paesaggisti e urbanisti stanno sviluppando studi qualitativi per determinare le preferenze visive dei cittadini, in quanto parte della pratica di progetto per migliori quartieri. Molti progettisti enfatizzano il desiderio di molti abitanti per quartieri che siano simili alla cittadina tradizionale, con piazze verdi comuni da villaggio, ampi marciapiedi, stili edilizi tradizionali, alberature abbondanti. In Suburban Nation: the Rise of Sprawl and the Decline of the American Dream, lo studio di architettura di Miami di Andrés Duany, Elizabeth Plater-Zyberk e Jeff Speck, paragona la città americana a “una frittata non cucinata: uova, formaggio, verdure, un pizzico di sale, ma ognuno consumato crudo e a parte”. Si auspica la “creazione fisica di una società”, e la soluzione è “una miscela integrata di usi diversi dello spazio”, da realizzare attraverso la progettazione di quartieri tradizionali. Anche i californiani Peter Calthorpe e William Fulton sostengono il mixed-use nel loro Regional City, aggiungendo considerazioni più ampie sui trasporti metropolitani e la conservazione energetica. Tutti questi autori chiedono una pianificazione a scala regionale, coinvolgimento dei cittadini, iniziative pubbliche dimostrative utilizzando le proprietà immobiliari governative ai vari livelli.

Data l’enfasi sulle soluzioni in positivo, nella cultura architettonica e urbanistica, gli aspetti visivi della cultura dello sprawl hanno ricevuto troppa poca e continua attenzione. Gli architetti non hanno dissezionato in profondità le forze economiche che stanno alle spalle delle componenti costruite dello sprawl. A cominciare da God’s Own Junkyard: the Planned Deterioration of America’s Landscape di Peter Blake, pubblicato nel 1963, predominano le polemiche. Combattere lo sprawl non è solo un problema di contrastare una cattiva progettazione con una buona progettazione, creando di colpo una comunità. C’è bisogno di una più sostenuta critica economica e politica delle cause che sottostanno a quegli ambienti aridi e invivibili. La cultura visiva dello sprawl deve essere letta come rappresentazione materiale di una politica economica organizzata attorno ad un meccanismo di crescita insostenibile

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Nota: purtroppo per motivi di spazio e copyright le bellissime immagini dello sprawl dovrete vedervele direttamente sul libro (fb)

Solo due parole introduttive. Il testo che segue a ben vedere parte da critiche abbastanza ragionevoli ad alcune rigidezze del movimento ambientalista, diciamo ad alcune impostazioni “manualistiche”. Si sa come man mano le idee complesse si diffondono, ci sia anche una tendenza alla banalizzazione, che è facilissimo e fin doveroso attaccare. E qui finisce la parte buona, e del tutto secondaria, del testo che segue. Perché tutto il resto ruota attorno a luoghi comuni, semplificazioni, faziosità varie e sbandierate, cavalcando il disagio da sindrome di sicurezza.

La soluzione, anche se non viene indicata, sembra una sola: una casa, un giardino di un acro, un’automobile. E magari visto che ci sono in giro i terroristi anche un bel fucile nell’armadio. Mica come quei mollaccioni di Manhattan che stanno lì nei loro grattacieli a fare da bersaglio, o gli ambientalisti che suggeriscono di non consumare proprio tutto il territorio nazionale a giardini di un acro. La tesi è chiara: fanno il gioco dei terroristi.

Sono sciocchezze, naturalmente, ma tentano di assestare colpi al movimento che in un modo o nell’altro aveva cominciato a mettere in discussione la monocultura della villetta, dello shopping mall , della segregazione funzionale e socioeconomica, del provincialismo coatto. Ora questo mondo oltraggiato cerca la sua vendetta, e credo non vada nemmeno dimenticato in chiusura che il rapporto diretto tra sprawl e sicurezza militare non è un’invenzione recente: anche il programma delle New Towns britanniche si deve, dopo quarant’anni di tentativi falliti dei seguaci di Howard, proprio alla “urbanistica antiaerea” determinata dalla minaccia nucleare. (fb)

Titolo originale: Is Sprawl a Defense Against Terrorism?Traduzione di Fabrizio Bottini

A partire dallo choc dell’11 settembre, qualunque gruppo di interesse a livello nazionale sta dicendo la sua sugli attacchi terroristici. Gli oppositori dell’automobile, come Gar Smith o l’Earth Island Journal danno la colpa dell’attacco al consumo americano di petrolio, e auspicano che si rinunci del tutto a usarlo.

”Il sogno americano di una permanente utopia drive-in è morto l’11 settembre”, si entusiasma lo sfasciautomobili James Howard Kunstler. “Queste nuove circostanze devono obbligarci a vivere in modo più locale, a dipendere dall’auto meno di quanto facciamo ora, [e] a iniziare immediatamente a ricostruire una rete ferroviaria fra le città”. Con “vivere in modo più locale” Kunstler intende che dovremmo vivere in comunità e aree urbane più dense, compatte.

Chi odia l’automobile fa in fretta a dare la colpa alla dipendenza dell’America dal Medio Oriente per il petrolio, per quanto riguarda il terrorismo. Non importa se la maggior parte del petrolio che usiamo viene dall’emisfero occidentale. Non importa se i terroristi sembrano perlopiù motivati da questioni religiose, come la presenza di “infedeli” nella penisola arabica. Non importa se gli USA hanno fatto grossi sforzi per preservare la pace e la stabilità il luoghi senza petrolio come la Yugoslavia o l’Africa. Svezzare gli americani dall’automobile, in qualche modo farà andare via i terroristi.

Seguendo questa linea di pensiero, altri affermano che dovremmo costruire più metropolitane urbane e ferrovie inter-città. Gli USA “non possono dipendere da un solo mezzo di trasporto”, dice il sindaco di Meridian, John Robert Smith, che per caso è anche nello staff dirigente della compagnia ferroviaria Amtrak. Il Surface Transportation Policy Project dice che dovremmo spendere miliardi per il trasporto ferroviario, così da avere “un sistema di trasporti shock-resistent”.

Alcuni sindaci delle grandi città sperano anche che la recente tragedia possa dare ai residenti urbani un “senso comunitario” che li trattenga nelle città. Il sindaco di Pittsburgh, Thomas Murphy, pensa che installando metal detectors negli edifici pubblici e assumendo più poliziotti si creerà un’atmosfera urbana “sana e vivace”, così che i cittadini non scapperanno verso i sobborghi.

Gli ambientalisti impegnati per la smart growth sentono l’imperativo morale a sostenere centri città densi. “La principale preoccupazione ambientalista è che il centro città tenga”, dice Eric Goldstein, avvocato del Natural Resources Defense Council, a favore di un “forte nucleo centrale”. La suburbanizzazione, sostiene Goldstein, porterà ad aumentare la congestione, l’inquinamento atmosferico, spostamenti pendolari più lunghi, e perdita di spazi aperti. I lettori de L’Automobile che Scompare e altri Miti Urbani sanno che tutti queste affermazioni sono sbagliate.

Contrario a questi tentativi di strumentalizzazione, lo storico Stephen Ambrose indica che la vera lezione dell’attacco terroristico è “Non ammucchiatevi”. Mantenere “un forte nucleo centrale” serve solo ad offrire ai terroristi un bersaglio migliore.

”Non è più necessario stipare così tante persone e uffici in piccoli spazi come Lower Manhattan”, scrive Ambrose. “Si possono sparpagliare nelle regioni e stati circostanti, dove possono lavorare altrettanto efficientemente e in molto maggior sicurezza”. Anche il sostenitore della smart growth James Howard Kunstler ha concluso che “l’era dei grattacieli è giunta alla fine”. Come altri sostenitori della smart growth sottolineano, la loro visione del futuro è a media altezza e media densità: Brooklyn, non Lower Manhattan. “I grattacieli non sono parte necessaria della smart growth” afferma la leader ambientalista del Maryland, Harriet Tregoning. Ma anche l’alta densità della media altezza può essere troppo densa per il benessere di molte persone. “Abbiamo visto cosa significa la densità di popolazione in un’epoca di terrorismo, e non è una bella cosa”, dice il columnist del Detroit News, Thomas Bray. “E tanto basta, per l’idea secondo cui quello che questa nazione ha bisogno è la fine dello sprawl”.

”La logica del decentramento non è mai stata tanto chiara” sostiene il columnist del San Jose Mirror, Dan Gillmor. “La sicurezza un tempo stava nei grandi numeri. Nel mondo di domani, ci sarà più sicurezza nello sparpagliarsi”.

La lezione dovrebbe essere chiara a chiunque abbia guardato quelle orribili immagini nelle ultime settimane. Il World Trade Center si adattava in modo compatto in soli 8 ettari, e i terroristi l’hanno distrutto insieme a parecchi edifici vicini con due aeroplani. Il Pentagono, che ha circa due terzi di spazio per uffici del WTC, si estende su una superficie di circa 300 ettari. Con un aeroplano i terroristi hanno demolito solo il 6% di quello spazio.

(Per inciso, adeguandosi all’inflazione, il World Trade Center ha costi di costruzione per unità di superficie uffici tre volte maggiori del Pentagono. Questo per quanto riguarda i “costi dello sprawl”).

Indipendentemente da quello che pensate a proposito di sprawl, molte imprese e individui prenderanno a cuore la lezione del “non ammucchiatevi”nei prossimi mesi e anni. “I calcoli dei dirigenti su dove alloggiare i propri impiegati stanno inserendo fra le variabili la necessità di non edificare qualcosa che un bombarolo suicida non sia tentato di buttare giù”, scrive Holman Jenkins Jr. sul Wall Street Journal. Molte ditte i cui uffici erano nel WTC, aggiunge Jenkins, stanno “correndo a firmare contratti d’affitto per immobili di qualunque tipo, fuori dalla città, in modi che non fanno pensare a programmi di ritorno”.

Naturalmente, questa è stata una grossa preoccupazione per il sindaco di New York Giuliani, fin dall’inizio. Senza dubbio il sindaco di Chicago Daley è preoccupato in modo simile riguardo al futuro della Sears Tower, e quello di San Francisco, Brown, per la Transamerica Tower o il Golden Gate Bridge.

Giuliani naturalmente vuole ricostruire i grattacieli del complesso di uffici, per mantenere le imprese entro la sua giurisdizione. I senatori di New York Clinton e Schumer hanno promesso fondi federali per farlo. Ma queste costruzioni saranno costose e difficilmente attireranno le imprese, che hanno imparato la lezione degli attacchi multipli al vecchio complesso di uffici.

Il sociologo californiano J. F. Scott sottolinea come l’idea che i distretti finanziari abbiano bisogno di torreggianti grattacieli, per attirare gli affaristi abbastanza vicino l’uno all’altro a svolgere le proprie attività, è messa in discussione dal distretto finanziario di Menlo Park, nella Silicon Valley. Questo distretto, osserva Scott, “consiste di edifici poco elevati (nessuno oltre i tre piani) con abbondanti parcheggi”.

L’economista Paul Krugman teme che l’attacco dell’11 settembre “danneggerà permanentemente la posizione di New York di capitale economica d’America”. Ma anche se afferma che “si tratta di una questione seria, che merita una risposta seria”, si tratta in realtà di una preoccupazione limitata ai proprietari immobiliari di Manhattan, e all’amministrazione cittadina di New York. Il resto d’America non è interessato a sapere se la nostra capitale economica sia New York, Menlo Park, o qualche posto nel cyberspazio (che è probabilmente il luogo più sicuro).

Contrariamente a quelli che pensano al World Trade Center come simbolo della libera impresa, a dire il vero è stata la Port Authority di New York a costruirlo, per rendere più grandiosa la città e arginare la marea delle imprese che si disperdevano nel suburbio o verso altre localizzazioni. L’idea del centro fu originalmente promossa dal banchiere David Rockefeller e sostenuta da suo fratello, Nelson Rockefeller, quando era governatore dello stato di New York.

Le torri del Trade Center furono un fallimento finanziario per ilprimo decennio, e richiesero sussidi dagli utenti degli aeroporti, ponti e altre strutture della Port Authority. Durante il recente boom economico, la Port Authoriy riuscì a convincere un costruttore, Larry Silverstein, ad affittare il tutto per 99 anni.

Silverstein dice che vuole ricostruire il centro, ma in forma di edifici da 50-60 piani anziché due strutture da 110 piani.Costruzioni più basse sarebbero un bersaglio più difficile, ma potrebbero non scoraggiare le imprese dal migrare verso are a densità minore.

La vera ragione per cui il terrorismo è tanto difficile da combattere, è che i terroristi rifiutano assolutamente di ammucchiarsi. Per quanto gli americani possano voler sconfiggere i terroristi, l’idea che dovremmo tutti dare sussidi per sostenere la posizione di New York “capitale economica d’America”, di fatto ammucchiandoci, è assurda.

In modo simile, non ha senso ammucchiare gente sulle linee ferroviarie. Le reti ad alta velocità possono costare decine o centinaia di miliardi di dollari in costruzione e gestione, senza speranza di coprire i costi con le tariffe. Come dimostrato dal sabotaggio dell’Amtrak Sunset Limited nel 1995 e dalla Southern Pacific City di san Francisco nel 1939, sarebbe facile per i terroristi prendere una linea ferroviaria e uccidere moltissime persone.

Se i terroristi distruggono un’autostrada, possiamo deviare il traffico verso numerose direttrici parallele. Nella maggior parte dei casi, la distruzione di una linea ferroviaria lascia molte poche facili alternative oltre alle strade: la cui costruzione, per inciso, è quasi interamente coperta dalle tasse sui carburanti e altre tariffe d’uso. I treni sono romantici, ma porre l’enfasi sulla mobilità ferroviaria diminuisce, anziché accrescere, la sicurezza d’America.

Senza tentare di approfittare ulteriormente della situazione, è possibile prevedere alcune probabili tendenze. In primo luogo, imprese e individui aumenteranno leggermente il movimento verso aree a minore densità. Naturalmente la tendenza alla suburbanizzazione è vecchia più di un secolo. Nonostante un piccolo incremento negli anni Novanta, la popolazione di Manhattan è scesa di più di un terzo dal 1910.

La recente ordinanza del sindaco Giuliani che proibisce le auto con un solo occupante a Manhattan in certe ore non sarà d’aiuto, visto che nel lungo periodo quelli che vogliono guidare quei veicoli semplicemente andranno altrove. Se Giuliani volesse davvero aiutare Manhattan, incoraggerebbe i costruttori a includere enormi garages parcheggi negli edifici che sostituiranno quelli demoliti l’11 settembre.

Secondo, le persone potrebbero volare un po’ meno se migliori misure di sicurezza aumentassero il costo o, in particolare, il tempo necessario a volare. Ma questo non significa che prenderebbero di più il treno. Invece, la gente guiderà sempre di più fra una città e l’altra. Il servizio aereo perderà quote di mercato soprattutto verso l’auto, per viaggi fino a 400 chilometri. Per spostamenti più lunghi, anche i treni ad alta velocità non sono competitivi rispetto al servizio aereo.

Terzo, il terrore renderà più difficile per gli oppositori dello sprawl sostenere che la gente deve ammucchiarsi in città compatte. Se il provinciale New York Times ha dato grande spazio alle pretese del Natural Resouces Defense Council, l’editoriale di Ambrose sul Wall Street Journal avrà un maggiore impatto a lungo termine, perché Ambrose è uno scrittore conosciuto, non identificabile come pro o anti sprawl.

Quarto, la Amtrak probabilmente userà l’aumentata domanda per i propri servizi a convincere il Congresso a sostenerla ancora parecchi anni. Ma a meno che ci siano altri dirottamenti, la ferrovia non guadagnerà altre significative quote di mercato sull’aereo o sull’auto. La Amtrak trasporta ad ogni modo una percentuale insignificante di passeggeri intercity per unità di distanza: meno di un quarto per cento nel 1998. Anche in Europa, un secolo di enormi sussidi ai treni ed enormi disincentivi all’uso dell’auto non hanno evitato alle quote di mercato ferroviarie di cadere sotto il 15 per cento, e di essere ancora in declino. I treni passeggeri sono graziosi, ma al di fuori del Corridoio Nord-ovest non sono certo una soluzione per i guai del trasporto americano.

Quinto, l’orgoglio locale, il desiderio di mantenere la supremazia economica, e i miliardi di aiuti federali, porteranno New York a trascurare le questioni economiche e della sicurezza, e a costruire nuovi grattacieli per rimpiazzare il World Trade Center. Se saranno alti 110 piani è ancora una questione aperta, ma senza dubbio si staglieranno alti sullo skyline di Manhattan.

Infine, i sostenitori della smart growth continueranno a distorcere i fatti per far apparire ragionevoli le loro folli idee. Ma anche se New York City è sciocca a sufficienza per costruire un altro bersaglio simbolico per i terroristi, il resto della nazione non correrà a sostenere le cosiddette misure di crescita sostenibile, che sprecano i dollari dei contribuenti, riducono la vivibilità urbana, e espongono più persone al terrorismo.

Nota: al sito del Thoreau Instituteil testo originale, e altri articoli sullo stesso tono per chi ama il genere (fb)

Titolo originale, Ten Principles for Reinventing America’s Suburban Business Districts– Traduzione di Fabrizio Bottini (parte II)

6 – Cogliere l’opportunità degli usi misti

Le utilizzazioni miste creano massa critica e senso dello spazio, mettendo a disposizione della comunità una ampia gamma di beni, servizi, esperienze in un solo luogo, incrementando l’interconnessione e la possibilità di scelta e quindi riducendo la necessità di spostamenti. La diversificazione degli usi all’interno dello stesso progetto argina il flusso di uscita delle risorse dal quartiere, e consente una appropriata ed equilibrata gestione dei rischi di investimento.

Non sorprende, che dopo mezzo secolo di utilizzazioni segregate, i consumatori siano sempre più selettivi riguardo agli ambienti entro cui vogliono vivere. Offrendo una vasta gamma di scelta, le utilizzazioni miste possono giocare un ruolo critico nella trasformazione dei distretti terziari suburbani. La maggior parte di essi trarranno beneficio dall’aggiunta di abitazioni multifamiliari, maggiori densità edilizie a sostegno delle infrastrutture di trasporto, l’edificazione a usi misti dei vuoti e dei piazzali parcheggio esterni, per creare ambienti più orientati ai pedoni.

