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Titolo originale: Urban Archipelago – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Sta succedendo qualcosa in Kansas: il 5 aprile i cittadini dello Stato del Girasole hanno sostenuto massicciamente la meschina proibizione dei matrimoni fra cittadini dello stesso, e stipato i consigli scolastici con altri personaggi che vogliono insegnare il creazionismo. Me lo stesso giorno i progressisti hanno spazzato via tutti i posti disponibili a Lawrence, una delle città in più rapida crescita dello stato, in base a una piattaforma che prometteva di combattere la discriminazione, proteggere l’ambiente, aumentare le case popolari. Il nuovo sindaco di questa città di 80.000 abitanti, Dennis “ Boog” Highberger, si è insediato dichiarando che “non ci sono molti posti dove un disabile ex hippie con un nome ridicolo può diventare sindaco”. Il giorno dopo ha inaugurato una chat line coi cittadini di Lawrence col messaggio: “Salve, cittadini! Che inizi la bolgia!”.

Lawrence, oasi di istruzione superiore e di economia high-tech in quello che grazie al libro del 2004 di Thomas Frank è lo stato conservatore più famoso della nazione, non è esattamente uscita di senno. Highberger e gli altri eletti sostenuti da Progressive Lawrence - un gruppo locale che due anni fa ha strappato il governo a forze più conservatrici favorevoli allo sviluppo edilizio – si sono concentrati fondamentalmente su strategie di “ smart growth” contro l’insediamento disperso, collaborando con le forze locali per migliorare l’erogazione di servizi e promuovere la tolleranza in uno stato dove questo può generare discussioni. “Non abbiamo esattamente ribaltato del tutto il “ Cosa succede in Kansas?”, ma ci stiamo lavorando” scherza Highberger, un avvocato che ha convinto Lawrence a condannare ufficialmente il Patriot Act, ma che passa la maggior parte del suo tempo in impegni municipali come finanziare i servizi di biblioteca o acquisire nuovi terreni a parco. “Le cose che succedono a Washington e Topeka sono piuttosto astratte, e di solito frustranti. Quando prendiamo una decisione in commissione municipale – sulla tutela dell’ambiente, o sul trattare bene le persone – la gente avverte che qualcosa è cambiato nel proprio cortile, il giorno dopo. È la politica locale il posto per i progressisti”.

Varianti del caso di Lawrence si rappresentano in tutto il paese, con leaders locali e coalizioni che danno forma e nuove e più aggressive politiche in quello che si sta iniziando a chiamare un “arcipelago urbano” di grandi centri metropolitani, vecchie città industriali e centri universitari che rappresentano isole blu progressiste su una mappa elettorale che sembra un mare rosso di convervatorismo. Si tratta di isole piuttosto affollate, con voti a sufficienza per influenzare la politica ben oltre i propri confini, e restano i bastioni del liberalismo americano: tutte le città con più di 500.000 abitanti hanno votato per John Kerry nel 2004, così come circa la metà di quelle fra 50.000 e 500.000. Praticamente in tutti glia stati che hanno sostenuto il candidato democratico alla presidenza lo scorso anno – anche nei tradizionali capisaldi democratici come Illinois, New Jersey e Michigan – è stato solo grazie alle forti maggioranze nelle aree urbane che ha prevalso Kerry. In un’epoca in cui il governo federale è dominato da repubblicani di destra, e i governi statali liberali sono rari, le città eleggono una nuova generazione di progressisti: una tendenza ben evidenziata il 17 maggio, quando la seconda città del paese, Los Angeles, ha sostituito un cauto e curiale sindaco democratico col progressista Antonio Villaraigosa.

Non sorprende, che la politica delle città tenda a sinistra. Le città, più dei sobborghi o delle zone rurali, tendono ad essere la casa di chi sta meno a suo agio nell’America di George W. Bush: minoranze razziali, gay e lesbiche, immigrati, sindacalisti, lavoratori a bassissimo reddito e i giovani professionisti i cui quartieri “ new urbanist” hanno rinnovato i centri città da Providence a San Diego. Le città, anche, hanno problemi che non si risolvono col libero mercato in cui i conservatori ripongono la propria cieca fede: povertà, violenza, scuole degradate e industrie sfasciate dal NAFTA. E in un’epoca in cui sempre più spese federali si orientano verso il settore militare e i tagli alle tasse per i ricchi, le vecchie sfide diventano nuove crisi. Il 78% dei sindaci intervistati dalla US Conference of Mayors hanno rilevato aumenti nel numero delle domande di alloggi d’emergenza nel 2004, e più dell’80% affermava che mancavano fondi adeguati alla domanda. L’assalto dell’amministrazione Bush ai finanziamenti per lo sviluppo delle città blocca i prestiti per le iniziative di trasporto pubblico e la casa, e i carichi aggiunti per le scuole urbane dal No Child Left Behind Act, rendono le prospettive di soluzione dei problemi urbani più fosche che mai.

Nonostante queste sfide, e in alcuni casi grazie ad esse, un numero crescente di progressisti si sta imponendo a livello municipale. “I governi locali sono l’unico posto dove le idee progressiste possono entrare in azione” dice il sindaco di Madison, Wisconsin, Dave Cieslewicz, quarantaseienne, ex coordinatore di un ufficio si gabinetto al Senato e leader ambientalista, che è stato eletto nel 2003. “È nelle città, che si può aprire un varco fra i grandi interessi, i grandi mezzi di comunicazione – insomma le cose sbagliate della nostra politica – e catturare l’immaginazione del pubblico”. Purtroppo, dice, le organizzazioni tradizionali degli amministratori locali sono state lente a cogliere l’onda della resistenza municipale al movimento conservatore nazionale. “Dopo essere stato eletto, sono andato alla mia prima conferenza USA dei sindaci, ed era orribile. L’influenza delle imprese era ovunque” dice Cieslewicz, ricordando una cena dove camioncini giocattolo con il logo della Waste Management, Inc. servivano da segnaposto. “Eravamo lì, con davanti tutti i tagli possibili ai programmi per l’istruzione, i trasporti e la casa, cose essenziali per le città, e non avvertivo alcun senso di urgenza”.

Cieslewicz iniziò a lavorare per costituire un gruppo che aiutasse i sindaci progressisti ad affrontare la politica in modo serio. Alla prima riunione del gruppo “ New Cities” organization, a febbraio, arrivarono i sindaci di Milwaukee, Salt Lake City, Berkeley e nove altri. Alla seconda, che si terrà il 9 giugno a Chicago, alla vigilia della Conference of Mayors di quest’anno, potrebbero partecipare un paio di dozzine di sindaci per discutere come “cogliere l’attimo” determinato dalla salita dei costi energetici. Si vuole accogliere la proposta del Progetto Apollo, iniziativa sostenuta da gruppi sindacali e ambientalisti per ottenere indipendenza energetica, applicandola a livello locale. Un altro gruppo, ispirato a valori simili ma con strategie differenti, vuole lanciare dal primo giugno la campagna “Riprendiamoci l’America” alla conferenza di Washington, DC, sostenuta dalla Campaign for America’s Future.

Cities for Progress ( www.citiesforprogress.org), una emanazione del movimento Cities for Peace del 2003 – che aveva visto 140 comunità, dai villaggi dell’Alaska a New York City, esprimere opposizione alla corsa di Bush all’invasione dell’Iraq- lancerà una campagna per far cooperare gli eletti e le comunità che rappresentano, a influenzare le politiche nazionali. “È più chiaro che mai che le decisioni prese a Washington influenzano la mia possibilità di svolgere il mio lavoro” dice il consigliere di Chicago Joe Moore, che ha collaborato con lo Institute for Policy Studies a sviluppare la rete di Cities for Progress. “Non posso sistemare le cose nei quartieri di Chicago se non faccio la mia parte per assicurarmi che Washington faccia la cosa giusta”.

L’idea delle città generatrici di politiche progressiste non è nuova. A cavallo dell’inizio del secolo scorso, sindaci come quello di Cleveland Tom Johnson, di Toledo Samuel “ Regola d’Oro” Jones, o di New York City Seth Low, erano conosciuti come leaders progressisti a livello nazionale. Negli anni ’60 a New York John Lindsay, a Boston Kevin White e a Cleveland Carl Stokes erano indicati come potenziali Presidenti o Vice Presidenti. Con l’ottimismo degli anni ’60 che si offuscava insieme alle sue città modello e ai programmi di rinnovo urbano, le città scomparvero dalle notizie, tranne quando si trattava di violenza, corruzione, bancarotta. I sostegni federali si prosciugarono. Il suburbio si espandeva all’esterno. Gli stati presero possesso dei distretti scolastici urbani, togliendo il potere dalle mani degli eletti in sede locale. Se le cariche di sindaco erano state piattaforme di lancio per carriere politiche (l’ex Vicepresidente Hubert Humphrey era diventato famoso a livello nazionale come sindaco riformista di Minneapolis; Moon Landrieu saltò dalla politica municipale a New Orleans alla carica di ministro per Housing e Urban Development con Jimmy Carter) quel lavoro iniziò ad essere visto sempre più come un vicolo cieco, evitato dai politici più ambiziosi.

Ma negli anni recenti, le cose hanno cominciato a cambiare. Dopo tre tentativi falliti alle presidenziali, l’ex governatore della California Jerry Brown è andato a Oakland, dove ha rinnovato la propria carriera politica e la città, come discusso ma sempre presente sindaco. L’ex deputato Tom Barrett del Wisconsin è diventato sindaco Democratico di Milwaukee lo scorso anno. “Essere un Democratico al livello statale o nel Congresso di questi tempi, significa avere solo la possibilità di rosicchiare i margini” spiega il sindaco di West Palm Beach, Florida, Lois Frankel, che è stato portavoce dell’opposizione al parlamento statale della Florida prima di fare il salto verso la politica municipale. “Essere un sindaco forte è il miglior ruolo politico al momento. È più vicino alla realtà. Si possono fare le cose in fretta, si può davvero influenzare la qualità della vita”.

L’ex sindaco di Irvine, California, Larry Agran, ora consigliere municipale nela stessa città di 175.000 abitanti della Orange County, conferma questo punto di vista. In una contea che ha votato per Bush con un margine 60-39 nel 2004, Agran e i suoi alleati progressisti hanno sviluppato programmi innovativi per gli asili, le case popolari, il riciclaggio e la conservazione degli spazi aperti, e soprattutto sconfitto i piani dei costruttori di trasformare una ex base dei Marines in un aeroporto internazionale. Quest’estate, lo spazio aperto recuperato di 2.500 ettari sarà ribattezzato Orange County Great Park. In quanto parco metropolitano più vasto del paese, consentirà agli abitanti della quinta contea più densamente popolata d’America di camminare dall’Oceano Pacifico alle montagne, attraverso un corridoio continuo di spazi verdi. Il progetto è stato reso possibile da battaglie legali, referendum, e dalla determinazione di Agran e altri a usare le risorse e i poteri della città per acquisire l’ex base militare al territorio comunale, negoziare col governo federale, e letteralmente estirpare le vecchie piste di atterraggio. È costato a Irvine circa 25 milioni di dollari, ma la città ne uscirà in attivo finanziariamente, dicono i consiglieri, grazie alla vendita di terreni adiacenti per insediamenti compatibili al parco.

L’elemento critico, sostiene Agran, è che “non abbiamo esitato a utilizzare gli strumenti di governo per realizzare politiche urbane. Questo è quello che possono fare i progressisti: utilizzare il governo locale per realizzare trasformazioni nel pubblico interesse”. Ma non pensate che sia facile. Agran ha dovuto affrontare ripetute sfide elettorali da parte di forze conservatrici che superavano drasticamente quelle progressiste come disponibilità di risorse. Ma a differenza di quanto accade nelle competizioni a livello statale e federale, i grandi interessi a livello locale si possono battere, dice. “In una città con una popolazione inferiore a un milione di abitanti, è possibile creare una rete di persone nei quartieri che contrasti calunnie e attacchi. “Un gruppo di dieci o venti persone impegnate può far molto; un gruppo di 300-400, come nel nostro caso, può vincere”.

Irvine non è l’unico posto dove i progressisti stanno realizzando trasformazioni fondamentali. Più di 120 città a livello nazionale, da Ashland, Oregon, a Camden, New Jersey, hanno approvato norme sui sostegni al reddito, aumentato i compensi orari sino a 12 dollari per i dipendenti delle imprese che lavorano con la municipalità. A Chicago, Moore sostiene un’ordinanza “Big Box Living Wage” che richiede alle catene come Wal-Mart di pagare i propri dipendenti dieci dollari l’ora più benefits. “È un’idea che non potrebbe prendere quota ora nel Congresso, ma che credo avrebbe parecchio seguito nelle città del paese” dice Moore, che progetta di diffondere l’idea dell’iniziativa attraverso la rete Cities for Progress. Le città non agiscono soltanto sul piano economico. Anche se i tentativi di finanziare pubblicamente alcune campagne sono frustrati a livello federale e statale, sono riusciti in alcuni diversi casi come Fort Collins, Colorado, o New York City. E 134 sindaci di 35 stati – compresi Repubblicani come Mike Bloomberg a New York o Alan Arakawa di Maui County, Hawaii – hanno fatto a livello locale quello che George W. Bush si rifiuta di fare a livello nazionale: hanno accettato gli obiettivi del Protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni di gas serra.

Come previsto, le forze conservatrici e di impresa che hanno rafforzato la propria presa su tanta parte degli apparati di governo, stanno cercando di impedire agli amministratori locali di impostare un ciclo progressista. Nel caso di più alto profilo di interferenza dall’alto, quando il sindaco di San Francisco Gavin Newsom e quello di New Paltz, New York, Jason West hanno cominciato a celebrare matrimoni per coppie di gay e lesbiche, a livello statale sono stati annullati, e il Presidente ha sostenuto un emendamento costituzionale per proibire i matrimoni fra cittadini dello stesso sesso. “I conservatori e lobbisti delle corporations si dichiarano tutti in favore dell’autonomia locale, ma la verità è che un autentico controllo in sede locale li terrorizza” dice Cieslewicz di Madison. “A livello municipale possiamo aprire nuovi fronti, mostrare cosa può essere fatto, impostare tendenze che poi crescono”. Cieslewicz usa l’esempio della decisione di Madison di fissare un compenso minimo in sede locale, che raggiungerà i 7,75 dollari l’ora nel 2008. Altre città del Wisconsin hanno seguito rapidamente l’esempio, facendo pressioni sullo stato per aumentare le paghe minime. “Così le città cominciano, lo stato raccoglie, e quando abbastanza stati approvano gli aumenti dei minimi, la pressione si fa sentire sul governo federale” dice Cieslewicz.

I responsabili del movimento Cities for Progress vogliono istituzionalizzare questo tipo di pressione facendo in modo che le città approvino risoluzioni per porre fine alla guerra, o per lo sviluppo di un sistema sanitario nazionale universale. Offrendo assistenza organizzata a politici locali progressisti e collegando le iniziative l’una all’altra, Cities for Progress spera di creare una crescita dell’attivismo urbano. “Vogliamo che la gente si tolga dalla testa l’idea che lavorare a livello locale o a livello nazionale siano due cose diverse” dice Malia Lazu, direttore operativo nazionale.

Stimolare il cambiamento non è solo un problema di politiche; può anche significare la trasformazione di immagine del potere politico. “Il modo migliore per il Partito Democratico di rinnovare se stesso è di riconoscere che la prossima prospettiva di Great Society [ slogan anni ’60 del presidente Lyndon Johnson, n.d.T.] verrà dalle città, e verranno da lì anche i leaders della nuova generazione di Great Society “ dice il consigliere di New York City Bill Perkins. Il gruppo progressista nazionale Progressive Majority collabora ad eleggere rappresentanti locali che vogliano salire i gradini della politica. “È un modo di costruire una solida base” afferma il coordinatore di Progressive Majority del Colorado, Joe Miklosi, che ha lavorato con candidati locali nelle città di tutto lo stato. “Una volta vinto nella tua città, la gente impara a conoscerti, si fidano di te. Quando ti presenti per il parlamento statale o il Congresso, è più probabile che votino per te”.

L’idea di costituirsi una solida base, non è andata persa coi sostenitori del nuovo sindaco di Los Angeles. La vittoria di Villaraigosa il 17 maggio l’ha trasformato nella più brillante stella nascente latinoamericana della politica, stimolando un dibattito sul fatto che, entro il 2008, il suo nome apparirà nella lista ristretta dei candidati Democratici alla Vice Presidenza. Per gli americani che ancora sognano di poter portare politici progressisti ai livelli più alti, è logico iniziare a cercare candidati dove i progressisti sono già al governo. “Se ci si pensa, l’argomento a favore dei candidati governatori alle presidenziali è il fatto che hanno già governato”, dice Larry Agran di Irvine. “Beh, un sacco di sindaci governano città con popolazione superiore a quella di alcuni stati. Allora, perché non guardiamo alle città, per cercare candidati con idee progressiste? Non si guarda a Washington di questi tempi per trovare esempi di realizzazioni progressiste. Ma nelle città, è una faccenda diversa”.

Nota: il testo originale al sito di The Nation (f.b.)

«CARREFOUR a Fegino si può fare. Il Consiglio di Stato ci ha dato ragione, ora vogliamo una conferenza dei servizi specifica». I dirigenti di Gamma srl, la società promotrice di un insediamento urbanistico a Fegino da 80 mila metri quadri - con 24 mila destinati ad un grande centro commerciale del marchio francese Carrefour - dopo la sentenza che rimette in pista il loro progetto bocciato dal Comune (con conferma del Tar), rilanciano l´idea e le critiche, anche pesanti, contro il monopolio di Coop sul mercato della grande distribuzione in Liguria, posizione a cui in serata si aggiunge anche l´ex presidente della regione Biasotti. Convinti di poter avere un via libera che invece, sembra più remoto che mai nelle parole di Bruno Gabrielli, assessore comunale all´Urbanistica, tacciato anche di dichiarazioni "terroristiche" da Flavio Fasano, il battagliero avvocato pugliese che conduce la vicenda per conto della società promotrice, pronta a gestire anche l´ipermercato. «Dicono che possiamo fare una variante al Puc, ed è vero: ma si tratta di vedere se vogliamo farla, e io penso proprio di no, viste le indicazioni che abbiamo già dato - spiega Gabrielli - Facciano istanza per la conferenza dei servizi, rivedremo le loro carte, e spiegheremo per filo e per segno le ragioni della nostra posizione. Io terrorista? Divertente, detto ad uno mite come me... «. «Nessuna chiusura a priori, restano i vincoli di ordine urbanistico e commerciale» ribadisce Mario Margini, neoassessore al commercio. Mentre alla conferenza stampa di Gamma, ieri mattina al Jolly Marina, tra gli altri appare Gianfranco Gadolla, l´ex consigliere regionale di An che aveva promosso un emendamento al piano commerciale regionale - scomparso poi nelle nebbie della commissione - che prevedeva, appunto, l´insediamento di Fegino, in deroga ai limiti esistenti per nuovi insediamenti di tali dimensioni.

Fasano si spinge un po´ tanto in là, insiste sul Comune e le Coop che considerano la grande distribuzione "cosa nostra" e poi si corregge "casa nostra"; fa capire che bisogna smetterla con i privilegi, che loro hanno le carte in regola per costruire un insediamento di oltre 80 mila metri quadrati, 24 mila dei quali adibiti a centro commerciale, nell´area ex Continentale Italiana sulla collina di Fegino in Val Polcevera, una zona già caratterizzata da un´alta densità di ipermercati e attività commerciali, a rischio "tappo" continuo nonostante la strada di sponda. Ma Franco Cardinali, presidente della società, parla di riqualificazione di una zona abbandonata, sottolinea i 25 mila metri quadri di verde; siamo disposti, dice, anche a farci carico della spesa per la modifica della viabilità. «E´ un problema di metodo e non di merito: il Consiglio di Stato non ha infatti contestato il no al Carrefour, ma solo l´iter attraverso il quale ci si è arrivati» precisa Margini, che sottolinea il permanere dei vincoli urbanistici e commerciali. Tutti i progetti di riqualificazione privati sono ben accolti, ma «rappresentano e tutelano interessi appunto privati, mentre l´amministrazione deve rappresentare e tutelare gli interessi della città». E dove secondo il Puc non si possono costruire insediamenti commerciali oltre i 3000 metri quadri, come se ne possono accettare 24 mila?

Titolo originale: Malls and malls – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Per mantener fede agli impegni della Cina col WTO, in dicembre il Ministero del Commercio ha eliminato i vincoli alla localizzazione commerciale (che può avvenire ovunque), alla struttura di impresa (non si richiede più che sia una joint venture) e alle quantità di capitale (da 10 milioni a 300.000) per le attività straniere.

Le riforme sono state particolarmente benvenute dai grossi operatori commerciali d’oltremare ansiosi di gestire le proprie attività con l’immagine di impresa a proprietà interamente straniera [WFOE/ wholly foreign-owned enterprise], e non ultimo per la possibilità di liberarsi del peso morto dei soci di joint-venture, aumentare l’efficienza, e spesso tagliare i costi.

Ma se sono continuati ad arrivare annunci da parte dei giganti stranieri – come quello di Wal-Mart dello scorso mese, che progetta di aprire tre nuovi megastores Supercenter a Pechino – le quantità di capitale inferiori richieste sollevano il problema di quale posto troveranno nel quadro generale le catene internazionali di dimensioni più contenute.

Il fatto è, commenta un analista, che c’è solo una manciata di centri commerciali di livello internazionale in tutta la Cina, mentre continuano a sorgere malls di qualità e progettazione inferiore, anticipando un infinito boom dei consumi, coi costruttori che tentano di sfruttare la liberalizzazione commerciale prima degli operatori delle grandi catene.

”È sconcertante che con tutta l’offerta che esiste, e anche con quella in corso di costruzione, non vengano attirati questi operatori commerciali” dice Bryn Davis, analista immobiliare per la CBRichard Ellis, a Pechino. “Ci sono circa 20 centri commerciali in Cina con queste caratteristiche: tre o quattro a Pechino, uno o due a Dalian, Guangzhou e Shenzhen. I rimanenti sono a Shanghai”.

Gli esperti vedono un crescente malessere rispetto ai centri commerciali, visto che non esistono malls di qualità a sufficienza, e un sovrappopolamento di altri di basso livello, che diluiscono le prospettive commerciali per tutti.

Detto questo, Shanghai ha più centri commerciali, buoni e meno buoni, di qualunque altra città cinese. E con spazi commerciali non utilizzati ridotti al solo 5%, Shanghai sta diventando cara per gli standards cinesi. Alcuni operatori di medio mercato, come la giapponese Mitsukoshi, per esempio, stanno pensando di espandersi altrove, in città come Chongqing nel profondo dei territori interni. Le catene più orientate a un mercato di massa hanno aperto la strada dell’interno per anni. La Metro dalla Germania, ad esempio, si è spinta sino a Wuhan nella provincia centrale di Hubei e ora vanta 20 punti vendita in tutto il paese. Anche la francese Carrefour, è stata presente a Wuhan e in alte città interne per anni, talvolta in joint venture con le amministrazioni locali prima della liberalizzazione da Pechino, e altre volte a mortificazione delle regole, va detto.

Shanghai resta la grande calamita, ed è per questo che ci sono più malls di qualità che ovunque altrove. La britannica Tesco l’anno scorso ha comprato il 50% dello Hymall di Shanghai a 260 milioni di dollari USA.

Il più grosso e attivo giocatore emerso di recente è la CapitaLand di Singapore. Attraberso la sua controllata CapitaRetail, ha appena comprato il nuovo Anzhen Shopping Mall e il centro Wangjing di Pechino (questo ancora allo stato di work in progress) per 1,746 miliardi ($ 210,36 milioni) – dal grande operatore nazionale Hualian.

CapitaLand ha già lasciato il segno anche a Shanghai, costruendo la sua torre di Raffles City a 54 piani nel cuore della città – e fissando la nuova quota di affitto commerciale a 5 dollari al metro quando ha aperto il complesso nel 2003. Per i costruttori stranieri ora, l’obiettivo è di realizzare super-centri commerciali con anchors famosi a livello mondiale come Wal-Mart, con accanto strutture “ big-box” che possono normalmente ospitare giganti del fai da te come Home Depot. (I centri commerciali saranno dotati di parcheggi, ma niente di paragonabile alle dimensioni dei parcheggi americani o europei, perché la proprietà dell’auto, anche se in rapida crescita, è ancora molto indietro rispetto all’Occidente).

Un’audace fusione

L’anno scorso, con la sua mossa sinora più audace, la CapitaLand si è associata al braccio di investimenti di Shenzhen, lo Shenzhen International Trust & Investment Co Ltd (SZITIC) che aveva già un accordo in corso con Wal-Mart.

I due soci avevano aperto 10 negozi Wal-Mart prima che CapitaLand entrasse in scena. Ora i progetti prevedono l’apertura di una serie di altri negozi nei prossimi cinque anni. Sottovalutando l’importanza di Shenzhen nel complesso della sua campagna, Wal-Mart, che compra in Cina gran parte di quel che vende, annunciò che stava spostando il proprio quartier generale per l’Asia da Tokyo alla boomtown di Guangdong.

Mettere un tetto sulla testa di inquilini miniere d’oro come Wal-Mart è critico per la strategia di CapitaLand, il principale costruttore internazionale d’Asia, che al momento ha 6,8 miliardi di yuan, ovvero l’8% del proprio portafoglio globale, investiti in Cina, il proprio secondo obiettivo estero di mercato dopo l’Australia. E gli investimenti sono destinati a crescere.

”Stiamo cercando le possibilità di acquisire centri commerciali a Shanghai, dato che è una grande metropoli commerciale”, ha dichiarato il presidente del CapitaLand China Holdings, Lim Ming Yan. “Sono in corso negoziati. Probabilmente raddoppieremo gli investimenti nel prossimi anni per espandere il nostro patrimonio immobiliare in Cina”.

Questo dovrebbe aiutare ad aumentare le quantità di centri commerciali di serie A. E se ora l’appunto principale di Davis della CBRichard Ellis è la carenza di questo tipo di servizi, non ha perso entusiasmo per le possibilità delle riforme WTO. Il 97% di tagli riguardo alle disponibilità di capitale apre una ampia serie di opportunità. E lo stesso fanno le altre deregulations riguardo all’uso obbligatorio di distributori cinesi, che tanto spesso avevano determinato danneggiamenti e smarrimenti di merci in transito.

”Tutti guardano alla Cina, adesso” dice Davis, “anche gente che non pensava di aprire qui. Le riforme eliminano enormi ostacoli. Se solo il 25% di loro verrà in Cina, si creerà un mercato gigantesco”.

Se si è aperta la strada ad attività interamente straniere, alcuni analisti cinesi si aspettano che queste rappresentino più l’eccezione che la regola, “Gli stranieri dipenderanno da soci cinesi per costruirsi accessi a basso costo e basso rischio alle reti di attività”, ha osservato sul China Daily Li Fei, professore alla Scuola di Economia e Management dell’Università di Tsinghua. “Il mercato cinese è complesso, e il territorio vasto rende più sicuro ed efficiente per gli stranieri avere la collaborazione di soci locali”.

Tony Wong, presidente della Lifestyle Company, operatore di boutiques dei centri commerciali di Shanghai, è d’accordo, suggerendo solo che la riduzione delle quantità di capitale è più importante della revisione delle norme sulle imprese a proprietà completamente straniera. Questa riduzione faciliterà l’ingresso di marchi come Prada, dice. “Ma c’è ancora bisogno di soci locali: è un mercato difficile da penetrare, altrimenti”.

Come Davis, Wong è preoccupato per l’attuale “mania” dei centri commerciali. “Ce ne sono troppi. Sono troppo grandi e troppo vicini l’uno all’altro. Il tipo di consumo cinese è diverso da quello dell’America. Il grande mall è un fenomeno solo americano; nemmeno europeo” dice.

I costruttori che pensano di costruire i centri commerciali più grandi di tutti i tempi saranno perplessi, dice, perché i consumatori non vogliono scarpinare per corridoi senza fine. “Nemmeno i commercianti li amano” aggiunge. “Questi malls resteranno vuoti”.

Ed è la dimensione, la parola chiave di questo costruttore. La Lifestyle realizza e gestisce proprietà immobiliari a Shanghai del tipo che Wong chiama “ lifestyle centers” e cerca una dimensione a scala umana per andare incontro ai bisogni dei consumatori, e a quelli dei commercianti di media dimensione che entrano nel mercato.

Per quanto riguarda lo spesso dimenticato mercato interno del paese, Wong prevede che gli ostacoli per gli investimenti stranieri resteranno ancora per qualche tempo: soprattutto a causa del comportamento tradizionale dei consumatori. “C’è meno spesa in beni voluttuari, e di più in divertimenti” dice.

Nota: qui il testo originale al sito della China Economic Review (f.b.)

Titolo originale: Dream machines – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

“La Cina ha inziato ad entrare nell’epoca dell’auto come bene di consumo di massa. Si tratta di un grande e storico passo in avanti”. Così dichiarava l’agenzia di informazioni statale Xinhua lo scorso anno. Gli ambientalisti possono avvertire un brivido di paura, per questa sbocciante storia d’amore coi motori. Ma in Cina è in corso una rapida trasformazione economica e sociale, e l’automobile la sta guidando.

Nel 2002 la domanda di auto è cresciuta del 56%, molto più che nelle più rosee previsioni. L’anno successivo c’è stata un’accelerazione sino al 75%, prima di rallentare nel 2004 (quando il governo ha reso più rigide le norme per il credito agli acquirenti di automobili) a circa il 15%. Ma in un mercato globale a passo di lumaca, la domanda cinese resta ipnotizzante. Pochi credono che quest’anno scenda sotto il 10%. Sin quando l’economia continuerà a galoppare all’attuale passo, molti ritengono che le vendite di automobili si incrementeranno del 10-20% annualmente, per parecchi anni a venire.

Cifre mastodontiche rotolano allegramente giù dalle lingue dei produttori di auto. Con 5 milioni di vendite lo scorso anno, la Cina è già il terzo mercato mondiale, dopo l’America (17 milioni) e il Giappone (5,9 milioni). “La Cina è destinata a diventare il secondo mercato mondiale prima o poi nei prossimi due o tre anni” dice David Thomas, a capo della distribuzione Ford per la Cine. Fra il 2010 e il 2015, ritiene, ci sarà il grosso. “La Cina si sta sviluppando in modi molto simili (ai mercati dei paesi sviluppati), ma lo fa in modo molto più veloce” aggiunge Mr. Thomas. “ Parecchio molto più veloce,” ribadisce.

Allo stesso tempo, la Cina sta riversando miliardi nell’espansione della propria rete stradale. Alla fine del 2004, aveva 34.000 km di autostrade, più del doppio del 2000 (17 anni fa, non ne aveva nessuna). Solo gli Stati Uniti ne hanno di più. La rete stradale totale cinese per lunghezza è la terza del mondo: 1,8 milioni di chilometri, di cui il 44% costruiti negli ultimi 15 anni. E non ci si ferma qui. Per il 2020 la Cina prevede di raddoppiare ancora la lunghezza delle autostrade.

Questa combinazione di crescita rapida dell’auto privata, di frenetica costruzione autostradale, e di boom economico, evoca immagini dell’Amerca negli anni ’20, quando l’automobile trasformò le aspirazioni della middle class, e degli anni ‘50, quando il governo federale realizzò il sistema delle autostrade Interstate. Ma nel caso della Cina questo sviluppo è stato compresso in soli pochi anni. È la volontà del governo ad averlo reso possibile. La strategia della Cina, ispirato non ultimo da quella dell’America, è di far diventare l’industria automobilistica un pilastro dell’economia. Ha dato il benvenuto ai costruttori stranieri, purché formassero delle joint ventures con una quota non superiore al 50%. E con le banche sotto il proprio controllo, ha spinto investimenti nel settore e sostenuto prestiti ai privati cittadini per alimentare la domanda.

Queste grandiose speranze sono evidenti in mostra nel Distretto di Jading, a Shanghai, una spianata semirurale punteggiata da fabbriche a circa 30 km dal centro città. Due anni fa era una terra desolata infestata dalle zanzare.Oggi ospita una struttura futuristica in acciaio e cemento, il primo circuito di Formula Uno della Cina. Non importa se pochi cinesi avessero sentito nominare le gare di Formula Uno, o che qualcuno se ne interessasse, prima che avesse inizio la costruzione. La struttura all’ultimo grido da 320 milioni di dollari, completata lo scorso anno, vanta un anello da 5,4 km sagomato sulla forma del carattere cinese “ shang”. Che rappresenta non solo la prima sillaba del nome della città, ma più coerentemente significa “in alto”, o andare avanti.

La gara inaugurale lo scorso ottobre ha attirato una folla di 150.000 persone, e molti hanno pagato almeno 1.800 yuan ($ 215): un mese di stipendio, per la media degli operai. Per il resto del tempo, è rimasto spettralmente vuoto. Fare soldi non è una priorità. È considerato il simbolo di una nuova “città dell’automobile” che Shanghai sta cercando di creare a Jiading, sede di una joint venture fra la Volkswagen e la Shanghai Automotive Industry Corp (SAIC), compagnia statale le cui auto a marchio Volkswagen godono della principale quota di mercato in Cina. Il piano, sostengono i funzionari, è di trasformare l’area in un centro ricerche e sviluppo sull’automobile, un luogo dove auto e componenti sono costruiti, e dove le attività di tempo libero ci girano attorno. Come successo per il circuito di gara, l’anno prossimo aprirà un museo dell’auto da 50 milioni di dollari.

Zhu Ningning, vicedirettore del gruppo di lavoro municipale per la città dell’auto, pensa che questa strategia del governo pagherà. “Abbiamo costruito quello che c’è ora in tre anni. A Detroit ce ne sono voluti cento” dice. La metà dei 2,4 miliardi di dollari investiti nella città dell’auto sinora vengono dal governo. Nei prossimi tre anni, Mr. Zhu dice che verranno spesi altri 3,6 miliardi, con il governo a contribuire per un terzo. “Questa auto city è unica al mondo” si entusiasma Zhu. “Detroit ha una concentrazione industriale, e musei, ma non ha la Formula Uno”. E per essere sicuri che questo non diventi il tipo di sprawl industriale tanto comune altrove in Cina, il gruppo di Zhu ha commissionato a Albert Speer, architetto tedesco figlio dell’omonimo favorito di Hitler, una collaborazione al progetto.

La nascita della domanda

Nelle grandi città della Cina, il fiume di biciclette – un tempo l’immagine più viva della Cina urbana – è stato sostituito da strade intasate di auto, la maggior parte delle quali, terribile, nelle mani di guidatori in erba. Proibendo o limitando fortemente l’uso delle motociclette in queste città, la Cina ha scavalcato in un salto una fase di sviluppo tipica dei vicini asiatici, dove la moto ha abitualmente fornito ai nuovi ricchi il primo assaggio di mobilità senza fatica. Shanghai, che ospita 9 milioni di normali biciclette, ha sollevato una ridda di critiche sui media lo scorso anno proibendole nelle principali strade del centro. Ma oggi vengono usate sempre di meno.

