Nora Lee, The Mom Factor: what really drives us where we shop, eat, and play, Urban Land Institute, 2005 (152 pp., 19,95 $)
Ci sono cose che succedono dentro a una mamma quando diventa tale. Ce ne sono altre che succedono fuori dalla mamma, e per così dire “trasformano il territorio”, in modo del tutto peculiare. Quali, come, e quanto?
Prova a raccontarcelo Nora Lee, studiosa e divulgatrice dei problemi legati all’uso degli spazi e tempi del consumo moderno, che un giorno scopre di aspettare un bambino. Non se l’aspettava proprio, di aspettare, alla sua età (allora intorno ai ’40, oggi ai ’50) e dopo le ripetute sconsolanti diagnosi di vari dottori. Alla faccia dei dottori, il bambino arriva, e inizia il suo indiretto quanto irresistibile processo di trasformazione del territorio.
Non lo fa, come si potrebbe immaginare a prima vista, (solo) sgattonando o magari obbligando la famiglia a cercare (se può permettersela) una casa più grande, ma in modo sottile condizionando i modi d’uso di spazi e tempi enormemente dilatati. Un condizionamento che si estende dal bambino, attraverso il nodo-chiave della Mamma, su e giù per le generazioni e gli spazi, fino ai nonni e allo spazio metropolitano e regionale. Del resto, basta pensare per un attimo ai famigerati ingorghi di fuoristrada all’ora di apertura e chiusura di asili e scuole elementari, per iniziare a intuire questi aspetti estensivi della maternità. Ma la nostra Nora Lee, da buona studiosa ed esperta, pur senza perdere per un istante di vista la propria preziosa soggettività di Mamma, va molto oltre la semplice sensazione e nota di costume: non a caso le pur leggere e leggibilissime 150 pagine del suo libro, sono corredate da statistiche, indicazioni bibliografiche senza esagerare, e pubblicate dal seriosissimo e specializzato Urban Land Institute di Washington, D.C.
Perché quello che accade “fuori” a una ragazza di qualunque età, quando le succede di diventare anche Mamma, è di scoprire nuovi territori. È il processo spesso raccontato e studiato, che coinvolge ad esempio chi porta o si trova a portare qualche tipo di condizionamento, alla mobilità o all’uso dei sensi. Ma con la Mamma esiste un coefficiente di moltiplicazione che deve far suonare un campanello d’allarme, soprattutto a chi controlla il territorio a fini di profitto: è lei a tenere i cordoni della borsa, a controllare dove e come organizzare i consumi familiari, a condizionare direttamente e indirettamente anche i comportamenti di altri soggetti. E lo fa a maggior ragione, man mano anche come donna e cittadina aumenta il proprio prestigio e produce autonomamente (oltre ad amministrarle) quote rilevanti del bilancio. È insomma la Mamma, a guidare la carica verso i nuovi territori del commercio, dei servizi, del tempo libero.
E come già detto, lo fa in modo molto più selettivo, analitico ed esigente di quando era “solo” una donna. Ora, alla sin ovvia esigenza di proteggere i cuccioli dalle insidie dell’ambiente esterno si somma il suo ampliato ruolo, la nuova articolazione dei tempi, una sensibilità affilata che si applica a tutto campo. Mamma Nora ci guida così su e giù dalle scale mobili di infiniti spazi commerciali, al chiuso o all’aperto, con un occhio attento alle nuove misure del suo corpo: che non finisce più alle unghie o ai tacchi delle scarpe, ma si è esteso alle propaggini dei bambini, dei passeggini, al raggio d’azione autonoma degli uni e degli altri. E anche il tempo è cambiato, nei valori e nella sostanza: tempo degli spostamenti, tempo del consumo, dello sfinimento e del riposo. Siamo insomma a qualche anno luce dall’immagine standardizzata del consumatore-tipo, da cartellone o spot, che a tutte le età e condizioni la comunicazione globalizzata invariabilmente ci ripete e propone a ogni latitudine.
Gli esempi e le gags sono infiniti: dall’esodo biblico con pupi e spesa nel deserto arroventato o alluvionato dei piazzali a parcheggio, a un approccio self-service che da un certo punto di vista si traduce “arrangiatevi: sono fatti vostri!”. Scenario, variabile, ma in fondo sempre molto simile, i nuovi territori del commercio dell’America suburbana, in cui anche noi europei e italiani cominciamo a riconoscerci molto da vicino. Il grande shopping mall, le zone centrali pedonalizzate e ri-attrezzate a nuovi usi, gli spazi di incontro e servizi di quartiere, il parco a tema, il cinema multisala, e trasversalmente tutti gli ibridi vecchi e nuovi del retailtainment, dissezionati dallo sguardo acuto della terribile, ipercritica Mamma. La trasversalità interessa anche i soggetti e il tempo. Ci sono nonni, fratelli, nipoti, tutti coinvolti in questo uso complesso del territorio commerciale, su e giù dall’auto, ascensore, dentro e fuori dal fast-food o dalla svendita di articoli sportivi che si rivela in qualche modo una patacca. E ci sono anche i tempi della storia: per quanto “storia” si possa definire (almeno da un punto di vista europeo) il semplice dipanarsi del vissuto individuale intrecciato all’evoluzione sociale e spaziale.
Ma l’io narrante di Mamma Nora va ben oltre le nostalgie e i rimpianti, pur senza trascurare nulla. Scorrono così, ad esempio, le immagini dei primi centri commerciali anni ’50 e dei relativi comportamenti, delle vecchie vie di villaggio con le botteghe emporio a gestione familiare, o dei cinema di terza visione. Anche di tutto questo si tenta un’analisi comparata di qualità dei servizi, degli spazi, del rapporto con l’entità famiglia allargata. Una delle parti più interessanti, da questo punto di vista, è il racconto di come venga percepito (secondo i ricordi personali, e secondo un piccolo questionario nazionale) lo spazio del parco a tema per eccellenza: Disneyland. Spazio della intuizione e filtrata memoria personale di Zio Walt, che attraverso le esperienze delle generazioni di utenti finisce per diventare, da “città dei sogni” che era, attraverso la fase intermedia di “città ideale”, una sorta di virtuale “centro storico” americano, deposito di memorie condivise e spunti per il futuro. In qualche modo inquietante, ma anche stimolante per chi non vuole ridurre la propria interazione con la modernità al solo conflitto istintivo.
E' forse proprio questo rapporto, critico ma al tempo stesso estremamente positivo e propositivo, di Nora Lee con gli spazi della modernità, a lasciare lievemente perplessi. Mi riferisco, qui, all’orizzonte suburbano middle-class che nel libro, dopo un breve esordio fianco a fianco con altri contesti, finisce per sostituirsi tout-court al mondo. Certo, Supermamma ce lo spiega bene, nei paragrafi introduttivi, che esistono vari chiari profili di consumatrice-manager familiare, e che lei per scelta ed esperienza personale esplorerà solo i territori della donna con un certo livello di istruzione, autonomia economica e reddito familiare (100.000 dollari l’anno), nondimeno questo influenza non poco l’effettivo valore sociale del pur acuto e documentato resoconto. In definitiva spariscono come d’incanto, temi di enormi dimensioni come la segregazione spaziale di chi non ha (o ha in modo limitato) un’automobile, o esigenze correnti di socialità più spicciola (il quartiere, o la semplice prossimità fra abitazione e servizi, qui quasi scompaiono, in una contraddittoria a-spazialità da grandi catene, interrotta da qualche gag di bottega o poco altro). Insomma, il lettore che non tenesse sempre a mente quell’appunto iniziale, finirebbe per scivolare in una pur avvincente, ma fuorviante, lettura tipo Paperino e Qui-Quo-Qua al Supermarket.
Decisamente positiva, invece, la capacità di questo libro di rivolgersi contemporaneamente all’operatore commerciale (da qui, probabilmente, la pubblicazione per il tipi dello ULI), allo studioso, e anche al pubblico delle Mamme, per renderle più consapevoli della propria forza d’urto economica, e della possibilità di usarla per ottenere “diritti”, stavolta non dal settore pubblico, ma dal commercio privato. Perché – almeno a parere del sottoscritto – salvo qualche eccezione ha poco senso avere un atteggiamento di rifiuto pregiudiziale nei confronti dell’innovazione, salvo, come questo dilatato “pomeriggio di shopping” ci insegna, andare puntigliosamente a cercare il pelo nell’uovo. Un uovo che, va da sé, non finisce al guscio delle pareti del negozio, del ristorante, ma si allarga al quartiere, alla città, al territorio all’ambiente. E qui, nei territori vasti e selvaggi dell’impresa globalizzata, non basterà certo a salvarci la nursery a palline colorate dell’Ikea. Però un pochino aiuta: basta non accontentarsi.
Molti anni fa, la signora Julia Cowans - nata a Harlan, Kentucky; moglie di un minatore nero, predicatore battista e sindacalista, militante dei diritti civili - cantò uno spiritual che, come tanti, era anche una canzone di lotta: «How I Got Over» - come ce l'ho fatta, come ho superato le prove e gli ostacoli di una vita fatta di montagne da scalare, per arrivare fino a qui. Se mai scriverò un libro su Harlan, questo sarà il titolo: per questa gente di montagna, anche solo sopravvivere è stato un atto eroico di resistenza e di lotta. Nel frattempo, il capitale ha inventato un altro modo di passare le montagne: semplicemente, spianarle. Jim e Dana hanno 14 anni (Che musica vi piace? «Christian rock»). Due anni fa, con tutta la classe e un'insegnante coraggiosa, si sono accampati in cima alla Black Mountain, al confine con la Virginia. La Arch Minerals, che aveva chiuso l'ultima miniera di profondità dopo una resistenza accanita dei minatori, progettava di spianare la vetta per estrarre il carbone a cielo aperto. A parte il danno ambientale, era uno sfregio simbolico: Black Mountain è la montagna più alta dello stato, e un ambiente protetto. I ragazzini di Harlan County si sono piazzati lì, hanno fatto una catena umana, hanno mobilitato la contea, e la montagna è salva. Certo, lo stato ha compensato la Arch Minerals con una cifra equivalente ai mancati profitti; ma la mobilitazione dei ragazzini di Harlan ha dimostrato che - nonostante la povertà, la disoccupazione, la droga, lo scoraggiamento - a Harlan qualcuno resiste.
Cime decapitate
Decapitare le montagne - «mountaintop removal» - è l'ultima trovata delle aziende minerarie e delle camere di commercio. Dicono che così non solo si arriva al carbone più facilmente, ma tra cime spianate e valli riempite coi detriti si creano in questo territorio di colli scoscesi e strette vallate i terreni pianeggianti su cui potrebbero installarsi le industrie di cui c'è bisogno per promuovere occupazione e sviluppo. Ora, a parte che le contee più povere d'America stanno in Arkansas, che è piatto come una tavola, il danno immediato e sicuro è più grave dei vagheggiati proventi industriali: dalle montagne disboscate e valli riempite di terriccio friabile il ferro e lo zolfo si infiltrano nelle falde da cui devono bere gli abitanti (la prima volta che cercai di lavare i piatti, dopo mezz'ora che sfregavo mi dissero: lascia perdere, quella patina gialla è lo zolfo che sta nell'acqua con cui li stai lavando), e i torrenti scendono senza ostacoli a spazzare le valli.
Per fortuna, la resistenza non è limitata ai ragazzini di Harlan. Il Kentucky possiede una letteratura regionale vivacissima, e - su iniziativa di Wendell Berry, un maestro del pensiero ambientalista e ruralista - si sono mobilitati gli scrittori. Gurney Norman, Bobbie Ann Mason, Ed MacClanahan, Wendell Berry e altri hanno fatto un giro per tutti i luoghi dove stanno decapitando le montagne per mobilitare l'opposizione e denunciare il disastro. Un movimento chiamato Mountain Justice ha contestato l'assemblea padronale e messo piedi gruppi di base in tutte le montagne.
Insomma, c'è ancora un Kentucky che resiste, e usa la cultura come arma di lotta. Da Harlan, passando per un paesaggio di bellezza indimenticabile, scavalco Pine Mountain (ancora non decapitata, ma ferita da un'inutile superstrada: le strade erano l'altro mito sviluppista; adesso l'Appalachia è mezza asfaltata e le macchine l'attraversano senza fermarsi) e scendo a Whitesburg, Letcher County, abitanti duemila.
Qui, negli anni `60, coi soldi della Guerra alla Povertà, è nata una cooperativa di ragazzi locali che da allora fanno un lavoro sui media per far conoscere la loro terra e la loro cultura, creare occupazione, e fermare la fuga delle menti migliori della loro regione. Appalshop (www.appalshop.com) è un modello di lavoro culturale di base, attivista e professionale. I loro film sulla storia, le lotte, i problemi, la musica e i saperi di un'Appalachia culturalmente inesauribile vengono mostrati e premiati in tutta l'America e fuori (al festival di Amsterdam, all'università di Roma); il Roadside Theater scambia esperienze, racconti e musiche con gli indiani di Zuni di Arizona; l'etichetta June Appal sforna a getto continuo musica irresistibile. Dalla loro radio si diffonde il meglio di tutte le musiche possibili: arrivo che trasmettono bluegrass, poi la consolle passa a una teenager con tanto di piercing che mette lo heavy metal più feroce e trasgressivo che esiste (il giorno dopo, in collegamento telefonico da New York, commento con Dee Davis mezz'ora di programma coi CD del Circolo Gianni Bosio e del manifesto...). Mimi Pickering, documentarista, mi mostra l'archivio e mi riempie di video da portare a casa. Su un magnetofono c'è la scritta che campeggiava sulla chitarra di Woody Guthrie: «this machine kills fascists», questa macchina ammazza i fascisti. Gianni Bosio sarebbe stato contento.
Dal locale al globale
Esperienze «locali» come Appalshop sono insediate in paesetti rurali di montagna, ma parlano con tutto il mondo (c'è un documentario di Appalshop sulla tragedia di Bhopal in India: la multinazionale responsabile ha la sede e un'altra fabbrica qui vicino). Il giornale locale, The Mountain Eagle, l' «aquila delle montagne» non ha paura di dire la verità al potere, e vede più mondo della maggior parte della stampa americana: non a caso, ha vinto il premio nazionale della stampa che l'anno prima era andato al New York Times. La copia che conservo ha una prima pagina sulla situazione politica in Cina, e la seconda sulle vacanze della famiglia Jones in Florida.
Dee Davis è uno dei fondatori di Appalshop (e colui che, molto tempo fa, mi insegnò in un caffè di Hazard a giocare a Packman). Ha fondato a Whitesburg un Center for Rural Strategies (CRS), per creare una rete di autodifesa e di crescita condivisa dell'America rurale (che, ricorda, ha 52 milioni di abitanti). Ma che possono fare due o tre persone in un centro di strategie rurali nella remota, lillipuziana Whitesburg?
Be', possono prendere di petto una potente rete televisiva come la CBS e bloccare un progetto offensivo per tutta l'America rurale. L'idea di The Real Beverly Hillbillies (basato su un fortunato serial su una famiglia di montanari appalachiani arricchiti e cafoni) era di prendere una famiglia - il più rustica e montanara possibile - e portarla a vivere in una villa a Beverly Hills facendoci un «reality show» («Vi immaginate le risate quando devono scegliersi un maggiordomo?», diceva il presidente della CBS). I montanari bianchi poveri sono gli unici su cui sia lecito diffondere stereotipi insultanti; venire messi alla berlina in quel modo era un insulto che avrebbe rinforzato il senso di inferiorità, la bassa stima di sé, che sono un terreno di coltura della depressione e della droga.
Dalla minuscola Whitesburg è partita una campagna che ha coinvolto giornali, comunità, attivisti in tutta l'America, culminando in una manifestazione di minatori davanti alla sede della CBS a New York, e ha vinto (la CBS ci ha riprovato con gli Amish della Pennsylvania - ricordate Mission? - e anche stavolta il CRS di Whitesburg gli si è messo di mezzo). Nel frattempo, da Whitesburg si è diramata una struttura internazionale, lo IRSSA (International Rural Strategies Association) che tocca India, Australia, Kenya, Messico... e Italia (il Circolo Gianni Bosio e l'IRSSA stanno producendo un CD di musiche di lotta dalle campagne del mondo).
Ricostruzione culturale
Tornando a Harlan, intervisto i membri del PACT, un progetto del «community college» locale che usa il lavoro culturale per ricostituire un tessuto sociale lacerato. Hanno messo macchine fotografiche in mano a un centinaio di ragazzi, gli hanno detto, fotografate il meglio e il peggio di quello che avete intorno, e hanno fatto una mostra; hanno mandato gente di tutte le generazioni e tutti i mestieri (il «community college» fa educazione permanente) a raccogliere storie in giro per questo paese di grandi narratori, hanno messo tutto in mano alla poeta Jo Carson, e ne nascerà uno spettacolo teatrale con un centinaio di attori; stanno facendo manualmente, una per una, le tessere di un grande mosaico che riproduce una fotografia del paesaggio attraversata da frasi prese dai racconti... Più ancora dei risultati, conta il lavoro in sé: alternativa al «qui non c'è niente» a cui tutti attribuiscono l'attrazione della droga; riscoperta del valore della propria storia e cultura e delle proprie capacità di vedere, ascoltare, raccontare. Il cuore della mostra è l'accostamento fra due foto: un tavolo coperto di pillole e una croce. Le due alternative, Gesù o la droga, dice Darleen. Io penso all'oppio dei popoli, ma in realtà ha più ragione lei.
La prima volta che venni qui, mi mandarono a un posto chiamato Survival Center. Credevo che fosse una metafora e invece la sopravvivenza era proprio letterale. Dopo l'ultima inondazione si erano organizzati per costringere le compagnie minerarie a risarcire i danni (era la prima volta che qualcuno rivendicava diritti nei confronti dei padroni delle miniere); raccolgono vestiti, cibo, aiuti per le persone più disperate. La lotta fra minatori e padroni è forse finita con una sconfitta epocale; ma la lotta di classe adesso si chiama sopravvivenza, e continua nonostante tutto. E' anche per questo che continuo a venire a Harlan, anno dopo anno, in questa mia America coraggiosa e profonda.
Post scriptum. Sono i giorni del referendum. Un lettore scrive allo Herald Leader di Lexington, Kentucky: dicono che l'embrione è un essere umano di pieno diritto; metti che va a fuoco una clinica e devi scegliere se salvare un vassoio con trecento embrioni o un bambino, che fai? Bush ha vietato di finanziare la ricerca sugli embrioni (sul New York Times, Mario Cuomo scrive: qui non è in questione solo l'aborto, ma perfino la contraccezione), e un editoriale sullo Herald Leader commenta: brutto segno, di questo passo andremo a finire come l'Italia. Il Kentucky sarà rustico e fondamentalista; ma noi italiani riusciamo a farci ridere dietro anche da loro.
Tra gli abeti puntuti del lontano nord
Lassù nel nord c’è un posto bellissimo, tutto costruito di legno: perché il legno è forte, duttile, naturale, serve sia per le strutture che per tutte le altre parti della grande casa, si fonde con l’ambiente naturale e si può persino riciclare, aiutando anche l’ambiente in senso lato. Oltre al legno, nel grande edificio si usano anche tutti i sistemi possibili per il risparmio energetico, la massima illuminazione naturale, la minima dispersione termica, l’uso dell’energia solare per produrre elettricità, il riciclaggio del sistema delle acque bianche e nere.
Dato che in qualche modo bisogna pur arrivarci, lassù nel nord, e di solito ci si può arrivare solo in macchina, anche i parcheggi sono fatti di asfalto riciclato, garantiscono la minima impermeabilizzazione del terreno, e sono circondati e schermati da scarpate a verde, strisce a parco, aiuole. Anche i segnali stradali e tutta la cartellonistica è in materiale riciclato. Anche (incredibile) il chiosco di MacDonald offre contenitori e arredi in tutto o in parte di materiali naturali o riciclabili.
E se proprio siete degli sporcaccioni e vi siete portati robaccia dalla sporca città, dentro l’edificio c’è anche un posto dove potete lasciare le vostre schifezze perché siano riciclate, un centro di informazione e educazione ambientale, e un vicedirettore specializzato (con titolo di studio apposito) incaricato di mantenere rapporti con la comunità locale sui temi ambientali, e i loro rapporti con la società e lo sviluppo.
Ma fuori dalla grande casa, sempre da qualche parte lassù nel nord, sta acquattato tra gli aghi di pino un gruppetto di individui sospettosi e mai contenti. Si sono proclamati, addirittura, “Guardiani delle risorse naturali”, e ce l’hanno a morte con quelli della grande casa e tutto il loro legno riciclato. Ma che diavolo vogliono, ‘sti guardiani? Basta leggere. Acque pulite, da bere, nei fiumi, nei laghi, per pescare, acque nelle zone umide, acque “legali”, in regola con le norme dello stato. Foreste vive e sane, da cui ricavare legname, dove possa vivere la fauna selvatica, che possano ricambiare l’aria e su cui non deve cadere la pioggia acida e velenosa. Comportamenti sociali e stili di vita rispettosi dell’ambiente, nei modi di costruire e abitare, muoversi, nei rapporti con il paesaggio e la storia. Promuovere l’uso di energie rinnovabili, diminuire il consumo di petrolio, risparmiare e riciclare ... Beh: e perché mai ce l’hanno tanto con quelli della grande casa? Non vogliono forse, più o meno, le stesse cose, questi sedicenti “guardiani”?
Il fatto è che hanno ragione loro, e da vendere. Perché quelli della grande casa sono la mega-multinazionale big-box del commercio, Wal-Mart, e quei poveracci dei “guardiani” solo il Vermont Natural Resources Council. Ma, soprattutto, perché i guardiani parlano di qualcosa che esiste, ha una storia, è unico, e Wal-Mart va poco più in là delle dichiarazioni di principio. In effetti ha realizzato un intervento modello a Lawrence, Kansas, negli anni Novanta, e altri due simili, ma basta vedere la lista delle cause aperte contro il gigante big-box mangiatutto, per capire al volo che anche il suo dichiarato ambientalismo deriva ampiamente da spinte esterne.
Quando ti inscatolano la patria
Non è qui il caso di tornare a spiegare cos’è, Wal-Mart. Anche per il lettore italiano ci ha pensato, ad esempio e di recente, “Il Manifesto”, con un servizio a puntate che non a caso si focalizzava proprio sui conflitti che questo gigante induce: col sindacato, con l’ambiente, con le comunità locali. Per gli impatti direttamente fisici, basta ricordare che si tratta di un big-box (molto big) ovvero di singolo grande negozio, insediativamente diverso dal Mall o centro commerciale, di cui può anche far parte, un po’ come altri big-box tipo Ikea, Brico ecc. che nel territorio nostrano si inseriscono dentro o vicino agli insiemi più complessi e artificialmente “urbani”. Altra caratteristica Wal-Mart è la politica dei prezzi bassi, bassissimi, stracciati, che si può permettere sia lavorando in perdita per lunghi periodi al solo scopo di distruggere la concorrenza, sia (ed è il caso generale) facendo pagare i propri costi ad altri: l’ambiente, la comunità locale, ecc.
Nel caso specifico del Vermont, questo piccolo Stato era risparmiato da una presenza Wal-Mart ancora a metà anni Novanta, ma poi il gigante dopo trent’anni di espansione (esplosione) continua nello sprawl suburbano USA, piantò la sua ingombrante bandierina anche qui, più o meno quando iniziava la sua tentennante avventura multinazionale, dopo la scomparsa dei soci fondatori e l’avvento della seconda generazione. Il caso ora si ripresenta enormemente gonfiato, visto che il gigante dall’Arkansas, dopo aver aperto con più o meno conflitti e guai quattro big-box nel Vermont, ora ne vuole piazzare un’altra mezza dozzina, sparpagliati fra le città di Bennington (dove ce n’è già uno), St. Albans, St. Johnsbury, Newport, Morrisville, Middlebury e Rutland. E si tratta di scatoloni veramente piuttosto grossi. Il progetto per Bennington, dove dalla metà anni Novanta c’è un Wal-Mart di 5.000 metri quadrati, è per un nuovo negozio “Superstore” da 17.000 mq. In società con un operatore locale, si intende (e si è già cominciato a) cambiare destinazione d’uso ad un appezzamento di circa 12 ettari, che poi sarà destinato a vari scopi, primi fra tutti gli spazi di accesso e servizio al big-box.
Non è un caso se l’opposizione si raccoglie attorno alle parole d’ordine della smart growth, che dà anche l’illuminante titolo ad un convegno contro Wal-Mart: “ Smart Growth and Big Box Development: What are they and can we have both?”. Illumimante perché la dice lunga sull’atteggiamento sostanzialmente non-nimby di queste opposizioni “integrate”. La domanda che ci si pone e si mette di fronte alle autorità è: il commercio ci va benissimo, anche e meglio ancora quello discount, ma vediamo prima quali sono i prezzi veri, e chi li paga nel lungo termine. Ecco, da dove viene esattamente il “negozio modello” e tutta la comunicazione pubblicitaria che si trascina appresso. Perché una cosa è certa: lo scatolone stanti i rapporti di forza rischia davvero di ingoiarsi tutto lo Stato, inteso come storia, paesaggio, valori sociali condivisi, e anche cantati dal National Geographic Magazine. Come osserva in un articolo di fine maggio 2004 anche il New York Times, è certo che l’approccio brutalmente standardizzato (“globalizzato”, diremmo noi provinciali) all’insediamento commerciale sta da tempo mostrando la corda, in termini di vera e propria desertificazione prima delle attività economicamente più deboli e potenzialmente concorrenti, poi di tutta la complessità socio-ambientale di una regione. Il risultato è un mondo, anche se locale (ma per quanto?) del tutto conformato alla logica di impresa/produzione/consumo, e che perde o indebolisce tendenzialmente i suoi valori anche civili e di democrazia.
Riassumendo, quindi, tutto quello che la società locale (l'intero Stato, in un modo o nell'altro) desidera è una forma di convivenza regolata con questo gigante della grande distribuzione. Ambiente, urbanistica, mercato del lavoro, attività economiche, tutti questi aspetti della vita devono in qualche modo crescere insieme, con il contributo di vari soggetti, costruire e riprodurre la stessa complessità che ci ha lasciato sinora la storia. Non appiattirsi sulle strategie locali di un gigante cieco, che vede solo i propri bilanci e le strategie globali. Altro che "fondamentalismo ecologista"!
Estremi rimedi e scenari futuri
Il caso è tanto grave che, per la prima volta, il National Trust for Historic Preservation ha inserito uno Stato – il Vermont, appunto – nella propria lista 2004 degli oggetti e luoghi insostituibili da tutelare ad ogni costo. Avete letto bene: un intero Stato, perché tutto si tiene, in un ambiente socio-territoriale, paesistico, economico, civile a “dimensione conforme”. E dunque di fianco alla stazione ottocentesca del grande architetto minacciata di demolizione, di fianco agli alberi monumentali che rischiano l’attacco di ruspe e dinamite, si sistema anche come bene culturale l’intero Vermont, che Wal-Mart vuole, dietro le sue lusinghe di legno ecologico e plastiche riciclate, ingoiarsi in un solo boccone dentro il big-box.
E naturalmente il problema non riguarda solo questo particolarissimo, eccezionale caso, ma tutta l’infinita serie di conflitti che, più o meno con la stessa tiritera (anche se con risultati diversissimi) Wal-Mart provoca: prima nello sprawl suburbano USA, poi in varie tonalità in tutto il mondo.
Perché come già accennato la seconda generazione - che ha sostituito a metà anni Novanta i fondatori Sam e “Bud” Walton - si è da quasi subito proiettata nel mondo, alla ricerca di nuovi mercati e di nuove comunità locali da inscatolare. Con vari livelli di successo, visto che in Europa il mercato sia britannico che tedesco non sembrano dare molte soddisfazioni, mentre in Asia le economie delle varie tigri neoliberiste sembrano molto aperte all’innovazione, ma troppo sofisticate per accettare una proposta che è anche un big-box concettuale: prodotti americani, proposti in modo americano e con strategie americane. Risultato: flop, o quasi. Per ora, naturalmente. E questo ci racconta solo la parte strettamente economica della faccenda, tutto tacendo sugli impatti ambientali, che probabilmente saranno anche molto peggiori di quelli paventati nel Vermont o subiti altrove.
E l’Italia? Un anonimo intervento in un gruppo di discussione a questo proposito sembra perentorio: As for Italy, Walmart will “Never” have a store there. Ma la stampa economica non sembra pensarla esattamente così, anche solo ad una rapida occhiata online.
L’ambiente italiano torna ciclicamente nelle analisi delle strategie internazionali del gruppo, e sempre accoppiato allo stesso partner, di cui si mormora (si citano rumors) talvolta una idea di joint venture, altre volte l’acquisizione dell’intero pacchetto, in un caso addirittura un preciso luogo: Piacenza. Il misterioso partner, come conferma di recente pure la prestigiosa Forbes, altri non è che la Esselunga, nota per il sostegno alla Casa delle Libertà e per la presenza puntuale di un suo small-box (anche se si chiama Superstore) nei grandi quartieri di iniziativa privata che stanno trasformando radicalmente la periferia di Milano, e non solo.
Dovremo rivolgerci anche noi al National Trust for Historic Preservation, sperando che faccia un’altra eccezione, e inserisca pure la padania nella sua lista delle specie minacciate? Speriamo di no. Ma speriamo anche di non finire inscatolati senza accorgercene, dentro un complesso pacchetto azionario.
Sono forse altre, le azioni da intraprendere.
Nota: credo basti, qui, il link al sito del Vermont Natural Resources Council, che da una serie di informazioni anche quantitative sui progetti Wal-Mart. Quanto alla catena big-box , come noto basta inserire il nome dentro a un motore di ricerca per essere letteralmente sommersi sia dalle informazioni di impresa, sia dai siti di chi si oppone agli scatoloni. Ho anche tradotto per chi fosse interessato il documento con cui il National Trust dichiara minacciato l’intero Vermont. È scaricabile da qui il file PDF, insieme a quello tratto dal "Manifesto" che racconta una delle lotte locali contro Wal-Mart. (fb)
Un documento dall’Ufficio Federale Svizzero per lo Sviluppo Territoriale
Centri commerciali, mercati specializzati e impianti a forte affluenza più vicini agli agglomerati
Se i centri commerciali, i mercati specializzati e gli impianti del tempo libero vengono progettati e costruiti lontano dagli agglomerati, la causa non va ricercata nella legislazione sulla protezione dell’aria, come presumono due mozioni trasmesse dal Parlamento. Questa la conclusione dell’Ufficio federale dell’ambiente, delle foreste e del paesaggio (UFAFP) e dell’Ufficio federale della pianificazione del territorio (ARE). Affinché in futuro queste strutture a forte affluenza possano essere realizzate in modo ottimale nei pressi degli agglomerati e nelle vicinanze dei nodi del traffico, è necessario migliorare il coordinamento: gli strumenti della protezione dell’aria e della pianificazione del territorio devono essere meglio armonizzati.
Negli ultimi anni parecchi grandi centri commerciali e mercati specializzati sono stati costruiti lontano dagli agglomerati urbani. Di conseguenza aumentano il traffico individuale e l’inquinamento atmosferico. Il 10 per cento del traffico motorizzato individuale va addebitato alle strutture a forte affluenza. Nel contempo queste strutture accentuano la frammentazione del territorio e richiedono la costruzione di nuove strade. Dal punto di vista della protezione dell’ambiente e della pianificazione del territorio un’ubicazione lontana dai centri densamente popolati è pertanto problematica. Simili strutture a forte affluenza di pubblico dovrebbero essere ubicate nelle vicinanze dei centri e dei nodi del traffico.
Gli autori delle due mozioni trasmesse dal Parlamento presumono che il motivo della tendenza a privilegiare siti periferici vada ricercata soprattutto nella legislazione sulla protezione dell’aria. I provvedimenti di igiene dell’aria volti a limitare il traffico motorizzato (ad esempio riducendo il numero di posteggi) indurrebbero inoltre gli investitori a realizzare i loro progetti lontano dai centri. Qualora fosse appurata una contraddizione tra gli obiettivi della pianificazione del territorio e quelli della protezione dell’aria, le relative prescrizioni andrebbero modificate.
La legislazione sulla protezione dell’aria non deve essere modificata
Nella pratica il presunto conflitto si verifica solo di rado. È quanto emerge dal rapporto di Rudolf Muggli, direttore dell’Associazione svizzera per la pianificazione ASPAN, elaborato a seguito delle due mozioni («Publikumsintensive Einrichtungen – Verbesserte Koordination zwischen Luftreinhaltung und Raumplanung»). Lo studio è stato commissionato dall’Ufficio federale dell’ambiente, delle foreste e del paesaggio (UFAFP) e dall’Ufficio federale dello sviluppo territoriale (ARE). Dalla pubblicazione emerge che le prescrizioni in materia di protezione dell’aria sono abbastanza duttili e consentono ai Cantoni di coordinare la loro politica di igiene dell’aria con l’auspicato sviluppo del territorio. Per questo motivo e poiché altri quattro motivi determinanti hanno portato all’abbandono di progetti, non è necessaria una modifica della legislazione sulla protezione dell’aria.
Un migliore coordinamento garantisce siti idonei
È per contro indispensabile un migliore coordinamento degli strumenti della protezione dell’aria e della pianificazione del territorio. E questo tanto più che il problema delle limitate capacità del traffico stradale nei grandi agglomerati urbani di Basilea, Berna, Ginevra, Losanna, Lucerna, San Gallo e Zurigo sta diventando l’ostacolo principale all’autorizzazione di centri commerciali, mercati specializzati e impianti del tempo libero. In futuro si rafforzerà pertanto la tendenza a costruire grandi centri in luoghi con un buon collegamento con la rete dei trasporti pubblici.
Un esempio di coordinamento riuscito è il previsto complesso di Berna-Brünnen. Il modello del Canton Berna relativo al numero di movimenti e ai chilometri percorsi dai veicoli, che sfrutta il margine di manovra consentito dall’attuale legge sulla protezione dell’ambiente, consente in questo caso la costruzione di un impianto commerciale e per il tempo libero alle porte di Berna. Il Canton San Gallo prevede un altro modello nell’ambito del piano direttore 2002, che contribuisce al migliore coordinamento tra gli obiettivi della protezione dell’aria e quelli della pianificazione del territorio mediante precise basi pianificatorie.
Prossimo passo: aiuto all’esecuzione per i Cantoni
Tali modelli non garantiscono in futuro l’approvazione di tutte le domande di autorizzazione di strutture a forte affluenza. Essi rafforzano però la certezza del diritto per tutte le cerchie interessate, dal momento che sarà possibile fare affermazioni più vincolanti sui requisiti che i siti devono adempiere. Si riduce così la probabilità che vengano inoltrati reclami e ricorsi che ritardano la realizzazione dei progetti. Il prossimo passo dell’UFAFP e dell’ARE consisterà nell’elaborazione di un aiuto all’esecuzione per i Cantoni, utile ai fini di un migliore coordinamento tra protezione dell’aria e pianificazione del territorio.
Berna, 07.11.2002
Nota: il link al sito dell’Ufficio Federale Svizzero per lo Sviluppo Territoriale, con numerosi documenti disponibili
[Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini]
Le politiche di “Smart-growth” diffuse negli anni ‘90, sono sistemi di regole pensati per ridurre lo sprawl suburbano e governare la crescita. Tendono a incoraggiare le persone ad abitare più vicine, a distanze percorribili a piedi da negozi e uffici. Uno degli scopi è quello di ridurre l’uso dell’automobile. Un altro di creare quartieri ricchi di interessanti “paesaggi stradali”. Un terzo di raggruppare gli abitanti entro densità maggiori per mantenere ampie zone di spazi aperti. Oggi, queste politiche di smart-growth appaiono in regresso. Si sono verificati arretramenti in Maryland, Virginia, Oregon, e nuovi dati statistici fanno pensare che il pubblico non abbia realmente adottato uno stile di vita smart growth.