Costruire e rafforzare un senso comunitario in un distretto terziario suburbano, richiede una massa critica di usi misti: una regola empirica consiglia un minimo di 20.000 metri quadri di usi commerciali, e 2.000 alloggi entro un raggio di dieci minuti a piedi. Le utilizzazioni per uffici alimentano quelle commerciali fornendo clientela a negozi e ristoranti sia durante la giornata che nel dopo lavoro. Gli usi commerciali a distanza pedonale dai luoghi di lavoro o residenza – ristoranti, librerie, negozi di abbigliamento, articoli regalo, caffetterie – rafforzano la piacevolezza dell’ambiente, che invita lavoratori e residenti a uscire a pranzo o per commissioni senza usare l’auto. L’aggiunta di teatri, musei, gallerie d’arte, librerie, uffici postali e comunali, adeguatamente integrati entro un distretto suburbano, attira notevole traffico pedonale, che può sostenere un’ampia gamma di altri usi.

Cogliere l’opportunità di usi misti implica:

7 - Valorizzare la scala umana creando spazi pedestrian-friendly

Realizzare un ambiente di vita-lavoro-shopping dotato di senso spaziale, è un bisogno e un’aspirazione della città. La costruzione di luoghi è l’essenza dell’attività edilizia. Quando le persone scelgono un luogo rispetto ad un altro, quello prescelto assume un più elevato valore, e si offre con qualità aggiunte. Luoghi desiderabili attirano tutti i sensi: vista, udito, olfatto, gusto, tatto. Sono una miscela ricca di attività locali, progettazione estetica, qualità, e prezzo. Una costruzione spaziale di successo significa andare incontro alle domande della comunità locale. Non è un prodotto edilizio realizzato secondo una formula o l’ultimo capriccio della moda. Dunque, i costruttori sono motivati ad operare secondo un alto livello di concettualizzazione e di adeguamento ai mercati, nelle proprie attività di place-making.

Oltre a consentire alla gente di svolgere alcune attività essenziali, come il proprio lavoro o lo shopping, gli spazi devono essere piacevoli, divertenti, formativi. La chiave del successo nella costruzione di luoghi sta nel configurare spazi e strutture, e le connessioni tra e fra di essi, in modo da incoraggiare e facilitare le attività e l’interazione umana: un ambiente di cui la gente voglia far parte perché è stato progettato, costruito e gestito allo scopo di soddisfare l’intero spettro dei bisogni e aspirazioni umane, da quelle materiali a quelle spirituali. Uno spazio di successo richiama i sensi, attraendo sia gli abitanti che i visitatori in un viaggio alla scoperta di visuali, suoni e profumi affascinanti.

Valorizzare la scala umana creando spazi pedestrian-friendly implica una forte focalizzazione sul miglioramento degli ambiti di proprietà pubblica, e la progettazione di attività nelle strade e nei luoghi collettivi, specificamente connessi a:

8 - Ragionare sul traffico – Ragionare sulla densità

Con la crescente consapevolezza pubblica sui costi della congestione da traffico, i distretti terziari suburbani che offrono varie opzioni e opportunità di trasporto, e un ambito di attività che va oltre l’orario di lavoro 9.00-17.00 –promuovendo così spostamenti anche a ore diverse da quelle di punta – godono di un vantaggio competitivo. Le agenzie di leasing immobiliare di tutti gli Stati Uniti riportano che i propri clienti vedono l’accesso al trasporto collettivo e la ricchezza delle attività culturali come i due elementi caratterizzanti le proprietà urbane, che non si trovano nei territori esterni. Cultura e trasporti aggiungono valore perché attraggono una forza lavoro giovane, richiesta dalle imprese.

Ricerche indipendenti sull’andamento del mercato di uffici negli ultimi 15 anni, hanno rilevato che una percentuale significativa degli affittuari pagherebbe una quota accessoria per uffici connessi al trasporto pubblico: un elemento che diventerà sempre più importante quando i datori di lavoro saranno obbligati a competere per un’offerta ridotta, che richiede più opzioni di mobilità. Con una densità edilizia aumentata, in particolare attorno alle stazioni del trasporto pubblico, un distretto terziario suburbano può diventare più compatto; lo spazio fra gli edifici sarà ridotto, con una migliore integrazione e connessione pedonale.

L’incremento di densità sostiene i costi di realizzazione di un più ampio sistema di trasporti. Ad ogni modo, un impegno ad aumentare la densità edilizia porta con sé una responsabilità in termini di eccellenza qualitativa che va ben oltre l’architettura dei singoli edifici, e che deve contribuire ai tessuti, alla connettività e attrattività complessiva dei componenti lo spazio. Si deve prestare speciale attenzione al progetto, per eliminare alcuni “legami deboli”, che servono solo a indebolire l’accettazione comune di una più alta densità edilizia. È la massa critica delle attività, portato della maggiore densità edilizia, ad offrire ai residenti opportunità, minor congestione, sicurezza dei valori immobiliari, e costituisce una solida base fiscale.

Con la disponibilità di opzioni quali muoversi a piedi, in bicicletta, con l’uso del trasporto pubblico, si riducono gli spostamenti in auto, la necessità di parcheggi, e insieme i livelli di inquinamento e congestione da traffico. Le abitazioni multifamiliari integrate nel distretto terziario suburbano promuovono ulteriormente le opzioni di trasporto. Una più equilibrata spesa pubblica aumenterà l’accessibilità delle unità immobiliari pubbliche e private esistenti anziché, come avviene oggi, favorire l’abbandono delle località congestionate per prati più verdi nella cintura metropolitana e oltre. I distretti terziari suburbani che non controbilanciano l’accesso automobilistico con una migliore accessibilità pedonale e tramite mezzi pubblici mettono a repentaglio la futura frequentazione, attrattività, valore capitale.

Ragionare sul traffico e la densità implica:

9 – Creare collaborazioni publico/privato

Nella maggior parte dei casi, la trasformazione con successo di un distretto terziario suburbano dipende dalla capacità dei settori pubblico e privato di cooperare in un quadro di accordi strutturato, che attivi il sostegno comunitario, minimizzi i rischi del progetto, e distribuisca i dividendi della trasformazione spaziale tra tutti i soggetti. Il dividendo di trasformazione spaziale appartiene sia ai costruttori che alla comunità. Dunque, è semplicemente corretto che entrambi investano nella sua costruzione attraverso una partnership solleciti l’impegno di entrambi.

I Business Improvement Districts (BID) o le agenzie di ristrutturazione urbanistica possono costituire le entità di gestione dell’accordo pubblico/privato, in grado di utilizzare i finanziamenti da incremento fiscale ( tax increment financing, TIF, n.d.t.) o da speciali prelievi per finanziare il costo capitale o le spese periodiche della trasformazione catalizzata di un distretto terziario suburbano. Le agenzie governative possono localizzare nei distretti strutture scolastiche, ospedali, biblioteche, dipendenti pubblici, centri comunitari, garages parcheggi, per rinforzarne il potere attrattivo e il senso del luogo.

Un distretto di questo tipo può usare finanziamenti TIF per spezzare le unità di superblocco e fornire migliore interconnettività pedonale al suo interno. Questo può dimostrarsi un fulcro del processo di trasformazione, ed è improbabile che si verifichi senza una collaborazione pubblico/privato. La realizzazione del piano strategico non può appoggiarsi unicamente sulle risorse di un costruttore, o su un processo di azzonamento e autorizzazioni che spesso lavora contro i processi di trasformazione. Per essere più efficace, il piano strategico per re-inventare il distretto terziario suburbano deve diventare il veicolo per il coordinamento delle politiche, dei programmi e delle priorità fiscali di ciascun livello di governo, così da poterlo trasformare in spazio di vita-lavoro-shopping.

Creare una collaborazione pubblico/privato implica:

10 - Condivisione e gestione degli spazi a parcheggio

Ogni insediamento isolato deve provvedere al proprio parcheggio locale. Riservare larghe porzioni di un sito a piazzali parcheggio incoraggia i frequentatori a basarsi sull’automobile e, allo stesso tempo, impedisce uno sviluppo integrato favorendo una densità tanto bassa da escludere la realizzazione di trasporti pubblici a costo sostenibile. L’elemento trainante della forma e configurazione insediativa diventa il parcheggio. È quindi vitale, nella trasformazione dei distretti terziari suburbani, che siano i luoghi – non le strutture di parcheggio – a diventare le vere destinazioni.

In una città USA tipo, per ciascuna automobile ci sono di solito cinque spazi a parcheggio, il che significa che per sistemare un ipotetico incremento di popolazione di un milione nei prossimi vent’anni sarebbero necessari 685.000 spazi a parcheggio in più, vale a dire poco meno di 100 chilometri quadrati di superficie. In queste condizioni, diventa virtualmente impossibile andare da un edificio all’altro senza salire in macchina.

Una soluzione è quella di aumentare il numero delle strutture a parcheggio, e migliorare il progetto e la localizzazione, il che può ridurre l’area di suolo dedicata alla sosta e consentire agli edifici di stare più vicini e più integrati l’uno con l’altro. I servizi di parcheggio strutturati in genere diventano economicamente convenienti quando il prezzo del terreno per la costruzione raggiunge i 3 dollari per metro quadro; al di sotto di questo costo, il parcheggio di superficie è spesso più conveniente. Quindi, può essere necessario il coinvolgimento pubblico nella costruzione di garages, per raggiungere il dividendo ci costruzione spaziale.

La localizzazione strategica, il progetto, la programmazione delle strutture di parcheggio, possono anche contribuire a creare o migliorare attrattivi e comodi collegamenti pedonali, che riducono il bisogno di auto e conseguentemente di spazi a parcheggio. In più, l’uso del piano terreno delle strutture a parcheggio per attività di commercio o servizio può creare un migliore ambiente stradale e pedonale, incoraggiando ulteriormente gli spostamenti a piedi. I parcheggi a lato strada possono offrire sistemazioni attraenti e comode per le aree commerciali.

Un’altra soluzione è quella di consentire e pianificare un sistema a parcheggi condivisi all’interno delle zone a usi misti. Se gestito opportunamente, il parcheggio condiviso può ridurre il numero massimo di spazi a parcheggio richiesti, dato che diversi utenti possono parcheggiare nello stesso spazio in diversi momenti della giornata o della settimana, riducendo così gli effetti dei picchi di domanda degli spazi a un solo uso. Un ambiente a usi misti può anche far diminuire il bisogno di parcheggi aumentando gli spostamenti a piedi.

Per esempio, un ristorante/tavola calda a distanza pedonale dai luoghi di lavoro avrà bisogno di meno spazi a parcheggio di un ristorante che può essere raggiunto solo in macchina. Uffici localizzati ad una breve distanza pedonale da un albergo possono richiedere meno parcheggi per visitatori di altri uffici; gli ospiti per motivi d’affari dell’albergo potranno raggiungere gli uffici a piedi. Infine, la localizzazione strategica delle strutture di parcheggio condiviso può creare collegamenti pedonali molto frequentati, che possono essere fiancheggiati da negozi e attività civiche e culturali.

I parcheggi implicano un possibile costo, dato che occupano terreno potenzialmente edificabile. Anche così, il parcheggio libero o a basso prezzo probabilmente resterà una caratteristica dei distretti terziari suburbani. Per questa ragione, ci sarà spesso bisogno di finanziamenti o sottoscrizioni dell’amministrazione locale per coprire la differenza nei costi di realizzazione fra piazzali di superficie e garages parcheggio. A parte le tariffe nominali per aiutare a sostenere i costi, è anche possibile recuperare spese affittando il pianterreno dei garages a ristoranti e negozi. Le strutture commerciali allineate ai parcheggi creano un fronte strada di attività, come a Walnut Creek, California. Al Mizner Park di Boca Raton, Florida, la struttura di parcheggio è separata dalla strada da una striscia di case multifamiliari.

Una politica innovativa per i parcheggi, e una soluzione finanziaria, è quella delle città che hanno sviluppato strutture a parcheggio per la zona terziaria e poi, come parte del processo di autorizzazione, hanno richiesto a tutti i futuri costruttori di acquistare una quota di queste strutture, anziché offrire direttamente parcheggi di propria pertinenza. È essenziale non mettere a disposizione più parcheggi di quanto non sia necessario per la vitalità economica dell’insediamento, e chiedere l’inclusione dei provvedimenti di parcheggio condiviso all’interno del piano strategico, al posto delle previsioni di zoning e delle regole per la sosta. Dove possibile, gli affittuari dovrebbero farsi carico almeno di una quota nominale in modo che il parcheggio sia riconosciuto come un servizio, con relativo costo. La tariffa di affitto diventa la base per la gestione e valutazione delle strutture a parcheggio, come bene immobile potenzialmente tassabile.

Condividere e gestire gli spazi a parcheggio implica:

Carpe diem – Cogli l’attimo

Per realizzare il proprio potenziale, i distretti terziari suburbani devono essere re-inventati come luoghi più funzionali, più definiti, più interconnessi e pedestrian-friendly di quanto non siano oggi. Probabilmente saranno serviti da migliori strutture di trasporto pubblico, e si enfatizzerà un buon collegamento pedonale e alti standards di qualità dei luoghi, oltre l’ambito delle tradizionali regole di zoning. Probabilmente verranno coinvolte le agenzie pubbliche, per diventare a titolo pieno partners finanziari nella re-invenzione dei distretti terziari suburbani.

Allo stesso tempo, lungi dall’essere abbandonate come mezzo di trasporto, le automobili saranno considerate in una prospettiva corretta, per diventare una delle possibili scelte entro un’offerta equilibrata di opzioni di trasporto. La crescente opposizione alle spese pubbliche per l’espansione delle infrastrutture, e la proliferazione di programmi smart growth, ridimensioneranno decisamente l’abitudine di abbandonare aree urbanizzate per nuovi insediamenti su terreni inedificati nelle cinture esterne metropolitane. I datori di lavoro si troveranno di fronte ad un mercato ristretto, e dovranno competere per aggiudicarsi i migliori dipendenti offrendo una migliore qualità di vita a distinguere le zone attorno ai propri luoghi di lavoro.

La reinvenzione dei distretti terziari suburbani può avvenire efficacemente sono quando di sviluppa una forte collaborazione fra il settore pubblico e quello privato, focalizzata sulla messa in pratica di una nuova visione, per realizzare spazi significativi.

Andando incontro ai mutevoli bisogni ed aspirazioni degli Americani, il distretto terziari suburbano restituirà il frutto maturo di un dividendo di costruzione dello spazio: per la comunità (perché è uno spazio che la comunità possiede e ama), per le strutture di governo (come spazio che genera flussi fiscali), e per il settore privato (come spazio che attira visitatori, vendite, crescita delle quote di affitti, aumento di valori capitali). Il risultato sarà il meglio di quanto ha da offrire la smart growth. Si può ottenere attraverso una tempestiva, risoluta e intelligente applicazione dei dieci principi dello Urban Land Institute, per re-inventare i distretti terziari suburbani.

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Nota: fra i vari testi su argomenti correlati presenti su Eddyburg, il riferimento più diretto di questo principi credo sia a quelli sui Business Improvement Districts, di Lorlene Hoyt, e del Massachusetts Department of Housing (fb)

Dalle Stelle (e Strisce)...

Smart Growth. Per dirla col sito dell’American Planners Association: “un modo di dire che sta dappertutto, in bella vista, dentro a conferenze, colonne di giornali, libri, legislazioni statali, piani regolatori e ordinanze di zoning.

Evoca forti emozioni, pro e contro, e tutti sembrano avere l’esclusiva riguardo al suo significato, da dove viene, se ne abbiamo bisogno, come bisogna praticarla. Non c’è comunque dubbio che, comunque intesa, significa un cambio di rotta nel modo di pianificare”.

Prima di entrare in qualunque dettaglio, una precisazione: questo tipo di approccio alla crescita, che ereticamente tradurrei in italiano con fatti furbo (torneremo poi sulla questione) vuole essere l’antitesi della onnivora crescita suburbana a sprawl, che a sua volta un po’ meno ereticamente tradurrei con spaparanzamento metropolitano. Siamo quindi nel cuore dei temi cari a questa sezione Megalopoli di Eddyburg.

L’APA dice che la smart growth cambia il modo di pianificare. E non solo, verrebbe da aggiungere pensando a quanto limitativa sia questa traduzione italiana dello sterminato to plan. Ma andiamo avanti, che si fa tardi.

Riassumendo e banalizzando al massimo, i principi fondativi di questa accattivante moda/parola d’ordine sono un aumento delle opportunità insediative per i residenti, in modo strettamente connesso coi servizi, il commercio, la mobilità, e tutto quello che si trascinano appresso in termini di compatibilità e sostenibilità ambientale. Dato che in un approccio sistemico una ciliegia ne tira sempre molte altre (insieme, spesso e ahimè, a grosse angurie), questi principi fondativi elementari si articolano in parecchi altri. Si potrebbero citare la sostenibilità anche economica dell’insieme di scelte, o la progettazione “integrata” di insediamenti residenziali che valorizzino la mobilità e accessibilità pedonale, lo stop alla iper-specializzazione nell’uso dello spazio, e il corrispondente incentivo a miscelare funzioni e destinazioni, così come a “miscelare” i decisori, favorendo la maggior possibile (ed effettivamente praticabile) partecipazione di tutti gli interessati ai processi insediativi che li riguardano. Regole di buon senso della nonna, verrebbe da pensare, salvo osservare poi come basta guardarsi attorno per essere certi che ci sia stata di recente una strage di nonne, e relativi buoni consigli.