In qualche misura l’abbraccio all’auto della Cina era un risultato prevedibile della ricchezza urbana crescente. Ma ci sono parecchi altri fattori a determinare la domanda cinese, che almeno sino a un anno fa è lievitata oltre ogni aspettativa. Un’enorme spinta è venuto quando la Cina è entrata nella World Trade Organisation nel 2001, con un considerevole allentamento delle barriere alle importazioni di auto. I prezzi delle automobili prodotte internamente sono caduti in modo rapido, anticipando le riduzioni tariffarie, e hanno continuato a farlo per un 10% o più all’anno.

Il taglio dei prezzi, e l’introduzione da parte delle compagnie straniere di modelli più economici (costruiti dalle loro fabbriche in Cina), hanno aiutato pure a mettere la proprietà dell’auto improvvisamente alla portata di una middle class in rapida crescita. “Esiste qualche somiglianza fra l’approccio americano e quello cinese” dice Jean-Claude Germain, a capo della rappresentanza Peugeot Citroën per la Cina. “Quando qualcuno non ha i contanti per comprare una macchina, la sogna e farà qualunque cosa per essere un giorno nella posizione di comprare questo prodotto”. Germain valuta che ora circa 50-60 milioni di cinesi possano permettersi di comprarne una. Se avevano qualche dubbio, un credito agevolato dalle banche statali (come fino all’anno scorso) li ha aiutati a superarlo.

Un altro motore chiave di domanda è la drammatica trasformazione nella struttura economica e sociale delle città cinesi. Dieci anni fa, la maggior parte dei residenti urbani erano impiegati da fabbriche di proprietà statale o in altri enti legati al governo. Vivevano in case assegnate dai datori di lavoro, virtualmente senza pagare l’affitto, e vicine al posto di lavoro. Una bicicletta, o il trasporto pubblico, erano di solito adeguati per muoversi. Le banche, inoltre, non prestavano ai singoli.

A partire dalla fine degli anni ’90, però, le abitazioni sono state ampiamente privatizzate. Molte fabbriche di proprietà statale hanno chiuso o si sono trasferite nelle zone suburbane per ridurre l’inquinamento delle città e far spazio a nuova edilizia. Il boom economico è stato pungolato da una frenesia costruttiva, la quale a sua volta era alimentata da continui prestiti delle banche e dalla disponibilità del governo a consentire che i costruttori radessero al suolo o vecchi quartieri centrali. Comunità consolidate sono state sparpagliate, spesso verso il suburbio, in luoghi mal serviti dal trasporto pubblico e lontani dai posti di lavoro.

La maggioranza dei residenti in campagna - dove vive il 60% della popolazione con un reddito medio di meno di un dollaro al giorno al cambio ufficiale – non andrà mai oltre il sogno di possedere un’auto. Ma l’impatto psicologico su molti residenti urbani dell’improvvisa disponibilità dell’auto è stato considerevole. Fino agli anni ’90 i viaggi in Cina erano regolamentati. Veniva richiesta una lettera da un datore di lavoro statale per comprare un biglietto d’aereo, un comodo posto a sedere in treno, o una stanza in un albergo decente. La vita del cittadino era sorvegliata da vicino, a casa e al lavoro. Le decisioni del governo di incoraggiare l’impresa privata hanno significato allentare la presa. A questo punto entra in scena l’automobile, simbolo di libertà e status sociale. Non c’è da sorprendersi che i cittadino non vedessero l’ora di comprarne una.

“Nuovo guidatore, fate attenzione”

Prendere la patente non è difficile. Anche se un allievo deve far pratica per 70 ore in due mesi, è difficile essere bocciati all’esame. Gli esaminatori malpagati sono facili da corrompere, e gli istruttori fungono da intermediari e si ritagliano la propria quota. Molte auto nelle strade della città esibiscono il cartello “Nuovo guidatore, fate attenzione”. È un appello inutile. Il tasso di mortalità sulle strade della Cina è il più alto del mondo: 680 morti e 45.000 feriti al giorno, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, contro i 115 morti al giorno nella di gran lunga più motorizzata America.

La proprietà è ancora poca cosa in termini percentuali: 7 o 8 ogni mille persone, contro una media mondiale di 120 e le più di 600 in America. Il numero delle auto private in Cina – circa 10 milioni – è solo ancora la metà di quelle americane all’inizio della Grande Depressione. Ma a Pechino, città di 12 milioni di persone (contando solo i residenti registrati) ci sono 2 milioni di auto, l’80% delle quali di proprietà privata. Di queste, un quarto di milione sono state acquistate negli scorsi due anni. Nonostante l’allargamento delle strade principali (buttando giù altri edifici residenziali), la realizzazione della metropolitana leggera suburbana, l’inaugurazione della nuova strada anulare negli ultimi anni, le infrastrutture della città non riescono a tenere il passo.

Le preoccupazione per la congestione, il parcheggio, l’aumento dei prezzi del carburante e la possibilità di una nuova tassa sulla benzina iniziano a rallentare la domanda in città, dice Qie Xiaogang, analista di mercato del punto vendita auto principale della città. Anche la decisione governativa dell’anno scorso, di irrigidire i prestiti per l’acquisto di automobili, ha avuto grossi effetti. Nuovi alla cultura del credito, e con poca paura delle timide banche di proprietà statale, molti cinesi hanno fatto debiti oltre le proprie possibilità, utilizzando certificati falsi del proprio reddito. Ciò ha creato un “grosso buco finanziario” nel sistema bancario cinese, dice Mr. Qie. Ma anche con gli acquisti a credito scesi al 10% delle transazioni contro il 30% del 2003, le vendite conoscono un boom. Molti acquirenti si presentano con borse di contanti.

Ma, curiosamente, l’automobile rimane uno strumento per spostamenti su piccole distanze, di soli da e per l’ufficio. La rete autostradale sinora ha mancato di trasformare le abitudini di viaggio e tempo libero. Steve Bale di BatesAsia, impresa di pubblicità, dice che lo scorso anno meno del 20% dei proprietari di auto hanno usato i propri veicoli per spostarsi fuori città nei fine settimana. Imboccare la strada aperta e seguirla ovunque vada non è, a quanto pare, un’idea particolarmente ispirante per l’automobilista cinese. Jin Jianjun, quarantaseienne impiegato di Pechino che ha trascorso le vacanze di quest’anno lunare guidando per 6.000 chilometri attraverso la Cina con moglie e figlia, è una rara eccezione. Dice che è adesso, il momento migliore per possedere un’auto in Cina, perché le autostrade veloci inter-city sono ancora senza traffico.

Lo scarso fascino della strada aperta

Uno dei motivi per cui gli automobilisti su lunghe distanze scarseggiano, è che gli spostamenti in aereo sono diventati convenienti per molti abitanti delle città prima che iniziasse a crescere l’auto in proprietà. Per chi si sposta da solo, e spesso anche per due insieme, volare resta di solito l’opzione più economica: meno cara anche di un viaggio in treno negli scompartimenti “a sedili morbidi”. Il viaggio da Pechino a Shanghai, una distanza di circa 1.120 km, costa molto più via strada che in aereo. Percorrere la expressway Pechino-Shanghai vuol dire fermarsi a più di dieci barriere che richiedono un pedaggio, pagando un totale di 500 yuan ($ 60), senza contare il carburante. Un biglietto aereo scontato costa meno dei soli pedaggi.

La costruzione delle autostrade è stata usata dal governo come strumento per stimolare la crescita economica. La maggior parte sono finanziate dalle banche statali, e i gestori hanno poche probabilità di ripagare il debito in tempo. Su alcuni tratti il gettito dei pedaggi copre a malapena il costo degli stipendi del casellanti, figuriamoci gli interessi dei prestiti. I camionisti spesso preferiscono usare le vecchie strade che corrono parallele alla expressways, per risparmiare soldi.

Un anno fa, l’amministrazione municipale di Pechino decise di togliere i pedaggi alla nuova autostrada da 1,6 miliardi di dollari attorno alla città, solo pochi mesi dopo l’apertura. Le tariffe erano state pensate per coprire il prestito in 30 anni. Ma il numero di utenti dei primi tempi aveva fatto calcolare che ci sarebbero voluti più di due secoli. A Shanghai, recentemente hanno aperto alcuni autodefiniti “ motels”, ma è difficile distinguerli dai comuni alberghi. Sun Fei, direttore di una filiale da 230 stanze di Motel 168, una catena privata, dice di avere solo 60 posti a parcheggio. Ma anche questi, sono “sufficienti a soddisfare la domanda”.

I media cinesi amano parlare di una emergente “cultura dell’automobile”. Ma nell’immaginario popolare non c’è ancora un equivalente della Route 66. La lettura delle carte stradali è un’abilità che pochi padroneggiano (quelle topografiche dettagliate sono ancora considerate segreto di stato). Si preferisce il viaggio di gruppo, in una nazione dove un’incredibile varietà di cucine, dialetti e culture può rendere il viaggiare indipendente un incubo. Il settore dell’auto a noleggio è all’infanzia, anche se gli ottimisti credono che le cose cambieranno. Nigel White, direttore generale della Avis in Cina, dice che il mercato del noleggio, che ha impiegato circa 40 anni a maturare in Europa, in Cina ne impiegherà 10 o 15. Ma i grandi piani di crescita dalla Avis (dalle attuali dieci agenzie di noleggio alle 70 entro il 2008) sono basati in gran parte sulla domanda d’affari con grandi quote di investimento straniero.

La proliferazione di giornali patinati dedicati all’auto sugli scaffali dei negozi suggerisce l’emergere di una cultura che adora l’automobile in modi simili a quelli dei mercati sviluppati. Ma i consumatori di auto cinesi hanno gusti e motivi propri per acquistare i propri veicoli. In particolare, le prestazioni contano meno di accessori e finiture interne. “Quella è la parte che vedono familiari e amici”, dice Daphne Zheng, portavoce a Shanghai per la General Motors. Schermi video sui sedili posteriori, finiture in legno, sedili in cuoio, sono grandi attrazioni.

Quando ha aperto un cinema drive-in di stile americano alla periferia nord-est di Pechino nel 1988, era allettante immaginare i giovani cinesi urbani usare le proprie macchine per gli appuntamenti con la ragazza. “I cinema drive-in stanno diventando di moda” annunciava Xinhua giusto l’anno scorso. Non esattamente. Quel cinema resta l’unico della capitale, anche se ne ha aperto un altro l’anno scorso in uno dei centri satellite. Con la sua capacità di 500 auto e i sei schermi, in media attira meno di 100 macchine al giorno. Wang Qishun, il direttore, dice che gran parte degli introiti vengono da altre attrazioni del complesso, come il ristorante da 200 posti, o il laghetto per pescare.

Anche se i cinesi non stanno diventando americani nelle loro abitudini automobilistiche, il nuovo amore per i motori ha implicazioni preoccupanti per l’ambiente. La maggior parte dell’inquinamento di Pechino è causato dalle automobili. La città spesso è avvolta da una nebbiolina sporca, nonostante le norme richiedano che le auto si adeguino agli standard di emissioni UE III entro il 2008, in tempo per le Olimpiadi.

Nebbia inquinata

Il governo, ben consapevole di tutto questo, sta spendendo miliardi per migliorare il trasporti pubblici delle grandi città. Entro il 2008 Pechino avrà 200 chilometri di ferrovia sotterranea, raddoppiando la lunghezza attuale. La metropolitana di Shanghai si deve ampliare da 80 chilometri a 200 entro il 2010, quando la città ospiterà l’Esposizione Mondiale; entro il 2020, il piano prevede 810 km di linea, il doppio del sistema sotterraneo di Londra.

La rapida crescita della dipendenza cinese dalle importazioni di petrolio – di cui un terzo, ora, per usi automobilistici – sta causando grandi ansie riguardo alla sicurezza energetica nazionale. Il consumo di petrolio sarà senza dubbio contenuto dalle tasse, da migliori tecnologie o dall’uso di carburanti alternativi. Ma la domanda di automobili continuerà a crescere. David Thomas della Ford stima che ci siano 450 milioni di persone nella Cina orientale con un potere d’acquisto di oltre 7.000 dollari l’anno; 6.000 dollari è la soglia abituale da cui inizia a crescere la proprietà privata dell’auto.

Le perdite crescenti dell’industria, con la feroce concorrenza che rosicchia i margini di profitto, non stanno scoraggiando i produttori. Come sottolinea Mr. Thomas, “I desideri della gente, la loro capacità di comprare, i fondamentali economici del paese, non sono cambiati di molto”. La Cina si è innamorata delle macchine; e nonostante gli sforzi del governo per raffreddare gli animi, la passione brucia (e inquina) più forte che mai.

Nota: qui il testo originale al sito dell’Economist (f.b.)

Titolo originale: Authorities try to cool mall mania – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

È pronto per l’apertura, in ottobre, Fonte d’Oro: il primo centro commerciale di Pechino e sinora il più grande della Cina.

Nonostante i funzionari del gruppo promotore, si costruttore che gestore del nuovo grosso centro, affermano di contare su una futura prosperità, ci sono timori che possa seguire la strada di altri shopping malls cinesi, che al momento non stanno dando grandi risultati, ha scritto martedì il China Daily.

Comunque, nonostante le prospettive grigie per i centri commerciali esistenti, ce ne sono molti di grosse dimensioni in corso di costruzione in tutta la Cina, e i promotori stanno facendo pressioni sulle amministrazioni locali per realizzarne.

Il fenomeno è stato chiamato “ mall mania” dagli esperti.

Mall mania

Per ora, la mania si diffonde in tutto il paese, con sempre più centri commerciali, sempre più alla moda in corso di costruzione, e le amministrazioni locali che offrono varie possibilità di sostegno ai costruttori di questi progetti.

Le prospettive sembrerebbero rosee. Ma ci sono dei problemi. Quanto denaro delle banche viene divorato, dalla mall mania?

La maggioranza degli enormi investimenti necessari per questi giganteschi progetti dipende dai prestiti delle banche. In altre parole, le banche stanno sostnendo alti rischi, dice Chen Jianming, direttore generale della Oriental 3invest Consulting Co Ltd, impresa di progettazione e consulenza immobiliare.

Nonostante non siano disponibili statistiche nazionali sulla costruzione di centri commerciali, si ritiene in genere che per quanto riguarda il settore bancario le spese per i grossi centri commerciali nella fase di progettazione o in corso di costruzione alla fine del 2003 abbiano superato i 200 miliardi di yuan (24 miliardi di dollari USA), e almeno il 60 per cento di questi finanziamenti vengono dalle banche.

Una formula comunemente usata dai promotori è: comprare i diritti edificatori dalle amministrazioni locali a prezzi preferenziali, prendere in prestito il denaro per la costruzione dalle banche utilizzando gli immobili come garanzia, e quando i malls sono completati, impegnare la proprietà per ottenere un flusso di liquidità per la gestione quotidiana.

”Ai promotori qualche volta basta solo il 10 per cento dell’investimento totale per acquisire i diritti edificatori nella fase iniziale, e l’approvazione del prestito può essere molto facile con l’intervento delle amministrazioni locali” dice Chen.

Secondo le esperienze degli investitori in malls all’estero, che hanno realizzato i modelli commerciali negli USA e in Europa dagli anni ’50 in poi, sono necessari più di dieci anni per recuperare l’investimento complessivo, se il centro commerciale funziona bene.

”Ci si può immaginare, se spuntano dappertutto in Cina i centri commerciali, quanto grandi saranno le somme necessarie, e quanto ci vorrà perché il denaro preso alle banche venga ripagato” continua Chen.

In più, l’eccesso di realizzazioni può trasformarsi in costruzioni non completate, concorrenza sleale, o cattivi risultati per i concorrenti, che porteranno al mancato reddito degli investimenti e a danneggiare il fragile sistema finanziario nazionale.

Alcune approssimative statistiche mostrano che, alla fine dello scorso anno, c’erano circa 300 grossi complessi commerciali, tra cui molti shopping malls, in Cina, un aumento di 100 unità dal 2002, e la cifra è salita a 400 in aprile.

Secondo il Decimo Piano di Sviluppo Quinquennale (2001-2005) a Pechino sono previsti quattro malls nell’area centrale.

Ma, anche senza contare alcuni progetti abortiti per mancanza di fondi, nella capitale al momento sono in costruzione dieci giganti commerciali.

Le realizzazioni sono più “fiorenti” a Shanghai, con 13 complessi commerciali, e per uffici di 970.000 metri quadrati, in progetto o costruzione, con superficie che supererà rispettivamente 1,6 e 2,4 milioni di metri quadrati, come affermano fonti dello Shanghai Commercial Information Centre.

”Al momento, i centri commerciali attivi sono in una fase di stasi e peggioramento” sostiene un funzionario del centro, che vuole rimanere anonimo.

Dice che al Chai Tai Square di Shanghai, il primo shopping mall della città, un terzo degli spazi sono inutilizzati, e il complesso lavora in perdita sin dall’inaugurazione.

A Chongqing, una città del sud-ovest della Cina con una popolazione di oltre 30 milioni di persone, si apriranno presto cinque grossi centri commerciali.

”Anche nei centri piccoli e medi, come Yixing o Jiayi, ci sono segni della mania dei centri commerciali” dice Zhang Shuping, vice-presidente della Camerca di Commercio nazionale cinese.

Lo stimolo alla febbre del mall

Perché, quasi contemporaneamente, sono stati lanciati tanti progetti, e perché dipendono in modo quasi eccessivo dal credito bancario?

In parte, è dovuto alla tattica dei promotori, di usare i progetti di centro commerciale per ottenere denaro dalle banche. E poi, le spinte delle amministrazioni locali in questa direzione non possono essere ignorate.

”Possiamo attribuire l’entusiasmo delle amministrazioni per i centri commerciali al desiderio di stimolare le costruzioni e il commercio, ma in qualche misura gioca anche un ruolo importate il perseguimento di obiettivi politici da parte dei funzionari. Questo atteggiamento di scarsa lungimiranza riflette alcuni problemi del sistema di valutazione cinese, quasi sempre basato su indicatori economici relativi ai brevi mandati dei funzionari.

Governare la mall mania

La preoccupazione degli esperti, e le notizie diffuse dai mezzi di comunicazione sul clima incandescente degli investimenti nella costruzione di centri commerciali, hanno spinto il premier Wen Jiabao a ordinare personalmente lo scorso febbraio un’indagine approfondita.

La Commissione di Controllo Bancario Cinese, il Ministero del Commercio, la Commissione Nazionale per le Riforme e lo Sviluppo, il Ministero delle Costruzioni, stanno conducendo un’inchiesta nazionale congiunta.

Per aumentare l’efficienza la Commissione di Controllo bancario si è concentrata sulla situazione dei prestiti per progetti di centri commerciali in sette città chiave: Pechino, Shanghai, Guangzhou, Shenzhen, Chengdu, Chongqing e Wuhan.

Il Ministero del Commercio ha orientato la propria indagine sui grandi complessi investendo molto sul questionario.

Come primo passo per affrontare il problema, il ministero sta mettendo a punto una serie di regole per organizzare il sistema commerciale delle città. Sta prendendo in considerazione se introdurre il sistema della public hearing nel caso di costruzione di mega-stores.

È stato chiesto alle municipalità di presentare i piani basati sui grandi complessi commerciali, ma non si tratta di qualcosa che possa avere il medesimo effetto legale di una serie di norme.

Contemporaneamente, il Consiglio di Stato, ha spedito dieci gruppi di indagine in dieci città a verificare gli investimenti in capitale fisso.

A fine aprile, i centri commerciali sono stati inseriti nell’elenco delle attività “surriscaldate” della Commissione Nazionale per le Riforme e lo Sviluppo, insieme all’industria dell’acciaio, del cemento, dell’alluminio elettrolitico. La Commissione di Controllo Bancario ha anche avvertito i presidenti delle banche di stato che l’aumento del credito per investimenti in immobili era “elevato in modo anormale”.

Di fronte alla prospettiva di un’inchiesta approfondita concentrata sulle risorse finanziarie, alcuni costruttori di malls sono in ansia, e temono che con la mall fever vengano spazzati via anche gruppi imprenditoriali.

Al contrario, altri non sembrano toccati nella solidità del sostegno finanziario e della lunga esperienza nel campo dei grossi centri commerciali.

Cai Shanxun, vice-presidente del Golden Resources Group, responsabile unico dello shopping mall Fonte d’Oro di Pechino, afferma che i prestiti delle banche per il loro progetto sono valutati in un miliardo di yuan (120 milioni di dollari USA), su un totale di investimenti di oltre 5 miliardi di yuan (600 milioni).

”Per aumentare la nostra forza, preferiamo applicare prezzi d’affitto relativamente bassi per attirare più commercianti, il che garantisce un flusso di liquidità stabile e mantiene l’operazione in salute” dice Cai.

Sinora tutti gli spazi del centro comemrciale Fonte d’Oro sono stati occupati, e 40 inquilini – compresi New Lufthansa, Guiyou, Christian Dior, Nike e Admire – hanno firmato con gruppo un contratto ventennale.

Yu Lai, presidente del consiglio di amministrazione di Guangzhou Tianhe City Square, il primo e più grande centro commerciale del Sud della Cina, apprezza l’azione del governo centrale.

”Un consolidamento del settore è necessario e lungimirante, visto che l’eccesso di realizzazioni è un uso eccessivo del sostegno delle amministrazioni locali hanno fatto della costruzione dei centri commerciali un affare senza regole e rischioso” dice Yu.

”In più, la febbre da mall implica grossi rischi per le banche commerciali, che possono non solo dare un grosso colpo al sistema finanziario, ma creare problemi anche al settore degli shopping malls”.

Esperti e interessati sostengono le decisioni del governo centrale di far scoppiare la bolla del mall, ma sottolineano che dovrebbero essere distinti gli aspetti immobiliari e quelli specificamente commerciali.

”La realizzazione di un progetto insediativo commerciale, o shopping centre, mira al commercio e insieme all’immobile, e gli acquirenti saranno responsabili della gestione commerciale” dice Guo Zengli, segretario generale della Commissione sugli Shopping Centers per la Camera di Commercio Generale Cinese.

Un progetto di mall integra sviluppo immobiliare e gestione delle attività commerciali, in altre parole promotore e operatore sono la stessa impresa.

”Un operatore di mall non dovrebbe vendere gli immobili ai commercianti, ma predisporre un piano generale e scegliere inquilini adatti a questo progetto” prosegue Guo.

La mall mania riflette il fatto che non si è ancora imposto in Cina un sistema generalizzato di progettazione commerciale, e che si devono iniziare a innescare meccanismi di circolazione delle informazioni e di grandi investimenti, secondo Guo.

Nota: il testo originale al sito in inglese del Quotidiano, People’s Daily (f.b.)

Titolo originale: Government hits back at green belt “threats” – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il governo ha riaffermato il proprio impegno a conservare e estendere le greenbelts in tutte le regioni, dopo che le associazioni per la tutela della campagna hanno lanciato un appello a rafforzare le politiche in questo senso.

Lo stimolo giunge dalla Campaign to Protect Rural England, che ha pubblicato un rapporto che elenca le minacce attuali alle greenbelts. Riguardano progetti di nuovi impianti sportivi, piani di ampliamento universitario, nuovi insediamenti residenziali e proposte per estendere aeroporti.

Ma il governo afferma che le statistiche diffuse oggi (giovedì 26 maggio) illustrano chiaramente come l’impegno a riusare terreni già edificati, e a far migliore uso dei terreni edificabili, ha aiutato a proteggere la campagna e le greenbelts per le generazioni future.

Le ultime cifre rivelano che la quota di nuove abitazioni realizzate su aree già edificate si fissa allo storico livello del 67 per cento, mentre la densità media delle nuove case è aumentata a livello nazionale a 39 alloggi ettaro, dai 34 del 2003.

Un portavoce della Vicepresidenza del Consiglio ha dichiarato: “Si tratta della politica di riuso più avanzata: la nostra politica di riuso dei suoli aiuterà alla protezione delle greenbelts anziché creare sprawl urbano. È una colonna portante nei nostri programmi per le città sostenibili”.

”Abbiamo fissato chiari obiettivi per ciascuna regione britannica, per mantenere o aumentare le attuali superfici destinate a greenbelt nei piani regolatori locali, comprese le regioni che includono zone di sviluppo.

”Dal 1997 la superficie totale delle aree a greenbelt in Inghilterra è aumentata di circa 19.000 ettari – approssimativamente la dimensione di Liverpool – con un potenziale di altri 12.000 ettari nei piani regolatori locali in corso di approvazione”.

Shaun Spiers, responsabile della Campaign to Protect Rural England, afferma: “Un elemento cruciale per le greenbelts la permanenza dei margini. La politica delle cinture verdi è uno degli strumenti più efficaci a disposizione del pianificatore. Ma può diminuire di efficacia per l’imposizione dall’alto di revisioni di confine, dal parlare sconsiderato di “spostare” altrove gli spazi persi”.

Secondo la CPRE, le greenbelts “hanno dato un grosso contributo alla qualità della vita stimolando la rigenerazione, combattendo lo sprawl urbano, proteggendo le campagne”.

La CPRE ritiene urgente la creazione di nuove cinture verdi, e cita Ashford, Lincoln, Milton Keynes, Northampton, North Kent, South Essex, Teesside e Warrington come località minacciate dall’edificazion, che trarrà vantaggio dalle nuove destinazioni di zona.

Nota: qui il testo originale del comunicato, al sito ufficiale Planning Portal; ulteriori dettagli della campagna (e un interessante file PDF scaricabile, ma ahimé non editabile) al sito della Campaign to Protect Rural England (f.b.)

Titolo originale: When Planners Lie with Numbers – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il testo che segue è un sunto dall’articolo "How (In)accurate Are Demand Forecasts in Public Works Projects? The Case of Transportation," di Bent Flyvbjerg, Mette Skamris Holm, e Søren Buhl, pubblicato dal Journal of the American Planning Association, vol. 71, no. 2, primavera 2005. Per le note e i riferimenti bibliografici, si fa riferimento all’articolo.

In questa parte consideriamo il caso in cui pianificatori e altri attori influenti non ritengono importante avere previsioni esatte e, quindi, non aiutano a chiarire e mitigare i rischi ma, al contrario, li generano e li acuiscono. In questo caso i pianificatori sono parte del problema, non della soluzione. È un caso che necessita di qualche spiegazione, perché può sembrare a molti uno stato delle cose piuttosto improbabile. Dopotutto, si può essere d’accordo sul fatto che i pianificatori debbano essere interessati all’accuratezza, al non essere influenzati nelle previsioni. È anche un’esplicita richiesta del Codice di Condotta Etica e Professionale AICP (American Institute of Certified Planners), che “Un pianificatore deve impegnarsi ad offrire informazioni piene e complete sulle questioni di piano ai cittadini e ai decisori pubblici” (American Planning Association 1991, A.3), e certamente siamo d’accordo col Codice. Il RTPI britannico ha fissato obblighi simili per i propri membri (Royal Town Planning Institute 2001).

Ad ogni modo, la letteratura scientifica trabocca di cose che i pianificatori e la pianificazione “devono” impegnarsi a fare, ma che non fanno. La pianificazione dovrebbe essere aperta e comunicativa, ma spesso è chiusa. La pianificazione dovrebbe essere partecipativa e democratica, ma spesso è uno strumento di dominio e controllo. La pianificazione dovrebbe aver a che fare con la razionalità, ma spesso è solo potere (Flyvbjerg 1998, Watson 2003). È questo il “lato oscuro” della pianificazione e dei pianificatori indicato da Flyvbjerg (1996) e Yiftachel (1998), significativamente poco approfondito da ricercatori e teorici.

Anche la previsione, ha il suo “lato oscuro”. È qui che “i pianificatori mentono sulle cifre”, come ha affermato efficacemente Wachs (1989). Sono impegnati, i pianificatori del lato oscuro, e non a fare previsioni giuste seguendo il Codice Etico dell’AICP, ma a far finanziare e realizzare i progetti. Le previsioni accurate spesso non sono un metodo efficace per conseguire questo obiettivo. A dire il vero, le previsioni accurate possono essere controproduttive, là dove previsioni orientate possono risultare efficaci nella competizione per i finanziamenti e per assicurarsi il via alla realizzazione. “Il pianificatore più efficace” dice Wachs (1989, p. 477), “è talvolta quello che sa mascherare lo schieramento in forma di razionalità scientifica o tecnica”. Questo schieramento è esattamente l’opposto della regola AICP secondo la quale “l’obbligo primario del pianificatore [è] verso l’interesse pubblico” (American Planning Association 1991, B.2). Nondimeno, previsioni apparentemente razionali che sottostimano i costi e sovrastimano i benefici sono una formula consolidata per far approvare i progetti (Flyvbjerg, Bruzelius, e Rothengatter, 2003). La previsione qui è principalmente un atteggiamento teso a cercare una rendita, e produce un ambiente di finzione che rende estremamente difficile decidere quali progetti meritano di essere realizzati, e quali no. La conseguenza è che, come riconosce un organismo rappresentativo dell’attività, la Major Projects Association di Oxford, si approvano troppi progetti che non lo meriterebbero. Vorremmo aggiungere che anche molti progetti che lo meritano si sarebbero affermati, se non avessero perso in favore di altri dotati di “migliore” dissimulazione (Flyvbjerg, Holm, and Buhl 2002).

In questa situazione, il problema non è tanto cosa possono fare i pianificatori per ridurre imprecisioni e rischi nella previsione, ma cosa possono fare altri per imporre ai pianificatori controlli e verifiche che diano un incentivo a interrompere la produzione di previsioni orientate, e iniziare a lavorare secondo il proprio Codice Etico. La sfida è di cambiare i rapporti di potere, che dominano previsioni e realizzazione dei progetti. Qui, tecniche previsionali migliori e appelli all’etica non funzionerebbero; è necessaria una trasformazione istituzionale, focalizzata su trasparenza e responsabilità.

Esistono due tipi fondamentali di responsabilità tipici delle democrazie liberali: (1) Quella del settore pubblico, attraverso la trasparenza e il controllo collettivo; (2) Quella del settore privato, attraverso la concorrenza e il controllo del mercato. Entrambi i tipi di responsabilità possono essere strumenti efficaci per arginare le false previsioni dei pianificatori, e promuovere una cultura che riconosca il rischio e si rapporti efficacemente ad esso. Per ottenere una responsabilità attraverso la trasparenza e il controllo pubblico, è necessario introdurre nelle istituzioni principali come pratiche correnti:

● I governi nazionali non dovrebbero offrire finanziamenti discrezionali alle agenzie locali per la realizzazione di infrastrutture al solo scopo di costruirne uno specifico tipo, ad esempio una ferrovia. Questo crea incentivi perversi. Invece, i governi nazionali dovrebbero offrire semplicemente “finanziamenti infrastrutturali”, o “finanziamenti per i trasporti”, e lasciare che siano i funzionari locali a indirizzare le risorse ovunque ritengano, assicurandosi però che ogni soldo speso in un tipo di infrastruttura riduca la possibilità di finanziarne un’altra.

● Le previsioni dovrebbero essere soggette a un esame indipendente e di pari livello. Quando sono in gioco grandi quantità di denaro del contribuente, una revisione del genere potrebbe essere condotta dagli uffici di revisione e contabilità dello stato, come il General Accounting Office negli USA o il National Audit Office nel Regno Unito, che possiedono competenze e indipendenza per esprimere una valutazione del genere. Altri tipi di organismi di valutazione indipendenti possono essere individuati, ad esempio, nei settori nazionali delle finanze o fra gli organismi professionali più rilevanti.

● Le previsioni dovrebbero essere comparate ad altre dello stesso genere, ad esempio utilizzando classi di riferimento come descritto nei paragrafi precedenti [ probabilmente non riportati in questo estratto n.d.T.].

● Previsioni, revisioni, comparazioni, dovrebbero essere rese disponibili al pubblico nel momento in cui vengono realizzate, compresa tutta la documentazione di accompagnamento.

● Si dovrebbero organizzare udienze pubbliche, giurie civiche e simili, per consentire agli interessati e alla società civile di esprimere critiche e sostegni alle previsioni. Le conoscenze prodotte in tale processo dovrebbero essere integrate nella pianificazione e nelle decisioni.

● Si dovrebbero organizzare convegni scientifici e professionali, dove i pianificatori possano presentare e sostenere le proprie previsioni e confrontarsi con l’esame e le critiche di colleghi.

● I progetti con rapporti costi/benefici gonfiati dovrebbero essere riesaminati, e interrotti, se il ricalcolo di costi e benefici non garantisce la realizzazione. Dovrebbero essere premiati i progetti con stime costi/benefici realistiche.

● Si dovrebbero comminare sanzioni professionali e anche legali per pianificatori e analisti che producono deliberatamente previsioni ingannevoli. Un esempio di sanzione professionale è l’esclusione dall’albo, se viene violato il codice etico. Un esempio di sanzione legale è il rinvio a un tribunale o simili, se le previsioni ingannevoli hanno condotto a sostanziali sprechi di denaro pubblico (Garett e Wachs, 1996). Le pratiche scorrette in pianificazione dovrebbero essere considerate quanto in altre professioni. Non farlo significa non prendere sul serio la professione.

Per ottenere una verificabilità delle previsioni attraverso la concorrenza e il controllo del mercato, è necessario quanto segue, e ancora in quanto pratica insita e applicata dalle principali organizzazioni:

● La decisione di proseguire con un progetto dovrebbe, ovunque possibile, essere condizionata dalla volontà di finanziatori privati di parteciparvi senza garanzie superiori, per almeno un terzo del totale del capitale. Ciò dovrebbe essere richiesto sia che il progetto superi o non superi il test del mercato, ovvero se sia o meno sovvenzionato, o abbia o non abbia motivi di giustizia sociale. I finanziatori privati, azionisti, analisti finanziari, dovrebbero produrre proprie previsioni, o esaminare criticamente quelle esistenti. Se le previsioni sono state sbagliate, essi e le loro organizzazioni ne sarebbero danneggiati. Ne risulterebbero previsioni più realistiche e una riduzione dei rischi.

● Si dovrebbero evitare finanziamenti interamente pubblici o interamente a sovereign guarantee.

● Chi effettua le previsioni, e le relative organizzazioni, devono condividere la responsabilità finanziaria per la copertura di mancati benefici (e superamento dei costi) risultante da falsi e forzature nelle previsioni.

● La partecipazione di capitale di rischio non significa che il governo debba rinunciare ai controlli sul progetto, o ridurli. Al contrario, significa che è possibile per il pubblico giocare più efficacemente il proprio ruolo, di garante di fronte al comune cittadino per quanto riguarda le questioni della sicurezza, del rischio ambientale, dell’uso adeguato del denaro pubblico.