Maryland: nessuna discontinuità nell’uso dello spazio
Uno dei segni di debolezza della smart growth viene dal Maryland, dove l’ex governatore Paris N. Glendening nel 1997 aveva annunciato un’azione a livello statale per governare la crescita. L’idea era di limitare l’uso di risorse pubbliche per l’urbanizzazione alle aree già dotate di infrastrutture. Le contee dovevano presentare allo stato piani indicanti gli ambiti entro cui sarebbe avvenuta la crescita. Queste “zone di finanziamento prioritario” erano passibili di sostegno finanziario statale per le infrastrutture, mentre i progetti esterni a queste aree non lo erano. Queste norme hanno segnato una pietra miliare. Ma come ha raccontato Peter Whoriskey in una serie di articoli dello scorso autunno sul Washington Post, l’iniziativa di Glendening deve ancora iniziare, a produrre qualche significativa discontinuità nei modi di urbanizzazione diffusa del Maryland.
”Un esame dei dati fondamentali urbanistici a livello statale e locale non mostra significativi spostamenti nelle modalità di urbanizzazione dopo l’approvazione del pacchetto smart growth di Glendening”, ha critto Whoriskey. “La crescita avviene ancora dove non c’è nulla, come è sempre accaduto”.
Nonostante non avesse a disposizione dati recenti, Whoriskey ha notato che nel 2001 il 75% del suolo consumato dalla costruzione di case in Maryland è stato sottratto a boschi, pascoli e altre zone esterne alle smart-growth areas: quasi la stessa percentuale di prima del lancio del programma, secondo i dati del Maryland Department of Planning. Uno dei possibili motivi del fallimento della politica smart-growth di Glendening è che forse mancava di strumenti attuativi efficaci. Lo stato poteva rifiutare il finanziamento delle necessarie infrastrutture, ma non poteva mettere un veto sui progetti. I grossi costruttori e i giganti del commercio come Wal-Mart hanno comunque edificato, finanziandosi da soli le strade e fogne necessarie. Le amministrazioni locali si sono rifiutate di intervenire.
In più, alcuni amministratori vedevano nell’azione di Glendening un’eccessiva interferenza statale, e così hanno aggirato la legge. In alcuni casi sono state classificate come zone di crescita aree di gran lunga superiori all’effettivo fabbisogno per i prossimi vent’anni.
Per esempio, la Howard County, che si aspettava una rapida urbanizzazione, ha preso tutta l’area già destinata all’edificazione, dichiarandola propria zona smart-growth. Cosa forse più importante, i programmi di aumento delle densità all’interno di queste zone hanno incontrato una decisa opposizione di base. I tentativi per realizzare tipologie residenziali urbane attorno alle stazioni Metrorail nella fascia suburbana della Montgomery County – considerate i luoghi più logici per l’alta densità, vicine al trasporto collettivo – sono stati spesso respinti, o ridimensionati a causa dell’opposizione dei residenti.
Loudoun County: uno zoning di esclusione?
Un altro arretramento è quello in cui la Corte Suprema della Virginia Supreme ha respinto le norme di zoning della Loudoun County, che avevano bloccato la costruzione di case nella parte occidentale dell’area a crescita più rapida del paese.
Loudoun County, alla periferia dell’area metropolitana di Washington, D.C., è da anni un campo di battaglia tra le forze dell’urbanizzazione e i sostenitori della smart growth. La popolazione è quasi triplicata in 15 anni, dagli 86.000 abitanti del 1990 ai 248.000 nel 2005. Questa crescita ha stimolato l’elezione di un gruppo di amministratori “ smart growth” nel 1999. Tradizionalmente, le norme di zoning della Loudoun richiedevano circa 1,2 ettari per ogni nuova abitazione nella fascia semirurale occidentale della contea. Il consiglio ha votato nuove norme nel gennaio 2003, che richiedevano 4, 8 e in alcuni casi anche 20 ettari per ciascuna abitazione, a seconda dell’area.
L’idea era che la crescita avrebbe dovuto avvenire nei centri esistenti, nella porzione orientale della contea. Ma i critici hanno accusato queste scelte come semplicemente esclusive, solo mascherate da tutela degli spazi aperti: a proteggere i proprietari facoltosi e le loro tenute arcadiche dalla suburbanizzazione invadente. Altre critiche hanno sottolineato come le nuove norme di zoning non impedissero lo sprawl, semplicemente spalmandolo su un’area più vasta.
Il nuovo consiglio eletto nel 2003 tolse molti dei limiti alla crescita, lasciando però le norme restrittive di zoning, che sono state soggette a numerosi ricorsi legali da parte di proprietari colpiti. Il 3 marzo del 2005, la corte suprema statale della Virginia ha dichiarato non valide le norme di zoning. Lo ha fatto non in base a questioni di diritto proprietario, ma su base procedurale. Gli amministratori della Loudoun, ha detto la corte, non avevano pubblicizzato adeguatamente le udienze di zoning e non avevano specificato in modo chiaro i confini delle aree da riclassificare.
Potenzialmente, il verdetto apre la strada a più di 50.000 nuove abitazioni, sui quasi 800 chilometri quadrati della fascia occidentale della Loudoun County prima esclusi dall’insediamento denso.
Nuovo corso in Oregon
Una delle trasformazioni più sorprendenti è quella del novembre 2004. Con una maggioranza del 61%, gli elettori dell’Oregon hanno approvato con referendum la Measure 37. Stabilisce che il governo statale deve risarcire i proprietari nel caso in cui imponga restrizioni tali da ridurre il valore della proprietà. Se lo stato non può o non vuole pagare, i proprietari possono costruire come credono sui propri terreni. Per usare le parole della scheda, “Il governo deve compensare i proprietari, o rinunciare all’imposizione della norma, quando i vincoli nell’uso del suolo riducano il valore della proprietà”.
Dato che lo stato di fatto non ha denaro per indennizzare i proprietari, si teme che la Measure 37 porterà in Oregon a una corsa a lottizzazioni suburbane fuori dai confini urbani.
Molti funzionari urbanisti delle amministrazioni locali vedono nella nuova measure la distruzione del sistema di pianificazione nello stato, che sinora ha diretto l’urbanizzazione entro zone di crescita chiaramente definite, e protetto gli spazi aperti dalla suburbanizzazione rampante. È un fatto che probabilmente avrà riflessi oltre i confini dell’Oregon. I sostenitori della smart-growth temono che la nuova legge rafforzi il movimento per i diritti dei proprietari in tutto il paese.
E di certo la legislazione anti- sprawl ha già perso parte del suo slancio politico. Nei primi anni ’90 alcuni stati – Florida, Texas, Louisiana e Mississippi – avevano approvato leggi sulla proprietà per proteggere dalle perdite monetarie causate da norme restrittive di zoning. Ma nessuna di queste iniziative ha avuto l’impatto politico e psicologico di quella dell’Oregon. Il Seattle Times pensa che la Measure 37 “possa aver ferito mortalmente il solido sistema di pianificazione del territorio dell’Oregon”. Altri la considerano una rinuncia dell’ente pubblico al principio di governo della crescita, una politica di cui l’Oregon si è fatto pioniere da trent’anni a questa parte.
”Se può accadere in uno stato progressista come l’Oregon, può accadere ovunque”, ha sottolineato un funzionario urbanista.
E è certo, ci sono segni che la rivolta dei diritti proprietari sta montando. Gruppi di cittadini nel vicino stato di Washington sono al lavoro per organizzare un referendum simile a quello dell’Oregon. In Montana, è stata introdotta una norma quasi identica da parlamento statale. Secondo il Seattle Times, Dave Hunnicut degli Oregonians in Action – i sostenitori della Measure 37 – collabora con gli attivisti di Florida, Wisconsin e South Carolina.
Aree micropolitane crescono
Un altro segno dei tempi duri che attendono le politiche di smart-growth viene dalla nuova categoria censuaria introdotta nel 2003 dallo U.S. Office of Management and Budget. Sono le “ Aree Micropolitane”, fra quelle metropolitane e rurali. Queste Micros non hanno la città centrale di oltre 50.000 abitanti che rappresenta il criterio della standard metropolitan area, ma sono “troppo urbane per essere rurali” come le ha definite un demografo. Sono una nuova forma di insediamento semi-urbano: comunità definite a bassa densità, da 10.000 a 50.000 abitanti, al di fuori dell’influenza geografica delle aree metropolitane. Ci sono quasi 30 milioni di americani, uno su dieci, che vivono nelle aree micropolitane.
Secondo gli ultimi dati demografici (Lang, Dhavale, Haworth, 2004), queste aree, insieme a quelle delle contee esurbane (suburbane esterne), sono tra le zone in crescita più rapida del paese. Gran parte di questa crescita si deve alla continua migrazione verso l’esterno delle giovani famiglie in cerca di case a prezzi accessibili e di un ambiente dove poter crescere i figli.
Alcuni dei livelli più elevati di crescita possono essere attribuiti anche ai tassi elevati di fertilità fra gli abitanti delle zone micropolitane. Come sottolinea il commentatore Steve Sailer, le basse densità sembrano non solo attirare famiglie con figli, ma anche incoraggiare ad averne di più.
E in effetti Portland, Oregon – la città simbolo degli smart-growthers – si fa notare per la sua carenza di bambini, come ha scritto lo scorso marzo il New York Times. “Gli amministratori sostengono che le cose che attirano gente che rivitalizza le città – abitazioni dense sviluppate in altezza, ristoranti e negozi alla moda, trasporti pubblici che rendono inutile l’auto – respingono i bambini, perché rendono i quartieri troppo costosi per le giovani famiglie”.
Altre mecche della smart-growth – San Francisco, Boston, Seattle – hanno lo stesso problema: troppo pochi bambini “per far funzionare le scuole e rendere i parchi vivi di giovani voci”, scriveva l’articolo del Times.
Nessuno sa per certo come sarà il panorama urbano/suburbano dei prossimi decenni. Ma gli ultimi segnali, compresi i dati dello U.S. Census Bureau che documentano le tendenze demografiche dopo il censimento del 2000, fanno pensare che il movimento per la smart-growth abbia poca influenza nella definizione del panorama urbano d’America. Le forze economiche e demografiche che guidano l’espansione metropolitana sembrano troppo potenti per essere imbrigliate dalle sollecitazioni della smart-growth.
Nota: il testo originale al sito del Rocky Mountain News (f.b.)l
Consumati dallo shopping [recensione a The Call of the Mall, di Paco Underhill, Simon & Schuster 2004], traduzione di Fabrizio Bottini
”Le città stanno diventando, sempre di più, una lontana provincia abitata dai ricchi, da chi è senza figli, o dai poveri. Io amo le città. Ma l’America non ci ha abitato per molto tempo ... Se vuoi vedere davvero le famiglie a varie generazioni del ceto medio americano, devi andare al centro commerciale”.
Ma, potremmo chiedere all’autodefinito “secchione della ricerca” Paco Underhill, che sostiene questa tesi ne Il Richiamo del Centro Commerciale ( The Call of the Mall): vogliamo davvero vederle? La più recente incursione di Underhill nel ricco, variegato, speziato campo dell’antropologia commerciale (la prima è stata Perché compriamo: la scienza dello Shopping, del 1999), ci pone alcune questioni: siamo davvero interessati a passare un intero libro dentro al centro commerciale? Perché hanno un’architettura tanto brutta? E cos’è, esattamente, un Aqua Massage? Le risposte di Underhill si rivelano affascinanti (la maggior parte), e quando non lo sono, sono comunque noiosamente e squisitamente spoglie, noiosamente esistenziali, proprio come il centro commerciale.
Per chi sostiene che un pasticcino Cinnabon è solo un Cinnabon, Underhill apre il suo viaggio nel mall invocando lo spirito dello storico francese Daniel Roche, autore della Storia delle cose banali “Studiare le persone mentre si radunano a comprare e vendere cose non è proprio una cosa totalmente frivola o leggera”. Scrive:
Pensate alla storia della nostra specie, una gran parte della quale è stata stimolata da mercanti o loro emissari che viaggiavano fino ai confini del pianeta, qualche volta con grandi rischi, per riportare indietro cosette da vendere agli altri. Come può testimoniare qualunque scolaro, l’avventura nei tempi antichi c’entrava sempre con la via delle spezie, e i traffici di seta, metalli preziosi, incenso, mirra, polvere da sparo e pellicce.
Secondo Underhill, la storia del commercio è una grande avventura, che entra in una nuova fase con gli scintillanti empori delle città americane in crescita.
I principi mercanti erano uomini del diciannovesimo secolo, spinti dall’ambizione, dalla forza, dalla voglia di affermarsi secondo il codice materiale, in pietra e mattoni, dell’epoca. I loro negozi erano i loro alter-ego, e questi titani del commercio avevano tutti grossi complessi psico-edilizi. I grandi magazzini dell’epoca portano i nomi del proprietario: Gimbel, Macy, Wanamaker, Neiman Marcus, Marshall Field.
A prima vista sembrava che la cultura suburbana dell’automobile potesse innescare un’altra eccitante fase di questo lungo viaggio. Dopo tutto, fin dai primi passi a Edina, Minnesota, nel 1956, il mall si è dimostrato una meravigliosa invenzione per il commercio. Negli anni del boom, i ’70 e ’80, si apriva un centro commerciale da qualche parte degli Stati Uniti ogni tre o quattro giorni. Alcuni studi ipotizzano che il 30 per cento degli adulti che vivono in una zona con il tipo di centro commerciale descritto da Uphill nel suo libro, ci sono stati almeno una volta ogni tre mesi. I malls attualmente coprono il 14 per cento del commercio totale degli Stati Uniti (esclusi auto e benzina): circa 308 miliardi di dollari di vendite annuali.
Più significativo di queste cifre e dati, è il modo in cui il centro commerciale è entrato nelle viscere, nella psiche della famiglia americana. Cos’è dopotutto una famiglia, se non un insieme di persone non proprio totalmente indipendenti, non proprio totalmente mobili? E quale ancoraggio più sicuro, per le famiglie, di una grossa anonima scatola a temperatura controllata? E non si tratta solo degli adolescenti “topi da centro commerciale”, naufraghi al multisala i venerdì sera perché non possono guidare. Sono i branchi di anziani che hanno iniziato programmi di “passeggio da mall” su consiglio del medico che temeva potessero scivolare sulla neve o sul ghiaccio. Sono le mamme di bambini piccoli che tentano di ammazzare il tempo (perché i clienti del centro commerciale letteralmente fanno una spesa più lenta dei loro corrispondenti urbani, e sono più pazienti in fila, al punto che spingere un passeggino e un paio di pupi a comprare un nuovo mestolo da Lechter’s può riempire un intero, sereno pomeriggio).
Il problema, sostiene Uphill, è che c’è del marcio, sin nel DNA del centro commerciale. I proprietari sono ben lontani dal voler venire incontro creativamente ai nostri bisogni di acquisto: sono semplicemente operatori immobiliari, che tentano di massimizzare ogni dollaro di rendita, in gran parte minimizzando sulle spese. Il che non è una bella cosa. Per cominciare, l’architettura che ne risulta è un orrore (“Un grosso muro con un piccolo buco da topo”, è il modo in cui viene descritto da un progettista di grido del settore). E ora questi esterni spogli e senza vita stanno via via decadendo, con inquietanti stranezze quasi alla Michael Jackson. Ad esempio:
Mall of America, il più grande degli Stati Uniti e la più importante attrazione turistica di tutto il Minnesota, può anche essere sembrato bello sul tavolo da disegno. Ma è invecchiato male sin dal giorno dell’inaugurazione nell’agosto 1992. Si vedono macchie sull’esterno dell’edificio, e l’erba ha cominciato a spuntare attraverso l’asfalto nei parcheggi. È enorme e sgraziato. Non puoi immaginare che si lascino Disney World, o la Statua della Libertà, a degradarsi in questo modo. E questo centro commerciale ha più visitatori di Disney World, Graceland, e il Grand Canyon messi insieme.
E ancora:
La prossima volta che andate in un centro commerciale, invece di entrarci direttamente, provate a fare una passeggiata lungo il perimetro dei fabbricati. Sarete piuttosto soli in quel posto, su una stretta striscia di marciapiede – sempre che ce ne sia uno, di marciapiede: in molti centri non c’è – magari con una guardia della vigilanza a tenervi compagnia ... Ci saranno quasi di sicuro dei cespugli, accuratamente potati, ma è verde del tipo più banale. Nessuno ha mai pensato che ci avresti fatto caso troppo da vicino. L’unica cosa che conta è che sia di colore verde.
E questo disorientamento, questa sconnessione dalla forma dello spazio, raggiunge il massimo all’interno del centro commerciale, che Underhill descrive essere, come la televisione, un “ambiente totalmente artificioso, che cerca di proporsi come vero riflesso di quello che siamo, e di cosa vogliamo”. C’è una galleria video, una parete da roccia, un cortile per la ristorazione, e “un chiosco Cinnabon, quattro chioschi di dolciumi, tre chioschi di biscotti, tre di gelati, e nemmeno un posto, da nessuna parte, per comprarsi una mela”. È una piazza di città dai colori pastello – o almeno vuole assomigliare a una piazza di città – che a dire il vero respinge qualunque onesto senso civico. (molti Stati hanno dovuto proibire per legge alcune forme di libertà di parola che non favorivano il commercio, negli anni questi disturbi hanno incluso: candidati alle elezioni, il Ku Klux Klan, gli attivisti anti-guerra che distribuivano volantini). Underhill si sforza di stabilire un rapporto fra centri commerciali e razzismo, visto che pochissimi sono vicini a mezzi di trasporto pubblico.
Ma per il lettore, il vero contributo innovativo di Call of the Mall al tema – anche se non proprio la cosa più piacevole – non è l’analisi sociologica, quanto lo choc dell’identificazione personale che Underhill provoca quando seziona al laser alcuni inesplorati momenti della vita moderna. Solo uno specialista del commercio può sintonizzarsi in questo modo alla condizione umana in tutta la sua squallida, informe noia. Ancora evocando lo spirito di Daniel Roche, Uphill traccia le violente trasformazioni nel nostro panorama emozionale, quando cerchiamo un parcheggio e troviamo qualcosa di meglio (più vicino al lato di Sears) o qualcosa di peggio (più vicino a quello di Bloomingdale) di quello che ci aspettavamo. Una volta all’interno, si infuria:
Puzzano, le mappe? Nel corso dei miei studi sulla gente al centro commerciale, ho cronometrato quanto tempo le persone passano guardando quelle grossi cartelli illuminati con le indicazioni. In uno di questi casi, la media era di ventidue secondi. È un tempo molto lungo, per studiare una mappa ... Le piantine nella maggior parte dei centri commerciali sembra siano state disegnate per gli elettricisti: come guide all’allacciamento.
Solo Underhill poteva impiegare tempo ad osservare come:
Gli scippi, per quanti ne succedano al centro commerciale, avvengono nei bagni, che sono di solito nascosti giù in fondo a corridoi solitari lontani dai passaggi principali. Di fatto, quello è il miglior modo di trovare il bagno in un centro commerciale sconosciuto: guardatevi attorno a cercare l’angolo meno invitante, quello più angusto, dove l’illuminazione è più fioca. Visto? C’è proprio un passaggio del genere che si stacca dal corridoio centrale. È un po’ buio e inospitale: se il centro commerciale fosse una città, questo sarebbe un vicolo sul retro. Su, entriamo!
E infine:
C’è qualcosa di felliniano nella sezione cosmetici di un grande magazzino. Te ne stai lì un sabato mattina, vestito col solito guardaroba standard casual suburbano, a guardare una stanza che brilla di candelieri, popolata da commesse truccate e acconciate in modo sicuramente adatto ad una prima della Scala. Le loro facce sono maschere di pelle pallida, senza pori, le labbra rosso rubino, occhi bistrati degni di un teatro kabuki. L’acquisto di cosmetici è una forma d’arte pubblica, e privata. Non è come il massaggio, ma è un gesto quasi altrettanto intimo fra adulti consenzienti.
E qui, forse, sta l’indizio più rivelatore dell’assurdità commerciale. Sopra la cassa, ci indica Uphill, tipicamente troverete una gigantografia di Elizabeth Hurley, da una pubblicità che avete visto su Vanity Fair, ora ingrandita e inanellata da luci splendenti. Giù in basso, il resto della specie femminile ciabatta attorno, appena in grado di trovarsi uno specchio decente, con una illuminazione decente, per provarsi il rossetto.
Uphill cita un altro esperto di commercio:
“Le compagnie non progettano questi grandi magazzini per metterci al centro il cliente. Per loro, la star al centro del banco di vendita è la supermodella della campagna pubblicitaria. Poi, all’ultimo posto, sta il cliente. È del tutto sbagliato”.
Ah, l’eterno gap fra Madison Avenue e, se non esattamente il Minnesota, almeno quel Minnesota che si annida nelle nostre anime. E parlando di gap, sono ancora perseguitata da quella pubblicità televisiva di parecchi anni fa, delle ballerine di Gap. Era la promessa di Gap, in trenta secondi: mettiti addosso questi magici pantaloni kaki, e conoscerai la libertà da tutte le preoccupazioni della vita: il tuo spirito galleggerà, sari libera dalla forza di gravità, leggera come una fata! Considerate ora l’esperienza Gap: armeggiare con pantaloni troppo stretti in un camerino di prova troppo stretto, nel bel mezzo di tre ore di viaggio verso un centro commerciale opaco, invecchiato, coi bagni spogli e foschi, e un parcheggio orribile.
Dire che Uphill è lo Shakespeare del suburbio non significa che la Città – o almeno la sua immagine – sia assente da Call of the Mall. A ben vedere, i paesaggi dei centri commerciali riflettono e rifrangono in modo obliquo quelle che sembrano essere le effimere, romantiche impossibilmente distanti memorie collettive della Città. Ne è testimone il negozio degli animali domestici, una piccola zona dedicata alle forme di vita inferiori – e ai loro escrementi – ben familiari a chi fa compere in città, ma totalmente assenti dal centro commerciale. E mentre gli adolescenti lanciano un frisbee in un ambiente simil-naturale da gioco all’ultimo piano, una ragazza medita nostalgica: “Non so se siete mai stati a Washington Square a New York ... ma ecco c’è questo parco, e hanno questi tavoli con, tipo, delle scacchiere disegnate sul piano..”.
Poi c’è la vetrina di Tiffany, piccola e cubica, che mostra solo una cosa: una magnifica foto in bianco e nero del Central Park in un giorno di pioggia, un diorama in miniatura che coglie parte della nostra – almeno di qualcuno – vita passata. Uphill dice “Vende il fascino di Central Park sotto la pioggia, e del vicino Tiffany, alla gente che passeggia per il centro commerciale”. (“Hey”, fa il suo compagno di spese, “c’è una macchia di sporco sul vetro”).
E per il futuro, del centro commerciale?
Oggi, con la maggioranza dei malls americani con più di vent’anni, il problema di cosa fare dei complessi che invecchiano si presenterà presto. Se gli edifici in sé avessero qualche tipo di valore, potremmo probabilmente restaurarli o tutelare quelli che lo meritano. Restauriamo e dedichiamo ad usi diversi molte strutture collettive, come ex uffici postali, alberghi, biblioteche, o anche chiese. Ma la maggior parte dei centri commerciali sono troppo brutti e banali per meritare uno sforzo simile. Sono stati progettati per funzionare, niente di più, e quando non servono più allo scopo devono essere abbattuti e sostituiti con ... non saprei con cosa. Magari qualcosa di anche peggiore.
Penso ai fantasmi commerciali del passato e del futuro nella mia Los Angeles. Penso alla nostra Sherman Oaks Galleria – giusto: quella Galleria resa famosa in “Valley Girl” – che non c’è più. Mi torna in mente la mia vita da adolescente, negli anni Settanta in Sud California. Sento ancora pulsare eccitante l’età adulta incipiente, mentre con la mia migliore amica, Mary Robertson, schizzavamo sulle freeways nella sua piccola Chevrolet Chevette. Posso ancora visualizzare tutti i cartelli bianchi e verdi delle rampe di uscita, tutte le palme stentate, i centri commerciali che si allargavano poco più in là come grosse scatole rosa piene di promesse. Come il trucco finto di Barbie, anche il centro commerciale offriva una visione di affascinante, cosmopolita esistenza adulta, che ora stava lì, tanto più a portata di mano. Invece che ad una vera Città del Peccato, io e Mary facevamo visite impulsive e audaci alla Cheesecake Factory, dove l’inero mondo dei sensi stava lì davanti a noi in più di ventuno sapori: Amaretto, Grand Marnier, piña colada.
Oggi il mio mondo commerciale sud californiano è una griglia di Target (classico), Tarjhay (verso il centro) e naturalmente Targhetto (con il piazzale del parcheggio malmesso, dove ti trovi a pensare, Dunque è qui dove gli appartenenti alle bande criminali comprano i loro contenitori di vetro Tupper: i miglior per metter via le loro importanti cose da banda criminale). È una miscela colorata di centri lungo la strada che annunciano pulizia a secco in cinque lingue diverse, e quasi sempre espongono un “USA #1 DONUTS”. Penso alla prima visita della mia sessantaduenne matrigna mongola da Van Nuys Costco: come i suoi occhi si spalancavano allarmati, ed eccitati, alla vista di una torre di tovagliolini Bounty alta quindici metri, e come le sue scarpe bianche da tennis brillavano e sbattevano mentre correva.
Nota: il confronto, come ovvio per chi ha già letto il pezzo, è quello con l'articolo economico proposto da Eddyburg sulla prossima invasione, in Italia, proprio di quei grandi centri commerciali super-regionali di cui qui si dice peste e corna, da International Council of Shopping Centers (fb)
City of Lowell, Massachusetts, Master Plan [2003], cap. 9, Regional Retail; idem, Downtown Lowell Master Plan, cap. 7, Downtown Improvement Strategy – Estratti e traduzioni per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini [la mappa regionale e quella del centro città sono tratte da: Urban Land Institute, Lowell Massachusetts, Strategies for Redevelopment and Revitalization, report, 2003]
Premessa
È stato scritto che la rivoluzione industriale, in America, cominciò a Lowell. C’è qualche piccola esagerazione in questo, ma non più di tanto se si considera che siamo nella regione di più antica urbanizzazione moderna del subcontinente, qualche decina di chilometri a nord di Boston, che già nel primo XIX secolo iniziò a riempirsi delle reti infrastrutturali e degli impianti industriali, soprattutto tessili, che attiravano manodopera dalle campagne più lontane, anche da quelle remote dell’Europa centrale. E probabilmente occorre partire da questa premessa per chiarire meglio il contesto entro cui si sviluppano le politiche urbanistiche (e non) di riqualificazione e rivitalizzazione di questo tutto sommato piccolo (circa 100.000 abitanti) centro, dotato di forte identità storica e spazialmente consolidata legata all’industria, ma che al tempo stesso ha attraversato interamente le fasi di deindustrializzazione e dismissione, e si colloca nell’area metropolitana di uno degli “hubs” megalopolitani individuati già negli anni Sessanta dai noti studi di Jean Gottmann.
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Detto in estrema sintesi, pur con tutte le dovute differenze rispetto al contesto europeo e italiano, siamo piuttosto lontani anche dai problemi di sprawl delle regioni occidentali, con tutte le caratteristiche di insediamento recente o recentissimo che questi pongono. Forse anche così è possibile spiegare il relativo “conservatorismo” che è possibile intravedere nelle politiche di riqualificazione in senso turistico e commerciale di cui riporto di seguito alcuni estratti dai documenti di piano. Le tracce di alcune scelte manieristicamente new urbanism qui sono a malapena percepibili, forse del tutto assenti in realtà. Ma questo, appunto, si può spiegare con il quadro contestuale riassunto sopra. Resta un’apparente parziale scollamento fra l’auspicio di un sistema insediativo commerciale automobile-oriented rivolto alla regione metropolitana nella fascia esterna (descritto nel primo estratto) e il quadro delle politiche generali di incentivazione commerciale della downtown elencate nel secondo documento. Si tratta comunque di testi che possono essere – con la solita cautela per quanto riguarda il rapporto pubblico/privato - di un certo interesse per il lettore europeo.
Fabrizio Bottini
[La grande distribuzione commerciale regionale]
Negli ultimi decenni i corridoi di mobilità automobilistica, gli insediamenti delle grandi superfici commerciali, le fasce stradali laterali dedicate a specificamente queste attività, si sono dimostrate un elemento di successo e di attrazione per i consumatori. Gli abitanti di Lowell manifestano chiaramente una preferenza ad utilizzare questo tipo di ambienti per lo shopping, e questo per vari motivi. L’amministrazione deve operare per aumentare la quota di queste attività entro i propri confini, per aumentare la comodità dei residenti e rafforzare la propria base fiscale. La città di Lowell lavorerà per tutelare e promuovere spazi per il grande commercio di scala regionale, dove possano trovare adeguata localizzazione le principali infrastrutture di vendita e relativi servizi di mobilità. Le strutture di trasporto che rendono queste aree desiderabili per il commercio, ne fanno anche i principali canali d’accesso alla città. Di conseguenza, Lowell deve dotarsi di standards progettuali in grado di aiutare l’integrazione di questi insediamenti nel tessuto urbano dei quartieri circostanti, anziché lasciare che essi sminuiscano le caratteristiche locali esistenti. Un’azione positiva di miglioramento del loro aspetto e di integrazione nel contesto anche funzionale, può migliorare l’attrattività e il valore delle grandi zone commerciali di Lowell, allo stesso tempo per operatori e consumatori.
Raccomandazioni e Azioni:
MIGLIORARE L’ASPETTO FISICO DEI CORRIDOI COMMERCIALI
Inserire particolari standards di progetto, riguardo ad esempio all’uniformità delle insegne, alle caratteristiche dell’arredo a verde, al mascheramento delle aree di scarico, all’organizzazione dei parcheggi, e altri.
Ampliare e perfezionare il piano urbano per le facciate dei fronti strada.
Migliorare l’illuminazione dei corridoi commerciali, in particolare nei parcheggi.
Interrare le linee elettriche e risistemare la rete dei margini stradali, dei percorsi di accesso, delle corsie laterali.
Migliorare la sicurezza delle aree a parcheggio aumentano la presenza di polizia nelle ore serali.
Il settore responsabile per lo sviluppo economico dovrebbe collaborare con proprietari e operatori immobiliari per aiutarli a migliorare l’aspetto fisico e le opportunità di progettazione nelle piazze commerciali di Lowell.
Promuovere le concentrazioni commerciali esistenti, come la Church Street Plaza, offrendo incentivi connessi al miglioramento degli accessi pedonali, della sicurezza, comodità, estetica.
PROMUOVERE PER LE AREE COMMERCIALI ORGANIZZATE INTORNO ALL’AUTOMOBILE UN TIPO DI INSEDIAMENTO CHE COMPRENDA TRASPORTI MULTI-MODALI E ACCESSI PEDONALI
Tenere conto delle particolari esigenze e potenzialità delle aree con ampi accessi autostradali dedicate al commercio di scala regionale, e migliorare i collegamenti stradali di altre zone con potenzialità simili.
Creare corridoi d’accesso dalle zone residenziali circostanti che siano sicuri e attraenti per i pedoni, e facilitare la separazione fisica del traffico pedonale da quello veicolare attraverso l’arredo a verde.
Inserire elementi di arredo dedicati a pedoni e utenti del trasporto pubblico che accedono alle aree commerciali, come semafori per l’attraversamento a richiesta, segnaletica, fermate dei mezzi pubblici coperte, panchine, parcheggi per le biciclette.
Incoraggiare la concentrazione dei punti commerciali in aree nodo anziché lungo fasce, per facilitare la condivisione dei parcheggi, e migliorare l’accessibilità pedonale o con altri mezzi come il trasporto pubblico.
Ridurre al minimo quantità e dimensioni dei tagli nel margine stradale per migliorare il traffico, la sicurezza dei pedoni, e ridurre il rischio di incidenti.
Incoraggiare la localizzazione del commercio di scala regionale ai piani terreni di fabbricati nelle aree industriali e a uffici, dotati di accessi esterni ai parcheggi, per servire anche i dipendenti delle imprese durante il giorno, e offrire più spazi a parcheggio per l’utenza delle ore serali dalle zone circostanti.
PROMUOVERE LA LOCALIZZAZIONE A LOWELL DELLE CATENE COMMERCIALI NAZIONALI
L’ufficio per lo sviluppo economico presso la divisione municipale Planning & Development dovrebbe mantenere contatti coi responsabili per le localizzazioni e gli immobili delle catene commerciali regionali e nazionali, per identificare le caratteristiche desiderabili a imprese del genere, quando pianificano nuovi punti vendita.
L’ufficio per lo sviluppo economico dovrebbe collaborare con i proprietari e gli operatori immobiliari con l’obiettivo di contattare auspicabili operatori commerciali nazionali per le aree di Lowell, e nei pressi di attività d’attrazione già insediate come Showcase Cinemas e vari supermercati.
L’ufficio per lo sviluppo economico della città dovrebbe associarsi a proprietari e operatori immobiliari (condividendo i costi) in una campagna promozionale su larga scala.
Sarebbe necessario identificare i sotto-settori commerciali con prezzi bassi e orientarli verso le aree di Lowell dotate di un certo potere d’acquisto ma demograficamente caratterizzate da famiglie a redditi moderati o bassi, ma che rappresentano una vasta potenziale clientela al momento sottoservita.
ATTENUARE L’IMPATTO DEGLI INSEDIAMENTI COMMERCIALI E DI SERVIZIO PER L’AUTOMOBILE SULLE CARATTERISTICHE DEI QUARTIERI
Ridurre il numero delle zone della città dove sono consentite attività di vendita e servizi automobilistici, identificando contemporaneamente quelle più adatte a questo scopo, dove incoraggiare e concentrare l’insediamento.
Adottare rigidi standards di progetto e vincoli per queste attività.
L’ufficio responsabile per le ispezioni dovrebbe essere più aggressivo nell’identificare usi illegali (come la vendita di automobili e ricambi) nei quartieri residenziali, nonché di altre funzioni non consentite e prive di autorizzazione municipale.
EVITARE, NELLE AREE PIU’ ADATTE AL COMMERCIO RIVOLTO AD UNA MOBILITÀ AUTOMOBILISTICA, LA LOCALIZZAZIONE DI FUNZIONI MENO APPROPRIATE
Chiedere che tutte le nuove costruzioni nei principali nodi commerciali debbano destinare ad usi di carattere collettivo (commercio, tempo libero, istituzioni e uffici pubblici) i piani terreni, e alle funzioni residenziali e ad uffici non-pubblici a quelli superiori.
Promuovere fasce commerciali di strada nei quartieri residenziali destinate a negozi per i bisogni quotidiani e ad altre attività locali, riservando i principali corridoi di mobilità per il solo commercio di scala regionale.
[...]
[Strategie commerciali per il centro città]
Strategia di incremento delle attività commerciali
Nel lungo termine, un’economia commerciale vitale dipende dalla capacità di migliorare l’esperienza degli acquisti (gli spazi pubblici, i parcheggi, la varietà dell’offerta di negozi, la ristorazione) e di ampliare il bacino commerciale del centro città di Lowell. Due modi, molto diversi fra loro, di ampliare il bacino di mercato servito dal commercio di downtown Lowell, sono gli sforzi promozionali e di mercato, e lo sviluppo di nuova residenza e attività terziarie nella stessa area. Il miglioramento della shopping experience per attirare più clienti si attua costruendo un’alternativa ai centri commerciali e piazze commerciali, che competono per lo stesso tipo di clientela. Il centro di Lowell deve mirare ad offrire più alti livelli di servizio, e una varietà di merci che non si possono reperire nei malls regionali. Contemporaneamente, in centro si deve trovare lo stesso livello di disponibilità di parcheggio, e di aspetto generale delle zone pubbliche. Nel breve termine, è possibile costruire una struttura di commercio a partire dalle attività esistenti, utilizzando assistenza tecnica e una promozione coordinata comune. Attirare nuove attività può ampliare l’offerta merceologica e di servizi reperibili a downtown Lowell, ed è pure raccomandabile. Le iniziative per migliorare le strutture di parcheggio e gli spazi pubblici sono descritte in altri paragrafi di questo Master Plan.
L’assistenza alle attività esistenti
Se il centro di Lowell spera di trovare una propria nicchia di mercato nell’attuale clima della concorrenza commerciale, i suoi negozi devono offrire la medesima qualità ambientale di quelli dei malls, e di altre tipologie concorrenti. I proprietari devono essere spinti ad un approccio molto professionale, che comprenda:
• prodotti ed esposizioni aggiornati secondo le ultime tendenze;
• illuminazione e aerazione interna adeguate alle stagioni calda e fredda;
• vetrine di qualità, cambiate almeno ogni tre settimane, con illuminazione accesa almeno fino alle dieci di sera, sette giorni su sette;
• insegne di alta qualità, che sottolineino il carattere architettonico degli edifici del centro.