Un capitolo importante dell’approccio smart growth riguarda abbastanza ovviamente la tutela degli spazi aperti, a tutte le scale ma in particolare a quella metropolitana/regionale, dei grandi “corridoi” agricoli e naturali che la crescita (a modo suo, altrettanto smart, proprio nel senso di furbetta) delle grandi reti infrastrutturali e della città diffusa mette in pericolo. Spazio aperto è infatti un termine che si può declinare in molti modi, tutti però ambientalmente e spesso fisicamente interdipendenti: spazi naturali dentro e attorno gli insediamenti abitati, che offrono un servizio anche quotidiano ai residenti, un habitat per specie vegetali e animali, occasioni per il tempo libero, occasioni importanti di lavoro e sviluppo economico in agricoltura, luoghi di pregio paesistico e zone ad altissimo valore ambientale (come le zone umide). È del tutto evidente – sempre, ovvio, se si ha avuto una nonna di buon senso – come questo rinvii a questioni economico-ecologiche più ampie, ma non per questo astratte o astruse, visto che fanno vivere e respirare il pianeta, e tutti i metri cubi di “sviluppo” che ci stanno appoggiati sopra. Finché dura.

Come accennavo citando in apertura le opinioni dell’APA, nemmeno alla smart growth mancano, puntualmente, nemici e critici feroci. Ne è un esempio l’articolo del consulente esperto di trasporti Wendell Cox, che a partire dalla lettura (assai semplificata) di uno dei concetti base dello anti-sprawl-movement, ovvero l’aumento della densità locale per salvaguardare il territorio vasto, calcola impatti ambientali mediamente superiori a quelli possibili mantenendo l’attuale schema di crescita, e sostanzialmente ininfluenti visto che la soluzione alle questioni ambientali sarebbe soprattutto tecnologico-organizzativa, e non legata alle forme dell’insediamento. Vale però, forse, la pena di citare una delle frasi conclusive di questo articolo, per chiarirne meglio lo spirito: il movimento per la smart growth “non ha identificato nessun vero rischio a sostegno delle sue draconiane proposte. Per dirla con Lone Mountain Compact [un nome che è tutto un programma n.d.T.], bisognerebbe lasciare la gente libera di vivere e lavorare dove e come vuole, se non esiste una tangibile minaccia per altri”. Verrebbe da rispondere al signor Cox, che la minaccia viene indicata come piuttosto “tangibile” da milioni di studiosi, indipendentemente dai panorami di Lone Mountain. Ma questo ci porterebbe troppo lontano dal piccolo orticello padano-megalopolitano, a cui doverosamente torniamo subito e di colpo.

... alle Stalle (nel senso buono, anzi ottimo!)

Traducevo ereticamente in apertura la smart growth a stelle e strisce con un vagamente (ma non troppo) sgangherato italico fatti furbo! Questo per due motivi: farla breve, perché di filologia si può anche morire di fame; farla tutta, o meglio per tutti. L’ha già detto l’American Planners Association, che sul termine si può discutere a lungo, figuriamoci poi discutere sulla sua declinazione locale. Ecco: quel fatti furbo almeno dice qualcosa che salta subito all’occhio, o al naso, e si ricorda. Per la filologia, si può aggiungere che “crescere” in questo senso è soprattutto “farsi”, e che anche la traduzione di smart può essere, appunto “furbo”. Basta così, per i sofismi da oratorio di oggi: facciamoci furbi.

Furbi in senso buono, come per esempio Giorgio Bocca, che nel pezzo per il Venerdì di Repubblica che abbiamo riportato su Eddyburg/Megalopoli ci raccontava con finta ingenuità da nonnino disorientato una gita “fuori porta” in quella che vorrei iniziare a chiamare la Milandia Orientale, ma dove lui da turista per caso vedeva ancora Melzo, Gorgonzola, Truccazzano, ecc. Per poi raccontarci un mondo di piazzole di sosta, centri commerciali e abitanti globalizzati, spazio-tempo confusi, fino all’agognato ritorno alla vetero-città, davanti al vetero-schermo televisivo, mangiando una vetero-scatoletta. Se invece ci facciamo esplicitamente furbi, e chiamiamo la Milandia Orientale col suo nome, ci troveremo molto di tutto e molto di più.

A partire dal concetto di “fuori porta”, che Bocca segnava simbolicamente a partire dai sottopassi della cintura ferroviaria. Senza citare i riferimenti colti di Boccioni o Sironi, che già agli albori del secolo scorso spostavano le porte della città di qualche chilometro, nei varchi fra le ciminiere e i primi covoni all’orizzonte, basta ricordare lo Stradon per andare all’Idroscalo, dove il vagabondo di Jannacci trascina le sue Scarp del Tennis, per capire che la nostra Janua Megalopolitana dovremo cercarcela parecchio più in là.

Ben oltre la tangenziale, l’aeroporto e i limiti comunali, non c’è bisogno di documenti di pianificazione o tabulati statistici per “vederla”, la città, a partire dall’uso corrente degli spazi: aperti, di enclave più o meno elegante o formalizzata, improvvisati come le già citate piazzole ghiaiose da cantiere, sosta per telefonata, pipì improrogabile del pupo, chiosco di patate fritte abusivo e via dicendo. Del resto anche il Parco dell’Idroscalo, recentemente semi-privatizzato da un assessore provinciale piazzista televisivo, o la grande ruota panoramica del vecchio Luna Park lì di fronte, sono pienamente ed esplicitamente urbani, nemmeno troppo periferici. Per trovare qualcosa di simile ad una porta, bisogna provare magari con l’architettura di Niemeyer (pure a noi, ci tocca, ma qui non è del tutto male), o meglio ancora più avanti, con il cavalcavia chiuso a panino fra la neo-cittadella in stile berlusconiano (ma almeno questa non è sua) di San Felice, e il sironiano ponte a campate sullo scalo ferroviario Ortica. Qui, dopo l’incrocio a due livelli e lungo una muraglia di precompressi che segna il confine nord, si inizia a respirare qualche refolo di spazio aperto.

Niente a che vedere con la campagna vera e propria, beninteso: siamo solo sulla soglia, e tutto è poco più che simbolico.

Come le episodiche zaffate di letame che in qualche stagione dell’anno si mescolano agli scarichi del traffico e ai fumi industriali, o alle spettacolari prospettive di verde della tenuta di Trenzanesio, che la statale attraversa per un lungo tratto, e che è significativamente di proprietà della famiglia Invernizzi. I proventi della campagna investiti in città, e solo concentrato simbolico di pianure ricche di vacche, stalle, e relative creme e cremone. Simbolo e basta, perché superato questo tratto l’orizzonte continua a chiudersi a intermittenza, secondo le scelte comunali e locali in termini di sviluppo “a nastro”, ovvero con gli insediamenti produttivi e commerciali a vanificare tutti gli investimenti in strade (a spese del contribuente), per usarle come pista di accelerazione-decelerazione per i fatti propri. Come ben sanno pendolari e week-enders da spese del sabato pomeriggio.

Bisogna superare la linea teorica, per ora, della nuova tangenziale esterna, per iniziare davvero a respirare un po’, a vedere i corsi d’acqua che tagliano perpendicolarmente la statale, fino a una cascina abbastanza verosimile, ma che per il viandante motorizzato si esibisce in un cubitale CASCINA ROSINA FORMAGGI, partecipando a suo modo al ribbon development. Poi, mentre il solito viandante si sta chiedendo se davvero siamo finalmente arrivati “fuori porta”, appaiono di colpo l’Adda, che qui segna il confine fra le province di Milano e Cremona, e un cartello che indica la nostra prima tappa volante: il Parco della Preistoria.

Variazioni: uno

Perché, vista l’impossibilità (e direi forse incapacità) di declinare davvero anche solo uno dei temi possibili declinati dalla smart growth, voglio limitarmi qui ad osservare in modo ribaltato un simbolo della città diffusa: il parco tematico. Ne abbiamo già parlato nella versione più nota, di grande astronave eterodiretta, che atterra schiacciando qualunque cosa sotto pupazzoni giganteschi, o soffocandola nelle sue spire di zucchero filato. Ora, appena fuori porta e dove dovrebbe iniziare la campagna (?), questo parco a tema rappresenta un contraltare in qualche modo positivo a tutto quanto della città diffusa visto sinora, cascine rosine incluse.

Si può tranquillamente citare, dal sito web: “Il Parco della Preistoria è un'area naturale costituita da un bosco secolare, resto dell'antica foresta planiziale padana, di oltre cento ettari sulla sponda sinistra del fiume Adda, a soli 25 chilometri da Milano”. Li abbiamo appena attraversati, quei soli venticinque chilometri, ma questo posto sembra un po’ meglio. Innanzitutto quello stare nel “resto dell’antica foresta planiziale”, e non sopra il resto di foresta, o invece del resto di foresta, è vero. Niente baracconi multipiano che sporgono da pochi ciuffi di alberi, ma una striscia di verde lungo il corso del fiume, che a modo suo (impermeabilizzazione parziale dell’accesso al fiume a parte) aiuta a conservare questo inizio del tratto pianeggiante dell’Adda, e prima parte del settore meridionale del parco fluviale. Non ci interessa tanto, qui, discutere sul senso profondo di collocare dinosauri di plastica a grandezza naturale sulle rive dell’Adda, ma verificare se e quanto l’insieme fa a pugni col sito e il resto dell’insediamento.

Non pare un disastro, se si esclude in parte la scelta dell’amministrazione comunale (forse obbligata) di collocare immediatamente a valle la nuova zona industriale: si salva così forse l’integrità del bel centro storico, un po’ discosto dal fiume, ma si isola eccessivamente il corso d’acqua per un lunghissimo tratto. Per il resto, siamo a mille miglia dalla solita logica dello scatolone postmoderno sul ciglio della statale, anzi il percorso d’accesso mima forse involontariamente certi santuari della pianura, col viale dei tigli fotocopia di quello del cimitero, che la domenica si intasa di auto, moto, biciclette e bambini a caccia di dinosauri di plastica. Unico vero neo, che accomuna il Parco della Preistoria alla logica antidiluviana dello sviluppo “a nastro” (anche se è piuttosto distante dalla statale), l’accesso totalmente deregolato, tramite una stradina che sembra un ingresso poderale o poco più, immediatamente dopo il ponte sul fiume.

Per il resto, sembra non ci sia niente che una buona riprogettazione leggera non possa correggere: ci sono rapporti col fiume, il centro storico, il sito in genere e l’ambiente circostante. E non c’è bisogno di un ciclo di convegni internazionali per spiegarlo al popolo. Quello che poi il popolo va a fare lì dentro, sia orda di bambini o pullmanata di curiosi in gita fuoriporta per i 100 ettari di bosco e mostri di plastica, sono fatti suoi. O no?

I fatti nostri invece si inoltrano più profondi nella Milandia Orientale, che qui a Rivolta d’Adda, forse per via del cambio di provincia sembra aver superato una seconda “soglia”, dall’anticamera della campagna alla campagna vera, per quanto di campagna megalopolitana si tratti. Le cascine sembrano un po’ meno rosine, e i cartelli che indicano i vari tagli nella linea continua del prato sul ciglio non sono più una caricatura delle insegne di supermercato, ma veri cartelli di quelli che piacerebbero all’Aldo Busi ex rappresentante di commercio, tipo vendita galline chilometri cinque. Per proseguire verso oriente e il punto più rarefatto tra le due aree metropolitane, milanese e bresciana, da Rivolta si possono scegliere due alternative di massima: quella ovvia e facile, o quella un po’ meno ovvia e facile.

Variazioni: due

Visto che non stiamo percorrendo la tundra, ma una pianura irrigua, asfaltata e illuminata bene, le alternative si possono percorrere tutte e due. Una per volta, naturalmente. La prima più facile è quella che prosegue sulla stessa statale, oltre la rotatoria di ingresso al centro storico di Rivolta, dritta come una freccia su un percorso circa parallelo alla linea delle Prealpi, ora ben visibili verso nord. Se qualcuno aveva pensato che la “soglia” oltre il ponte dell’Adda fosse qualcosa di serio, ora dovrebbe rapidamente cambiare idea: si replica quanto già visto, più o meno, nei “soli 25 chilometri da Milano” della pubblicità del Parco. Ovvero precompressi multicolori, multidestinazione, multiparassiti dell’asta stradale a spese del contribuente, e nei varchi prospettive aperte di campagna vera, soprattutto verso sud e la provincia di Cremona (qui stiamo invece viaggiando ai limiti meridionali di quella di Bergamo). Qualche chilometro più in là, il grande santuario di Caravaggio sembra sorgere solitario e maestoso dalla pianura, ma avvicinandosi si nota che l’effetto baraccone ha colpito anche qui, in questa sorta di parco a tema ante litteram, dove l’attrazione principale è la santificazione della geografia: il confine fra alta pianura asciutta e piana irrigua, segnato dalla sorgente sacra. Il resto, mi consentano credenti e storici dell’arte, non si discosta molto, a ben vedere, dalla passeggiata nel giurassico plastificato che ci siamo lasciati alle spalle.

Ma la religione, si sa, è luogo privilegiato del miracoloso, e qui nonostante i secoli di utenza affezionata (o forse grazie ai secoli eccetera) il parco a tema ha un buon rapporto col sito, o meglio costituisce un sito da solo, che si può ammirare soprattutto da qui, ovvero dal retro, anziché arrivarci dal viale prospettico alberato che scende dalla Padana Superiore.

Già, Padana Superiore, qui più o meno al chilometro 170 qualcosa, dalle scaturigini in Borgo Dora, a Torino. Il fatto è che la ex statale Rivoltana, uscita da Milano tre caselli di tangenziale più a sud della Padana (da Gobba-Palmanova a Forlanini), risale poi impercettibilmente, fino ad incrociarla di nuovo subito a est di Caravaggio: ed è un’altro, ennesimo “fuori porta”.

Una porta che ci conferma, se non l’avevamo ancora capito, di stare immersi fino al collo nella città diffusa, o dispersa che dir si voglia, con la finta campagna che inizia e poi finisce, tale e quale a un parco urbano, e i capannoni e le rotatorie, e magari la bellissima architettura di un antico casale o una cappella da ciglio strada a dare l’impressione di un ingresso in qualcosa di nuovo ... macché, ricomincia tutto daccapo. Un tutto che prosegue fino all’incrocio fra la Padana e la Soncinese, che sale dalle pianure cremonesi attraverso la piana asciutta di Romano, al pedemonte bergamasco.

Ovvero sbuca dal “percorso alternativo meno facile” che avevamo lasciato in sospeso.

Se invece di proseguire da Rivolta verso est, si circumnaviga il perimetro esterno del Parco della Preistoria e della contigua zona industriale, si sbuca a sud del centro storico, sull’ennesimo viale di tigli che dopo un po’ si trasforma in una strada di campagna intercomunale, dal percorso più o meno parallelo all’Adda. Questa strada finisce nel centro storico di Spino, dove si incrocia la nostra “alternativa”, ovvero la direttrice Pandino-Soncino, a mezza strada fra il percorso di alta pianura della Padana e quello medio della 235 Orzinuovi-Pavia. È qui, nella piana del Serio e degli altri infiniti corsi d’acqua piccoli e medi, che si nota di più la trasformazione strisciante nell’uso dello spazio ex rurale: lo spaparanzamento territoriale, perché sprawl a noi italici evoca altre cose, che si vedono soprattutto lungo la Padana, mica qui. Almeno non ancora, ma le tracce mi pare proprio di vederle già.

Qualche capannone, qualche fila di case, qualche lavoro in corso, insomma niente di vistoso, ma il ricordo di altri “crescendo” simili me lo fa già balenare davanti, l’effetto un po’ claustrofobico rue corridor, magari con i già visti e fuorvianti squarci di campagna, ventate di concime naturale, cartelli al neon di agriturismo vagamente country-western.

Raggiunta tra alti e bassi panoramici (qualitativi: l’orografia è come l’encefalogramma di una zucca) Soncino, si imbocca verso nord la 498 Soncinese, appunto, sulle orme dei pullmann che ogni estate portano i giovani cattolici delle campagne cremonesi agli spazi di preghiera e meditazione denominati ... Center Park Antegnate. Ovvero, trecento metri a sud dell’incrocio con la Padana Superiore dove avevamo virtualmente interrotto la traiettoria (A). I pellegrinaggi degli oratori cremonesi sono quelli, tradizionali d’estate, denominati “GrEst” (gruppo estivo), e si riassumono con pochissima preghiera, e un sacco di giochi, con o senza vincitori e premi. E il Center Park di Antegnate, a mezza strada fra l’abitato (a nord della Padana) e il comune di Fontanella, è decisamente il posto ideale per questo tipo di cose, e insieme per ogni genere di scampagnata di piccolo cabotaggio, basso impatto, pretesa nazionalpopolare, alto valore civico: una meraviglia, a modo suo.

Una decina di ettari, forse meno, di spazi alberati sul ciglio della statale (ma con i primi edifici bassi e molto arretrati), praticamente invisibile se non si guardano i cartelloni pubblicitari. Cito dalle pagine web: “Center Park offre diverse opportunità di divertimento e relax, con piscine, scivoli, giochi d’acqua, ma propone anche interessanti attrazioni, dalle più classiche come il minigolf, i video games, il parco giochi bambini, alle più emozionanti con la pista delle minimoto in un vero e proprio circuito omologato per gara. I servizi all’interno del parco sono garantiti da bar, paninoteche ed un grandissimo ristorante. Sdraio, ombrelloni e parcheggio sono gratuiti fino ad esaurimento. Il ristorante del parco, è particolarmente adatto per accogliere tutto l’anno, (su prenotazione), feste e banchetti, (fino a 500 coperti)”. Non è chiaro cosa significhi essere “particolarmente adatto per accogliere tutto l’anno”, ma il resto rassicura e conforta: un vero e proprio servizio territoriale, da rendere obbligatorio per tutti i comuni con popolazione superiore a due abitanti.

E anche qui, basta guardarsi attorno, senza bisogno di chiamare esperti, salvo per esempio quando i “video games” lasceranno il posto a diavolerie virtuali sofisticatissime. Che però in quanto virtuali non hanno bisogno di scatoloni aggettanti, e vertiginose curtain walls a specchio, a luccicare di metri cubi sulla padania. Certo, come tra i dinosauri dell’Adda si può far di meglio, ma per adesso teniamocelo stretto, il parco a tema acquatico di questo crocicchio della Milandia Orientale!