Se le organizzazioni con responsabilità nella progettazione e realizzazione di grandi infrastrutture di trasporto pubbliche pensassero, acquisissero, e attuassero queste forme di verifica, allora le falsificazioni nelle previsioni sui trasporti, tanto diffuse oggi, potrebbero attenuarsi. Se non lo si fa, i falsi probabilmente continueranno, e le decisioni degli investimenti nei trasporti, probabilmente, produrranno sprechi.

[...]

Nota: ometto la parte conclusiva, comunque disponibile in originale al sito dell'Autore all’Università di Aalborg (f.b.)

Hong Kong Planning Department, Hong Kong Planning Standards and Guidelines, Chapter 6, Retail Facilities [redazione: 1998; validità: 2005] – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

1. Introduzione

Il commercio a Hong Kong

1.1 Il commercio è un’attività economica di primaria importanza nella vita moderna. Nel 1995, le vendite di negozi e ristoranti hanno contribuito per quasi il 6% al nostro prodotto interno lordo, e l’occupazione era di 400.600 persone nel 1997. Gioca anche un ruolo importante nella vita sociale delle persone, e da un contributo significativo ad attirare visitatori a Hong Kong.

1.2 Lo stock totale di proprietà immobiliari commerciali nell’intero Territorio era al 1996 di circa 9,2 milioni di metri quadrati di superficie di pavimento [IFA/ Internal Floor Area] di cui approssimativamente il 90% del settore privato, e il resto posseduto dalla Housing Authority e Housing Society. Per motivi di carattere economico e sociale, il settore commerciale deve essere un’importante componente della pianificazione a livello dell’intero territorio, e a scala regionale e locale; le necessità del settore commerciale, dei consumatori e delle attività edilizie commerciali, devono essere affrontate in modo propositivo dalle strategie di pianificazione per il Territorio, e nelle norme e linee guida urbanistiche.

1.3 Nonostante le Hong Kong Planning Standards and Guidelines (HKPSG) contengano elementi riguardo alla localizzazione ed edilizia commerciale sin dal 1983, il settore non è stato oggetto di interesse per le strategie di piano territoriali, regionali e locali quanto altre modalità di uso dello spazio. Di conseguenza, nel febbraio 1995 il Governo commissionò a una società di consulenza la “ Ricerca sulle abitudini commerciali e Revisione del Capitolo 6 delle Hong Kong Planning Standards and Guidelines”. Lo studio fu portato a termine nell’ottobre 1997. Le norme e linee guida presentate nei paragrafi successivi, salvo quelle su mercati all’aperto e attività di ristorazione ambulanti che non erano contemplate dalla Ricerca, sono state formulate sulla base dei risultati di questo studio.

Caratteristiche principali del settore commerciale a Hong Kong

1.4 La Ricerca ha individuato le seguenti caratteristiche principali, relativamente al settore commerciale di Hong Kong, che rappresentano un utile riferimento per la pianificazione:

● il mercato interno di Hong Kong è relativamente contenuto, date le piccole dimensioni della popolazione residente. Di conseguenza, secondo uno standard internazionale Hong Kong è relativamente piccola, e il settore è distribuito su un gran numero di attività molto ridotte, e pochi grossi operatori;

● la spesa dei visitatori in acquisti e ristorazione è in aumento. A causa della densità di popolazione, e in quanto centro turistico, Hong Kong è al centro dell’interesse internazionale per quanto riguarda lo sviluppo commerciale. C’è stato un aumento nell’ingresso dei grandi gruppi sul mercato locale. Ne sta emergendo un panorama più moderno, con maggior enfasi sull’immagine di impresa;

● si sono affermate anche nuove tendenze nel commercio diverso da quello dei negozi, come tramite televisione o ordinazioni postali. Comunque, questi tipi resteranno forme complementari di acquisto, e non si ritiene che il loro impatto sul settore possa essere significativo;

● il commercio dei negozi tradizionali sul fronte stradale è rimasto importante nelle zone urbane più consolidate, ma è diminuito in modo significativo nelle zone di nuovi insediamento/rinnovo urbano, a causa della crescita dei centri commerciali chiusi ad aria condizionata. Piccoli complessi commerciali, in insediamenti misti a residenza, continuano a svolgere un’utile funzione, fornendo spazi al gran numero di piccoli negozi. Il commercio extraurbano, che ha avuto un rapido sviluppo nei paesi occidentali, non dovrebbe aumentare significativamente a Hong Kong, a causa degli alti prezzi dei terreni e del basso tasso di auto private.

Abitudini commerciali

1.5Nel corso di un’indagine condotta nell’ambito della Ricerca, sono state individuate le seguenti caratteristiche relative alle abitudini di acquisto degli abitanti di Hong Kong. Si tratta di un riferimento utile anche per la pianificazione commerciale:

● la maggior parte delle famiglie intervistate nel corso dell’indagine hanno espresso una generale soddisfazione riguardo all’esperienza degli acquisti, indicando di essere ben serviti, dal punto di vista delle distanze e della qualità. È implicito, dai risultati dell’indagine, che l’approccio adottato dal Governo alla pianificazione commerciale – ad esempio il fatto di lasciare l’offerta di superfici e la miscela di attività in gran parte al mercato – sembra funzionare in linea di massima;

● la maggior parte delle famiglie fa la spesa vicino a casa per le necessità quotidiane, in particolare gli alimentari; pochi attraversano la baia per acquisti secondari o di grande importanza. Questo indica che ai fini della pianificazione commerciale i bacini di riferimento possano essere relativamente ristretti;

● i formati commerciali moderni, come ad esempio i centri commerciali chiusi ad aria condizionata, sono molto usati, il che indica come una strategia di piano debba incoraggiare tale forma di insediamento. Ma molte delle persone intervistate hanno anche auspicato che si mantenga il commercio stradale, e che sia promosso in località adatte, in modo tale da dare varietà, vitalità e animazione al panorama urbano;

● la Ricerca ha anche evidenziato come siano molto poche le famiglie che fanno la spesa in automobile. Per assicurare che i nuovi insediamenti commerciali, in particolare per le merci di ordine superiore, possano servire i bacini di utenza più ampi possibili, sarà opportuno localizzarli entro i principali nodi del trasporto pubblico.

Scopo e obiettivi delle Linee Guida

1.6Scopo delle linee guida di pianificazione commerciale è di assicurare lo sviluppo di strutture attraenti e funzionali, che rispondano ai bisogni economici e sociali sia del Territorio che della particolare località in cui si localizzano gli spazi commerciali.

1.7 Queste linee guida si collocano entro un contesto quadro di ampie strategie. È stata adottata una Strategy of Positive Market Response a significare che l’insediamento commerciale deve essere determinato dalle forze del mercato, e che l’intervento di piano debba essere mantenuto al minimo.

1.8 Per quanto riguarda la dimensione dell’intero Territorio, si raccomanda un modello di previsione econometrico. Alle scale sub-regionali, di distretto urbano e locali, si raccomandano modelli basati sulle modalità di acquisti e la domanda di spazi commerciali. Essi possono venir utilizzati allo scopo di pianificare con anticipo e stendere norme edilizie.

1.9 È importante utilizzare flessibilità nell’applicazione delle linee guida, per consentire alle norme commerciali di adattarsi ai possibili mutamenti nelle caratteristiche demografiche, alle aspirazioni collettive, redditi, stili di vita, e anche per rispondere alle trasformazioni nella distribuzione geografica della popolazione e delle attività economiche.

1.10 Le linee guida per strutture di servizio come parcheggi e spazi per carico/scarico, sono contenute nei relativi capitoli delle HKPSG.

Obiettivi particolari

1.11All’interno degli scopi generali così come esposti nel precedente punto 1.6 ci si propone di:

● fissare linee guida ampie per facilitare lo sviluppo di strutture commerciali funzionali e attraenti attraverso una preventiva pianificazione;

● fissare criteri e metodi che permettano una scelta, consentano la libera concorrenza, offrano sufficiente flessibilità per adattarsi ai possibili mutamenti economici e sociali del settore.

Definizioni

1.12Il commercio al dettaglio può essere definito come vendita di beni in piccole quantità direttamente al consumatore, distinto dall’attività all’ingrosso, dove le merci sono comprate o vendute in grandi quantità da magazzini o grandi corrieri alle varie attività. Il commercio al dettaglio comprende anche le nuove forme di attività come il “ teleshopping” o quello via ordinazioni postali, o l’acquisto diretto di merci dai cosiddetti “grandi magazzini all’ingrosso” [ retail warehouses] che servono sia i consumatori che gli operatori. Comprende anche i servizi rivolti ai consumatori.

1.13 Per gli scopi di pianificazione, il commercio si articola in:

convenience goods : beni di consumo acquistati per le necessità quotidiane, come alimentari, libri e giornali, cosmetici, farmaci, bevande;

comparison goods : beni (di solito durevoli) che il consumatore sceglie per qualità, varietà e prezzi, come calzature, abbigliamento, arredamento, gioielleria, articoli personali, materiali elettrici e per la casa;

● ristoranti, bar e caffè: ad esempio cibi e bevande consumati lontano da casa;

● servizi commerciali: servizi associati ai centri di commercio, come banche, parrucchiere, lavanderia.

1.14 Queste definizioni commerciali comprendono quindi tutte le attività che possono essere contenute nelle strutture edilizie di negozi e ristorazione.

2. Distribuzione delle strutture commerciali

Una gerarchia

2.1È possibile fissare una gerarchia essenziale di centri commerciali in base alle dimensioni, alla popolazione (o bacino) servita, alla gamma di negozi presente, alla disponibilità di ristoranti, strutture per il tempo libero, servizi e altro.

2.2 Entro il Territorio si è evoluta una gerarchia non sempre chiaramente definita di centri. Quelli di scala metropolitana servono l’intero Territorio per i comparison goods di ordine superiore. Quelli regionali offrono pure soprattutto merci di alta qualità; di livello inferiore quelli a scala di distretto urbano, e infine i centri locali sono orientati soprattutto agli acquisti quotidiani. Una descrizione più dettagliata è quella che segue:

Centri di rango metropolitano

Sono gli shopping centres che offrono un gran numero di negozi, che vendono principalmente beni di consumo durevole, con un’ampia gamma di servizi come le banche, e poi molti cinema, ristoranti, teatri. Per le loro dimensioni, tipi di negozi, accessibilità, i centri di scala metropolitana si orientano a servire l’insieme di Hong Kong e il flusso turistico verso Hong Kong (ad esempio le zone Central, Tsim Sha Tsui o Causeway Bay). Offrono anche strutture per il divertimento e l’incontro sociale a scala dell’intero territorio.

Centri di scala regionale

Si tratta di zone commerciali che ricoprono un significativo ruolo regionale per bacini di utenza da 250.000 a 1.000.000 di abitanti. Sono caratteristicamente collocati all’esterno dell’area metropolitana centrale, nei nuovi poli urbani (ad esempio Tsuen Wan, Sha Tin, Tai Po, Fanling/Sheung Shui, Yuen Long o Tuen Mun). Questo tipo di centri può occupare dai 50.000 ai 250.000 metri quadrati di pavimento, e si caratterizza per l’offerta di moderni grandi magazzini e supermercati, oltre a una vasta gamma di servizi annessi, come banche, ristoranti, cinema, teatri e altre strutture di aggregazione sociale.

Centri alla dimensione di distretto

Sono gli shopping centres di dimensione media, urbana o di distretto extraurbano, di solito a servizio di un bacino di popolazione da 50.000 a 250.000 abitanti (ad esempio Wan Chai nella zona urbana, Kam Tin in quella rurale). Questi centri tipicamente occupano da 10.000 a 50.000 metri quadrati di pavimento. Contengono strutture che offrono servizi limitati per il tempo libero e la socialità, ma significative concentrazioni di commercio e ristorazione.

Centri locali

Si tratta di piccole concentrazioni di negozi a servizio di un bacino locale di popolazione, inferiore ai 50.000 abitanti (ed esempio l’area Fung Tak o quella Tai Yuen), e che offrono servizi commerciali e ristorazione. La maggior parte di questi centri locali occupa una superficie inferiore ai 10.000 metri quadrati.

3. Strategie di pianificazione commerciale

Una strategia orientata al mercato

3.1The objective of the strategy is to encourage retail development according to market needs within a planned hierarchy of provision, and to maintain the functions and vitality of established centres. This strategy will be reflected in the Territorial Development Strategy when opportunity arises.

Alla dimensione del Territorio

3.2A livello dell’intero Territorio, la strategia prevede che la necessità di superfici commerciali venga determinata utilizzando il modello previsionale delineato ai punti successivi, da 4.3 a 4.5. La previsione calcolata nell’ambito della Ricerca di cui al punto 1.3 precedente, indica che il bisogno di spazi commerciali privati crescerà da circa 7,5 milioni di metri quadri IFA del 1995, a circa 10,1 milioni nel 2011. Le superfici necessarie per quanto riguarda le proprietà Housing Authority e Housing Society cresceranno prevedibilmente con un tasso simile. Questa previsione offre la base per l’individuazione di superfici edilizie o territoriali, e la realizzazione di infrastrutture, nel quadro della complessiva Territorial Development Strategy. È utile esaminare a scadenza annuale la strategia, per verificare se le localizzazioni previste nei piani regolatori locali e i progetti presentati e in corso di esame rientrano nel quadro generale dei bisogni, e non costituiscono un’offerta eccessiva, o troppo limitata.

A scala sub-regionale

3.3A livello sub-regionale, la strategia riconosce una gerarchia di centri commerciali alla scala metropolitana, regionale, di distretto e locale, in base alla gamma e tipi di beni e servizi resi disponibili e ai bacini serviti. Per facilitare la previsione degli spazi commerciali, e consentire il monitoraggio della domanda e offerta di superfici per questi centri, la strategia propone di mantenere l’attuale metodo di previsione sulla base delle spese correnti, corretto da parametri basati sui dati raccolti dalle indagini della Ricerca.

Nella dimensione locale

3.4A livello locale, la strategia consente che sia il mercato a determinare la localizzazione e realizzazione di centri di distretto e locali nei luoghi più adatti, di norma in corrispondenza dei principali insediamenti residenziali, in base alle sole regole e controlli urbanistici correnti, ad esempio la quota di superfici non residenziali fissata nelle norme edilizie, urbanistiche, di zona.

[...]

Nota: la versione originale e integrale delle Retail Planning Guidelines (che comprende fra l’altro il metodo, modello e schemi di calcolo per la previsione dei bisogni), è disponibile - non scaricabile - sul sito del Planning Department del Territorio di Hong Kong ; per capire meglio la centralità del trasporto pubblico, qui su Eddyburg l'esempio della nuova linea di metropolitana per Disneyland Hong Kong (f.b.)

Titolo originale: DestiNY’s Child – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Mentre il Senato decide sul disegno di legge per l’energia sostenuto da Bush, e gli ecologisti diffondono nuovi segnali disagio sulla pervicace dipendenza dell’America dai combustibili fossili, chi lo crederebbe che il prossimo grande passo verso le energie rinnovabili si debba a un tenace costruttore di centri commerciali, con forti legami al Partito Repubblicano, e 25 mega-malls sotto la cintura?

Immaginatevi un mastodontico complesso commerciale nel nord dello stato di New York – una cosiddetta “città del commercio”, grande abbastanza da far sembrare il Mall of America un bruscolino – con migliaia di negozi, e ristoranti, teatri, alberghi, un centro di ricerche e sviluppo per l’alta tecnologia applicata al commercio, e un’enorme biosfera a clima controllato per i divertimenti. Insomma, un altro abominio ambientale, vero?

Non è proprio detto.

Il titano del centri commerciali Robert Congel, uno dei principali operatori edilizi mondiali del settore, sta iniziando la realizzazione di un multimiliardario complesso commerciale e per il tempo libero su 320 ettari, con tutte le piacevolezze descritte sopra, ma senza – e qui viene la parte che si fa fatica a credere – usare nemmeno una latta di petrolio, o un kilowatt di energia di origine fossile. Esatto, gente: un mega-mall al 100% di energia pulita. Congel giura che sarà la cosa più simile al “Programma Apollo” che si sia mai vista in America per quanto riguarda le energie rinnovabili: crescita economica, rafforzamento della sicurezza nazionale tramite indipendenza energetica, tutela dell’ambiente.

Secondo il programma, le ruspe di Congel – tutte spinte da puro biodiesel, com e il resto degli impianti da costruzione – dovrebbero iniziare a lavorare ai primi di giugno, in una vasta area ex industriale a Syracuse, New York, un tempo soprannominata “ Oil City” per i serbatoi giganti di greggio che ospitava. Ora qui si progetta di costruire quello che è ottimisticamente chiamato DestiNY USA [ le maiuscole alla fine di DestiNY sono le iniziali di New York n.d.T.] , un complesso commerciale che trae la propria energia interamente da turbine a vento, pannelli e cellule solari, biocombustibili.

Nonostante lo scetticismo di molti abitanti di Syracuse, degli analisti immobiliari commerciali, degli esperti di energie rinnovabili, sul fatto che un immenso progetto del genere, senza precedenti, possa funzionare, Congel non esita a fare grandiose previsioni per DestiNY, affermando che attirerà turisti da tutto il mondo, diventando un elemento paradigmatico in grado di catalizzare e trasformare il mercato nazionale delle energie rinnovabili.

Congel si fida così tanto del carattere simbolico del suo progetto, da aver messo insieme una coorte bi-partisan di politici per inserire nel progetto di legge sull’energia un articolo che richieda al presidente di selezionare e riconoscere “mega-progetti di tipo rinnovabile e sostenibile che possano spostare l’America verso l’indipendenza energetica”, come spiega Rich Pietrafesa, manager di DestiNY e conigliere politico di Congel. Il provvedimento non implica alcun sussidio o riduzione fiscale per l’impresa; è puramente simbolico. “Se la Casa Bianca afferma, questo progetto è fondamentale per il futuro e la sicurezza dell’America, sarà un gran passo in avanti verso l’accettazione commerciale delle tecnologie [di energia rinnovabile]” prosegue Pietrafesa.

Ciò non significa che il complesso non potrà avere riduzioni fiscali. Al contrario, il gruppo di DestiNY è riuscito ad assicurarsi una grossa fetta di vantaggi fiscali a tutti i livelli: comunale, di contea, statale e federale, con l’aiuto dei politici di New York di entrambi gli schieramenti, come i senatori Hillary Clinton(Democratica) e Charles Schumer (Democratico), e il Governatore George Pataki(Repubblicano). A livello federale, Clinton e Schumer hanno battagliato lo scorso anno per aggiungere 231 milioni di dollari al progetto di legge sulle tasse alle imprese, a finanziare 2 miliardi di dollari di “obbligazioni verdi” per insediamenti commerciali eco-friendly. Si prevede che DestiNY avrà una quota significativa di questi sostegni, a causa delle dimensioni senza precedenti.

Questo, naturalmente, se i costruttori saranno in grado di garantire i requisiti previsti, il che non è un obiettivo tanto facile, secondo Ashok Gupta, decano degli economisti energetici al Natural Resources Defense Council. “I requisiti ambientali per queste obbligazioni sono i più rigidi che io abbia mai visto: non si tratta di un regalo, da punto di vista politico” dice. Gupta afferma di essere stato colpito dall’entusiasmo del gruppo di lavoro di DestiNY per queste richieste tanto vincolanti, ma non è sicuro che i costruttori del settore commerciale sappiano davvero cosa hanno davanti. Faccio fatica a credere che i managers di DestiNY possano realizzare le loro promesse verdi”, continua. “Non hanno mai tentato un progetto ambientalista, e non i è chiaro se capiscano le dimensioni dell’impegno, dal punto di vista finanziario e pratico”. Anche i costruttori che hanno già lavorato su parecchi progetti edilizi verdi troverebbero straordinariamente difficile un piano su queste dimensioni.

Rick Fedrizzi, presidente dello U.S. Green Building Council, che ha fornito consulenza al gruppo DestiNY per la progettazione ecologica, è meno scettico. “All’inizio molti di noi erano increduli. Non avevo mai visto niente con queste dimensioni. Ma la squadra di DestiNY ci ha spinto sempre di più a sviluppare un piano che non solo si adegui, ma superi gli standard LEED [ Leadeship in Energy and Environmental Design n.d.T.], le linee guida per la progettazione ecologica considerate il banco di prova per le imprese. Fedrizzi aggiunge che Congel “sa chiaramente come agire” come si capisce da decenni di successo come costruttore. “Questa è l’opera che lascerà come eredità. È molto determinato a farla diventare un modello a scala mondiale”.

Un tocco di classe mondiale

Gli obiettivi di Congel per le energie rinnovabili di DestiNY sono davvero di dimensioni mondiali. Considerando il solare, DestiNY produrrebbe e consumerebbe “al minimo 32 megawatt di elettricità di origine solare” secondo Pietrafesa. Messo in prospettiva, 32 MW non solo rappresenterebbero la più grossa installazione solare del mondo, ma un terzo della capacità solare totale installata annualmente negli USA.

Il complesso consumerebbe, come minimo, 28 MW di elettricità da fuel cells (con idrogeno da fonti rinnovabili), ricorda Pietrafesa, e questo a sua volta aumenterebbe l’ammontare totale di energie da fuel-cell del paese circa del 60%. A questo DestiNY aggiunge una produzione minima giornaliera di 120 MW insieme da biodiesel e biomasse, e 44 MW da energia eolica: entrambe cifre da capogiro.

Congel si spinge fino a prevedere che DestiNY possa accelerare l’economia, sino al punto da rendere il prezzo delle energie rinnovabili competitivo con quello dei combustibili fossili nel giro di dieci anni, rivoluzionando così il campo energetico moto prima di quanto previsto dagli esperti.

I sostenitori delle energie rinnovabili sono più cauti. Thomas Leyden, vice presidente dell’impresa di energia solare PowerLight Corp., uno dei potenziali soci energetici di DestiNY dice “Può anche essere la più grossa installazione solare e di energie rinnovabili del mondo, ma non c’è possibilità che possa cambiare il mercato in soli dieci anni, o solo muovere le cose in modo significativo”. Leyden ricorda che la Germania aggiunge da 600 a 800 MW di energie solari l’anno, e il Giappone sta sullo stesso piano: ovvero, DestiNY è una goccia nell’oceano in termini di economie di scala globale. Ma aggiunge subito: “Comunque, molti applausi alla capacità di visione di Congel. Voglio farne parte”.

Pietrafesa controbatte che l’impatto di lungo termine del mega-mall sulle economie energetiche sarà quello di generare una tendenza. Il gruppo di Congel sta discutendo coi costruttori, a livello nazionale e internazionale, che vogliono “creare il proprio DestiNY”. Pietrafesa prevede anche che il modello DestiNY “ispirerà i visitatori a prendere decisioni in termini di energie pulite per la propria vita”, trasformando così i mercati a partire dalla base.

Ma la tendenza ai mega-malls può essere controproducente, se significa più gente che si sposta su distanze maggiori a far spese? Gupta indica una contraddizione, in una struttura che non usa combustibili fossili, ma che ne richiede enormi quantità consumate dalle orde di chi ci arriva tutti i giorni, in aereo, treno, macchina o pullman organizzato. “Semplicemente, non c’è alcun modo di evitare che il consumo energetico dei viaggi verso il complesso commerciale superi i benefici ambientali del suo essere a energia non-fossile”.

Poi, naturalmente, c’è il fatto ovvio che si tratta di un mall: il grande tempio dell’iperconsumismo di stile americano.

Ma tutto questo non toglie l’incredibile ambizione di Congel, di realizzare una Mecca commerciale a consumo zero di energia. Un potente simbolo del fatto che profitti e combustibili fossili a basso prezzo non sono legati in modo inestricabile. Chi altro nel paese vuole impegnare l’incredibile somma di 20 miliardi di dollari pre realizzare questa visione? Chi altro vuole sostenere le energie rinnovabili con un progetto tanto eccentrico come un mega-mall a consumo zero? In un momento in cui i leaders Repubblicani spingono per un piano energetico quinquennale miope, con enormi regalie a Big Oil e a King Coal, gli americani dovrebbero applaudire l’ottimismo, a solo l’audacia, del sogno di Congel.

Nota: qui il testo originale - e alcuni links di riferimento – al sito di Grist Magazine (f.b.)

[Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini]

La diffusione urbana è un tema importante. Nonostante sia studiato dagli anni ’50, solo di recente è balzato all’attenzione dell’opinione pubblica. Il numero del dicembre 2000 di Scientific American ha pubblicato una ricerca sul problema. Un recente sondaggio rileva che gli americani sono più preoccupati per lo sprawl urbano e per il traffico che per la criminalità, la disoccupazione o l’istruzione: il che non è una sorpresa, per chiunque sia mai stato bloccato nel mare di traffico di un’autostrada a sei corsie.

Ma l’inarrestabile diffusione di case, centri commerciali, strade e parcheggi, ha effetti più dannosi dei ritardi dovuti al traffico. L’impatto ambientale è catastrofico. Gli habitat naturali, le zone umide e ambienti acquatici, sono stati spazzati via dappertutto. L’inquinamento idrico, e di un bisogno primario come la stessa aria, sono diventati tanto gravi da porre un concreto problema per la salute. Anche l’ispirazione delle notti stellate è andata persa in molti luoghi, a causa dello “inquinamento luminoso”.

La cosa più strabiliante è che ci sia voluto tanto tempo per svegliarci. Sono passati anni prima che le persone iniziassero anche lontanamente a diventare consapevoli del problema, e decenni per costruire un sistema di leggi e fare qualcosa di concreto riguardo ad esso. A quanto pare, l’uomo è lento a capire, e anche più lento a reagire.

Esiste una varietà di modi per risolvere il problema. Ma probabilmente uno dei principali sta nella legge da più di 3.300 anni. In una norma straordinariamente attenta, la Torah (Numeri 35:2) prescrive che le città dei Leviti debbano avere una fascia verde larga 1.000 cubiti attorno ad esse, ed altri 2.000 cubiti per l’agricoltura. Maimone spiega che queste norme si applicano per estensione a tutte le città di Israele.

In un colpo solo, questo ferma lo sprawl urbano e risolve la maggior parte dei suoi rischi ambientali. La città non può più diffondersi in modo incontrollato, il che significa che esiste un limite all’accumulazione di traffico e inquinamento. Alberi, vegetazione ed erba possono crescere, purificare l’aria, costruire un ambiente migliore per i nostri figli.

Campi aperti

Ma le norme ambientali non dovrebbero riguardare solo il lavoro degli urbanisti, Sono qualcosa che deve interessare ciascuno di noi. Questo è il motivo per cui la Torah fissa i modi che governano come ogni Ebreo deve rapportarsi a ciò che lo circonda. Secondo la tradizione, anche strappare una foglia da un albero senza motivo è proibito.

Un’altra regola della Torah, forse la più importante di tutte, stabilisce che un soldato che va alla guerra debba mettere una piccola vanga nel suo bagaglio. E no: questa piccola pala non gli serve a piantare un alberello per il Jewish National Fund. Né per scavare un canale, o migliorare il panorama. A dire il vero, non serve ad uno scopo chiaramente spirituale, o di moda ambientalista. È per scavarsi una latrina, così che le sue cose vengano sepolte e non rimangano sul terreno.

Incredibile! La Torah è un libro di religione, saggezza e spiritualità. E buttata lì in mezzo a una dissertazione sulla guerra – problema di grave significato nazionale – la Torah tratta la più bassa delle funzioni umane!

Perché? Perché la Torah insiste sul fare ogni cosa – si: ogni cosa – nel modo adeguato.

La nostra Torah è detta Torat Chaim: “istruzioni per la vita”. Ci da’ indicazioni pratiche per tutti gli aspetti dell’esistenza: dall’urbanistica alla latrina personale del soldato. Con squisita sensibilità e preveggenza, la Torah vuole farci agire in modo responsabile.

È un bene, che il mondo stia diventando più attento su questi problemi. Ma è una vera vergogna che ci sia voluto tanto tempo. Prima di sbandare fuori controllo, con le nostre capacità tecnologiche e i successi industriali, dovremmo mangiare un boccone di umiltà, e guardare alla saggezza che ci viene impartita dalla tradizione ebraica.

Nota: qui il testo originale al sito di Aish (f.b.)

CITY OF EDINBURGH COUNCIL, EAST LOTHIAN COUNCIL, MIDLOTHIAN COUNCIL, WEST LOTHIAN COUNCIL, Edinburgh and the Lothians Structure Plan2015, agosto 2004 ; estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

[...]

COMMERCIO E CENTRI CITTÀ

6.1 Per realizzare un tipo di insediamento più sostenibile, le politiche per il commercio e i centri città del presente structure plan mirano a:

• assicurare che la popolazione di Edimburgo e dei Lothians abbia accesso ad una vasta gamma di strutture commerciali di alta qualità, riducendo al minimo il bisogno di spostamenti, e massimizzando i benefici alla economia locale;

• assicurare un’equa, accessibile e sostenibile distribuzione delle strutture commerciali, con i nuovi interventi concentrati ovunque possibile in individuati centri;

• promuovere investimenti che aumentino la vitalità e solidità dei centri urbani, attraverso miglioramenti della qualità ambientale, dell’aspetto esteriore, dell’accessibilità, del marketing e della gamma e qualità commerciale e delle altre strutture;

• consolidare e rafforzare il ruolo del centro di Edimburgo come destinazione commercial e per il tempo libero di scala nazionale, e come principale polo per gli acquisti di livello superiore per l’est della Scozia;

• limitare l’ulteriore sviluppo di parchi commerciali o di altre strutture decentrate, a meno che vengano riconosciuti bisogni a cui è impossibile rispondere attraverso i centri città.

6.2 Indagini recenti hanno evidenziato che rispetto a prima viene attirato un numero minore di utenti verso il centro di Edimburgo, da oltre l’area dei Lothians. Allo stesso tempo, emerge un’ampia tendenza ad un flusso all’esterno della spesa, da parte dei residenti locali, verso centri al di fuori dei Lothians. Essenzialmente, si tratta di spese non alimentari, e molta parte si dirige verso Glasgow. Per recuperare questi acquisti “persi” occorre una migliore attrezzatura entro l’area dello structure plan.

6.3 Altre ricerche hanno mostrato che sarà necessario molto nuovo spazio commerciale entro la durata del piano, per tenere il passo con una domanda continuamente crescente. Tale domanda nasce dall’aumento di popolazione, e insieme dall’aumento nel potere d’acquisto individuale (particolarmente per i non alimentari), e nelle aspettative per una maggiore possibilità di scelta. Una migliore dotazione interna alla regione sarà di beneficio all’economia locale, e limiterà la crescita del traffico connesso agli acquisti. Oltre la domanda generata localmente, anche visitatori e turisti contribuiscono significativamente alle attività del centro di Edimburgo, sottolineando gli stretti legami fra turismo e commercio.

6.4 Le linee guida governative della NPPG8 ‘Town Centres and Retailing’ danno esplicita priorità alla rivitalizzazione di individuati centri urbani, sostenendo nel contempo l’importanza della concorrenza e delle possibilità di scelta del consumatore. Le linee guida chiariscono come i centri di città abbiano qualità particolari che li distinguono dai centri commerciali. Sono in genere più sfaccettati, e offrono un’ampia gamma di strutture e servizi, costituendo un riferimento sia per la comunità che per i trasporti pubblici. In molti casi, l’attuale forma e funzioni sono il prodotto di un lungo processo evolutivo. I centri di città devono avere precedenza su tutte le altre localizzazioni in termini di nuovi investimenti commerciali, e devono essere tutelati dagli impatti negativi. Ci si aspetta che le amministrazioni locali agiscano in modo propulsivo, insieme ad altri soggetti pubblici e al settore privato, per rimediare alle lacune e aumentare vitalità e solidità di questi centri.

6.5 Il commercio e gli altri tipi di strutture, come quelle per il tempo libero, non sono proibiti all’esterno dei centri urbani. Ma le linee guida nazionali richiedono di seguire un “approccio sequenziale”, dove un insediamento esterno ai centri è accettabile solo se rimedia a carenze che non possono essere soddisfatte da un intervento su un centro di città (o, nel caso, in una localizzazione ai margini del centro città). Questo tipo di approccio si basa sull’individuazione delle opportunità entro i centri, sia da parte degli operatori che delle autorità urbanistiche.

6.6 Nello structure plan di conseguenza il concetto di “centri commerciali strategici” viene sostituito dalla tematica dei “centri di città”, su cui si basa l’approccio sequenziale. Gli spazi che fungono da centri di città nei Lothians sono elencati nella apposita scheda. Si riconosce che anche molti piccoli insediamenti e sobborghi hanno propri centri consolidati, che offrono un servizio vitale ai quartieri circostanti. Si presume, nell’ambito della strategia generale, che questi centri locali debbano essere incoraggiati e tutelati. Comunque, sarà compito dei piani locali determinare il ruolo dei singoli centri secondo le particolari circostanze.

[...]

6.7 Nell’adottare l’approccio sequenziale, questo piano riconosce il bisogno di chiarire le priorità nei casi in cui i nuovi interventi non possono essere localizzati entro, o ai margini di un centro di città. In ciascun caso specifico, la preferenza verrà accordata in primo luogo al consolidamento e miglioramento di altre località commerciali che siano, o possano essere facilmente rese, accessibili attraverso varie modalità di trasporto. In primo luogo fra queste località ci sono alcuni centri principali che giocano un ruolo chiave per i bisogni commerciali regionali, e sono stati individuati per sostanziali investimenti. Sono elencati in una apposita scheda. Si noterà che per alcuni di questi sono state prese decisioni da parte del governo scozzese, che possono influenzare il loro potenziale di crescita futuro. Alcuni recenti studi sul commercio offrono ulteriori orientamenti sui possibili impatti di qualunque crescita sui centri città.

[...]

6.8 Si riconosce come organizzare la quantità richiesta di moderne strutture commerciali entro i confini di un centro città rappresenti una sfida notevole, a causa delle preoccupazioni per gli elementi storici, l’estetica, il traffico, ecc., oltre a quella di reperire gli spazi. Comunque, a livello nazionale la rapida attuazione dell’approccio sequenziale sta già evidenziando risultati positivi. È da notare come ci sia stata una deviazione degli investimenti verso i centri, specie quando il settore pubblico e quello privato coordinano i propri sforzi per il conseguimento di un obiettivo condiviso.

6.9 All’interno dei Lothians, si ritiene che esista il potenziale per un nuovo livello di offerta commerciale entro o ai margini dei centri urbani, se si utilizza un approccio coordinato ed esiste la volontà di prendere in considerazione soluzioni innovative. Comunque, nell’applicazione dell’approccio sequenziale, si deve mantenere un punto di vista ampio riguardo alla disponibilità di spazi entro i centri, considerando i tempi lunghi necessari allo sviluppo dei progetti e al loro completamento. Quindi la focalizzazione sui centri non deve essere esclusa senza un’approfondita considerazione, non solo delle proposte di intervento attuali ma anche di spazi e localizzazioni potenziali.