In più, molti negozi di proprietà locale possono migliorare il proprio tenore con pochi elementi di aggiornamento per quanto riguarda il marketing, la contabilità, la gestione. Strutture come il Lowell Small Business Assistance Center dovrebbero essere meglio pubblicizzate presso i negozianti del centro. Anche l’attivazione di un programma peer mentoring può aiutare i negozianti ad apprendere l’uno dall’altro. Sovvenzionare i costi sostenuti per le consulenze commerciali può aiutare gli operatori ad accedere a professionalità normalmente disponibili solo alle grandi catene.
Un programma per attirare nuovo commercio
La City of Lowell e i suoi associati devono poter controllare l’evoluzione del centro. Devono diventare attivi nell’attrarre nuove attività commerciali che colmino i settori di mercato attualmente non coperti da quelle esistenti. Tutti gli interessati, siano essi commercianti o proprietari immobiliari, devono partecipare al processo di attrazione di nuovo commercio di alta qualità verso l’area centrale.
Tipologie obiettivo
Esiste un certo numero di possibili attività di cui esiste carenza, o che mancano completamente a downtown Lowell. Le analisi preliminari condotte per questo Master Plan hanno evidenziato potenziali di crescita per:
• Ristoranti;
• Arredamenti per la casa e casalinghi;
• Abbigliamento.
Coerentemente con questa analisi, il Downtown Lowell Retail Plan redatto nel 1988 da Todreas Hanley & Associates raccomandava di indirizarsi verso le specifiche seguenti tipologie:
• Ristoranti, in particolare di tipo etnico
• Negozi specializzati alimentari, come quelli di prodotti etnici o biologici
• Negozi di calzature
• Negozi di abbigliamento
• Gallerie d’arte
• Negozi di antiquariato
• Caffetterie con intrattenimento
• Prodotti per ufficio
• Accessori per la casa, l’arredamento e la cucina.
Se le attività elencate sopra rappresentano obiettivi primari, si deve comunque applicare lo stesso tipo di assistenza e collaborazione a qualunque negozio identificato come adatto per il centro di Lowell, che dimostri un interesse a localizzarsi in zona, e che possa alzare il livello qualitativo medio di downtown. Si dovrebbe condurre un’analisi commerciale ogni tre anni, per identificare accuratamente i cambiamenti di mercato e adeguare al dettaglio le raccomandazioni generali del presente piano.
Predisporre e rendere disponibile lo spazio
Si deve fare ogni sforzo per coinvolgere la comunità immobiliare locale nell’attrarre attività. Lo scopo è quello di incoraggiare piena partecipazione del settore nell’identificazione delle zone più adatte, delle aspettative più coerenti, e di ottenere una piena collaborazione dei proprietari. Ciò può essere reso più facile dall’organizzazione di un incontro con agenti e proprietari per discutere gli scopi della promozione, e come i vari gruppi possano collaborare efficacemente per collocare nello spazio le attività più appropriate. Questo incontro deve essere seguito da aggiornamenti. I proprietari possono anche collaborare verificando che gli spazi ancora inutilizzati siano mantenuti illuminati, puliti, pronti ad essere mostrati a potenziali operatori.
Offrire incentivi
Si deve rafforzare il finanziamento della Downtown Venture. Nel primo anno di attuazione, questo fondo prestiti a basso interesse ha aiutato cinque nuove attività di commercio e ristorazione ad avviarsi. Il fondo ha assistito varie imprese a trovare spazi nel nucleo più centrale. L’abbassamento dei costi iniziali per gli aspiranti operatori commerciali dovrebbe essere uno degli obiettivi principali di una strategia di rilancio del centro. Ad oggi, il fondo ha prodotto interessi sufficienti a poter scegliere fra parecchie imprese quelle da finanziare. In futuro, sarà possibile proporre il programma ad un ambito più vasto di soggetti imprenditoriali. Ampliare il bacino di potenziali utenti assicurerà il sostegno all’aumento della varietà commerciale.
La ricerca di nuove attività
Nel recente passato, la City of Lowell ha incaricato dei professionisti allo scopo di promuovere le aree centrali a potenziali operatori. Questo approccio si è dimostrato costoso e in larga parte fallimentare. Si deve prendere in considerazione una diversa tattica, ovvero quella di identificare potenziali attività secondo il seguente approccio “rivoltato”.
1. Ampliare attività esistenti – Le attività che operano con successo a devono essere coinvolte per prime. Ai proprietari deve essere data l’opportunità di provvedere merci e servizi di cui si avverte necessità. Queste merci e servizi possono essere offerte sia ampliando la gamma dei negozi esistenti in loco, sia aprendo nuovi punti vendita a downtown Lowell. Questa forma di sviluppo commerciale è molto conveniente, dato che di norma richiede tempo e spese minimi da parte degli operatori. In più, i proprietari di attività hanno una certa familiarità col mercato, e si trovano nella posizione migliore per rispendere a bisogni identificati.
2. Riposizionare attività esistenti – Si deve considerare l’opportunità di incoraggiare la rilocalizzazione di attività esistenti da altre zone di Lowell verso punti adatti dell’area centrale. Questo è possibile se la rilocalizzazione aumenta le possibilità di successo economico.
3. Attrarre nuove attività dall’esterno – Si devono cercare candidati nell’area di Lowell. Questo significa in primo luogo identificare attività esistenti che (1) siano ben gestite, (2) siano ben finanziate, (3) abbiano una base di clientela fedele; (4) siano simili alle tipologie desiderate nell’area di downtown Lowell. Una vlta identificate le attività, i proprietari devono essere incoraggiati a prendere in considerazione l’apertura di un negozio in centro (o il trasferimento in centro) secondo la procedura già descritta. Di particolare interesse sono le attività che operano già su più di un negozio: si tratta di una opportunità, perché è già stata presa la decisione di espandersi in alter occasioni.
Questo lavoro di reclutamento deve essere sostenuto con materiale informativo, sia su carta che sul web, che offra dati di mercato su downtown Lowell, chiarimenti sulle forme di incentivo economico, e altre informazioni pertinenti.
Liberare spazi aggiuntivi per il commercio
Non è possibile effettuare con successo una campagna di reclutamento di nuove attività commerciali se non si rende disponibile spazio corrispondente e adeguato in centro. Gli spazi inutilizzati e alcuni usi istituzionali dei primi piani diluiscono l’emergere di concentrazioni commerciali. Inoltre, gli spazi più vasti sono rari. Le attività con necessità di ampi spazi possono incrementare la varietà di altri negozi, e la qualità generale del commercio. Le specifiche iniziative per realizzare maggiori spazi disponibili al commercio comprendono:
1. Limitare i tipi di funzioni consentite ai piani terreni degli edifici del centro: l’ordinanza di zoning può essere modificata per scoraggiare nel poco spazio disponibile sui fronti usi che non creino attività a livello strada. Si dovrebbero escludere dal primo piano funzioni di ufficio, istituzionali e di ufficio. Questo genere di “ zoning verticale” è stato utilizzato con successo per tutelare le opportunità commerciali e mantenere traffico pedonale sui marciapiedi, a Chicago e a Mystic, nel Connecticut.
2. Mettere in atto una politica cittadina tesa ad occupare con gli uffici amministrativi municipali i piani superiori. La città di Lowell ha, sola, la capacità di risparmiare i fronti strada commerciali stabilendo che gli uffici cittadini debbano in prima istanza cercare i propri spazi ai piani superiori degli edifici del centro. Gli usi istituzionali a livello strada creano “zone morte” e in genere non incrementano la varietà commerciale. Nel recente passato, il comune ha affittato ampie porzioni di piani terreni per usi amministrativi, per l’Ufficio Igiene, quello Istruzione, e la sede provvisoria della biblioteca Pollard. In ciascuno di questi casi, gli uffici avrebbero potuto essere collocati facilmente negli spazi disponibili ai piani superiori. La preferenza per la collocazione superiore dovrebbe essere inserita in qualunque processo di ricerca spazi da parte del comune. La città potrebbe richiedere anche un comportamento simile da parte delle agenzie statali e federali che dovessero cercare spazi in centro, e lo stesso per attività non-profit e usi non commerciali che ricevono sussidi comunali.
3. Incoraggiare la possibilità da parte della grande distribuzione di inserirsi nei progetti di trasformazione urbana. Il mercato di downtown Lowell potrebbe trarre beneficio dall’inserimento di medi a grandi operatori commerciali. Sarebbe difficile, e forse poco desiderabile, la localizzazione in centro dei negozi “ big box”, ma offrire l’opportunità a punti vendita medi, con necessità di spazi fra i 500 e i 4.000 metri quadrati, potrebbe ampliare l’offerta. Si potrebbero creare nuove occasioni nel quadro dei nuovi grandi progetti di trasformazione sulla riva del fiume, e ai piani terreni dei garages a parcheggio.
Nota: le versioni integrali e originali di questi ed altri documenti di pianificazione, sono disponibili al sito Planning & Development di Lowell (f.b.)
Una breve premessa
Quello che segue è, nel linguaggio chiaro e impietoso degli affari, un panorama del territorio italiano. Certo non ci racconta tutto, e qualcuno potrebbe trovarci anche piccole ingenuità e semplificazioni, ma una cosa è certa: si tratta di una “veduta a volo d’uccello”. Esattamente, quella del rapace. Che non è cattivo, ma fa solo il suo mestiere, volando alto, tenendo un punto di vista generale, e poi zac! giù in picchiata sul topolino di turno che saltellava felice e ignaro fra l’erbetta o il granturco.
Il lettore che ha già frequentato la sezione Megalopoli di Eddyburg ci troverà nominati e a volte anche brevemente descritti alcuni dei progetti di outlet o centro commerciale noti, altri nuovi ma probabili. Ma soprattutto è questa passeggiata nell’occhio del falco ad essere interessante, e leggermente inquietante pensando ai topolini che siamo e a quelli che spesso ci rappresentano: gli arditi sindaci di mille abitanti che trattano “alla pari” con questi giganti, magari dotati di apposito Soul Melting Program, per ammorbidire il cuore degli amministratori e aprire la deliberazione favorevole. Del resto, basta guardare certe foto sui giornali locali che festeggiano o discutono le prospettive ambiental-occupazionali del nuovo centro, per capire dall’aria beato-spaesata di sindaci e assessori che questo è proprio il caso.
Naturalmente questo non vuol dire opposizione dura e pura, sogni di un mondo di botteghe oscure, remote, aperte un paio d’ore al giorno, e con una scelta vicina allo zero. Significa solo, per esempio, interpretare in positivo la lettera (o meglio, le ragioni della lettera) che molti di noi hanno firmato tempo fa indirizzata a Paolo Flores d’Arcais, quando la questione territorio non sembrava trovare spazio particolare nel virtuale programma di governo del centrosinistra. Basta vedere come le comunità di tutti gli USA, con l’appoggio dell’Agenzia Federale all’Ambiente, hanno impostato le smart growth policies per la sostenibilità ambientale locale, per capire che le due cose si tengono: l’ambiente come categoria dello spirito, e il territorio fatto di spazio fisico e di regole per non distruggerlo, si incrociano anche e soprattutto controllando questo neofordismo commerciale. Giganti di paleotecnica distributiva, che replicano sul versante del consumo tutta la peggiore storia della grande industria ottocentesca, sostituendo le luci al neon alle ciminiere, e gli svincoli delle tangenziali agli scali ferroviari. Il tutto senza alcun motivo, salvo quello dell’inerzia di un fatalismo progettuale stupefacente, che non ha nulla da spartire con alcun ragionamento sensato (a meno che non si consideri sensata la generica aspettativa di produttività degli investimenti secondo canali irrinunciabili). Sembra che, “saturati” i territori nordamericani ed europei, questi avamposti del consumo territoriale e della città dispersa stiano letteralmente “calando” sulla penisola, come le sigarette dai paesi sviluppati in quelli meno sviluppati e meno ricchi di anticorpi culturali e sociali.
Faremo la fine del topolino, sotto la picchiata di questi grossi falchi (che non mangiano noi, ma grosse fette del nostro spazio), o sapremo trovare un modo di convivenza, magari soddisfacente per tutti? Mah!
È comunque triste che le reazioni visibili, sinora, siano soprattutto localistiche e spesso legate al corporativismo dei commercianti del centro. (fb)
Debra Hazel, L’Italia attira gli operatori internazionali dei centri commerciali, aprile 2004, Cover Story del sito International Council for Shopping Centers (traduzione di Fabrizio Bottini)
Sulla carta, quel centro commerciale “Campania” a Marcianise, appena fuori Napoli, sembrerebbe un classico mall europeo: copre circa 100.000 metri quadrati, ci saranno un supermercato carrefour a fare da anchor store, un cinema multisala e altri servizi. Ma, un centro del genere, abbastanza tipico in Gran Bretagna, Francia o Germania, è decisamente atipico per l’Italia.
Visto che in Italia non ci sono centri di dimensione sovraregionale, e che le grandi strutture commerciali di qualsiasi tipo sono difficili da realizzare in questo ambiente così regolamentato, il paese ha lasciato fuori sino ad ora, specialmente nel sud, questi mall “tipo”. E quindi quando l’operatore olandese Corio aprirà il suo centro Campania la prossima primavera, questo sarà un grosso passo nell’evoluzione dei centri commerciali italiani.
”In genere [la situazione non è] molto favorevole a questo sviluppo in Italia” dice Gino Antonacci, direttore delle attività immobiliari e gestionali della Corio Italia SRL di Milano, che opera attualmente su quattro centri, per complessivi circa settantamila metri quadrati di superficie commerciale. (la cugina olandese Corio, operatore di punta dei centri commerciali nel mercato nazionale, in Francia e Germania, è relativamente nuova in Italia) “È difficile ottenere i permessi”.
Corio, che ha acquisito il centro Campania lo scorso maggio da un altro operatore, possiede e gestisce il più grosso insediamento del Piemonte, Shopville Le Gru, un enclosed mall di circa 65.000 metri quadrati vicino a Torino. È piuttosto curioso che in Italia lo sviluppo dei centri commerciali stia in coda rispetto all’Europa, visto che la Galleria Vittorio Emanuele II, aperta nel 1877, è spesso citata come l’ispiratrice del mall “introverso” moderno. Il primo centro italiano di questo tipo, Cittàmercato, aprì a Brescia nel 1972. Ma al 1987 in tutta la penisola operavano solo 40 centri di superficie maggiore ai 5000 metri quadri, come ci dice il rapporto Italian Shopping Centers, elaborato dalla Cushman & Wakefield Healey & Baker di Londra nel 2002. Alla fine degli anni Ottanta, ci fu comunque una accelerazione dello sviluppo, e ora l’Italia ha 430 centri commerciali, per un totale di circa sette milioni di metri quadrati. Ma tenendo conto di una popolazione nazionale di circa 58 milioni di persone, abbiamo poco più di 0,1 metri quadri di centro commerciale pro capite, contro i circa 0,2 degli Stati Uniti, poco meno per Regno Unito e Francia, 0,14 per la Germania, sempre secondo i calcoli di Cushman & Wakefield Healey & Baker.
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In più, la maggior parte dei centri italiani sono piccoli secondo gli standard del Nord America, per penuria di operatori della grande distribuzione che facciano da anchor stores e per la collocazione in maggioranza urbana o periurbana. Solo 16 insediamenti superano i 43.000 metri quadri.
Non sorprende, quindi che il deficit di centri commerciali in Italia stia attirando l’attenzione degli operatori immobiliari commerciali di tutta Europa e del Nord America, alcuni dei quali iniziano a trovare i mercati di Gran Bretagna, Francia e Germania sempre più saturi.
Campania è solo uno dei più di 75 nuovi centri che potrebbero aprire entro il 2006, secondo Jones Lang LaSalle Europa.
”Certamente, negli ultimi quattro o cinque anni, abbiamo assistito ad enormi cambiamenti, a ritmi sempre più accelerati”, ci dice Patrick Parkinson, direttore finanziario di Jones Lang LaSalle Europa.
Nuovi progetti si stanno inaugurando al passo di 30 o 40 l’anno, come conferma Marco Stefani, socio e responsabile per l’Italia di Cushman & Wakefield.
”La spinta principale per la crescita è la necessità di trovare spazio in Italia per gli operatori di ipermercati”, ci dice Stefani. Che comprendono Auchan e Carrefour, entrambi con base in Francia.
Anche altri tipi di capitale straniero (inclusi fondi pensione dalla Germania) stanno contribuendo a stimolare la crescita, ci dice Carlo Vallardi, vice presidente del gruppo Finim, operatore immobiliare italiano dei centri commerciali, gestore per conto terzi e impresa di consulenza. “Ora i centri commerciali in Italia sono considerati molto attraenti dagli investitori europei, come Corio, Pradera [con base a Londra], e la Deutsche Bank”.
Gli insediamenti diventano più grandi per ospitare operatori commerciali internazionali come H&M, Mango, Zara, o big-box come Ikea e MediaWorld.
Questa crescita ha cominciato ad attirare grandi operatori USA. In dicembre il Simon Property Group ha costituito una joint venture col gruppo italiano di grandi magazzini e ipermercati La Rinascente, per realizzare e gestire centri in tutta Italia. Simon possiede il 49% della società, che controlla 38 centri esistenti, ne sta realizzando altri 6, e ne ha altri quattordici in lista d’attesa.
Il patto consente a Simon di sviluppare investimenti all’estero, come quelli col Group Beg, un operatore con base a Parigi specializzato in centri ad anchor ipermercato. Questa società possiede nove proprietà in Polonia e Francia, dice Stephen E. Sterret, CFO di Simon: “[la Rinascente] possiede centri di successo, ma ha anche una significativa potenzialità di sviluppo in attesa”.
Il mondo degli operatori di settore sta guardando con interesse al patto Simon-Rinascente.
”Alla fine, la sensazione è che Simon avrà un ruolo passivo”, osserva Davide Dalmiglio, direttore degli investimenti commerciali di Jones Lang LaSalle Europa. Crede che Simon lascerà alla Rinascente l’iniziativa tramite i suoi esperti locali, di assumere la guida nella realizzazione e gestione dei centri.
Anche la Mills Corporation sta cercando di entrare nel mercato italiano attraverso una varietà di partners locali, come ci racconta Edward B. Vinson, vicepresidente delle operazioni internazionali. La Mills possiede ora cinque centri operativi: due a Roma, due vicino a Milano e uno a Firenze.
”Sostanzialmente il nostro obiettivo è di mettere in lista d’attesa uno o due centri l’anno” ci dice Vinson “ma siamo stati attivi su quattro centri negli ultimi trentasei mesi”. Il quinto è ancora allo stadio di pianificazione. Al momento, il grosso dello spazio occupato dai centri commerciali si è concentrato nelle città del nord come Bologna, Milano, Roma e Torino. Circa il 63 per cento delle realizzazioni stanno al nord, il 19 per cento al centro, il 18 per cento al sud, secondo il rapporto Cushman & Wakefield. Il motivo è semplice.
”Nell’Italia settentrionale c’è la base demografica, ma anche quella del maggior reddito” dice Vinson. Fra i progetti per il nord c’è il centro di 38.000 metri quadri del Gruppo Finim che sta sorgendo a Cremona, anchor un ipermercato, programmato per l’inaugurazione nella primavera del 2006. (Finim gestisce altri 60 progetti circa in tutto il paese). L’operatore portoghese Sonae Imobiliària ha annunciato un progetto di centro per 30.000 metri quadri a Brescia. Insolitamente per l’Italia, si tratta di un insediamento su due livelli, localizzato in città a soli 15 minuti dal centro. Questo progetto ancora senza nome, sarà comunque più fuori scala di altri nel paese.
”L’Italia è un mercato molto sofisticato, in grado di apprezzare i rilanci”, dice Pietro Malaspina, managing director alla Sonae Imobiliària.
Ha preso piede anche la realizzazione di Factory Outlet. BAA McArthur Glen ha aperto a Serravalle, vicino a Milano, nel 2000, e a Castel Romano, a sud di Roma, nell’ottobre 2003. Value Retail ha aperto il Fidenza Village, ancora vicino a Milano, nel giugno 2003. Almeno altri 15 outlet centers sono in varie fasi di progetto o realizzazione, compresi progetti della BAA McArthur Glen a Firenze e Venezia, e altri centri di Value Retail e del Gruppo Percassi.
Mentre il nord costruisce, alcuni operatori iniziano a guardare agli spazi disponibili del sud, come Napoli o la Sicilia. Circa il 36 per cento della nuova offerta di spazi in centri commerciali entro il 2006 si localizzerà nell’Italia meridionale: Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, secondo il rapporto The Shopping Centre Market in Italy, elaborato da Jones Lang La Salle nel 2003.
”Vediamo grandi progetti crescere nelle città del sud Italia”, dice Antonacci, di Corio.
Aggiunge, Antonacci, che il Gruppo Finim prevede di realizzare almeno 80 progetti entro il 2006, per sé stesso e per i propri clienti, equamente suddivisi fra nord e sud.
Ma ci sono anche potenziali trappole.
”Il sud è un mercato più interessante [essendo il] meno sviluppato”, dice Malaspina di Sonae. “Ma il costo di costruzione di un centro commerciale è lo stesso, e il potere d’acquisto sensibilmente inferiore”. E quindi, i centri meridionali non si rivolgono al consumatore più sofisticato, aggiunge Parkinson.
L’attività in generale comporta una sfida significativa per ciascun operatore: la Legge Bersani del 1998. Questa legge ha facilitato il processo di autorizzazione per realizzare negozi con superficie inferiore a 250 metri quadrati, e richiesto un permesso da parte dell’ente locale per negozi fra 250 e 2.500 metri quadri. Unità superiori ai 2.500 metri sono soggette ad autorizzazione locale, provinciale e regionale.
”Ora non abbiamo una sola legge: ne abbiamo venti diverse” dice Rita Fiori, segretario generale del Consiglio Italiano per i Centri Commerciali, riferendosi alle venti regioni che comprendono, tra l’altro, un totale di 105 province e 8.000 comuni.
Ma anche se l’Italia tiene alta la sua reputazione in fatto di burocrazia, quella per la corruzione non è meritata.
”Sto nel commercio da trentacinque anni, e non ho mai avuto un problema di quel tipo” osserva Malaspina. “Le leggi sono così complicate che ci vuole un sacco di fatica”.
Nota: è impossibile proporre qui uno specifico link, salvo rinviare a quelli contenuti e contestualizzati nei vari contributi su outlet e centri commerciali presenti nelle sezioni "Megalopoli" e "Articoli dai Giornali" di Eddyburg/Territorio:
Il rifiuto socio/antropologico anche degli americani per i "loro" centri commerciali, è qui esaminato nella recensione a un testo sull'argomento
Eppure si può provare a convivere pacificamente con la modernizzazione distributiva, basta provare a pianificarla, come tentano sia le comunità americane coi progetti "smart growth ", sia molto più vicino a noi la Svizzera (fb)
Il Factory Outlet Center di Serravalle e il primo studio di impatto: nota introduttiva di Fabrizio Bottini
La Regione Piemonte, Osservatorio del Commercio, aveva promosso (circa tre anni fa) una ricerca sugli impatti locali e intercomunali dell’Outlet Serravalle, condotta da Grazia Brunetta e Carlo Salone del Dipartimento Interateneo Territorio del Politecnico di Torino, pubblicata poi col beneaugurante titolo: Commercio e territorio, un’alleanza possibile? Sono trascorsi, appunto, alcuni anni, ma credo che la serietà dell’approccio scientifico non possa produrre, per sua stessa natura, giudizi usa-e-getta. Vale quindi certamente la pena di consigliarne ancora la lettura a chi sulle pagine di Eddyburg ha trovato di qualche interesse i testi semiseri sul mondo dei Factory Outlet più o meno padani. È passato però anche un anno da quando questi articoli hanno cominciato ad apparire. Introducevo allora lo Studio d’impatto coi brani che seguono:
“Rinviando ovviamente alla lettura diretta dello studio il giudizio di ciascuno, vale la pena rilevare qui come, apparentemente, oltre alla forma organizzativa “interna” dell’intervento, pare si siano importate dal contesto nordamericano – come implicitamente rivelano ampi passaggi dello studio – anche alcune valenze “esterne”, prima fra tutte la preponderante centralità del grande operatore commerciale nel determinare forme e contenuti della trasformazione ambiental-territoriale e socioeconomica, con un ruolo sostanzialmente di seconda battuta della società e delle sue forme istituzionali. Credo di poter osservare come si tratti, sostanzialmente, di quanto esposto – seppur in forma ottimistica e aperta – da Richard Longstreth nel suo City Center to Regional Mall (MIT, 1997), storia del passaggio, nel corso del Novecento, dal modello semplificato downtown/suburbia a quello più complesso della città diffusa (o technoburbia, nella definizione usata da Robert Fishman in Bourgeois Utopias), che sul versante commerciale corrisponde a una progressiva “introversione” della struttura di grande distribuzione, che solo per fare un esempio emargina via via tutti i progettisti che cercano un contatto diretto fra il nuovo insediamento e la tradizione qualsivoglia del centro civico o comunitario.
E in questo senso non è forse un caso se, parallelamente ad una serie di rilevazioni positive sugli impatti dell’Outlet Serravalle, Brunetta e Salone osservano fra l’altro l’irrilevanza “dimostrata dalla cosiddetta pianificazione di area vasta nel condizionare le logiche localizzative delle attività commerciali”. Confermando, se necessario, la disparità fra il punto di vista strategico degli operatori e le effettive capacità di misurarsi fattivamente con esse, da parte della società e delle istituzioni che ai vari livelli la rappresentano”.
Così scrivevo, appunto, circa un anno fa. Ieri sono tornato (non per la prima volta, a dire il vero) a Serravalle, e ho sperimentato di nuovo l’effetto “introversione”, stavolta non sulle pagine di un libro americano molto ben scritto, ma nella calca nazionalpopolare di un sabato pomeriggio. Introversione perché, non essendo San Pietro o la Piazza Rossa, questo posto non è evidentemente fatto per essere valorizzato dalla presenza di masse popolari più o meno entusiaste, e probabilmente per “godere” l’effetto bisogna stare dentro, e non fuori. Un fuori che, a ben vedere, è proprio il territorio della “alleanza possibile” con questo baraccone, sommerso dalla calca che, insieme allo spuntare di nuove, meno eleganti e più ingombranti strutture, si è mangiata anche quel poco di fascino perverso che quegli spazi artefatti potevano avere. La Statale 35bis è letteralmente ingoiata da un turbinare di accessi, rotatorie, sottopassi, parcheggi, corsie che immettono ed emettono. Con terminologia scientifica lo chiamerò “casino pazzesco”, dove auto con targhe da Milano a Genova e rotti si aggirano in preda al tipico straniamento da week-end, che di solito fa la gioia dei carrozzieri (i messaggi pubblicitari non seguono il codice della strada, vecchio o nuovo).
La cura di materiali, citazioni locali, ecc. ecc. con cui lo studio Spadolini ci aveva presentato a suo tempo il progetto, è completamente annegata in una logica da centro commerciale qualunque, o peggio che qualunque, e forse degna ormai di qualche citazione cinematografica, magari all’alba quando del villaggio si scorge qualcosa che vada oltre il parcheggio o il tetto delle torri di guardia.
Concludendo con un giudizio certamente non scientifico: una alleanza certamente “possibile”, e che probabilmente (devo fidarmi della serietà dei giudizi) ha avuto impatti positivi. Di certo questi impatti positivi non si vedono a occhio nudo, ingabbiati tra le lamiere, a guardare annoiati l’insegna rossastra del supermarket di là dalla strada, dove una volta c’era un pezzo di collina.
Lo studio di impatto, sul sito regionale Piemonte Commercio
Il primo testo descrittivo di Eddyburg sull'Outlet Serravalle
Titolo originale: Hot spots of US population growth – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
BENTONVILLE, ARKANSAS – Quando Shannon Monteith ha avuto la promozione l’anno scorso, ha impacchettato le sue cose, detto addio a San Francisco, e si è avviata verso l’avventura: Benton County, Arkansas.
La signorina Monteith non avrebbe saputo trovare l’Arkansas nord-occidentale su una mappa, prima di trasferirsi qui. Ma come venditrice per la fabbrica di dolciumi Hershey Foods Corp., aveva una certa familiarità col suo nuovo cliente di Bentonville: la Wal-Mart Stores Inc.
”È la più grossa compagnia del mondo: se sei nelle vendite, vuoi sempre avere per te il cliente più grosso” dice.
Benton County non era la retrovia che Monteith aveva temuto potesse essere. Alla fine ha comprato casa a Shadow Valley, un quartiere recintato [ gated community] brulicante di attività: dal tennis alle automobiline sui campi da golf, ai ragazzini che giocano nei prati appena piantati.
Solo pochi anni fa, Shadow Valley era solo prati e boschi vicino a Ozark. Ma dopo che migliaia di persone si sono spostate verso la Benton County, attirate dal boom economico alimentato da Wal-Mart, la regione è stata rapidamente ridisegnata, con un flusso in ingresso che la mette fra le 70 contee in crescita più rapida del paese, secondo i più recenti rapporti del Census Bureau. Circa 7.500 si sono spostate nella regione fra il luglio del 2003 e il luglio 2004, spingendo la popolazione a circa 180.000 unità.
La maggior parte della crescita notata dal Census si è determinata in contee circostanti alle grandi città, con più dell’80 per cento delle zone in rapido sviluppo negli stati del Sud e dell’Ovest. Le ragioni di questa crescita sono varie quanto vari sono i luoghi in cui è avvenuta. Alcuni sono luoghi di ritiro, altri sede di compagnie in espansione. Ma tutti sono in via di trasformazione a causa dei nuovi residenti, che sembrano arrivare ogni giorno.
Il trionfo dell’Esurbio
Naturalmente, la crescita di popolazione non è limitata alle boomtowns suburbane o alle città della Sunbelt o delle Montagne Rocciose. Riguarda anche luoghi più remoti, culminando in quello che il demografo Robert Lang chiama il “trionfo dell’esurbio”: nuove comunità così lontane dai centri urbani da essere quasi autonome.
I suburbi costruiti negli anni ’70 ora funzionano da “ancore”, dice, proiettando crescita demografica ancora più lontano dei nuclei urbani centrali. Ora la gente si sposta sempre più in là per realizzare il Sogno Americano: o almeno comprarsi il proprio pezzo di un nuovo esurbio americano.
”Il classico residente suburbano vuole ancora vivere sul terreno più ampio possibile, per la somma minore possibile” dice William Frey, demografo impegnato nel Metropolitan Policy Program della Brookings Institution. “Il fattore comune fra tutte queste contee è che i terreni più a buon mercato sono tutti nelle periferie”.
Entrare a patti con la crescita
Altro elemento comune, dice Frey, è la corsa costante di queste contee a costruire nuove strade, impianti di depurazione dell’acqua, scuole, a servire una popolazione in crescita. “La crescita è un’arma a doppio” dice. “Alcune di queste contee vogliono limitarla”.
Gli abitanti di Rockville, Utah, sono di questa opinione, e hanno optato per non costruire un impianto di potabilizzazione per paura di attirare nuova gente a trasferirsi qui, dice il sindaco Dan McGuire.
”I residenti qui hanno votato per restare in pochi, e possono godere della crescita di altre comunità” aggiunge. “Ci basta andarci per trarne vantaggio”. Hanno soprannominato la loro cittadina “L’ultimo tesoro dell’Utah”, esattamente perché hanno evitato il tipo di sviluppo che sta trasformando gran parte della contea.
Circa 5.000 persone si sono spostate qui fra il 2003 e il 2004, facendo impennare la popolazione sino a 110.000 unità. La gran parte di questo aumento si è verificato a St. George, capoluogo di contea, dove pensionati e altri sono attratti da ruscelli, montagne e campi da golf.
”È tutta questione di sole e bel tempo” dice il consigliere anziano Rob Orton. E lascia il consiglio municipale con la preoccupazione di come dare a questa popolazione sempre in crescita nuove strade e acqua pulita.
Per la Lincoln County, South Dakota, lo sviluppo ha significato non solo strade e acqua, ma lottizzazioni di lusso che spuntavano su quello che era stato pascolo. Circa 2.200 persone si sono trasferite nella Lincoln County fra il 2003 e il 2004, portando la popolazione a 31.400 abitanti, a contribuendo a farne la nona fra le contee in crescita più rapida del paese, secondo Frey della Brookings Institution. La marea di nuovi arrivati consiste in gran parte di pendolari che lavorano a Sioux Falls, una città che attira le imprese, in parte perché nel South Dakota non c’è tassa sul reddito.
Sono attratti dalla bellezza del paesaggio e dai ritmi lenti di vita, dice John Schutte, presidente della Canton Economic Development Corporation nella zona meridionale della contea. Ma tutto si ottiene a prezzi notevoli: le nuove case costano fra i 250.000 dollari e il milione, dice.
Il prezzi dei terreni nella Lincoln County sono quadruplicati in soli dieci anni, secondo Mr. Schutte, rendendo la vita più dura agli agricoltori, che erano un tempo la spina dorsale dell’economia locale.
Ombre sulle Shadow Valleys
Anche qui nella Benton County, il nuovo sviluppo sta sostituendo la tradizionale vita rurale.
Tina Bates vive appena fuori dal terrapieno che separa Shadow Valley dalle case di campagna che la circondano. Un tempo, conosceva i pezzi di terra attorno alla sua casa coi nomi delle famiglie che ci vivevano.
Ora i terreni sono lottizzati per cose che si chiamano Hearth Stone o Emerald Heights. Come molti dei suoi vicini, anche la signora Bates dice che venderà la casa e si sposterà lontano dal traffico e dal rumore.
”La maggior parte della gente che viveva qui non ci vive più. Immagino che non gli piaccia, stare in mezzo a una città”.
Nota: il testo originale al sito del Christian Science Monitor (f.b.)
"Il momento è catartico". Così suona la battuta più nota del cabarettista di chiara fama televisiva che giovedì sera ha inaugurato il nuovo "parco commerciale" di Vicolungo (NO). Partita dal pedeappennino di Serravalle Scrivia qualche anno fa, la lunga marcia dei factory outlet villages è arrivata, variante dopo variante, alle porte di Milano. Siamo infatti a pochi minuti di autostrada dallo svincolo della Tangenziale Ovest, nel bel mezzo del solco arato dai cantieri dell'Alta Velocità ferroviaria, e adeguamenti di contorno.
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Per capire un po' meglio dove ci si trova, però, forse è meglio non prenderla l'autostrada, e risalire dal tratto della SS 11 Padana Superiore a ovest di Novara, lungo la provinciale 103 che attraversa le risaie parallela al corso della Sesia, fino a ricongiungersi in territorio di Biandrate all'altra strada proveniente dal Capoluogo, che collega al casello della A4 nel "quadrante" definito dall'incrocio con la A26. Qui, nella migliore tradizione dei complessi commerciali, appena a sud del centro storico, si è collocato il nuovo "villaggio", che ha al centro della sua campagna pubblicitaria lo slogan: NON SOLO SHOPPING.
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Per chi arriva dal casello autostradale, la sensazione deve essere quella di essere sparato direttamente nel parcheggio, che (con effetto negativo) circonda su tutti i lati un gruppo di padiglioni uniti da percorsi pedonali attorno a un unico "corridoio" centrale. Le aperture/ingressi per ora sembrano più abbondanti che in altri casi simili, ma non è detto che a progetto ultimato l'effetto rimanga identico. In compenso i parcheggi sono davvero enormi, e (forse volutamente) escludono qualunque rapporto del villaggio con il territorio circostante.
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Non sono un esperto del settore, e quindi non so dire se si sia realizzata o meno quella "architettura della narrativa" che è il marchio di fabbrica del progettista, William Taylor. E' certo però che nel caso di Vicolungo non si è scelto nessuno stile mimetico: né il phony colonial di Serravalle o di Bagnolo San Vito, né la citazione culturale da fumetto di Fidenza, o quella campagnola di Rodengo Saiano. Le forme qui sono decisamente moderne, salvo l'inesplicabile "citazione" del toponimo e della realtà di Vicolungo, con un percorso pedonale che serpeggia tra vetrine senza una logica comprensibile. Salvo forse quella, appunto, di imitare le strade del centro storico: distante qualche centinaio di metri in linea d'aria, qualche anno luce in termini di qualità dello spazio. Cosa curiosa: il Comune ha deciso di dare ai percorsi interni del complesso commerciale toponimi del tutto normali, tipo "Via San Tizio", "Vicolo Sempronio" ecc., forse a sottolineare l'assimilazione almeno virtuale di questi spazi alla comunità. Mah!