Tornando a casa

Dato che la gita fuori porta sembra essere andata meglio, sinora, di quella del finto nonnino Giorgio Bocca, è anche possibile sulla via del ritorno verificare se le impressioni dell’andata sono poi così generalizzabili, e la risposta è sì, senz’altro. Se si risale la Soncinese in direzione dell’aeroporto di Bergamo, il percorso con le ovvie varianti storico-geografiche replica le medesime immagini di nastri insediativi precompresso-illuminati (si fa sera), sempre più fitti man mano ci si avvicina al pedemonte e all’anello delle tangenziali orobiche. Anche l’asse della statale “Francesca”, che dal ponte sull’Oglio di Palazzolo scorre verso ovest fino a quello di Canonica-Vaprio sull’Adda, ripete nel paesaggio dell’alta pianura la stessa infilata di vivaisti, mobilieri e ammennicoli vari, che dai centri storici discosti dal tracciato si avvicina sempre più decisa e ingombrante, spesso a nascondere la vicinissima linea delle montagne.

E dopo l’area industriale Zingonia-Dalmine, siamo di nuovo nell’ intra moenia metropolitano, senza dubbio e senza fallo. Poco più a nord, il parco tematico Minitalia di Capriate non fa danni a nessuno, salvo stare fra il turista medio e il villaggio operaio ottocentesco Crespi d’Adda, che gli sta proprio dietro e che come si dice “il mondo ci invidia”. Chissà che un giorno o l’altro, ne facciano un parco a tema, dove i bambini possano sperimentare per finta il brivido del lavoro minorile sottopagato. Sperando naturalmente che i loro coetanei pachistani o mongoli possano venire a giocare con loro.

Ma questa è un’altra storia.

Qualche link:

Un sito della Smart Growth

L'articolo del feroce critico della smart growth

Il sito del Parco della Preistoria

E quello dell'acquatico Center Park di Antegnate

Senza dimenticare ovviamente gli altri testi sul tema in Eddyburg

Titolo originale The Traditional Neighborhood & Suburban Sprawl, traduzione di Fabrizio Bottini.

Nota: ho tradotto per tutto l’articolo il termine neighborhood con “quartiere”, dato che il più letterale “vicinato” mi sembrava improprio. In alcuni casi (come quando si dice che il quartiere dal solo in mezzo all’ambiente diventa villaggio) la cosa può sembrare vagamente fuorviante. Lo stesso, anche se in misura minore, vale per suburban sprawl , che è stato lasciato più o meno così, a significare (come credo volessero gli autori) un continuum senza fine piuttosto inquietante, ben diverso da qualunque idilliaca, per quanto imperfetta, ipotesi di decentramento. (fb)

Lo sviluppo suburbano frammentato, congestionato, insoddisfacente, e i centri urbani in disfacimento di oggi, non sono semplicemente prodotti del laissez-faire, né l’inevitabile risultato di una cieca avidità. Sono invece pianificati per essere quello che sono: diretto risultato dello zoning e delle ordinanze di lottizzazione zelantemente gestite dagli uffici urbanistici.

Se i risultati sono scoraggianti, è perché il modello di città riprodotto, è triste. Queste ordinanze dettano tre criteri per l’urbanizzazione: libero e rapido flusso di traffico, parcheggi in abbondanza, e rigorosa separazione degli usi edilizi. Il risultato di questi criteri, è che il traffico automobilistico e il suo paesaggio sono diventati l’esperienza centrale e inevitabile dello spazio collettivo.

Lo schema tradizionale del quartiere percorribile a piedi, a usi misti, è stato inconsapevolmente proibito dalle attuali ordinanze. Così, i progettisti si trovano nell’ironica situazione di vedersi impedire un’edificazione secondo le modalità dei nostri pur ammirati luoghi storici. Non si può proporre una nuova Annapolis, o Marble Head, o Key West, senza cercare variazioni alle norme vigenti.

Dunque ci sono due tipi di urbanizzazione disponibili. Il quartiere, che è stato il modello per il Nord America dalla prima colonizzazione alla Seconda Guerra Mondiale, e lo Sprawl Suburbano, che è stato il modello da quel momento in poi. Essi sono simili nella capacità iniziale di contenere le persone e le loro attività; la principale differenza è che lo sprawl suburbano contiene difetti ambientali, sociali ed economici tali da soffocare inevitabilmente una crescita continua.

Il quartiere ha le caratteristiche fisiche seguenti:

Lo sprawl suburbano ha caratteristiche fisiche piuttosto diverse:

Il quartiere ha molte conseguenze positive:

Lo sprawl suburbano ha parecchie conseguenze negative:

Le categorie di cittadini che soffrono particolarmente delle modalità dello sprawl suburbano, comprendono:

Lo sprawl suburbano di solito ospita un certo equilibrio di posti di lavoro, luoghi di vita, scuole, spazi aperti, in quella che sembra essere prossimità. Comunque prossimità non è abbastanza; è anche necessario un certo dettaglio negli spazi pubblici dedicato ai pedoni:

In un quartiere, le case popolari si inseriscono naturalmente e in modo altamente integrato. Ciò si realizza così:

Le normative correnti, vedono solo flussi di traffico, conto dei parcheggi, segregazione degli usi edilizi, e la tutela delle zone umide. Si dovrebbero scrivere nuove norme, che comprendano provvedimenti efficaci per il quartiere, che rappresenta un habitat umano in tutta la sua complessità.

Nota: come spesso accade, forse inconsapevolmente tutti gli scritti anti-suburbio riprendono i temi originari della neighborhood unit teorizzata proprio negli Stati Uniti negli anni Venti, e poi diluita in varie esperienze in tutto il mondo. Per un confronto, è disponibile online una mia traduzione italiana di ampi estratti dagli scritti fondativi di Clarence Perry sul tema, elaborati nell’ambito del Regional Plan of New York. (fb)

Questo nostro racconto megalopolitano, inizia sul tratto più occidentale della Padana Superiore. Per intenderci meglio, siamo verso il chilometro 50, sui 430 totali circa del percorso da Borgo Dora, Torino, a Piazzale Roma, Venezia. Insomma siamo sui margini orientali della conurbazione torinese, più o meno tra Chivasso e Santhià, dove la Padana per chi viene da oriente è appena sbucata dalle infinite piane a risaie del vercellese, che arrivano giù fino alla linea bluastra dei colli del Monferrato, e qui corre ai piedi delle prime alture che fanno da premessa alle Alpi. Si può scegliere fra due strade provinciali: la prima parte dalla periferia di Cigliano e sale regolarmente verso Ivrea, la seconda è più stretta e tortuosa, e inizia al crocicchio chiesa-bar sport di Borgo d’Ale, per caracollare su e giù, più o meno parallela all’altra, fino alle strettoie dell’abitato di Caravino, e poi finalmente scendere verso Albiano, alle porte di Ivrea.

Siamo di fronte a uno degli scenari che fanno capire a chiunque, compreso il sottoscritto, perché mai la regione si chiama Piemonte, ovvero al centro dall’Anfiteatro Morenico del Canavese, con il tipico e netto taglio della Serra, che secondo una linea quasi geometricamente regolare separa le valli di Ivrea e dell’Elvo verso il biellese.

I due percorsi delle strade provinciali entrano paralleli nella piana di Albiano, scavalcando il tracciato dell’autostrada su due ponti, distanti circa un chilometro l’uno dall’altro. Sotto i ponti, su un lato pioppeti, sull’altro un grande prato, che sale lievemente di livello verso nord, fino ad alcune cascine e al tracciato dell’ottocentesco Canale Cavour. In mezzo al prato, un vistoso cartellone colorato recita cubitale, rivolto verso l’Autostrada: MEDIAPOLIS. Nient’altro, per ora.

La Relazione al Piano Territoriale provinciale ci racconta tra l’altro che questo prato, come buona parte delle piane intermoreniche nelle adiacenze di Ivrea, formate dalle alluvioni della Dora Baltea, è un’ottima area agricola grazie alla “risalita capillare di una falda freatica molto prossima al piano campagna”. Sempre dal Piano Provinciale, scopriamo che Albiano d’Ivrea, il cui abitato inizia subito dopo il ponte sul canale e si arrampica in parte sulla collina, occupa una superficie di 1162 ettari, di terreno ottimo per la vite, ci stanno 1696 abitanti al censimento del 2001, suddivisi fra 849 famiglie, e 718 abitazioni occupate (le rimanenti 25 non sono occupate). Questi quasi 1700 abitanti sono serviti da 23 negozi al dettaglio, una scuola materna, una scuola elementare, un ambulatorio. Il territorio di Albiano, il cui centro sta a circa sette chilometri da Ivrea, è tagliato da 7 km di autostrada (la “bretella” A4-A5 che connette la Milano-Torino a quella verso la Francia), da 12 km di strade provinciali, e da 31 km di altre strade varie. Non ci sono ferrovie, o nessun altro tipo di binari. Il casello e relativo svincolo di Albiano della A4-5, stanno in un angolo del nostro prato con cartellone, e sbucano sulla strada per Borgo d’Ale, di fianco a un distributore di benzina dotato di servizio bar, su cui campeggia l’insegna “Freeway”.

Già: Freeway. Un nome abbastanza incongruo su una stradina che inizia a un crocicchio con semaforo, fiancheggiata da case vecchiotte piene di scritte (d’epoca) fasciste, e che dopo il ponte sull’autostrada si infila stretta su per le colline nel centro storico di Caravino. Ma siamo in epoca di realtà virtuali, e anche di quelle bisogna tener conto. E infatti, tornando al cartellone che campeggia in mezzo al prato, basta digitare quella parola su internet per trovare il sito http://www.grupppomediapolis.com, e scoprire che questi posti possono corrispondere anche a descrizioni abbastanza diverse. A partire proprio dal prato, che è quasi esattamente rettangolare: un chilometro lungo l’autostrada, e mezzo in profondità verso nord, ovvero una superficie di 500.000 metri quadri ad “alta visibilità sull’asse autostradale della A4-A5, in posizione baricentrica tra Torino e Milano sulle grandi arterie di comunicazione del Nord-Ovest d’Italia”. Abbiamo così fatto un bel salto concettuale: non siamo più un quarto d’ora di macchina a nord del crocicchio chiesa-bar sport di Borgo d’Ale, ma in un punto strategico della megalopoli padana, e anche in un angolo dove “non sono presenti competitor con le caratteristiche di Mixed-Use development”. Un angolo al centro di un “vasto bacino d’utenza – 4 milioni di persone nell’ora di percorrenza, 12 milioni nelle 2 ore e 20 milioni nelle 3 ore, con una previsione di circa 12 milioni di visitatori/anno”. Ed ecco riassunta un’idea di territorio buona come un’altra. Perché come sappiamo o possiamo immaginare esistono il territorio del pianificatore, quello dell’amministratore, quello dello studioso, e infine quello del mercato: un territorio/contenitore di gonzi da spennare, ordinatamente schierati per reddito, capacità e orientamenti di spesa, linee di isocrona da cui spiccare il volo verso il luogo prescelto di spiumatura. Nel nostro caso, il prato affacciato per un chilometro sulla A4-5. A cui per il momento mancano però le attrezzature adatte alla bisogna. Bisogna provvedere, e occorre farlo al più presto, nell’interesse (e ti pareva) del “territorio”.

Il portatore di questo legittimo punto di vista è, appunto, la spettabile ditta Mediapolis, di cui al già citato cartellone. Sul ricchissimo sito, e come confermato dalla stampa, scopriamo che Mediapolis è un gruppo con sede a Ivrea, posseduto a maggioranza (81%) da una finanziaria lussemburghese, per una quota del 9% dalla holding olandese Breakline, e per il 10% da una vecchissima conoscenza dello sviluppo territoriale locale, la Olivetti, che in questo caso fa di secondo nome “Multiservices S.p.a.”. Il gruppo si costituisce nel 1998 (proprio l’anno successivo a quello della grande crisi di Olivetti e conseguentemente del territorio canavesano), le sue attività “si concentrano sulla promozione e lo sviluppo di iniziative immobiliari che, per il loro contenuto innovativo e per la loro dimensione, richiedano capacità di organizzazione e gestione di competenze multidisciplinari”. Al momento tutte le poderose capacità di organizzazione e gestione “sono essenzialmente focalizzate su un unico progetto (MEDIAPOLIS)”. Ed ecco infine spiegato almeno il cartellone, con tanto di block capitals.

Ma il prato attorno al cartellone, e il paese, e i paesi intorno, e Ivrea ... ? Non a caso si citava Olivetti, e la storia del ruolo dell’impresa per tutto il corso del Novecento, nel determinare (si dice, da parte di quasi tutti, nel bene) la crescita del comprensorio e il suo ruolo di punta in Italia e oltre: industriale, culturale, sociale e politico. Apparentemente, qui Olivetti entra solo come ex proprietaria della striscia di terreno di fianco all’autostrada, ma si sa che la storia non può essere messa da parte troppo facilmente. Così l’antico cenacolo intellettuale interdisciplinare olivettiano degli anni Trenta-Cinquanta, sembra transustanziarsi nella sua versione postmoderna di “Patto territoriale” per lo sviluppo locale, entro cui dovrebbero ricomporsi in un quadro di sussidiarietà gli interessi del grande, del piccolo, dell’impresa, dell’ambiente, del cittadino, del locale, del globale. Almeno, questo è l’auspicio, e a quanto pare anche una necessità, vista la crisi che insieme all’Olivetti sembra far traballare gran parte delle consolidate aspettative di crescita dell’area. Scopo centrale di un patto territoriale, sembra di capire per esempio da un intervento del presidente degli industriali canavesani a questo proposito, è la crescita comprensoriale a partire da quella dei posti di lavoro, e anche un parco giochi come Mediapolis si può inserire in questa logica. Perché di parco divertimenti si tratta, e attorno al suo cuore di giostra postmoderna ruotano le “multidisciplinarità” del commercio, dello sport, del collegamento più o meno virtuoso con altre attività dell’area, di tipo turistico, produttivo, terziario. Ma, per usare le parole del presidente degli industriali, parlare genericamente di sinergie territoriali forse non è sufficiente: Mediapolis è un’idea innovativa, ma è solo una parte di un tutto, “l’iniziativa fa’ emergere una ulteriore possibilità di diversificazione delle nostre attività economiche attuali. Ma tutto il comparto del tempo libero, della cultura e dei servizi proprio perché è sostanzialmente nuovo deve essere seguito con attenzione. Occorre sviluppare in Canavese una più elevata cultura dell’accoglienza, far crescere le competenze linguistiche e quelle tecniche”. Insomma, non basta riempire cinquecentomila metri quadrati di prato con attrazioni turistico-commerciali, per quanto innovative e diversificate, per parlare di sviluppo integrato. E pure, nel quadro del Patto Territoriale del Canavese, Mediapolis è il principale investitore privato, col valore aggiunto del ruolo di “vetrina dell’innovazione” che dichiara di voler svolgere rispetto alle imprese locali, e coi non trascurabili mille posti di lavoro offerti (sulla carta e nei convegni). I due terzi di tutta la popolazione di Albiano.

Mediapolis, discussioni sullo sviluppo “integrato” a parte, è un parco a tema. Proprio tipo Disney, anche se ovviamente declinato a suo modo. In quel mezzo milione di metri quadri del rettangolo lungo l’autostrada dovrebbero entrare attrazioni tematiche di tipo tecnologico e legate al mondo della comunicazione (da cui il nome), attrazioni per il tempo libero anche all’aperto di tipo vario e diversificato, servizi di tipo alberghiero e congressuale, strutture commerciali. Anche se cifre e quantità cambiano nel corso del tempo e nelle correzioni determinate da vari fattori, si può citare dal comunicato dell’ANSA sulla presentazione dell’iniziativa: “L’offerta per il tempo libero sarà molto ampia, con un edificio coperto di 15.000 mq, aperto tutto l’anno, destinato a ospitare eventi e attrazioni basate sulle più moderne tecnologie audiovisive, e un’area esterna stagionale (160.000 mq) con attrazioni più tradizionali, un centro commerciale di 36.000 mq e un albergo di 200 stanze”. Continuando a citare, ma stavolta dai comunicati dell’impresa “l’insieme degli elementi che compongono il progetto, il loro dimensionamento e la logica del loro inserimento in un unico complesso urbanistico fortemente integrato, sono il risultato di due anni di investimenti in ricerca e sviluppo di prodotto”.

“Prodotto”: non lo diciamo noi, ma il sito di Mediapolis. Un prodotto non è un processo, e non è detto che questo prodotto ne inneschi uno, di processo. Eppure, è proprio in termini di processo che si sviluppa tutta la discussione sul Patto Territoriale e relativo Progetto Integrato, che come abbiamo detto vede al centro, come principale investitore privato (oltre che come fatto simbolico e di immagine) proprio il parco a tema. È la crisi industriale e occupazionale della Olivetti a spingere, alla fine degli anni Novanta, l’amministrazione comunale di Ivrea a promuovere il Patto. L’idea è quella di coinvolgere il maggior numero possibile di soggetti in un’azione concertata finalizzata allo sviluppo locale, secondo un’idea che, come leggiamo dalla relazione, ricorda da vicino i programmi complessi di tipo urbanistico: “promuovere la definizione di una “Società di Trasformazioni Territoriale” (parafrasando la “Società di Trasformazioni Urbana” come riferimento procedurale), rendendo il Piano Integrato di Area un “processo di azione integrata” initinere piuttosto che considerarlo un “piano di azione integrata”. Ora forse è più chiaro, il perché della contrapposizione iniziale fra l’idea di processo e quella di prodotto, dopo aver sottolineato che il Parco a Tema è un prodotto, che vende se stesso e solo in seconda o terza battuta “vende”, o “valorizza”, il territorio nel suo insieme. Un prodotto con 170 milioni di Euro investiti, che intende attirare milioni di visitatori l’anno, che si presenta come vetrina dell’innovazione nei campi tecnologicamente più avanzati, che promette di creare direttamente mille posti di lavoro. Ma pur sempre un prodotto “calato” bell’e pronto dal team multidisciplinare, coi disegni irresistibili dello studio di architettura internazionale incaricato, con l’idea di consumo globalizzato che si porta appresso. Leggiamo anche, che “la Regione si impegna nei confronti degli enti locali e di tutti gli altri soggetti coinvolti a promuovere la concertazione necessaria per garantire che la realizzazione del progetto avvenga in maniera del tutto compatibile con il contesto locale, sia per quanto riguarda le necessità di tipo infrastrutturale che le problematiche legate al corretto inserimento ambientale”. Ma basterà, questo, a garantire una replica postmoderna (così si accenna anche esplicitamente nei documenti ufficiali) del modello di intervento che ha reso famoso Adriano Olivetti, con le sue idee di Comunità, le sue citazioni dall’Appalachian Trail di Mackaye, o dalla Tennessee Valley Authority? E poi, Olivetti operava da una posizione di forza, almeno relativa, sul mercato nazionale ed oltre così come sul territorio locale. Si può dire lo stesso, anche solo in potenza, di questa futuribile “Società di Trasformazioni Territoriale”?

