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Titolo originale: Designer Air - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

È quantomeno curioso che Los Angeles, una città di cui si maligna perché soffocata dal traffico, piena di strisce commerciali, che è messa alla gogna come città simbolo dello sprawl e dello smog, si stia affermando come uno dei principali laboratori del paese per una progettazione edilizia e urbanistica sostenibile. Sotto la pressione della crescita, del traffico, delle trasformazioni demografiche, la metropoli sta attraversando una metamorfosi, diventa più densa, si riorganizza attorno ai suoi molti centri e corridoi di mobilità.

È diventato chiaro che, se le nuove linee ferroviarie e una Prius [ auto a propulsione ibrida della Toyota, n.d.T.] in ogni garage sono parti importanti della soluzione al problema della qualità dell’aria in California meridionale, una strategia egualmente importante – e anche molto meno costosa – è un cambiamento nelle modalità di sviluppo della regione. La California meridionale ha bisogno di crescere come città, non secondo suburbi sempre più decentrati. La maggior parte dei nuovi insediamenti dovrà essere realizzata per zone ad alta densità, complessi multifamiliari e condomini — e non per casette unifamiliari — principalmente attorno alle stazioni ferroviarie e lungo i corridoi serviti dagli autobus.

Ogni tre anni le amministrazioni locali devono redigere un piano dei trasporti da presentare al governo federale, a dimostrare che la regione rispetta il Clean Air Act. Se ciò non accade, a livello federale vengono trattenuti miliardi di dollari per finanziamenti ai trasporti, e l’intera regione potrebbe avere seri buchi di bilancio (il governo federale sostiene più di metà dei finanziamenti). Non è una minaccia teorica. Negli anni ’90, dopo decenni di crescita spontanea e costruzione di strade ad Atlanta – che allora aveva attraversato la maggior espansione geografica mai riscontrata nella storia per un’area urbana – il governo federale tolse i finanziamenti, conquistando le prime pagine sulla stampa nazionale.

Era davvero una cattiva immagine per la città, e mandò il boom economico di Atlanta verso una spirale discendente, da cui non si è ancora ripresa.

Per evitare un destino simile, la Southern California Association of Governments (SCAG: l’ufficio responsabile per l’importantissimo piano dei trasporti) ha dovuto diventare sempre più creativa con l’urbanizzazione che continua a spingere verso Las Vegas e San Diego. La vasta e verdeggiante Riverside County, rapidamente ritagliata in ranchettes da due ettari, è l’area in crescita più rapida dello stato in crescita più rapida, e la gente continua a guidare le proprie auto modello Escalade o Navigator da qui (la maggior parte lavora a L.A. o nelle contee di Orange) a là (e nuove abitazioni crescono nelle contee di Riverside e San Bernardino).

Il motivo per cui l’aria è diventata più pulita negli ultimi vent’anni ha soprattutto a che fare con aggiustamenti tecnologici – catalizzatori, carburanti più puliti – ma per quanto riguarda la tecnologia la regione è già arrivata sino al punto in cui si aspetta che gli scienziati facciano il prossimo balzo verso ... Chi può dirlo? Propulsione a idrogeno? E allora gli ultimi piani dei trasporti hanno imboccato una nuova direzione: qui, nella California meridionale, praticamente il posto dove è stato inventato lo sprawl, gli 83 membri del consiglio regionale dello SCAG si sono accordati su quella che si chiama “ Strategia del 2 Per Cento” e che contiene tutta la nuova urbanizzazione e sviluppo demografico (sei milioni stimati entro il 2030) all’interno del solo 2% della superficie. È meno fantasioso di quanto sembra, se si considera che la regione delle sei contee SCAG occupa poco meno di 1.000 kmq (contee di Los Angeles, Orange, Ventura, San Bernardino, Riverside e Imperial).