RET 1: Approccio Sequenziale per la localizzazione di insediamenti commerciali e per il tempo libero

I nuovi insediamenti commerciali, per il tempo libero e altro adatti ai centri di città devono essere localizzati secondo le seguenti priorità, secondo la disponibilità di occasioni entro il previsto bacino di riferimento dell’intervento proposto:

a all’interno del centro di città (vedi scheda [ non riportata n.d.T.]); ove non possibile

b sui margini del centro di città, o sufficientemente vicino ad una sua espansione; ove non possibile

c entro un’altra individuata località a funzioni commerciali di dimensioni, caratteristiche e funzioni appropriate, come da scheda [ non riportata n.d.T.] di queste località; ove non possibile

d sui margini di una di tali individuate località commerciali, o sufficientemente vicino ad una loro estensione; ove non possibile

e il altra località, già attrezzata o prevista entro uno strumento di pianificazione locale.

[..]

6.10 Il Centro di Edimburgo è confermato come il principale centro di città dei Lothians, a coprire anche il ruolo più ampio di centro regionale per tutto il sud-est della Scozia. Si trova nello snodo centrale della rete del trasporto pubblico ed è la zona più accessibile della città-regione. Di conseguenza offre il maggior potenziale per continuare nella proposta commerciale di alto livello a servizio di un bacino ampio di attrazione. Ad ogni modo, esso presenta una serie di particolari difficoltà per gli operatori, con il suo paesaggio urbano di fama internazionale, un sistema delle proprietà e dei contratti d’affitto complesso, l’attenzione del pubblico per gli aspetti estetici e la congestione. A differenza di altre città, esistono poche superfici disponibili o sottoutilizzate nelle vicinanze del centro. Ciò non significa che non esistano opportunità: piuttosto, che l’approccio qui deve essere più flessibile e creativo, con grande attenzione ai dettagli. Un attento riuso o ristrutturazione di spazi sottoutilizzati sarà particolarmente benvenuto, se è possibile da realizzare senza compromettere altri obiettivi.

6.11 La strategia del presente piano pone particolare enfasi sull’incremento di vitalità del Centro di Edimburgo, e l’inversione della recente tendenza al declino della sua quota di mercato. Quindi il commercio e altri interventi appropriati entro il Centro Città saranno sostenuti e incoraggiati, posto che si prendano in considerazione le dovute cautele ambientali ed estetiche. [...]

6.12 Gli interventi del settore pubblico e di quello privato per la rivitalizzazione del Centro Città saranno coordinati da un City Centre Action Plan, sotto la responsabilità della Edinburgh City Centre Management Company. Ciò prevede un programma di miglioramento degli spazi pubblici, l’attenuamento della congestione e il miglioramento dell’accessibilità, l’individuazione di opportunità di insediamento.

[...]

RET 5: Compiti della pianificazione locale

Le autorità urbanistiche locali devono attraverso i propri piani e altre iniziative:

a fissare i confini dei centri di città e delle altre principali zone commerciali (elencate nelle schede);

b mantenere sotto controllo le potenzialità, debolezze, vitalità e affidabilità dei singoli centri, valutare gli indirizzi di pratico miglioramento, individuare specifiche opportunità di intervento;

c definire meglio i ruoli dei centri ove necessario; prendere in considerazione la possibilità di ulteriori estensioni; valutare gli obiettivi dei centri nel diversificare le proprie funzioni non commerciali; individuare le possibilità di miglioramento della qualità ambientale e della accessibilità, e assicurare un’organizzazione spaziale coerente.

d mirare a che i grandi supermercati alimentari, i grossi complessi e altri formati simili siano adeguatamente integrati nel paesaggio urbano locale, e offrano un ambiente gradevole a pedoni, ciclisti, utenti del trasporto pubblico;

e valutare l’adeguatezza delle strutture commerciali locali e compiere tutte le azioni adeguate a tutelare i centri di importanza locale e provvedere in caso di carenze;

f prevedere adeguate nuove strutture commerciali, particolarmente nelle zone di previsto sviluppo residenziale. [...]

Nota: per un confronto, sono disponibili su Eddyburg le Retail Guidelines nazionali britanniche aggiornate; qui la documentazione completa dello Structure Plan per la regione di Edimburgo e Lothians (f.b.)

Titolo originale: The vital businesses of immigrants – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Gli studi sulla realtà delle imprese di immigrati non hanno bisogno di motivazioni particolari. Il semplice fatto che queste imprese siano aumentate in modo vistoso in molte metropoli del mondo occidentale dovrebbe essere sufficiente a convincere le autorità, i politici, i ricercatori e gli analisti sociali che vale la pena di dedicarsi a questo argomento. Anticipando un’obiezione comune, si deve sottolineare che l’impresa gestita da immigrati non deve essere vista in modo romantico. Spesso nasconde un lavoro duro e mal pagato, e le barriere all’uso di lavoro regolare che esistono nei paesi di accoglienza non sono sempre neutrali in questo senso. Non sono solo le barriere linguistiche o la mancanza di formazione, a presentare ostacoli per gli immigrati, ma anche il pregiudizio e la xenofobia. Ma anche demonizzare il fenomeno – vederlo come parte di una consolidata alienazione – non aiuta. In paesi come il Regno Unito o gli USA molti gruppi di immigrati sono riusciti con successo ad uscire dalla propria comunità etnica, e ad unirsi alla maggioranza della popolazione. In tal modo le attività sono state in grado di crescere notevolmente di dimensione.

Ma ci sono altri motivi per studiare le economie etniche, in quanto caso speciale, che mostrano elementi validi per l’economia in generale. Gli immigrati non sono, dopotutto, i soli individui vulnerabili nei paesi del mondo ricco, e attraverso l’imprenditore immigrato forse è possibile rintracciare un meccanismo più generale. Queste imprese non differiscono in nessun aspetto fondamentale da quelle ordinarie, si tratta più che altro di differenze di livello. È vero, che si basano su risorse di gruppo per diventare possibili, ma lo fa anche la media degli altri imprenditori, anche se non tanto spesso o tanto chiaramente. Si lavora duro, ma lo fanno tutti gli imprenditori in relazione ai dipendenti. Un’importante forza propulsiva per gli imprenditori immigrati, è la difficoltà di trovare lavori interessanti, o semplicemente di trovarne uno qualunque. Ma anche molti imprenditori non immigrati hanno spinte simili. Può essere il caso di superare un basso livello di istruzione, o di istruzione diversa dai propri interessi, o di affrontare la discriminazione di età prevalente nel mercato del lavoro. Ma superare le barriere non è la sola forza propulsiva. Gli imprenditori immigrati sono anche persone in grado di cogliere l’opportunità, esattamente come gli altri imprenditori. A New York, per esempio, i Coreani si sono appropriati del commercio ortofrutticolo: ma solo lì. In altri luoghi degli USA si sono avvicinati ad altri settori. Il motivo è che New York ha una struttura urbana tradizionale – dove i negozi di frutta e verdura trovano spazio – piuttosto inconsueta negli Stati Uniti.

Il concetto di capitale sociale di recente ha interessato i ricercatori di economia, come spiegazione del successo delle imprese. Dato che di regola gli imprenditori immigrati trovano più difficile avere finanziamenti dalle banche di quanto non avvenga per la maggioranza della popolazione, e sono per questo motivo più dipendenti dal capitale sociale, il loro caso particolare è un soggetto di studio molto produttivo. La stessa cosa vale per i raggruppamenti. È stato provato, ad esempio, che l’insediamenti di immigrati nella stessa area spesso riesce a sfruttare la situazione come risorsa. Nello stesso modo in cui agiscono in genere le imprese quando formano raggruppamenti regionali, come dimostrato da Robert Putnam.

Quello che gli studi sugli imprenditori immigrati possono mostrare è come tale processo inizi, e come possa variare a seconda dei prerequisiti del luogo, come gruppi etnici simili si collochino in luoghi differenti nel mondo. L’imprenditore immigrato, in quanto membro di un gruppo etnico, è semplicemente un fenomeno interessante da studiare, perché si tratta di una variante estrema dell’imprenditore comune. Può anche darsi – il che sarebbe certamente piuttosto ironico – che le economie etniche, considerate da economisti e sociologi come appartenenti ad uno stadio precapitalistico, siano di fatto l’avanguardia di una nuova economia, caratterizzata dalla globalizzazione, flessibilità, diversificazione, riduzione dimensionale organizzativa e di urbanizzazione, che si sta sviluppando nel panorama post-fordista.

Ci sono alcune ricerche che lo confermano. È chiaro che l’impresa di immigrati ha giocato un ruolo importante nel processo di miglioramento di aree degradate in molte grandi città dell’Occidente. La vitalità prodotta dalle strade degli immigrati tende ad attrarre il resto della popolazione. La sociologa urbana Saskia Sassen ha indicato come gli imprenditori immigrati si localizzino nelle metropoli del mondo contribuendo all’economia dei servizi. Non si tratta solo dell’esistenza di immigrati che iniziano un’attività, ma anche del fatto che gli immigrati arrivano, attratti dalla possibilità di iniziare un’impresa. Los Angeles si è trasformata, da regione dominata dalle grandi attività, in una delle aree degli USA con la più alta densità di piccole imprese. In questo caso gli immigrati hanno giocato un ruolo principale. Durante il periodo dal 1970 al 1990 la proporzione degli imprenditori locali è aumentata di soli pochi punti percentuali, mentre quella delle attività degli immigrati si incrementava notevolmente.

Quello che possiamo vedere in varie località nel mondo è, quindi, non solo che le grandi imprese occidentali stanno localizzando la produzione nei paesi a basso costo di stipendi, ma anche come gli immigrati dal terzo mondo stanno attivando imprese in Occidente, ripristinando così una produzione che era scomparsa. Sia in Europa che negli USA l’industria tessile ha, in questo modo, subito un vero e proprio rinascimento. L’enorme diversificazione di prodotti e servizi nelle nostre grandi aree cosmopolite, può anche essere messa in relazione alla crescita delle economie etniche.

LE RICERCHE SULLE ECONOMIE ETINICHE possono anche far luce sugli aspetti non-economici dell’impresa. Ad esempio, non è infrequente che imprenditori immigrati diventino importanti esponenti del proprio gruppo etnico, che agiscano come collegamento entro molte reti di relazione, che attraverso la propria presenza nella società rendano il proprio gruppo etnico visibile, che si assumano importanti responsabilità per il proprio ambiente immediato, o ruoli di “personaggio pubblico”. Questi aspetti sociali dell’impresa, spesso sono ahimè poco considerati. I motivi di ciò sono numerosi. Per la gran parte del XX secolo nei paesi occidentali ha dominato la nozione di “logica industriale”. Secondo questa logica, sempre più aree sociali avrebbero dovuto divenire industrializzate. La produzione su larga scala avrebbe prodotto anche una società basata sulla grande impresa, sulla grande organizzazione, su relazione sempre più formalizzate fra individui anonimi in un ambiente urbano. Semplicemente, non appariva di interesse studiare le condizioni dell’impresa. Quando negli anni ’70 iniziò a crescere il numero delle piccole attività, la cosa fu uno choc per il mondo della ricerca, e alcuni studiosi dedicarono gli anni ’80 a mettere in dubbio i dati statistici.

Un altro motivo, è la specializzazione della ricerca; anch’essa è affetta da una “logica industriale”, che porta all’incapacità di vedere le connessioni con fenomeni che si trovano al di fuori del proprio campo. È sintomatico, che gli economisti abbiano mostrato disinteresse quasi totale nel campo di ricerca delle economie etniche, che è stato invece dominato da sociologi, antropologi, e altri campi interessati ai temi della migrazione. Un problema specifico per il sistema industriale e di welfare svedese è, naturalmente, il nostro atteggiamento formale verso i problemi sociali. Pensiamo ai sistemi generali, e tendiamo a mettere in secondo piano la vita al di fuori di questi sistemi.

Esiste, ciò che è più importante, in Svezia una tendenza a mettere la testa sotto la sabbia quando una ricerca direttamente o indirettamente critica il sistema di welfare. Le modifiche introdotte lo scorso anno nel comitato di indagine sulla discriminazione, trasformato in un programma di ricerca autonomo, hanno probabilmente a che fare col fatto che le conclusioni del comitato erano state politicamente imbarazzanti: si affermava, in modo diretto, che le politiche seguite erano sbagliate. È stata invece istituita una nuova commissione denominata “Comitato Governativo di Indagine sui Poteri, l’Integrazione, la Discriminazione strutturale”.

La cosa interessante è che, se il comitato precedente tentava di analizzare la struttua sociale e le politiche seguite per affrontare il problema della disoccupazione fra immigrati, quello attuale tenta di spiegare la questione attraverso il concetto empiricamente nebuloso di razzismo. Ovvero: non ci sono errori nel modello politico svedese; è il razzismo nascosto in parte del popolo svedese. Ma se studiamo il rapporto OECD “ Tendenze delle Mistrazioni Internazionali” troviamo ad esempio che entro il gruppo di paesi OECD, Belgio, Svezia, Danimarca e Finlandia hanno le quantità più elevate di immigrati disoccupati, mentre paesi come USA, Canada e Australia non mostrano differenze di nessun tipo riguardo alla disoccupazione. Se seguiamo la linea della nuova commissione di inchiesta, allora il razzismo è molto più diffuso qui in Scandinavia, con l’eccezione della Norvegia, che sembra accogliere gli immigrati.

Siamo in un vicolo cieco, teorico e politico. In primo luogo, i modelli della spiegazione appaiono improbabili: non c’è molto, per sostenere l’idea che il razzismo in Svezia sia maggiore che altrove in Europa. Secondo, potrebbe essere che il problema di adattamento degli immigrati alla società svedese faccia luce sulle debolezze del modello svedese. I problemi che si trovano di fronte gli immigrati sono molto simili a quelli della maggioranza dei disoccupati. La Svezia, naturalmente, è la terra promessa del fordismo. È vero che, come il alte parti del mondo, abbiamo iniziato a chiudere le produzioni industriali, ma le nostre attività, organizzazione, stato sociale, sono ancora sulla grande scala, e le istituzioni la sostengono. Nonostante sia avvenuta una rapida crescita delle imprese di immigrati in Svezia negli anni recenti, non siamo in una situazione particolarmente buona paragonati ad altre nazioni occidentali. L’economia etnica svedese non rappresenta una quota importante del prodotto nazionale lordo, come ad esempio in Gran Bretagna, dove la popolazione dall’Asia meridionale da sola fattura annualmente 65 miliardi di corone svedesi. Allo stesso tempo, va detto che la Svezia in generale ha una bassa proporzione di imprese rispetto alle nazioni vicine, in un’epoca in cui il numero degli imprenditori aumenta quasi ovunque.

È anche peggio, se guardiamo alla disoccupazione fra gli immigrati svedesi. Qui come già detto prima arriviamo al livello minimo, paragonati agli altri paesi OECD. Se la disoccupazione è una importante forza propulsiva delle imprese di immigrati, perché la nostra economia etnica non è proporzionale alla disoccupazione? Mancano le occasioni? Possiamo fare il paragone con gli USA, dove non esiste discriminazione di qualunque tipo riguardo agli immigrati, nel mercato del lavoro. Essi non sono, in media, disoccupati con più frequenza di quanto non accada alla popolazione residente. D’altra parte, essi non sono neppure sovra-rappresentati come imprenditori, il che non avviene in Svezia.

PUO’ ESSERE, che esista una connessione fra l’impresa immigrata e le possibilità per gli altri immigrati di trovare un lavoro? Un legame ovvio è, naturalmente, nel fatto che gli imprenditori immigrati tendono a impiegare persone del proprio gruppo etnico: ma, il che è interessante, non solo da questo gruppo. L’esperienza USA mostra che gli imprenditori immigrati diventano commercialmente più forti nella fase di sviluppo, e ancora di più quando impiegano personale al di fuori del proprio gruppo etnico. L’ambiente di lavoro multiculturale che ne risulta molto probabilmente contribuisce a migliorare la comprensione fra persone con retroterra differenti. Non è difficile vedere che gli imprenditori immigrati di successo costituiscono parte importante del processo di integrazione. Ci sono anche altri fenomeni, a unire chi cerca lavoro e chi svolge attività in proprio. Come già notato, questi ultimi spesso diventano autonominati portavoce per il proprio gruppo etnico, e in tal modo contribuiscono alla solidarietà di gruppo, al senso di un destino condiviso che spesso caratterizza le comunità etniche nei paesi stranieri. Attraverso i propri contatti coi clienti, fornitori e autorità, gli immigrati imprenditori formano anche un importante collegamento fra il proprio gruppo e il resto della popolazione. Cosa più importante, essi contribuiscono a mantenere contatti con il paese d’origine e con connazionali in altri paesi. Concretamente, è l’ultimo tipo di contatto a rappresentare spesso il prerequisito più importante per lo stabilimento di un’attività. Molti imprenditori immigrati iniziano importando beni di cui esiste domanda all’interno del proprio gruppo, ma che non si trovano nel paese ospite. Questi beni diventano, prima o poi, ricercati anche dal resto della popolazione, e ne risulta un mercato più cosmopolita e una maggiore vitalità urbana. La presenza di imprenditori etnici negli spazi pubblici della città contribuisce anche ad aumentare la visibilità delle minoranze, il che può portare alla diminuzione delle differenze culturali.

C’È UN ALTRO ANGOLO CIECO nelle analisi sociali correnti, che può essere spiegato dalle economie etniche, ed è il significato della città. Economisti e sociologi, in particolare, tendono a vedere la città come quantità nota, risultato dello sviluppo tecnologico ed economico. Ciò, semplicemente, non è vero, il che è dimostrato da un esame rapido della storia dell’urbanistica. L’urbanistica moderna, così come è stata praticata in occidente dopo l’ultima guerra separando e specializzando attività e collegandole con percorsi specializzati, è il risultato di un’ideologia precedente dominante. Nel pieno dell’epoca dell’ingegneria sociale, architetti, urbanisti, sociologi e politici vedevano nell’industrialismo la formula generale del progresso, e le città venivano ricostruite con la grande impresa come modello organizzativo.

Abbiamo smesso di edificare secondo la rete di strade e piazze della città storica, e invece realizzato suburbi ovunque. Le zone residenziali, i centri commerciali, le company towns e le zone industriali erano progettate come énclaves isolate attorno alle città storiche. Quando questo nuovo sistema di costruire città fu impiegato su larga scala, incontrò aspre critiche, non ultima quella della sinistra. Il marxista Henri LeFebvre riassume il dibattito con queste eleganti parole:

“La città era un prerequisito dell’industria. Senza queste densità e opportunità, il primo capitalismo non sarebbe mai stato in grado di realizzare i suoi piani grandiosi. Ma ora che tutta la società è stata industrializzata e urbanizzata, la città reale è stata annichilita. Segregazione, separazione e semplificazione funzionale hanno impoverito la vita urbana, che era un tempo caratterizzata da varietà, mobilità, incontri, feste e giochi. I luoghi di incontro sono diventati parcheggi. Ora la lotta è per il diritto alla città”.

In origine, non è il mercato a richiedere la subordinazione della città, ma il mercato si adatta rapidamente ai prerequisiti ideologici, e anche ora stiamo continuando a costruire in questo modo, nonostante chi costruisce abbia perso i contatti con l’ideologia originaria. Quello che economisti, sociologi e molti altri dimenticano, è che la forma della città influenza in quanto tale la vita economica. Influenza, per esempio la formazione del capitale sociale, le agglomerazioni e i distretti, che spesso hanno un ruolo decisivo nella possibilità di stabilire un’impresa. Semplificando un po’, si potrebbe dire che le attività su larga scala sono favorite dall’urbanistica moderna, mentre quelle più piccole sono svantaggiate. È nella strada commerciale classica, la Hornsgatan di Stoccolma per esempio, che fioriscono al meglio i piccoli negozi, non solo perché c’è un gran numero di pedoni, ma anche perché il tessuto urbano consente una complessità socioeconomica, che rende più facile iniziare e gestire un’attività. Si offre anche flessibilità al processo di creazione dell’impresa. Chi non può permettersi una localizzazione sulla Hornsgatan lo può fare su una strada laterale. Occasioni de genere non succedono, in un centro commerciale. E la dimensione spaziale non è rilevante solo per i piccoli negozi.Sono la maggior parte delle piccole attività ad aver bisogno delle funzioni della città classica, come ha compreso LeFebvre. D’altra parte le grandi attività, all’apice dell’industrialismo, erano in gran parte autosufficienti, nel senso che non dipendevano dalle risorse della città nello stesso modo delle piccole imprese. Oggi, con le grandi unità che spezzettano il proprio ciclo produttivo su più piccole o ricorrono a imprese esterne, la situazione è diversa.

La Svezia è una nazione estremista per quanto riguarda la pianificazione urbanistica. In quanto grande nazione industriale, è stata particolarmente radicale nell’attuare un’urbanistica modernista. Nella maggior parte dei piccoli centri i nuclei storici sono stati demoliti per fare spazio ai grandi supermercati e ai grandi parcheggi. In questo modo abbiamo creato punti di concentrazione nelle zone centrali delle cittadine minori, dove prima esistevano vivaci strade commerciali. In più abbiamo introdotto le zone pedonalizzate nelle aree centrali, preparando la strada alla localizzazione delle attività ai margini urbani. Il commercio sta diventando sempre più auto-dipendente e di grandi dimensioni. È possibile che la pianificazione urbanistica sia, semplicemente, un ostacolo alle attività di piccola dimensione? Nel campo commerciale e delle attività connesse, indubbiamente si. Ci sono anche alcuni risvolti interessanti. Il geografo economico americano Richard Florida, nella sua ricerca sul “ceto creativo” (vale a dire i gruppi professionali che generano i principali valori aggiunti in economia), ha indicato quanto le attività economiche siano diventate dipendenti dalle località dove tali individui capaci desiderano vivere. Tale aumento di interesse per il luogo e i suoi caratteri, è chiaramente riflesso in una dichiarazione dell’ex CEO della Hewlett-Packard, Carly Fiorina, alcuni anni fa a un incontro coi governatori degli stati USA: “Potete anche tenervi i vostri sussidi fiscali e le nuove autostrade; noi andremo dove si possono trovare persone competenti”.

Florida, che compie studi dettagliati sulle preferenze del ceto creativo, riconosce che non tutti necessariamente desiderano vivere nelle grandi città, ma se lo fanno esse devono essere vivaci, autentiche, cosmopolite. La presenza di attività locali, e fra le altre di quelle gestite da immigrati, è una delle caratteristiche di questo tipo di ambiente. Il fatto che l’organizzazione urbana delle piccole cittadine svedesi favorisca in modo tanto unilaterale commercio e centri commerciali esterni potrebbe dunque, nel lungo periodo, dimostrarsi un grosso problema.

SE STUDIAMO COME si insediano gli immigrati in Svezia, vediamo che raramente riescono a conquistare le zone interne della città, ma in gran parte vivono nelle cosiddette “ zone programma milione” (aree edificate nell’ambito di un programma per realizzare un milione di alloggi, dal 1965 al 1974), dove scarseggiano strutture e strade adatte. Una eccezione è Möllevången a Malmö, e qui le attività gestite da immigrati proliferano. Gli immigrati sono anche diventati visibili, e interagiscono col resto della popolazione. Nel suburbio, sono strade e centri commerciali che contano. Può essere, questa, una delle spiegazioni al fatto che gli immigrati in Svezia non attivano più imprese come risposta alla notevole disoccupazione? Un paragone con la Gran Bretagna, che ha un’economia etnica molto forte, può far luce su questo aspetto, dato che la maggioranza degli immigrati del Regno Unito vive nei distretti storici delle principali città.

Anche da un punto di vista internazionale, ci sono pochi studi che in modo sistematico rapportano la struttura insediativa col risultato in termini di imprese di immigrati, ma l’importanza del luogo della città in cui gli immigrati fondano l’impresa emerge chiaramente dalle ricerche. “Ci sono significative differenze fra le varie città per quanto riguarda le attività gestite da immigrati, in parte per le differenze nella struttura urbana e industriale”, scrivono Pyong Gap Min e Mehdi Bozorgmehr. Ans Rekers e Ronald van Kempen sono più espliciti:

“La struttura spaziale di una città è importante per la funzione dei contenitori di attività. In molti paesi dell’Europa occidentale ci sono enormi differenze fra i quartieri delle città costruiti prima della seconda guerra mondiale, o dopo. Nei quartieri della vecchia città, negozi e altri esercizi crescono più meno spontaneamente attorno ai mercati quotidiani e lungo certe strade. Queste strutture ora hanno trovato nuovi utenti fra gli imprenditori etnici. I quartieri della città moderna d’altra parte sono spesso pianificati con cura, in molti casi in modo molto rigido. Talvolta ci sono leggi sul poter o non poter stabilire un’attività ... Almeno formalmente, è molto più difficile iniziare un’attività in queste zone”.

Può essere necessario qualche chiarimento. Non si tratta della distinzione fra città interna ed esterna, ma di diversi tipi di forma insediativa. Per motivi storici, noi associamo comunemente alcuni tipi di tessuto con la città interna, e altri col suburbio, ma le cose possono variare. In alcune zone interne delle città USA la morfologia urbana locale si è dissolta, producendo quartieri atrofizzati. Qui è un elemento di svantaggio, vivere nella inner-city. Ci sono anche casi come il Belgio, dove gli immigrati sono riusciti a stabilirsi nei distretti della città storica, senza che l’economia etnica abbia raggiunto livelli interessanti. Il Belgio, esattamente come la Svezia, appartiene al gruppo dei “ cattivi ragazzi” per quanto riguarda la disoccupazione fra immigrati, e quindi la pressione ad intraprendere una propria attività dovrebbe essere considerevole, ma il Belgio possiede in generale un debole settore di piccole attività. La situazione nelle città interne del Belgio è anche particolare riguardo allo spostamento dei ceti medi verso il suburbio, perché l’ideologia dei Cristiano Democratici ha tentato per un lungo periodo di limitare l’urbanizzazione, perché si temeva che le masse di lavoratori nelle città si autorganizzassero.

È per motivi come questi, che il ruolo dell’insediamento nell’economia è sempre stato tanto difficile da valutare, ma un modo per cogliere davvero il fenomeno è quello di indagare sui processi in corso in una medesima città. A Stoccolma la struttura urbana tradizionale è compresa nei margini della città vecchia, mentre abbiamo al di fuori la città moderna e dispersa. Quindi c’è un nucleo storico molto piccolo con un tessuto stradale classico, ed edifici che hanno stretta relazione con la strada. Al di fuori del vecchio centro, ci sono molte énclaves, unità di vicinato, che di norma mancano di strade urbana. Soprattutto, appartengono alle “zone programma milione” dove gli edifici residenziali sono posati liberamente sul terreno, e c’è carenza di strutture. Qui troviamo percorsi, piste ciclabili, strade, parcheggi, e centri commerciali locali.

Il fatto che la città antica abbia una struttura particolarmente favorevole alle piccole attività diventa evidente se studiamo la distribuzione delle imprese da 1-4 dipendenti a livello strada a Stoccolma. Per cominciare, ci sono quattro volte tanti piccoli esercizi nella città antica, a parità di popolazione. Si possono vedere anche agglomerazioni lungo le strade commerciali importanti e attorno alle piazze della città vecchia, mentre vediamo lupi solitari sparpagliati in quella esterna. La città vecchia però subisce un processo di gentrification man mano diventa più costoso e difficile viverci e lavorare. Il potenziale di vitalità che esiste nella struttura di popolazione del suburbio non si sviluppa, perché il tipo di struttura spaziale pone degli ostacoli. Ma anche i quartieri della città e il suburbio variano in struttura, sia interna che di relazioni col mondo esterno. Rinkeby, con la sua lata quota di immigrati, è uno dei suburbi con una struttura più urbana. L’insediamento è denso, ha un rudimentale tessuto stradale e strutture adatte sia sulla piazza che in altri punti. Non sorprende che ci sia un gran numero di negozi e altre attività di immigrati, qui.

Una situazione comune riguardo alle economi etniche è che gli immigrati che abitano vicini utilizzino risorse in gruppo per iniziare l’attività, e la vicinanza dei clienti per vender loro merci e servizi. È un processo presumibilmente più facile se l’area possiede un tessuto articolato di ambienti pubblici, dove esistono strutture adatte e si possa manifestare una vita di strada. Possiamo fare un paragone con Rosengård a Malmö, che ha un’alta quota di immigrati, ma un insediamento molto più diffuso di quello di Rinkeby. Qui non c’è niente di paragonabile alla stessa vitalità.

Quando è stata colmata la nicchia del vendere agli appartenenti del proprio gruppo etnico, lo stadio successivo è di conquistare nuovi mercati, nella forma di altri immigrati o della popolazione residente. La cosa è più facile, naturalmente, se questo mercato più ampio sta nelle immediate vicinanze. Ma Rinkeby oggi è una énclave isolata. Le comunicazioni con gli immediati dintorni sono scarse, e notevole la distanza dall’ambita città vecchia. Se gli abitanti di Rinkeby vivessero in quartieri urbani con un sistema stradale continuo, avrebbero oggi un ambiente gradevole, che presumibilmente attirerebbe visitatori da altre zone. La segregazione in sé non è necessariamente un problema, può anche essere una risorsa per costruire la solidarietà di gruppo. Il problema per gli immigrati a Stoccolma riguardo al tipo di edificato, è piuttosto la somma di segregazione e isolamento spaziale.

Nel caso di Rosengård c’è un altro elemento di preoccupazione. La struttura interna è diffusa, ma il centro commerciale sta lungo una delle arterie centrali di Malmö. Così si è insediata una delle principali catene svedesi di supermercati alimentari che offre più o meno 25 posti di lavoro a basso salario, ma contemporaneamente getta un’ombra funzionale su tutta la zona. Non è facile fargli concorrenza.

Rosengård mostra gli effetti della pianificazione modernista: una generale desolazione, interrotta qui e là da grandi concentrazioni. Questo sistema differisce radicalmente dalla distribuzione continua e molto più variegata di attività della città classica.

QUELLO CHE SPERIAMO di spiegare restringendo queste riflessioni sul rapporto fra economie etniche e organizzazione dell’insediamento sono i prerequisiti interconnessi di carattere socioeconomico che facilitano la nascita di attività e la creazione di agglomerazioni spontanee. Il rapporto fra zone urbane e risultati economici esiste, ma è una questione di legami complessi. Parlando in generale, si può però su base empirica affermare che la città tradizionale offre maggiori prerequisiti per le piccole attività di quanto non faccia il suburbio, con la sua separazione di funzioni.

L’aspetto forse più interessante delle piccole attività è che ovunque esse si rinnovano con grande rapidità. Le idee vengono sperimentate, raffinate e scartate. Un gran numero di accademici ha sottolineato la maggiore capacità delle piccole imprese di creare innovazioni radicali, rispetto alle grandi attività. In Svezia si afferma spesso in termini negativi come solo una piccola percentuale delle piccole attività abbia successo. È un punto di vista su cui richiama l’attenzione lo studioso specializzato in piccole imprese Peter Drucker: “ Aver solo attività hi-tech , non integrate entro una più ampia economia di impresa no-tech , low-tech e middle-tech è come avere la cima di una montagna senza la montagna”.

Le piccole attività dunque formano il terreno di coltura su cui prospera lo sviluppo economico. Come si sviluppa e si mantiene, attraverso le reti e culture della conoscenza? La Hornsgatan è da lungo tempo una strada di piccoli negozi. Come si riproducono?

Ci si può chiedere ad esempio cosa abbia significato la distruzione del quartiere attorno a Klara a Stoccolma per la capacità dell’are di produrre nuove attività. Il danno maggiore è stato forse non la chiusura di “ Johansson’s Gentlemen’s Outfitters” – avrebbe chiuso comunque, prima o poi – ma che sia stata distrutta la struttura socioeconomica legata alle piccole attività.

Ora ci troviamo in un’economia dai rapidi mutamenti, dove creatività e flessibilità delle piccole imprese sono significative. Gli imprenditori immigrati nelle grandi metropoli dell’occidente si sono dimostrati importanti in questo processo, non solo per quanto riguarda il commercio, ma anche la produzione. Come molti altri piccoli imprenditori, essi dipendono dall’accesso all’ambiente urbano. Quando i modelli organizzativi dell’industrialismo perdono la propria influenza, la città reclama il proprio ruolo come motore dell’economia. Ma il rinascimento della vita urbana porta a un incremento dei prezzi immobiliari. Ora abbiamo scarsità di ambiente urbano a prezzi accessibili e contemporaneamente abbiamo moti immigrati in tutta Europa costretti entro suburbi isolati di grandi dimensioni. Non è economicamente possibile demolire tutto quanto, ed è anche difficile cambiare qualcosa, entro le strutture esistenti.

Queste circostanze rappresentano ora uno dei maggiori problemi in Europa. In Svezia molte di queste aree sono di proprietà pubblica, di grandi organizzazioni burocratiche che non vogliono vendere ai residenti, e che preferiscono non trasformare le strutture esistenti. È un fenomeno che emerge chiaramente dalle interviste agli immigrati nei sobborghi di Stoccolma condotte dall’etologo Siv Ehn.

Nota: la versione originale e integrale (con le note bibliografiche) di questo articolo, insieme agli altri saggi paralleli, alla rivista svedese AXESS (f.b.)

Per riconoscere il commercio big-box, piaccia o non piaccia il nome, basta poco:

Occupa sempre almeno più di 5.000 metri quadrati, di solito da 10.000 a 20.000. Guadagna sulle quantità di merce venduta (e relativo traffico di fornitori e compratori). Gli edifici sono blocchi rettangolari senza finestre. I parcheggi possono occupare anche ettari di superficie. L’orientamento esclusivo alla mobilità automobilistica tende ad escludere dalla progettazione generale degli ambienti insediativi tutto ciò che ha a che vedere con la pedonalità. Si presenta ovunque più o meno uguale, si tratti di una grande città o di un contesto rurale.

Cosa ci si guadagna, dal commercio big-box? Essenzialmente, prezzi più bassi, o meglio un certo rapporto fra prezzi e scelta, senza perdere troppo tempo nella ricerca di alternative. Ci possono anche guadagnare le società locali, se riescono a stabilire rapporti convenienti con la Grande Scatola. Ma ci si può anche perdere, dal commercio big-box: i piccoli operatori commerciali locali, gli impatti ambientali dell’insediamento e del traffico, l’urbanizzazione irreversibile di suoli per funzioni che possono avere vita anche brevissima, e lasciarsi poi alle spalle un guscio vuoto difficilissimo da riutilizzare.

Dal punto di vista della progettazione del sito e architettonica, i problemi sono quelli dei caratteri degli edifici, dei colori e materiali, del rapporto con spazi aperti e quartiere, del traffico e sistema di mobilità pedonale. Una buona pratica, in generale, è quella di perseguire strategie flessibili, entro cui IKEA non possa semplicemente far atterrare un proprio progetto indifferente all’ambiente locale, ma ne rifletta le specificità sottolineandole ed inserendosi.