Ne sembrano decisamente convinti i Sindaci di un gruppo di comuni, che in un appello ai presidenti di Regione e Province interessate (Torino e Biella) sottoscritto il 21 luglio 2001, e pubblicato sul sito dell’amministrazione di Ivrea, si dicono preoccupati soprattutto – e significativamente, aggiungerei – del rischio che il progetto Mediapolis possa rivelarsi effimero: non per la debolezza della proposta, si badi bene, ma per le possibili carenze o lentezze dell’intervento istituzionale nella predisposizione delle infrastrutture necessarie, e nel coordinamento d’area vasta indispensabile.

“Il Risveglio Popolare”, settimanale canavesano, riferisce di una posizione sostanzialmente favorevole dei Democratici di Sinistra, che vedono positivamente la possibilità di uno sviluppo che ruoti attorno al turismo anziché all’industria, purché nel quadro di un sistema economico locale “integrato”, e di una risposta organizzativa al dilemma: “turismo di qualità o turismo di massa?”. Il riferimento al progetto Mediapolis è chiaro. Un po’ meno, la risposta, che nel documento conclusivo del partito sulla questione, votato a stragrande maggioranza nel dicembre 2002, chiede che “il progetto Mediapolis non solo si inserisca organicamente in un più ampio processo di consolidamento di un nuovo tessuto economico canavesano, ma ne possa rappresentare la vetrina e uno dei più robusti catalizzatori”.

Ma c’è anche chi, in un modo o nell’altro, sembra meno incline a vedere solo la parte mezzo piena del bicchiere. A partire dalla Commissione Tecnica Urbanistica regionale, che chiamata nel 2002 ad esprimere un parere (non vincolante e non obbligatorio) sulla variante al piano regolatore di Albiano, indispensabile primo passo per Mediapolis, dichiara serafica: quell’area non è idonea, perché a rischio di esondazione. A questa asciutta critica, si sommano naturalmente quelle più complesse dell’opposizione ambientalista, che puntano sulla incompatibilità di un oggetto/prodotto tanto ingombrante, con il quadro naturalistico dell’Anfiteatro Morenico, nonché dell’impatto a medio e lungo termine (sempre che ce ne siano, di medi e lunghi termini, verrebbe da dire) delle infrastrutture, anche indotte. Critiche ben riassunte in questo estratto dall’interrogazione presentata dal gruppo Comunisti italiani in Regione nel febbraio 2002: oltre all’impatto negativo sul paesaggio, sulle attività agricole, sui rischi di localizzazione in un’area di esondazione della Dora, “una inevitabile congestione di traffico sia durante la lunga fase di cantierizzazione, sia a maggior ragione durante l’esercizio ... la Regione Piemonte e gli altri Enti Locali saranno costretti a destinare copiose risorse pubbliche per adeguare quantomeno le infrastrutture di viabilità e trasporto ai nuovi flussi e alle nuove esigenze indotte dall’iniziativa”.

L’associazione Pro Natura, dopo che il parere negativo della Commissione regionale è stato di fatto aggirato, osserva come si sia trattato di una forzatura: Mediapolis è stata equiparata ad opera di rilevante pubblica utilità, consentendo l’uso di un’area non idonea dal punto di vista della sicurezza idraulica. Sventolare posti di lavoro e promesse di sviluppo nel dorato modo dei parchi a tema, riesce anche a questo? Le montagne russe, quando si ribattezzano roller coaster, fanno anche questi miracoli? Sul numero di Pro Natura del dicembre 2003, dopo che la variante al piano regolatore di Albiano è stata approvata dalla Regione (26 giugno) si sostiene che lo svolgersi dell’intera vicenda “è la prova efficace di quale è il rapporto di subordinazione degli stessi cittadini, delle comunità e dei territori ai signori del “business”. Sia chiaro che secondo questo principio chi investe pianifica anche i territori. E allora a che servono le istituzioni pubbliche, a pagare i costi delle infrastrutture e i danni quando la natura “matrigna” colpisce?”.

Significativo, il parallelo fra questa osservazione di Pro Natura, l’idea di “Società di Trasformazione Territoriale” sul modello dei programmi urbanistici complessi proposta dal Patto Territoriale, e le critiche di parte della cultura urbanistica proprio a questo modello, in cui sembra perdersi di vista qualunque idea di “sviluppo” diversa da quella proposta dall’ubiquo “mercato”.

Resta, per ora, quel cartellone in mezzo al prato, di fianco alla piazzola di sosta dell’autostrada e di fronte al pioppeto. Restano, per ora e finora, l’insieme delle riflessioni dei vari protagonisti della vicenda, e delle modifiche che via via si sono introdotte nel progetto originario (a partire dal nome, inizialmente di “Millennium Park”). Negli allegati alla delibera che approva il Piano particolareggiato e relativa variante allo strumento urbanistico generale del comune di Albiano d’Ivrea, area Guadolungo, leggiamo l’intenzione di “localizzare attrazioni multimediali, simulatori di situazioni, strumenti di educazione, di approccio divulgativo alle discipline storiche e geografiche” (BUR Piemonte n. 27 del 3 luglio 2003).

Resta, per ora solo su internet, descritta dai comunicatori del sito Mediapolis: “Una cittá del tempo libero, ambientata in un contesto architettonico/paesaggistico di grande suggestione, dove un equilibrato mix di loisir, servizi, ricettivitá e commercio specializzato, contribuiscono ad estendere il target di riferimento di un leisure-park di genere più tradizionale.”.

Resta anche la relativa confusione di chi, soprattutto giovane, abitante nella zona, nei dintorni, o semplicemente interessato ai vari aspetti del problema, è letteralmente bombardato di informazioni, antitetiche nella sostanza se non nella forma. Così sul forum dedicato a Mediapolis si legge di tutto: dalle solite oneste, sempliciotte opinioni positive perchè “sono convinto che questa sia una grande opportunità per tutti noi soprattutto per l’area del Canavese, che è ormai zona depressa per ciò che riguarda il lavoro”, a vere e proprie filippiche contro gli ambientalisti rompicoglioni “che se si facesse un referendum sarebbero al massimo l'uno per cento... perciò li invito a non ostacolare...” ( http://www.damasio,it/forum). Più rari, molto più rari, e forse ha ragione chi li colloca “al massimo l’uno per cento”, i critici.

Del resto la crisi non è acqua fresca. Ma siamo poi sicuri che valga la pena di strappare inopinatamente all’agricoltura quei cinquecentomila metri di terreno esondabile dalla Dora? Non c’è, per esempio, un altro posto, anche se su terreno non ex Olivetti?

Al momento, non mi viene in mente altro. Speriamo che i canavesani siano un po’ più svegli di me. Anzi, ne sono sicuro.

Nota: non ho utilizzato in questo testo altre immagini se non le pochissime foto mie scattate a Albiano e Caravino, e una mappa tratta dal Piano Provinciale. Ci sono una quantità di mappe e disegni - protetti da copyright ma liberamente visibili – sul ricco sito di Mediapolis, insieme a tabelle e altre informazioni che qui ho dovuto schematizzare o escludere.

Altre immagini e informazioni varie sulle fasi del progetto, da Millennium a Mediapolis, su http://digilander.libero.it/idste/millenniumpark.html

Premessa – di Fabrizio Bottini



Essere contrari ai parchi tematici vuol dire essere ciecamente passatisti, oppure ostinatamente antiamericani, tecnofobi, magari sotto sotto un po’ bifolchi? Sono domande che probabilmente ci poniamo anche noi italiani, da qualche anno a questa parte (ma i segnali c’erano da decenni) sempre più immersi nell’ambiente globalizzato di spazi artificiali che ha nel parco a tema il suo più vistoso simbolo. Già: solo un simbolo, e solo il più vistoso, perché se ci guardiamo un attimo attorno questo modello di rapporto fra spazio, società, consumi, immaginario e regole di convivenza, sta tracimando dal ristretto ambito della giostra domenicale alla vita quotidiana di lavoro o tempo “libero” che sia.

La città, nel bene e nel male, continua ad essere la casa della società, ma i suoi spazi di relazione vengono via via ritagliati da nuove entità apparentemente simili, in realtà antitetiche: gli ambiti commerciali privati “semi-pubblici”, che usiamo come fossero pubblici ma non lo sono. E lo si vede, appunto, quando assumono la forma esplicita del parco tematico, magari ridondante di simboli a goffa importazione yankee, magari atterrato brutalmente in un contesto che non lo accetta con facilità, nelle dimensioni e nelle intenzioni.

È la modernità, baby, sembra dirci questo breve estratto di Steve Mills: devi solo abituarti, e gli anticorpi verranno da soli. Visti i cantieri di questa grande trasformazione, che ci circondano da ogni lato, e che su Eddyburg tentiamo in qualche modo di discutere e descrivere, verrebbe voglia di dargli ragione.

Estratti da: American Theme Parks and the Landscape of Mass Culture”, in American Studies Today online (traduzione di Fabrizio Bottini)

[...]

I parchi Disney nel Mondo

L’inflenza dei parchi della Disney non si limita al parco stesso e all’ambiente circostante. L’impresa di realizzare un nuovo tipo di spazio per il tempo libero ha avuto tanto successo che Disneyland, e ancor più Disneyworld, sono diventati non solo i prodotti più avanzati di questo tipo, ma il metro di paragone per valutare un ambito molto più vasto di strutture che hanno rapporto con lo stesso tipo di pubblico, sia da parte degli operatori che dell’utenza stessa. Strutture che vanno dal centro commerciale, alla nuova generazione di esposizioni internazionali, centri congressi, e via via gallerie d’arte e musei. Anche i nuovi servizi commerciali nelle aree di sosta delle autostrade britanniche, devono qualcosa al modo in cui la Disney ha fissato lo standard per rivolgersi ad un pubblico esigente e sempre più disponibile a spendere. I critici possono anche aborrire l’ubiquità dei prodotti tipo Disney, ma la loro importanza va forse valutata in modo più ampio, in termini di influenza su un vasto ambito. Qualunque costruttore di centro commerciale, e non solo di parchi divertimenti, deve riconoscere che la Disney ha fissato lo standard per i grandi complessi integrati, nello stesso modo in cui Henry Ford aveva a suo tempo fissato quello per la produzione industriale in serie. Insieme a questo standard, importiamo altri valori, codificati all’interno dello stesso spazio. L’utenza di massa richiede comunicazioni di massa. Mentre negli Stati Uniti questo significa automobile, e con essa il sistema di freeways, svincoli e rampe d’accesso, in Francia e Giappone ci si basa di più sul trasporto pubblico, ma ovunque bisogna offrire accessibilità di massa, e dove essa non esiste va realizzata.

Ancora più importante, il fatto che i parchi a tema Disney ignorino il paesaggio esistente, trattando il sito come se si trattasse di uno spazio vuoto e deserto. I paesaggi esistenti a Orange County, Orlando o a Maine La Vallée sono stati completamente cancellati. Costruttori e amministrazioni in genere sperano che le strutture ne attraggano di nuove, simili, complementari, come alberghi o parchi concorrenti, e che questo possa creare posti di lavoro e stimolare la crescita economica locale. Nonostante le idee di partenza della Disney, sia Disneyland che Disney World sono circondate da parchi concorrenti che offrono attrazioni diverse, come Sea World a Orlando, e hanno stimolato oltre ogni aspettativa l’economia locale. Un impatto ambientale sempre più forte viene considerato normale, senza pensare a quando esso potrebbe divenire insostenibile. Disneyland è stata in qualche modo corresponsabile della massiccia espansione suburbana sui bordi di quello che è di fatto un deserto, e Disney World ha generato una crescita anche maggiore in un’area dove si pompa più acqua dolce di quanta la natura possa rimpiazzare, portando all’aumento delle acque salmastre.

Nessuna sorpresa quindi, se le reazioni al progetto Disney’s America per l’area di Washington D.C., in crescita turistica, hanno condotto all’accantonamento dell’impresa, che avrebbe dovuto inaugurare una nuova generazione di parchi tematici, utilizzando le capacità della Disney per raccontare la storia americana. La paura che lo spericolato eclettismo dei parchi a tema potesse banalizzare il passato non giocava certo a favore dell’immagine della Disney agli occhi dei residenti suburbani di Washington.

Centri commerciali come parchi tematici

Una delle caratteristiche principali, che distinguono i parchi a tema Disney è il loro essere grandi, in grado di gestire grandi quantità di persone, per tutto l’anno, col sole o con la pioggia. Il mondo di Walt Disney chiude solo a Natale, e il giorno dopo è il più affollato dell’anno. Localizzato in Florida, deve fare i conti con tempeste elettriche e eventuali uragani, ma non con le nevicate di Chicago o New York. Pochi altri posti possono gestire tante persone d’inverno, eccetto forse i centri sciistici in Colorado. Non sorprende che altri costruttori, impresari e amministrazioni cittadine, in numero crescente abbiano tentato di riprodurne il meccanismo economico offrendo strutture commerciali, terziarie, e per il divertimento disponibili con qualsiasi tempo. I giganteschi stadi che ci sono in quasi tutte le città più importanti stanno a significare che si può giocare la partita anche nel cuore dell’inverno, o nei periodi più caldi e umidi dell’anno, senza badare a che tempo fa fuori. Chi fa acquisti può stare al riparo dal tempo inclemente, visto che tutte le città hanno centri commerciali al chiuso agibili con qualunque tempo, dove gli anziani passeggiano, i giovani si corteggiano, le famiglie visitano mostre d’arte. Ma, nonostante molti visitatori usino questi ambienti chiusi come spazi pubblici, essi sono in definitiva luoghi privati, da cui possono essere esclusi singoli o gruppi considerati potenziali disturbatori dell’atmosfera di pacifici acquisti o divertimenti. Predicatori o rappers, nella stessa misura, raramente sono i benvenuti, perché questa non è la pubblica strada, ma uno spazio privato, anche se pieno delle comuni presenze stradali come cassette postali, fontanelle, vigili urbani o venditori di biscotti. I tribunali sono già stati spinti a decidere sino a che punto spazi del genere possano essere considerati semi-pubblici, e di conseguenza sottoposti ai normali diritti di riunione, o accesso, previsti dalla legge. E, altrettanto importante di questa confusione fra spazi pubblici e privati, c’è la crescente convergenza fra centri commerciali e parchi tematici. Il Mall of America, in Minnesota, sembra aver portato l’esperienza dello Shopping Mall a livelli che avrebbero imbarazzato lo stesso Disney. Siamo di fronte a commercio con annesso divertimento, oppure ad un parco tematico con massicce offerte commerciali? Ma non sono solo i centri commerciali ad aver mescolato diversi tipi di strutture in un solo luogo. Las Vegas non è più solo una serie di case da gioco e sale da spettacolo nel deserto resa possibile da acqua ed energia a buon mercato. Per aumentare l’attrattività e il giro d’affari, gli spettacoli si sono allargati in arene appositamente realizzate, dove i pirati vanno all’arrembaggio dalle sartie di navi completamente attrezzate, e i visitatori possono risparmiarsi il fastidio di andare fino in Egitto a vedere le Piramidi e i tesori dei Faraoni.

Per assicurare la continuità degli affari, sono essenziali nuove aree tematiche ogni anno, nello stesso modo in cui i parchi divertimenti hanno bisogno di giostre sempre più mozzafiato. Per risucchiare affari da Las Vegas, altre località vicine ai grandi centri, come Atlantic City, non hanno solo introdotto i casino, ma anche scimmiottato il successo di Disney World sviluppando un’offerta completa di soggiorno. Le navi da crociera diventano parchi a tema galleggianti, dove gli americani possono visitare i Caraibi senza scendere a terra se non ne hanno il coraggio. Anche le camere di commercio dei distretti centrali terziari attirano i costruttori con sostegni ai centri congressi, o ristrutturazioni di aree storiche o per il tempo libero, come a Boston e Baltimora, attrezzate con televisioni a circuito chiuso e guardie private: aree che tendono ad escludere tanto quanto ad accogliere. È necessaria una certa mobilità per arrivarci, in queste aree piuttosto isolate, ed è necessaria una certa disponibilità di denaro per fare buon uso delle strutture. Centri commerciali e centri congressi nelle aree terziarie urbane sono sempre più isolati dai quartieri adiacenti in degrado, ci si accede in auto da ingressi controllati: solo un identificato tipo di consumatori entrerà in posti come il Detroit Renaissance Center. E, naturalmente, sempre più persone vivono entro comunità chiuse nello stesso modo. A Manhattan chi vive in condominio da molto tempo abita in edifici chiusi e guardati a vista. A Los Angeles si sono costruite intere città chiuse da mura, con cancelli elettronici a regolare gli ingressi, come negli acquartieramenti delle basi militari. Anche nei quartieri poveri si è chiesto che fossero chiuse le strade di attraversamento, per ridurre la quantità di presenze estranee, in particolare di bande giovanili.

Parchi a tema e influenza americana

Il parco tematico è, sempre di più, parte dell’esistenza moderna, di europei e americani, in tempo di lavoro o di vacanza. Ma se Alton Towers ora finalmente chiama sé stessa un parco a tema, nonostante mantenga la propria struttura storica, il giardino e il castello, i parchi Disney in modo del tutto diverso sono luoghi deliberatamente senza tempo e senza spazio. In modo simile, Legoland si diletta a mostrare una bella vista del castello di Windsor nel corridoio di volo del Concorde, inglobando anziché escludere il mondo esterno. E la tradizione dei parchi divertimenti britannica è piuttosto indipendente dal mondo di Disney, visto che risale almeno a Vauxhall Gardens sulle rive del Tamigi, attraverso i lungomare, le luminarie di Blackpool, i campi vacanze. I danesi sono fieri dei loro famosi giardini di Tivoli, o delle vecchie montagne russe in legno. Imprese olandesi realizzano alcune delle più moderne attrazioni dei parchi a tema, e i francesi da tempo hanno trasformato Mont Saint Michel in una occasione di shopping per pullmanate di turisti.