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I percorsi fra le vetrine e i bar (tra poco dovrebbero aggiungersi anche elementi da parco tematico o simili) si articolano fra piccole piazze/snodi dove la prospettiva dell'osservatore cliente cambia, anche oltre le diverse immagni degli allestimenti delle vetrine. A contrassegnare ulteriormente questi cambi di visuale, e a orientare meglio il passeggio, alcune torri segnalano in verticale gli ingressi dal parcheggio, e servono anche come landmark dall'autostrada e dalla zona circostante. Dato che si tratta di architetture molto simili tra loro, anche se non identiche, è probabile (immagino) che in seguito possano essere ulteriormente caratterizzate da scritte, o effetti di illuminazione per la notte, ecc.
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Lasciando il parco commerciale, e tornando a Milano - stavolta sulla direttrice di alta pianura verso l'Hub Malpensa - si nota ancora di più il contrasto fra gli spazi dell'insediamento commerciale (anche dimenticando i parcheggi a cappio) e le forme dell'insediamento consolidato, fatte di borghi ex rurali, campi coltivati, viabilità di sezione ridotta. Il "parco" da questo punto di vista si rivela ancor di più per quello che ovviamente è: un addendo dell'ambiente autostradale, realizzato girando del tutto le spalle (come si nota anche visivamente) al contesto. Con la società. locale e non, ridotta al solito ruolo di vettore di portafogli da svuotare. Da vedere, anche per l'incredibile presenza di vigilantes, che confermano l'ascesa anche da noi degli spazi a-sociali ad alto rischio, come se di queste cose non si parlasse fino alla noia da lustri. Gli architetti della narrativa probabilmente non leggono Jane Jacobs: roba vecchia.
Nota: qui il link al primo articolo - di qualche mese fa - sul tema del parco commerciale di Vicolungo poi gli sviluppi successivi, come lo scambio di opinioni con il progettista William Taylor, o le novità sull'ampliamento del Parco Tematico, di fianco a questo (fb)
Qualcuno forse si ricorda ancora, di MiTo: la megalopoli magicamente evocata negli anni Settanta da una battuta (o poco più) dei due sindaci di Milano e Torino. Una battuta, o intuizione, o provocazione, che fece rapidamente emergere idee di tutti i tipi, da varie utopie tecnologiche di insediamento lineare, a battute salaci sulla riorganizzazione nazionale per megalopoli, da MiTo a SaLaMe (Salerno-Lamezia-Messina), ponte sullo stretto incluso.
Del resto, a parte l’accattivante sigla-nomignolo, si trattava pur sempre del lato maggiore di Ge-Mi-To, il mitico triangolo industriale che tanto spazio e aspettative aveva occupato nell’immaginario della grande modernizzazione italiana, fra boom economico, prima automobilizzazione di massa, “libri dei sogni” sulla programmazione anche territoriale dei centri metropolitani e delle grandi localizzazioni. Un processo che, Mi-To o non Mi-To, è andato avanti per conto suo a spron battuto, e che oggi appare visibilissimo e tangibile nell’urbanizzazione e infrastrutturazione continua che collega lungo la fascia di alta pianura i due capoluoghi regionali. Un’urbanizzazione ben diversa da quella del neo-mitico Nord-Est, molto più densa e compatta, caratterizzata dai tracciati della statale Padana Superiore e dell’A4, a cui si sta sommando (già vistosissima nei grandi cantieri che spiccano fra campi abbandonati e deviazioni stradali provvisorie) la striscia dell’Alta Velocità ferroviaria.
C’era quasi da aspettarselo che qui, in un’atmosfera tanto carica di aspettative di investimento, dove il “Corridoio 5” europeo sembra davvero materializzarsi, anche il modesto fenomeno degli Outlet Villages avrebbe avuto accenti inediti, diversi da quelli rilevati sinora, di “fighettopoli” catapultata su campagne più o meno ignare. La cosa curiosa è che qui, di futuribili cittadelle della moda “ retailtainment style”, ce ne sono non una, ma due: una per ora solo sulla carta, l’altra fatta di mozziconi costruiti che spuntano da ex risaie, ma con le luci ancora spente, e solo qualche corvo che becchetta nell’immancabile ciclopico parcheggio. Vuoto. Se e quando l’uno e l’altro (o l’uno o l’altro) si popoleranno di curiosi, commessi, clienti, e veline sgambettanti invitate per il fatidico Gala inaugurale, ancora non lo sappiamo. La cosa certa, però, è che qui si sta sviluppando una contraddizione in seno al popolo immobiliar-modaiolo. Una contraddizione a ben vedere già prevista, anche se sbrigativamente, da un osservatore privilegiato, e sinora rimasta sospesa mentre le luci dei nuovi giocattolini si accendevano una dopo l’altra, ben distanziate lungo la valle del Po, e ancor più lontane nel resto dello Stivale.
Era il lontano ottobre 2001, e a Firenze nella magica cornice di Villa Strozzi si svolgeva il convegno “Gli outlet nel settore moda: evoluzione industriale e strategie per la crescita globale”. Tale Luca Bastagli Ferrari, della Fashion District Italia, dichiarò tra l’altro che il numero approssimativo di insediamenti tipo Outlet proponibile per il nostro paese, non avrebbe potuto superare le 7-8 unità, in modo da spartirsi il mercato e non rischiare di “inabissarlo” (Cfr. http://www.polimoda.com). E proprio la Fashion District, con uno dei suoi quattro “Cugini di Campagna” – quello di Santhià – è protagonista della battaglia fra le due sponde della Sesia, a colpi di griffes e carte bollate, di cui intendiamo parlare. Che vogliano suicidarsi, “inabissando il mercato”?
La Fashion District, consociata del gigante USA Prime Retail, è appunto protagonista dell’impresa che abbiamo già descritto su eddyburg, con il nomignolo di Cugini di Campagna, soffermandoci poi sul caso del villaggio a Bagnolo San Vito, e la sua notte padana illuminata da architetture “virgiliane”, dalle note musicali di Gloria Gaynor, dalle note curve di Luisa Corna. Uno dei quattro “cugini” era (ed è) previsto a Santhià, poco a Ovest di Vercelli, geograficamente quasi speculare al villaggio pioniere della MacArthur Glen a Serravalle Scrivia.
Come abbastanza ovvio, e come più volte ripetuto in questa serie di descrizioni, la strategia territoriale degli operatori è piuttosto standardizzata: si identifica un “nodo” di flussi di traffico e convergenza di interessi vari, al centro di un bacino ricco in termini di popolazione/clientela, e ci si aggiungono e soppesano poi altri fattori: la particolarità geografica e/o culturale, la sinergia (parola bruttissima ma a volte inevitabile) con altre attività, in primo luogo quelle connesse alla valorizzazione turistica. Il territorio comunale di Santhià innanzitutto si colloca in uno dei fatidici nodi, visto che qui convergono l’autostrada Mi-To, la perpendicolare direttrice verso le valli di Biella e Ivrea, il poco distante asse della Padana Superiore, su cui convergono anche le strade provenienti dalle zone verso il Po, e dalla Lomellina. Per dirla col linguaggio degli investitori, questo bell’angolino della mappa geografica, ai piedi delle prima colline, è “il più ricco bacino di attrazione d'Europa, con una popolazione residente di circa 9 milioni di persone, nei 60 minuti d’auto, di cui l’80% ha un reddito superiore alla media nazionale” ( http://www.marketpress.info). Per dirla col linguaggio tecnico della pianificazione territoriale, che conferma quanto sopra, si tratta di un “centro di servizio alla scala sovracomunale” (dalla Relazione al Piano Territoriale Provinciale). Il che, considerando anche l’approccio consolidato a questo tipo di interventi, pone le migliori premesse perché i progetti architettonici e di allestimento di Arata Isozaki, Ettore Sottsass, Bob Noorda e altri, possano trovare la miglior collocazione possibile.
Non è dato di sapere a chi scrive, per ora, quali forme fisiche avrà il progetto, dato che non si è trovato nulla on-line che lo descrivesse. Comunque si orienti la scelta, si può stare comunque certi che la sensibilità dei progettisti lavorerà al meglio per realizzare la profezia dei promotori: “Il progetto segnerà un punto di svolta nella concezione stessa di fashion”. Del resto, enfasi autocelebrativa a parte, il sito prescelto si presta sia ad un approccio decisamente moderno, sia al citazionismo più o meno libero delle tipologie locali già visto altrove, senza particolari compromissioni di un paesaggio pedecollinare segnato dai grandi lavori infrastrutturali e per la localizzazione di due zone industriali su entrambi i lati della statale Vercellese, in località Moleto, a ovest del centro storico e staccata dall’abitato.
Si possono conoscere invece le quantità, del progetto, così come emergono dalla “Autorizzazione regionale preventiva al rilascio delle concessioni edilizie per insediamenti commerciali” (BUR n. 18 del 2 maggio 2002). Il villaggio della moda si svilupperà su una superficie lorda di calpestio pari a 14.637 metri quadri, articolati su cinque lotti a loro volta suddivisi in unità di vendita di qualche centinaio di metri quadrati (da un massimo di 900 a un minimo di 150 circa). Il fabbisogno di parcheggi, che presumibilmente produrrà la solita ciambellona d’asfalto a circondare e rovinare anche le architetture più accattivanti, è per 30.456 metri quadri, ad accogliere 1.128 automobili. Il tutto per circa 400 posti di lavoro, che si presumono più o meno articolati e suddivisi come quelli del “cugino di campagna” inaugurato a Bagnolo San Vito lo scorso novembre.
È il risultato di un lungo processo di negoziazione, formalizzato nella Conferenza dei Servizi prevista dall’ordinamento regionale in questi casi, ma che a quanto pare fatica a tradursi in concreti movimenti terra, opere edilizie, stipulazione di contratti di lavoro. Se ne chiedono il perché alcuni consiglieri provinciali, in una interrogazione al Presidente datata 25 marzo 2003: come mai il tempo passa, i cantieri dell’Alta Velocità e del nuovo svincolo autostradale di Santhià vanno avanti, e in località Moleto le due aree industriali nord e sud, separate dalla rotatoria sulla statale per Biella, restano desolatamente vuote? Perché questi continui rinvii, e voci che corrono, secondo cui il progetto di Outlet si sta ridimensionando, se non del tutto accantonando? Non è che questo è collegato, si chiedono i consiglieri vercellesi, al fatto che “a Vicolungo è in avanzata fase di costruzione un complesso che di fatto ha le caratteristiche di un Outlet e la cui superficie è doppia rispetto a quella prevista a Santhià”? (Interrogazione verificabile interamente sul sito web della provincia di Vercelli, Atto n. 50 2003, prot. 12967). Insomma, qui rischia di saltare la strategia messa a punto – nientemeno – dalla regionale “Agenzia per l’attrazione degli investimenti esteri in Piemonte”, per intervenire “in un’area che ha bisogno di compensare una situazione di crisi” generando “flussi straordinari di turisti-visitatori e quindi di ricchezza indotta” (Comunicato dell’estate 2001 di “Piemonte informa”, agenzia di comunicazione della Regione, http://www.italnet.it). E tutto per colpa di Vicolungo.
Vicolungo: chi era costui?
Come sempre accade quando si avvicina il mondo delle grandi dimensioni e grandi strategie, per capirci qualcosa è sempre indispensabile aver sotto mano una carta topografica. Attorno a Santhià Vicolungo non si trova, e neppure nella zona di Vercelli, sia su verso l’arco alpino che giù nella bassa delle risaie. Vicolungo sta invece, ed era abbastanza logico aspettarselo, lungo lo stesso insediamento (o meta-insediamento) lineare discontinuo che abbiamo chiamato MiTo, o più in grande Corridoio 5, o con più senso della storia semplicemente scendendo il corso del Canale Cavour, costruito alla fine del XIX secolo per modernizzare l’agricoltura padana. Vicolungo è un piccolo centro, e appartiene al gruppetto di comuni del comprensorio Est-Sesia, lungo una delle direttrici che salgono dalla pianura novarese verso l’alta valle del fiume. Un sito di informazioni turistiche (Vicolungo non ha una pagina web comunale) ci informa rapidamente: 13 chilometri quadrati divisi tra un bel centro storico e molte cascine, abitati da meno di mille vicolunghesi, che stanno lì dall’età del bronzo in poi, costruendo nei secoli una chiesa con parti romaniche e affreschi cinquecenteschi, un “castello con rocchetta”, e altri edifici di notevole interesse architettonico.
Vicolungo, oltre a questi nobili ascendenti storici, condivide coi vicini comuni di Biandrate e Recetto il fatto di affacciare alcuni appezzamenti sul tracciato dell’Autostrada-Alta velocità, giusto all’incrocio con un altro “corridoio” di importanza internazionale, il Voltri-Sempione, rappresentato qui dall’Autostrada Gravellona-Toce. Dal punto di vista infrastrutturale quindi siamo in presenza di un nodo di primaria importanza, a pochissima distanza da Novara, dalla Padana Superiore, e anche baricentrico rispetto ad altri assi di comunicazione di rango inferiore, come le varie direttrici nord-sud Valsesia-pianura, o l’asse trasversale che dal ponte di Carpignano (unico attraversamento del fiume per chilometri, prima di quello urbano alle porte di Vercelli) collega vercellese, novarese e attraverso il ponte di Oleggio l’alto milanese e l’Hub Malpensa 2000.
È qui, che il Piano Territoriale Provinciale di Novara testualmente “propone di consolidare (e sviluppare) gli insediamenti produttivi nelle aree di prossimità dei caselli autostradali con l’obiettivo di migliorare le condizioni generali di accessibilità da parte del traffico operativo su gomma, di realizzare economie di aggregazione dei servizi e delle attività e di determinare effetti positivi nella razionalizzazione e qualità ambientale degli insediamenti circostanti” (dalla Relazione al PTP, p. 43). Una prospettiva di “aggregazione dei servizi e delle attività”, che non poteva lasciare indifferente l’amministrazione comunale di Vicolungo, la cui legittima inclinazione a promuovere lo sviluppo locale si incrocia qualche anno fa con l’intraprendenza di una multinazionale spagnola specializzata in progetti insediativi “chiavi in mano”: Neinver.
Come si può leggere con dovizia di cifre e particolari sul sito http://www.neinver.com la Neinver propone varie tipologie di intervento urbanistico-edilizio integrato, che spaziano dal complesso industriale, a quello per uffici, al modello factory outlet semplice, a forme ibride di compresenza di molte o tutte queste funzioni. Il modello più interessante è senza dubbio quello che porta il marchio Nassica, una vera e propria linea di centri commerciali e per il tempo libero, che combina scelte architettoniche di avanguardia, con un’accurata selezione di funzioni e servizi adattati all’ambiente locale. I centri Nassica possono appoggiarsi sulla presenza “anchor” di un Factory Outlet Center, di commercio tradizionale, aree per il tempo libero, servizi di ristorazione, ed eventualmente miscelare – se necessario e possibile – industrie, uffici, e servizi di cui sia richiesta la presenza nel bacino di riferimento.
Esempi di questo tipo di insediamento sono già stati realizzati a Madrid, dove il mix di funzioni variamente commerciali e a parco tematico ha attirato nel solo 2002 più di 8 milioni di persone. Il più recente è il centro Nassica a Vila Do Conde, in Portogallo nei pressi di Oporto, con un bacino di utenza strettamente locale di oltre tre milioni di persone: una vera e propria (a sentire i promotori naturalmente) “business city” con uffici, spacci di tipo outlet, commercio tradizionale, sale cinematografiche e servizi di ristorazione.
Il “Corriere di Novara”, commentando in prima pagina il 20 febbraio 2002 la presentazione del progetto Nassica per Vicolungo, non può fare a meno di mostrare un certo entusiasmo davanti ai bellissimi schizzi dello studio Morris di Houston, Texas, ispirati da un misterioso approccio “Architecture of the Narrative” (Cfr. http://www.morrisarchitects.com sezione Entertainment; oppure anche il sito personale del progettista capo William Taylor, dove si trovano gli unici schizzi disponibili: http://www.taylorfierce.com ).
Lo stesso periodico locale si pone però da subito un dubbio: “tutto questo è stato concepito esclusivamente fra il Comune di Vicolungo e la Neinver, senza che altri organismi deputati al controllo del territorio, come Provincia e Regione (ma anche i Comuni limitrofi) potessero intervenire per dare un loro parere autorizzativo. Come è stato possibile?”. Già.
Quello che torna, sull’altra sponda della Sesia e in un’altra provincia (a ben vedere, a un tiro di sasso se non del tutto sovrapposto in termini di bacino di utenza) è il dilemma dei consiglieri provinciali di Vercelli: perché a noi è toccato il virtuoso ma lungo percorso della Conferenza dei Servizi, mentre a Vicolungo comune e operatori internazionali sembrano decidere tutto a cena, e aprire i cantieri subito dopo il caffè?
E non è tutto, visto che all’ottantina di negozi su complessivi 250.000 metri quadri del “Parco commerciale”, si devono aggiungere i 200.000 metri del “Parco Divertimenti”, di cui riportiamo di seguito l’abbondante per quanto essenziale scheda reperita sul sito http://www.Parksmania.it
“ I dati generali inerenti il progetto, che ci sono pervenuti a fine febbraio 2001:
Il 23 gennaio è stata firmata la Conferenza di Servizi all'interno della quale Regione, Provincia e 7 Comuni del territorio di Novara hanno dichiarato un forte interesse all’iniziativa.
La società che farà il parco si chiama TLT Tempo Libero Turismo con sede a Biella.
I problemi di viabilità sono risolti in quanto l'autostrada TO-MI ha già deliberato di ampliare il casello di Biandrate da 1 a 8 corsie e sono già state approvate 2 varianti che tagliano fuori il centro di due paesi.
Le attrazioni saranno più di 30, tra cui 3 Rollercoaster (anche inverted), 2 dark ride, flume ride e river rapids.
Il progetto del parco è già stato visionato e in linea di massima approvato dagli enti sopra citati, mentre Rifondazione Comunista ha formulato parere negativo.
L'area già acquisita è di 260.000 mq.
La posizione del Parco è da considerarsi assolutamente strategica in quanto all'incrocio tra le autostrade Torino Milano e Voltri Sempione. Tale posizione consente di avere un bacino d'utenza di 11.000.000 di persone in un ora di viaggio e 18.000.000 di persone nell'arco delle due ore di viaggio.
In linea di massima possiamo affermare che il parco verrà suddiviso in 4 principali aree tematiche differenti all'interno delle quali saranno ubicate 33 attrazioni, 6 punti di ristoro primari oltre ad altri punti minori, 6 negozi di gadget oltre che alle varie zone di servizio per i clienti (reception, oggetti e persone smarrite, infermeria, noleggio passeggini ecc.).
A lato del parco è stato previsto un albergo con circa 60 camere.
In merito alle attrazioni si è cercato di unire le già affermate attrazioni meccaniche alla novità del multimediale ovvero i cinema 4D con effetti speciali stile Universal Studios.
Parliamo delle attrazioni maggiori, che comunque potrebbero anche subire delle modifiche: 1 Cinema 3D, 1 Cinema 4D con schermo a 360°, 1 Teatro per spettacoli, 1 Inverted Coaster, 2 Roller Coaster (compreso quello per bambini), 1 Roller al buio con effetti speciali, 1 Family Coaster, 1 Torre panoramica alta 100 metri, 2 Dark ride, 1 attrazione al chiuso che abbina il meccanico al multimediale, 1 Flume ride, 1 River rapid.
Dati tecnici: 30.000 mq. di aree verdi, 24.000 mq. occupati da giostre, 10.000 mq. occupati da bacini d'acqua, 4.600 mq. occupati da tematizzazioni, 31.100 mq. di percorsi pedonali, 2.700 mq. di zone di attesa, 2.700 mq. di zone di ristorazione”.
Impressionante, no? Personalmente credo di capirci piuttosto poco: mi pare che “inverted coaster” suoni più o meno come montagne russe a testa in giù, su “family coaster” sono un po’ in crisi, ma mi riprendo sulle rapide mezze vere e mezze finte (chissà se ci si bagna davvero o virtualmente?).
Ma lasciamo – ahimè – da parte tutti questi bellissimi giocattoli, per tornare all’oggetto del contendere tra le due rive della Sesia: il meccanismo decisionale sugli insediamenti commerciali a vasto bacino di utenza. Un ricorso al TAR del febbraio 2003, presentato dalla associazione commercianti novaresi e altri, porta al sequestro del cantiere di Nassica Vicolungo, quando gli edifici sono già quasi ultimati e l’inaugurazione con seguito di ballerinette, lustrini e gorgheggi sembra ormai alle porte. Le accuse nascono (ma va?) da un esposto della società interessata al progetto Outlet-Santhià, secondo la quale “la realizzazione del centro Nassica sarebbe avvenuta aggirando la legge regionale che disciplina l’insediamento di nuovi grandi centri commerciali” (dal Corriere di Novara, 9 ottobre 2003, p. 4).
E risiamo al punto di partenza, comunque la faccenda vada a finire: il tetto di 7-8 centri di tipo Outlet Village per tutto il territorio nazionale, e il suo immediato sforamento per i più ovvi e banali meccanismi di concorrenza, e per i più ovvi e banali buchi nei meccanismi di decisione e controllo. Perché il piccolo trucco usato qui, a quanto pare, è stato quello prima di chiamare l’oggetto del desiderio “parco commerciale” anziché “centro commerciale”, e poi di rilasciare 13 diverse concessioni edilizie, ciascuna per ogni singolo negozio, aggirando così la Conferenza dei Servizi richiesta per le grandi superfici di vendita. E il trucco ha funzionato, almeno fino al punto da consentire la realizzazione fisica del progetto della Morris Architects di Houston.
E ci sarebbe da sorridere, per il fantomatico e temuto “inabissamento del mercato” a causa del soprannumero, se non fosse per gli ettari di territorio doppiamente e ineluttabilmente sconquassati, o per i posti di lavoro sospesi a un filo, pronti a involarsi di qua o di là, verso lidi più accomodanti (secondo l’approccio Nassica Vicolungo) o con più certezza delle regole (secondo l’approccio Fashion District Santhià).
L’unica consolazione, è che qui non sembra – per ora – verificarsi un particolare carico ambientale e/o paesistico, visto che il “corridoio” è ingombro di ben altri e più invadenti “giocattoli”. Speriamo solo che questi più piccoli e colorati gingilli non restino lì, rotti e abbandonati, come succede quando bambini capricciosi incrociano adulti inadeguati.
Nota: qui il resoconto di una visita a Vicolungo dopo l'inaugurazione, che è poi avvenuta, il 7 ottobre 2004 (fb)
Su Eddyburg, per gli stessi temi, nella sezione Megalopoli, vedi anche:
Il Factory Outlet di Serravalle Scrivia (AL)
L’Outlet di Serravalle: valutazione di impatto
Invasione degli Ultrashopping: il Factory Outlet di Fidenza (PR)
Cambiando l’ordine dei Factory, il risultato cambia? Il Village Franciacorta (BS)
Cugini di Campagna: il Fashion District di Bagnolo San Vito (MN)
Centri Commerciali Apocalittici. Centri Commerciali Integrati. Il caso di Borgarello (PV) e altri
Susanne Kratochwil [Institute of Sociology for Spatial Planning & Architecture (ISRA) Università di Vienna], relazione presentata alla Conferenza internazionale City Futures, Chicago luglio 2004; Titolo originale: European Images around Sprawl(ing)– Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
[...] Introduzione
Lo Sprawl Urbano può essere definito come insediamento a densità molto bassa esterno ai centri urbani, di solito su terreni di nuova urbanizzazione, che fa diminuire sempre più la qualità ambientale dell’abitato.
Lo Sprawl Urbano è una manifestazione particolare dello spazio costruito, Nella maggioranza dei casi il significato di spazio sembra privo di ambiguità. Lo spazio in quanto area ben definita con determinate relazioni e dimensioni, è un’idea comunemente condivisa. Lo spazio ha dei contenuti e caratteristiche, descritti dalle statistiche, dai valori correnti, dalle funzioni ad esso assegnate dai piani, dalla popolazione, descrivibile attraverso criteri demografici. Per questo motivo gli spazi sono individuati a seconda della localizzazione, delle caratteristiche e degli usi. Se questi tipi di definizione sono corretti, perché spazi che sono strutturati o organizzati più o meno nello stesso modo hanno processi di combinazione differenti?
Le risposte, nel contesto europeo, devono tener conto delle diversità storiche, delle diverse razionalità e filosofie nella progettazione urbana. Questa diversità offre straordinari contrasti, ad esempio, fra città degli stati ex socialisti e quelle dell’Europa occidentale ad economia di mercato. I processi economici mostrano vistose differenze attraverso il continente e producono forze che sembrano essere di tenore più modesto e semplici, in Europa, che in altri continenti.
Siete bloccati nel traffico. Dove, non importa: succede dappertutto. Se guardate fuori dal finestrino vedete case, centri commerciali, ma era completamente diverso qualche anno fa. Se si tratta di una strada negli USA si può ricordare che quei cinquanta ettari erano campagna, quando eravamo bambini. Adesso le ruspe annunciano: presto nuove case. Se si tratta di una strada in Europa ci si ricorda che ci sono state sempre delle case – c’era un villaggio, o nel caso peggiore vicino a una città – ma ora non ci sono più confini fra campagna, suburbio, città. L’unica cosa diversa: sì, ci sono più centri commerciali, ecco tutto. Ecco tutto?
Lo sprawl urbano sembra essere parte del modo di vita americano. Ora la riflessione sull’ American Dream si trasforma nel ripensare lo European Dream? L’organizzazione fisica della città USA pone problemi che la città europea sta solo cominciando a sperimentare. Gli effetti dello sprawl sono profondamente radicati nelle società locali americane, ma fanno parte delle culture europee? C’è bisogno di un cambiamento, nei modi di pensare di Americani ed Europei?
La realtà suburbana trova le proprie origini nell’antico sogno della dimora autosufficiente, del “ la mia casa è il mio castello”, dove si è padroni. Il sogno di “ passeggiare attorno alla propria casa” non cambia per secoli, ed emigra: i primi coloni dall’Europa portano negli USA il concetto della proprietà individuale del terreno. Questo sogno-obiettivo assume grande importanza nel Nuovo Mondo, ed è probabilmente uno dei punti chiave dell’ ethos americano: libertà e proprietà (della terra). [..]
Ripensare il Sogno Europeo?
Negli USA e in Europa, i cittadini condividono il medesimo tipo di sogno, ma lo esprimono in modi diversi. Sarebbe troppo semplicistico, spiegare gli sviluppi spaziali europei adottando i criteri nordamericani sullo sprawl. Nel mondo coesistono parecchie tradizioni urbane, ma ciascuna con un proprio particolare modo di reagire ai piani. Il modello di urbanizzazione europeo quindi non costituisce un’alternativa a quello americano, semplicemente perché un modello europeo non esiste. Per esempio, si troverebbero continuamente differenze nei valori di parametri chiave: la dimensione delle unità amministrative, i tassi di pendolarismo, quelli di mobilità residenziale o le norme di pianificazione urbanistica o i livelli culturali. Da questo punto di vista qualunque esposizione delle dimensioni europee dello sprawl richiede cautela perché, ad esempio, mancano concetti sufficientemente comparabili e definizioni statistiche delle agglomerazioni europee. In Europa non esiste consenso generale sulla questione dello sprawl urbano perché il fenomeno è stato valutato in modi molto differenti, da un esperto o dall’altro. Ci sono strategie che hanno funzionato in alcune città, ma non in altre. Le politiche europee non sono una panacea per gli USA.
L’Europa è descritta come popolata in modo più denso e compatto risptto agli USA, ma stanno aumentando i processi di suburbanizzazione. I sistemi pubblici estesi di trasporto anche dove esistono – ad esempio a Parigi – non impediscono perdite di popolazione dalla città centrale, e che esploda la suburbanizzazione. La comparativamente grande quota di mercato europeo del trasporto pubblico da’ l’impressione che qui si stia guadagnando terreno a spese dell’automobile. Ma, nonostante sia molto più costoso guidare un’auto, le tendenze europee per quanto riguarda la dipendenza da automobile seguono quelle USA.
Sono in condizioni migliori, le città europee? Naturalmente no, ma la maggior parte sono più antiche, e alcune nuove perché ricostruite da zero dopo la Seconda guerra mondiale. Allo stesso tempo, le aree urbane degli USA hanno il proprio profilo definito dall’espansione economica e demografica.
Sono organizzate meglio, le città europee? No, ma sono collocate entro paesi più piccoli. Il principale contrasto fra Europa e USA sta nei milioni di chilometri quadrati di territorio. Negli USA c’è molto più spazio, e le tecnologie decentralizzatrici si sono diffuse molto prima che nel resto del mondo. A scala nazionale problemi come ad esempio i tassi di criminalità hanno altre dimensioni. Benzina ed energia elettrica sono disponibili a prezzi più bassi negli USA, se paragonati ai costosi spostamenti pendolari in Europa. Ancora a differenza degli USA, esistono enormi differenze nelle tassazioni. La tassa d’acquisto di un’auto nuova può essere di pochi spiccioli per un americano, se paragonata per esempio alla Danimarca: la differenza può essere di trenta volte tanto. E non va dimenticato che il prezzo medio della benzina in Europa è almeno il doppio che negli USA.
Ambiguità Latente
L’immagine – la città densa a funzioni miste con un sistema di trasporti pubblici di alta qualità è uno spazio di qualità superiore rispetto alla vita nel suburbio a bassa densità e monofunzionale – trova vasti consensi nella comunità degli urbanisti europei.
Lo European Urban Audit offre un’immagine molto più complessa. Circa la metà delle città analizzate sono aumentate di popolazione, e metà ne hanno persa. La maggioranza ha sperimentato il declino negli anni ’80; il resto negli anni ’90, e 14 città hanno subito un’inversione nelle tendenze demografiche, da un declino negli anni ’80 a un incremento nei ‘90.
Uno dei metodi migliori per limitare l’auto privata è quello di migliorare i trasporti pubblici, ma le indagini mostrano che l’uso dell’automobile è un problema di dipendenza. Rispetto agli americani, con 12.336 km/persona/anno, gli europei sono quarti, con 5.025 km/persona/anno.[...]
Le forme dell’insediamento dipendono più di tutto dai sistemi di trasporto, ed è l’argomento più difficile da discutere. L’immagine della maggior parte delle città europee sorprende: città che hanno mantenuto le proprie qualità di spazi pedonali, e dalla maggior parte delle strade si vedono panorami di campagna ininterrotta? Lo spostamento pedonale nell’ambiente della città europea non è una fantasia. Ma è una favola che l’ambiente cosiddetto pedestrian-friendly sia popolato da “pedoni amichevoli”. Le nostre strade non sono sicure, o comode, e lo spazio circostante spesso è privo di interesse. Il parcheggio sul ciglio stradale non crea una barriera d’acciaio efficace fra il marciapiede e la strada. Esiste anche qui la fascia commerciale: è un parassita della grande arteria fra le città, che ostacola il traffico di attraversamento e degrada la campagna. Gruppi sociali diversi, cercano diversi tipi di ambiente. Che si tratti di una società rurale, in un ambiente di campagna, o di una vita in carriera, nella società dell’informazione, si tratta di una scelta individuale.
“Notiamo che una élite a orientamento culturale cerca abitazione nelle zone urbane centrali e più antiche, mentre l’élite ad orientamento economico preferisce la campagna. È in entrambi i casi un collocarsi in quello che è percepito come un ambiente piacevole, e un modo per mostrare status sociale, per i rispettivi orientamenti”.
Le famiglie sosterranno che il suburbio offre sulla città soprattutto i vantaggi dello spazio aperto. Un lascito della metà del Ventesimo secolo, con l’immagine della città ideale integrata nell’ambiente naturale, con fasce verdi, parchi, sentieri nella natura. Questo atteggiamento elitario sta alla base della suburbanizzazione a Vienna. L’effetto quartiere è un proseguimento logico di questo tipo di sviluppo. Anziché “i ricchi” si sposta il migliore ceto medio organizzato. Non si trovano case a prezzi accessibili nei “vecchi quartieri”, e così se ne creano dei “nuovi”, privi di storia sociale. E si osserva un’altra tendenza: gli abitanti sembrano ritirarsi dalla vita pubblica, nel rifugio dell’abitazione privata.
Limiti (prefissati)
Le aree urbane sono lo sprawl del passato? Si può dare per scontato che ogni città sia entro un processo continuo di trasformazione interna. Il mutamento coinvolge almeno la forma urbana e le funzioni, i gruppi immigrati, la segregazione, le culture di quartiere, gli insediamenti suburbani. La suburbanizzazione è infinita, e le sue cause ed effetti non sono stabili, nelle dimensioni e degli aspetti. Anche quando avvengono trasformazioni, esse non necessariamente comportano mutamenti spaziali. Esistono diverse definizioni e spiegazioni dello sprawl, che traggono origine dalla complessità insita in tutte le questioni urbane. I motivi delle contraddizioni fra i vari punti di vista sullo urban sprawl possono essere facilmente trovati nella mancanza di un base dati internazionale comparativa, per monitorare le trasformazioni urbane, nell’incompatibilità dei concetti e definizioni di sistema urbano, nell’assenza di strutture istituzionali adeguate di ricerca comparativa e politica urbana a livello europeo.
Il tema dello sprawl urbano comprende la sfida a distinguere tra cause ed effetti, ma le organizzazioni spaziali sono sia prodotto che motivo del modo di sviluppo.
Altro elemento base sfavorevole, è il fatto che i processi urbani non si riflettono chiaramente nelle forme spaziali, e che queste cambiano più lentamente delle relazioni sociali. Da sempre le forme urbane storiche incomplete sono parti di immagini. Le immagini producono vincitori e vinti. La crisi di un gruppo di attori può essere la prosperità di altri. In particolare, lo sprawl urbano può significare profitto per alcuni, esclusione per altri.
Uno dei motivi per una percezione selettiva del fenomeno, è la mancanza di chiare linee di sviluppo nell’insediamento urbano e regionale. Anche la realtà empirica mostra un ampio spettro di tendenze in parte contraddittorie. Le descrizioni non sono legate ad una sola scala spaziale, e si spostano fra i livelli internazionali, regionali e locali.
Un altro aspetto è quello che riguarda tipi e scelta dei gruppi di dati. I confini amministrativi/legali di una città possono non coincidere con le unità economiche, regionali o funzionali. La raccolta dei dati spesso non copre la città e le interazioni periferiche. A confondere ancora di più, la mancanza di informazioni attendibili a sostenere le ragioni pro o contro lo sprawl.
La questione europea innanzitutto è l’articolazione fra diversi paesi si una quantità molto ristretta di spazio, e la rinascita del dibattito regionale.
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Nota: al sito della conferenza City Futures, il testo originale, integrale (con la proposta di un metodo scientifico di lettura del fenomeno) e completo di note bibliografiche (f.b.)
Gli spazi dei centri commerciali sono da considerarsi pubblici, o privati? È una questione ad esempio aperta da tempo anche in alcuni insediamenti britannici del tipo new town, dove le scelte della progettazione architettonica hanno mescolato spazi civici collettivi e spazi commerciali, privilegiando però forme a galleria chiuse e semichiuse che prima o poi hanno posto o tuttora pongono il problema.
Il caso forse più curioso è quello del Maine Mall a South Portland, Maine, dove la polemica, con alcuni strascichi anche legali, ha interessato da un lato il management di gestione del complesso di immobili, dall’altro nientemeno che l’Esercito della Salvezza. I volontari suonavano le loro campanelle per raccogliere offerte vicino agli ingressi principali del mall, ma sono stati invitati ad allontanarsi perchè il rumore “disturbava alcuni negozianti e clienti”. Alla fine di proteste varie (pare anche da parte di altri “negozianti e clienti”), i miti raccoglitori di offerte hanno potuto tornare al loro ragguardevole introito di circa 50.000 caritatevoli dollari l’anno, ad una condizione: sostituire le campane d’ordinanza con cinture e bretelle a campanellini, graditi alla direzione.