E poi dicono che dalla globalizzazione non ci si guadagna nulla! Ci si guadagna eccome, ad esempio un sacco di tempo nel descrivere le cose: per parlare del nuovo Ikea di Roncadelle mi serviva un buon incipit, e me lo sono trovato bell’e pronto sul sito della Columbia University. Dove non hanno la più pallida idea di dove sia Roncadelle, ma in compenso sanno benissmo cosa sono il commercio big-box, e quella sua versione giallo-blu svedese, che da New York alla padania e altrove sembra presentarsi identica. Così, con qualche minima licenza poetica, ho trascritto un loro testo, che è quello del paragrafo precedente e che va benissimo sia per la baia dell’Hudson che per le rive del Mella, fra le tangenziali sud di Brescia.

Si è infatti inaugurato, dopo settimane di pubblicità con lo slogan “gli svedesi si sono allargati”, il nuovo negozio Ikea di Roncadelle, a un tiro di sasso (letteralmente) dai confini sud-ovest di Brescia, e qualche centinaio di metri a nord dalla vecchia sede, la cui insegna spunta ancora visibile per gli automobilisti sulla Milano-Venezia. Sotto quell’insegna si erano accumulati negli anni alcuni problemi legati ad una parte di quegli automobilisti, ovvero quelli che dopo aver occhieggiato la scritta iniziavano a cercare il casello d’uscita, e poi a seguire le indicazioni verso il grande emporio di articoli per l’arredamento e la casa. La striscia commerciale che ospitava il little-box (oddio: mica tanto piccolo, poi) giallo-blu, stava di fatto inserita in un quartiere di villette e poco altro; ci si può immaginare l’entusiasmo dei residenti per quelle file interminabili di appassionati della libreria componibile Billy, per non parlare della massa stessa dell’edificio e di quelli di servizio, o dei movimenti di mezzi per le forniture, la rimozione dei rifiuti. Insomma, moltiplicati per un bel po’ di volte, i disagi che conosce chiunque abiti vicino a un esercizio commerciale non familiare.

Il Comune di Roncadelle è un centro di circa 7000 abitanti contiguo a Brescia, nel quadrante sud-ovest dell’area metropolitana con un territorio definito dallo sbocco del corso del Mella verso l’aperta pianura, e dai nodi viabilistici fra il doppio sistema tangenziale sud (il tracciato della A4 e la circonvallazione in sopraelevata della Padana Superiore) e la provinciale 235 che scende verso la bassa di Orzinuovi. Il motivo principale per cui il nome è noto anche a che non abita nei paraggi, si capisce immediatamente anche passando oltre i limiti di velocità sull’autostrada o la tangenziale: la grossa, molto grossa, striscia dell’insediamento commerciale, che fra shopping malls, grandi e piccole scatole monotematiche, altri parallelepipedi da immagazzinaggio, manifattura leggera e annessi, si snoda per tutta la fascia est-ovest del territorio a cavallo delle grandi arterie. Come dichiarava un paio d’anni fa al giornale del comune il sindaco dell’amministrazione di centrosinistra Giovanni Ragni: “ Nel nostro programma c’è un progetto preciso ... trasferire fuori dal centro abitato gli insediamenti produttivi e commerciali più rilevanti e costruire una sorta di tangenziale che consenta di deviare il traffico di scorrimento fuori dal centro abitato”. Perché, per inciso, una delle caratteristiche delle grandi fasce commerciali è quella di mescolare (mescolare male, si intende) i flussi interregionali, quelli metropolitani, e last but not per niente least, locali.

Nasce da questo contesto il Piano Integrato di Intervento che prevede tra l’altro il trasferimento (e grosso aumento di volumi) del big-box Ikea dalla fascia a sud dell’A4, in una zona anche residenziale, a un’area fra la Tangenziale SS11 e i confini comunali con Brescia, a ridosso del corso del Mella e all’incrocio con la strada 235 per la bassa di Orzinuovi. Struttura chiave portante, una strada bypass che funge al tempo stesso da collegamento diretto fra il sistema delle grandi arterie e l’universo commerciale, senza interferire con la viabilità locale, e da “asse di arroccamento” (come si diceva una volta) interno al sistema. Le cifre: la nuova area, già destinata dal piano a zona artigianale, ha una superficie complessiva di circa 200.000 metri quadrati; superficie coperta 65.000 mq (slp circa 100.000); di questi, 25.000 sono per il nuovo big-box Ikea, altri 20.000 commerciali, meno di 10.000 artigianali e i rimanenti oltre 50.000 terziario. La superficie totale di 35.000 dell’ex Ikea a sud dell’A4 sarà recuperata a verde pubblico. Per dirla col Giornale di Brescia, “la soluzione, che soddisfa Comune e Ikea, è stata trovata ... in un’area che offre notevoli possibilità di accesso per la vicinanza della arteria a grande traffico”. Per dirla con lo strumento urbanistico comunale, “Nell’ambito, perimetrato in PRG e comprensivo delle aree limitrofe in zona D1, denominato “D2-A”, relativamente all’area IKEA, il PRG persegue il trasferimento delle attività commerciali esistenti in altra sede, dotata di più completa accessibilità viabilistica ed ubicata in minore prossimità all’abitato. La collocazione più idonea per il trasferimento delle attività commerciali esistenti nell’ambito in esame”.

Per dirla con la modesta opinione del sottoscritto, una cosa è certa e comprovata: il programma enunciato dal sindaco, di separare il complesso degli insediamenti commerciali (che non votano) dal sistema insediativo residenziale e di piccole attività (che votano, e che hanno indubbiamente diritto a respirare un po’ meglio) di Roncadelle, è senza dubbio in via di attuazione. Resta da vedere l’evoluzione del grande organismo organizzato attorno ai due shopping malls (il grande Rondinelle fra le due arterie est-ovest, e il pur ragguardevole Brescia 2000 nel nodo con la 235), alla nuova tangezialina bypass di “arroccamento”, e al nuovo big-box Ikea, che si staglia sull’orizzonte nord a schermare buona parte delle colline, a involontaria (?) parafrasi del Deposito di Zio Paperone. Parlo di evoluzione del grande organismo in senso proprio, e non semplicemente della realizzazione di tutti i metri quadri e cubi previsti, e/o dell’interazione fra le sezioni stradali della tangenzialina e il traffico interregionale dei week-end, magari a caccia delle occasioni Ikea o delle promozioni Auchan (l’ anchor del mall Rondinelle”).

In altre parole: un conto è il fatto di aver separato i due sistemi di circolazione, escludendo le strade locali dal traffico di attraversamento e annessi; un altro fatto è l’avvenuta segregazione funzionale, con un ambiente esplicitamente automobile-oriented, dove anche i lavori di organizzazione e finitura dei grandi spazi a verde (ancora in corso) sembrano confermare questa impressione di “enclave”, priva di rapporti spaziali e funzionali col resto dell’insediamento. Se l’amministrazione voleva “liberarsi” del problema, insomma, ci è riuscita perfettamente, creandone però un altro probabilmente destinato a riproporsi tra non molto, ovvero quello delle terre di nessuno alimentate solo dalla vigilanza privata, dalle imprese di manutenzione del verde, al massimo da qualche sfigatissimo automobilista in panne nel bel mezzo della prospettiva trionfale, dallo snodo della tangenzialina al Deposito di Zio Paperone. Il quale come tutti sappiamo non abita nemmeno lì, perché come diceva un consigliere municipale di una piccola città USA a proposito di big-box: “se di notte non riuscite a dormire e sentite un fruscio, sono i vostri soldi che se ne vanno via”. L’unico dubbio: se ne andranno verso Milano, Venezia, o magari Orzinuovi?



Nota: i testi citati nell'articolo sono: dibattito alla facoltà di Architettura della Columbia Universityper il nuovo Ikea a New York; Giovanni Spinoni, "Nuova sede per l’Ikea, l’attuale diventerà verde pubblico", Il Giornale di Brescia, 14 agosto 2002; i materiali citati prodotti dal Comune,"Mella 2000”, periodico Roncadelle, maggio 2003, Norme Tecniche di Attuazione al Piano Regolatore (febbraio 2005), Art. 19 sulle aree per la grande ditribuzione, sono disponibili al ricco sito del Comune di Roncadelle; e forse vale la pena ricordare che, a circa un chilometro da qui, lungo una delle diramazioni della stessa Tangenziale, c'è l'Outlet Franciacorta, già presentato su Eddyburg (f.b.)

Parla Luc Vandevelde, presidente del colosso francese: “Pronti a nuove acquisizioni in Italia”. “Dobbiamo consolidare la nostra presenza al Sud”. “Wal Mart? Non credo che comprerà in Europa”

MILANO - “L’Italia è un Paese strategico per il gruppo Carrefour, abbiamo investimenti diretti e alleanze forti con partner di rilievo come Finiper, continueremo a crescere investendo su più fronti e facendo acquisizioni mirate “ . Luc Vandevelde, presidente del gruppo transalpino primo in Europa e al secondo posto nel mondo nel business della grande distribuzione, parla con soddisfazione dell’Italia, un mercato che finora ha gratificato l’impegno del colosso francese che ha mostrato un’andatura un po’ incerta negli ultimi mesi. Tanto che il vecchio management, capitanato da Daniel Bernard, ha passato la mano a fine 2004 a una nuova squadra guidata appunto da Vandevelde e dall’amministratore delegato Josè Luis Duran.

Quali sono gli obiettivi di Carrefour per il mercato italiano?

Intanto continueremo a fare acquisizioni mirate di imprese della distribuzione moderna che abbiano un buon posizionamento a livello locale. In Italia vogliamo consolidare le nostre posizioni, che ci vedono tra i leader sia a livello nazionale sia in diversi ambiti locali. Dobbiamo però sviluppare meglio la nostra presenza, consolidarci nel mezzogiorno. Anche al Nord ci sono buoni margini per crescere ancora.

Quindi siete a caccia di realtà da acquisire.

È una delle opportunità che valutiamo di volta in volta e che cogliamo a seconda dei casi. Stiamo seguendo un modello di sviluppo multicanale, ossia vogliamo crescere in tutti i formati che abbiamo, dagli ipermercati ai negozi di minori dimensioni che sono molto vicini ai consumatori. È questa l’opzione strategica che caratterizza anche il gruppo a livello internazionale.

Non spaventa la crisi dei consumi?

La crisi della spesa è comune un po’ a tutta l’Europa. Fa eccezione il mercato inglese. L’Italia costituisce semmai un interessante laboratorio di osservazione sulle formule commerciali. In questo senso è importante la partnership strategica che abbiamo siglato con il gruppo Finiper, che fa capo a Marco Brunelli. Nell’alimentare Finiper ha ottenuto ottimi risultati cui guardiamo con estremo interesse. Al tempo stesso Carrefour in Italia è all’avanguardia sul non alimentare. La sfida dei mercati, a livello globale, può essere vinta offrendo risposte chiare e innovative alle domande dei consumatori.

Ma qual è il male oscuro della spesa delle famiglie?

Credo che sia soprattutto una crisi di fiducia che attraversa in maniera trasversale molti mercati. In Giappone, ad esempio, i prodotti di lusso hanno una diffusione molto ampia eppure le famiglie sono molto attente alla spesa. Ci vorrà indubbiamente del tempo per una ripresa, che penso sarà selettiva.

In che senso?

Non credo che i consumi alimentari, nel complesso, possano aumentare più di tanto. Anzi, per quanto riguarda l’Italia e Europa occidentale lo scenario è ormai consolidato; ci sono più margini in Asia o in America latina. Più dinamici invece i mercati non alimentari.

Perchè?

C’è molta più innovazione. Prodotti ed esigenze dei consumatori si evolvono con una certa rapidità. Basti pensare all’evoluzione della convergenza multimediale negli elettrodomestici, ad esempio. Interessante è anche lo sviluppo della telefonia.

L’alimentare quindi ha un orizzonte stabile?

La sfida si giocherà sulle preparazioni alimentari. Carrefour sta investendo molto in questa direzione perchè le famiglie passano sempre meno tempo in casa per cucinare, ad esempio. Il modo di consumare gli alimentari sta cambiando rapidamente e radicalmente ed è un processo che interessa vari Paesi. Quindi l’industria deve rilanciare sull’innovazione altrimenti avrà delle difficoltà. Credo poi che aumenteranno le concentrazioni tra i gruppi distributivi.

I rapporti con i grandi gruppi industriali restano conflittuali?

Sarebbe preferibile una maggior collaborazione verticale per creare più valore per il consumatore. Alcuni gruppi però hanno dei problemi, legati alla loro capacità innovativa. Unilever e Nestlè attraversano una fase complessa. Johnson & Johnson sta invece seguendo una strategia di posizionamento sui vari mercati più equilibrata. Ci vorrà tempo per comprendere appieno le sinergie dell’alleanza tra Procter & Gamble e Gillette. Un ruolo chiave sarà poi giocato dai prodotti con marchio del distributore, dove possiamo gestire noi marketing e margini. Sono destinati ad aumentare massicciamente.

E Carrefour dove va?

Anche Carrefour è in piena riorganizzazione. Siamo usciti da alcuni mercati per concentrarci su altri. Apriremo negozi per un milione di metri quadrati e acceleriamo sulle diverse formule commerciali. Gli ipermercati in generale non hanno tenuto il passo della dinamica dei consumi. C’è bisogno di un ripensamento, di formule più vicine e più sinergiche con i supermercati. Di estremo interesse sono anche i convenience store, negozi piccoli ma molto attraenti per i consumatori. In questo momento, poi, puntiamo sul Amercia latina, Est Europa e mercati asiatici: la Cina in particolare offre grandissime prospettive di sviluppo, i consumi galoppano. È come un continente dove gli investimenti sono appena all’inizio.

Vi trovate di fronte il concorrente di sempre, il gruppo americano Wal Mart.

Non c’è una concorrenza diretta. C’è spazio per tutti. In generale poi le formule commerciali sono differenti. Crede che Wal Mart aumenterà la presenza in Europa? I risultati in Germania sono stati meno che mediocri, mentre è positivo il bilancio dell’inglese Asda, che però è un caso a sè. Non credo che nel breve Wal Mart possa rilevare in Europa un gruppo talmente leader da giustificare un investimento.

Carrefour entrerà in Usa?

Direi di no. Non avrebbe senso. Un investimento diretto per essere significativo richiederebbe un’enorme quantità di risorse. Puntiamo a crescere creando valore.

Titolo originale: Renaissance of the traditional city – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Sprawl” è un termine di origine americana, che riassume un problema complesso, una minaccia per la vivibilità a lungo termine delle città in tutto il mondo. Lo sprawl è indotto dall’ubiquità del trasporto a base di petrolio, ma è anche il risultato di un secolo di pensiero sconnesso, cartesiano, sulle città: il pensiero modernista, sempre più screditato. Negli ultimi cinquant’anni, i complessi autonomi per uffici e commercio, i sistemi residenziali a culs-de-sac, i grandi magazzini, ipermercati, superstrade, hanno ricoperto la maggior parte d’Europa, diventando un’esperienza di vita quotidiana.

Gli urbanisti e studiosi europei hanno riconosciuto da lungo tempo nello sprawl una questione difficile, ma sinora è stato fatto poco, e il problema non è ai primi posti nella coscienza collettiva. Al contrario, negli Stati Uniti, commentatori e organizzazioni conducono continui attacchi allo sprawl, portandolo alla ribalta del dibattito pubblico. Un gruppo a larga base che comprende urbanisti, architetti, costruttori, ambientalisti, cittadini dietro la bandiera del “ new urbanism” lavora con impegno per sviluppare soluzioni pratiche a questo problema. Il movimento si concentra sulla progettazione fisica e l’azione pratica sostenuta dall’impegno pubblico, e ha fatto rapidi progressi, conquistandosi quasi il 5% del mercato, molto vasto, delle costruzioni in USA nel suo primo decennio. Obiettivo del movimento è quello di ridurre la dipendenza dal petrolio nel settore dei trasporti. Non è nostalgico, né romantico, ma basato su una posizione teorica di principio. Esaminiamo per prima cosa quanto stanno realizzando ora.

Nel mondo specializzato dell’urbanistica modernista, le zone commerciali sono separate da quelle residenziali, queste dagli uffici, questi dalle industrie, e via di seguito. Le regole dell’ingegneria del traffico proibiscono di creare reti stradali interconnesse. Questo tipo di insediamento è sostenuto da uno zoning dove i “baccelli” industriali – le zones industrielles di Francia o gli industrial estates di Gran Bretagna – sono fisicamente separati dai luoghi dove vivono le persone. L’effetto complessivo di queste decisioni – una per una difendibili in base a criteri internamente coerenti – è di incrementare notevolmente la quantità e distanza degli spostamenti richiesti per la vita quotidiana, sia a piedi che in macchina.

L’origine di questa continua separazione tra funzioni può essere rintracciata, credo, nei successi del XIX secolo coi miglioramenti della salute pubblica attraverso nuove tecnologie, a partire dalla separazione delle reti idriche dalle fogne. Ciò alimenta la paranoia sulla pulizia – “vicina alla divinità” in un aforisma britannico – sul lindore e l’ordine.

L’urbanistica adotta subito l’autorità insita nell’approccio razionalista e “scientifico”. Gli esperti cominciano a definire le proprie aree di competenza, e l’approccio generalista si restringe. Si fanno analisi della densità residenziale, dei flussi di traffico, sulla salute e l’occupazione, prima in forma di studi, poi di norme. I vari esperi iniziano a tentare di razionalizzare la forma urbana – l’espressione più alta della diversità e complessità della vita umana – nei termini semplicistici possibili in presenza di strutture concettuali limitate e controlli rudimentali.

La diffusione di un gran numero di automobili porta alle discipline dell’ingegneria del traffico, dapprima negli USA e in Germania, poi altrove. Gli ingegneri del traffico applicano un pensiero cartesiano semplificato a problemi di flusso di traffico entro sistemi complessi come intere città. Coi limiti della matematica classica, ciò significa equazioni di base. Non era possibile quantificare i flussi in una rete sofisticata, e così il sistema fu immaginato come una serie di baccelli autosufficienti. Dall’analisi, il passo fu breve verso una progettazione stradale molto semplificata e diagrammatica. I flussi di traffico potevano essere quantificati, e ciò significava certezze in un mondo litigioso.

LA PIANIFICAZIONE AUTO-DIPENDENTE si basa sull’assunto di un uso del petrolio chiaramente insostenibile nel lungo periodo. La produzione di petrolio ha ora raggiunto un picco, e ci si aspetta una graduale diminuzione nel XXI secolo. Chiaramente, le città e regioni che dipendono dall’automobile privata probabilmente ne soffriranno, man mano i trasporti diverranno più costosi. Molte famiglie a basso reddito nelle periferie urbane – al di fuori del raggio di accessibilità pedonale ai servizi – che devono possedere e mantenere una o più auto per gestire la propria vita quotidiana, verranno ridotte in povertà.

Il dominio di una pianificazione auto-dipendente si rivela attraverso le attuali statistiche degli spostamenti, che mostrano come l’automobile privata sia il principale mezzo di trasporto nelle aree urbane d’Europa, nonostante venga compiuta una molto più alta percentuali di movimenti a piedi e in bicicletta che negli USA. Non esiste una sola spiegazione, per questo, ma si deve presumere che il motivo principale sia la sopravvivenza delle rete di strade a percorribilità pedonale nei centri delle città tradizionali europee. A differenza delle degradate inner cities degli USA, i centri città d’Europa sono in gran parte ben popolati, anche se soprattutto da ceti ad alto reddito.

La maggior parte delle urbanizzazioni nel mondo d’oggi consiste in sprawl suburbano, o in quanto è conosciuto negli USA come conventional suburban development (CSD). Non si tratta della risposta naturale ad una libertà di scelta – come sostengono alcuni critici, come l’ubiquo Randall O’Toole del Thoreau Institute – ma piuttosto il risultato di una pianificazione frammentata e irregimentata, e di un processo di costruzione edilizia dominato dalla cultura tecnocratica degli specialismi.

Il CSD si afferma in assenza di un chiaro consenso sui modi futuri dello sviluppo. Il processo parte con costruttori che acquistano terreni agricoli in una zona accessibile, anche se non è destinata all’edificazione. Negli USA, abitualmente vengono ricercati siti nei pressi delle strade di comunicazione, anche quando non contigui ai confini urbani. La pianificazione inizia caratteristicamente con uno studioso di scienze ambientali che individua quali zone naturali debbano essere conservate per la tutela delle specie rare e degli habitat. Poi arrivano gli ingegneri del traffico, che seguono criteri quasi-scientifici per i flussi e le necessità di parcheggio, sulla base degli scenari peggiori possibili fissati per legge, sulla base di ricerche limitate e datate. Seguono poi i geometri, che definiscono il numero massimo di lotti di dimensione minima consentiti dalle norme residenziali del piano regolatore. Infine, vengono i costruttori dei volumi edificati, coi loro progetti da collocare nei vari lotti seguendo alcune regole per gli arretramenti sul fronte e sui lati fissate dalle norme urbanistiche, e realizzando parcheggi nelle quantità richieste dalle norme, o dal mercato. Negli USA ciò significa un’auto per abitante, e le abitazioni col fronte interamente occupato dalle aperture per le automobili – le cosiddette “ snout-houses” [case a grugno n.d.T.] sono la norma. Chi costruisce uffici realizza lo office park, ad una certa distanza dalle residenze, e altri costruttori commerciali la zona industriale, separata in modo simile. L’intero sistema di solito è finanziato dai gestori dei fondi pensione, che hanno poco interesse per il prodotto realizzato.

Nel sistema CSD le case, gli uffici, i negozi, le fabbriche e le scuole, sono tutti rigidamente segregati, col proprio sistema stradale che si collega soltanto alla viabilità principale. La rigida separazione delle funzioni e il sistema stradale chiuso così prodotti, significano percorrere lunghe distanze per le necessità della vita quotidiana. La maggior parte degli spostamenti sono in automobile, dato che poche persone si prendono la briga di camminare sulle lunghe distanze determinate dai culs-de-sac e dal sistema stradale gerarchico, o attraverso gli squallidi ambienti pedonali caratteristici del CSD. I genitori (di solito le madri) diventano taxisti dei figli.

COME POSSIAMO RIVOLTARE questo sistema tanto massicciamente consolidato? È inevitabile, che le nostre città e cittadine diventino sprawl? Alcuni architetti e urbanisti pensano di no, e stanno traendo insegnamento della struttura delle città tradizionali.

Molto di questo discende, credo, dal movimento per la conservazione urbana. La conservazione è un concetto che ha le proprie origini nelle prime manifestazioni del pluralismo illuminista. Gli architetti del Rinascimento italiano erano certi che i propri edifici fossero superiori a quelli del Gotico. Ma già gli osservatori Tories del diciassettesimo secolo spesso lamentavano la modernizzazione delle case medievali, e nel XVIII secolo era in corso di diffuso ripensamento il valore degli antichi monumenti. In questo periodo, chiudendo un ciclo iniziato col Rinascimento, si cominciano talvolta a restaurare e mantenere le cattedrali Gotiche secondo uno stile attento anziché contrastante.

Il ritmo avanzante delle nuove costruzioni e ricostruzioni negli anni di boom dopo il 1840 spinge altri a riconsiderare il senso degli interventi nelle città storiche. William Morris sosteneva come: “ È stato detto molto giustamente che ... questi vecchi edifici non appartengono solo a noi; che essi sono appartenuti ai nostri antenati e che apparterranno ai nostri discendenti, a meno che non li tradiamo. Non sono in alcun modo una nostra proprietà, di cui fare ciò che volgiamo. Siamo solo custodi, per quelli che verranno dopo di noi”.

È un passo concettuale importante, di grande influenza sugli atteggiamenti della conservazione. Ma si tratta essenzialmente di un punto di vista modernista, che suggerisce un solco insuperabile fra “allora” e “oggi”.

Dal 1882 viene conferito status legale a individuati monumenti antichi in Gran Bretagna, secondo una procedura gradualmente emulata in altri paesi, all’inizio solo per edifici di notevole antichità. Gli edifici danneggiati dalla guerra vengono restaurati anziché ricostruiti nella maggior parte delle città europee nel dopoguerra: conservazione e ricostruzione sono una cosa sola. Anche quando si intraprendono ampi processi di demolizione e ricostruzione, i monumenti importanti vengono conservati. La chiesa di St Giles è conservata a rappresentare il centro del Barbican nella Londra 1959-79 e la Marienkirche è abbandonata al centro della Alexanderplatz nella Berlino del 1965. Ma si nota da subito come il valore di questi edifici isolati sia molto diminuito dalla rimozione del loro contesto storico.

La Carta di Venezia del 1964, redatta dalla International Conference on Monuments and Sites (ICOMOS), fu rivoluzionaria per il proprio tempo, in quanto impegno alla conservazione da parte della maggioranza delle nazioni. In Francia, André Malraux iniziò a dichiarare intere città zone di conservazione. Ma le proposte della Carta contenevano la richiesta di una soluzione di continuità, fra gli elementi storici di un edificio e le parti nuove. Era una clausola scritta con buone intenzioni, ma ebbe conseguenze inattese e su scala enorme. Fu immediatamente interpretata dagli architetti modernisti a significare che i nuovi edifici, e le addizioni a quelli tutelati, non dovessero armonizzarsi o fondersi con l’esistente, ma dovessero essere progettati in deliberato contrasto.

Alla fine del XX secolo, l’attivismo dei cittadini contro la demolizione e ricostruzione su larga scala, porta alla richiesta generale di sostituire il sistema della tutela isolata con un approccio più ampio, che sottolinei la continuità dei quartieri storici. È una significativa rottura con il concetto moderno dell’edificio come affermazione individuale: ora è il “tessuto” urbano ad essere visto come composto da molte parti contribuenti. La forza dell’opposizione alla pianificazione modernista porta in qualche modo ad una crisi il mondo degli architetti. Nel corso degli anni ’70, la realizzazione di gruppi di edifici vagamente tradizionali attorno a monumenti tutelati – come nel caso di Nikolaiviertel 1977-87 a Berlino – può essere una risposta a tale crisi.

Nel frattempo, alcune linee guida per la progettazione di quelli che saranno poi conosciuti come edifici “ infill” nelle aree di conservazione orientano gli architetti a adottare determinati allineamenti, altezze, sistemi di finestre, colori, materiali, forme delle coperture negli edifici adiacenti. In molte città, norme dettagliate chiedono che questi edifici interstiziali siano deliberatamente non invasivi, in modo da enfatizzare gli edifici storici “autentici”.

QUANDO LAVORAVO COME consulente del governo per la tutela storica nei primi anni ’90, mi venne chiesto di applicare la Carta di Venezia. Molti richiedenti autorizzazioni edilizie, dopo aver letto le linee guida, presentavano entusiasti un progetto che era una ragionevole parafrasi di un edificio tradizionale. Dovevamo risponder loro che non era consentito imitare i particolari storici, tranne che in modo semplificato. Non sorprese, la reazione perplessa dei richiedenti, che trovavano difficile capire come mai, se gli edifici esistenti erano tanto belli da essere tutelati, non fosse una buona cosa aggiungerne dei simili.

Per molti architetti lo infill building era la prima occasione in cui veniva loro richiesto di seguire norme di progettazione urbana, e di costruire entro un determinato ambito. Molti trovarono in quell’esperienza un momento di crisi, perché diventava chiaro come i loro sforzi si confrontassero ad un livello inferiore rispetto alle preesistenze storiche. Alcuni si ribellarono contro quelle che vedevano come le pastoie della progettazione entro un contesto sensibile. Altri presero il contesto come uno stimolo, dedicando più tempo allo studio dell’architettura tradizionale regionale. Molti, in questo secondo gruppo, iniziarono a mettere in discussione il livello della propria modesta formazione, e a diventare architetti tradizionali a tempo pieno.

Per altri architetti e urbanisti, queste norme rappresentavano un affronto. Per l’architettura modernista è centrale credere in una autentica affermazione di contemporaneità. Baudelaire definiva la condizione essenziale della modernità – il modernismo – come risposta consapevole all’effimero, al fugace, al contingente: quello che più tardi Foucault chiamerà “l’aspetto eroico del momento presente”. Per Bauldelaide, ha scritto Foucault, la modernità “non è un fenomeno di sensibilità al presente fugace; è la volontà di eroizzare il presente”. Questa convinzione presuppone che l’architettura tradizionale non sia uno stile contemporaneo valido, una posizione che, credo, rifletta un’immagine naïve e teleologica della storia dell’arte e dell’architettura. Quello che è certo è che la domanda di novità diventa un peso per l’architettura moderna, quando le possibilità di nuovo si esauriscono nel manierismo degli anni ’70.

IL POST-MODERNISMO PONE una critica epistemologica al modernismo che si colloca esternamente a questa triangolazione. Per un post-moderno, l’architettura moderna in sé è soltanto un altro stile storico, e non una inevitabile risposta alla domanda di contemporaneità. Nell’architettura dei tardi anni ’70 sono visibili i primi elementi architettonici deliberatamente presi a prestito da classico e da altre tradizioni. Inizialmente, i vari elementi sono utilizzati con atteggiamento manierista rispetto alle regole compositive, come nell’opera di Venturi & Rauch, Rossi, Tigerman, Stirling o Farrell. Più tardi insieme all’evidente entusiasmo per un linguaggio riscoperto vengono lavori più impegnati, del tipo descritto dall’architetto britannico Robert Adam come “continuità educata”. Questo mette in discussione l’idea della Carta di Venezia, del contrasto nelle città tradizionali.

L’atteggiamento del “ perché no?” che imbeve l’architettura dei tardi anni ’80 fa sembrare l’implicito “ perché?” del modernismo fuori moda e senza speranza. Allo stesso tempo, il riduzionismo cartesiano e le matematiche newtoniane che avevano sostenuto il modernismo si trovano sotto attacco da parte della nuova matematica della complessità, che rende possibile compiere analisi di reti altamente complesse sino alla scala della città tradizionale. La nuova matematica offre una comprensione teorica all’emergere di strutture molto complesse ma ordinate, costruite a partire da un numero molto limitato di semplici “cellule” o elementi. Ciò può spiegare la natura frattale della città tradizionale, con le sue riproduzioni dei medesimi elementi lungo una gamma di dimensioni, e il suo paesaggio complesso costituito dalle repliche non-identiche degli elementi semplici. La città tradizionale, in quanto governata da queste strutture semplici ma complesse, è vista dal matematico e filosofo Nikos Salingaros come un fenomeno profondamente “naturale”, formato attraverso processi quasi-biologici. Al contrario, l’ordine gigante della città modernista è essenzialmente non-vivo, ciò che Salingaros chiama “la geometria della morte”.

L’interesse per la ricostruzione della città europea inizia con una serie di progetti teorici pubblicati dai fratelli Krier nei tardi anni ’70. Contemporaneamente, il lavoro di Christopher Alexander, A Pattern Language del 1977 – un’approfondita riflessione sulla progettazione tradizionale – trae spunto dagli studi sull’architettura vernacolare, e si dimostra di grande influenza. Il movimento trova sostegno nel maggio 1984 col discorso del Principe di Galles al 150° anniversario del Royal Institute of British Architects. L’aspra critica all’architettura modernista che costituisce il cuore della relazione è ampiamente riferita in tutto il pianeta. Ma il discorso è pronunciato nel contesto di un dibattito molto più ampio sul futuro delle città. No sembra una coincidenza, che si tratti anche dell’anno in cui Duany e Plater-Zyberk (DPZ, pronuncia: DeePeeZee) iniziano a lavorare sul nuovo centro vacanze di Seaside in Florida.

Andres Duany ha spiegato di recente che la sua comprensione del valore dell’urbanistica tradizionale segue un discorso di Léon Krier. Duany all’epoca lavorava per Arquitectonica, uno studio di Miami noto negli anni ’80 per i suoi enormi edifici ad appartamenti a colori vivaci, che mostravano una varietà di decorazioni flamboyant derivate dall’opera dei costruttivisti russi.

Duany ricorda di essere stato offeso, all’inizio, dall’insistenza di Krier sullo scarso valore del modernismo, e poi di aver sofferto gli spasimi del dubbio mentre si rendeva conto che il suo lavoro sino ad allora era stato, per usare le parole di Krier, una perdita di tempo. Poco dopo, Duany abbandona lo studio e con la moglie Elizabeth Plater-Zyberk fonda DPZ, uno studio di architettura e urbanistica di grande influenza.

Nei primi anni ’80, a DPZ si rivolge Robert Davis, un costruttore della Florida la cui famiglia è proprietaria di un tratto di costa nella zona della panhandle [ il “manico di padella”, dove la penisola della Florida si unisce al continente, ai confini con l’Alabama n.d.T.], per realizzare un complesso tradizionale per le vacanze. DPZ propone di trarre spunto dai villaggi della regione, dove gli abitanti utilizzano verande aperte sul fronte come sollievo dal caldo della sera, e camminano a piedi nudi sino alla spiaggia lungo sentieri di sabbia che scorrono tra le case. La realizzazione che ne deriva, è organizzata su un sistema radiale di strade attorno a una piazza centrale ottagonale, percorsi pedonali sabbiosi fra le case che conducono alla spiaggia, e con una serie di rigide norme a regolamentare le costruzioni e a incoraggiare tipi di abitazioni più aperti.

Il piano DPZ comprende una miscela densa di case singole tradizionali e piccoli edifici ad appartamenti su singoli lotti. A controllare l’insediamento, una serie di norme progettuali che coprono vari elementi, dalla copertura del suolo alle proporzioni delle finestre. I passaggi carrabili e i garages vengono tolti dal fronte stradale, introducendo un sistema di corsie d’accesso sul retro. Non ci sono ristrettezze riguardo agli stili, e le norme del villaggio consentono sia edifici modernisti che tradizionali, posto che si adeguino alle dettagliate linee progettuali. Alcuni edifici chiave, ad ogni modo, sono organizzati secondo una gamma di stili eclettici più controllata. Nel corso della realizzazione, il progetto genera parecchie imitazioni, compresa una a Coolum in Australia che copia anche il nome. Al momento, è in corso di costruzione il complesso adiacente di “Watercolour”. Duany è filosofico, e ha osservato di recente che spesso le località di vacanza di successo hanno costituito storicamente il nucleo di una città.

L’idea di Duany è quella di codificare le basi dei progetti di Krier per la città europea entro una serie di norme, che possano essere utilizzate dal progettista o burocrate medio, e influenzare così la gran massa della produzione edilizia, con cui gli architetti hanno poco a che fare. I documenti urbanistici che ne risultano comprendono un piano regolatore generale tipo, norme di progettazione edilizia, e abachi di schemi progettuali. Questo tipo di approccio si è dimostrato un successo, e il metodo è in corso di veloce perfezionamento e sviluppo.

Sulla costa occidentale USA, il lavoro di Peter Calthorpe su quelli che chiamerà “ transit-oriented developments” (TOD) fissa un paradigma di centri urbani compatti organizzati attorno a fermate di trasporto pubblico (treno o tram), che sarà egualmente influente. Alcuni di questi modelli fanno rivivere le grandi geometrie urbane del movimento “ city beautiful” animato dall’urbanista di Chicago Daniel Burnham, mentre altri hanno un’atmosfera più vernacolare. Le ricerche effettuate negli insediamenti realizzati sinora indicano che gli abitanti dei TOD, anche se continuano a tenere le automobili, si spostano molto di più a piedi.