Anche Disneyland Paris è piena di fiabe popolari e personaggi di cartoni animati europei. Può darsi che i parchi Disney siano solo quelli più pubblicizzati, anziché qualcosa di tipicamente Americano. Il pregiudizio comune, che i parchi tematici siano la caratteristica più marcatamente americana del mondo moderno, ha bisogno di un esame più attento anziché di essere accettata di primo acchito. La Blackpool Pleasure Beach, è davvero parte di una invasione americana, oppure è solo una Goose Fair di Nottingham un po’ più grande? Visto che quasi ogni nazione ha i suo parchi a tema, essi possono essere ben considerati parte del mondo moderno, nel bene e nel male, anziché qualcosa di tipicamente americano, qualunque cosa la Disney Corporation voglia farci credere.

Ma questo non spiega comunque come mai la Disney abbia conquistato posizioni di alto livello, chiedendo di essere riconosciuta non solo come capofila, ma come metro di misura col quale tutti i concorrenti si confrontano. Forse questa fama non si costruisce solo sui parchi tematici, ma anche sul lungo e solido legame con la televisione per ragazzi. E questa è una posizione di forza, molto americana, per dominare i mercati mondiali. Forse, la Disney in fondo ha più a che fare con i dividendi azionari e i mercati, che non con la cultura americana.

La versione integrale e originale di questo articolo, completa di una bibliografia di riferimento, al sito di American Studies Today online

Premessa

Il breve brano che segue, estratto dall’articolo di G. Brooke Taylor, si inserisce in una serie di contributi ospitati dalle riviste britanniche a cavallo fra gli anni ’50-’60, quando nel piano della prima fase di realizzazione dei vari grandi programmi di edilizia residenziale pubblica, iniziano ad emergere problemi in parte inattesi di disadattamento sociale. La questione, che in Italia in modo abbastanza empirico trova una parziale risposta nella logica “familista-cattolica” del piano INA-Casa, soprattutto in Gran Bretagna stimola l’interesse professionale dei sociologi, che premono per essere integrati nei gruppi di lavoro urbanistici con pari dignità e ruolo rispetto ad architetti ed ingegneri. Anche oltre questi scopi contingenti (del resto sostenuti da alcuni programmi formativi e professionali dell’epoca), resta l’attualità di alcune osservazioni, che ben sottolineano come parecchi problemi tipici dei grandi quartieri monoclasse del secondo dopoguerra non nascano solo e semplicemente dai limiti di realizzazione, o dalla parziale realizzazione, di servizi e attrezzature indispensabili alla ricostruzione del sistema identitario che conosciamo come “città”. Brooke Taylor ci indica anche un altro vuoto “a monte”, ovvero quello di una progettazione sociale totalmente improvvisata, in tutto o in parte inconsapevole, da parte di tecnici dello spazio e delle strutture che si improvvisano sociologi, pieni di buone intenzioni tanto quanto potenzialmente pericolosi di fronte alla dimensione quantitativa e novità dei problemi.

Il sogno estatico di Le Corbusier

Molti architetti, in particolare, vogliono costruire per la gente, e cercano anche di farlo, ma questo desiderio nel loro cervello è inestricabilmente legato ad una visione puramente estetica. Le Corbusier pensava a sé stesso, evidentemente, come ad un sociologo, e il suo sogno, quasi estatico, della Ville Radieuse, comprende una straordinaria miscela di idee architettoniche e sociali. Ma, nella Unité d’Habitation di Marsiglia, i passaggi bui, la spoglia “sala comunitaria”, il gigantesco campo da giochi per bambini sul tetto, i negozi impossibili da affittare, mostrano evidenti i pericoli di un architetto di valore che gioca a fare il sociologo.

Ancora, l’architetto può riuscire in un progetto dove si giungono ad equilibrare desiderabilità sociale ed estetica. Ma lo stesso architetto, sollecitato sul versante economico, sacrificherà la componente sociale per conservare intatta quella estetica. È quello che ci si può aspettare, e la stessa cosa vale per ogni altro tecnico. L’ingegnere, o l’esperto finanziario, non sacrificano i bisogni della gente per indifferenza o disinteresse nei riguardi dei propri simili, ma per la logica inerente le proprie questioni professionali.

Debolezza del controllo democratico

C’è il controllo fornito dai rappresentanti popolari, eletti o nominati. Ma nemmeno questo può considerarsi più davvero efficace. Con la migliore buona volontà del mondo, e presupponendo un alto livello di intelligenza e competenza, nessun membro di commissione o comitato può sperare di mantenersi al passo coi dettagli di un progetto di grandi dimensioni, a parte il formulare, o l’approvare, i principi guida delle politiche. Dobbiamo riconoscere che le moderne realizzazioni su larga scala sono immensamente complesse. La creazione di un “vicinato” coinvolge la soddisfazione di una gran numero di bisogni, e l’intreccio di questioni tecniche, costruttive e sociali, le quali richiedono che vengano considerate le implicazioni sociali di ogni frammento del piano e della sua realizzazione in cemento e mattoni. Il personale di gestione dell’edilizia residenziale fa questo, sino ad un certo limite, ovvero sino a quando le questioni concernono strettamente la residenza. Ma essi tendono, inevitabilmente, a preferire soluzioni che replicano cose che hanno funzionato bene in passato, e a considerare i quartieri in un contesto ristretto.

La soluzione ovvia, sembra essere quella di una “consulenza sociale”, posta allo stesso livello tecnico dell’organizzazione preposta al progetto fisico. Come si dovrebbe provvedere, a questa “consulenza sociale”? Nelle condizioni attuali, si verifica una situazione estremamente confusa.

Le autorità pubbliche responsabili per i quartieri residenziali (molte delle quali realizzano un totale di aree di intervento che supera quello delle New Towns) non hanno nessun funzionario competente in questo campo. Solo quattro delle quindici New Towns hanno funzionari nel campo dello sviluppo sociale, e si può tranquillamente dire che essi sono impegnati principalmente su questioni comunitarie diverse da quelle che abbiamo sollevato qui. Nei casi in cui autorità pubbliche o enti di gestione delle New Towns intraprendono politiche sociali in urbanistica, lo stimolo sembra emanare dall’influenza esercitata da rappresentanti eletti o nominati, o da funzionari di altra professionalità che hanno preso l’idea da qualche rivista di sociologia, l’hanno vista applicata da un’altra autorità, o hanno avuto un’improvvisa illuminazione da soli.

I pericoli insiti in questo metodo casuale sono ovvi. La realizzazione di un sub-centro di vicinato nel quadro di un piano adeguatamente studiato può essere di grande valore, soprattutto se è seguita da uno studio sui risultati. La ripetizione dell’idea in un altro contesto di piano può risultare ridicola. L’idea della sala comune per inquilini come parte di un insieme coerente di sviluppo comunitario può essere valida. La sua duplicazione come “moda”, in una grande varietà di schemi insediativi, può essere solo uno spreco di risorse.

Scontiamo le prevaricazioni di urbanisti, politici e pseudoambientalisti

Nel dibattito sulle periferie – che va considerato propedeutico a quello sulle condizioni e le responsabilità che hanno condotto all’abusivismo e ai vari interventi in sanatoria - emergono da un po’ di tempo a questa parte ammissioni che collimano sorprendentemente con quanto andiamo dicendo da anni. Inserendosi in questo dibattito si rende tuttavia opportuno fare riferimento anche alle idee degli altri, com’è il caso di un articolo di questa estate de “La Repubblica” (E alla fine vinse la città di villette), in cui l’architetto Paolo Desideri afferma ad esempio che «dentro il dibattito autoreferenziale degli addetti ai lavori, irrompe talvolta il punto di vista di chi specialista non è, e forse proprio per questo finisce per vedere quello che sfugge agli esperti».

Gli errori della città pianificata

L’argomentazione nasce dalla constatazione dello iato esistente tra la gente comune da una parte, - che da almeno trent’anni si pone la domanda se è possibile o meno vivere nel degradato clima sociale delle periferie - e gli architetti, gli urbanisti e i politici/amministratori dall’altra, che hanno continuato imperterriti a concepire progetti insani come quelli di Corviale, Zen, Tor Bella Monaca, Laurentino 38 etc. Tale iato fornisce la prova inconfutabile che la nostra società «non è più in grado di condividere i valori e la cultura abitativa proposta dalla città pianificata». Per gli architetti e gli urbanisti si possono forse individuare delle scusanti, tutt’uno con la natura di una formazione culturale legata alla ricerca tipologico/abitativa del Movimento Moderno, ma anche coerente con una economia non più attuale, fondata sulla produzione industriale, e con un pensiero modernista troppo inquinato da una visione deterministica della storia e dal mito ormai insostenibile del progresso.

Strettamente collegato, ripeto, al disastro delle periferie è il fenomeno dell’abusivismo; fenomeno alla cui base si può senz’altro individuare il rifiuto del quartiere costituito da case multipiano, o meglio, da un impianto urbanistico con tipologie abitative ad alta densità, oltre al fatto di non aver applicato la lezione dei centri storici, complice l’equivoco funzionalista, cioè la lezione dell’integrazione delle funzioni del vivere (a fronte del moderno, monofunzionale quartiere dormitorio), unitamente all’incapacità degli architetti contemporanei di conferire qualità all’ambiente urbano.

Travisata la funzione del mercato delle aree

Per capire a fondo il fenomeno dell’abusivismo non si può tuttavia non riferirsi alle condizioni del mercato delle aree fabbricabili e alle responsabilità della classe politica nell’inquinare e alterare questo mercato, sia accettando le indicazioni degli urbanisti, tendenti ad intaccare alla base il principio stesso della proprietà fondiaria (fortunatamente tamponate dalla Corte Costituzionale), sia insinuandosi nei meccanismi di mercato con leggi come la 167, sulle aree per l’edilizia economica e popolare, e come l’equo canone, con le disastrose ripercussioni sugli investimenti privati per l’edilizia abitativa che sono all’origine della carenza odierna di nuove abitazioni nelle grandi città.

L’individuazione nel mercato come sede di una delle condizioni fondamentali di prosperità di una società civile moderna è stata assolutamente travisata dalla classe politica italiana a partire dal dopoguerra. La nostra classe politica ha portato avanti una nozione ideologica dell’interesse pubblico in opposizione totale all’interesse privato. Ora, che questa concezione fosse connaturale alla sinistra, allo statalismo dirigista e alla discriminazione delle classi sociali, non vuol dire che dovesse essere ritenuta accettabile anche dal partito allora di maggioranza relativa e dalle formazioni politiche di ispirazione liberale, ideologicamente più inclini a comprendere le ragioni del mercato.

D’altra parte gli urbanisti, applicando un concetto di pianificazione che, cristallizzando il territorio con una destinazione d’uso vincolante delle aree, stabilita secondo presunti criteri di razionalità e funzionalità dell’espansione urbana, escludevano ogni possibilità di un’offerta indifferenziata di aree fabbricabili in libero mercato, laddove peraltro il privato non poteva arrogarsi il diritto di pretendere che i servizi urbani arrivassero fino a lui, comunque e dovunque.

Il segnale incompreso della Bucalossi

Gli urbanisti hanno dunque per certi aspetti avuto ragione, ma soltanto sino a quando un liberale non sancì il sacrosanto principio, con la legge 28 gennaio 1977, n. 10 ( Norme per la edificabilità dei suoli ), che i costi dei servizi di urbanizzazione il privato se li dovesse pagare. La Bucalossi dava infatti, per chi lo volesse intendere, il segnale della crisi della mano pubblica, nonché della necessità di capovolgere le strategie autoritaristiche della pianificazione, ricorrendo al privato e prestando orecchio alle domande che, dal territorio, provenivano dal basso.

E’ da quel momento che la pianificazione urbana e territoriale doveva cambiare, modificando i criteri dirigistici sino allora seguiti e ampliando la nozione di governo del territorio ponendo l’accento sull’unitarietà organica degli interventi, cioè facendo proprie sia le esigenze di difesa del suolo che dei valori ambientali, che invece furono regolate da leggi specifiche, slegate dal contesto generale. Purtroppo l’opportunità offerta dalla svolta “Bucalossi”, che poteva dare luogo ad una positiva riaffermazione del primato della politica anche in questo settore, non venne afferrata da una classe politica in gran parte dedita all’affarismo e alla lottizzazione del potere, quindi incapace di cogliere il cambiamento epocale che si celava, già negli anni ’70, dietro il decentramento industriale e l’esaurimento del fenomeno dell’urbanesimo. Anche molti urbanisti non percepirono il cambiamento, proseguendo sulla strada ormai invalidata di una pianificazione prescrittiva da considerarsi quantomeno illiberale. Altri concepirono invece una via “riformista”, guardando in realtà ai modelli che venivano sperimentati in alcuni paesi europei.

La guerra alla tipologia unifamiliare

Peraltro, il perdurare di una costituzione impositiva della pianificazione urbana, ha comportato il mantenimento di tipologie abitative ad alta densità, individuate in ragione di scelte tecniche sull’uso del suolo, ma in gran parte estranee alla domanda, per di più spesso estremizzate da convinzioni ideologiche contrarie all’abitazione unifamiliare. A parte i formicai di abitazioni popolari già citati, chi ha potuto seguire le vicende del PRG della Capitale, a partire dal piano del ’62, non può non avere rilevato, ad esempio, la progressiva compressione dell’offerta della tipologia unifamiliare G4, una tipologia ormai confinata nell’Agro romano, con un lotto minimo di 100.000 mq!

Tutto questo mentre, per tornare all’articolo di Paolo Desideri, una ricerca Censis dell’83 proponeva un’interpretazione dell’abusivismo edilizio come risposta alla deludente qualità della vita che gli ambienti urbani della città pianificata moderna sapevano garantire ai loro abitanti: «l’alloggio abusivo rappresenta quindi, per la maggioranza degli intervistati, la conquista di un miglioramento sostanziale del comfort abitativo. Accanto all’incremento della superficie abitabile e del numero medio delle stanze si può rilevare un pronunciatissimo incremento delle superfici accessorie dell’alloggio e delle superfici scoperte di pertinenza dell’abitazione, specialmente costituite dai giardini e dalle aree libere».

D’accordo con Desideri anche quando, pur riconoscendo le tipologie autocostruite della città non pianificata, cioè abusiva, «più consone alle attese e alla cultura abitativa dell’uomo contemporaneo» aggiunge opportunamente che queste tipologie, «le casette della città diffusa, rappresentano la mediocre utopia liberista di un soggetto che in quelle architetture senza architetti realizza il suo contraddittorio paradiso individualista…».

Il “passo indietro” dei professori

Convincente la conclusione a cui perviene Desideri. Vale la pena citarla, anche se non può considerarsi esaustiva delle problematiche in discussione: «Tutto questo mi sembra converga verso un limite: la cultura urbana espressa dal moderno, che è alla base della formazione di noi architetti, che è tuttora la struttura principale dell’insegnamento di architettura, è ampiamente superata nei fatti e dalla cultura materiale della gente comune. Solo partendo da questa definitiva consapevolezza potremo, e dobbiamo con urgenza e passione, rifondare un rapporto accettabile tra urbs (cioè città fisica) e civitas (cioè società civile)».

I nostri tradizionali lettori ricorderanno sicuramente i nostri annosi e reiterati inviti ai “professori” a fare “una passo indietro”, tuttavia, se non li citassimo, faremmo torto a coloro tra questi che hanno sviluppato nel tempo una vigorosa autocritica, specialmente riferita all’autoreferenzialità del dibattito disciplinare, tale da consentire nel tempo l’assunzione reale degli elementi di crisi, come lo stesso articolo di Desideri sta a dimostrare.

Perchè non esaustiva la conclusione di Desideri? Perché fra le altre cose non coinvolge le responsabilità di certo pseudoambientalismo nostrano, che inquina il dibattito limitandosi a valutare la dimensione naturalistica dell’ambiente, dimenticandosi di quella culturale e ignorando le radici antropizzate del paesaggio naturale italiano. Per questa gente ogni ulteriore riduzione delle “volumetrie” abitative rappresenta una vittoria contro la “cementificazione”, laddove il diritto alla casa va considerato quantomeno elemento prioritario nei confronti di chi la casa non ce l’ha. Il fatto che si sia fatto scempio del territorio non può costituire un alibi per alienare questo diritto, né si può accettare l’affermazione, sintomo di ignoranza letale, secondo la quale la costruzione edilizia turba l’ambiente, perché non è la casa dell’uomo che turba l’ambiente naturale come quello urbano, lo turba, certamente, la cattiva architettura.

Paolo Desideri, E alla fine vinse la città di villette

La via principale della nazione

La costa nord-orientale degli Stati Uniti è oggi sede di uno sviluppo notevole - una distesa quasi ininterrotta di aree urbane e suburbane dal New Hampshire del Sud alla Virginia del Nord, e dalla costa atlantica alle colline ai piedi degli Appalachi. I processi di urbanizzazione, che hanno profonde radici nel passato americano, hanno operato qui in modo costante, fornendo alla regione sistemi di vita e di utilizzazione del suolo eccezionali. Nessun’altra regione degli Stati Uniti ha una concentrazione di popolazione altrettanto forte, con una densità media cosi alta, e che si estenda su un’area cosi vasta. E nessun’altra regione ha un ruolo paragonabile all’interno della nazione e un’importanza paragonabile nel mondo. Si è sviluppato qui un genere di supremazia, nel campo politico, economico e forse persino nel campo delle attività culturali, raramente raggiunto prima d’ora da un’area di tale ampiezza.



Una regione eccezionale: Megalopoli.