E naturalmente il problema si pone e si porrà, probabilmente in modo meno clamoroso ma più grave, quando di fronte all’onnipotente Simon Property Group (manager del Maine Mall e di altri trecento circa negli USA) dovessero porsi non le campanelle dei temperanti, ma i banchetti di una raccolta firme sgradita, o un volantinaggio sindacale, uno spettacolo di strada ... insomma tutto quanto fa parte integrante della corrente vita urbana, in qualunque strada o piazza.
Ma per quanto ancora, questo tipo di vita urbana sarà “corrente”? E fino a che punto gli spazi a vario grado di formalizzata privatizzazione del centro commerciale si sono già sostituiti a quelli della città?
Ad un punto preoccupante per quanto riguarda il caso americano, di cui ancora il Maine Mall offre un intero campionario. Basta scorrere i dati sull’argomento nel comprehensive plan di South Portland, la circoscrizione municipale di 25.000 abitanti che “ospita” fisicamente questa articolata struttura commercial-terziaria di scala regionale, che è la principale fonte di occupazione locale. E poi le lamentele degli espliciti oppositori alla sua continua crescita.
Enormi investimenti pubblici per migliorare le infrastrutture di accesso metropolitano e di comunicazione interna, congestione da traffico, difficoltà per la pianificazione locale ad impostare una politica di mixed use che spezzi il blocco monofunzionale di un enorme settore urbano. E parallelamente, la crisi verticale del distretto commerciale metropolitano tradizionale esistente, Greater Portland Downtown, con la crescita dei vuoti, degli edifici sfitti, e dell’insicurezza, della criminalità ... C’è anche chi invita addirittura a “fare libero shopping in città, anziché farsi spiare dal Grande Fratello”, riferendosi alle telecamere della sicurezza, che discutibilmente spiano i clienti in ogni anfratto del mall, e con la scusa della sicurezza invadono la privacy.
E come sempre accade (Esercito della Salvezza a parte) le truppe che si fronteggiano in campo sono come al solito alcuni cittadini, una parte dell’amministrazione locale, e sull’altro fronte la grande impresa proprietaria e/o di gestione del distretto commerciale. A South Portland c’è il gigante Simon.
Simon Property Group, Inc., è una compagnia con quartier generale a Indianapolis, Indiana, con investimenti orientati principalmente alla acquisizione e/o gestione di spazi commerciali, in primo luogo malls di scala metropolitana e regionale, o shopping centers di dimensioni urbane. Attraverso proprie articolazioni o in forma associata, possiede o ha interessi in poco meno di 300 proprietà, per una superficie commerciale lorda di circa 20 milioni di metri quadrati in 37 stati USA, oltre ad altri interessi vari di tipo immobiliare.
Recitava con licenza poetica John Donne nel suo brano più famoso: “ Every man is a peece of the Continent, a part of the maine”. E qui la sua licenza poetica casca a fagiolo, perché aver usato “ maine” anziché “ main” per dire “il tutto”, ci può far tradurre con altrettanta licenza “Ogni essere umano è parte del Maine”. Anche noialtri, che so, di Merate (LC), o di San Rocco al Porto (LO), tanto per citare a memoria, siamo parte del Maine, e soprattutto delle sue rogne con Simon Property Group. Perché come ci informava discretamente il bollettino di Wall Street dello scorso 17 novembre 2003, si era finalmente trovato “ An American Partner for Rinascente for the Ownership and Development of Shopping Malls”.
I gruppi Rinascente e Simon annunciavano di aver firmato l’accordo per una joint venture riguardante la proprietà, gestione, realizzazione di shopping malls in Italia, attraverso una società denominata Gallerie Commerciali. Si parte da 38 centri commerciali già esistenti ed operanti, su circa 250.000 metri quadrati, e da parecchi progetti in vari stadi di realizzazione o progettazione, per altri circa 450.000. Letteralmente: “La società ha lo scopo di consolidare una posizione di leadership sul mercato nazionale, attraverso il contributo in risorse e in know-how da parte del nuovo socio americano”.
Simon Says: Ciao Italia!Così titola, un paio di giorni dopo l’annuncio, la rivista specializzata Retail Traffic, specificando che il maggior gruppo americano ha intenzione di “svilupparsi lungo tutto lo stivale”, nel quadro dell’espansione europea e globale di tutti i grandi operatori.
E agli italiani al momento non resta nemmeno la possibilità di dire, che so “Ciao Simon”, o qualcosa del genere, perché nella migliore strategia di accostamento a nuovi mercati, il consumatore continuerà a vedere i marchi familiari, rappresentati in questo caso soprattutto da Auchan, il principale anchor delle gallerie commerciali targate Rinascente.
Per capire se e quando è cambiato qualcosa, basterà forse andare con una campana davanti all’ingresso principale di Merate, o San Rocco al Porto o chissà dove altro, e vedere cosa succede, e vedere se siamo diventati tutti “parte del Maine”.
Perché la nota citazione di John Donne, è – quasi ovviamente - quella che si conclude con “E dunque non mandare a chiedere per chi suona la campana: suona per te”.
Se si da' retta al titolo del pezzo che segue (e bisogna dargli retta per forza, vista la fonte), stiamo davvero freschi. La formula della magica pozione che stiamo già assaggiando da tempo, e che trangugeremo in futuro, è stata già ben sintetizzata da Edoardo Salzano nell’ultima edizione del suo Fondamenti di urbanistica: “la città, la scimmiotto e la svuoto”. Svuotare la città perché sia riempita da altro, mica quegli inutili e fastidiosi animaletti conosciuti un tempo come abitanti, e ora lì a ostacolare il luminoso scorrere della “valorizzazione”. Meglio, molto meglio, che vadano a valorizzare di tasca propria altri territori, che da timide vergini si faranno allegre puttane, con ampie possibilità di rivalutazione anche culturale nel tempo: come appunto accade ora, alle starlets come alle ex fuligginose ciminiere, o agli ex paesi dei barocchi a suo tempo assai poco apprezzati dagli ex contadini cacciati lì dentro a pedate.
Ma, oltre le mie discutibilissime elucubrazioni (di cui i frequentatori di eddyburg potrebbero anche essere un po’ stufi, dopo la telenovela a puntate sui fashion villages padani), forse gli asciutti dati così ben presentati da Luca Tamini possono e devono far riflettere, soprattutto sull’inutilità dell’arroccamento, per quanto elegante. A pensarci bene, le torri d’avorio si costruiscono col cimitero degli elefanti.
Pensare, che all’inizio di tutto c’è un palazzo di cristallo, al centro di un parco, al centro di una città giardino. Lì la gente si incontra, magari quando nel parco piove, e già che c’è beve qualcosa, o fa acquisti. È l’immagine, dimenticata, del Crystal Palace con cui il vecchio Ebenezer Howard pensava alle guarnizioni finali del suo “sentiero verso una vera riforma”. Un sentiero percorso e deciso dalla società nel suo insieme, di cui appunto quelle arcate luminose sarebbero state un simbolo, e i bottegai eventuali quanto graditi ospiti. Mica forza propulsiva, e avanguardia della rivoluzione.
E ha ragione Peter Hall quando, nel suo Sociable Cities, the legacy of Ebenezer Howard, dice che pianificare il decentramento è ancora possibile: basta avere un’idea forte, forte e che non confligga con dati di fatto come l’enorme domanda sociale di mobilità, di accesso ai servizi, e perché no anche alle merci e a un po’ di immaginario. Anche nel teatro vivente del territorio.
Se l’hanno capito gli “svuotatori e scimmiottatori”, magari potrebbe iniziare a pensarci anche qualcun altro. O no? (Fabrizio Bottini)
Da: Il Denaro edizione online, 23 dicembre 2003
La localizzazione di molti centri commerciali in contesti suburbani e a ridosso di circonvallazioni e svincoli d’accesso di medie e grandi città è assai diffusa in Italia e in molti casi alquanto discutibile sotto l’aspetto insediativo e sociale. Fino ad oggi questa localizzazione si è legata alla tipica tipologia del centro commerciale integrato, mentre solo più recentemente, ad una scala edilizia maggiore e con bacini d’attrazione ancor più ampi essa è stata fatta propria dai Factory Outlet Centre (FOC).
Queste strutture a formula mista (negozi e department store) — sorta di evoluzione tipologica (Tab. 1) dei tradizionali spacci aziendali (come centri di vendita diretta di rimanenze di stagioni precedenti, overstock di magazzino in seguito a eccedenze di programmazione e di produzione) e organizzati per sfruttare le sinergie tra industria e distribuzione e le capacità di vendita dei diversi “marchi” attraverso partnership di mercato (affitto di ramo d’azienda) — sono localizzati in aree ad alta accessibilità, spesso a vocazione turistica, secondo una logica simile ai parchi e ai centri commerciali integrati e con una connotazione urbanistica simile alle grandi superfici di vendita, pur nel quadro di una diversa organizzazione interna (non necessariamente indoor) orientata alla configurazione areale (Outlet Village).
In questo quadro evolutivo, è da ricordare che nel settore non alimentare la presenza dell’industria nella rete distributiva è significativa, soprattutto a seguito di due fenomeni: la rilevanza delle aree ad alta specializzazione produttiva (distretti industriali, aree sistema, sistemi produttivi locali) con la notevole diffusione degli spacci aziendali e la prevalenza di punti vendita di piccole dimensioni con assortimento specializzato con la diffusione di forme di controllo verticale (franchising, punti vendita monomarca in proprietà, etc.).
A scala internazionale, uno dei principali orientamenti sul tema dell’impatto degli Outlets Village sui contesti locali è la Planning Policy Guidance “Town Centres and Retail Development” realizzata nel luglio 1993 dal Ministero dell’Ambiente britannico (PPG6, aggiornata nel giugno 1996), inerente la pianificazione e le politiche di governo degli insediamenti commerciali (planning for retail developments) connesse all’impatto sulla vitalità e sulla viabilità dei centri urbani. Come linea guida si acquisisce la consapevolezza del ruolo critico del sistema della pianificazione di limitare la competizione, di valorizzare i valori posizionali commerciali esistenti e di contrastare i processi di innovazione del settore. Questa PPG introduce il concetto di sequential approach utile a selezionare le nuove localizzazioni commerciali e di entertainment in ambito periferico-extraurbano solo in caso di impossibilità di realizzazione del progetto in area urbana.
PRINCIPIO INSEDIATIVO
Aggregazione spaziale di ampia dimensione di più punti vendita monomarca (esercizi di vicinato e medie superfici) con configurazione insediativa di tipo areale.
LOCALIZZAZIONE
In ambiti extraurbani — con buona dotazione infrastrutturale ad alta accessibilità (spesso in prossimità di un asse autostradale) — spesso a vocazione turistica secondo una logica simile ai centri commerciali extraurbani (sostanzialmente equiparati in sede di Conferenza dei Servizi regionale o provinciale).
Connotazione urbanistica simile alle grandi superfici di vendita, pur nel quadro di una diversa organizzazione interna.
CAPACITÀ DI ATTRAZIONE Sono organizzati per sfruttare le sinergie e le capacità di vendita dei diversi "marchi" e l’integrazione con altre format di offerta legati al tempo libero e all’intrattenimento, ai servizi di ristorazione, alla promozione turistica.
Bacini gravitazionali estesi di scala sovracomunale (interprovinciale e interregionale).
INTERNATIONAL CENTRE FOR REGIONAL REGENERATION AND DEVELOPMENT STUDIES (ICRRDS) - University of Durham, England: PRIVATIZZAZIONE DELLA CITTÀ? LA SPINTA VERSO UNO SVILUPPO URBANO ESTERNO E LE COMUNITÀ RECINTATE IN GRAN BRETAGNA– Rapporto finale per la Vicepresidenza del Consiglio, Gordon McLeod, ottobre 2004: Titolo originale: PRIVATIZING THE CITY? THE TENTATIVE PUSH TOWARDS EDGE URBAN DEVELOPMENTS AND GATED COMMUNITIES IN THE UNITED KINGDOM – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
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La crescita delle Edge Cities
Chiunque capitasse nella “ downtown” di una grande città in Europa o negli USA potrebbe facilmente essere incline ad escludere in modo netto qualunque ipotesi che l’economia delle città possa essere in qualche modo in “crisi” o in “difficoltà”. Perché quando si entra in un classico centro città ci si ritrova invariabilmente abbagliati da un impressionante schieramento di torri luccicanti che sovrastano un caleidoscopio paesaggio di glamour imprenditoriale, cospicui consumi, cultura dell’incontro nei caffè e vita di strada elegante, in tutto in stretta prossimità con qualche edificio residenziale antico elegantemente restaurato. In effetti, e come aveva supposto anni fa il geografo Neil Smith, “gli spazi della inner city improvvisamente riprendono valore, diventano perversamente profittevoli”. In tutto il mondo, sembra che le opportunità di edificazione stiano aumentando vertiginosamente nelle aree centrali, con costruttori e grandi imprenditori, spesso sostenuti da sostanziosi pacchetti di sussidi statali e investimenti pubblici in loco, che agiscono a massimizzare i guadagni. Per un’ampia varietà di motivi, i centri città offrono parecchio “tiro” in termini di attrazione di attività, investimenti, tempo libero, elementi residenziali e culturali.
Anche riconoscendo tutto ciò, le antiche opinioni riguardo al centro città come “il” motore propulsivo dell’economia metropolitana e regionale potrebbero dover essere riviste. Perché negli ultimi vent’anni circa, le difficoltà protratte nel tempo connesse agli alti affitti e alla bonifica delle aree nei centri hanno in qualche modo incoraggiato la formazione di una serie di spazi economici basati sulla strada e ad alta tecnologia, autoproclamatisi autosufficienti, o Edge Cities. Tali spazi appaiono sempre più caratterizzati da una composizione diffusa di insediamento a servizi e industria leggera, spesso collocato nei nodi delle principali autostrade o grandi arterie, o in adiacenza ad aeroporti internazionali. Il primo e principale analista di questo fenomeno è Joel Garreau. Nelle sue osservazioni introduttive a Edge City: Life on the New Frontier (1991), Garreau si spinge sino a sostenere che:
Noi americani stiamo attraversando la più radicale trasformazione da un secolo a questa parte nel modo di costruire il nostro mondo, e molti di noi non lo sanno neppure. Da una costa all’altra, ogni metropoli in crescita lo sta facendo, e sbocciano nuovi tipi di spazi: Edge Cities. […] La maggioranza delle persone passa l’intera esistenza dentro o attorno a queste Edge Cities, eppure a malapena le riconosciamo per quello che sono. Accade perché non sembrano per niente le vecchie downtowns; non corrispondono a nessuno dei nostri preconcetti su cosa costituisce una città. Le nuove Edge Cities non sono tenute insieme da locomotive o metropolitane, ma dalle freeways, dalle linee aeree, e dai percorsi dello jogging. Il loro monumento caratteristico non è un eroe in una statua equestre in piazza, ma un atrio che racchiude alberi perennemente verdi nel cuore degli uffici centrali di un’impresa, i centri per la forma fisica, le piazze coperte per lo shopping. I nostri nuovi centri urbani non sono contrassegnati dalle mansarde dei vecchi ricchi urbani, o dai quartieri popolari dei vecchi poveri urbani, ma dalla celebrata casa unifamiliare con il prato tutt’attorno. Perché l’ascesa di Edge City riflette lo spostarsi delle nostre attività – dei nostri strumenti di creazione della ricchezza, vera essenza della nostra urbanistica – verso l’esterno, dove abbiamo abitato e fatto shopping per due generazioni.La sorpresa è che questi luoghi, questi nuovi curiosi centri urbani, erano villaggi, o campi di granturco, solo trent’anni fa.
Garreau fissa criteri piuttosto definiti per individuare una edge city. Ovvero: 1) almeno 500.000 metri quadrati di spazio disponibile per uffici – il cosiddetto “posto di lavoro della Information Age”; 2) 60.000 mq o più di spazio commerciale; 3) più posti di lavoro che stanze da letto; 4) la caratteristica di luogo identificabile; 5) il non essere stato niente di simile a una città prima di trent’anni fa. Probabilmente l’assioma chiave è che la edge city rappresenta un nodo di lavoro, commercio e tempo libero relativamente autosufficiente il quale, almeno in potenza, permette a milioni di americani di vivere, produrre e consumare nello stesso spazio: concetto che inequivocabilmente si differenzia dal suburbio tradizionalmente residenziale, e quindi lo rende almeno funzionalmente una città.
Gli Stati Uniti al momento vantano ben oltre 200 edge cities – più di quattro volte la quantità delle vecchie downtowns di dimensioni comparabili – ed esse contengono due terzi degli spazi ad ufficio a livello nazionale; una quota che supera il 70% in città come Atlanta, Dallas o Detroit. Uno degli esempi classici di agglomerazione edge city è la Orange County, a sud di Los Angeles. Nei tardi anni ’80 la regione si era imposta come trentesima economia a livello mondiale, con la gran maggioranza degli abitanti impiegata localmente, anziché pendolare verso la regione di Los Angeles come si era verificato in precedenza. Comunque, le edge cities non sono riserva esclusiva della cosiddetta “ sunbelt” USA che si estende dalla Florida alla California meridionale. Perché se ne trovano sempre più nelle aree metropolitane della cosiddetta “ rustbelt” americana dalla costa orientale, come Filadelfia, al Midwest, come Pittsburgh in Pennsylvania o Cleveland, Ohio. In più, nelle mega-città del sud-est Asia come Giacarta, Manila o Singapore, il movimento dai centri urbani verso le fasce più esterne ha di fatto rovesciato la città. Ovunque sembra che “ [le] nuove periferie siano diventate gli spazi di proiezione [...] dell’investimento e dell’accumulazione”.
Come possiamo spiegarci questa significativa ascesa delle edge cities?
Dal punto di vista degli affari, almeno, sembra che imprese ambiziose e progetti imprenditoriali abbiano scelto di collocarsi in questi spazi perché sono attratte da un “ambiente favorevole all’attività economica” e dall’offerta di una forza lavoro ben formata, che può spostarsi in modi efficaci dal suburbio adiacente. Lo stesso Joel Garreau aggiunge che queste zone economiche sono libere dalla “fuliggine” e dalla percepibili inerzia politica e sociale spesso associate a fasi precedenti di investimento industriale. In altre parole, le edge cities presentano una superficie sgombra, che consente a investitori e famiglie di esplorare nuovi modi di creazione della ricchezza, di vivere e lavorare. In più, e in contrasto con l’affollato e disordinato paesaggio, con l’atmosfera difficile e ansiosa che spesso si ritiene permei la inner city, ad esempio non si trovano vagabondi “che dormono fuori dai centri commerciali”, e i poveri, i disoccupati, le sezioni a redditi inferiori delle minoranze razziali, sono opportunamente occultate alla vista. In un’epoca in cui il governo urbano sembra impegnato in una competizione senza fine ad attirare investimenti di impresa, questi ambienti incontaminati possono essere visti come un’opzione attraente.
Ma, anche dal punto di vista dell0’iniziativa imprenditoriale, le edge cities non sono del tutto prive di complicazioni. La loro rapida crescita ha significato che la congestione da traffico rallenti la mobilità, con tempi di pendolarismo e livelli di inquinamento atmosferico che ora rivaleggiano con quelli dei centri città tradizionali. Ad esempio, nella regione di Atlanta, la costruzione di strade è stata bloccata dalla Agenzia di Protezione dell’Ambiente a causa del deterioramento nella qualità dell’aria, mentre la media degli spostamenti pendolari è ora di oltre 70 chilometri, 25 in più che a Los Angeles. Inoltre, le abitazioni stanno diventando estremamente costose mentre sono sempre più difficili da reperire lavoratori a basso reddito: e non sorprende, visto che le edge cities sono spesso malamente servite dal trasporto pubblico, e che le amministrazioni sono in ritardo nell’offerta di infrastrutture e servizi base. E un articolo sulla rivista Wired (1999) sostiene che per le imprese “ trovare uffici in quello che sarebbe altrimenti un centro commerciale vuoto lungo la strada, a chilometri di distanza dal centro urbano, non funziona più”.
I critici sottolineano anche il ruolo delle edge cities nell’accentuare l’iniquità sociale. I pochi afro-americani o latino-americani che abitano nei quartieri di edge city sono segregati per razza e reddito, e questi emergenti luoghi post-urbani sono costellati da comunità recintate ad alta sicurezza, governi ombra, limitazioni progettate per innalzare i valori immobiliari. Anche Garreau è obbligato a riconoscere che le edge cities spesso mancano di anima, di senso comunitario e storia: la loro vivibilità è messa in forse dalla penuria di “cultura alta”, vita di strada, diversità sociale che di solito si associano alla vita urbana civile. In effetti “la cosa più vicina a uno spazio pubblico che si può trovare – un posto dove chiunque può andare – è il piazzale del parcheggio”.
Negli anni più recenti, il fenomeno della edge city ha ricevuto attenzione pubblica da parte del mondo politico europeo, non ultima la Commissione Europea, come documentato dallo studio su quanto è stato definito European Edge Cities Network. È una rete originariamente proposta dal Croydon Borough Council già nel 1995 a seguito di una riunione a livello europeo di amministratori locali. Il network conta dieci municipalità partecipanti nell’Unione Europea. Significativo come lo studio citato sottolinei i caratteri diversi che può assumere il fenomeno della edge city nei differenti contesti politici nazionali e sovranazionali. Per esempio, l’emergere di Croydon come distretto finanziario a sud di Londra, ha meno a che fare con i liberi spostamenti dell’imprenditorialità indipendente, che con la cornice di pianificazione a Londra del periodo post-1960, in particolare nel decentramento delle attività economiche verso questa particolare località. Forse ancora più rivelatore, il fatto che l’amministrazione di Croydon usi l’etichetta di “ edge city” a sostenere la convinzione locale sul diritto della circoscrizione a diventare città: ma presumibilmente si tratterebbe del senso tradizionale della parola.
In più, a differenza delle classiche edge cities che costellano la regione sunbelt degli USA, caratterizzate da un ambiente politicamente immaturo, le entità simili nella rete della Unione Europea sembrano possedere culture politiche dinamiche, proprie storie e pratiche di decisione amministrativa. Il tutto porta gli studiosi a concludere che le edge cities di stile USA non hanno un esatto corrispondente in Europa. Si adotta invece il termine “ edge urban municipalities”, a cogliere l’esperienza europea. Questo lavoro offre quindi alcuni spunti di cautela, su quanto l’urbanizzazione edge “di frontiera” rappresenti un fenomeno globalmente contagioso dello sviluppo capitalistico nei primi anni del Ventunesimo Secolo.[...]
Nota: vista la relativa difficoltà di reperire i materiali sul ricchissimo e articolato sito della Vicepresidenza del Consiglio britannica, il PDF originale integrale di questo studio (con la bibliografia, e la parte parallela sulle gated communities) è scaricabile direttamente da Eddyburg con link qui sotto (f.b.)
Titolo originale Greyfield Regional Mall Study– Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini
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Introduzione
L’obiettivo dell’incarico di ricerca era di fornire al Congress for New Urbanism (CNU) uno white paper metodologicamente valido, indipendente, privo di pregiudizi, sulle caratteristiche immobiliari e demografiche delle “aree grigie” di centri commerciali regionali degli Stati Uniti al 1999. Studi successivi si possono focalizzare sulle strategie di ristrutturazione urbanistica per i siti degli ex centri commerciali e le necessarie iniziative in termini di politiche pubbliche che si richiedono per indirizzare queste idee nel quadro di una riforma regolamentare, a sostegno delle attività di recupero urbano in queste “zone grigie”.
Perché esistono, le zone grigie? Secondo le teorie sui cicli di vita, le proprietà immobiliari senza la necessaria manutenzione, rinnovamenti, e altri investimenti di capitale possono deprezzarsi a causa di obsolescenza funzionale. Alla fine, il valore totale di un centro commerciale zona grigia può essere semplicemente quello del terreno, meno le spese di demolizione delle vecchie strutture.
Un mall zona grigia tipo ha un’età di 32 anni, e ha subito l’ultima grossa espansione o rinnovamento circa 13 anni fa. In media i greyfields identificati hanno entro un raggio di otto chilometri 22 aree commerciali concorrenti, con complessivi 230.000 metri quadrati. Un’altra spiegazione logica dell’esistenza delle zone grigie sono i nuovi formati commerciali, in nuovi insediamenti, che hanno captato quote di mercato. In sintesi, ci sono tutta una serie di ragioni per cui i centri commerciali declinano: dai cambiamenti nella competenza all’interno dell’area, a quelli demografici, all’insufficiente capacità di gestione e comportamenti degli operatori commerciali affittuari.
Quadro 1: Cause per il possibile declino di un centro commerciale
Rassegna della letteratura tecnica
I paragrafi che seguono forniscono un breve resoconto della ricerca scientifica in materia di centri commerciali. La maggior parte degli articoli citati si concentrano sui regional malls, le teorie di localizzazione, le vendite, gli affitti, i profitti. Ciascun saggio è brevemente riassunto, concentrandosi sulle conclusioni dell’autore. A seguito della rassegna, riportiamo le conclusioni del presente studio sui greyfield malls.
In aggiunta a questi studi editi di carattere accademico, sono state scritte numerose storie sulla stampa popolare sul declino dei centri commerciali. Molte si focalizzano sugli sforzi intrapresi per rinnovare o ristrutturare centri in declino o già “zone grigie”.
Dati
Gi estensori del presente studio riconoscono i limiti dei dati disponibili sugli immobili commerciali. Ma sono comunque state applicate metodologie consolidate a quelli disponibili, per arrivare a dei risultati. In questo studio sono state usate le seguenti fonti:
Metodologia
Lo studio è stato suddiviso in due parti. La prima si concentra sulla descrizione del panorama commerciale attuale, con attenzione particolare ai malls regionali e super-regionali. La seconda parte dello studio valuta la quantità di potenziali “zone grigie”.
Utilizzando le informazioni del Cd-Rom National Research Bureau, edizione 2000, abbiamo riassunto un panorama nazionale commerciale, per tipologie di centro e superficie totale. Questa prima parte dello studio si è poi orientata esclusivamente ai malls regionali e super-regionali, che erano il centro focale della ricerca.
Si trattava di raccogliere informazioni si ciascun centro commerciale di scala regionale e oltre negli Stati Uniti. Lo Shopping Center Database del National Research Bureau (NRB) edizione 2000, indica che ci sono 2.847 centri di questo tipo negli USA. Di questi, circa 147 sono nelle fasi di progettazione o costruzione. Ne restano 2.700 da prendere in considerazione.
Si è condotta un’analisi aggiuntiva sul database NRB per costruire una lista di centri che comprendesse solo quelli regionali e super-regionali. I dati della pubblicazione SCORE, International Council for Shopping Centers (ICSC), indicano una media di 56 negozi nei malls regionali degli USA. Basandoci sulla media di 56, abbiamo eliminato tutti i casi del database con meno di 35 negozi. Questa eliminazione dai centri classificati regionali da NRB ha restituito un universo di 1.689 casi. C’erano anche, nel database NRB, 387 malls (classificati regionali o super-regionali) di cui non era disponibile il numero dei negozi. Dunque abbiamo stabilito una fascia di oscillazione, valutando il numero di centri regionali o super-regionali degli USA fra 1.689 e 2.076 (1.689 + 387). La seguente Tabella 2 riporta i tipi di dati rilevati per ciascun mall regionale.
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Risultati
[...] La Tabella 5 presenta sommari descrittivi relativi a “zone grigie”, centri a rischio, centri vitali, e infine centri commerciali in piena salute, da un campione di 698 malls.
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Conclusione
Questo studio stima che approssimativamente il 7% dei centri commerciali regionali siano “zone grigie”, con l’aggiunta di un 12% di malls a rischio di diventarlo nel futuro. Utilizzando i dati dell’impresa commerciale, le indagini degli investitori immobiliari, ed estese analisi statistiche, abbiamo rilevato significative differenze fra le varie categorie, principalmente fra zone grigie e centri vitali e in piena salute. Questo studio mostra anche che la maggioranza dei malls “zona grigia” sono collocati in zone a basso reddito, con case vecchie e a basso costo. Infine, riteniamo che la ristrutturazione di queste zone grigie in aree residenziali ad alta densità e a usi misti possa essere di beneficio ai malls regionali esistenti, vitali e in buona salute.
La ristrutturazione di immobili non è un concetto nuovo. Uffici sono convertiti in condomini, magazzini in laboratori di ricerca, vecchi depositi in zone centrali diventano appartamenti loft, e anche i grandi centri commerciali possono diventare zone a usi misti. Si possono già trovare esempi di greyfield malls in corso di riconversione in varie comunità locali di tutti gli Stati Uniti.
Questa indagine non vuole lanciare un allarme, né affermare che ci sia un pericolo immediato per i centri commerciali regionali ben localizzati e gestiti. Gli autori credono nella vitalità a lungo termine dei centri regionali, anche nell’epoca di internet e dello e-tailing. I consumatori sono esseri sociali, e dunque spazi del commercio come i malls regionali continueranno a servire i propri fini di divertimento, socialità, e consumi nel prevedibile futuro.
Ad ogni modo, crediamo che questo studio confermi la definizione e identificazione delle “zone grigie”. Gli autori auspicano ulteriori analisi del fenomeno, allo scopo di sviluppare le necessarie iniziative in termini di politiche pubbliche e risposte dell’impresa commerciale privata.
Nota: Il portato di questa analisi, del resto abbastanza coerentemente con il tono (se non la sostanza) delle conclusioni, è una risposta tecnica al momento di profilo piuttosto basso, ovvero la progettazione variamente siglata New Urbanism. Un tipo di progettazione che, buona volontà a parte, sembra del tutto inadeguata ai problemi posti da questa velocissima dismissione commerciale generatrice di “zone grigie” (fb).
Tappa a Serravalle Scrivia, in quello che viene considerato il più grande “Outlet” d’Europa, che sarebbe un posto dove le più importanti griffe, con il loro marchio ufficiale, si disfanno dell’invenduto.
Impressiona, al primo impatto, la soluzione urbanistica. Uno si aspetta un grande centro commerciale coperto come tanti ce ne sono - tipo ipermercato, per intendersi - e si trova invece in un paese nuovo di zecca, con strade e case sorte dal nulla, sulla statale che da Serravalle porta a Novi Ligure, tra le dolci colline che fanno da cornice allo Scrivia. Questo nuovissimo agglomerato urbano, è circondato da un immenso parcheggio (questo si, somigliante ai centri commerciali che conosciamo) nel quale si trova sempre posto per l’automobile.
Le costruzioni, in genere a due piani, sono d’impronta tipicamente ligure. Ed è logico. Non bisogna dimenticare che ambedue le cittadine, oggi in provincia di Alessandria, appartenevano storicamente a Genova. Sono case fatte con gusto, diverse tra loro, in schiere ininterrotte che si snodano sinuose, creando vie e piazze, tutte rigorosamente riservate ai pedoni. Diversi e appropriati i colori d’ognuna. Ogni costruzione – se non fosse per il “nuovo” quasi abbagliante, sembrerebbe trapiantata li da Portofino o da Lerici o da Rapallo o da Alassio o da una delle cento cittadine della riviera ligure. Ad una delle porte-piazze d’ingresso, chiamata Piazza Levante, una “Lanterna” ci ricorda il dominio genovese su queste terre.
Il piano terra di ognuna delle costruzioni, è interamente occupato da negozi di abbigliamento e di accessori. Tutte le principali case italiane ed anche parecchie estere, sono presenti. Non disdegnano neanche Bulgari o la Villeroy e Boch. Vi sono anche un ristorante, una pizzeria, alcuni bar. Vi sono centoventi negozi, alcuni anche piuttosto grandi, uno attaccato all’altro. Al primo piano, finestre con i gerani, balconi, loggiati. L’idea dovrebbe essere quella di far credere che qualcuno vi abita, ma tutto è troppo ordinato, troppo preciso perché sia così.
Passata la prima impressione di ammirazione, comincio a vedere questo villaggio come uno di quelli costruiti per girare un film western, qualcosa di posticcio, di artificioso, di falso, insomma. Mia moglie dice che sbaglio. “Pensi siano meglio quegli squallidi mega prefabbricati di tipo industriale, come Auchan, Panorama, Ipercoop, Esselunga?” mi chiede. No, ma sono più onesti, ribatto, ché ormai devo tenere il punto. Questa Disneyland dell’abbigliamento è molto più subdola, vuol far credere di essere quello che non è. E questa storia dell’outlet, è un bello specchietto per le allodole, un modo come un altro per vendere.
La discussione potrebbe continuare all’infinito, ma ormai sono le otto di sera, mia moglie ha visto tutto quel che voleva (la fermata è a suo beneficio) i negozi cominciano a chiudere, tra poco – e fino a domattina - questa diventerà una città fantasma. “Mangiamo qualcosa qui prima che chiudano?” mi chiede lei. No dico, stanno per attuare il coprifuoco, andiamo a Novi, che è una città vera, in un locale vero, a mangiare una pizza vera. Così facciamo, finalmente d’accordo.
Fonte: http://www.medusina.com/talk/1060041498,66958,.shtml
Titolo originale: Taking a Lesson in Math to Limit Urban Sprawl – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
L’ordine in cui si svolgono le operazioni, conta. In matematica, sappiamo che la soluzione giusta a una serie di espressioni numeriche dipende, ad esempio, dall’eseguire la moltiplicazione prima della sottrazione. Ribaltate quest’ordine, e avrete una risposta sbagliata e un sacco di tempo sprecato. Nelle faccende dello sviluppo urbano, la situazione è analoga. Ma nel mondo reale non è possibile semplicemente cancellare la risposta se si è sbagliato l’ordine delle operazioni.
L’attuale senso comune urbanistico ritiene che sostenere misure come le metropolitane leggere o la rivitalizzazione del centro stimolerà un insediamento più denso nei pressi delle stazioni, e aumenti di densità locale altrove, riducendo quindi lo sprawl, l’uso dell’auto, e l’inquinamento e congestione relativi. Un altro tipo di intervento visto con favore, in particolare nell’Ovest, sono i margini allo sviluppo urbano [UGB/Urban Growth Boundary] a cui talvolta ci si riferisce eufemisticamente chiamandoli greenbelt. Nello stesso tempo, si attuano dozzine di altri interventi che di fatto aumentano lo sprawl. Ma aggredire una componente dell’insediamento urbano senza considerarne le cause può portare a scarsi risultati, e a conseguenze indesiderate.
Pensiamo che i margini allo sviluppo urbano non conservano davvero gli spazi aperti, ma spostano l’insediamento verso altre aree, e restringendo le zone edificabili in area urbana, si genera un’artificiale inflazione dei prezzi delle case. Ancora peggio, l’urbanizzazione spesso si sposta a salti (leapfrog: un termine amato dagli urbanisti) ancora più verso l’esterno, verso spazi aperti remoti. Le metropolitane leggere entrano in competizione, in molti casi, con i percorsi degli autobus, e in molte città del paese hanno fatto poco per risolvere la congestione da traffico. Nonostante le migliori intenzioni, ci sono chiare ragioni per cui questa duplice strategia non funziona.
Esistono una serie di azioni che contribuiscono allo sprawl delle regioni urbane, come le politiche di zoning, le decisioni economiche di uso dello spazio da parte delle municipalità, il basso e inadeguato valore economico conferito alle infrastrutture e risorse naturali, un tipo di sviluppo economico sul modello di impresa da parte di alcune amministrazioni suburbane, la scarsa scelta in fatto di scuole. Senza affrontare prima queste fondamentali carenze di programmazione nelle regioni urbane, costruire grandi e luccicanti nuove infrastrutture, o tracciare linee arbitrarie attorno alle città, probabilmente avrà pochi effetti positivi.
Un ordine migliore delle operazioni, è quello che segue. Primo, conservare gli spazi aperti nelle aree più remote e incontaminate, dove al momento c’è poc
a pressione insediativa. I terreni sono a buon mercato e ci sarà meno conflittualità politica. Secondo, iniziare a dare un prezzo a infrastrutture come strade, reti idriche/fogne e altri “servizi pubblici” a seconda dell’uso. Terzo, smetterla di utilizzare le scelte di uso dello spazio per gonfiare le casse pubbliche, e smettere di compiacere gli attivisti NIMBY che vogliono limitare gli insediamenti innovativi ad alta densità. Quarto, eliminare gli ostacoli alla vita urbana e nei centri, riducendo la criminalità, offrendo possibilità di scelta delle scuole, bonificando le zone industriali contaminate note come brownfields. Consentire al mercato di rispondere a queste nuove scelte e condizioni, probabilmente creerà regioni urbane più compatte, come auspicato da pianificatori e ambientalisti. Infine, consentire alle compagnie private di trasporto collettivo di offrire servizi adeguati alle forme emergenti dello spazio urbano.