Nel Regno Unito, il Duca di Cornovaglia si sta realizzando dal 1990 Poundbury, un significativo ampliamento della città di Dorchester, progettato da Léon Krier e Alan Baxter Associates. Poundbury attinge dall’architettura vernacolare del Dorset per produrre un paesaggio urbano altamente scenografico ad una densità almeno doppia del sobborgo britannico. Più del 20% delle abitazioni a Poundbury sono per famiglie a basso reddito, affittate dal Guinness Trust, e distribuite in modo indistinguibile fra le altre abitazioni in vendita o in affitto a contratto di mercato. Le nuove abitazioni a Poundbury sono vendute a prezzi medi se paragonati a complessi simili in Dorchester. Come a Seaside, i parcheggi sono collocati sul retro degli alloggi, accessibili da un cortile secondario. L’insediamento utilizza in sistema intelligente di strade per limitare la velocità dei veicoli a 20 km l’ora, senza l’uso di ingombranti segnalazioni.

Quando Poundbury fu presentato per la prima volta nel 1992, fu ridicolizzato dalla stampa specializzata in architettura del Regno Unito, a causa dello stile tradizionale degli edifici. Fu utilizzato qualunque insulto potesse adattarsi all’architettura tradizionale, mentre il progetto arrancava nelle paludi a metà anni ’90. Da allora, in un mercato migliore, il complesso si è dimostrato decisamente un successo. Ha avuto una critica favorevole nel “ rinascimento urbano” di Richard Rogersdel 1999 – anche se non ne sono state inserite illustrazioni – e da allora è citato come progetto modello dall’istituzione britannica responsabile per l’urbanistica, l’ufficio del vicepresidente del consiglio (ODPM).

Un elemento chiave di tutta l’urbanistica tradizionale è il coinvolgimento pubblico, attraverso un percorso di pianificazione partecipata conosciuto col termine “ charrette”. In una charrette, un gruppo di architetti e urbanisti lavora direttamente insieme a rappresentanti dei residenti, a politici e burocrati. Chi partecipa è incoraggiato a mettere le cose nero su bianco, con l’obiettivo di sviluppare un piano di massima vincolante. La tecnica si è dimostrata di grande successo per risolvere conflitti complessi e inaffrontabili fra costruttori e residenti. È anche un modo utile per sollecitare il sostegno pubblico alle proposte di piano. Nel Regno Unito, lo ODPM ha di recente raccomandato che tutti i principali progetti prevedano una charrette, o “ enquiry by design” come viene chiamata qui. Le norme progettuali prodotte da queste consultazioni sono molto popolari fra gli abitanti, dato che costituiscono un modo efficace per controllare e verificare via via lo sviluppo del quartiere. Ma spesso non sono altrettanto popolari fra i proprietari immobiliari, che le vedono come un’interferenza nei diritti privati.

NEI PRIMI ANNI ‘90, in collaborazione con un piccolo gruppo di colleghi, DPZ inizia a tenere conferenze di urbanistica. Questa nuova enfasi sulla costruzione della città viene presto denominata“ new urbanism”. Nel 1994, DPZ fa parte del gruppo fondatore del Congress for the New Urbanism (CNU). Il CNU si organizza attorno a una Carta della nuova urbanistica, un programma in dodici punti per la rifondazione dell’urbanistica negli Stati Uniti.

In Europa, il movimento inizia a formarsi nella carica emozionale del mondo delle costruzioni a metà del XX secolo, quando l’insoddisfazione per i distruttivi interventi modernisti nelle città storiche si cristallizzano nella protesta pubblica. A Bruxelles a partire dal 1959, il costruttore Charles Depauw e il politico locale Paul Vanden Boeynants cominciano un processo di grandi demolizioni nello storico Quartier Nord, con l’intenzione di sostituire al quartiere tradizionale isolati di torri corbusieriane e superstrade. Il piano è ampiamente condannato e il termine “ Bruxellizzazione” diventa il simbolo del movimento per la conservazione urbana. Una proposta simile, per radere al suolo l’amato Covent Garden di Londra, viene sconfitta nel 1968. Parigi non è altrettanto fortunata, e i soixante-huitards non riescono a salvare Les Halles (demolite nell’agosto 1970) o a impedire la costruzione dell’odiata superstrada est-ovest sulle rive della Senna.

NEGLI INSEDIAMENTI TRADIZIONALI, sono gli stessi edifici a definire la strada. Il motivo di questo insediamento compatto è chiaramente l’alto prezzo dei suoli a breve distanza dal centro città. Oltre questa distanza, i valori dei suoli cadono sino ad un livello al di sotto del quale i terreni vengono raramente utilizzati in pieno. Questa è una caratteristica di tutta l’urbanizzazione umana, definita dalla distanza che si è disponibili a percorrere a piedi in modo regolare, circa 400 metri, o cinque minuti di passeggiata. Le città tendono a svilupparsi secondo una serie di vicinati o “quartieri urbani” di circa 800 metri di diametro, o 40 ettari. Gli studi sulle città tradizionali in tutto il mondo dimostrano l’ubiquità di questo schema. I confini dei quartieri di solito non sono definiti fisicamente, ma i loro centri – che caratteristicamente contengono una chiesa, una sala comune, un mercato, una scuola e altri spazi pubblici- si trovano l’uno a circa 800 metri dall’altro. Questo sembra essere un fattore relativamente costante dell’urbanizzazione umana, definito dai limiti stessi del nostro corpo.

La nuova urbanistica tradizionale cerca un ritorno ad una forma urbana in cui le necessità quotidiane trovino risposta ad una distanza pedonale dalle case, dagli uffici, seguendo questo principio elementare. In modo simile, è necessario un sistema interconnesso di strade a ridurre al minimo le distanze pedonali fra tutti i punti del quartiere urbano, dato che non possiamo pensare di prevedere dove tutta questa gente vorrà andare. Sembra un aspetto ovvio, ma è quello che manca nel sistema neuronico di circolazione del Conventional Suburban Development CSD. I due elementi – il quartiere di 40 ettari e il sistema stradale interconnesso – sono caratteristiche fondamentali di tutta l’urbanistica neo-tradizionale. La “ walking city” del nuovo urbanesimo non è una fantasia modernista di controllo, ma un principio che conferisce dignità e mobilità a persone giovani e vecchie, ricche e povere.

LE CITTÀ DIFFUSE DIPENDENTI DALL’AUTO sviluppate nel periodo del dopoguerra possono già essere viste come fallimenti dal punto di vista economico, nelle zone periferiche dell’Europa. La conurbazione di Glasgow, per esempio, un luccicante paradigma di pianificazione modernista – alte torri dentro a parchi verdi, l’ultimo piano autostradale urbano europeo, se non del mondo – ha perso un terzo della sua popolazione negli ultimi trent’anni. La non percorribilità a piedi e l’assenza di luoghi nelle città diffuse dipendenti dall’auto le rende incapaci di attirare i giovani professionisti considerati importanti in quanto generatori di nuove attività economiche. Per contro, le zone dove le reti di strade pedonali sono state conservate, sono sopravvissute per migliaia di anni. I principi dei nuovi urbanisti tradizionali sul sistema permeabile di reti stradali a base di quartiere di dimensioni percorribili a piedi può essere applicato con risultai positivi a risolvere molti dei problemi introdotti nella città europea dall’ingegneria del traffico e dall’urbanistica dello zoning.

LA SOLUZIONE DEL PROBLEMA DELLO SPRAWL– che ha impiegato la maggio parte del secolo scorso a costruirsi – sarà una questione fondamentale per i governi locali e nazionali del secolo entrante. Non abbiamo scelta, visto che il petrolio sta finendo, e alternative come l’idrogeno o le celle solari sembrano in grado di prolungare il sistema solo per un periodo limitato, e ad alti costi. Il principio di connettività implicito nelle reti pedonali, sostenuto da una chiara definizione degli ambiti pubblico e privato, offre la massima opportunità per la realizzazione di una serie di singoli percorsi, e collegamenti, necessari allo sviluppo delle vite individuali.

I problemi a cui si trovano di fronte le città del mondo sono, abbastanza ovviamente, diversi, ma la loro sostenibilità è minacciata in tutti i casi dall’ubiquità dell’insediamento dipendente dell’automobile. Le regioni europee con forti economie industriali sono diventate quelle con i peggiori paesaggi di sprawl auto-dipendente. Economie regionali basate sugli stretti rapporti fra gruppi di piccole imprese, che possono contare quasi senza eccezione sul trasporto stradale per il movimento di materie prime e prodotti. La loro localizzazione nello sprawl monofunzionale obbliga la maggior parte dei loro dipendenti a spostarsi in automobile da e verso il posto di lavoro.

Ma l’epoca industriale in Europa si sta già avvicinando alla fine. Il nord dell’Inghilterra, il nord della Francia, la gran parte del Belgio, la Ruhr in Germania ele zone industriali dell’Europa dell’Est sono già in serie difficoltà. In Veneto, nella valle del Po, nel bacino di Parigi, in Olanda, nel Sud-Est di Inghilterra, nelle valli alpine della Svizzera, in Austria, in Francia e in Italia, e intorno e innumerevoli altre città europee, sono in attiva costruzione i paesaggi dello sprawl. Le città che perdono popolazione stanno al contempo espandendosi in dimensione fisica.

Il futuro dell’Europa dello sprawl, con le sue reti stradali scollegate, gli spazi auto-dipendenti e poco attraenti, appare poco credibile sui tempi lunghi. I centri storici delle città europee sono robusti e sostenibili, come appare chiaro dalla loro grande longevità, ma i danni del XX secolo alle loro reti stradali pedonali richiedono un attento ripristino per sopravvivere. Per contro, i paesaggi delle periferie e zone ad economia debole – la Francia centrale, parte della Spagna, l’ovest di Inghilterra e Galles, le aree agricole dell’Europa dell’Est – mantengono insediamenti compatti, reti stradali coerenti, uno sprawl urbano minimo, e hanno un grande potenziale per uno sviluppo urbano sostenibile nel futuro.

L’URBANISTICA TRADIZIONALE è un sistema complesso di parti semplici, che possono essere combinate per produrre un’infinita varietà di spazi urbani – che può essere facilmente riprodotto. È così resistente e adattabile che le città tradizionali sono state più o meno continuamente abitate per circa 2 millenni. È abbastanza lineare da poter essere insegnata facilmente, e abbastanza semplice da essere compresa e adattata da generazioni successive. In più, i singoli elementi dell’urbanistica tradizionale – abitazioni e altri edifici – sono costruiti con materiali semplici che, anche se non sono particolarmente duraturi, possono essere prontamente sostituiti con materiali facili da trovare o da produrre, utilizzati da migliaia di anni. Modificazioni progressive di piccoli elementi non hanno danneggiato la vitalità del tutto.

Ci sono segnali incoraggianti riguardo alla ripresa delle vita urbana come aspirazione ideale fra i giovani di tutto il mondo. Questa generazione deve a quelle future il dovere di costruire città che siano sostenibili quanto quelle che abbiamo ereditato dal passato.

Nota: qui il link al testo originale (e con le note bio-bibliografiche) al sito della rivista Axes (f.b.)

City of Seattle, Seattle Comprehensive Plan: Toward a Sustainable Seattle adottato nel gennaio 2005 – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini [la sigla LU che precede ogni singolo paragrafo programmatico sta, credo abbastanza ovviamente, per “Land Use” ]

[..]

ELEMENTO USO DEL SUOLO – ZONE COMMERCIALI MIXED-USE

scopi

LUG17 – Creare zone a funzioni commerciali e miste stabili e attive, che incoraggino la nascita di nuove attività, l’espansione e vitalità consentendo una mescolanza di varie funzioni e mantenendo la compatibilità, col carattere di servizio al quartiere e gli altri aspetti del contesto.

LUG18 – Sostenere lo sviluppo e permanenza di zone ad ampia gamma di aspetti e funzioni che rispondano ai bisogni di occupazione, servizio, commercio, residenza, per la popolazione attuale e futura di Seattle.

LUG19 – Comprendere la residenza come parte della miscela di attività da collocare nelle zone commerciali, per offrire altre opportunità agli abitanti di risiedere in quartieri dove sia possibile raggiungere a piedi servizi e posti di lavoro.

politiche

LU103 – Assumere come prioritaria la conservazione, miglioramento ed espansione delle zone commerciali esistenti rispetto alla creazione di distretti nuovi.

LU104 – Coerentemente alla strategia denominata urban village, preferire lo sviluppo di zone commerciali concentrate e compatte, o nodi, dove molte attività possano essere facilmente accessibili dai pedoni, alla designazione di zone commerciali disperse e diffuse lungo le principali arterie, che spesso richiedono di spostarsi in automobile da un’attività all’altra.

LU105 – Destinare a zona commerciale mixed-use aree già esistenti dotate di spazi dove collocare posti di lavoro, servizi, residenze e commercio per rispondere ai bisogni della popolazione attuale e futura di Seattle. Consentire grande varietà di caratteristiche e funzioni nelle singole zone, in modo coerente con la strategia urban village.

LU106 – Predisporre una vasta gamma di classificazioni per zone commerciali, ad offrire diverse miscele e intensità di funzioni, dimensioni dell’insediamento, gradi di orientamento residenziale e commerciale, orientamento automobilistico e pedonale, rapporti con l’ambiente circostante, a seconda dello specifico ruolo nella strategia di urban village e degli obiettivi comunitari così come adottati nei piani di quartiere.

LU107 – Distinguere, fra zone commerciali a orientamento pedonale, compatibili e di facile accesso rispetto ai quartieri circostanti, e zone commerciali generiche intese a collocare funzioni dipendenti dall’accesso automobilistico o camionale.

obiettivi funzionali

LUG20 – Sostenere vari usi che contribuiscano ad ampliare la base di impiego della città, e offrono beni e servizi di cui gli abitanti cittadini hanno bisogno, e spazi per le imprese.

politiche funzionali

LU108 – Offrire un’ampia gamma di funzioni nelle zone commerciali. Consentire, proibire, o consentire a determinate condizioni le varie funzioni, a seconda del deciso orientamento pedonale, automobilistico o residenziale della zona, del suo ruolo nella strategia urban village, degli impatti che ci si possono aspettare dalle varie funzioni sia sulla zona commerciale che sulle aree circostanti.

LU109 – Prendere in considerazione limiti alle dimensioni di specifici usi commerciali nelle zone commerciali, quando tali limiti:

• Aiutino ad assicurare compatibilità fra le funzioni insediate e il carattere e altre funzioni dell’area commerciale;

• Incoraggino la localizzazione di funzioni tali da attirare traffico significativo, in zone dove gli impatti di tale traffico possano essere gestiti al meglio;

• Promuovano usi del suolo e modalità di trasporto compatibili;

• Sostengano un sano sviluppo commerciale.

Consentire un ampliamento limitato delle attività esistenti, oltre le soglie dimensionali stabilite, per sostenere il carattere attuale e le funzioni delle attività e distretti cittadini.


Seattle, Land Use Map: particolare della zona centrale



LU110 – Scoraggiare l’insediamento o ampliamento di funzioni individuate come grandi generatrici di traffico. Esaminare le domande relative a tali funzioni in modo da poter controllare gli impatti del traffico ad esse collegato, e assicurarsi che le funzioni siano compatibili con le caratteristiche della zona commerciale e di quelle circostanti.

LU111 – Regolamentare tutte le strutture principali e accessorie di tipo drive-in attraverso norme edilizie variabili a seconda delle funzioni commerciali, allo scopo di ridurre al minimo gli impatti del traffico e i conflitti fra pedoni e veicoli, evitare la frammentazione dei fronti commerciali, migliorare l’aspetto della zona.

politiche per le attività all’aperto

LU112 – Proibire o limitare localizzazione e dimensioni delle attività all’aperto in specifiche zone commerciali secondo le funzioni della zona e la vicinanza a spazi residenziali, allo scopo di mantenere e migliorare la continuità del fronte commerciale stradale, ridurre gli impatti visivi e di rumore connessi a tali attività all’aperto, conservare la compatibilità con le aree residenziali adiacenti.

politiche per la residenza

LU113 – Consentire le funzioni residenziali nelle zone commerciali per incoraggiare le abitazioni in stretta prossimità coi negozi, i servizi, le opportunità di impiego. Sostenere gli usi residenziali entro e nei pressi di zone commerciali a orientamento pedonale, per offrire case vicino a servizi e posti di lavoro.

LU114 – Incoraggiare la presenza residenziale in edifici a funzioni miste, per assicurare distretti commerciali attivi che offrano beni essenziali, servizi e opportunità di lavoro agli abitanti di Seattle.

LU115 – Conservare le zone destinate al commercio a questa funzione, limitando le residenze collocate al piano terreno nelle zone intese come nodi o concentrazioni commerciali. Prendere in considerazione l’uso residenziale del livello terreno fuori da queste zone, per rafforzare i nodi commerciali e consentire una certa fluttuazione di mercato. Quando si consentono usi residenziali al piano terreno, cercare di offrire privacy ai residenti, e interesse visivo al fronte stradale. Realizzare spazi aperti come parte dell’insediamento residenziale nelle zone commerciali, da rendere disponibili agli abitanti.

politiche sui limiti alle densità

LU116 – Cercare di concentrare gli interventi entro villaggi urbani orientati alla mobilità pedonale e tramite trasporto pubblico, mantenendo al contempo compatibilità fra nuove realizzazioni e area circostante, attraverso norme che regolamentino dimensioni e densità dell’insediamento.

LU117 – In generale, consentire una maggiore intensità di insediamento in ambienti a base pedonale e di trasporto pubblico, come quelli delle zone commerciali negli urban villages, rispetto a quella consentita nelle zone commerciali generiche, o al di fuori dei villages.

LU118 – Assicurare dimensioni e intensità di insediamento compatibili, e controllare impatti quali massa, ombre, traffico, associati allo sviluppo in altezza, attraverso limiti di densità all’insediamento nelle zone commerciali.


Seattle, area centrale, vista da foto satellitare (Google)

politica sulle norme edilizie

LU119 – Regolamentare le masse delle strutture nelle zone commerciali per mantenere compatibilità con scala e caratteri dell’ambiente e delle aree circostanti, limitare gli impatti visivi, offrire aria, luce, spazi aperti agli occupanti.

politiche sulle altezze

LU120 – Fissare limiti di altezza alle zone commerciali, indipendentemente dalla specifica destinazione. Consentire che a varie parti della medesima zona possano essere assegnati diversi limiti di altezza, in base a quelle più adatte a:

• Sviluppare gli obiettivi della strategia urban village di concentrare la crescita in tali spazi;

• Collocare le funzioni e intensità di insediamento desiderati;

• Realizzare rapporti dimensionali compatibili con l’edilizia esistente;

• Evitare potenziali ostruzioni visive.

• Fissare altezze massime prevedibili che rispondano alle varie condizioni topografiche.

LU121 – Consentire limitate eccezioni ai limiti di altezza, per collocare usi commerciali al piano terreno, o particolari strutture sui tetti, per facilitare lo sviluppo di complessi multifunzionali, per consentire un appropriato funzionamento delle strutture, o per sostenere una progettazione innovativa che sviluppi gli scopi del presente piano, o di quelli adottati per i quartieri.

LU122 – Per consentire flessibilità e piena utilizzabilità dello spazio all’edilizia ove consentito, e per mantenere e sostenere fronti commerciali stradali continui, in generale nelle aree commerciali non devono essere richiesti arretramenti, eccetto dove l’edificazione avviene su lotti adiacenti a zone residenziali.

politiche per i parcheggi

LU123 – Fissare norme per i parcheggi tali da scoraggiare la sottoutilizzazione delle strutture, il che significa tollerare occasionali traboccamenti, e consentire l’abolizione, rinuncia, o riduzione di quote minime, per promuovere mantenimento e sviluppo di funzioni commerciali che incoraggino l’attività pedonale e dei mezzi pubblici, e offrano una varietà di servizi. Consentire la riduzione delle quantità di parcheggio dove la domanda è minore, offrendo programmi di trasporto pubblico alternativi. Tali programmi comprendono parcheggi riservati alle auto e furgoni in uso comune, abbonamenti ai trasporti, parcheggi cicli aggiunti per i dipendenti. Prendere in considerazione la possibilità di fissare quantità di parcheggi ridotte nelle zone dove un eccesso potrebbe peggiorare le condizioni di traffico, e dove sono disponibili alternative all’uso dell’auto.

LU124 – Consentire la revisione o fissazione di nuove norme sui parcheggi in particolari zone commerciali, quali misure di carattere locale come parcheggi cooperativi o condivisi, accesso limitato, o norme particolari legate a politiche già citate come usi comuni di auto e furgoni, o sostegni agli abbonamenti al trasporto.

LU125 – Consentire una riduzione dei parcheggi nel caso in cui molte attività hanno in comune il parcheggio clienti, perché gli utenti possano parcheggiare una volta sola e spostarsi a piedi fra i vari esercizi, con maggiore efficienza nell’uso delle strutture.

LU126 – Regolamentare la realizzazione dei parcheggi riservati nei lotti commerciali, secondo funzioni e caratteristiche dell’area, così come indicato dalla specifica destinazione a zona ad orientamento pedonale, oppure generica.

LU127 – Cercare di limitare gli impatti della localizzazione dei parcheggi, sul traffico pedonale e la circolazione veicolare. In genere, incoraggiare l’accesso ai piazzali da vicoli di servizio, eccetto nei casi in cu il vicolo è utilizzato per carico/scarico.

politiche per le zone commerciali a orientamento pedonale

LU128 – Utilizzare le aree ad orientamento pedonale per promuovere zone commerciali con un tipo di insediamento, miscela di funzioni, intensità di esercizi rivolte a chi si sposta a piedi e coi mezzi pubblici, conservando le aree già dotate di questa caratteristiche e incoraggiando la necessaria transizione in altre aree, per raggiungere queste condizioni:

1. Solidi e stabili distretti di attività compatibili col proprio quartiere, che rinforzino l’identità locale offrendo merci, servizi, lavoro agli abitanti della città;

2. Mescolanza di funzioni nelle aree commerciali che sia compatibile con l’insediamento delle zone circostanti;

3. Un adeguato a graduale passaggio di scale e intensità di edificazione fra le aree;

4. Un insediamento residenziale sia vivibile per gli abitanti che compatibile con le funzioni desiderabili di carattere commerciale;

5. Un ambiente pedonale attraente, accessibile, attivo.

LU129 – Applicare il tipo della zona commerciale a orientamento pedonale sia all’interno che all’esterno degli urban villages dove le funzioni residenziali esistono o sono nelle vicinanze, e dove l’intensità dell’insediamento consentita si adegua per dimensioni e proporzioni al quartiere servito.

LU130 – In generale consentire zone commerciali a orientamento pedonale negli urban villages a contenere densità insediative e miscele di funzioni tali da sostenere pedonalità e uso dei mezzi pubblici.

LU131 – Predisporre per le zone commerciali a orientamento pedonale norme edilizie e destinazioni funzionali che promuovano ambienti tali da condurre agli spostamenti a piedi verso usi commerciali e residenziali, a completare gli obiettivi specifici delle zone.

LU132 – Collocare – nelle zone commerciali a orientamento pedonale – le strutture per i parcheggi dove siano ridotti al minimo i conflitti coi pedoni e la continuità del fronte stradale: ad esempio sul retro o sul fianco degli edifici, ad un livello inferiore, o incorporati nell’edificio e schermati rispetto alla strada.

LU133 – Prevedere distretti speciali pedonali variabili, a riflettere le diverse caratteristiche e condizioni delle zone commerciali, a conservare o incoraggiare quartieri dove siano accentuatamente favoriti gli spostamenti secondo modalità non-automobilistiche.

obiettivi delle zone commerciali generali

LUG21 – Le zone commerciali generali ospitano attività fortemente dipendenti dall’uso dell’automobile e dall’accesso di autocarri, oltre a funzioni intensive commerciali e di manifattura leggera generalmente incompatibili con la residenza e mixed-use a orientamento pedonale.

politiche per le zone commerciali generali

LU134 – Utilizzare le destinazioni a zone commerciali generali a sostegno delle esistenti aree commerciali orientate all’uso dell’auto, che servono una clientele a scala urbana o regionale, localizzate con facile accesso dalle strade principali, o zone adiacenti a quelle industriali. Le aree adatte per la destinazione a commercio generale devono essere caratterizzate dalla prevalenza dei lotti di grandi dimensioni, da una accessibilità pedonale limitata, vi possono essere realizzate fasce di interposizione o transizione fra esse e le zone residenziali, o quelle commerciali di minore intensità. Allo scopo di sostenere una maggior quantità di ambienti pedonali entro gli urban villages, va incoraggiata la conversione delle aree a commercio generale localizzate entro gli urban villages all’orientamento pedonale.

politiche funzionali

LU135 – Collocare nelle zone a commercio generale la più ampia gamma possibile di attività commerciali consentite.

LU136 – Riconoscere negli shopping centers, negozi di ogni dimensione, magazzini di dimensioni contenute, piccoli edifici terziari a superficie contenuta e, dove adeguato, strutture residenziali e a funzioni miste, i tipi edilizi più appropriati per le zone a commercio generale.

LU137 – Nelle zone a commercio generale, vanno limitate o vietate, a seconda dei casi, grandi quantità di residenze o uffici, in aree dove:

1. Le caratteristiche di orientamento automobilistico dell’area incoraggino residenti e lavoratori a spostarsi in auto con un solo occupante;

2. Queste funzioni possano entrare in conflitto con la principale funzione commerciale della zona, o con quelle adiacenti;

3. La disponibilità di spazio per alcune attività commerciali è contenuta ed esse potebbero essere allontanate se si consentissero altri usi con determinate intensità.

politiche per le norme edilizie

LU138 – Consentire densità di uffici e residenze simili a quelle delle zone commerciali a orientamento pedonale comparabili.

LU139 – In generale, fissare limiti di altezze compatibili con quelle dell’edilizia esistente, o che siano necessarie per contenere le funzioni destinate a queste zone; non incoraggiare alta densità a usi come residenza o uffici, che trovano la propria collocazione più appropriata nelle zone a urban village.

[...]

Nota: Per chi fosse interessato, sono scaricabili direttamente da qui (link a pie' di pagina) due files PDF: la Land Use Map di Seattle 2005, e il documento sugli Urban Villages, più volte citato in questi paragrafi; sempre su Eddyburg, e di argomento complementare per territorio e temi: il Growth Management Act dello stato di Washington - il piano della King Countya cui Seattle appartiene - quello per la cittadina di Des Moines, poco a sud del capoluogo; Copia originale e integrale dell’intera documentazione di piano, al sito Department of Planning & Developmentdi Seattle (f.b.)

Titolo originale: Urban sprawl, the view from the Netherlands – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

È uno dei giochi preferiti dai bambini, quello di tracciare una linea da un punto all’altro su una pagina, e gradualmente una serie irregolare di punti si risolve in un’immagine. Un effetto simile è il risultato dell’uso del satellite per registrare immagini del nostro pianeta su lunghi periodi di tempo, ma l’immagine percepita dall’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) è quella di un’urbanizzazione dilagante, che potrebbe produrre parecchi problemi nel futuro.

Bruxelles, la “città capitale dell’Europa”, è diventata “capitale dello spazio” la scorsa settimana, quando sono arrivati delegati e giornalisti da tutto il mondo per una serie di eventi, convegni e riunioni legati alla ricerca e tecnologia spaziale. Uno degli argomenti principali è stato il programma Osservatorio Terra (EO) e come le immagini dal satellite del globo rivelano i cambiamenti nel nostro ambiente.

Un paesaggio che cambia

La professoressa Jacqueline McGlade è Direttore generale della EEA, che ha sede a Copenhagen in Danimarca. Parlando delle “ dinamiche del paesaggio europeo che cambia” ha citato la recente pubblicazione della sua agenzia, Corine Land Cover2000 per esprimere la propria preoccupazione per i “cambiamenti lenti” sulla superficie del continente più o meno nell’ultimo decennio. “L’Europa appariva piuttosto diversa dieci anni fa” ha detto. “Mi riferisco alla distribuzione delle città, allo sprawl urbano, alla quantità di infrastrutture che si spostano verso l’esterno negli spazi verdi d’Europa, al modo in cui stiamo frammentando il nostro paesaggio”.

La professoressa McGlade ha spiegato che l’incremento dell’urbanizzazione e il conseguente spezzettamento degli spazi verdi continentali genere tre aree di potenziali problemi. In primo luogo, la salute umana potrebbe venir compromessa dal vivere in sempre più stretta prossimità al traffico e ad altre fonti di inquinamento. In secondo luogo, la flora e fauna potrebbero soffrire con le aree verdi che diventano sempre più piccole e isolate l’una dall’altra. Terzo, ci potrebbero essere scontri fra le persone che rivendicano le stesse aree sempre più scarse di territorio per diversi scopi. “La nostra conclusione fondamentale è che non possiamo realizzare tutte le politiche previste, dati i modi attuali del cambiamento”.

Lo sprawl urbano

”La nostra preoccupazione è l’accelerazione nell’uso del suolo, una accelerazione nelle aspirazioni all’uso del suolo da parte di diversi attori politici e settori economici” ha proseguito la professoressa McGlade. “Ed è molto chiaro a noi che se ciò continua, ci saranno probabilmente scontri frontali fra l’uso dell’ambiente rurale per lo sviluppo dei servizi rurali, il suo uso in termini di biodiversità, e la sovrapposizione delle reti di trasporto e dell’urbanizzazione nelle stesse aree.

L’Olanda è una “zona di particolare interesse” secondo la professoressa McGlade, perché “è diventata il corridoio industriale d’Europa”, con un’alta concentrazione di reti stradali e ferroviarie. Ed è “difficile immaginare che con la risalita del livello del mare, nel futuro non si debba pensare ad una protezione di tutte queste infrastrutture vitali”.

Dati a livello del suolo

Gli scettici possono anche dire che la professoressa McGlade e i suoi icolleghi dell’EEA stanno congiungendo i punti troppo liberamente, nelle loro proiezioni dai cambiamenti nel recente passato alla previsione di questo futuro prossimo. Ma le informazioni satellitari su cui basano le proprie previsioni sono stati accuratamente verificate e “testate al suolo” confrontandole con dati da numerosi strumenti di rilevazione ambientale sparpagliati per l’Europa. Ed è questo lo scopo del programma della Commissione Europea, COoRdinate INformation on the Environment (Corine) Land Cover (CLC).

Ventinove paesi e più di 100 strutture sono state coinvolti nella produzione e circolazione dei dati CLC2000, ovvero delle informazioni uscita dall’aggiornamento all’anno 2000 del progetto originale di dieci anni prima. All’interno del programma, le immagini del satellite vengono interpretate a mostrare 44 classi di copertura del suolo, come foreste, laghi, agricoltura e via dicendo, e queste sono confrontate con altri materiali.

Collegamenti con lo spazio

”C’è parecchia gente sul terreno, a verificare direttamente quello che Image 2000, i dati del satellite, ci stanno dicendo” racconta la professoressa McGlade, e aggiunge che l’uso di una metodologia rigorosa rende questo approccio uno “strumento potente” per analizzare i mutamenti a scala continentale e renderli chiari ai decisori politici. “Ci consente di verificare un importante collegamento fra la Terra e lo spazio”.

Ma la professoressa McGlade non è venuta alla Settimana dello Spazio solo a sottolineare i problemi della rapida urbanizzazione. Ha anche posto l’enfasi sulla necessità di mantenere la rete esistente di strumenti di rilevamento a terra come parte del Global Earth Observation System of Systems (GEOSS), confermato a metà settimana durante un summit ad alto livello. “È cruciale impedire che gli investimenti nello spazio non compromettano ed erodano quanto già abbiamo” ha concluso. “La sfida sarà quella di unire le osservazioni in situ con quelle dallo spazio, e renderle liberamente disponibili alle persone per la vita quotidiana”.

Nota: qui il testo originale alle pagine in inglese del sito Radio Netherlands(f.b.)

Titolo originale: Network Organizing: A Strategy for Building Community Engagement – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

In tutto il paese c’è un fattore fondamentale che ridimensiona in modo consistente anche i migliori sforzi di sviluppo comunitario: un cronico disimpegno. Nella maggior parte delle città, la vita civica o pubblica è un ambiente ostile per la persona media, governato da cinismo e divisioni, dominato da consolidate abitudini all’isolamento e distacco. Purtroppo, se il campo della costruzione della città è strutturato in modo da realizzare gli elementi fisici che la costituiscono – nuove case, centri comunitari o piccole attività – e in qualche misura a influenzare le politiche che sostengono tale produzione, non siamo attrezzati a combattere questa condizione. I Community Development Centers (CDC), o altri gruppi simili, e chi li finanzia e li sostiene, devono affrontare il fatto che, se non si costruisce un potere degli abitanti, un loro coinvolgimento, ripopolando il panorama pubblico delle città, si finisce per ignorare una delle sfide chiave contemporanee, indebolendo così anche il lavoro nelle altre direzioni.

Al Lawrence Community Works (LCW), un CDC di Lawrence, Massachusetts, scherziamo sul fatto che per anni nella nostra città, tutti hanno avuto potere sufficiente per impedire ad altri di fare qualcosa, ma non abbastanza da realizzare concretamente qualcos’altro. Lawrence è uno di quei posti dove il disimpegno ha lasciato un vuoto di energie, prospettive e leadership nella vita pubblica. Il risultato è una città che ristagna fisicamente ed economicamente da anni, incapace di adattarsi al mutamento economico e demografico, e che resiste ai singoli tentativi di miglioramento.

La nostra risposta a tale situazione è una strategia di “organizzazione a rete” che lega le persone l’una all’altra, e alle possibilità di entrare nella vita pubblica – dal livello di quartiere al Consiglio municipale – in modo tranquillo, divertente, produttivo. Il nostro approccio è un ibrido fra molte delle pratiche consolidate di organizzazione comunitaria. Il tocco innovativo principale è l’applicazione della teoria della rete, un insieme di idee che nasce dal campo economico e tecnologico, ma che si è rivelato utile per comprendere e trasformare l’ambiente generale urbano. Applicare queste riflessioni al nostro lavoro ci ha aiutato ad affrontare alcuni degli ostacoli più frequenti all’autentico impegno, e a dar forma a una solida domanda ambientale di mutamento.