Questa regione ha quindi una eccezionale Il personalità », che per circa tre secoli ha subito mutamenti ed evoluzioni continue, ha determinato continuamente nuovi problemi per i suoi abitanti ed esercitato un’influenza profonda sulla organizzazione generale della società. Le tendenze attuali del suo sviluppo e il grado odierno di affollamento offrono esempio ed insegnamento ad altre aree meno urbanizzate sia in America che altrove, e richiedono una revisione integrale di molti vecchi concetti, quale la distinzione abitualmente accettata tra città e campagna. Ne consegue che ad alcuni vecchi termini vanno attribuiti nuovi significati e che si devono coniare termini nuovi.

Ma per quanto grande sia l’importanza di questa parte degli Stati Uniti e il valore dei processi operanti al suo interno, è però difficile separare quest’area dalle aree circostanti; sia perché i suoi confini tagliano regioni storiche tradizionalmente riconosciute - come il New England e gli stati del Medio Atlantico -, sia perché essa comprende unità politiche diverse, e alcuni stati per intero ed altri solo in parte. Per definire quest’area geografica particolare è dunque necessario un nome speciale.

Questo particolare tipo di regione è nuovo, ma è il risultato di processi di lungo periodo, quali un imponente sviluppo urbanistico, la divisione del lavoro all’interno di una società civilizzata, la valorizzazione qui delle risorse provenienti da molte parti del mondo. Il nome dato a questa regione dovrebbe pertanto essere nuovo come fattura, ma anche richiamarsI a formule di età molto più lontane, in quanto questa regione può considerarsi un simbolo di una lunga tradizione di aspirazioni e di sforzi umani: sforzi e aspirazioni che qui troviamo, in parte almeno, e con certi particolari orientamenti, realizzati. Di qui la scelta del nome “Megalopoli” usato in questo studio.

Circa duemila anni prima che sulle spiagge del fiume James, della baia del Massachusetts e dell’isola di Manhattan sbarcassero i primi pionieri europei, un gruppo di antiche genti, progettando una nuova città-stato nel Peloponneso, in Grecia, la chiamò Megalopoli, poiché per essa sognava un grande futuro e sperava che sarebbe diventata la più grande delle città greche. La loro speranza non si realizzò. Megalopoli compare ancora sulle carte moderne del Peloponneso, ma è solo una cittadina annidata in un piccolo bacino fluviale. Nel corso dei secoli la parola “Megalopoli” è stata usata in molti sensi da varia gente, ed ha perfino trovato posto nel dizionario Webster, che la definisce “una città molto grande”. Il suo uso, tuttavia, non è divenuto tanto comune da non poter venir applicato con un nuovo senso, come toponimo per l’eccezionale gruppo di aree metropolitane della costa nord-orientale degli Stati Uniti. Qui, ammesso che ai nostri tempi ciò sia possibile, il sogno di quei Greci antichi potrebbe essere divenuto entro certi limiti realtà.

Un’area urbanizzata a struttura nebulare.

Percorrendo le autostrade e le linee ferroviarie principali tra Boston e Washington, è difficile perdere di vista aree costruite, zone residenziali ad alta densità o potenti concentrazioni di impianti industriali. Sorvolando questo medesimo percorso, si scopre, d’altra parte, che oltre le fasce di terreno denso di costruzioni che si stendono lungo le principali arterie del traffico, e tra gli agglomerati dei sobborghi che circondano i vecchi centri urbani, rimangono ancora ampie zone coperte di foreste e boscaglie, alternate a qualche appezzamento di terreno amorosamente coltivato. Tuttavia, anche questi spazi verdi, se osservati a distanza ravvicinata, si presentano popolati da una quantità imponente di edifici, per la maggior parte di carattere residenziale - e alcuni pure di carattere industriale - sparsi qua e là. Infatti, molte di queste zone che sembrano rurali in realtà fungono in gran parte da sobborghi, nell’orbita del centro di qualche città. Perfino nelle fattorie, che occupano i più grandi appezzamenti coltivati e che in realtà forniscono notevoli quantità di prodotti, raramente lavora gente la cui sola occupazione e il cui solo reddito sia esclusivamente agricolo.

Quindi non è più possibile applicare qui la vecchia distinzione tra rurale e urbano. Anche un rapido sguardo alla vasta superficie di Megalopoli rivela una rivoluzione nell’utilizzazione del suolo. La maggior parte della gente che vive nelle cosiddette aree rurali, e che viene ancora definita, dai recenti censimenti,”popolazione rurale” ha ben poco, per non dire niente, a che fare con l’agricoltura. Se si prendono in considerazione i suoi interessi e il suo lavoro essa costituisce quella che un tempo era definita “popolazione urbana”, ma il suo modo di vivere e il paesaggio che circonda le sue abitazioni non si adatta al tradizionale significato di urbano.

Dobbiamo perciò abbandonare in questa zona l’idea di città come unità fittamente costruita ed organizzata, in cui la gente, le sue attività e le sue ricchezze sono condensate in un’area molto piccola, chiaramente distinta dai suoi dintorni non urbani. Ogni città di questa regione si stende in lungo e in largo attorno al suo nucleo originario; cresce in mezzo a un miscuglio irregolarmente colloidale di paesaggi rurali e suburbani; si fonde su ampi fronti con altri miscugli, di struttura per qualche verso simile, anche se paesisticamente diversi, che appartengono ai dintorni suburbani di altre città. Si può osservare questa fusione, per esempio, lungo le principali arterie di comunicazione che uniscono New York a Filadelfia. Vi sono qui molte comunità che potrebbero essere classificate come appartenenti a più di un’orbita. È difficile dire se essi siano sobborghi o città “satelliti”, di Filadelfia o di New York, di Newark o New Brunswick o Trenton. Persino queste ultime tre città si sono ridotte sotto molti punti di vista al ruolo di sobborghi di New York, sebbene Trenton appartenga anche all’orbita di Filadelfia.

Le “aree metropolitane standard”, usate per la prima volta dal Bureau of the Census degli Stati Uniti nel 1950, hanno chiarito in parte, ma non del tutto questa situazione confusa. Per esempio, la classica area metropolitana New York-New Jersey nord-orientale taglia dei confini politici, mettendo in luce i rapporti di questa vasta regione con il cuore di New York. Eppure l’applicazione meccanica del, termine “area metropolitana standard” si è risolta nella creazione di aree separate per Trenton - che è strettamente legata sia a New York sia a Filadelfia - e per Bridgeport - che per molti motivi pratici fa parte dell’area di New York. Possiamo rilevare problemi analoghi in altre parti di Megalopoli.

Cosi è stato creato lungo le coste atlantiche nord-orientali un sistema quasi continuo di aree urbane e suburbane che si intersecano in profondità, con una popolazione totale di circa 37 milioni di abitanti nel 1960. Esso scavalca confini di stato, si stende attraverso ampi estuari e golfi e racchiude caratteristiche regionali molto diverse. In effetti, i paesaggi di Megalopoli offrono una tale varietà che l’osservatore medio può nutrire seri dubbi sull’unità della regione. E potrebbe avere l’impressione che i principali nuclei urbani della costa abbiano scarsa affinità tra di loro. Sei delle sue grandi Città sarebbero altrettante metropoli nettamente caratterizzate, se fossero situate altrove. Questa regione ci richiama le parole di Aristotele, che le città come Babilonia hanno “le dimensioni di una nazione piuttosto che di una città”.



Megalopoli: via principale e incrocio della nazione.

Vi sono molte altre grandi aree metropolitane, e perfino raggruppamenti di esse, in varie parti degli Stati Uniti, ma nessuna tuttavia è paragonabile a Megalopoli per quantità e densità di popolazione o importanza e densità di attività, siano queste espresse in termini di trasporti e nodi di comunicazioni, di operosità finanziaria o istituzioni politiche. Megalopoli fornisce a tutta l’ America una tale quantità di servizi essenziali, di quel tipo che ogni comunità trovava di solito nel proprio centro urbanistico, che ben merita la definizione di “via principale della nazione”. E per tre secoli ha sostenuto questa parte, anche se la marcia compiuta dai colonizzatori attraverso il continente si è svolta lungo un asse est-ovest, perpendicolare a questa regione della costa atlantica.

Negli ultimi tempi Megalopoli ha più che mai concentrato in se un gran numero di grandi funzioni, solitamente assolte da una “via principale”: e si ha l’impressione che non sia disposta ancora a ,rinunciarvi. Ne è prova, ad esempio, la presenza determinante del governo federale a Washington, una presenza che influenza molti aspetti della vita nazionale; e poi la concentrazione permanente di operazioni finanziarie ed amministrative a Manhattan; e poi il predominio esercitato da New York sul mercato nazionale dei mezzi di comunicazione di massa, che resiste ad ogni tentativo di concorrenza; e poi l’influenza preminente delle università e dei centri culturali sul pensiero e sulla politica americana. Megalopoli è anche la facciata principale del paese di fronte al resto del mondo. Da essa, come dalla via principale della città, la popolazione locale parte per viaggi lontani, e ad essa giungono gli stranieri in arrivo. Per gli immigranti essa ha sempre rappresentato un porto di sbarco. E proprio come i viaggiatori di passaggio spesso vedono di una città solo qualche edificio della sua via principale, cosi la maggior parte dei viaggiatori stranieri vedono solo una parte di Megalopoli durante il loro soggiorno negli Stati Uniti.

Proprio come la via principale vive per fornire di servizi l’intera città e si arricchisce per merito di essi, più che per delle sue risorse puramente locali, cosi Megalopoli è legata a tutti gli Stati Uniti e alle loro abbondanti e articolate risorse. Nel complesso Megalopoli non è stata eccessivamente favorita dalla natura. Non ha grandi estensioni di terreni ricchi (vi sono dei buoni terreni, ma quelli poveri sono in maggior numero), nessun particolare vantaggio climatico (il suo clima ciclonico è lontano dall’essere ideale) e nessun grande giacimento minerario (sebbene ve ne sia qualcuno). Sotto questo punto di vista non si può paragonarla alle generose vocazioni o capacità naturali del Middle West o del Texas o della California. Ma primeggia per i vantaggi che le derivano dalla sua ubicazione: porti profondi di una costa ove sono avvenuti fenomeni di ingressione marina, e lungo la quale furono presto fondate - nelle insenature - le sue città principali, e poi la sua posizione di anello di congiunzione tra il ricco cuore del continente e il resto del mondo. Con intensa, dura e continuata operosità l’uomo ha messo a frutto al massimo la maggior parte delle virtualità contenute in quella ubicazione: che sono in effetti le risorse più rimarchevoli di un patrimonio naturale altrimenti mediocre. Come risultato, ben presto Megalopoli divenne un centro dinamico di relazioni internazionali, ed ha mantenuto e costantemente accresciuto questo suo ruolo fino ad oggi. È ora il punto di incrocio più attivo della terra, per la gente, per le idee, per le merci, e la sua influenza si stende molto lontano dai confini della nazione, In realtà solo in quanto è stata valorizzata come punto di incrocio questa regione ha potuto raggiungere la sua attuale preminenza economica.

Megalopoli, laboratorio dello sviluppo umano.

La tecnologia moderna e la evoluzione sociale dei nostri tempi forniscono da una parte un crescente sviluppo di attività urbane, e dall’altra sistemi in continuo miglioramento per produrre quantità maggiori di prodotti agricoli con minor manodopera. Queste tendenze, integrandosi accomunandosi e reagendo con i fenomeni di accrescimento demografico, sono quindi destinate ad incanalare un flusso crescente di popolazione verso occupazioni e sistemi di vita di tipo urbano: A mano a mano che questa marea raggiunge un numero sempre più grande di città, queste ultime traboccheranno oltre i loro vecchi confini per espandersi e disseminarsi su tutto il paesaggio, assumendo nuovi aspetti, come quelli che si possono osservare in tutta Megalopoli. Questa regione serve cosi da laboratorio, nel quale possiamo studiare la nuova evoluzione che va rifoggiando sia il senso del nostro vocabolario, sia tutta la struttura materiale del nostro sistema di vita.

La società di domani sarà diversa da quella nella quale siamo cresciuti, soprattutto perché sarà maggiormente urbanizzata. Modi di vita non agricoli saranno seguiti da una quantità sempre più grande di gente, ed occuperanno più spazio che mai, e simili cambiamenti non potranno prodursi senza modificare profondamente anche la vita e la produzione agricola. Le conseguenze dell’evoluzione generale annunciata dall’attuale crescita e complessità di Megalopoli sono cosi grandi che un’analisi dei problemi di questa regione dà spesso la sensazione di essere spettatori del sorgere di una nuova fase della civiltà umana. L ‘autore ha visitato e studiato molte altre parti del mondo, ma non ha mai provato una simile sensazione in nessun altro luogo. Quest’area può davvero essere considerata la culla di un nuovo ordine dell’organizzazione dello spazio abitato. Questo nuovo ordine tuttavia è ancora lontano dall’essere disciplinato; qui, nella sua culla, ogni cosa è in perenne mutamento e conflitto, e questo non semplifica il lavoro di chi ne intraprende l’analisi. Nonostante ciò, uno studio su Megalopoli può gettar luce su processi che sono di grande importanza ed interesse per tutti.

Uno studio di rapporti complessi.

Man mano che procedeva il lavoro di raccolta dei dati e di analisi, diventava evidente che la possibilità di risolvere la maggior parte dei problemi che questo studio di Megalopoli faceva emergere stava nelle interrelazioni tra le forze e i processi operanti all’interno di quest’area piuttosto che nelle tendenze del suo sviluppo o nel miglioramento delle sue tecniche. Cosi la tendenza dell’incremento demografico, facile da misurare e forse da prevedere approssimativamente, aiuta meno a comprendere la natura di quest’area che non le interrelazioni esistenti tra i processi che provocano la crescita della popolazione locale, quelli che attirano un certo tipo di gente a Megalopoli, e quelli che forniscono a questa popolazione in aumento i mezzi per vivere e per lavorare. Molti di questi processi sono statisticamente misurabili e alcuni possono essere rappresentati su una carta geografica, ma il grado in cui ciascuno di essi deriva dagli altri o li determina è una questione molto più sottile, ed è più importante per la comprensione di come si è formata la regione di Megalopoli e di come la sua vita si svolge.

La maggior parte degli studi regionali restano sul terreno sicuro e superficiale delle descrizioni statistiche e delle classificazioni funzionali. Se il mio lavoro avesse seguito questo schema sarebbe stato principalmente dedicato ad una ricapitolazione degli abbondanti dati che si possono ottenere attraverso i censimenti e da altre fonti di informazioni generali sulle svariate caratteristiche di Megalopoli. Una descrizione delle condizioni naturali, come la topografia, il clima, l’idrografia e la vegetazione, avrebbe preceduto un breve profilo storico, per essere poi seguita da trattazioni sulla popolazione, sulle industrie, sul commercio, sui trasporti e le comunicazioni, sul mercato immobiliare, su altre attività e infine dalla descrizione delle città principali e delle caratteristiche generali delle aree “rurali”. Un lavoro del genere avrebbe messo capo alla illustrazione dei problemi attuali, e con l’aggiunta di qualche previsione per il futuro presentata per mezzo di grafici e basata sul presupposto che le tendenze degli ultimi venti-cinquant’anni si manterranno per i prossimi venti.

La pura compilazione di questo panorama potrebbe essere forse di qualche utilità a qualcuno, ma difficilmente ne trarrebbe giovamento chi chiedesse uno studio in profondità, una penetrazione e una comprensione esaurienti dei problemi fondamentali di quest’area. Cercando di scoprire i processi più profondi e il loro intrecciarsi, si può sperare di addivenire a un tipo di conoscenza più essenziale, ed anche di fondare una metodologia di ricerca che potrebbe essere usata - anche se ciò non pare agevole - per lo studio di altra area analoga o proiettata nel futuro con qualche validità. Questa è la ragione per cui il presente lavoro è organizzato secondo uno schema che in un certo senso non è più quello tradizionale ed antiquato dei geografi, essendo il suo fine una discussione più ragionata ed una analisi obiettiva. Fenomeni cosi complessi, come i processi sociali ed economi ci che si stanno svolgendo in Megalopoli, denunciano un intreccio amplissimo di cause e di componenti numerose: e l’autore si è sforzato di cercare nella integralità queste componenti e di esaminarle in ogni loro forma e interrelazione, con quanta maggior dose ha potuto di spirito critico. (estratto da Vol. I, pp. 3-13)

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Novus ordo seclorum

Lo sviluppo di Megalopoli è un fenomeno estremamente complesso. Molti fattori hanno contribuito a realizzare il suo attuale grado di urbanizzazione e la spettacolare concentrazione di gente, di industrie e di ricchezza. La posizione geografica fu certamente un immenso vantaggio nelle prime fasi dello sviluppo della regione; e le istituzioni ereditate dal passato sostengono vantaggiosamente fino ad oggi la grande struttura moderna che negli ultimi anni ha dominato l’economia e la politica del nostro globo. Eppure non si può attribuire alla sola combinazione di forze materiali il fatto di aver determinato lo sviluppo di Megalopoli fino al suo attuale stato di superiorità. Lo spirito del popolo che si servi delle occasioni materiali che poteva sfruttare deve essere riconosciuto come l’elemento decisivo della storia della regione: questa è la lezione del passato e questo l’ammaestramento per il futuro.

L impeto prometeico.

Le prime città fondate sulla costa nord-orientale americana, dalla baia del Massachusetts al fiume Potomac, formarono un’audace frontiera, la cui popolazione si preoccupava di risolvere il problema delle sventure umane almeno nella stessa misura in cui tentava di sviluppare un continente e di controllare un oceano. Se si considerano le colonie del secolo diciassettesimo e dell’inizio del diciottesimo come costituenti un cardine sulla sponda del continente, questo cardine deve essere riconosciuto come “tridimensionale”: considereremo cioè come suo terzo componente le aspirazioni spirituali che animarono i vari esperimenti: il Massachusetts, Providence, e poi il Connecticut, tutti puritani, la quacchera Filadelfia, i mennoniti e gli amish a Lancaster in Pennsylvania, il Maryland cattolico (a parte gli altri). Ognuno di questi gruppi era guidato da una fede che ardeva viva e che sembrava in condizioni di realizzare le sue migliori imprese nella terra vergine del nuovo mondo.