Nel passato l’area è stata in grado di dimostrare conformità alle direttive federali investendo somme enormi in nuove strade e linee ferroviarie per attenuare la congestione. E a dire il vero anche il nuovo piano stanzia 210 miliardi di dollari per strade e ferrovie sino al 2030. Ma qui arriva il colpo: se il 50% delle riduzioni in emissioni inquinanti di cui c’è bisogno per essere conformi alle direttive del Clean Air Act (e ricevere i dollari federali) vengono da quell’investimento di 210 miliardi, l’altro 50% di riduzione deriva dal sostegno allo sviluppo nei centri esistenti, attorno alle stazioni ferroviarie, entro i corridoi di trasporto. “Mentre i miglioramenti nei trasporti costano miliardi di dollari” sottolinea il direttore esecutivo dello SCAG Mark Pisano, “i vantaggi per le emissioni derivanti da modi diversi di uso del suolo non costano nulla”.

Ma ci sono anche molti altri benefici, aggiunge Pisano: costruire abitazioni ad alta densità vicino ai trasporti collettivi nei centri esistenti probabilmente stimolerà l’utenza dei mezzi sino al 30% in più e ridurrà i costi di residenza del 25-30 per cento (dato che l’abitazione ad alta densità è meno costosa della casa unifamiliare suburbana). “Dato il bisogno drammatico di incrementare sia l’uso dei trasporti pubblici che l’offerta di case a prezzi accessibili, era difficile opporsi a questo piano” racconta Pisano. E il voto del consiglio regionale è stato unanime.

Non è una fantasticheria

Le trasformazioni demografiche nella regione (e in tutti gli USA) insieme al traffico stanno ridefinendo l’ American dream della casa nei sobborghi col garage a due auto. Il traffico obbliga le persone a vivere entro geografie sempre più minuscole: abitare, lavorare e passare il tempo libero vicino a casa! Perché, a meno che non si prenda l’autobus rapido sulla Wilshire, un viaggio da est a ovest o viceversa non diverte più nessuno.

Il mutamento demografico è un terremoto. Le coppie sposate con figli – gruppo che ha costituito la maggioranza dei nuclei familiari sino a non molto tempo fa – ora conta solo per il 25% della popolazione, una percentuale che cadrà sino al 20% tra pochi anni. Gli adulti soli – baby boomers invecchiati e echo boomers più giovani – costituiranno presto la nuova maggioranza; e quanti adulti soli vogliono vivere in una casa unifamiliare nei suburbi? Sono i lofts, gli spazi abitazione-lavoro, i condomini, le case aggregate dentro a quartieri urbani che funzionano a tempo pieno tutta la settimana, con bar, manifestazioni artistiche, cinema e teatri, il tipo di residenza che preferiscono.

Anche il settore immobiliare si sta trasformando radicalmente.

La PricewaterhouseCoopers, che studia su base annua 500 operatori, investitori e costruttori di punta per il suo autorevole rapporto Emerging Trends in Real Estate, quest’anno ha classificato al primo posto nelle graduatorie di scelta le localizzazioni vicino ai trasporti collettivi, per tutti i tipi di insediamento: residenziale, commerciale, terziario.

Ecco perché la Strategia del 2 Per Cento della SCAG non è sostenuta solo dai funzionari pubblici, ma anche dal settore immobiliare, e addirittura dall’enormemente influente (e generosa nei contributi ai politici) Building Industry Association of Southern California, che comprende tutti i grandi costruttori residenziali suburbani, come Kaufman e Broad.

“Abbiamo sempre desiderato costruire in ambienti urbani, ma era troppo difficile” confida Kirk Roloff della Archstone-Smith, grosso costruttore nazionale che ha appena acquisito la Del Mar Station – ancora in costruzione – sulla Gold Line in centro a Pasadena. “Ora il mercato lo rende redditizio” aggiunge Tony Salazar, di un’altro operatore nazionale, McCormack Baron Salazar, “Tra l’altro, in un posto come L.A. non c’è davvero rimasto altro per costruire”.

L’urbanista John Fregonese di Portland, il consulente che ha collaborato con la SCAG nel passaggio alla Strategia del 2 Per Cento, aggiunge: “A Denver o Dallas si può ancora scegliere dove costruire, ma la California meridionale è la metropoli più densamente urbanizzata degli USA. I pianificatori qui possono anche baloccarsi con l’idea di densità sul modello di Portland, ma il modello dovrebbero essere Manhattan, o Chicago. Si prevedono altri sei milioni di abitanti entro il 2030: l’incremento maggiore dagli anni ‘50. La pressione della crescita qui continuerà, inesorabile e immutabile”.