Il concetto di domanda ambientale sta al centro del nostro approccio di organizzazione a rete. In questo ambiente civico e politico, la decisione democratica e inclusiva diventa norma culturale. Questo fa nascere un robusto marketplace dove voci individuali e collettive, di migliaia di abitanti, iniziano a dar forma a un’agenda di politiche, necessità di servizi, sviluppo comunitario. Al momento, l’aspetto di domanda di questo mercato (associazioni comunitarie, intermediari, agenzie di servizi ecc.) sta definendo i problemi e dando forma alle soluzioni. Ciò, insieme all’anemico coinvolgimento degli abitanti, genera un ambiente dove c’è scarso rapporto fra ciò che la gente domanda e ciò che viene offerto. La maggior parte delle grandi iniziative pubbliche sono orientate a riformare l’aspetto dell’offerta, investendo sulla capacità delle organizzazioni di base [CBO/Community Based Organization] di coinvolgere maggiormente la popolazione. Investiamo sulla capacità comunitaria di produrre domanda, offrendo abbondanti opportunità alla gente di stare insieme, esprimersi e agire rispetto alle cose importanti per loro. Un altro modo di pensare a questo problema, è che molti sforzi organizzativi e di sviluppo comunitario siano di tipo reattivo: come realizzare case popolari di fronte a una crisi, o organizzarsi contro un taglio di bilancio. Una domanda ambientale è pro-attiva: gli abitanti costruiscono una rete di relazioni a sostegno di decisioni produttive, e sviluppano tale processo a livello istituzionale, di quartiere e cittadino, per costruire la città (comprese le istituzioni)che vogliono.

La nostra città

Il Lawrence Community Works è stato costruito sui resti di un Community Development Center che, dopo anni di duro lavoro, lotte e qualche successo, era di fatto inattivo dal 1999. Esistevano parecchi membri impegnati del comitato, un dipendente, un impegno di spesa di 20.000 dollari, e poche strategie o punti di riferimento. Il comitato chiese a parecchi di noi che svolgevano lavoro volontario a Lawrence di formare un gruppo organizzativo, e trovare il modo di reinventare la struttura, di “fare la differenza”.

Da buoni organizzatori, iniziammo ad uscire e parlare con molte persone. Volevamo coinvolgere gli abitanti in azioni di piano per lanciare una strategia complessiva di sviluppo urbano. Trovammo persone con grandi idee, ma anche quello che le organizzazioni di base scoprono tentando di coinvolgere gli abitanti: un muro di cinismo, sfiducia, disinteresse. Per quanto diffuso ovunque, il cinismo ha in qualunque posto le sue varianti locali. Per capirlo, si deve capire il luogo.

Lawrence è un’ex città di manifattura tessile, con circa 75.000 abitanti, che lotta economicamente da oltre 40 anni, e oggi è una delle città più povere del paese. La storia di Lawrence è piuttosto comune fra le cosiddette città di “mercato debole”, in particolare nel nord-est e in tutta la Rust Belt. Quello che si vede in questi posti, nelle case, negli edifici industriali, nelle strade, ferrovie, canali, sono i resti del meccanismo urbano e industriale che costituivale città dell’800 e del primo ‘900. La strade verso il successo economico non è ovvia, e gli ostacoli per far ripartire lo sviluppo possono apparire insuperabili. Risanare dozzine di siti industriali urbani, riutilizzare milioni di metri quadrati di edifici industriali, rinnovare un parco residenziale che risale al XIX secolo, consolidare chilometri di vie commerciali nel centro, sembra quasi un incubo.

Ma ci sono anche luoghi dove gli schieramenti etnici, razziali, di classe che definivano la vita politica e civica urbana sono mutati radicalmente negli ultimi anni. Nuovi immigrati ora popolano i quartieri abbandonati dalla mobilità sociale dei bianchi. A Lawrence, gli immigrati stanno lentamente ma ostinatamente mettendo radici, comprando case, iniziando attività, imparando l’Inglese. Ma l’anziana popolazione bianca si aggrappa tenacemente al potere e al controllo dell’arrugginito sistema pubblico. Lo scarso dialogo pubblico esistente è saturo di tensione razziale, o fra vecchi e nuovi venuti, e il processo di decisione pubblica non risponde in modo chiaro ai bisogni comuni, ed è contrassegnato da accuse e corporativismi.

Secondo noi, Lawrence ristagna perché la vita civica è stata sottopopolata per decenni. Era troppo difficile, arduo, noioso, innaturale, per la gente, trovare modi di imparare a fidarsi del proprio vicino, o di partecipare alla vita pubblica. Hanno avuto una parte importante in questa stagnazione anche le grandi influenze della fuga di capitali, della caduta del ruolo del sindacato, della globalizzazione. Ma senza un sano ambiente civile e una leadership locale, la città non ha saputo costruirsi un percorso attraverso questi mutamenti. Troppo poche persone hanno accettato la sfida di risanare e reinventare la comunità spezzata, e chi l’ha fatto è rimasto isolato e marginalizzato. La nostra sfida, è stata quella di aggredire questa epidemia di disimpegno.

La costruzione della rete

Di fronte al disimpegno, una strategia di costruzione a rete che valuti mutamenti, flessibilità, scelte, relazioni, è più utile di una tradizionale di costruzione istituzionale (anche se si cercano legami con altre istituzioni) che coinvolge meno persone, entro un ambito più ristretto di ruoli decisionali e una struttura organizzativa più rigida. I Community Development Centers, invece di rappresentare un elemento isolato, devono essere parte di una rete: non solo offrire servizi, ma catalizzare la domanda ambientale.

Il primo importante elemento di organizzazione a rete è il creare opportunità di scelta. Vogliamo costruire un ambiente che riconosca la domanda emergente dalla vita delle persone. Deve offrire molte opportunità e livelli di coinvolgimento. Alcune persone si fanno vedere una volta all’anno per la pulizia e manutenzione dei giardini, mentre altri vengono una volta la settimana per la raccolta di fondo del centro comunitario o la progettazione del nuovo quartiere popolare. Bisogna anche consentire che le persone non partecipino per un certo periodo di tempo, e pure si sentano ancora benvenute come parte del gruppo. Infine va riconosciuto che emerge un grande elemento di forza dal bigogno umano di divertimento, amicizia, legami e conoscenze.

Un modo di coinvolgere le persone, è attraverso il nostro Family Asset Building Department, che offre programmi per adulti come lo Individual Development Accounts (IDAs) o lo English as a Second Language e corsi di computer, oltre a periodiche serate “di rete” in cui la gente che frequenta i vari programmi può socializzare. I partecipanti portano cibo, esprimono capacità insospettate, o invitano ospiti a tenere conferenze sui problemi o progetti comunitari. Un altro modo per contattarci, è attraverso i NeighborCircles, una variante dei tradizionali centri di incontro. Facilitatori specializzati del Lawrence Community Works organizzano un gruppo di residenti in un dato isolato o zona, per una serie di cene-dibattito con lo scopo di conoscersi, scoprire i problemi comuni della zona e sviluppare progetti gestibili per la loro soluzione.

La rete necessità di molti punti di ingressoaccessibili e interessanti per un ampio ambito di persone. I programmi Family Asset Building e NeighborCircles sono solo due di questi punti. Dato che si tratta di tipi diversi di “porta”, abbiamo la possibilità di attirare una certa varietà di persone, con divresi bisogni e interessi.

Poi, collegando deliberatamente tali porte, costruiamo dei legami che sono critici nella realizzazione di una rete robusta. Per esempio, molte delle donne che partecipano al nostro programma di sviluppo individuale IDA, sono diventate attiviste dei NeighborCircles, e raggiungono altri nei propri caseggiati o attraverso la rete delle proprie conoscenze. Facendo questo, si spostano da un’attività focalizzata su cose personali (come il programma IDA) a un’altra che sostiene il dialogo fra vicini e affronta problemi di carattere comune. Si raggiungono così anche persone che non verrebbero da noi per IDA o altri programmi.

Le reti crescono sia su legami forti che deboli. In un periodo di anni, le 12 donne del primo programma IDA del Lowell Community Works hanno costruito un solido sistema di legami personali e relazioni, che si manifesta in vari modi, dall’uso comune delle auto, alla cura dei bambini, alla ricerca di lavoro. Altre persone arrivano da legami forti – due dei partecipanti frequentano la stessa chiesa, o sono cugini. Questo tipo di legami ha enorme valore, ma è la costruzione di legami anche deboli attraverso i gruppi a costruire la rete. I legami deboli aprono nuove possibilità alle persone, e offrono un modo rassicurante di uscire dalla propria comfort zone.

Una rete ha bisogno di agenti che siano attivi nel coinvolgere e collegare persone al sistema, ovvero di Tessitori. I membri del comitato LCW, gli abitanti, amici, dipendenti, tutti sono incoraggiati a diventare Tessitori. Il lavoro del tessitore è quello di essere intenzionalmente curioso riguardo alle persone, di connetterle alla struttura organizzativa, di inserirle in qualcosa che si sta sviluppando all’interno della rete. In quanto squadra di Tessitori, lavoriamo in modo intenzionalmente orientato anche a costruire percorsi verso un coinvolgimento più profondo, ad esempio raccomandando persone dei nostri NeighborCircles al Poder Leadership Institute. Poder (termine spagnolo che significa Potere) è un corso intensivo di cinque mesi in organizzazione, analisi del potere, governance collaborativa, capacità di facilitazione, che ha come punto massimo una campagna comunitaria o progetto messo in pratica dai partecipanti. È formulato esplicitamente per costruire leaders, che possano portare le proprie capacità nell’arena pubblica esterna. Possono poi presentarsi alle elezioni per il consiglio municipale o un comitato scolastico, entrare in un comitato no-profit, o portare altre persone verso le istituzioni cittadine e i processi decisionali.

Lasciate che sia le gente a decidere cosa funziona

Altro elemento dell’organizzazione a rete è la temporaneità. Nella costruzione comunitaria, siamo molto svantaggiati da strutture non più funzionali che continuano ad esistere per lungo tempo dopo che hanno smesso di servire. Tutti i nostri programmi e comitati devono essere considerato temporanei: utili solo in quanto ci portano dove vogliamo arrivare. Diamo un basso profilo ai ruoli formali di leadership, abbracciando l’idea che la forma debba cambiare di molto, a seconda della fase di lavoro entro cui ci troviamo. L’avere comitati e gruppi di lavoro a termine è una buona cosa. Il creare un ambiente dove nessuno possa abituarsi troppo a posizioni di potere è un’importante precondizione al creare gruppi accessibili e fidati, dove possa entrare gente nuova in qualunque momento ed essere rapidamente coinvolta nell’attività comune.

I NeighborCircles sono un esempio. Alcuni di essi non riescono ad aggregare oltre il primo stadio di tre incontri. Alcuni restano insieme per il tempo di piccolo progetto, e poi si disperdono; alcuni continuano a riunirsi come gruppo, ed affrontano regolarmente i problemi del caseggiato come la raccolta dei rifiuti o la spalatura della neve; altri crescono in un Property Improvement Committee e collaborano col personale del Lowell Community Works su progetti di grande dimensione, come un nuovo quartiere popolare o un parco locale. Gli stessi NeighborCircles sono nati dalle ceneri del nostro primo lavoro organizzativo, la costruzione di un’associazione di quartiere, che aveva svolto un buon lavoro ma si era impantanata su questioni di struttura interna e gerarchie.

Se una persona si appassiona a un progetto, o ritiene di avere una soluzione, questa deve superare un test di risonanza: cattura l’immaginazione degli altri, attira il loro tempo e le loro energie? Se ascoltiamo la medesima idea da molte e disparate parti di una rete, allora abbiamo una risonanza. Quando il LCW iniziò il lavoro organizzativo nel primo progetto di quartiere nel 1999, volevamo sviluppare un programma di attuazione urbanistico per la zona. Ma tutto quello di cui la gente voleva parlarci erano i loro ragazzi, e come non ci fosse niente da fare per loro. Adottando il metodo della risonanza, creammo il nostro primo programma estivo giovanile, con genitori volontari, prima di realizzare una sola casa. Formarci a rispondere alla risonanza è centrale nello sviluppo di programmi che abbiano un’ampia base di sostegno, e per azioni collettive di successo. È anche un elemento chiave nel costruire l’abitudine alla decisione democratica.

La capacità della nostra rete di diffondere informazioni in modo rapido nei posti giusti ne determina l’efficacia. Così, negli ultimi due anni abbiamo fatto investimenti significativi nell anostra banca dati, nel sito web, nella newsletter, es tiamo partendo con un nuovo strumento – Las Rutas (le strade) – dove i membri della rete costruiscono un resoconto scritto sul web delle proprie esperienze, da utilizzarsi da parte di altri membri. Si va dalle informazioni su come organizzare un gruppo di isolato, al racconto di come si è ottenuto un migliore servizio di raccolta rifiuti. Abbiamo anche sviluppato un “ Communication Compact”, documento interno che il comitato e i dipendenti, in quanto garanti della rete, utilizzano per sostenere onestà e proprietà nella comunicazione verbale, così che le trasmissioni via “parole di bocca” sono un modo efficace di trasmettere informazioni esatte attraverso la rete.

Costruire la Città

Se il nostro fine ultimo è un sano ambiente civico, non possiamo essere l’unico attore in campo. Una delle principali caratteristiche di una rete ben funzionante è la presenza di nodi e interscambi multipli: istituzioni e luoghi di dibattito che mettono in comunicazione le persone e che possono anche intraprendere progetti e individuare nuovi obiettivi per la rete. Se tutto il buono succedesse entro il Lowell Community Works, cosa ne sarebbe della città se ci accadesse qualcosa? Qualche volta decidiamo deliberatamente di convogliare risorse verso altre organizzazioni o progetti, ancora a investire nella costruzione di una rete anziché di istituzioni. Quando il LCW ricevette il sostegno operativo per tre anni da una banca regionale, si fece garante per una porzione di quel denaro verso parecchie altre strutture no-profit di Lawrence, per aiutarle a costruire la propria capacità. Questo si è tradotto successivamente sia in legami più forti per progetti comuni, si in migliori servizi e punti di riferimento per gli abitanti.

Mettendo in pratica questo assunto negli scorsi anni, c’era il dubbio fra molti impegnati in questo campo se si trattasse di una “vera” strategia organizzativa mirata a costruire potere. È vero che la gente viene verso la nostra rete per molte ragioni. Ma è anche vero che molti gravitano verso livelli più alti di coinvolgimento – e una definizione più ampia di interesse personale – una volta che fanno parte della rete. Noi coltiviamo e sosteniamo questo percorso verso l’azione collettiva, principalmente attraverso una pratica riflessiva: gruppi di appartenenti che intraprendono l’azione, riflettono su quell’azione e poi compiono un passo più importante. È importante che le persone pratichino la deliberazione democratica nella sicurezza di un NeighborCircle o una classe del programma Poder, prima di spostare questa nuova capacità verso un ambiente più vasto, come il consiglio municipale. Gli studenti nella classe pilota di Poder avevano concluso il ciclo organizzando un’azione, la Marcia Contro la Spazzatura, per ottenere una migliore raccolta dei rifiuti nel quartiere. Ciò ha portato il gruppo a mettere in discussione la distribuzione delle risorse in città, e alle priorità del bilancio cittadino e decisioni relative. Questo a sua volta ha portato alla campagna del LCW Fair Budget, un lavoro svolto dai diplomati di Poder per modificare i processi di formazione del bilancio cittadino attraverso una costruzione partecipata.

Siamo solo all’inizio dei nostri sforzi per formare e definire nei dettagli il nostro approccio organizzativo a rete. I primi risultati sono incoraggianti ma abbiamo di fronte miriadi di sfide man mano andiamo avanti. Dobbiamo superare noi stessi di continuo, per credere nel processo. Lottiamo per gestire un tipo di organizzazione che è deliberatamente in flusso continuo, e tuttavia deve sta dietro a progetti edilizi specifici e altri programmi critici. Ma la sfida principale è di tipo personale, dato che l’ideale dell’organizzazione a rete richiede a tutti noi di interrompere le abitudini individuali al distacco, a trovare un comfort level in un ambiente dove successi, fallimenti e potere sono tutti condivisi.

Oggi i 900 membri del LCW hanno migliaia di relazioni e collegamenti da portare entro la sfida del mutamento comunitario. Abbiamo scoperto che questa è una forza di potenza enorme, che può essere organizzata per l’azione e i ruoli di leadership necessari a reinventare la nostra città – e altre città simili. Il nostro ruolo principale, come organizzazione e punto di interscambio della rete, è lasciar libero tale potere di domanda collettiva nell’ambiente dei quartieri, uno spazio dove per molto tempo ha dominato l’offerta.

Nota: la versione originale (con scheda riassuntiva) di questo articolo al sito di Shelter Force Online (f.b.)

Titolo originale: Wal-Mart pledges $35 million for wildlife – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

WASHINGTON - Wal-Mart, la più grande catena commerciale del mondo, si è impegnata martedì a spendere 35 milioni di dollari, per compensare l’habitat naturale perso sotto la sua “occupazione di suolo”.

Ettaro per ettaro, dichiara la Wal-Mart Stores Inc., comprerà una quantità di terre pari a quella occupata dai propri negozi, parcheggi, centri di logistica per i prossimi dieci anni. Questo salverà almeno 60.000 ettari di habitat naturale “prioritario” negli Stati Uniti.

La somma andrà alla National Fish and Wildlife Foundation, gruppo non-profit creato dal Congresso nel 1984 per raccogliere risorse a livello federale per progetti di conservazione, e che possiede 150.000 ettari solo nel Maine.

“Abbiamo concepito l’idea di un programma di azione esterno a Wal-Mart l’anno scorso” dice Max Chapman Jr., presidente della fondazione. “Hanno risposto di sì in fretta, e l’apporto di Wal-Mart sarà di grande impulso per la conservazione.

È la prima volta che un’impresa USA si impegna in questo modo, secondo i funzionari del Ministero Affari Interni, che collaborerà nel decidere quali aree conservare. Il Segretario agli Interni Gale Norton dice di sperare che l’accordo diventi un modello per altre compagnie.

“Obiettivo finale è quello di creare un grande piano di ripristino delle praterie del West” afferma Larry Selzer, presidente del Conservation Fund, di Arlington, Virginia. “Non c’è nessuna altra impresa che si è fatta avanti con un tipo di iniziativa tanto audace”.

Ma il Sierra Club [gruppo ambientalista n.d.T.] resta scettico. “Wal-Mart pensa di poter verniciare il suo operato con una bella mano di verde, ma questo non nasconde i suoi veri colori” sostiene Eric Olson, responsabile anti- sprawl per l’associazione.

Questo gesto aiuta Wal-Mart a lustrare le proprie credenziali ambientaliste, alla vigilia dello Earth Day del 22 aprile. La compagnia ha comprato intere pagine pubblicitarie nell’edizione di martedì di almeno 20 quotidiani, per piazzare il suo nuovo programma per l’habitat.

Wal-Mart è stata posta sotto osservazione per le sue pratiche di rapporto col sindacato, e per come i suoi negozi abbiano effetti sulle città e il commercio concorrente. Lo scorso mese ha pagato la somma record di 11 milioni per l’accusa federale di aver impiegato centinaia di immigrati illegali.

Ha anche concordato il pagamento di 3,1 milioni l’anno scorso per una violazione del Clean Water Act, relativa all’eccessivo deflusso di acque piovane dai propri cantieri. Si è impegnata a migliorare i controlli in questo senso nelle oltre 200 località in cui ogni anno realizza negozi. Nel 2001, Wal-Mart e alcune imprese di costruzione avevano raggiunto un accordo di compromesso simile, pagando una multa di un milione.

Con 250 milioni di miliardi di dollari di vendite annuali, Wal-Mart da’ lavoro a 1,6 milioni di persone, in 3.600 negozi negli USA e 1.570 a livello internazionale.

La fondazione prevede di raccogliere altri 35 milioni da aggiungere alla somma di Wal-Mart, ma intende iniziare investendo 8,8 milioni della somma Wal-Mart in un progetto da 20,5 milioni di conservazione delle terre in cinque località.

Nota: l’articolo prosegue con elenco e descrizione sommaria dei progetti di conservazione nelle varie località, ed è disponibile in versione integrale al sito della MSNBC ; altre informazioni, particolari, un powerpoint e un filmato al sito ufficiale della Wal-Mart Foundation ; su Eddyburg, anche un polemico articolo di commento firmato dall'ambientalista Stacy Mitchell (f.b.)

Titolo originale: Acres for Wal-Mart – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il mio quotidiano locale, Portland (Maine) Press Herald, ha raccontato la scorsa settimana, in un vistoso servizio di prima pagina, che gli sforzi per tutelare parti della foresta settentrionale dall’urbanizzazione avevano fatto “un enorme masso in avanti” grazie a Wal-Mart.

Storie del genere, di terre preziose che ottenevano protezione con l’aiuto di Wal-Mart, sono comparse su centinaia di giornali in tutto il paese, sotto titoli come “ La donazione di Wal-Mart contribuirà a finanziare il piano di tutela di Squaw Creek”, o “ Wal-Mart collabora a gli sforzi per proteggere il Gran Canyon”.

Nota per spremere anche l’ultimo centesimo da dipendenti e fornitori, Wal-Mart è riuscita anche a concludere un contratto al minimo per ridipingersi di verde. Per soli 35 milioni di dollari – meno dell’1% dei profitti dello scorso anno – la più grossa impresa del mondo ha lucidato la propria immagine ambientalista, adornandosi di una cascata di coperture mediatiche entusiaste.

Secondo l’accordo, battezzato “ Acres for America”, Wal-Mart donerà questi soldi – diluiti per i prossimi dieci anni – alla National Fish and Wildlife Foundation, un ente creato dal Congresso che può contare tra i suoi “associati” la Exxon-Mobil e Alcoa. La NFWF utilizzerà i fondi per acquisire terre o imporre servitù di tutela su habitat naturali in tutto il paese.

Acres for America tutelerà in modo permanente almeno un ettaro di habitat naturale di primaria importanza, per ogni ettaro urbanizzato sinora da insediamenti Wal-Mart, e per ogni altro sottratto dall’impresa nei prossimi dieci anni” recita un comunicato stampa della NFWF.

Un ettaro tutelato per ogni ettaro costruito. È un congegno intelligente, pensato per dare l’idea che la donazione di Wal-Mart compensi in pieno il suo impatto ambientale.

Il comunicato stampa continua: “Questo fissa la superficie minima totale da tutelare a 60.000 ettari”. Se è uno-per-uno, allora vuol dire anche che questi sono gli ettari che Wal-Mart intende occupare entro il 2015. È una cifra strabiliante. Al momento i suoi punti vendita negli USA e i 100 centri di distribuzione, compresi i parcheggi, occupano più o meno 35.000 ettari. A quanto sembra, la compagnia intende quasi raddoppiare la propria occupazione di suolo nei prossimi dieci anni.

In Maine, anche se Wal-Mart paga le servitù di conservazione sui terreni delle foreste settentrionali, sta tagliando altre foreste e interrando zone umide, altrove nello stato. Nella cittadina di Scarborough, progetta di abbandonare un negozio – lasciandosi dietro una carcassa delle dimensioni di due campi da football circondata da ettari di asfalto – e spazzar via una zona boscosa sull’altro lato della strada per costruire un supercenter più grosso. Il “vecchio” Wal-Mart aveva aperto nel 1993.

”La protezione del nostro ambiente è, semplicemente, la giusta cosa da fare” ha dichiarato il vice presidente di Wal-Mart, Mike Duke, annunciando l’accordo Acres for America.

Questo da una compagnia che negli ultimi anni ha cercato di asfaltare la palude Penjajawoc a Bangor. Descritta dai funzionari statali come “la più significativa area umida per gli uccelli acquatici del Maine”, Penjajawoc ospita numerose specie rare e in pericolo. Wal-Mart ha giocato duro per urbanizzare la zona, ma alla fine è stata bloccata da un tenace gruppo di cittadini che ha convinto lo stato a intervenire.

Anche più degli esempi isolati, è l’impatto complessivo di Wal-Mart sull’ambiente, quello che deve essere paragonato alla donazione di 35 milioni di dollari. Nessun’altra impresa ha fatto tanto, per trasformare le nostre commissioni quotidiane in un’attività ambientalmente rischiosa.

Wal-Mart ha distrutto decine di migliaia di attività, nei quartieri e nei centri urbani. Collocate in edifici multipiano che non avevano bisogno di ettari a parcheggio, queste attività commerciali occupavano relativamente poco spazio e offrivano un buon servizio a brevi distanze da case e condomini.

Oggi, anche l’acquisto più semplice, come mezzo litro di latte o una scatola di chiodi, spesso richiede di guidare parecchi chilometri fino a un negozio big-box. Le famiglie americane percorrono il 50% di chilometri/veicolo l’anno in più per acquisti di quanto non si facesse nel 1990.

Oltre ai danni all’aria e al clima, il dilavaggio inquinante dei piazzali a parcheggio ora è una delle principali minacce per fiumi e laghi. Secondo il Center for Watershed Protection, nessun altro uso del suolo produce più deflusso velenoso del commercio big-box.

E non è che l’eccessivo consumo di suolo sia solo un effetto collaterale di crescita, per compagnie come Wal-Mart, Target o Home Depot. È parte costituente centrale della loro strategia di impresa. Non solo spianare con le ruspe terreni agricoli è più economico che non adattare i loro negozi a forma di tramezzino a un sito esistente o, peggio, a un edificio esistente, ma inondare il mercato con eccesso di offerta costruendo negozi giganti multipli rende anche più facile mettere fuori gioco i concorrenti minori.

Da quando Wal-Mart aprì il suo primo negozio nel 1962, la quantità di spazi commerciali pro capite negli USA è aumentata di dieci volte. Ora abbiamo da cinque a sei volte lo spazio a negozi delle altre nazioni industrializzate.

Abbiamo davvero bisogno di tutto questo commercio? Difficile. Una quantità incredibile se ne sta lì, vuota. Ci sono centinaia di strisce e centri commerciali lungo le strade, e migliaia di negozi big-box abbandonati, buttai come spazzatura nel paesaggio.

La sola Wal-Mart a livello nazionale ha 300 negozi vuoti. La maggior parte sono stati abbandonati dopo che la compagnia ha aperto un punto vendita più grosso nello stesso bacino. Il rapporto annuale di Wal-Mart afferma che si pensa di “rilocalizzare” (di fatto, lasciar vuoti) sino a 150 negozi quest’anno.

Non sono solo gli ambientalisti a suonare l’allarme contro questa piaga dilagante. In un recente rapporto di consulenza il centro studi immobiliare PricewaterhouseCoopers afferma: “Il paese a maggior superficie commerciale del mondo non ha nessun bisogno di nuovi negozi”.

Ma si continua a costruire. Wal-Mart, Home Depot, Target, Lowe's e gli altri operatori big-box progettano migliaia di nuovi punti vendita nei prossimi anni, molti sopra campi, foreste, zone umide. È più che mai tempo che si metta fine a tutto questo.

Alcune città stanno già iniziando a farlo. Adottano politiche di piano e zoning che limitano le dimensioni dei grandi complessi pensati per l’automobile, e orientano gli investimenti verso il centro città e quartieri commerciali a mobilità pedonale.

Come consumatori, possiamo sostenere un’economia più verde facendo la spesa più spesso nei negozi locali, specialmente quelli che si riforniscono anche localmente. Dobbiamo opporci in modo deciso alla propaganda di Wal-Mart, e alla vergognosa affermazione della NFWF secondo cui la compagnia sta “aprendo la strada alla conservazione”. “Ettari per l’America” non vuol dire conservazione, ma spianare la strada a a molti più ettari di Wal-Mart.

Nota: qui il testo originale dell’articolo, al sito Alternet ; qui su Eddyburg anche uno degli articoli di giornale sulla "donazione" Wal-Mart (f.b.)

Town of Bennington (Vt.), Town Plan, bozza adottata nell’aprile 2005; Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

Dal capitolo: Sviluppo Economico

[...] L’attività commerciale

Le attività commerciali – i negozi dove i cittadini di Bennington e dell’area circostante, o i visitatori della città, acquistano di tutto, dal cibo alle automobili – sono sempre stati una parte importante dell’economia locale, e l’occupazione nel settore ha mostrato una crescita considerevole negli anni recenti. Storicamente l’attività di commercio era concentrata nei quartieri centrali, e quella zona continua a sostenere una quantità significativa di negozi anche oggi. C’è stata una tendenza alla conversione verso punti vendita più specializzati, gallerie, prodotti “high-end” quando grandi magazzini e catene nazionali hanno iniziato a insediarsi nell’area lungo Northside Drive, la statale 67A verso il nuovo svincolo con la 279, e Kocher Drive.

I grandi punti vendita dei magazzini, alimentari, prodotti per la casa, grandi catene nazionali negli quartieri destinati a queste funzioni, offrono prodotti a bassi prezzi al consumatore, e posti di lavoro a molti residenti. Nello stesso tempo, una crescita eccessiva di questo tipo di attività e insediamento avrebbe impatti negativi sulla vitalità di altre zone commerciali, specialmente nel centro. In più in grandi complessi “big-box” hanno dimostrato di esercitare effetti negativi sulle comunità locali, quali la spinta verso il basso della media degli stipendi e riduzione di benefits, il favorire lo sprawl, i mancati reinvestimenti dei profitti in città. L’amministrazione riconosce la necessità di mantenere un certo equilibrio, e ha approvato regole che limitano le dimensioni dei singoli punti vendita, richiedendo inoltre studi di impatto preventivi alla realizzazione dei grandi complessi.

Dato che Bennington è un importante centro di attrazione commerciale a scala regionale, è importante che le infrastrutture di trasporto siano mantenute in buone condizioni, e migliorate se necessario. È necessaria anche un’attenta pianificazione degli spazi e un “access management” lungo le principali arterie e corridoi commerciali, ad assicurare che la congestione da traffico o problemi di sicurezza non scoraggino chi intende raggiungere in automobile le aree commerciali della città.

Nello stesso modo, sono importanti adeguate strutture di parcheggio e per la mobilità pedonale, per offrire uno shopping comodo e godibile. Il completamento di tutti i tre nuovi rami della statale 279 toglierà il traffico pesante dal centro e lo renderà anche più attraente come luogo per gli abitanti della regione di Bennington e i turisti.

Le organizzazioni economiche locali e le varie amministrazioni devono proseguire nello sforzo per promuovere e migliorare il centro città. Le recenti iniziative per l’ambiente stradale e le nuove attività commerciali hanno aumentato gli investimenti, l’interesse, la vitalità di questa importante zona commerciale. Programmi di marketing e altre strutture come la Molly Stark Trail Scenic Byway o il Welcome Center allo svincolo della US 7/VT 279, aumenteranno ulteriormente l’interesse verso il centro.

È necessaria un’attenta pianificazione e progettazione dei nuovi interventi di costruzione o modifica dei complessi commerciali nei distretti con tale funzione, per assicurare che queste zone restino attrattive e di successo. Non si ritiene appropriato lo sviluppo di complessi commerciali in aree non destinate a questi usi.

Il commercio ha anche bisogno di forza lavoro esperta e affidabile. Saranno le strutture di formazione e aggiornamento ad offrire ai lavoratori le capacità necessarie per accedere e progredire in questo campo.

[...]

Dal capitolo: Uso del suolo

Quartiere Commerciale [ Planned Commercial District]

Il quartiere commerciale comprende le zone lungo Kocher Drive, Northside Drive, e la statale 67A che sono interessate da un considerevole sviluppo commerciale. Scopo della destinazione di zona è quello di promuovere una miscela di funzioni commerciali in un’area dotata di efficiente accesso ai principali corridoi di trasporto. Le funzioni esistenti e consentite in questa zona devono essere compatibili l’una con l’altra, e complementari a quelle del centro città a costituire un polo commerciale e di occupazione. Nella zona è sarà anche possibile sviluppare una progettazione spaziale ben concepita ed efficiente.

È consentita una vasta gamma di attività, che comprende negozi, stazioni di servizio, strutture d’alloggio, ristoranti, concessionarie d’auto, alberghi, alloggi multifamiliari, e vari servizi professionali e per il tempo libero, così come specificato nelle norme municipali di azzonamento. La dimensione minima dei lotti nel quartiere è di 4.000 metri quadrati, e sono fissate dimensioni massime per gli edifici commerciali. Limitando le dimensioni dei singoli negozi, viene tutelata la diversificazione economica e una sana miscela di usi in tutto il quartiere. A causa della concentrazione di interessi cittadini nella zona, i nuovi interventi devono uniformarsi alle Planned Commercial District Design Guidelines [estratti riportati di seguito n.d.T.]. Deve anche essere posta particolare attenzione allo access management, per ridurre al minimo la congestione da traffico, e i rischi per la sicurezza lungo le affollate strade della zona.

L’arredo a verde deve essere conforme agli standards delle norme cittadine, con particolare attenzione a creare affacci di alta qualità, e ad attenuare l’impatto visivo dei grandi spazi a parcheggio. Un fattore critico è rappresentato dall’accesso pedonale dalle strade agli spazi commerciali veri e propri; ogni nuovo intervento dovrà comprendere marciapiedi lungo tutto lo sviluppo del fronte, e sino all’ingresso principale dell’edificio.

[...]

Town of Bennington (Vt.), Planned Commercial District – Design Standards, 2004; Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

Dal paragrafo 1: Organizzazione generale del sito

[...] 1.1 L’entrata principale dell’edificio deve sempre essere collocata sul fronte (davanti al margine anteriore del lotto) ed essere chiaramente visibile dalla strada (A) In questo esempio è stato creato un vestibolo di ingresso rivolto contemporaneamente a fronte, lato, retro e zona a parcheggio.

1.2 I parcheggi devono essere collocati sul fianco o retro del lotto, e per quanto possibile schermati alla vista. Le zone devono essere separate in blocchi di non più di venti spazi (35 per i complessi più grandi), divise da fasce verdi. (B)

1.3 Collocare la massima quota possibile dello sviluppo dell’edificio sul fronte del lotto, per aumentare al massimo l’esposizione della facciata al pubblico. (C) La facciata sul fronte deve essere tenuta parallela alla strada.

1.4 Per rafforzare il “ciglio stradale”, allinearsi con gli edifici vicini e più accosti alla linea di arretramento sul fronte. A rafforzare questo allineamento possono essere utilizzati elementi di arredo a verde. (D)

1.5 Dove possibile, va tentato di connettere i parcheggi adiacenti, o di offrire aree di sosta comuni che possano servire contemporaneamente più edifici. (E) Si offre un punto d’accesso secondario al sito allentando anche la congestione stradale.

1.6 Realizzare marciapiedi lungo tutto lo sviluppo della proprietà, con collegamento diretto all’ingresso principale dell’edificio. (F)

1.7 Le piattaforme di carico/scarico, le aree di servizio, per la rimozione dei rifiuti, devono essere localizzate sul retro dell’edificio, non visibili dalla strada. Si possono utilizzare recinzioni, pareti o verde per mascherarle alla vista. (G)


Figura 1: Esempio di organizzazione del sito. L’edificio è portato avanti il più possibile vicino alla strada, con parcheggio e alte zone sistemate ai lati o sul retro. Questo aiuta a dare identità alla strada e massima visibilità alla funzione commerciale.