Le origini di New York furono un poco diverse e sotto molti punti di vista più materiali. Ma New York divenne presto un centro molto tollerante, aperta a molte fedi, e un grande centro di cooperazione tra gente dalle origini più disparate. Tutti i grandi porti marittimi, situati sulla fascia della facciata del continente, erano rivali ma anche esercitarono influenza l’uno sull’altro. Erano tutti figli dell’età delle grandi scoperte geografiche, da cui ereditarono una disposizione prometeica presto stimolata dal fervore religioso e dalla concorrenza tra vicini.

Se si esamina la storia di Megalopoli si trova uno stretto legame tra lo spirito della frontiera e l’impeto dei grandi esperimenti religiosi. La teoria della frontiera nella storia americana esposta da Frederick Jackson Turner si fonde qui con la “missione nelle terre selvagge” di Perry Miller , per produrre uno sforzo continuo a migliorare il destino dell’uomo, attraverso lo sviluppo di risorse nuove e illimitate. L’ardore prometeico rifulge dopo l’indipendenza, come è dimostrato da scritti del genere della dichiarazione di Nicholas Collin, che occupano una posizione di primo piano nelle pubblicazioni dell’ American Philosophical Society.

Molti storici hanno sottolineato il fatto che i programmi redatti e le politiche seguite in questa regione sorsero di giorno in giorno come prodotti della pressione dei tempi, che offrivano possibilità, assieme ad ostacoli e difficoltà. La gente si levava per far fronte a queste sfide successive, facendo del suo meglio, senza grandiosi progetti o piani. Tuttavia vi sono molti modi per far fronte a una particolare sfida o per trarre vantaggio da una data occasione. Gl’Indiani precolombiani lo fecero in un certo modo, i colonizzatori del New England in un altro, mentre i piantatori della Virginia scelsero ancora un terzo sistema. La massa degl’individui che forma una comunità spesso è pienamente cosciente delle forze da cui viene sospinta, ma in genere è troppo occupata per passare il suo tempo a studiarle con cura e lascia perciò questo sforzo ad un’élite che ha più tempo a sua disposizione: e che viene designata d’abitudine col nome di intellettuale. Non c’è dubbio che il gruppo dominante nelle grandi città della costa nord-orientale ponesse attenzione ai fondamenti e ai motivi della originalità della potenza americana.

È significativo che le commissioni che discussero e scelsero il disegno allegorico del Gran Sigillo degli Stati Uniti, immediatamente dopo l’indipendenza, abbiano inciso su una delle facce del sigillo la frase latina Novus ordo seclorum, frase che appare su tutti i biglietti di banca, stampata sotto la piramide incompiuta la cui base porta la data 1776. I capi della nuova repubblica credevano che gli Stati Uniti e il loro modo di vivere dovessero essere e sarebbero stati un “nuovo ordine del tempo”, una grande svolta nella storia. Non c’era un modo più forte per rivendicare un simile ruolo di quello di incidere un motto del genere sul Gran sigillo della Federazione, e più tardi sulle banconote. Un’iscrizione non vale molto in pratica, a meno che non esprima un sentimento profondamente vivo nel cuore di molte persone, e un tale sentimento era caratteristico della classe dirigente delle città di Megalopoli dell’ultima parte del diciottesimo secolo. Una dose notevole di questo stesso spirito è ancora viva nella mente degli Americani e ne ispira ancora le azioni. La vecchia politica del navigatore di Boston, di “tentare tutti i porti”, e la formula più recente dei grandi pianificatori di “non fare progetti ridotti” rappresentano una tradizione di Megalopoli, piena di vigore e di determinazione, basata su un’esigenza di sperimentazione coraggiosa e su una chiara fiducia nel successo finale dello sforzo umano.

Dietro allo sviluppo di questa regione sta un’era di grandi scoperte e di fervidi dibattiti religiosi: essa ha raggiunto la sua supremazia attuale in un tempo in cui il genere umano, soddisfacendo un antico sogno, ha aperto ancora una volta i cancelli della scoperta e dell’esplorazione: questa volta in mondi ancora nuovi come sono gli altri pianeti. Oggi ci viene ricordato costantemente che le idee precedono e foggiano l’aspetto di “fatti” nuovi. Un antico filosofo di Alessandria, il giudeo Filone, c’insegnò che esiste una grande città di idee che predetermina e dirige il mondo materiale in cui viviamo, e questa grande città delle idee fu chiamata da Filone Megalopoli. Perciò sembra particolarmente conveniente applicare lo stesso nome a questa straordinaria regione, il cui aspetto e il cui stile attuale nacquero dalla fede e dai tentativi di coloro che vi si stanziarono per portare un nuovo ordine ai loro fratelli sulla terra.

Risorse senza limiti: una filosofia dell’abbondanza.

Che genere di nuovo ordine era questo? Ogni gruppo certamente se lo raffigurava a modo suo, ma doveva essere un “ordine migliore”, un ordine di abbondanza e di giustizia, nel quale le genti sarebbero state felici, nel quale la ricchezza avrebbe regnato e sarebbe stata equamente distribuita. Nel loro fervore religioso le varie comunità erano perfettamente consapevoli della necessità di un successo materiale che dimostrasse la loro verità a tutto il mondo. L’approvazione divina alla loro condotta si sarebbe manifestata in una prosperità generale. Per raggiungere questa prosperità erano tutti preparati a lavorare duramente, risparmiando fatica quando fosse possibile, perché gli uomini erano pochi e il continente immenso, perché anche il compito era enorme, e tutti i sistemi per accrescere il benessere della comunità e la sua capacità di produzione sarebbero si credeva piaciuti a Dio.

A queste idee iniziali la natura dei tempi aveva dato una grande spinta. La costa nord-orientale fu colonizzata allorché l’era delle grandi scoperte ampliò gli orizzonti in tutte le direzioni, e fece esplodere una vasta espansione commerciale. I primi stanziamenti del diciassettesimo e diciottesimo secolo si svilupparono di fronte alle spiagge orientali dell’Europa, in un’epoca in cui gli abitanti di quest’ultima stavano aprendo in varie direzioni nuove strade del progresso scientifico e tecnico e davano vita all’illuminismo. Le città di Megalopoli iniziarono a svilupparsi con la rivoluzione industriale e con un grande sconvolgimento delle migrazioni e dei consumi di massa.

Megalopoli assorbi avidamente ogni novità di qualunque tipo. Lo sviluppo commerciale, l’industrializzazione, la meccanizzazione, la motorizzazione, e l’automazione, tutto fu messo in opera su larga scala. Il “nuovo ordine” che doveva svilupparsi - precisamente perché fondato sui risultati della rivoluzione industriale - poteva essere soltanto un ordine urbano. La vecchia economia rurale, che predominava nei vecchi paesi e da cui provenivano la maggior parte dei colonizzatori o gli ultimi emigranti, era inadatta a sostenere il genere di vita che la costa nord-orientale aveva incominciato ad assicurare.

Non si possono trovare risorse illimitate in qualsiasi area agricola, e fu l’economia urbana, inizialmente basata su un commercio attivo, a sviluppare in misura quasi illimitata la ricchezza della popolazione. Il continente era colonizzato e sviluppato; ma Megalopoli non poteva solamente servire da base principale per il suo impulso economico. Assetati di maggiori forniture e di maggiori mercati, i commercianti di Megalopoli organizzarono una produzione sempre più grande in patria e fuori. E allorché gli utili di questa attività furono raccolti, essi furono immessi sul mercato e spesso trasformati in necessità, attraverso processi a cui spesso abbiamo fatto riferimento in questo volume. La ridistribuzione degli utili è sempre stata la funzione del mercato e delle economie urbane.

Dall’accumulo di ricchezza e di mezzi di produzione conseguiva un certo sperpero. Il consumo di massa ebbe una grande spinta in avanti dall’organizzazione della pubblicità e del credito su larga scala, dall’obsolescenza incorporata, e da tutto il funzionamento del mercato dei mezzi di diffusione che resta concentrato nei principali centri di Megalopoli. E necessario comprendere che una simile filosofia dell’abbondanza, poteva portare solamente ad uno sviluppo urbano e a una espansione su larga scala. Ma portò anche a una specializzazione costante - e in rapida metamorfosi - di una grande parte della forza lavoro di Megalopoli, verso quelle occupazioni, cioè quei settori dell’attività economica, che pagavano meglio o che stavano allargando la loro richiesta di manodopera. Da un’economia che si basava sull’equilibrio agricoltura-commercio, Megalopoli passò ben presto a dare maggiore importanza a una combinazione d’industria più commercio. Nel ventesimo secolo le industrie terziarie avevano invaso la regione e la maggior parte della forza lavoro era passata alle occupazioni dei white collars. Nel 1960 i maggiori centri erano specializzati in quelle che possono essere dette le forme quaternarie dell’attività economica: le funzioni direttive e artistiche, il governo, l’istruzione, la ricerca e la mediazione di tutti i tipi di merci, servizi e titoli.

Simili attività sono sempre state concentrate nei quartieri degli affari, nelle downtown, nelle piazze di mercato che caratterizzano il centro urbano, nella City. Per un secolo almeno e forse di più, Megalopoli è stata in prima linea per il progresso e la raffinatezza dell’economia urbana. La sua fortunata espansione fa pensare che la sua dinamica abbia aderito esattamente ai principi base di ogni sviluppo urbano.

Vi è nella meccanica di ogni città l’esigenza della produzione di surplus, di una grande mobilità negli equilibri fra necessità e risorse, come pure una fluidità sufficiente nella natura stessa delle risorse che procurano un reddito. L’abbondanza di merci e di denaro è pure un’antica specialità della città. Il confluire di molte correnti di forniture e di traffico è necessario per ottenere una tale abbondanza, che non sarà limitata solo a poche merci prodotte localmente. Tuttavia, le città non hanno sempre raggiunto una equa distribuzione delle loro abbondanti forniture. Gli Stati Uniti possono ritenere di essere la prima grande nazione che ha raggiunto un alto grado di ricchezza generale abbastanza ben distribuita tra la popolazione e non vi è dubbio che questa ricchezza la si dovette non tanto alla estensione e alla fecondità della terra quanto al dinamismo dell’economia urbana sviluppata a Megalopoli e fondata sulla amministrazione della ridistribuzione.

Il grande impeto tecnologico del periodo nel quale Megalopoli si sviluppò fu un fattore importante, e le ricchezze naturali del continente americano furono solo strumentali. Eppure, molte nazioni nello stesso arco di anni vissero la loro storia senza avere uno sviluppo economico simile a questo, anche se talvolta avevano doni naturali altrettanto ricchi di quelli degli Stati Uniti. In effetti sono stati appena scoperti e studiati in parecchi continenti, vasti giacimenti petroliferi, immensi giacimenti minerari e vaste distese di terreno fertile. Ma la ricerca e lo sviluppo di tutte le risorse possibili nei paesi che erano nell’orbita di Megalopoli (e che in parte coincisero durante gli ultimi 150 anni con l’orbita di Londra) non fu compiuta dal resto del mondo. Se ci dovessimo chiedere “perché” e tentare una risposta, dovremmo certamente metterla in relazione non tanto col desiderio di raggiungere una produzione più ampia quanto con la sicurezza di espandere il consumo (persino in un modo rovinoso, se necessario) come fattore costruttivo dello sviluppo economico. Tra uno o due secoli lo storico dell’economia che studiasse un resoconto dettagliato del passato, potrebbe concludere che la ricchezza naturale degli Stati Uniti, specialmente ad est delle Montagne Rocciose, non era nulla di eccezionale; potrebbe persino apparire, allora, al di sotto della media. Ma l’abbondanza di risorse con la quale la sua gente l’ha messa a profitto sotto la guida dei centri megalopolitani, potrà anche allora apparire eccezionale.

Che cosa riserverà il futuro, è un problema a cui si deve rispondere in altra sede. Possiamo tuttavia domandarci quanto sia valido l’insegnamento che Megalopoli, con il suo passato e con il suo presente, offre alla sua popolazione e alla popolazione di altre terre.

Il nuovo ordine: come esportarlo?

Sarebbe certamente piaciuto immensamente ai padri fondatori delle città di Megalopoli scoprire che il modo di vivere e l’organizzazione economica che si sono sviluppati qui servono ora da modello ad alcune altre parti del mondo che stanno vivendo lo stesso processo di urbanizzazione.

Le tendenze attuali non sono tuttavia cosi semplici. Il processo di sviluppo urbano alla nostra epoca è un fenomeno di portata mondiale ed è fonte di preoccupazione per molti governi e comunità. In ogni regione questo sviluppo si manifesta secondo linee specifiche, la maggior parte delle quali differiscono da luogo a luogo; ogni comunità ha una sua propria varietà di problemi abituali, e il suo modo e i suoi mezzi per affrontarli. Queste caratteristiche locali e singolari devono essere rispettate. Ma conoscere i problemi più o meno simili di altri luoghi, e il modo in cui essi sono stati affrontati, è di grande aiuto; e ciò che s’impara in questo modo può servire a risolvere i problemi di un’area qualsiasi nel modo che le è più congeniale.

Naturalmente i paesi che si trovano a fronteggiare i problemi dell’urbanizzazione moderna per prima cosa guardano ai precedenti e agli esperimenti tentati nelle aree che hanno assunto una posizione di guida. Ai tempi nostri Megalopoli viene quindi studiata ed esaminata perché molti dei suoi vari problemi si ripetono e si ripeteranno, con alcune varianti e su scale diverse, nella maggior parte degli altri paesi. Che l’azione da lei intrapresa riguardo ad un qualsiasi problema umano o suburbano dia garanzia o meno di successo, Megalopoli sa che essa verrà anche esaminata da molti a lei estranei, alcuni dei quali la copieranno solo per il prestigio di cui la regione gode al momento attuale, mentre altri ne potranno ottenere suggerimenti per apportare delle migliorie alle tecniche ivi applicate. Qualunque cosa si faccia, qualunque sia il suo valore reale, per le persone interessate, l’esempio di Megalopoli sarà seguito più spesso di quanto si creda. Gli osservatori che viaggiano oggi per il mondo riferiscono di molti esempi, osservati in aree completamente diverse, della evidente influenza esercitata dai metodi americani di trattare i problemi urbani; e poiché Megalopoli resta il più imponente e il più vasto sistema urbano, poiché è la facciata principale degli Stati Uniti verso il mondo esterno, sono soprattutto gli esempi di Megalopoli quelli che caratterizzano tante città e tanti paesi di tutto il globo.

Chi scrive ha ultimamente viaggiato a lungo attraverso il Nord America, l’Europa occidentale e alcuni paesi mediterranei. Dappertutto ha trovato città in espansione. Le aree metropolitane più vaste attirano la parte più grande della massa della popolazione. Le città si estendono l’una verso l’altra. La struttura nebulare delle regioni urbanizzate sta diventando frequente e suggerisce una nuova ridistribuzione delle funzioni all’interno di queste regioni. L’utilizzazione del suolo a scopo residenziale sta guadagnando terreno in tutte le direzioni attorno ai più vecchi nuclei sovrappopolati. I nuclei più densamente popolati non si specializzano più nell’industria e nell’amministrazione come facevano un tempo. Le industrie produttive spesso si spostano verso la periferia della città e oltre. in zone che fino a poco tempo fa erano considerate rurali o interurbane. Le funzioni che continuano a raggrupparsi in quelli che possono essere chiamati i distretti centrali o centri della “nebula " urbana sono gli uffici, i laboratori, e tutte le attività legate alle varie forme di divertimento. Come ai tempi dell’antica Roma, l’arena e il foro nella loro versione moderna, occupano una parte sempre più grande del centro. I divertimenti e gli uffici sono legati gli uni agli altri, e prosperano per questa vicinanza. Essi creano un vasto mercato per il lavoro dei white collars. Tutte queste tendenze ebbero inizio molto presto e si sono già sviluppate su larga scala a Megalopoli. Le forze che producono questa evoluzione sono radicate in una profonda trasformazione dei moderni modi di vita e di habitat.

Queste tendenze danno una grande responsabilità agli attuali abitanti e alla classe dirigente di Megalopoli. Sotto molti punti di vista essi possono essere giustamente orgogliosi di servire da modello. Tuttavia devono ricordarsi delle conseguenze a lunga distanza di queste tendenze. Gli uomini imitano quelli che sono più ricchi, più potenti e che hanno avuto maggior successo di vita nella speranza di raggiungere, attraverso una tale imitazione, uno stato migliore o per lo meno uguale. Il Mahatma Gandhi raccontò che nella sua giovinezza egli tentò di mangiare la carne di bue, nonostante la sua profonda ripugnanza, nella speranza di poter diventare intellettualmente e politicamente uguale agli Inglesi, mangiatori di carne di bue, che allora dominavano l’India. Egli comprese presto che non era quello il modo di risolvere il suo problema. Può darsi che Megalopoli provi una certa ansietà al pensiero che una imitazione istintiva e irragionevole dello stesso genere possa svilupparsi e si svilupperà; ma nel campo dei problemi urbani e metropolitani non si possono impedire tali indesiderabili imitazioni. Ciò nonostante sussiste una certa responsabilità nel fatto di essere in prima linea, perché la condotta di colui che segue è influenzata dal capo.

La prima responsabilità degli abitanti di Megalopoli è, tuttavia, verso loro stessi. Se essi sono soddisfatti di avere fatto tutto quello che era in loro facoltà di fare, e nel modo migliore, per governare la loro regione e risolvere i loro problemi, allora essi possono affrontare coraggiosamente il giudizio del resto del mondo, oggi e domani. Se essi rimangono fedeli alle loro tradizioni, se essi, comunità e individui, continuano con lo stesso entusiasmo egli stessi sforzi del passato, a lottare per costruire nel deserto di questo complicato, duro e mutevole mondo una città migliore, allora si potrà guardare con ottimismo al futuro di Megalopoli. Tuttavia questa fiducia esige dubbi continui, esami di coscienza e autocritica da parte di tutti. Se dovessero instaurarsi autocompiacimento e rassegnazione, il grande esperimento di Megalopoli sarebbe compromesso e l’equilibrio del nostro mondo ne verrebbe alterato. (estratto da Vol II, pp. 943-952)

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