Il senso comune attuale ritiene che l’ordine in cui si svolgono le operazioni non conta, e che tracciando i limiti di sviluppo urbano, costruendo sistemi di trasporto pubblico in sede fissa, promuovendo l’urbanizzazione ad alta densità vicino alle stazioni, si rifarà la forma delle regioni metropolitane d’America, con grandi benefici ambientali. Si dice, che la riforma dello zoning potrà essere fatta poi, che applicare un prezzo alle infrastrutture non è un prerequisito per il mutamento della forma urbana. Si dice, che lo sviluppo economico locale è di fatto sempre desiderabile. Sfortunatamente, questo senso comune ignora le forze economiche che sottostanno al processo di urbanizzazione, e semplicemente mette da parte gli effetti dannosi indesiderati di queste strategie sull’ambiente, sui proprietari di case, i pendolari, i contribuenti. Agendo senza un ordine preciso, rischiamo di spendere molte risorse pubbliche con scarsi risultati, e conseguenze impreviste. Se strade, macchine, insediamenti a bassa densità non pagano i costi connessi al proprio uso dello spazio, trasporti pubblici e alte densità avranno difficoltà a competere, e qualunque sovvenzione sarà invano. Se non si cambiano lo zoning euclideo e le sue norme creatrici di sprawl, che possibilità ci sono di competere, su larga scala, per gli insediamenti compatti o di tipo new urbanist? Saranno al massimo l’eccezione in un mare di insediamento tradizionale, e con molti dei progetti realizzati a richiedere investimenti pubblici per essere ultimati.
Senza un cambio di rotta fondamentale da parte dei governi e delle amministrazioni locali, per affrontare le politiche che aggravano lo sprawl, il solo costruire metropolitane leggere e sovvenzionare alcuni progetti non avrà grandi effetti sui modi della crescita urbana o sulla tutela ambientale. Impariamo dalla matematica: si usa l’ordine giusto, e nel modo giusto si alleviano gli effetti negativi dello sprawl.
Nota: il testo originale naturalmente al sito Planetizen (f.b.)
La “morte” dei centri commerciali, come abbiamo già visto in parecchi dei contributi presentati, è ormai vista come fatto fisiologico, comunemente accettato, con cui le comunità devono in qualche modo imparare a convivere. Resta naturalmente aperto il problema ambientale e sociale di questi vuoti, che nello stesso modo di quelli militari, ferroviari, industriali, rappresentano una vera piaga, che trascina nel proprio declino la comunità e il territorio nel suo insieme. Il testo che segue si limita (a mio parere) a sfiorare il problema, anche se non ne disconosce esplicitamente la complessità. Non a caso, si deve alla corrente culturale cosiddetta New Urbanism, che come il concetto parallelo di smart growth spesso nasconde approcci ideologici, o di comodo, o un marchio come un altro per riverniciare di nuovo pratiche professionali per nulla innovative. Resta naturalmente l’interesse che suscita (oltre l’incomprensibile, o forse comprensibilissimo, fatalismo di fondo) il fatto di affrontare la questione a scala nazionale, identificando piaccia o meno un problema che va oltre qualunque logica di “progetto”, richiamando ad altre, più mature riflessioni di carattere sia disciplinare che sociale. Questioni naturalmente colte quando ad affrontarle c’è in un ruolo centrale la pubblica amministrazione: non certo progettisti che, per quanto bene intenzionati, sono pur sempre “operatori commerciali” tanto quanto i negozi in crisi che vogliono rivitalizzare. (fb)
Titolo originale Greyfields into Goldfields: from Failing Shopping Centers to Great Neighborhoods – traduzione di Fabrizio Bottini
I centri commerciali in crisi: un problema nazionale
I centri commerciali obsolescenti punteggiano il panorama urbano d’America. Per trovarli non ci vuole un’abilità particolare. Un parcheggio recintato ne tradisce la presenza. Le vendite di auto usate nel fine settimana sono un forte indizio. Le vetrine dei negozi trasformate in centri di attivismo politico comunitario e ambulatori, sono chiari segnali. Proprietari immobiliari, affittuari e investitori sono consapevoli del proprio declino. I vicini, ex commercianti, ex dipendenti, lo sanno. Chi governa la città, i rappresentanti dei cittadini, lo sanno. Ma non è che, semplicemente conoscendo il problema, conoscano anche la soluzione.
Il Congress for the New Urbanism (CNU) vede molti di questi centri commerciali come luoghi ideali per insediamenti a usi misti, orientati ad una mobilità servita dal trasporto pubblico. Alcuni di essi non sono più adatti alla distribuzione commerciale a scala regionale. Ma molti sono ben dotati delle caratteristiche di un sito a insediamento new urbanist, che comprenda abitazioni, commercio, uffici, servizi, spazi pubblici.
Will Fleissig, un costruttore della Continuum Partners di Denver, di recente ha riconvgertitio la “zona grigia” del centro commerciale Villa Italia di Lakewood, Colorado. Fleissig afferma: “Sentiamo tanto parlare di edificazione nelle zone già urbanizzate ( infill n.d.t.), di smart growth, sobborghi di prima fascia, insediamenti orientati a trasporto pubblico, e di sprawl. Se guardate ad un quadro più ampio, si tratta della principale questione d’America, oggi. Abbiamo bisogno di costruire quartieri migliori dentro le città, vicino ai mezzi di trasporto pubblici. Queste “zone grigie” sono la prima ondata di una grande quantità di terreni disponibili nelle comunità esistenti, vicino ai trasporti, dotati di servizi, con un potenziale per maggior densità”.
In questa relazione si usa il termine “zone grigie” ( greyfields n.d.t.) per descrivere aree commerciali che necessitano di un significativo intervento pubblico e privato per arrestare il declino. Più noti sono i brownfields (siti urbani contaminati) e i greenfields (aree rurali inedificate). Al contrario, le zone grigie sono aree edificate, fisicamente ed economicamente mature per importanti ristrutturazioni.
In mancanza di positivi interventi di rivitalizzazione, il valore dei centri commerciali “zona grigia” si riduce a quello del suolo, meno quello di demolizione degli edifici. Ci sono siti che hanno già raggiunto questo stadio, con gravi ripercussioni sull’economia e sulla comunità, in tutto il paese. Per una comunità locale, una zona grigia è più di un’immagine di degrado. Significa una perdita di base fiscale, perdita di opportunità di lavoro, aree di valore inutilizzate. La serietà dei danni di questo degrado è stata messa in luce quando il Daily Camera di Boulder, Colorado, ha votato la propria “storia dell’anno” per il 2000: il declino del Crossroads Mall. Gli sforzi in sede locale per rivitalizzare zone commerciali deboli o in decadenza sono piuttosto frequenti. Alcuni hanno avuto successo, altri no. Il CNU sta conducendo un’analisi a livello nazionale su come rivitalizzare queste aree, così che possano fornire risorse a comunità e proprietari. L’obiettivo, detto in poche parole, è quello di trasformare le zone grigie in miniere d’oro ( greyfields into goldfields n.d.t.).
Il New Urbanism e i centri commerciali
Il Congress for New Urbanism ha da molto tempo un interesse particolare per i centri commerciali “zone grigie”.
Dal 1989 al 1996, i new urbanists hanno contribuito a fare del centro Minzer Park di Boca Raton, Florida, da lungo tempo in decadenza, un insediamento a usi misti finanziariamente riuscito. A metà anni Novanta, un altro gruppo new urbanist ha redatto un piano per lo Eastgate Mall di Chattanooga, Tennessee. Ora è in corso di realizzazione, ed è diventato una delle cose di cui gli abitanti di Chattanooga sono più orgogliosi.
Lo scorso anno, altri centri commerciali regionali in tutto il paese hanno visto operare il new urbanism: Cinderella City a Englewood, Colorado; Plaza Pasadena a Pasadena, California; Town & Country a San Jose, California. Altri casi in cui si sono considerate le suggestioni new urbanism sono il Parole Plaza nei pressi di Annapolis, Maryland; Bannister Mall a Kansas City, Missouri; South Square Mall a Durham, North Carolina.
Altri attendono. La PricewaterhouseCoopers (PWC) stima per difetto che ci siano almeno 140 centri commerciali di scala regionale negli Stati Uniti, che sono già “zone grigie”, e altri 200-250 che si stanno avvicinando a questa condizione. Nel complesso, queste due categorie rappresentano il 18% di tutti i centri commerciali regionali a scala nazionale.
Lo Studio
Il CNU ha cominciato il suo studio dei centri commerciali “zone grigie” all’inizio del 2000. L’indagine contava su vari contributi:
Lo studio PWC si concentra sui centri commerciali regionali, e non prende in considerazione i molti altri tipi di proprietà commerciali che pongono problemi simili di ristrutturazione. La CNU si focalizza sulla scala regionale perché questi siti – con almeno 35.000 metri quadrati di spazio commerciale affittabile e un minimo di 35 negozi – hanno effetti particolarmente gravi quando entrano in declino, offrendo contemporaneamente una particolarissima opportunità per il riuso.
Caratteristiche delle “zone grigie”
Le caratteristiche dei centri commerciali in crisi citati qui si basano sui dati delle analisi PWC. La PWC ha calcolato che le zone grigie hanno una dimensione media di poco più di 20 ettari. In particolare, questi siti sono sia più piccoli che meno collegati ai sistemi di trasporto regionali, di quelli che ospitano i centri commerciali di maggior successo della nazione, che hanno dimensione media di oltre 35 ettari, visibilità dall’autostrada e accesso diretto dalla rampa d’uscita. Molte zone grigie sono localizzate entro quartieri e zone commerciali consolidate. Will Fleissig, un costruttore che recentemente ha riconvertito un greyfield in Colorado a centro città a usi misti, afferma: “Questi centri commerciali tendono a stare su arterie suburbane con servizio di autobus. Molti sono già stazioni di interscambio di autobus”.
La PWC ha rilevato che l’obsolescenza dei centri commerciali è connessa al formidabile livello di concorrenza. In media, i centri in crisi hanno 230.000 metri quadrati di spazio commerciale in competizione in 22 altri centri (compresi quelli di quartiere e urbani, oltre ad altri malls regionali) nel raggio di otto chilometri. Molti stanno dentro bacini commerciali dominati da formati più recenti e operatori di maggiori dimensioni. Sono spesso più vecchi e piccoli di quelli di maggior successo nella regione.
Mark Eppli, un ricercatore in campo commerciale alla George Washington University di Washington, D.C., afferma che le forme di rinnovamento convenzionali non sono sufficienti a dare una boccata di nuova vita per molti insediamenti: “Una plastica facciale non aiuta gran che. Anche un nuovo negozio anchor, a seconda della posizione di mercato del centro, può non servire”.
C’è bisogno di nuovi modelli di riuso: modelli che vadano oltre la plastica facciale e il tradizionale commercio regionale.
Modelli di riuso
Se i classici centri commerciali “zona grigia” sono ormai inadeguati agli standards attuali, essi generalmente offrono la superficie necessaria per creare progetti insediativi integrati, utilizzando i principi del new urbanism. In quanto localizzazioni commerciali, questi siti possono soffrire l’eccessiva distanza dalle autostrade. Ma una posizione del genere può essere vantaggiosa in un riuso new urbanism. Offre la possibilità di integrare le varie attività entro un contesto di quartiere.
Victor Dover, un architetto che ha lavorato in parecchie rivitalizzazioni new urbanism di centri commerciali, dice che questo approccio spesso è la soluzione migliore. “Qualche volta il centro commerciale va in crisi perché ha perso la propria ragion d’essere economica. Ma quasi ogni comunità ha dei bisogni. Smettiamo di pensare a questi siti come a zone commerciali fallite, e iniziamo a considerarli aree a potenziali usi misti”.
Le comunità lungimiranti, in presenza di zone grigie, stanno costruendo e sperimentando nuovi modelli di riuso. Modelli di cui ci sarà necessità urgente, visto che la dismissione dei centri commerciali è una tendenza in crescita: PWC identifica oltre 200 malls possibili candidati “zona grigia”. Se molti altri centri commerciali ben gestiti prosperano, altri non sfuggiranno all’obsolescenza. Le zone grigie saranno un problema costante, strettamente legato alla pratica contemporanea dell’insediamento commerciale per malls. Con l’emergere di nuove tendenze, e lo spostamento “verso l’alto” dei nuovi insediamenti, i siti più vulnerabili sono spinti al declino. Il rinnovamento riuscito di un centro commerciale può causare la crisi di molti altri, più vecchi, entro il bacino di utenza.
I proprietari di malls hanno tentato molte tecniche di rivitalizzazione della vivacità economica dei loro immobili. La maggior parte dei centri, semplicemente, si espande, si ridecora, attira un nuovo negozio anchor. Alcuni centri commerciali si sono convertiti a uffici secondari, o centri di elaborazione dati. In questi casi, la comunità ospite ha perso la funzione civica precedentemente offerta dal mall. Più importante, né l’ampliamento né la conversione in uffici sfociano nel fornire l’area di una combinazione di residenza, commercio, terziario, e spazi pubblici che i cittadini e i loro rappresentanti desiderano.
I principi per creare ambienti new urbanism comprendono:
Ulteriori approfondimenti
Il CNU sta continuando i propri studi e ricerche sulle “zone grigie”. Continueremo a sollecitare la partecipazione sia di esperti che di operatori del settore, a migliorare la qualità e importanza del nostro lavoro. La CNU è l’unica organizzazione finalizzata al miglioramento dei centri commerciali decaduti, sia dal punto di vista finanziario, sia per la loro capacità di perseguire più ampi fini sociali.
La prossima pubblicazione del CNU sul tema sarà un catalogo di esperimenti riusciti di rivitalizzazione new urbanist. Continueremo anche i nostri sforzi per analizzare le cause del declino dei malls, e dei catalizzatori di rivitalizzazione.
(Una breve rassegna di principi generali)
Il New Urbanism per le zone grigie: i siti dei centri commerciali abbandonati aiutano a invertire la tendenza allo sprawl urbano
Nota: seguirà, quanto prima su Eddyburg/Megalopoli, l'intero studio a scala nazionale ampiamente citato sopra (fb)
La storia commercial-territoriale che andiamo qui a raccontare, comincia nella periferia industriale bresciana. O, meglio, nel vicino Portogallo.
Portogallo che – abbastanza ovviamente se ci si pensa un secondo – non è abitato solo da seriose donne contadine vagamente baffute, o ridenti pescatori con berretto da tonno nostromo, ma anche da modernissimi managers rampanti, tali e quali a quelli che da noi, in tutta Europa e Stati Uniti, svolazzano da un moquettato ufficio all’altro, decidendo in anglofono specialistico iniziatico gergo i destini dello sviluppo, globale o locale fa lo stesso. Managers come quelli della Sonae.
Come possiamo leggere sul sito http://www.sonae.pt, Sonae nasce nel 1959 a Maia, in Portogallo, come impresa specializzata nelle lamine di legno ornamentali, sviluppandosi poi per circa vent’anni sempre nel campo dei prodotti derivati dal legno. Con gli anni Ottanta e l’entrata del Portogallo nella Comunità economica europea, le attività di impresa cominciano a diversificarsi, con l’acquisizione di una catena di supermercati, il lancio del primo ipermercato portoghese, e la creazione del ramo specializzato immobiliare finalizzato alla realizzazione di Shopping Centers. Contemporaneamente, l’impresa entra anche nei campi della comunicazione, delle tecnologie dell’informazione, delle attività per il tempo libero e turismo. Da successive espansioni internazionali e riorganizzazioni, nasce la holding Sonae Investimentos, interamente dedicata al moderno commercio, e separata dalle altre attività industriali. Gli shopping centres interessano Portogallo, Brasile, Spagna, Grecia, Germania, Italia, Austria.
L’immagine dell’impresa, in generale e in particolare nel campo dei “centri commerciali integrati” (che offrono una gamma di servizi più ampia del solo commercio) punta molto sull’idea di sviluppo ambientale sostenibile, che informerebbe di sé le politiche industriali e di mercato. Leggiamo a questo proposito: “il management ambientale è una delle priorità di impresa, e un fattore chiave”. Nel 2001 il gruppo ha pubblicato un pamphlet che delinea la sua “politica ambientale”, distribuisce ai propri dipendenti il periodico Eco-Noticias, e edita periodicamente un Environmental Report. La seconda edizione del Rapporto, quella attuale, sottolinea come sia ora che in misura
maggiore per il futuro “non intendiamo focalizzarci solo sui risultati della Sonae in campo economico e ambientale, ma anche sui progressi in campo sociale, dimostrando il nostro impegno per un progresso continuo verso la Sostenibilità Ambientale”. In effetti, scorrendo affermazioni e cifre, emerge interesse e impegno in ambiti come le emissioni, il trattamento dei rifiuti, la qualità dei prodotti e processi, l’impatto sul paesaggio, e molti altri temi di interesse per l’ambiente alle varie scale. Se si considerano tutte le azioni complesse che comporta la individuazione, progettazione, realizzazione, gestione e sviluppo di un grande centro commerciale integrato, non si può negare che nel Rapporto, anche solo considerando la parte della Sonae Immobiliare (altri spunti interessanti emergono dal resto delle attività), c’è ampio spazio per i temi ambientali in senso lato.
Rassicurante, per esempio, nel caso di un sito in un’area dismessa delle nostre città o cinture metropolitane. Ferme restando, naturalmente, le ovvie attenzioni all’ambiente inteso come sistema locale, fatto anche da cose come la infrastrutturazione, i flussi, insomma tutto quanto non si può ridurre e ricondurre ai compiti specifici dell’impresa, ma che con la sua logica si incrocia eccome.
E nel primo scorcio del terzo millennio, i destini della Sonae nel suo girovagare tra Europa e Sud America, incrociano quelli della nostra Brescia: un tempo industriale, ancora in gran parte tale, ma alle prese con una complessa e strategica trasformazione urbana e metropolitana, verso un uso del territorio tra l’altro più attento, proprio, alla questione del recupero ambientale. L’occasione è un’area dismessa abbastanza tipica per le nostre città italiane: a ridosso del centro storico, degradata, ma squisito bocconcino per chi volesse e potesse investirci in operazioni di redevelopment nel segno del commercio, terziario, e vari altri usi più lucrosi delle obsolete e fuligginose ciminiere. Siamo nel “comparto Milano” della città, noto alle cronache per i veleni che la vicina Caffaro ha sparso in tutta la provincia per generazioni, e l’area è quella già occupata dagli impianti Atb, definita dal crocicchio fra le vie Italia (una parallela ai viali di circonvallazione del centro storico) e Cassala (una radiale che dalla stessa cerchia taglia le linee ferroviarie e immette nel sistema di circonvallazione e tangenziale sud), pochi minuti a piedi a ovest della stazione. Si tratta quindi di una operazione di recupero piuttosto delicata, per la città come per gli investitori, ma ghiotta: 44 milioni di Euro investiti solo per l’acquisto dell’area, per un totale di 52 mila metri quadrati destinato a contenere commercio, uffici, intrattenimento, servizi per la città come la sede del Museo dell’Industria, per un totale di 100 milioni di Euro fra area e rinnovo. Il Giornale di Brescia ci informa tra l’altro che “la più contenta sembra la Signora Maria ... di vedere come un pezzo di città che se ne va via, giorno dopo giorno” portandosi appresso fumi, o angoli magari pericolosi e bui (Gianni Bonfadini, Bisider-Atb, le macerie e il futuro, 7.8.2002). Mai contenta, la probabilmente inventata signora Maria, quanto gli ambientalisti-capitalisti della multinazionale portoghese e della sua consociata italiana. Fermi restando i soliti dubbi dei soliti scettici, sul fatto che insieme ai fumi se ne vadano via per esempio anche cose come i contratti collettivi, pare che il passo a cui partecipa la Sonae sia decisamente in avanti. Si recupera alla città un’area strategica sinora buco nero, a ridosso della ferrovia e a snodo fra la città intermedia e la prima fascia periferica, e la si può destinare ad attività “centrali” in senso lato, ovvero non generico terziario da palazzoni per uffici in affitto, ma usi più complessi ed articolati. Resta da vedere il risultato concreto, ovviamente, ma ci sono ottime premesse di riuscita, e le garanzie offerte dall’operatore, di un approccio ambientalmente / socialmente sostenibile, sembrano rispettate (grazie, presumibilmente, all’elevata capacità di interazione tecnica e politica dell’ente locale interessato).
Come si diceva all’inizio, Brescia pedemontana è solo la tappa introduttiva della storia iniziata in Portogallo e ramificata qui. Il mondo è piccolo, figuriamoci la Lombardia vista da uno staff manageriale multinazionale. Per capirlo anche in mancanza di elicottero, basta imboccare una delle due vie che tagliano l’area industriale dismessa: viale Cassala. La strada, con l’andamento a grande curva regolare tipico delle zone industriali disegnate su tracciati e scambi ferroviari, scorre fra i muraglioni delle zone ex siderurgiche e le “sironiane” torri degli acquedotti. Poi attraversa un passaggio a livello infilandosi nel sistema di uscita meridionale da Brescia, che nel giro di qualche centinaio di metri prende il nome di via Orzinuovi, e oltre i confini comunali di provinciale 235. Raggiunta Orzinuovi dopo qualche decina di chilometri fra paesi, semafori fra il bar e il sagrato, e case sempre più rade, si incrocia un’altra 235, la Statale che lungo un grande arco percorre tutta la media pianura lombarda: dall’asse della Brescia-Goito-Mantova a Montichiari, attraverso i raccordi tangenziali di Crema e Lodi, a Pavia. Sembra un giro piuttosto lungo, ma basta provarci per scoprire che non è affatto così, e la “distanza”, come quella dell’ex zona industriale dal centro di Brescia, è soprattutto mentale: una bazzecola, per chi opera a tutto campo.
Bruce Springsteen liquiderebbe il tutto con un: the highway is alive tonight, where it’s headed, everybody knows. In effetti, anche contando semafori, traffico di piccolo cabotaggio, cantieri vari, a velocità media ci vuole circa un’ora e mezza per andare dall’ombra delle torri d’acquedotto dismesse bresciane, attraverso la pianura irrigua, fino all’incrocio per la Becca nella periferia orientale pavese, dove la 235 finisce nell’anello della tangenziale Est. Logica vorrebbe che il grande semianello, dopo aver attraversato la media pianura lombarda, girasse tutto intorno a Pavia per risalire poi, Parco Ticino permettendo, verso l’asse della Padana Superiore, ma al momento la tangenziale pavese si interrompe davanti a un grande spazio verde. Certo, il piano regolatore prevede da tempo la chiusura dell’anello attorno al capoluogo, e a ben guardare i cantieri sono già aperti e segnano una larga striscia di terra smossa che prosegue tra i campi: ma a sinistra e a destra c’è sempre e solo verde, campagna, spazio aperto. Qui dove ci siamo idealmente fermati, in territorio di Pavia e lungo la statale Vigentina per Milano, questa bella campagna si chiama parco della Vernavola, dal nome del torrente che lo attraversa. Più a nord il cuneo verde si allarga e si articola, e si chiama Parco Visconteo. E proprio al centro di questo
parco, nei terreni quasi affacciati sul nuovo tracciato della tangenziale di Pavia, c’è l’altra faccia della medaglia dell’iniziativa multinazionale e multiprovinciale Sonae, che ci eravamo lasciati alle spalle cento chilometri fa con il fiore all’occhiello del redevelopment bresciano a fianco della ferrovia: il progetto di un altro, e ben altro, Centro Commerciale Integrato.
Il celeberrimo complesso monumentale della Certosa di Pavia, famoso anche per aver dato il nome ai formaggi freschi prodotti negli stabilimenti lì vicino, ha la particolarità di non stare a Pavia, come farebbe pensare il nome. Si trova infatti nel territorio comunale omonimo, di Certosa, ed è l’estremità settentrionale di un insieme naturalistico e insediativo complesso, voluto e realizzato nei secoli dalla famiglia Visconti e per un lungo periodo anche recintato con una muraglia di 22 chilometri, dotata di porte come una vera e propria città fortificata. Solo, all’interno non c’erano palazzi e popolo, ma una grande riserva di caccia, con annessi alcuni stabili “di servizio”. Ora, il cosiddetto Parco Visconteo è uno dei punti più qualificati, se non il più suggestivo e prezioso, di una grande fascia verde più o meno continua che dai margini meridionali dell’area metropolitana milanese scende sino a lambire i margini del centro storico di Pavia, e quindi il parco del Ticino.
A differenza del parco urbano pavese della Vernavola, per esempio, il parco Visconteo “non esiste” se non nelle intenzioni di alcuni entusiasti, o nei progetti di riqualificazione annunciati dall’amministrazione provinciale, come quello di un Piano Paesistico, attuativo delle linee generali stabilite dal Piano Territoriale di Coordinamento. Il piano, si legge nel sito Metropolisinfo.it, “sarà pronto entro l’anno ... e serve ad evitare che possano sorgere strutture in contrasto con l’importanza storica del territorio”. Un territorio che comprende, ricapitolando, i comuni di Pavia a sud, Certosa all’angolo settentrionale ovest, San Genesio a quello est, e proprio al centro, fra il Naviglio e il tracciato della ferrovia, Borgarello. Proprio qui, a partire dal 2000 si sono sviluppati rapporti fra l’amministrazione comunale e la Gestione Sviluppo Commerciale di Bergamo, rappresentante italiana della portoghese Sonae, per un centro integrato che, su una superficie di 200.000 (duecentomila) metri quadri, offra un insieme di servizi commerciali, terziari, di intrattenimento, culturali. Il che, da un certo punto di vista non fa una piega, perché se ci guardiamo intorno, anche qui nelle brume tra fantasmi viscontei, cosa vuole la società? La risposta mi pare innegabile: accesso ai servizi, anche di tipo commerciale. Naturalmente qualcuno pensa che non si possa risolvere tutto con cattedrali più o meno moderniste, sparpagliate a casaccio, che crollano sulla testa della storia insediativa locale. A volte è la soluzione più semplice, e molti la accettano o la subiscono (come si vede dalle folle che si accodano ogni week-end). Ce ne sono altre? Certamente si, ma forse non si trovano nell’atteggiamento che Peter Hall chiama BANANA ( Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything), o nella proposta localistica magari in buona fede, della conservazione tout court di un sistema commerciale e servizi pensato molti anni fa per un contesto completamente diverso di bisogni, mobilità, opportunità di scelta. Quindi, occorre se non altro descrivere il campo di gioco, in cui si muovono gli attori di questa partita.
Borgarello è, praticamente e come già capivano i Visconti con la loro riserva di caccia, Pavia. Non solo, ma se lo si inserisce in un quadro più ampio si tratta anche dell’ultimo tratto della discontinua greenbelt agricolo/paesistica che dalle ultime sfrangiature dell’insediamento compatto di Milano qui arriva alle porte di Pavia, sempre più schiacciata nella convergenza (ovvia, su un capoluogo) delle grandi linee di comunicazione territoriale, ma mantenuta non solo visivamente in esistenza dai cunei verdi che arrivano fino alla prima cerchia di circonvallazione urbana. E non si tratta di modellistica astratta, ma del ragionamento primordiale di qualunque pianificazione urbanistica, o meglio di buon senso residuo, che dal Frederick Law Olmsted del Central Park di New York o della Emerald Necklace di Boston, attraverso la cultura del landscape planning anglosassone, abbiamo come al solito re-importato sotto mentite spoglie.
Uno dei cunei verdi, in questo caso specifico, è quello che contiene il piccolo insediamento di Borgarello. Il paese sta ora separato e risparmiato dai grandi flussi regionali di attraversamento, chiuso com’è a ovest dal corso d’acqua del Naviglio che costeggia la Statale 35 dei Giovi, con un unico accesso da un ponte che immette quasi direttamente sia in centro storico che nelle (proporzionalmente vistosissime) aree orientali di nuova espansione residenziale a villette, su uno schema a scacchiera monotono e artificioso (che anticipa le bellezze di una certa “modernizzazione”). A est, il territorio comunale è ulteriormente delimitato dalla linea ferroviaria Milano-Pavia, superabile con cavalcavia in corrispondenza del confine comunale a nord con Certosa (proprio di fianco alla recinzione del complesso monumentale), o con passaggio a livello nei pressi del cimitero, qualche centinaio di metri a est del centro storico.
Come già detto, il problema di qualunque sviluppo edilizio, qui, è quello da un lato di interrompere la continuità della rete di spazi aperti, e in più nel caso specifico di un “centro integrato” di scala regionale, quello di inserire un enorme attrattore di flussi che creerebbero la base alla domanda di ulteriori stravolgimenti nel sistema di accessi: quindi una reazione a catena tale da rendere quasi automatica l’abolizione - salvo residui visuali di testimonianza - dell’ambiente attuale e del sistema insediativo campi/irrigazione/viabilità secondaria. A ben vedere, un articolo dell’urbanista Giuseppe Boatti sulla Provincia Pavese del 4 ottobre scorso (“Quel che resta della Certosa”), non suona neppure troppo polemico quando osserva che il Sindaco di Borgarello vede: “La città futura fatta ... da mattoni, cemento, asfalto e metri cubi e quadri. E l’interesse comunitario finisce dove terminano i confini del proprio comune. Oltre? Ognuno per sé e Dio ce la mandi buona”. Perché la questione, qui, non sembra quella del “fare” o “non fare”, come posta nella solita prospettiva dei modernizzatori a senso unico, ma del “dove fare cosa, e per chi”. E forse vale davvero la pena di concentrarsi su quel “chi”, pensando a quanti giovani, casalinghe, pensionati, legittimamente auspicano una maggiore offerta di spazi per i servizi, il commercio, la cultura, l’intrattenimento. Basta vederli, in un giorno qualunque per non parlare del fine settimana, mentre si affollano accodati sulle strade grandi e piccole che qui percorrono il territorio su e giù. Ma, secondo i Comitati che si oppongono al Centro di Borgarello, hanno già un sacco di posti dove andare, in un raggio piccolo e medio. Sarà vero? L’unico modo per scoprirlo, come al solito, è quello di seguirli.
Quello che chiunque, nella trasferta da Brescia attraverso l’arco della Statale 235, può vedere, è che con l’eccezione di qualche angolo sull’Oglio o casuale scorcio, qui la campagna è soprattutto un ricordo: al massimo si vede “il cuore verde della Megalopoli”, come l’ha definito
Eugenio Turri. E puntualmente, a tutti gli incroci, nodi, tangenzialine, dove il grande arco incrocia le direttrici verso la linea del Po, spuntano lontano o vicino le guglie e pinnacoli plastificati dei centri più o meno complessi che offrono benzina, tonno, pannolini, cinema, danze e soprattutto grandi parcheggi. Ce n’è uno, piuttosto vistoso e ingombrante, proprio fra le tangenziali di Lodi e Pavia, in corrispondenza del casello autostradale dell’A1, di cui è naturalmente “parassita”, e che provoca ingorghi a non finire. Ma anche più vicino a Borgarello non scarseggia certamente, questo tipo di merce.
Per capirlo meglio, l’ambiente in cui si posano queste astronavi della grande distribuzione, niente meglio di un percorso abbastanza lineare di pochi chilometri, a partire dalla linea della “strada Cerca” (nome tradizionale ancora usato in alcuni tratti), che col nome ufficiale di Provinciale 40 Melegnano-Binasco taglia la fascia del Parco Sud quasi esattamente lungo la discriminante fra zone urbanizzate con qualche “vuoto”, e zone agricole con qualche (a volte parecchi) “pieno”. Il punto di partenza ideale è all’altezza di Lacchiarella, dove il centro Il Girasole, con blasone Fininvest e aggiunta di un padiglione esterno della Fiera di Milano e di altro, marca piuttosto significativamente i limiti della conurbazione compatta milanese. Proprio qui, si era vagheggiato anche di mettere la Fiera “esterna” vera e propria, ovvero quella che con i suoi cantieri aperti ora giganteggia nell’ex raffineria di Pero, un pezzo di statale 35 e mezza Tangenziale più su. A pensarci, all’immagine di quell’enormità piazzata qui in mezzo al Parco Sud, c’è davvero da tirare un sospiro di sollievo.
A sud, abbandonando le provinciali, si entra nel centro di Lacchiarella. Un paese con la via principale che scorre fra case, negozi, piazze, incroci, con il tracciato abbastanza integro nell’irregolarità dell’ex strada di campagna lungo la quale nel tempo sono cresciuti gli edifici. Alla fine del tratto urbano, quando i due tracciati centrale e di circonvallazione si ricongiungono, comincia davvero l’ambiente che, più o meno, proseguirà identico per chilometri fino al territorio comunale di Pavia.
Sono strade tortuose, asfaltate ma piuttosto strette. Citando Alabama di Neil Young, si può dire che qui le macchine viaggiano with a wheel in the ditch, and a wheel on the track. Nonostante tutto, e soprattutto nei fine settimana, il logorio della vita moderna si fa sentire anche qui, eccome: c’è parecchio traffico, direi quasi tutto locale vista l’abilità con cui i vari “piloti” si barcamenano tra le buche, i fossi a tre dita dalla ruota, e le curve tra gli angoli ciechi di vecchie cascine. Siamo comunque in un altro mondo rispetto al percorso parallelo della Statale 35, qualche centinaio di metri a ovest: case isolate, campi, macchie d’alberi, qualche insediamento un po’ più consistente, come Giussago, fino a Certosa e al monumento che spicca alla fine del rettifilo proveniente proprio da uno dei pochi ponti sul Naviglio in questa direzione. Qui è possibile proseguire lungo un percorso secondario lungo l’enorme recinzione del complesso monumentale, fino all’angolo posto sulla strada che, scavalcando la ferrovia, raccorda la SS 35 con un’altra direttrice principale da Milano per Pavia: la Vigentina. Proprio sull’angolo opposto della recinzione della Certosa si trova l’incrocio verso Borgarello, il cui territorio comunale inizia da queste parti.
La strada comunale scorre tra il tracciato della ferrovia a est, e quello del Naviglio e della Strada dei Giovi a ovest. Dopo il piccolo cimitero, ancora in piena campagna, e un nuovo bivio, la via si restringe per entrare nel piccolissimo centro storico, dietro cui si nota piuttosto vistosa tutta la zona di nuova e nuovissima espansione, più o meno a sud-est. È presumibilmente oltre queste aree, che dovrebbe sorgere il progettato Centro Commerciale (o Centro Chissàcosa), nella zona che anche visivamente ha un aspetto strutturato secondo un aspetto tradizionale, nonostante, appunto, la piccola ma decisa villettopoli che appare in vigorosa crescita. Anche sull’altro margine, lungo la strada alzaia che scorre sul lato opposto del Naviglio rispetto alla Statale 35, Borgarello si fa notare per la quantità di edificato (la “città fatta di metri cubi e quadri” stigmatizzata da Boatti), con case di due o tre piani allineate su una o anche due file, che solo dopo il confine col territorio di Pavia lasciano il posto agli spazi aperti. A collegare la strada alzaia al tracciato della Statale dei Giovi, nell’ultimo lungo rettifilo prima del bivio della Tangenziale Ovest di Pavia, un ponte “normale”, e più a sud un altro stretto passaggio selciato, in corrispondenza di una chiusa. Questo è l’ambiente generale dove il sindaco di una popolazione di un migliaio di abitanti ritiene che un centro commerciale di 200.000 metri quadrati possa chissà come atterrare a “impatto zero”.
Imboccato l’ultimo tratto della strada dei Giovi lungo il Naviglio, quasi subito si salgono le rampe della tangenziale, e si intravedono per un po’ i quartieri della città compatta, tra cui spicca la grande area ospedaliera. Il percorso taglia poi in sopraelevata attraverso le aree molto meno urbanizzate a ridosso del Ticino, e dopo il ponte sul fiume e un altro tratto la tangenziale si ricongiunge alla direttrice urbana proveniente dall’altro ponte (quello due-trecento metri a monte del famoso Ponte Coperto).