1.8 Inserire ove possibile qualunque albero adulto esistente nel progetto di insediamento, per ridurre gli sprechi e conservare un ottimo albero da ombra. (H)

1.9 Ridurre la minimo la quantità di interruzioni sul filo del marciapiede, realizzando ovunque possibile una sola entrata/uscita veicolare dalla strada principale. Si raccomandano punti d’accesso dalle strade laterali per i progetti più grandi, dove consentito. I tagli nella continuità del marciapiede devono essere larghi quanto necessario a contenere le corsie veicolari. I raggi di curvatura devono essere mantenuti al minimo. (I)

1.10 La zona a parcheggio deve essere progettata secondo forme rettangolari regolari. Sono sconsigliati parcheggi con forme irregolari a cunei, che seguono le linee di confine della proprietà. Si deve realizzare tanta superficie asfaltata quanta strettamente necessaria.

1.11 Fasce piantumate e altri spazi a verde devono essere raccolti e di una certa dimensione, e non solo strette strisce d’erba o filari di alberi. (J)

1.12 Nei lotti d’angolo si deve collocare la maggior quantità possibile di edificato in corrispondenza dell’incrocio, per definire lo spazio e avvantaggiarsi della maggior visibilità. (A)

1.13 Le pensiline delle stazioni di servizio devono essere progettate come parte integrante dell’architettura generale ovunque possibile. Ciò consente un collegamento visivo o anche fisico e di riparo, fra veicoli e edificio. (B) [...]

1.14 In alternativa lo schema delle stazioni di servizio può consistere nella collocazione delle pompe presso il retro del lotto, e l’edificio del negozio sul fronte vicino alla strada. (C) Ciò aiuta a mettere in risalto l’edificio, schermare la pensilina utilitaria delle pompe, e portare il taglio nel bordo stradale più lontano dall’incrocio, creando un più facile accesso.

1.15 Quando non sia possibile collocare l’ingresso all’edificio direttamente sul fronte, si deve tentare di renderlo comunque molto visibile dalla strada principale o interna. (D)

1.16 I vecchi spazi commerciali molto arretrati rispetto alla strada possono trarre beneficio dall’edificazione degli spazi sul fronte del proprio lotto. Ciò contribuisce a definire il carattere della strada, consentendo ai clienti lo “one-stop shopping” e possibilità di parcheggio condiviso. (E)


Figura 2: Ridefinizione dei margini. I lotti d’angolo sono particolarmente importanti nel definire la strada. Si deve prestare particolare attenzione a spostare la massa dell’edificio verso l’esterno e l’angolo. Nei vecchi complessi più grandi si deve anche tentare di edificare sul fronte dei lotti nuovi fabbricati commerciali per avvantaggiarsi dell’affaccio stradale.

1.17 Realizzare filari di alberi e altro verde a schermare le grandi zone a parcheggio dalle proprietà adiacenti. (F)

1.18 Nei grandi parcheggi si raccomanda di realizzare isole verdi e percorsi pedonali che aiutino a rompere la continuità visuale dell’asfalto, offrendo anche percorsi sicuri ai pedoni. (G)

1.19 Alcuni complessi possono trarre vantaggio dal condividere l’accesso coi vicini di proprietà ad una zona di scarico. (H)

1.20 Tutti i percorsi d’accesso al sito devono essere adeguati alle norme dell’Americans With Disabilities Act. Consultare il sito web per maggiori informazioni.

[...]

Nota: tutti i materiali di piano di Bennington sono disponibili in versione integrale PDF sul sito web dell’amministrazione cittadina; si veda anche il Regional Plan di contea per il quadro sovracomunale, disponibile su Eddyburg, e gli arti articoli sul tema Vermont/Wal-Mart di questa sezione (f.b.)

Commercio. Ciancio, fra i soci, è proprietario al 19,5 per cento. Poi c'è la signora Valeria - sua moglie - con un altro 13,5 per cento. Poi qualche politico, qualche manager, tutti amici. Di che giornale stiamo parlando, di che tv? Su quali nuovi media ha messo le mani il monopolista dell'editoria siciliana? Sorpresa: stavolta niente giornali, ma centri commerciali: il più gigantesco della Sicilia, lo farà una ditta (l'Icom) che è quella di cui parlavamo all'inizio e lo farà - duecentoquarantamila metri quadrati - in una zona di verde pubblico, di verde a uso agricolo e non commerciale. Scusa: ma come si può costruire un centro commerciale (e che centro!) sul verde agricolo? Neanche a Catania una cosa del genere si può fare! Infatti: non si può fare. Perciò il Comune, il 25 febbraio, ha fatto un'opportuna delibera e voilà, ciò che era verde agricolo diventa istantaneamente zona commerciale. Mercurio batte Cerere uno a zero. E i giornali? Le tv? Muti: centri commerciali (dello stesso padrone) anche loro (Riccardo Orioles, Catena di San Libero, 21 marzo 2005)

[Orioles è un allievo e collaboratore di Giuseppe Fava (il giornalista ucciso dalla mafia). Dopo la chiusura dei "Siciliani" pubblica da solo un curioso giornale, "La Catena di San Libero", che manda gratis per e-mail a chi ne fa richiesta è che è ospitato da diversi siti (p. es.: http://www.barcellonapg.it/, qui dalla homepage si può accedere all'ultimo numero e a tutti gli arretrati).]

Dal sito “ Terre di Confine”, 13 aprile 2005

Catania - Il Palazzo s'inchina a Mario Ciancio Il “partito delle varianti” colpisce ancora: dietro il padrone della città.

Alla fine hanno vinto i poteri forti. Come accade troppo spesso, anche in questa città. I poteri forti, a Catania, hanno un volto preciso, quello di Mario Ciancio, il padrone della stampa, la cui egemonia sulla città è un dato definitivo. La sua ultima vittoria è datata 25 febbraio scorso: il centro-destra, con una maggioranza di quindici consiglieri di An, FI, Udc (Giammona, Siciliano, Zuccarello Alleanza Nazionale, Arcidiacono, Buscema, Chisari, Reina FI, Condorelli Sebastiano Ppe (presenza politica etnea), Consoli, Failla, Ingrassia, Lombardo Agatino, Pulvirenti, Riva, Vittorio per l’Udc), ha votato una variante al Piano Regolatore Generale di 25 anni fa, il Piano scaduto, mentre è deve essere ancora approvato il nuovo.

La variante è funzionale ad un’affare gigantesco, una grande speculazione edilizia che aggrava il già precario equilibrio di Catania sud: qui, nella zona del Pigno, sorgerà, il più grande centro commerciale di Sicilia, 240.000 metri quadrati (55.173 di superficie coperta, 95.700 per parcheggi utenti), nettamente superiore all’attuale “primato” quello di Melilli-Belvedere, nel siracusano. Un agglomerato che, unito agli altri imponenti investimenti previsti nel settore, porteranno Catania ad avere, nel rapporto abitanti/centri commerciali, una densità, in metri quadrati calpestati di centri commerciali, superiore a quella di Milano.

E’ già pronta, infatti, a farne un altro, nella zona di San Gregorio, la potente famiglia Virlinzi, molto vicina a Ciancio in tante operazioni, ma l’opera è ferma per un contenzioso amministrativo. Si avvicina il momento anche per la “Coop”, con ogni probabilità a Gravina: il comparto “Ipercoop” (che fa riferimento alla Legacoop) è già da tempo al lavoro. Nel complesso, sono stati autorizzati (vedi schema allegato) altri quattro investimenti (fra cui l’ “Etnapolis” dei gruppi Abate e Carrefour), in un’area percorribile in pochi minuti di auto. Il commercio catanese, se non questi stessi “giganti” in lotta (l’ egemonia di alcuni di loro è stata già descritta nell’ “affaire Garibaldi”, per non parlare di Nello Scuto, sotto processo per associazione mafiosa ed estorsione e delle sue “Zagare”), rischiano il soffocamento. Certo, per il principio della perequazione, l’ “Icom” avrà, a suo carico, alcuni oneri, ma per un’affare del genere, forse, il gioco vale la candela.Ci voleva però la variante, l’ennesima: e così è stato. Da verde agricolo a zona commerciale: gli interessi proprietari di Ciancio si sono coniugati –magicamente- a quelli della società “Icom srl”, che, in data 20/03/2003 ha presentato allo Sportello Unico per le imprese un progetto di massima per la realizzazione di un centro commerciale. E chi c’è nella “Icom srl”, società con sede a Milano?

Fra i soci, compare, Mario Ciancio: proprietario al 19,5% di una società con capitale sociale di 20,000,00 Euro.Ma non è finita: fra i soci c’è anche la signora Guarnaccia Valeria? E chi è? La moglie di Mario Ciancio: proprietaria al 13,5%.

Stavolta, non è andata, come tante altre volte sotto l’Etna: c’è un affare, c’è l’interessamento di Ciancio, ma lui –magicamente- non compare. Mai. Ma c’è di più: fra i consiglieri d’amministrazione della “Icom srl” compare anche il nome di Tommaso Mercadante, proprietario anche di una quota (5,5%). Chi è? E’ uno dei figli del deputato regionale di Forza Italia, Giovanni Mercadante. Naturalmente, non mancano poi soggetti del mondo dei media, in particolare in “Antenna Sud” di Bari, una delle tante emittenti gravitanti nell’impero di Ciancio, come nel caso del consigliere Fabrizio Pijola Lombardo, da meno di un anno, cioè dal momento dell’uscita ufficiale di Ciancio dalla proprietà, presidente di “Edivision”, società editrice di “Antenna Sud”. Amministratore delegato della società è Pasquale Iamele, che compare come presidente del c.d.a dell’ “Icom srl”. Ma c’è ancora di più: Ciancio e sua figlia Angela sono uscite dalla società, ma la stessa, fra i soci, annovera tutte società dell’impero, addirittura c’è la “Domenico Sanfilippo editore” che edita “La Sicilia”.

Ricapitolando: il consiglio comunale approva una variante che consente l’insediamento di un immenso centro commerciale, che sarà realizzato da una società, dove il padrone ha una forte partecipazione diretta e collegamenti con soggetti del mondo dei media. Il tutto, ovviamente, senza che nessuno in città possa conoscere nel dettaglio i termini dell’operazione, con inquietanti risvolti in tema di proprietà e di incroci societari: secondo i valori di mercato, un metro quadrato, a verde (valore da uno a tre euro) può arrivare, “trasformato” in edificabile, fino a circa cinquanta euro. Un bell’affare. Anche e soprattutto a questo serve il monopolio dell’informazione. Il nome che aleggiava sul senato cittadino è rimasto inespresso. Intanto, il giornale di Ciancio continua ad appoggiare la giunta Scapagnini.

Del resto, aveva fretta l’amministrazione di centro-destra e la sua maggioranza. Chissà, forse anche perché la scadenza elettorale è alle porte? Come poteva accadere, comunque, che il consiglio non si piegasse? La delibera era stata, infatti, messa all’ordine del giorno il 15 dicembre 2004, per essere poi riproposta il 20 e 27 gennaio, il 10, 16 e 24 febbraio. Risultato: fino a venerdì 25 febbraio, non era passata, vuoi per rinvii, vuoi soprattutto per mancanza del numero legale. Un braccio di ferro, occulto, che nessuno in città poteva conoscere. La situazione era a rischio: ecco, allora, la mobilitazione dei “big” del centro-destra. L’affare si doveva fare: era stato deciso e certamente non in consiglio... Il “partito delle varianti” faceva sentire il suo peso.

Ci ha pensato, invece, il senatore Mimmo Sudano (Udc), vicesindaco e assessore con delega all’urbanistica a fare capire che non era il caso di dilazionare ulteriormente. Il 16 febbraio si è presentato in consiglio e a nome dell’amministrazione ha proposto che la variante fosse votata congiuntamente ad un’altra “pesante”, quella per l’ospedale San Marco. Perché non farlo? Tutto è in regola e poi i posti di lavoro, calcolati, in prima battuta, fra i 500 e gli 800 circa ….

C’era da essere imbarazzati per questo piccolo grande –dal punto di vista politico- “colpo di mano”: per fortuna un no secco dall’opposizione.Il “colpo di mano” era, però, soltanto rimandato. Il 25 febbraio, però, è scoccata l’ora: oltre quattro ore di discussioni, con l’opposizione, (i consiglieri Licandro, D’Agata, Romeo, Rosario Condorelli, Giacalone) a resistere, in pochi, in ogni modo, ricorrendo a tutte le argomenti di critica ad un’operazione dissennata, la maggioranza allineata. Davanti ai consiglieri, per l’amministrazione ecco comparire, oltre a Sudano, seduto accanto ad un altro potente, l’avv. capo Mario Arena, il deputato nazionale e assessore (senza deleghe) Benito Paolone (An), convinto assertore dell’utilità della delibera, proprio lui che, più volte, aveva espresso la sua contrarietà alle varianti. Alla fine, comunque, dopo mezzanotte il verdetto: presenti 25 consiglieri, votanti diciannove, astenuti sei, (Commercio Presidente consiglio comunale Udc, Ferrera Ppe, Giuffrida Udc, La Rosa FI, Maravigna Centro Indipendente, Vasta FI) quindici sì, contrari quattro (Licandro Pdci, Romeo, D’Agata Ds, Condorelli Rosario Democratici con Bianco). Il consiglio approvava, Mario Ciancio poteva festeggiare. Eppure, in mattinata la Confcommercio aveva manifestato in piazza Università contro questa operazione: posizione contraria anche della Confesercenti. Critica anche la Federconsumatori. Non c’è stato, per ora, nulla fare: l’arroganza del capitale ha avuto, per ora, la meglio.

Titolo originale: The Rise of the Ephemeral City – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Le città sono sempre state il luogo del cambiamento. Mentre ci addentriamo nel nuovo millennio, potremmo essere testimoni dell’emergere di un nuovo tipo di spazio urbano, popolato in gran parte da non-famiglie e da ricchi erranti. È la “città effimera”, che potrebbe diventare un prototipo per i paesi avanzati nel ventunesimo secolo. San Francisco, Parigi, Berlino, Vienna, alcune parti di New York, già ora fungono da città effimere. A differenza della città imperiale, che amministrava un vasto impero estraendone ricchezze, o della città commerciale che prosperava scambiando beni, la città effimera vive offrendo uno stile di vita alternativo a piccoli settori sociali.

Il rapporto della città effimera con la regione circostante e il vasto mondo è in qualche misura simbiotico. Essa si nutre della ricchezza generata altrove, offrendo un palcoscenico dove le classi agiate possono spendere i propri tesori secondo la moda. Queste città si sviluppano in parte quando la maggioranza delle funzioni industriali, commerciali e di servizio vengono esercitate più economicamente altrove. Praticamente in ogni area chiave – dalla manifattura alla finanza ai servizi all’impresa – i posti di lavoro e anche gli uffici direzionali si spostano sempre più verso i sobborghi. La rivoluzione digitale ha accelerato questo processo, consentendo alla maggior parte delle industrie dell’informazione – software, prodotti per le telecomunicazioni, computers – di localizzarsi al di fuori della metropoli, o addirittura in campagna. I servizi superiori, snodo strategico delle economie della “città globale”, si sono pure decentrati non solo in America ma anche in Europa, Giappone, e nelle zone più sviluppate dell’Asia orientale.

Decentrata la spinta demografica ed economica al proprio hinterland, le città hanno due alternative. Possono diventare più concorrenziali in termini di posti di lavoro, attirando lavoratori specializzati e famiglie di ceto medio, oppure spostare i propri sforzi verso l’offerta di spazi per lo svago di ricchi che non lavorano, giovani irrequieti, turisti. L’ultima opzione sembra quelle adottata più spesso da molte municipalità. Parecchie città ora guardano a turismo, cultura e tempo libero come elementi chiave.

Berlino è un caso interessante. Avendo in gran parte mancato l’aspirato obiettivo di ridiventare centro d’affari mondiale, la città ora celebra come principale raison d'être uno stile di vita alternativo. La sua importanza è sempre più calcolata non tanto dall’esportazione di beni e servizi, né dalla concentrazione di grandi imprese, ma dalle gallerie, negozi, vita di strada, scambi turistici in crescita. Il sindaco Klaus Wowereit, definisce Berlino “povera ma sexy”.

In un’economia globalizzata, alcune città - Parigi, San Francisco, forse anche Berlino o Monreal – hanno la possibilità di farlo. Vista la loro capacità di offrire alti livelli di qualità per il tempo libero, istituzioni culturali, quartieri “ hip”, possono essere in grado di attirare una base di utenti sufficiente attingendo a turisti, giovani lavoratori qualificati, e una crescente quota di ricchi meno giovani che sperano di sperimentare una vita più plurale. Molto più probabilmente destinati al fallimento sono comunque i tentativi di luoghi come Manchester, Cleveland, o Detroit, di legare il proprio futuro al fatto di diventare “ cool”. Concentrandosi su quello che gli antichi romani avrebbero chiamato “ panem et circenses”, i leaders di queste vecchie città industriali credono che migliorare la propria offerta culturale attirerà abbastanza giovani professionisti e ricchi singles. E nei fatti le sovvenzioni per questo tipo di sviluppo – lofts, ristoranti, circoli, musei rivolti ad una popolazione gay o di singles – sono riuscite almeno a creare una chimera di rinascimento urbano. Ma col tempo questa crescita su base culturale non farà molto per fermare il declino di questi centri verso un rango inferiore.

Guardiamo solo al triste esempio delle “ cool cities” su iniziativa del governatore del Michigan, Jennifer Granholm, a sostenere lo sviluppo di arti, quartieri di tendenza, residenza in centro. Nonostante questi hooplà le “ cool cities” del Michigan – Ann Arbor, Kalamazoo, Jackson, Grand Rapids, e anche Lansing – hanno subito perdite di posti di lavoro tra le più gravi a livello nazionale, negli ultimi anni. Sotto la guida del suo giovane sindaco “ hip-hop”, Kwame Kilpatrick, Detroit continua a decadere, in quella che l’ex capo economista della Comerica Bank, David Littman, chiama “una spirale verso la fossa”.

Cleveland e Filadelfia hanno optato per strategie “effimere”: l’abituale assortimento di centri congressi, musei, manifestazioni d’arte, appartamenti di lusso in centro. Ma con che risultati? L’orgogliosamente pubblicizzato tentativo di Cleveland, di diventare centro di tendenza, non ha impedito alla città di inaugurare il ventunesimo secolo con la più alta percentuale di popolazione povera tra le grandi città americane. E la base demografica e occupazionale continua inesorabilmente nel suo declino. Secondo Joseph Gyourko, professore di studi immobiliari a Wharton, la tanto strombazzata ascesa del “ center city” di Filadelfia è un successo un po’ più tangibile. Ma il successo delle zone centrali non ha fermato il declino di molti quartieri, o il recedere dei posti di lavoro e l’esodo del ceto medio verso i sobborghi. Si costruiscono nuovi lofts a pochi passi da quartieri dove ci sono migliaia di edifici abbandonati sul punto di crollare.

In posti come Filadelfia, queste zone centrali servono come “città Potëmkin”, per convincere residenti suburbani e gente di fuori che il posto è abitabile e degno di essere visitato. But Ma chi studia le cose urbane conosce i limiti di queste strategie. “Il centro si comporta benissimo, ma non rappresenta il resto di Filadelfia” sostiene Gyourko. “La faccenda è questa: un punto di eccellenza dove fondamentalmente è ancora in atto il declino”.

Anche al loro meglio, posti come Cleveland o Filadelfia non saranno mai in grado di competere a scala globale con San Francisco, Chicago, New York, Los Angeles, Londra, Berlino, o Parigi, per i dollari dei giovani professionisti, dei ricchi erranti, dei turisti. “Semplicemente, non ci sono in giro abbastanza yuppies” dice il demografo William Frey. Queste aspiranti città “ cool” hanno scarse probabilità di diventare qualcosa di diverso dalla copia “ anch’io” di posti di tendenza, più attrattivi. Avrebbe più senso se queste città lavorassero su problemi di base – sicurezza pubblica, istruzione, norme, tasse, sanità – in modo da attirare imprenditori e proprietari di casa consapevoli. Le attrazioni per il tempo libero seguiranno, quando ci sarà un mercato in grado di fruirne.

Ma cosa succede nei luoghi già ricchi di queste attrazioni, quelli in grado di attirare residenti part-time e giovani abitanti a tempo pieno? Devono porsi questioni ancora più radicali riguardo a che tipo di città vogliono diventare. Le gallerie d’arte, i circoli, i bar, le boutiques rendono questi luoghi indubbiamente divertenti, ma non sono certo queste le cose che convincono ceto medio, famiglie e uomini d’affari a scommettere su una città nel lungo termine. Se si basano sulla curiosità culturale, queste città possono essere destinate a diventare spazi vuoti, Disneylands per adulti.

Anche il potenziale artistico di una metropoli centrata sulla cultura può dimostrarsi seriamente limitato. Nel passato, l’arte fioriva nella scia del dinamismo economico e politico. Atene si affermò in primo luogo come dinamico centro mercantile e potenza militare, prima di stupire il mondo in altri campi. La straordinaria produzione culturale di altre grandi città – Alessandria, Venezia, Amsterdam, Londra, New York – si è sostenuta su rapporti simili fra gli aspetti estetici e quelli pratici.

La storia dimostra che anche le città culturalmente più ricche non possono prosperare a lungo quando mancano le famiglie, un forte ceto medio, una mobilità sociale verso l’alto basata sul lavoro. Si tratta di una dinamica sociologica sperimentata nella Roma del tardo impero, nella Venezia del VII secolo, a Amsterdam nel XIX, nelle città industriali dell’Ovest dagli anni ’50, e che ora si può vedere in molte città contemporanee, specie quelle – come Seattle, San Francisco, o Boston – che hanno basse percentuali di bambini e alti costi dell’abitazione.

Forse ancora più importante, un’economia orientata al tempo libero, al turismo, a funzioni “creative” mal si adatta ad offrire opportunità a chi non fa parte di una piccola quota della popolazione. Seguendo questo corso, la città si avvia ad evolversi verso una composizione per élites cosmopolite, un vasto gruppo di lavoratori di servizio a basso reddito, e una underclass permanente: o meglio in quello che sta già diventando San Francisco, e che lo storico Kevin Starr descrive come “un incrocio fra Carmel e Calcutta”.

Per mantenere un ruolo importante nel futuro, una città ha bisogno di gente che possa muoversi socialmente verso l’alto, di famiglie e attività che si identifichino con quello spazio. Una grande città è fatta più di quartieri puliti per lavorare, o centri d’affari vibranti, o scuole che funzionano, che di grandi edifici culturali o lussuosi appartamenti di tendenza. Certo gli architetti possono preferire la progettazione di stupefacenti musei o torri residenziali di lusso, ma farebbero meglio a concentrarsi sulle residenze per i ceti medi, sugli spazi per le industrie artigianali, sugli spazi pubblici per le famiglie, sui luoghi di culto piccoli e grandi.

La grande opera delle città si realizza meglio per piccoli passi, un mattone per volta. Rafforza il senso del luogo e della permanenza. Se affonda le proprie radici nell’effimero, una città può solo perdere il proprio ruolo storico, o al massimo scolorire in una graziosa vecchina che tutti rispettano, ma che nessuno prende più sul serio.

Nota: qui il testo originale al sito di Metropolis Magazine (f.b.)

Titolo originale:Shopping Center Definitions. Basic Configurations and Types for the United States – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il termine “ shopping center” si evolve a partire dai primi anni ’50. La nomenclatura commerciale originariamente offriva quattro denominazioni fondamentali per i centri: neighborhood [di quartiere], community [di scala urbana], regional, e superregional. Ma con l’evoluzione del settore questa classificazione in quattro tipi non appare più adeguata. Per eliminare alcune ambiguità e introdurre i nuovi formati di shopping center, lo International Council of Shopping Centers ha definito otto principali tipologie di centro, riassunte nella tabella allegata.

Le definizioni, e in particolare la tabella, sono intese a rappresentare linee guida per capire le principali differenze fra i tipi fondamentali di shopping center. Molti elementi proposti dalla tabella, come le dimensioni, il numero dei negozi anchor, il bacino di riferimento, devono essere interpretati come “caratteristici” di ciascun tipo. Non intendono coprire interamente le caratteristiche di operatività di ciascun singolo caso. Come regola generale, le determinanti principali nella classificazione di un centro sono il suo orientamento merceologico (tipi di beni e servizi proposti) e le dimensioni.

Non è sempre possibile classificare precisamente ciascun centro. Alcuni sono ibridi, e combinano elementi di due o più classificazioni base. Oppure, il concept di un centro può essere abbastanza insolito da rendere impossibile collocarlo dentro una delle otto definizioni generali proposte qui, e potrebbe anche condurre ad una categoria completamente nuova nell’evoluzione del settore.

Alcuni tipi di centro non sono definiti separatamente, anche se fanno parte del settore. Possono essere considerati sottosezioni di uno dei gruppi maggiori definiti, create a volte per rispondere ad una particolare nicchia di mercato. Un esempio è il convenience center, fra i più piccoli, i cui occupanti offrono una piccola gamma di prodotti e servizi personali ad una piccola area commerciale. Un classico anchor in questo caso potrebbe essere la catena 7-Eleven o altri piccoli negozi. All’altra estremità dello spettro dimensionale stanno i super off-price malls che consistono di una grande varietà di punti vendita ad alta qualità, compresi negozi factory outlet, grandi magazzini close-out outlets, e category killers, entro un grande complesso commerciale “introverso” (sino a 200.000 metri quadrati).

Un altro tipo di formato commerciale che sta ricevendo molta attenzione e merita una trattazione particolare, è l’ampia classe degli insediamenti mixed-use. In senso stretto, il mixed-use non è necessariamente un tipo di shopping center. Ma, visto che il commercio ne rappresenta una delle tre principali funzioni economiche, questo genere di complessi è frequente nel settore dei centri commerciali. I progetti di successo mixed-use sviluppati come un singolo intervento – chiamati talvolta mixed-use centers – possono essere complessi ben integrati di attività per il tempo libero, uffici, alberghi, residenza, stadi per lo sport, strutture culturali e/o altri usi che possono sostenere insieme una consistente quota commerciale. Spesso questi insediamenti offrono unità residenziali o per uffici al di sopra degli spazi commerciali a livello strada, anche se possono esistere malls integrati entro edifici ad albergo o ufficio. Qualche volta sono i lifestyle centers a formare la parte commerciale di un progetto mixed-use.

Altre piccole sottosezioni del settore comprendono i complessi in verticale, progettati per il centro urbano, gli off-price, home improvement, e car care centers. La tendenza alla differenziazione e segmentazione è destinata a continuare e ad aggiungere nuovi termini, man mano il settore si evolve.

SHOPPING CENTER: Un gruppo di negozi e altre funzioni commerciali progettato, posseduto e gestito in modo unitario, con strutture a parcheggio proprie. Dimensioni e orientamento del centro sono determinati dalle caratteristiche del mercato nell’area di riferimento servita. Le tre configurazioni principali del centro commerciale sono: mall, centro open-air, e gli ibridi.

CONFIGURAZIONI FONDAMENTALI

Mall: Il modo di progettazione più diffuso per i centri regionali e superregional è chiamato spesso “shopping mall”. Il percorso pedonale, o “mall” è classicamente chiuso, ad aerazione e illuminazione controllata, con i fronti e gli ingressi dei negozi affacciati su entrambi i lati. I parcheggi propri, di solito offerti nell’ambito del centro, possono essere esterni o strutturati all’interno degli edifici.

Centro Open-Air: Una fila continua di nezozi e servizi gestita come complesso unitario, con parcheggi propri abitualmente collocati di fronte ai negozi, e aree comuni non chiuse, è chiamata “open-air center.” I fronti commerciali possono essere collegati da una pensilina, ma non esiste un percorso pedonale al chiuso a collegare i vari esercizi. Le varianti più diffuse sono di tipo lineare, ovvero la forma a L, a U, a Z, o a gruppo compatto. L’organizzazione lineare è utilizzata spesso nei centri a scala di quartiere o urbana. Quella a gruppo compatto nelle sue varianti ha determinato l’emergere di una nuova classe, come i lifestyle centers, dove l’organizzazione fisica e il senso di apertura sono le caratteristiche determinanti. Storicamente, l’organizzazione aperta è stata chiamata “strip center,” anche se lo strip center trae il nome dalla forma lineare, coi negozi fianco a fianco in una lunga fila.

Ibrido: si tratta di un centro che combina elementi presi da due o più tipi principali di shopping center. Tipi ibridi frequenti sono i mega-mall a orientamento verso prodotti superiori (che sommano elementi del centro commerciale, del power center, e alcuni dell’outlet), i centri power-lifestyle (a sommare caratteristiche del power center e del lifestyle), e i complessi entertainment-retail (che uniscono le funzioni del commercio a cinema multisala, ristoranti a tema, e altri usi per il tempo libero).

TIPI DI SHOPPING CENTER

MALL

Regional Center: Questo tipo di centro offre prodotti generali (una larga quota è di abbigliamento) e servizi completi e vari. La sua attrattiva principale è la combinazione dei negozi anchor, che può essere tradizionale, mass merchant, discount, o grande magazzino di moda, con numerosi negozi specializzati fashion-oriented. Un caratteristico centro di scala regionale è di solito chiuso e rivolto all’interno, con negozi collegati da un percorso pedonale comune. Il parcheggio è posto sul perimetro esterno.

Superregional Center: Simile al centro regionale, ma per le sue dimensioni maggior ospita più anchors, una maggior selezione di merci, e si rivolge ad un bacino di utenza più vasto. Come per i centri regionali, la configurazione caratteristica è quella a mall chiuso, frequentemente su molti livelli. I parcheggi possono essere anche strutturati entro il volume degli edifici.

CENTRI OPEN-AIR

Neighborhood Center: È un tipo di centro concepito per offrire risposte ai bisogni quotidiani di consumatori delle immediate vicinanze. Secondo lo studio SCORE dello International Council for Shopping Centers circa la metà di questi complessi si basano su un supermarket, e un terzo su un drugstore. Questi anchors sono affiancati da negozi che offrono varie merci e servizi personali. Un neighborhood center è di solito organizzato secondo una linea retta, senza percorso pedonale al chiuso o area mall, e coi parcheggi sul fronte. Alcuni centri hanno una pensilina o altro elemento di facciata a provvedere ombra e protezione dal cattivo tempo, o a connettere l’intero complesso.

Community Center: Caratteristicamente offre una ampia gamma di scelta nell’abbigliamento e altri articoli, maggiore di quella dei centri di quartiere. Fra gli anchor più comuni, ci sono i supermercati, i super drugstores, i grandi magazzini discount. Fra i negozi di un community center talvolta può essere presente la categoria big-box value-oriented con offerta di abbigliamento, articoli per la casa e arredamento, giocattoli, elettronica, articoli sportivi. Il centro di solito è organizzato in modo lineare su una striscia, oppure a forma di L o di U, a seconda del tipo di lotto e di progetto. Fra le otto categorie, i community centers sono quelli che coprono la maggiore varietà di formati. Ad esempio, quelli che hanno come anchor un grande magazzino discount sono molto caratterizzati sul genere discount. Altri con alta percentuale di superficie occupata da commercio off-price possono essere chiamati offprice centers.

Power Center: È un centro dominato da alcuni grandi anchors, come grandi magazzini discount, negozi off-price, warehouse clubs, oppure “ category killers”, ovvero che offrono una vasta selezione di prodotti correlati a prezzi al consumo molto competitivi. I centro consiste di parecchi anchors, alcuni dei quali possono essere isolati (senza connessioni) e con una quantità minima di piccoli negozi specializzati.

Centri a Temao Festival: Utilizzano un tema unificante, riproposto dai singoli negozi nella progettazione architettonica e, in parte, nei prodotti proposti. Sono le proposte per il divertimento, l’elemento comune di questi centri, anche se possono concretarsi sia nell’attività di shopping che nell’offerta vera e propria di proposte per il tempo libero. Si rivolgono spesso ai turisti, ma possono attirare anche clienti locali per la propria natura particolare. Questi centri a tema/ festival hanno come anchor ristoranti o strutture per il divertimento. In genere collocati entro le zone urbane, spesso usano edifici anche storici adattati, e possono essere parte di progetti mixed-use.

Outlet Center: È un centro composto da negozi che vendono grandi marche a prezzi scontati. Classicamente manca di un anchor, anche se alcuni negozi di un certo marchio possono rappresentarne la “calamita”. La maggior parte degli outlet centers sono all’aperto, strutturati in linea o raggruppati a villaggio, anche se ce ne sono di chiusi.

Lifestyle Center: Nella maggior parte dei casi collocato vicino a quartieri residenziali ricchi, questo tipo di centro risponde ai bisogni commerciali e di “stile di vita” dei consumatori nel proprio bacino di riferimento. È configurato all’aperto, e comprende almeno 5.000 metri quadrati di negozi, occupati dalle grandi catene nazionali di prodotti di alta qualità. Altri elementi differenziano il lifestyle center nel suo ruolo multiplo di proposta per il tempo libero, come ristoranti e divertimenti, e un ambiente molto progettato con fontane e arredo urbano orientato al passeggio e a guardare le vetrine. A fungere da anchor, possono essere uno o più grandi magazzini o negozi di moda.

Tabella sinottica riassuntiva (versione originale)


TYPE OF SHOPPING CENTER CONCEPT SQUARE FEET (INCLUDING ANCHORS) ACREAGE TYPICAL ANCHOR(S) ANCHOR RATIO * PRIMARY TRADE AREA**
NUMBER TYPE

MALLS

Regional Center

General merchandise; fashion (mall, typically enclosed) 400,000–800,000 40–100 2 or more Full-line department store; jr. department store; mass merchant; discount department store; fashion apparel 50–70% 5–15 miles
Superregional Center Similar to regional center but has more variety and assortment 800,000+ 60–120 3 or more Full-line department store; jr. department store; mass merchant; fashion apparel 50–70% 5–25 miles

OPEN AIR CENTERS

Neighborhood Center Convenience 30,000–150,000 3–15 1 or more Supermarket 30–50% 3 miles
Community Center General merchandise; convenience 100,000–350,000 10–40 2 or more Discount department store; supermarket; drug; home improvement; large specialty/ discount apparel 40–60% 3-6 miles

Lifestyle Center

Upscale national chain specialty stores; dining and entertainment in outdoor setting. Typically 150,000-500,000, but can be smaller or larger. 10–40 0-2 Not usually anchored in the traditional sense but may include book store; other large-format specialty retailers; multi-plex cinema; small department store. 0-50% 8-12 miles

Power Center

Category-dominant anchors; few small tenants 250,000–600,000 25–80 3 or more Category killer; home improvement; discount department store; warehouse club; off-price 75-90% 5-10 miles
Theme/Festival Center Leisure; tourist-oriented; retail and service 80,000–250,000 5–20 N/A Restaurants; entertainment N/A N/A

Outlet Center

Manufacturers' outlet stores 50,000–400,000 10–50 N/A Manufacturers' outlet stores N/A 25-75 miles

(*) The share of a center’s total square footage that is attributable to its anchors;

(**) The area from which 60-80% of the center’s sales originate.

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