Ma non c’è da preoccuparsi. La sola contea di Los Angeles County possiede 800 km di binari urbani ed extraurbani per pendolari, con più di 100 stazioni, e altri 25 km e 15 stazioni urbane in arrivo. La rete su ferro è affiancata da 2.300 autobus con 18.500 fermate, il numero dei corridoi del sistema Metro Rapid è in corso di espansione, da 11 a 28 in tre anni, e a Los Angeles il primo con dodici stazioni aprirà quest’autunno. La rete del trasporto pubblico – al contrario della rete stradale che produce sprawl ed emissioni nocive – può diventare l’armatura di un sistema di crescita più compatto, che renda possibile spostarsi a piedi, in bicicletta, coi mezzi collettivi, anziché prendere sempre l’auto: e respirare aria più pulita.

Nota: il testo originale al sito LA Weekly ; per chi fosse interessato ad approfondire, qui la pagina delle pubblicazioni dello SCAG(f.b.)

Titolo originale: The Incredible Shrinking Box: Retailers shape stores to fit urban settings – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Negli ultimissimi anni si è verificata una vera e propria fuga di americani verso città e vecchi suburbi interni, alla ricerca di tempi di pendolarismo più brevi e di cose più piacevoli da fare. Ma poi finiscono sempre per passare i sabati proprio nel posto che avevano tentato di lasciarsi alle spalle: i nuovi sobborghi.

Perché comprare le provviste di una settimana a prezzi bassi significa andare là fuori, dove i giganti della distribuzione piantano le proprie classiche, gigantesche superfici. E lo stesso vale per i casalinghi, materiali per l’edilizia, articoli di drogheria: i cittadini devono mettersi in coda sugli svincoli delle superstrade in periferia, per comprare quello di cui hanno bisogno. Questo perché, per anni, le condizioni demografiche proprio non ideali e i vincoli fisici dei quartieri più centrali delle città hanno tenuto lontani i commercianti. Anche nei vecchi sobborghi si sono visti i punti vendita delle strade commerciali impallidire poco a poco mentre le grandi catene risucchiavano risorse verso i pascoli più esterni.

Ora, con le aree interne che attirano nuovi abitanti, sta emergendo una nuova generazione di complessi commerciali mixed-use di alta qualità. A partire da Atlanta, dove uno dei più importanti progetti di riuso nella storia della città, porterà in centro l’IKEA e una serie di altri negozi; a Chicago, col primo punto vendita Home Depot multipiano; a Washington, D.C. col suo rinascimento commerciale, dove i grandi operatori stanno scoprendo in modo massiccio vecchi e nuovi quartieri.

A spingere in questa direzione sono saggi amministratori locali che hanno capito come nei quartieri urbani e sobborghi più interni attirare grandi operatori commerciali e mescolarli adeguatamente insediamenti residenziali possa rivitalizzare le città. E alcuni stanno rispondendo, entrando con le proprie attività in questi quartieri, e non solo vicino alle rampe della superstrada.

Questo nuovo tipo di flessibilità ha effetti sulle città del Michigan che tentano di rivitalizzare o tutelare i propri centri. Per offrire una vera percorribilità pedonale, tanto agognata dai residenti, città diversissime come Detroit, Grand Rapids, Ann Arbor, Troy, Flint, o Traverse City hanno bisogno di accessibili negozi alimentari, di ferramenta e casalinghi, di abbigliamento.

Ma il crescente interesse delle grandi catene per le zone centrali può anche avere effetti sulla pure crescente resistenza alla realizzazione di big-box nelle aree rurali. Per esempio, dopo una recente sentenza favorevole del tribunale, un gruppo di residenti e consiglieri di Acme Township, poco a est di Traverse City, sta lavorando per convincere la Meijer, Inc. a mettere da parte il progetto di un altro scatolone da oltre 20.000 metri quadrati in mezzo a un campo, e costruire invece un punto vendita su due piani, con parcheggio incorporato, nel mezzo di un complesso urbano di tipo new urbanist da tempo previsto nel piano regolatore della città in una zona appena oltre la strada. Questo nuovo centro comprenderebbe centinaia di abitazioni singole, condomini, vari negozi, uffici e un parco.