Siamo in territorio comunale di San Martino Siccomario, ovvero nell’area geografica che dovrebbe concludere i 90 chilometri della lunga striscia verde del Parco Ticino, da qui alla punta della Becca, alla confluenza col Po. Ma la continuità del parco, o delle aree libere, o di qualunque cosa, se ne è andata chissà dove chissà quando nel passato. Ora la Statale, dal confine comunale di Pavia fino a qui, e oltre a sud fino al territorio di Cava Manara, è una striscia continua di quello che gli inglesi chiamavano ribbon development, e gli americani più onestamente road slum, salvo poi abituarsi e non farci più caso, come la tosse per i fumatori. La traduzione letterale italiana in uso, di “sviluppo a nastro”, mischiata ai colori vari delle insegne luminose e delle bandiere e striscioni promozionali, forse aiuta a migliorare l’impressione, ma non certo la qualità dell’aria, o del bordo stradale, o degli accessi ai piazzali ghiaiosi che in maggioranza costituiscono da queste parti i “parcheggi attrezzati”. In questo ambiente, il centro commerciale San Martino alla confluenza fra la Tangenziale, la Statale dei Giovi e le direttrici per la Lomellina, spicca come relativa isola di ordine ed efficienza, a modo suo. E se non altro contribuisce a schermare il vecchio tracciato, che attraversa il paese e immette nell’ultima punta rurale fra Ticino e Po, dal traffico che qui imperversa a tutte le ore del giorno, più o meno incolonnato. Il centro commerciale è uno spazio senza storia: supermercato, fast-food, qualche gregario collocato ai margini del parcheggio principale, che circonda tutto quanto e fa bello spettacolo di sé (opinione personale) soprattutto nelle mattine festive e nebbiose, visto dall’ultimo tratto sopraelevato della tangenziale.
Proseguendo verso sud il traffico si dirada man mano si aprono spazi a destra e a sinistra. Contemporaneamente e ovviamente, si attenua anche il curioso effetto rue-corridor che riesce a dare questo tipo di insediamento, anche sparso. La fila delle luci di coda si dirada fino a sgranarsi nella normalità di una grande arteria interregionale al ponte sul Po, e poi al territorio di Bressana Bottarone, dove il percorso verso il tracciato della Padana Inferiore si sdoppia: a sinistra prosegue la Statale dei Giovi verso Casteggio, a destra ma solo lievemente divergente la provinciale per Voghera, che sbuca comunque sulla stessa linea pedecollinare della Padana, in territorio di Montebello della Battaglia. Qui si ripete, stavolta in forma moderna e a modo suo pianificata, l’esperienza del road slum o ribbon development che dir si voglia, già descritta. Siamo a un tiro di sasso dall’imbocco della tangenzialina di Voghera (efficientissima, a modo suo), ma l’astronave di precompresso e asfalto che ha deciso di atterrare da queste parti, ha deciso pure che può farne a meno, di quella tangenzialina, e che si costruirà un ambiente viabilistico tagliato a pennello, di cui per ora si intravedono solo sovrappassi imbandierati, pezzi di cantiere, e qualche tracciato interrotto dalle barriere conosciute come new jersey. A quell’incrocio tutti, ma proprio tutti, i flussi obbligati del percorso pedecollinare Piacenza-Alessandria (qui nei tratti urbani si usa ancora il nome “giusto” e appropriato: Via Emilia Pavese), trovano un bel semaforo, a tutto e completo servizio dell’ingresso al parcheggio, o poco più. Ovvero, come abbiamo già visto e stravisto in altri casi, si obbligano tutti, che magari con la multisala, il fast-food, l’ipermercato ecc. non hanno niente a che fare, a una coda probabilmente piuttosto pittoresca da vedere, di notte, dall’alto. Meno pittoresca da farsi, imprecando con quello che sta al telefonino e ti fa perdere il semaforo atteso da cinque turni, o spendendo tutta la moneta possibile coi due o tre schieramenti fisiologici di questuanti con o senza cartello. E sul limitare delle colline dell’Oltrepo, il percorso tra l’offerta commerciale della zona si può anche interrompere.
Tornando all’oggetto principale di questa passeggiata, si ripete: perché mai il sindaco di Borgarello ritiene che 200 metri quadrati/abitante di centro commerciale (o centro integrato che sia) possano collocarsi “senza impatto” in quel cuneo verde storico che scende dai margini del Parco Sud metropolitano milanese, e si conclude integrato con altre strisce gemelle (come quella della Vernavola) sotto le mura di Pavia? E perché mai proprio lì, con tutta l’offerta di crocicchi, spianate, triangoli, appezzamenti, cavalcavia, di cui il territorio anche prossimo sembra pullulare? La risposta potrebbe essere: perché si è convinto della bontà dell’iniziativa, e soprattutto della serietà dei proponenti, una multinazionale portoghese che nei comunicati ufficiali sembra mettere l’ambiente quasi alla pari dei bilanci.
Una risposta convincente, a modo suo, e che in teoria dovrebbe spazzare come fuscelli le solite opposizioni passatiste dei nimbies: quelli che non vogliono nulla a sporcare il proprio cortile, e poi “perdono il treno dello sviluppo”. Ma, e qui la domanda si pone ai lettori e alla fine di questi vaghi appunti in diretta dal territorio: voi (potenziali frequentatori di passerelle, scansie, mostre di pittura ecc.) siete convinti?
Un architetto progettista come Sir Richard Rogers, autore fra l’altro del grande Designer Factory Outlet a bacino di utenza “europeo”, allo sbocco britannico del Chunnel, in una recente intervista al Sole 24 Ore osservava desolato come ormai si possa andare da Torino a Venezia senza trovare significative interruzioni nella trama continua dell’edificato, delle infrastrutture doppie, triple, di un coperchio di cemento e asfalto che rischia di soffocare con la sua inefficienza sia l’ambiente che la sua ragion d’essere storica, ovvero quello che lo mantiene vivo e vitale.
Facciamo due conti, e supponiamo: se ciascun sindaco decide di adottare un “piano dei servizi” delegato a una multinazionale “ambientalista”, con uno standard di 200 metri quadri/abitante di Centro Integrato, cose ne esce? E vogliamo negare l’ingresso nel mercato, multinazionale e locale, di altri soggetti magari ancora più dinamici e “ambientalisti”?
Come si dice: ai posteri l’ardua sentenza. Ma per averne, di posteri, forse è meglio anticipare qualche risposta qui e ora.
Relazione presentata al convegno internazionale Les trois sources de la ville-campagne , Cerisy-la-Salle, 20-27 settembre 2004, in corso di pubblicazione in Ghorra-Gobin C., Berque A.. (a cura di), Les trois sources de la ville-campagne , Paris, Belin
Considérations préliminaires
Récemment, nous avons approfondi dans nos recherches le thème de l’étalement urbain, en soulignant les coûts collectifs de différents modèles possibles de l’extension urbaine dans les agglomérations métropolitaines. Nous y avons proposé certains indicateurs permettant de mesurer ces coûts et visant à confirmer, par une analyse quantitative des dynamiques récentes d’extension urbaine dans l’agglomération métropolitaine milanaise, certaines relations causales que la littérature sur ce thème se borne à supposer. Nous avons cherché aussi à transporter le débat, souvent idéologique (ville compacte vs. ville étalée) sur le terrain des faits concrètement vérifiables (Camagni, Gibelli, Rigamonti, 2002a et 2002b).
Dans les réflexions qui suivent nous souhaitons avancer quelques considérations sur les racines culturelles profondes du modèle de l’étalement urbain tel qu’on l’observe en Italie, et sur ses tendances plus récentes.
En particulier, nous chercherons à montrer que:
- le phénomène de l’étalement urbain, tout récent qu’il apparaît, est par certains aspects profondément enraciné dans les processus d’urbanisation et de modernisation du « Bel Paese »;
- en effet, dans la longue période qui s’est écoulée entre l’Unification italienne et la chute du fascisme, les tendances à la concentration spatiale et les tendances anti-urbaines ont vécu côté à côté dans un projet contradictoire d’ingéniérie sociale visant, à la fois, la modernisation économique et l’embourgeoisement de la ville;
- à partir du second après guerre, aménagement et urbanisme ont privilégié – avec une certaine continuité, – une approche centrée sur la ville verticale et compacte dont on peut rapporter l’origine culturelle au Mouvement Moderne et au Rationalisme. Si ce projet ne s’est pas concrétisé de façon cohérente et qualitativement satisfaisante, c’est surtout à cause du contexte politique/administratif, qui a continué a attribuer un rôle marginal à l’aménagement du territoire, tandis que les intérêts de la rente foncière conditionnaient de façon déterminante les dynamiques de transformation spatiale;
- on assiste actuellement à une dé-légitimation radicale des outils traditionnels de la planification, produisant d’une part une intensification, voire une congestion considérable, d’initiatives spéculatives dans le secteur du bâtiment dans les villes centre et, de l’autre, une explosion symétrique de « villettopoli [1]» .
L’« Italie maltraitée » : étalement urbain et consommation des sols.
Comme il est arrivé dans d’autres pays européens, l’étalement urbain s’est affirmé en Italie dans les dernières décennies, en remettant en cause la différence entre ville et campagne. En particulier, il s’est imposé aussi dans des contextes non-métropolitains, avec des processus très évidents de rururbanisation qui accompagnent la consolidation des systèmes productifs de petite entreprise au niveau des districts industriels.
En 2001, l’Italie compte 7.500.000 maisons individuelles sur un total de 25 millions d’habitations, et le 58% des maisons bâties chaque année est constitué par des maisons individuelles. Dans les dix dernières années, 700.000 italiens ont quitté les métropoles, exaspérés par le trafic intense, la détérioration de la qualitè de la vie et la hausse des prix des maisons, tandis que 3 millions d’hectares de terrain agricole ont été urbanisés. La ressource-sol a subi par conséquent des dynamiques très marquées de consommation/gaspillage.
Dans un livre récent, au titre bien significatif – L’Italie maltraitée –, Francesco Erbani, qui se définit lui-même « journaliste social », décrit un certain nombre de mauvaises pratiques territoriales, touchant l’urbanisme et le bâtiment, qui ont eu lieu en Italie dans les dernières années. Ces monographies, synthétiques mais inquiétantes, sont précédées par des considérations générales sur la consommation des sols, la dérèglementation de l’urbanisme et l’ abusivismo (la construction sauvage et illégale), trois éléments qui caractérisent le panorama des transformations urbaines et territoriales (Erbani, 2003).
Si le Midi figure au premier rang dans les pratiques de construction illégale, destinées à être tôt ou tard entérinées par la procédure du condono edilizio[2], ce grand gaspillage de ressources territoriales affecte aussi des régions et des aires métropolitaines qui présentent un niveau de développement très avancé.
C’est le cas des structures urbaines polycentriques en organisation réticulaire de plusieures régions de l’Italie du Nord et du Centre qui semblent également destinées, à se développer souvent dans des directions analogues : les centres de taille moyenne et moyenne-petite subissent eux aussi ces phénomènes de suburbanisation et de périurbanisation, puisque le développement par le bas des activités économiques engendre des processus d’urbanisation du territoire rural et des continuités accidentelles du bâti, pendant que la mobilité urbaine augmente à rythme soutenu à cause de la complexité croissante des relations territoriales.
Le cas le plus significatif d’urbanisation de la campagne est représenté en effet par les riches régions du Nord-Est, où il est possible aujourd’hui d’apprécier les effets exercés sur le territoire par le modèle de développement de la Troisième Italie : un bon exemple en est offert par la plaine de la Région Vénétie, en particulier par la partie qui s’étend entre les provinces de Venise, Padoue et Trévise, et qui, grâce à un développement compétitif de la petite entreprise à caractère familial et des économies de district, est passée dans quelques décennies de territoire surtout agricole qu’elle était, avec son paysage harmonieux, à une série ininterrompue et désordonnée de maison individuelles, de hangars industriels et d’échangeurs routiers, saturés et encombrés par le trafic motorisé, à cause, entre autre, de l’opposition obstinée de la société locale à toute intervention infrastructurelle visant la modernisation (Indovina et al., 1990). La campagne s’est donc transformée en une Villettopoli, habitée par un peuple de « Tavernicoli »[3], dont les choix résidentiels s’avèrent dictés par la simple préférence accordée à la maison individuelle.
Mais les tendances à l’étalement se manifestent aussi dans les régions et dans les aires métropolitaines les plus avancées.
Le 57% du patrimoine en logements de la région Lombardie a été réalisé dans les trente dernières années et, si l’on eccepte la province de Milan, le 45% des habitations lombardes est constitué par des maisons individuelles. Entre 1980 et 1989, dans la Province de Milan (chef-lieu exclu) 71 millions de mètres carrés de sol agricole ont été urbanisés (Consonni, Tonon, 2001). On observe une tendance analogue dans la région, par ailleurs bien administré et aménagé, de l’Emilie Romagne où, entre 1976 et 1998, la population demeurant stable, l’urbanisation a redoublé. En particulier, la consommation de sol a redoublé dans l’aire métropolitaine de Bologne : l’étalement urbain a privilégié les territoires précieux de l’agricolture intensive de la plaine et les premières collines où, en outre, la consommation de sol est augmentée de façon exponentielle par rapport à la diminution de la taille des communes (+ 147% dans les communes avec moins de 5.000 habitants) (Regione Emilia Romagna, 2004).
Partout, dans les grandes villes de l’Italie du Nord et du Centre, les processus actuels de substitution sociale s’orientent dans la même direction, tout en présentant une intensité variable et des spécifités locales : les classes moyennes s’en vont, découragées par le prix des logements et par la médiocrité de la qualité urbaine ; ceux qui demeurent sont les groupes le plus aisés, et les anciens et nouveaux pauvres (les immigrés extracommunautaires).
2. La fortune récente de la ville étalée plonge ses racines dans une longue tradition.
Si beaucoup d’éléments, qui expliquent la fortune actuelle de la maison individuelle ou de l’étalement à basse densité dilué dans une campagne urbanisée, ressortissent en première instance aux mécanismes que l’on peut observer dans le cadre plus large du contexte européen, le cas italien présente certains caractères spécifiques qui se sont accumulés et sédimentés dans une période bien plus longue. Je les indiquerai de façon synthétique et par points, le sujet étant trop complexe pour qu’on puisse le discuter dans le détail.
2.1. Dans l’Italie du Nord, l’accumulation primitive industrielle/capitaliste a été réalisée en symbiose étroite avec la campagne.
Dans beaucoup de pays européens – cela est bien connu - le développement capitaliste-industriel a eu son essor dans les campagnes, dans le territoire rural (Landes, 1974). Dans l’Italie du Nord, en particulier dans le piedmont aride de la macro-région padane, ce modèle a obtenu un succès économique formidable, en exploitant de façon optimale cette « union intime » des villes avec leur territoire que Carlo Cattaneo déjà, au milieu du XIX siècle, mettait en évidence pour expliquer l’avantage compétitif au niveau international dont jouissait l’économie de la Lombardie, région largement laborieuse et civilisée (Cattaneo, 1975).
Avec le développement du chemin de fer et la disponibilité de nouvelles sources d’énergie, le processus de concentration urbaine de l’industrie et la croissance parallèle des dimensions des entreprises ont remplacé l’industrialisation rurale partout en Europe ; dans les grandes villes de l’Italie du Nord, pourtant, ce phénomène, qui a commencé à se manifester dans les dix premières années de 1900, n’a pas montré la même force centripète à l’oeuvre dans les grandes villes industrielles européennes. Certaines zones rurales fortement spécialisées dans la production industrielle ont continué à prospérer, dans un rapport étroit avec les grands centres urbains qui constituaient leur pôle d’encadrement directionnel et commercial[4]. Les classes dirigeantes des grandes villes industrielles de l’Italie du Nord, et de Milan en particulier, ont hésité pendant longtemps entre des options « pro-urbaines », favorables à la ville centre, qu’on considérait propices à l’essor de la grande industrie, et des nostalgies ruralistes dues aux préoccupations suscitées par la grande concentration de masses ouvrières dans les villes.
La réponse stratégique à ce dilemme des grandes villes industrielles a consisté, dès l’époque du gouvernement Giolitti (1903-1909) - lorsque le machinisme industriel et les grandes entreprises transformèrent le paysage de la première couronne des métropoles - dans l’amélioration progressive du réseau des transport (routes, chemin de fer), de façon à consentir la migration alternante efficace (d’abord hebdomadaire, puis quotidienne) d’un prolétariat logé dans des conditions de précarité extrème dans l’hinterland rural.
A la même époque on commença à transformer les centres des villes. Justifiés par des motivations de « magnificence civile » et par la nécessité de réaliser des grands équipements publiques et hygiéniques, les travaux de démolition et de renouveau se proposaient, en voie prioritaire, un but d’ingénierie sociale, visant à éloigner et à disperser sur le territoire le prolétariat et les industries, ou les activités fastidieuses et malsaines ; à permettre une substitution fonctionnelle rapide des aires les plus centrales, destinées au secteur tertiaire et au logement des groupes les plus aisés, en favorisant ainsi un embourgeoisement général des habitants du centre ville. En particulier, Milan, la « ville la plus ville » d’Italie, se distingua par son application rigoureuse de cette stratégie : d’une part, en améliorant sans cesse les possibilités d’accès, grâce à la réalisation d’un réseau serré et radial de chemins de fer et de tramways qui en feront rapidement une « città viaggiante (ville en voyage) » comptant déjà, dans la période 1924-1927, selon les chiffres officielles, 70.000 migrations alternantes (Consonni, Tonon, 2001 : 138) ; d’autre part, en opérant une série de démolitions très consistantes dans les secteurs les plus centraux de la ville, avec le résultat d’en appauvrir encore son tissu mixte et hétérogène du point de vue social et de compromettre ainsi l’intégrité des routes et des cours que Stendhal considérait parmi les plus beaux de l’Europe (Tintori, 1984).
Dans cette phase initiale de suburbanisation, la culture des classes dirigeantes des grandes villes industrielles italiennes a imposé un modèle de rapport ville/campagne qui, loin d’être inspiré par la nostalgie d’un mythe arcadien et bucolique, par la pensée des utopistes ou par un projet de ville-jardin, relevait surtout des stratégies concernant le marché du travail et le contrôle social. Les formes de l’expansion urbaine privilégièrent un modèle de stratification sociale très articulé qui suivait la rente différentielle des sols : depuis les secteurs centraux, occupés par la grande bourgeoisie, jusqu’aux banlieues urbaines habitées par les cols blancs et les petits employés.
La culture des urbanistes de l’époque participa pleinement à ce dessin : elle fut pro-urbaine en ce qui concerne les fonctions et les classes dirigeantes (ces dernières n’ayant d’ailleurs aucune envie de s’établir dans la couronne périurbaine), anti-urbaine par rapport aux couches sociales plus faibles et turbulentes.
2.2. Le fascisme prêche le ruralisme
Pendant la dictature fasciste, on assiste à une méfiance croissante envers la ville, qui va se traduire, à partir du moment où l’idéologie anti-urbaine devient l’idéologie officielle du régime, dans un penchant ruraliste marqué.
Le noyau du fascisme fut d’abord essentiellement urbain, et d’ailleurs milanais, comme le montre le ralliement au régime du Futurisme, animé par Marinetti, Balla et Boccioni qui souhaitaient, pour l’Italie, un avenir urbain et industriel. Dans leur perspective, Milan, la ville préféré par le Futuristes, aurait dû devenir un grand centre européen, la « ville qui monte » par opposition aux nombreuses « villes du silence » de la province paresseuse ; les « fumées sublimes » des cheminées d’usine enchantaient les Futuristes qui voyaient dans l’essor de l’industrie, le culte de la vitesse et des machines, la marque véritable de la modernité (Rosa, 2001).
Vers le milieu des années 1920, pourtant, les stratégies du régime empruntent un tournant significatif avec la « Ruralisation » , par laquelle on souhaitait faire front à la crise économique et au chômage croissant des centres urbains, en favorisant le retour à la terre, aux taux de natalité très élevés des campagnes et à une sorte de nouvelle accumulation primitive agricole. Autarchie et ruralisme apparaissaient comme les réponses les plus adéquates pour mettre un frein à la concentration urbaine dont on redoutait les moeurs décadentes, d’une part, et qu’on considérait, de l’autre, une source possible de conflits sociaux.
Les lois émanées par le gouvernement fasciste en 1928 et 1931 furent en réalité très ambiguës : elles octroyaient aux Préfets la faculté de limiter, par ordonnance, la croissance excessive de la population urbaine, sans indiquer toutefois des mesures d’application précises, ce qui explique pourquoi ces lois provoquèrent de graves phénomènes de migration illégale. En effet, pendant le fascisme, l’expansion urbaine subit une accélération considérable, dépassée seulement par le boom économique successif à la reconstruction de l’après-guerre. Cette situation contradictoire permet d’apprécier toute l’ambiguïté d’un régime à la fois réactionnaire et moderniste, qui seulement en 1939 introduira une loi contraignante contre la migration en ville. Cette loi, approuvée juste avant l’entrée en guerre de l’Italie, n’aura, à court terme, que des effets limités, mais elle restera en vigueur pendant plus de quinze ans et, en taxant d’illégalité les grandes migrations de la campagne à la ville qui se succéderont en Italie dans l’après-guerre, en aggraveront les coûts sociaux et les souffrances humaines (Treves, 1986).
Mais l’aspect le plus intéressant du conflit, tout intérieur au régime et sans cesse relancé, entre « traditionalistes » et « novateurs » , va s’accentuer dans les dernières années du fascisme, pour donner lieu non seulement à la loi de Disurbanamento de 1939, mais aussi à une initiative importante de signe contraire: l’élaboration et l’approbation en 1942 d’une Loi d’Urbanisme (Loi 1150/1942) très novatrice, due à l’aile technocratique et moderniste du régime, qui peut être reconduite au ministre des Corporations Giuseppe Bottai (Sica, 1978 ; Romano, 1980).
3. Miracle économique et aménagement de l’espace : l’impact sur la qualité des villes
Une fois achevée la Reconstruction de l’après-guerre, les villes industrielles de l’Italie républicaine ont traversé une période de croissance intense, tout à fait comparable, dans ses composantes essentielles, urbaines et territoriales, à celle d’autres pays avancés de l’Europe.
Il s’agit d’un développement dans des secteurs à haut valeur ajouté, fondé sur des entreprises de taille moyenne ou grande et sur le taylorisme, nourri par les migrations de main-d’oeuvre du Midi et qui se concentre surtout dans les agglomérations métropolitaines du Nord. Ce sont les années du « miracle économique », locution qui, par rapport à certaines formules de caractérisation épocale – telle, en France, les « trente glorieuses » - souligne l’aspect providentiel du phénomène, et dit bien, par là, l’absence d’une forte volonté publique.
Les outils d’urbanisme nécessaires pour promouvoir un développement harmonieux et réglé des villes avaient été préparés de façon tempestive par l’approbation de la Legge Urbanistica qu’on vient de citer et qui, à l’époque où elle fut élaborée et adoptée, représentait l’un des Codes les plus avancés en Europe dans ce domaine : l’outil le plus important était représenté par le Piano Regolatore Generale, ressortissant aux Communes et manifestement inspiré par le paradigme fonctionnaliste (spécialisation monofonctionnelle du zonage et haute densité en étaient les deux critères dominants) qui formulait les règles pour le zonage des sols et pour l’équipement en services de proximité.
Une analyse des raisons qui ont déterminé le peu d’efficacité de cette loi nous amènerait trop loin de notre sujet. Sans considérer le villes du Midi, où les processus de croissance ont mis en lumières des phénomènes importants d’hyperurbanisation et d’illégalité, il suffira de souligner ici le fait que, dans maintes villes de l’Italie du Nord et du centre, les règles de l’urbanisme ont été souvent circonvenues à cause de la pression formidable exercée par le binôme rente foncière/spéculation immobilière, que la loi de 1942 (voulue par le « bloc industriel », c’est-à-dire par le milieu des grandes entreprises) voulait endiguer.
Milan a représenté à ce propos un cas exemplaire : dans l’après-guerre immédiat, pendant l’administration du Comité National de Libération, la ville se dote d’un plan d’urbanisme typiquement rationaliste qui prévoyait, grâce au zonage des sols de tout le territoire municipal, la localisation en banlieue des entreprises industrielles, l’aménagement de l’habitat en quartiers auto-contenus à proximité des installation productives, le renforcement des liaisons internes et la réalisation d’une rocade périphérique. Avec les élections de 1949, le passage du pouvoir à la Démocratie Chrétienne marque le retour immédiat aux stratégies conditionnées par le bloc de la rente foncière. En particulier, ce qui s’affirme est une violation systématique des prescriptions du zonage : avec le consentement tacite et tolérant de l’administration communale, on ressortit à ce qu’on a défini le « Rite Ambrosien », une procedure qui permettait de construire dans les zones destinées par le Piano Regolatore à l’agriculture, dérogation justifiée par la priorité accordée au développement économique.
Une autre occasion manquée a été celle de l’aménagement des banlieues urbaines : les grandes interventions de type HLM ont ouvert un fossé difficile à combler entre les attentes de la population et les réponses fournies par l’initiative publique et par les architectes.
L’écart entre les modèles d’urbanisme proposés par le projet du Mouvement Moderne et les attentes de la population, ainsi que l’incapacité de maintes administrations locales de garantir l’équipement en services de proximité, ont été parmi les facteurs les plus importants qui ont favorisé et perpétué la construction sauvage et illégale (sourtout dans les grandes villes du Midi et dans les alentours de la Capitale), auxquels il faut ajouter un étalement périurbain auto-construit d’une qualité tout à fait médiocre (sauf dans les régions bien administrées telles que, par exemple, l’Emilie Romagne, la Toscane et la Ligurie).
4. Vive la ville/A bas la ville: tout le monde est libre et « chacun est maître chez-soi »
Les couronnes des grandes villes européennes ont enregistré, à partir du milieu des années 1970-début des années 1980, des phénomènes évidents d’étalement, de mitage urbain. Il s’agissait moins d’une contre-urbanisation que d’une forte dédensification métropolitaine relevant de deux causes principales : la réduction de initiatives de l’Etat dans le secteur des logements et l’évolution des styles de vie des familles (SCATTER, 2001).
L’étalement accéléré a été donc déterminé par des facteurs aussi bien push que pull. Ce binôme est opérant aussi dans le contexte italien : si l’expulsion des villes centres représente encore le facteur le plus important de la périurbanisation, l’attraction vers la nature, vers la campagne urbanisée, est de plus en plus marquée, aussi bien dans les territoires périurbains des region métropolitaines que dans les territoires de l’industrialisation non métropolitaine (districts, etc.)
Les principaux éléments push sont constitués par l’augmentation incessante, dans les métropoles post-fordistes, des valeurs foncières et immobilières qui a accéléré et intensifié le processus de ségrégation sociale, ainsi que par la médiocre qualité de la vie en ville-centre, due à l’encombrement, à la pollution, à la dégradation de l’environnement, à la criminalité et au manque de sécurité.
Mais ce sont surtout les éléments pull qui caractérisent d’un point de vue qualitatif le succès de la ville émergente contemporaine. Parmi ces éléments, les principaux peuvent être ramenés à l’individualisme croissant qui caractérise les nouveaux styles de vie de la population, aux opportunités accrues de mobilité privée, au retour à la nature.
Le desserrement résidentiel offre en Italie plusieurs modèles, qui vont de la maison « néo-bourgeoise » placée à l’écart, au retour dans des centres de petites dimensions, au pavillonnaire de médiocre qualité (Gallingani, 1995). Son corollaire est le succès remporté par les nouveaux modèles de consommation post-moderne[5], où l’accessibilité remplace la proximité, où chaque lieu s’ouvre à des espaces à géométrie variable dans un réseau de rapports de plus en plus complexes (Sernini, 1988).
Dans le modèle italien de la Villettopoli telle qu’il s’est récemment affirmé, on peut pourtant repérer un certain nombre de caractères contradictoires et de retombées négatives que nous allons souligner de façon synthétique et quelque peu accusée à conclusion de notre discours.
Villettopoli :
- est un territoire qui s’organise intégralement selon des logiques de marché : c’est l’effet combiné de l’inertie de la culture d’aménagement et d’urbanisme et des réponses manquées des gouvernements locaux aux défis posés par la transition de la métropole fordiste à la métropole post-industrielle. La possibilité de réutiliser les grandes friches industrielles localisées dans les villes centre ou en première couronne pour améliorer la qualité de la vie des agglomérations métropolitaines a été le plus souvent gâchée par des grands projets de localisation d’activités surtout tertiaires qui ont encore appauvri, banalisé et congestionné le tissu des villes, et par conséquent ont rendu plus attrayantes les couronnes les plus éloignées. En outre, l’attention prêtée aux espaces publiques a été presque nulle ;
- est un projet qui consomme et compromet de façon irréversible des territoires de haute qualité environnementale et à haut potentiel de développement (aussi bien dans les franges périurbaines des grande villes que dans les réseaux urbains polycentriques de la Terza Italia) selon un modèle de « planification privée »[6] ;
- n’invente pas des nouvelles morphologies urbaines car elle se développe grâce à l’addition spontanée et accidentelle d’interventions hétérogènes réalisées par un marché immobilier arriéré : petits lotissements/petites entreprises de construction et souvent auto-construction de la part de propriétaires individuels. En ce sens villettopoli consomme le paysage plus qu’elle ne crée un paysage nouveau ;
- ne produit pas une nouvelle urbanité, fluide et ouverte à l’interaction et à l’intégration ; elle produit au contraire individualisme, ségrégation, intolérance, soupçon. Villettopoli personnalise l’espace intérieur et extérieur de la maison dans une recherche identitaire poussée à l’extrême ; souvent, cette ségrégation est délibérément recherchée pour des raison de sécurité: plutôt que de gated communities, on devrait donc parler de gated houses ;
- est habitée par des citoyens qui, soit culture, soit tradition nationale, n’aiment pas beaucoup la nature, et qui utilisent de façon intensive leur lots en les saturant souvent avec toutes les additions artificielles possibles hors COS. Villettopoli occupe donc de façon intensive les territoires à basse densité, dont elle menace les valeurs paysagères résiduelles ;
- semble avoir un avenir promettant grâce à la tendance générale à la délégitimation de l’urbanisme qui s’est affirmée dans les dernières années. Un slogan qui a fait fortune, formulé par le Président du Conseil actuel Silvio Berlusconi pendant sa campagne électorale, affirmait: « chacun est maître chez soi ». Après le succès remporté aux élections, cette formule s’est traduite dans une poussée formidable de libérisme et de déréglementation. La Région Lombardie représente à ce propos un cas exemplaire, puisqu’elle a approuvé une série de lois partielles d’urbanisme et d’édilité qui ont radicalement libéralisé et flexibilisé les procédures d’urbanisation des sols et de réutilisation du patrimoine bâti et des friches en ville-centre.
En conclusion, la ville étalée semble destinée à tirer parti de la déréglementation à l’oeuvre en Italie, où l’échelle exclusivement municipale de la planification est en train de s’affirmer ainsi qu’un processus de transformation de la ville réalisé par projets partiels et dérogatoires, issus de l’initiative privée (Progettazione Complessa, Programmi Integrati).
La dédensification de la ville pourrait offrir, par contre, une occasion précieuse pour formuler de façon novatrice des stratégies d’aménagement à l’échelle intercommunale capables de tirer parti des nouvelles morphologies réticulaires et polycentriques (Anderlini, 2003 ; Gibelli, 2003). Il existe, évidemment, de bonnes lois régionales d’urbanisme qu’on a récemment approuvés, des plans stratégiques clairvoyants sur grande échelle, des projets urbains cohérents, mais ils n’arrivent pas à trouver une légitimation satisfaisante dans le contexte actuel.
Est-il envisageable de remettre en question Villettopoli? On peut en douter, si l’on considère la fascination que ce modèle a exercée dans le temps et la fortune que rencontrent les tendances « pathologiques » actuelles. Carlo Emilio Gadda, sans doute l’écrivain milanais le plus important après Alessandro Manzoni, dans son roman de 1938, La connaissance de la douleur, a consacré des pages très drôles à une région sud-américaine imaginaire - le Serruchón – où il est aisé de reconnaître les caractéristiques de la Brianza milanaise (c’est-à-dire le territoire hautement industrialisé au Nord de Milan) à une époque qui coïncide avec les débuts du fascisme et avec la prolifération de styles et d’artifices architectoniques qu’affectionnait la riche bourgeoisie « brianzola » de l’époque[7]. Nous ne pouvons qu’imaginer sa réaction face à l’initiative du maire d’une petite commune située à 20 km de Milan, qui, en 2004, a proposé au conseil municipal une délibération visant à interdire la construction de maisons individuelles en « style néo-arabe »: voilà la réponse de Villettopoli aux défis et aux tragédies de la globalisation économique.
Villettopoli semble donc destinée à proliférer, faute d’un changement résolu dans les politiques urbaines capable d’intégrer échelle locale et échelle plus vaste, et faute d’un projet de ville capable de réaliser un modèle de « compacité judicieuse », centré sur la durabilité du développement urbain et, d’abord, sur la construction d’un nouveau rapport entre urbs (la ville physique) et civitas (la société civile).
Bibliographie
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[1]J’utilise le terme forgé par l’urbaniste Pierluigi Cervellati, auteur de la requalification du centre historique de Bologne ; le terme signifie que la ville (polis) est désormais structurée à partir du principe de la petite villa (villetta) ou encore du pavillonnaire pour tous.
[2]Le condono edilizio est une disposition exceptionelle qui permet de légaliser les constructions hors plan en moyennant une sanction pécuniaire. En 1985, année de la première loi sur le condono, on a bâti 225.000 logement illégaux ; en 1994, année du deuxième condono (premier gouvernement Berlusconi),on en a compté 142.000 ; avec le condono actuel, on estime que les interventions illégales atteindront les 40.000 unités pour le seul 2003 et un chiffre analogue pour l’année en cours. Les tendances les plus récentes montrent que les interventions illégales ne se concentrent plus uniquement dans des zones très denses, mais aussi dans les franges périurbaines et dans la campagne urbanisée:ce qui comportera des coûts publiques croissants de la part des collectivités locales pour réaliser les services essentiels à l’habitat (voirie, assainissements, illumination, etc.) (Legambiente, 2004).
[3]J’utilise le terme bien évocateur inventé par Marco Paolini dans ses pièces théâtrales, où il met en évidence avec ironie la métamorphose du territoire ainsi que des styles de vie et de consommation de la population de la Vénétie, sa terre natale. Les Tavernicoli sont les nouveaux cavernicoles, c’est-à-dire les habitants des maisons individuelles auto-construites, dont la typologie prévoit au sou-sol la « tavernetta », lieu des rites du familisme triomphant, où on consomme les repas et on regarde la télé. Ces rites remplacent les rapports sociaux traditionnels du monde paysan dont les lieux naturels consacrés au loisir étaient le bar et le bistrot.
[4] Le modèle de forte intégration urbaine/rurale pratiqué dans les principales régions urbaines/industrielles du pays, sera relancé avec succès aux années 1970 lorsque, tandis que le modèle métropolitain/fordiste subissait partout un déclin irréversible, l’industrialisation diffuse de la Troisième Italie allait s’imposer à l’attention internationale pour ses réussites.
[5] En Italie, où l’offre commercial a eu du mal pendant des décennies à s’uniformiser à la rationalisation à l’oeuvre dans les autres pays européens, en préférant jusqu’à une époque récente le petit commerce de proximité à la grande distribution dépersonnalisée, on a assisté au brusque essor de la culture des non-lieux suburbains : tant en couronne qu’en ouverte campagne, le territoire est désormais colonisé par les hypercentres commerciaux localisésà proximité des grandes infrastructures routières, ainsi que par les factory outlets éparpillés dans la campagne.
[6]J’utilise l’oxymore planification privée au sens qu’Indovina lui attribue: à propos de l’étalement urbain récent, il souligne qu’il a été favorisée par certaines mesures législatives de flexibilisation en matière de construction en zones rurales et de localisation des grands équipements commerciaux ; mais aussi par les stratégies de réalisation des réseaux de transports lorsque, tout en étant d’origine publique, elles suivent une logique de rationalisation ex post et non d’encadrement ex ante. (Indovina, 2004).
[7]« Des villas, des villas : de petites villas huit pièces deux salles de bains, des villas princières quarante salons vaste terrasse sur les lacs vue panoramique du Serruchón (potager, verger, garage, conciergerie, tennis, eau potable, fosse d’aisances de sept cents hectolitres et plus) : exposées au midi, au levant, au couchant, au sud-est, au sud-ouest, abritées par des ormes ou à l’ombre antique des hêtres devers la tramontane et le pampero, mais non point contre la mousson des hypothèques qui soufflaient à tout emporter jusque sur l’amphithéâtre morainique du Serruchón et les peupleraies du Prado : des villas, des fermettes, d’énormes pavillons montés, de menus cottages solitaires, des folies jumelles, des bungalows genre villa et des villas genre rustique et des dépendances rustiques des villas : les architectes pastrufaziens en avaient, peu à peu, chacun son tour, constellé les paisibles et mols coteaux des pentes préandines qui, comme il va sens dire, « déclinent en douceur » : vers la sérénité en cuvette des lacs. (...) Ces villas, ou nombre d’entre elles, plus que jamais « coquettes » quand elles surgissaient au-dessus des robiniers ou des frondaisons redondantes du banzavóis, comme pointant d’une bananeraie des Canaries, on eût pu légitimement affirmer d’elles, l’occasion faisant le larron, et pour peu qu’on soit homme de lettres, qu’elles « coulaient oeillades emmile verdoyer des couteaux ». (...)D’autres villas mignonnes, à l’endroit de leur plus saillant arêtillon faîtier, se rehaussaient, fiéraudes, d’une tourelle pseudo-siennoise ou pastrufazio-normande, portant longue et noire tige à son sommet, pour drapeau ou paratonnerre. D’autres encore s’ornaient de menues coupoles et pinacles divers, du type russe ou quasi, un peu comme des raves ou des oignons à la renverse, avec couverture imbriquée et souvent polychrome, écailles – autant dire – d’un reptile de carnaval, moitié jaunes, moitié célestes. A telle insigne qu’elles tenaient de la pagode et de la filature, faisaient un compromis entre le Kremlin et l’Alhambra.
Car enfin tout était passé, tout, par la tête des architectes pastrufaziens : hormis peut-être les traits qui connotent le Bon Goût. Tout : le style Umberto et celui de Guillaume, le néo-classique et le néo-néo, le premier empire et le second ; le liberty, le jugendstil, le corinthe, le pompéien, l’angevin, l’égypto-Sommaruga et le Coppedè-galeazzien : les casinos de plâtre caramélisé de Biarritz et d’Ostende, le PLM et Fagnano Olona, Monte-Carlo, Indianapolis, le Moyen Age, en l’occurrence un Filippo Maria pour la bonne bouche tenant bras dessus bras dessous un pour calife : et jusqu’à la reine Victoria (d’Angleterre), maisvautrée sur une ottomane de Turquie » (Gadda, 1974 : 26-28).
Titolo originale, Belling the Box: Planning for Large Scale Retail Stores – Traduzione di Fabrizio Bottini
Introduzione
I punti vendita big-box possono variare di molto per dimensioni: alcuni ora hanno raggiunto proporzioni mastodontiche, oltre i 15.000 metri quadrati. Variano anche le loro nicchie di mercato. Ci sono i discounters come Wal-Mart, gli warehouse clubs come Pace, i category killers come Toys “R” Us o Best Boy (che offrono una vasta selezione di merci in relativamente poche categorie), e gli spacci aziendali – factory outlet stores – gestiti direttamente dalle fabbriche produttrici. Ma tutti hanno alcune caratteristiche comuni: grossi edifici rettangolari a un solo piano con facciate standard, orientamento esclusivo alla clientela che si sposta in automobile, sistemate dentro ettari di parcheggi, e nessun fronzolo progettuale concesso alla piacevolezza per la città o per i pedoni.
Alcune città e piccoli centri, preoccupate dell’impatto economico del commercio big-box sulle attività esistenti in centro, o per i suoi effetti in termini di sprawl, stanno dicendo di no a questi leviatani. Ma per una serie di ragioni, la grande maggioranza delle città hanno, o srotolato il tappeto rosso di benvenuto, o almeno approvato, brontolando. I negozi big-box offrono prezzi bassi e una grossa comodità, per una società sempre più povera di tempo. E per le amministrazioni locali che contano sulle entrate delle tasse commerciali per finanziare i servizi municipali, i grandi negozi big-box sono come manna dal cielo. La questione critica, per queste comunità è: il quali termini dare il benvenuto a queste grosse scatole?
Ad una estremità, nei casi di comunità che non conoscono le proprie possibilità o avvertono di avere pochi margini di trattativa con questi giganti del commercio, il risultato possono essere semplici scatoloni color crema di qualità industriale, coperti dai colori e marchi della compagnia, circondati da ettari di asfalto senza nemmeno un albero o un cespuglio in vista. All’altra estremità, un crescente numero di amministrazioni stanno “domando la scatola”, chiedendo un più alto livello di progettazione architettonica e intraprendendo azioni per assicurarsi che i superstores si rapportino meglio con l’ambiente e i dintorni. A Fort Collins, Colorado, della cui esperienza si farà un profilo in questa relazione, il consiglio municipale ha detto la sua adottando nuove regole per insediamenti di grosse dimensioni: “Questi standards e linee guida sono una risposta all’insoddisfazione rispetto alle strategie delle grandi imprese di distribuzione, che impongono progetti indifferenti all’identità e agli interessi locali. Scopo principale [delle regole] è di incoraggiare uno sviluppo che contribuisca a fare di Fort Collins un luogo distinto, riflettendole su caratteristiche fisiche a sommandosi ad esse in modo corretto”. Altri ritengono che la qualità generi qualità. Come ha sottolineato un urbanista nel territorio in rapido sviluppo della Douglas County, area suburbana a sud di Denver in Colorado, sostenendo gli standards locali sulla costruzione di big-box, “Non sarebbe saggio mortificare le regole. È un investimento che dà risultati. Se tieni un’immagine di basso profilo non sarai capace di attirare altre attività ad alta qualità che migliorino l’economia” (intervista al vicedirettore dell’Ufficio Urbanistica, John Johnson “New Wal-Mart Architecture Reflect Dougles Standards”, Rocky Mountain News, 10 luglio 1995).
Se ci sono segnali che l’ondata di negozi big-box possa aver raggiunto il massimo alla metà degli anni Novanta, come gli shopping malls hanno dominato i Settanta e gli Ottanta, è comunque chiaro che essi continueranno a porre problemi alle comunità anche negli anni del prossimo secolo. Molto dello sviluppo di alcune catene big-box si verifica come risultato di incursioni entro nuovi mercati, e questa caccia continuerà nella ricerca da parte degli operatori di aree prima non identificate o evitate, o di nuove che stanno emergendo a causa della crescita in località come la Douglas County in Colorado, una delle circoscrizioni a crescita più rapida livello nazionale. In mercati più maturi, le grandi catene lotteranno per la divisione degli spazi, aprendo nuovi negozi nella speranza di attirare clienti prima che essi raggiungano i punti vendita dei concorrenti: un fenomeno noto come cannibalizzazione. Il rallentamento e consolidamento del mercato big-box dovrebbe anche far suonare un campanello d’allarme nelle comunità potenziali ospiti. Quanto sarà spendibile un guscio standard big-box vuoto col suo piazzale a parcheggio, quando il negozio sarà chiuso? Resterà a lungo termine come un pugno nell’occhio della zona?
Questa relazione offre spunti e consigli al crescente numero di comunità che vogliono avere un esercizio commerciale big-box, ma averlo in modo sensibile agli effetti locali, e aiuterà ad operare perché questi superstores rimangano un elemento della città per gli anni a venire. Si concentra sulle esperienze recenti a Fort Collins, Colorado, che ha adottato una serie di linee guida e standards molto completi per adattare aspetto ed effetti degli insediamenti commerciali di grosse dimensioni.
Esposizione
Fort Collins, in molti e importanti aspetti, era un terreno ideale di sperimentazione di nuovi standards e linee guida per i negozi big-box. Si era già dotata di regole dettagliate riguardo al verde e alle insegne, la classica prima linea di difesa che le comunità impiegano nel rapportarsi coi superstores. Il problema, come ha dimostrato l’esperienza in tutti gli Stati Uniti, è che se il controllo delle insegne e la piantumazione di alberi possono aiutare ad attutire l’impatto, si tratta solo dei primi passi per un programma davvero efficace. In questo modo Fort Collins rea pronta ad andare oltre gli approcci abituali. La città aveva anche una base economica molto forte e occupava una posizione centrale nell’economia della regione, e in questo modo i consiglieri comunali non sbavavano certamente alla prospettiva di aggiungere qualche punto vendita in più, a qualunque costo. Unite a ciò, gruppi di quartiere di alto livello (Fort Collins ospita la Colorado State University) e un ufficio urbanistico con una formazione raffinata, anni di esperienza nel ben noto Land Development Guidance System della città e alte qualificazioni progettuali, e avrete il quadro per una riflessione innovativa. È anche importante sottolineare che l’amministrazione di Fort Collins agisce come autorità di governo cittadino secondo le leggi del Colorado, e ha di conseguenza ampi poteri di regolazione nell’uso del suolo.
Di fronte al flusso continuo di nuovi punti vendita di grosse dimensioni, Fort Collins ha adottato una moratoria su questo tipo di insediamenti, per consentire agli uffici di studiare gli impatti sulla comunità, e formulare chiare ed attuabili politiche per attenuarli. Gli uffici hanno organizzato un comitato consultivo informale comprendente rappresentanti dei quartieri, professionisti nel campo immobiliare, e cittadini interessati a collaborare con gli uffici di piano e di zoning per valutare nuove azioni. È stata coinvolta la Clarion Associates di Denver, per fornire consulenza riguardo alle esperienze in altre città, e assistenza nella redazione dei nuovi standards. Per rpima cosa, l’analisi si è concentrata sui seguenti aspetti:
Il consulenti, basandosi sulle proprie esperienze nella redazione di standards progettuali commerciali, e su una rassegna di misure innovative adottate in altre città come Bozeman, Montana; Jackson, Wyoming; Rancho Cucamonga, California, hanno presentato un insieme di potenziali linee guida e regolamenti alla città. Dopo diversi mesi di discussione, la planning commission e il consiglio municipale hanno adottato all’unanimità un corpo completo di standards basati sulle raccomandazioni del comitato consultivo e degli uffici comunali. Questi regolamenti si applicano a nuovi insediamenti commerciali di “grandi dimensioni”, definiti come “insediamenti commerciali o combinazioni di punti vendita in un singolo edificio, occupanti un’area di più di 2.500 metri quadrati lordi”, o che siano in aggiunta a grossi insediamenti commerciali esistenti, di cui incrementerebbero la superficie lorda di pavimento del 50%.
Caratteristiche Architettoniche
L’obiezione che più di frequente si solleva ai grossi superstores è che sembrano grandi e anonime scatole. Con facciate piatte e senza finestre, tetti piatti, mancanza di dettagli architettonici, entrate microscopiche difficili da vedersi, i negozi big-box sono nel migliore dei casi una noia, e nel peggiore un pugno nell’occhio per il futuro. Fort Collins ha adottato un insieme di chiari standards ad incoraggiare progetti architettonici migliori, che vadano oltre i prototipi presi belli e fatti dagli uffici della compagnia. Le nuove regole:
Colori, Materiali
Colori e materiali dell’edificio, così come il dettaglio delle architetture, possono qualificare o squalificare un big-box dal punto di vista estetico. Per alcune catene, in particolare i warehouse clubs e i deep-discounters, la scelta sembra essere quella dei materiali a disposizione, ovvero quelli più adatti agli impianti industriali. Altri usano composizioni di colori forti, e illuminazioni al neon per attirare l’attenzione, in modo tale che l’edificio diventa un gigantesco tabellone pubblicitario. Fort Collins ha adottato severe regole per incoraggiare l’uso di materiali di più alta qualità, che si inseriscano meglio nell’ambiente commerciale esistente e nei quartieri residenziali circostanti.
Relazioni con le strade e il quartiere circostante
Un aspetto spesso ignorato dei superstores è il modo in cui si relazionano e interagiscono con la comunità circostante e le pubbliche strade. L’approccio standard a volte sembra quello di tirare su una recinzione di legno alta due metri a separare le zone residenziali vicine, e un’altra recinzione a catenella con assi a schermare le zone di carico dei rifiuti. I quartieri di Fort Collins volevano qualcosa di più. I nuovi regolamenti richiedono che:
Flussi di traffico pedonale
Il pedone di solito è l’orfano abbandonato del commercio big-box, finché inizia a camminare dentro il negozio. Ci si aspetta di solito che schivi automobili, carrelli della spesa spinti dal vento, e altri ostacoli, prima di trovare la sua strada verso il negozio. Fort Collins ha adottato un insieme di requisiti per tentare di rendere i superstores più attraenti e sicuri ai pedoni.
Piazzali a Parcheggio
In aggiunta ai requisiti riguardanti i percorsi pedonali attraverso gli spazi dei parcheggi, Fort Collins si è cimentata anche con la stessa quantità e sistemazione delle centinaia, a volte migliaia di spazi parcheggio che classicamente sono il cortile dei big-box superstores. L’ordinanza promuove la localizzazione di queste strutture più vicino alle strade, e la discontinuità degli spazi a parcheggio, spezzettati secondo moduli separati da verde o altri elementi. Prima regola obbligatoria è che “non si localizzi fra la facciata principale e la strada principale, più del 50% dell’area di parcheggio non stradale complessiva”.
L’esperienza sino ad oggi
Fort Collins ha adottato i suoi standards per i big-box all’inizio del 1995. Le linee guida e i regolamenti erano parte integrante dell’orientativo Land Development Guidance System della città, e da allora sono stati interamente incorporati nel Land Use Code. Gli standards sono stati applicati dagli uffici nell’esame delle proposte, in stretto contatto con i consulenti progettisti. Anche se molti grossi progetti commerciali sono stati considerati fuori dagli standards e linee guida dopo l’adozione, due degli insediamenti principali stanno progredendo attraverso il processo di verifica dei progetti e i risultati, almeno sinora, sono positivi dal punto di vista della città. Secondo i funzionari degli uffici, la qualità delle proposte che esaminano è molto migliorata rispetto a prima dei regolamenti. Si avverte che le richieste della comunità per una progettazione responsabile stanno instaurando un clima in cui i divergenti obiettivi della qualità dei quartieri e del grande commercio possono essere affrontati e sommati attraverso la professionalità degli urbanisti.
La maggior parte dei costruttori e operatori di big-box hanno prestato attenzione e stanno sforzandosi in buona fede di venire incontro alle esigenze della città. Per esempio i progettisti di quello che dovrebbe essere un grosso insediamento, con un Wal-Mart di 20.000 metri quadrati, e un edificio da 12.000 metri quadri con vari occupanti, hanno presentato un piano che rappresenta un significativo avanzamento rispetto alla media dei negozi della catena. Ma la collaborazione ha rallentato quando sono stati coinvolti responsabili a livello nazionale. La questione principale, oltre all’intensità di utilizzo per quel sito particolare, è la richiesta di progettare un parcheggio distribuito tutto attorno all’edificio. I funzionari dell’impresa sono irremovibili, sulla costruzione della maggior parte degli spazi a parcheggio davanti alla facciata principale.
Un secondo grosso progetto vicino all’approvazione, un power center che comprende insieme sei big-box, sembra anche più promettente. La proposta comprende sette esercizi, da 7.500 a 10.500 metri quadrati, insieme a sei spazi per interventi futuri su 25 ettari. Quattro delle attività saranno raggruppate insieme in un solo grande edificio di 13.500 metri quadri. Il costruttore ha proposto un piano eccellente, che dimostra una grande dose di creatività nel venire incontro agli obiettivi standard dei big-box. Ciascuna facciata dell’edificio è dotata di caratteristiche architettoniche interessanti, molte delle costruzioni sono situate vicino alla strada, i parcheggi sono distribuiti attorno alle strutture principali anziché stare piazzati di fronte, percorsi pedonali ben definiti sono collocati in tutto lo spazio e le aree di carico sono integrate nel progetto edilizio, e relegate discretamente lontano dalla vista.
Conclusioni
Fort Collins ha fatto un grosso sforzo per influenzare le strategie di mercato delle grandi catene commerciali, che di solito dettano criteri di progetto indifferenti all’identità e interessi locali. Ciò è stato realizzato adottando un insieme dettagliato di standards progettuali e linee guida che adattano gli insediamenti commerciali secondo modi rispettosi dei caratteri comunitari, e ad attutire gli impatti negativi.
La discussione continua con gli operatori commerciali, sulla praticabilità degli standards scelti, in particolare la richiesta di ingressi multipli e di distribuire i parcheggi attorno agli edifici, rende questa attività in divenire un elemento di interesse e attento studio. Altre città negli Stati Uniti possono trarre beneficio dalla riflessione su quanto è accaduto qui, ma devono badare a tagliare su misura i propri approcci alla propria specifica situazione politica e di mercato, e agli impatti locali percepiti riguardo ai superstores commerciali.
Nota: il riferimento, generale, è a tutti gli altri articoli già riportati su Eddyburg/Megalopoli sul tema "big-box", nessuno escluso (fb)
La concorrenza commerciale, sia sul territorio che nell’iper-uranio multinazionale, inizia a produrre e rendere visibili cloni geneticamente modificati, che cambiano pelle (ma non più di tanto) per adattarsi meglio all’ambiente. La particolare operazione che qui si descrive brevemente, si può chiamare dei “cugini di campagna”: sono quattro, si assomigliano tanto, e sono pensati per la stessa campagna italiana. Visto che in questo campo l’inglese, a proposito e sproposito, va via come acqua fresca, preciso che la campagna qui si intende sia come campaign, che come countryside. Non che per i cugini la cosa faccia molta differenza.
L’impatto dei “villaggi della moda” è soprattutto visivo: come le lucine si accendono una dopo l’altra su un albero di Natale, nello stesso modo i nuovi colori dei villaggi si sovrappongono via via nel panorama italiano a svincoli dell’autostrada, a campagne, a periferie, ed è così che sino a questo punto sono stati trattati in questa serie di pezzi scritti per eddyburg.it. In altre parole, all’apparizione presentata come tale seguiva una riflessione, più o meno (di solito, meno) seria e approfondita. Il caso del Fashion District di Bagnolo San Vito, nel sud mantovano, è la prima occasione per procedere in senso inverso, visto che l’apparizione al momento in cui scrivo deve ancora avvenire, e le luci sono spente. Ovvero, mentre vengono stese queste note il villaggio è ancora in costruzione, e le quinte quasi cinematografiche delle architetture in stile spuntano ancora piuttosto brulle e grigie dalla pianura a ridosso del Po. Prontissime, sono invece le premesse e le promesse di questa ulteriore variazione sul tema dei nuovi insediamenti commerciali. Premesse e promesse che scivolano via lisce, su quello che tale Steve Collins (della JHP-Design, consulente “globale” della Fashion District) chiama the red velvet rope to value.
Come ci informa l’ufficio stampa nel file scaricabile dal sito, “la Fashion District è una holding costituita da un insieme di società immobiliari e di gestione”, con lo scopo di lanciare “un format commerciale distributivo innovativo, che si sviluppa sul modello del distretto industriale, che è ciò che ha determinato il successo del sistema imprenditoriale italiano”. Naturalmente, come si capisce scorrendo le specifiche di questa variazione sul modello del distretto industriale, non si vuole riprodurne il modello insediativo (con relativo disordine, sparpagliamento e quant’altro), ma lo spirito di azione complementare fra le imprese, in questo caso con un rapporto integrato fra produzione, distribuzione,
immagine. A parte le specifiche scelte in campo commerciale, pare proprio però che dal punto di vista spaziale interno/esterno e da quello dei rapporti col territorio vasto, non si esca dall’importato schema degli outlet villages, o almeno così si intuisce leggendo che a Bagnolo - come nelle altre tre “gambe” dell’articolata operazione a scala nazionale - vedremo “città in miniatura con strade, piazze, persino portici, che assecondano e favoriscono un modo del tutto italiano di fare acquisti: la passeggiata”. Scala nazionale, si diceva, visto che anche la struttura della holding e l’azione parallela immobiliare/organizzativa atterra contemporaneamente e con criterio identico su quattro siti: questo di Bagnolo nel mantovano, uno a Santhià nel vercellese, e due nel centro sud, rispettivamente a Valmontone nell’area romana e Molfetta nel barese. In cifre, e sempre intendendo complessivamente l’organismo a quattro gambe, questo sta a significare una superficie totale di vendita di 125.000 metri quadri, suddivisi fra 521 negozi più 225 “shop in the shops” (l’articolazione distributiva che probabilmente caratterizza l’approccio denominato per “distretti”), che creano 2.630 posti di lavoro e 10.500 posti auto, a servire una clientela annua calcolata in 52 milioni di gruppi/auto.
Solo qui, nella striscia di campagna fra gli abitati di Pietole (Virgilio) e Bagnolo, chiusa tra un canale e l’Autobrennero, servita dalla Statale 413 Carpi-Modena poco dopo la diramazione della 62 per la Cisa, si creeranno 550 posti di lavoro. Anche se per ora a questo proposito il supplemento specializzato del Corriere della Sera (10 ottobre) specifica solo “100 addetti alle vendite, 30 responsabili punti vendita, 25 viceresponsabili punti vendita”. Il totale, cifre alla mano, fa 155.
E gli altri? Anche il sito mantovaninelmondo.org resta un po’ sotto le previsioni dei promotori, e scrive che “Quando la struttura sarà a pieno regime, gli occupati si aggireranno sulle 400 unità”, ma forse c’è solo un metodo di calcolo diverso. Lo stesso sito web, ci informa tra l’altro che più o meno di fianco al Fashion District, nella stessa zona già a destinazione produttiva, su una superficie di 160.000 metri quadri si insedierà dal 2005 un impianto tessile decentrato dal polo mantovano, la Lubiam, per cui si prevedono altri 400 posti di lavoro. Quindi a quanto pare non vale la pena andare tanto per il sottile sulle questioni di impatto ambientale (come suggerito tiepidamente dal programma di sviluppo locale del basso mantovano): “Nemmeno il ritrovamento di preziosi reperti archeologici nell’area ha rallentato l’intervento”.
Cosa esattamente ci andranno a fare, i nuovi occupati, tra le colorate pareti degli “shops” o negli angoli specializzati degli “shops in the shops”? Possiamo cercare di indovinarlo scorrendo le job opportunities del sito di impresa fashiondistrict.it, opportunities a cui corrisponde - spesso se non sempre - l’attivazione di corsi del Fondo Sociale Europeo. Il piccolo popolo che in futuro occuperà professionalmente i vari anfratti del finto villaggio in stile padano/rinascimentale, si articola fra addetti - manageriali e non - alla vendita, personale per la ristorazione, e presumibilmente qualche unità per servizi, vigilanza, manutenzione ecc.; molti anche se non tutti - in una quota da definirsi - avranno contratti di tipo interinale, per cui la società ha già stipulato accordi con la Synergie (da qui, forse, le varie discrepanze nelle cifre). I corsi di formazione FSE di 600 ore per figure di Sales Promoter, gestiti dalla Fashion District in collaborazione con gli enti amministrativi territoriali interessati, prevedono lezioni in aula e stages in materia di: Comunicazione; Orientamento al mercato; Inglese; Altra lingua straniera; Organizzazione aziendale; Tecniche di vendita; Servizio al cliente; Modalità espositive; Gestione strategica e operativa di un punto vendita; Merceologia; Informatica. Non è poco, e a questo si aggiunge la formazione permanente di aggiornamento per personale già assunto, su approfondimenti delle materie citate, e/o altre discipline necessarie a muoversi tra la clientela anche internazionale e le varie proposte di Adidas, Rosenthal, Calvin Klein, Calzedonia, Pompea, Bassetti, Arimo ecc. Altro che braccia inopinatamente strappate all’agricoltura, come qualche spiritoso (a partire dal sottoscritto) potrebbe insinuare guardando i padiglioni a colori caldi che spuntano dagli ex campi arati della pianura mantovana.
Come ci conferma - se necessario - il dossier sui factory outlet italiani proposto dal sito infocommercio.it (curato da Luca Tamini, del Laboratorio Urbanistica e Commercio del Politecnico di Milano), quella dei parchi commerciali è tutt’altro che una moda passeggera, ma vero
nuovo paradigma del paesaggio socioeconomico e territoriale, che volenti o nolenti ci avvicina alle modalità distributive e insediative moderne europee. I principi alla base del villaggio tematico-commerciale, riassumendo al massimo, sono: grande dimensione pur nella relativa forte articolazione delle proposte (gli “shops in the shop”, o comunque i piccoli esercizi o produttori); sinergia interna ed esterna (col “territorio” in senso lato) che determina localizzazione e ruolo; amplissima capacità di attrazione (che nei fatti travalica di gran lunga il “territorio” di cui sopra).
Queste caratteristiche, comuni a tutte le varianti sul tema, mettono ben in luce la irrinunciabilità, ad esempio, di una collocazione altamente focalizzata (e altamente focalizzante ad esempio riguardo ai flussi di traffico), di una stretta integrazione con altri interventi (nel caso mantovano, ma anche altrove, una zona produttiva, o un bacino turistico di massa prossimo), ma allo stesso tempo una particolare attenzione a temi di impatto ambientale e paesistico. Un quadro generale delle precondizioni, potenzialità e cautele, per il caso specifico del Fashion District di Bagnolo San Vito, è ben riassunto dalla relativa scheda del Piano Territoriale provinciale di Mantova, di cui riportiamo di seguito alcuni elementi.
Il contesto comunale in cui l’intervento si colloca, è descritto dal sito web municipale comunebagnolosanvito.it come “prevalentemente agricolo, ma si diversifica anche in altri settori grazie al lavoro di piccole e medie imprese artigianali e commerciali e alla presenza di alcuni impianti industriali”. Per la pianificazione territoriale vasta, qui siamo in un ambito ben infrastrutturato, potenzialmente complementare al rafforzamento della fascia produttiva meridionale del capoluogo, che di conseguenza “rappresenta un riferimento prioritario per la definizione delle politiche insediative”, nel quadro della “connessione alla realizzazione del corridoio plurimodale autostradale e ferroviario Cremona-Mantova e al sistema tangenziale di Mantova”. Con queste premesse, le indicazioni per la pianificazione generale (il Prg secondo il sito comunale è attualmente in corso di redazione a partire da una bozza già presentata e pubblicamente discussa) sono di svilupparsi per “progetti di riqualificazione organici, mirati alla valorizzazione degli elementi di carattere paesaggistico, di natura ambientale o infrastrutturale presenti”, con un inserimento nel quadro delle reti ecologiche-ambientali così come infrastrutturali.
Resta, ovviamente, il problema di come inserire in pratica, in questo contenitore logico dove tutto in teoria si tiene, le molte decine di migliaia di metri quadri della “nuova meta turistica pensata per il piacere di chi la visita e collegata a parchi tematici, a family entertainment center, multisala cinematografiche, auditorium e grandi alberghi” (citazione dal sito minervagroup.it: “Sbarca in Italia Prime Retail”). Una meta turistico-commerciale che, come tutte le altre sue simili, ha una isocrona media di 60 minuti, di solito calcolata sulle velocità autostradali rese realistiche dalla collocazione a ridosso di svincoli e nodi ad altissima acessibilità. Il che, nonostante tutto, non descrive ancora appieno l’idea secondo cui si tratta di “macro dimensioni di cui attendiamo fiduciosi sviluppi e aperture”. E, come ci informa il Giornale di Brescia del 23 luglio 2002, le decisioni che contano sono già prese: “18 ettari di terreno pertinente, un’area commerciale di 34.000 metri quadrati, 110 negozi che apriranno in due fasi successive e un investimento di 80 milioni di euro” (Alessandro Cheula: Draco a Mantova con un mega-outlet da 80 milioni).
Evidentemente si sono chiariti tutti i dubbi sull’effettiva compatibilità ambientale di un intervento di queste dimensioni, così come risultano anche dal rapporto relativo al Programma Integrato di Sviluppo Locale “Basso Mantovano”, che individua alcuni punti critici della proposta Città della Moda, nella previsione del traffico indotto, localmente e su un contesto più ampio ed articolato, con possibilità di riservarsi in casi simili “esclusione di uno o più progetti, soglie dimensionali, tipologie costruttive” (par. 3.3. Analisi della sostenibilità ambientale). E su quei 18 ettari di terreno pertinente, nelle giornate già corte di fine ottobre 2003, spuntano dalla bruma padana, quasi finiti, i padiglioni freschi di cemento. Si profila visibile lo schema anticipato su mantovaninelmondo.org :“distribuiti a corona su di un’area quadrangolare, saranno caratterizzati in stile architettonico cinquecentesco, tipico dei centri storici della zona”. In attesa del giorno dell’inaugurazione, prevista nella prima settimana di novembre, come annunciato a colori brillanti con immagini esotiche, sulle pagine nazionali di alcuni quotidiani di grande diffusione.
E qui finisce il ragionamento “prevenuto”, ovvero sviluppato seppur superficialmente in base alla documentazione disponibile online, con un solo e rapido sguardo al cantiere, tra quel canale, quell’autostrada, e quei fossi. Fossi piuttosto simili a quelli della vicina Pietole, appena oltre il ponte sulle sei corsie, dove duemila anni fa una contadina, in cammino per i campi, si sgravava del futuro poeta Virgilio.
L’inaugurazione per quanto ne so è stata una faticaccia, a partire dall’ora di cena di giovedì 6 novembre, con un revival dei “mitici” anni Settanta per cui è stata ripescata una vecchia Gloria discotecara, con contorno delle solite ubique starlette televisive, a illuminare le tenebre della città diffusa. Dato che il sottoscritto in quel momento stava in un ingorgo della stessa megalopoli, ma spostato di un centinaio di chilometri verso ovest, per la virtuale cronaca dell’evento dobbiamo fidarci di fashionmagazine.it, che quel pomeriggio anticipava:
“un vero e proprio spettacolo che vedrà la partecipazione di Luisa Corna (nella fotina qui accanto) in qualità di presentatrice e cantante in coppia con Gloria Gaynor, i ragazzi di Amici di Maria De Filippi, Masha del Grande Fratello e l’ex letterina Alessia Fabiani”. Insomma un trionfo, oltre che dello stile architettonico “cinquecentesco” sicuramente apprezzato da tutti, anche dell’indispensabile nazionalpopputismo, che lo valorizza
Ma la vera inaugurazione, per un posto del genere, è quella del primo sabato pomeriggio, quando tutti i Fantozzi delle isocrone di competenza (e anche qualcuno in più, come nel mio caso), si accodano un fanalino dietro l’altro sulla statale ultraintasata, per sperimentare quello che il già citato tale Steve Collins descrive: when you visit you’re made to feel you’re on the guest list. Una lista lunghissima, che si snoda dai due serpentoni della statale e del casello autostradale, per imbottigliarsi nel percorso (si spera provvisorio) a cul-de-sac, che dopo aver zigzagato attraverso la zona industriale scavalca l’unico ponte sul canale ad immettere nel solito, maledetto, sterminato, parcheggio ad anello. Un parcheggio più o meno identico, nel male e nel malissimo, agli squallidi ciambelloni neri che stringono ad anello i vari villaggi della moda in stile: cambiano gli slogan pubblicitari sull’ispirazione storico-culturale del progetto, ma resta identica la prospettiva di osservazione dei lontani scatolini colorati dei padiglioni commerciali, da cui ci separa l’infinita distesa ondosa delle lamiere luccicanti. Non aiutano, nel caso specifico, l’abbondante pioggia e i lavori conclusi a metà, come testimoniano le abbondanti sbrodolate di fango, e le brusche interruzioni delle false prospettive “cinquecentesche”, evidentissime per chiunque (come il curioso sottoscritto) non punti a paraocchi innestati verso uno dei disneyani cancelli di ferro battuto, che immettono in una specie di piazza con fontana.
Una volta all’interno, nonostante qualche ulteriore segno di “non finito”, il panorama migliora di parecchio, e tornano in mente le riflessioni dello storico dei centri commerciali Richard Longstreth: nonostante tutti i voli pindarici, anche in buona fede, di intere generazioni di progettisti sul tema dei valori anche sociali e civici di questi spazi, la logica mercantile alla fine si piglia tutto, ma proprio tutto. Detto in altre parole, chi si aspettava un centro storico, cinquecentesco o altro, vero, verosimile, o finto, se ne può anche tornare a casa, a cercarselo in giardino tra l’oleandro e il baobab, se crede. Le piazze, nonostante l’illuminazione ad effetto, nonostante l’improbabile blasone Fashion District che campeggia similgentilizio su una facciata in stile, sono vuote come un foro boario la notte di Natale: non un paio di pensionati a spettegolare, né una coppietta a pomiciare, né tantomeno un botolo a concimare le aiuole nuove di zecca. La folla, che è tanta, tantissima, non si scosta istintivamente più di un metro o due dal filo delle vetrine, al punto che anche i portici (con i loro colonnati vezzosamente varianti in stile,colore, ed effetto prospettico ogni manciata di metri) sono quasi vuoti, salvo fidanzati o mariti solitari, fumanti, impazienti, o semplicemente preoccupati per lo stato del conto corrente (nessun automatismo maschilista di pre-giudizio: pura osservazione statistica).
L’unico vero effetto concreto della scelta stilistica, o delle balle a uso gonzi sulla scelta stilistica, a piacere, si nota nel punto di interfaccia fra il mondo esterno e l’enclave felice del distretto commerciale dedicato al retailtainment: mancano del tutto i “portali”, tratto comune dei villaggi di Serravalle, Fidenza, Franciacorta, anche se il tema era declinato in vari modi, dall’atrio barocco, al colonnato di Ben Hur, al portico per sgranapannocchie. Qui nelle ex campagne di Bagnolo San Vito è un cancello tipo Cenerentola, a introdurci in quello che ostinatamente, ancora sulle pagine del Il Giorno dello scorso 30 ottobre chiamano “vero e proprio villaggio in stile cinquecentesco, che secondo i progettisti meglio ricorda le atmosfere del territorio virgiliano” (Anna Talò, Qui si vive di sola moda).
Atmosfere del territorio virgiliano che invece sono proprio del tutto diverse, come basta verificare ripassando in senso inverso i cancelli disneyani, la ciambellona nera a lamiere ondulate del parcheggio, e il ponte sul melmoso canale verso la zona industriale. Perché oltre gli orizzonti artificiosi (e del tutto legittimamente tali, visto che di centro commerciale si tratta) della caricatura di centro storico privatizzato, sta il cosiddetto “territorio virgiliano”, con cui il villaggio non ha proprio voluto avere niente a che spartire, salvo citare a pezzi e bocconi qualche cartolina, dopo aver frullato proporzioni e materiali secondo la formula magica del GLA, neologismo da iniziati che sta per Gross Leasable Area. Nulla di più estraneo, solo per fare un esempio, alle strade che oltre il ponte dell’Autobrennero si infilano dall’abitato della frazione di San Biagio verso gli argini del Po, tra canali, poderi e cascine, fino al piccolo cimitero di San Nicolò, proprio sotto l’alta scarpata d’erba che segna il margine esterno del Grande Fiume. Da quella scarpata e dalle stradine lì intorno, il pomeriggio di Ognissanti scendeva una folla varia, a visitare le tombe dei cari. Folla tanto simile, forse identica, a quella che oggi si pigia ad un massimo di novanta centimetri dal filo vetrina, ma se non altro immersa in una “atmosfera virgiliana” un po’ più onesta.
In definitiva e per farla breve: Ok con la nuova frontiera del commercio qualificato, e va bene anche la mega isocrona, purché non si intasi di traffico superfluo pure il lavandino. Passino anche i villaggi in stile che cercano il “legame col territorio”, ma chissà perché sembrano dappertutto tutti uguali, soprattutto per la ciambellona nera e repellente (e probabilmente evitabile) del parcheggio. Passi tutto, se come a quanto pare è possibile si possono fare buoni accordi con le amministrazioni locali, che vadano oltre gli oneri di urbanizzazione, che vadano oltre la promozione dell’immagine tramite ballerinette e cantanti nazionalpopolari (o glamour, forse sempre per via del “territorio”). Solo, e scusate se concludo con una espressione tecnica, vedete di non prenderci per il culo. Grazie.