Segnali sorprendenti

Uno dei segnali più decisi di quanto fondamentale si possa rivelare questa evoluzione della dottrina commerciale “solo big-box” viene dallo International Council of Shopping Centers lo scorso dicembre. Robert Stoker, responsabile immobiliare della Wal-Mart Stores, Inc., ha dichiarato: “Abbiamo raggiunto uno stadio in cui possiamo essere flessibili. Non siamo più obbligati a costruire scatoloni ammiraglie grigio-blu”.

Stoker ha citato parecchi esempi nel mondo di grandi complessi commerciali che hanno adattato la formula di progetto, un tempo rigida, per adeguarla ai quartieri esistenti, ai nuovi insediamenti mixed use, e anche a strutture sviluppate in altezza. Per il mondo dell’edilizia commerciale, è un po’ come se il Papa avesse cambiato il testo del Padre Nostro.

Wal-Mart non è sola nella volontà di adattarsi ad ambienti più urbani, dopo aver rifiutato a lungo di allontanarsi da una formula mantenuta sin dagli anni ‘60: un edificio a un solo piano su una grande strada di comunicazione, circondato da asfalto.

“Nel 1960, con ventimila metri quadrati di superficie commerciale, si occupavano complessivamente circa 5.000 mq in un edificio multipiano” dice Ed McMahon, membro anziano dello Urban Land Institute autore di numerosi articoli sulle tendenze della progettazione commerciale. “Sino a tempi molto recenti, quegli stessi ventimila metri quadrati sarebbero stati su un solo livello, più altri otto ettari per i parcheggi”.

Un altro grosso operatore commerciale, la Target Corporation, è stato fra i primi a utilizzare un modello più compatto. Il negozio immagine della compagnia a Minneapolis è su quattro livelli, e ce ne sono altri a due piani con parcheggi incorporati a Atlanta, Gaithersburg nel Maryland, e altri luoghi. La Home Depot di recente ha aperto un negozio su tre piani in centro a Chicago. La Wal-Mart ha un punto vendita su due piani in un complesso mixed-use a Long Beach in California, e sta per entrare in altri due piani in un altro mixed-use sviluppato in altezza a Rego, New York.

I complessi urbani a funzioni miste spuntano un po’ dappertutto, racconta Cindy Stewart, direttrice per i rapporti con le amministrazioni locali allo International Council for Shopping Centers. “Si vedono ancora realizzati i tipi del lifestyle e power centers, ma gli operatori stanno entrando nel mercato urbano, in progetti che contengono anche residenze, dato che c’è un forte bisogno di entrambi”.

Perchè funziona

Anche se costruire all’interno dei quartieri richiede un ripensamento delle architetture, dell’occupazione di superfici, di come organizzare i punti di carico scarico o schermare i parcheggi, McMahon sostiene che ne vale la pena: i punti vendita in città spesso funzionano meglio dei loro corrispondenti suburbani. Sempre più operatori riconoscono quello che viene definito il dividendo della qualità spaziale: “La gente sta più a lungo e spende di più, nei posti che si sanno guadagnare affetto. Le fasce commerciali sono il tipo del secolo scorso, mentre il mixed use è l’ambiente adatto a questo secolo”.

La signora Stewart elenca due ragioni per cui i big box si stanno riplasmando in formati da centro città.

“I suburbi sono saturi” dice, “i costruttori e commercianti sono alle ricerca di nuovi mercati, e questi sono i vecchi spazi che hanno bisogno di una rinascita. Nel caso di aree nuove ci sono molte norme da osservare, che rendono quei progetti piuttosto difficili da realizzare”.

Aggiunge, che i settori in crescita più rapida fra i membri della sua associazione commerciale sono le collaborazioni con governi locali e gruppi di cittadini per il ripristino di strutture commerciali. Alcune grandi città e suburbi di antica formazione stanno ristrutturando corridoi commerciali non solo in quanto spazi per negozi, ma ambienti urbani veri e propri: mixed use, spazi pedonali che danno la sensazione di una vecchia via principale. Esattamente quello che chiede ad esempio il piano regolatore della nostra piccola cittadina di Acme.

Gli abitanti delle aree centrali delle città del Michigan, dei suburbi interni o di quelli più remoti, hanno molto da imparare dalle più recenti collaborazioni fra città e operatori commerciali per la progettazione di ambienti di successo.

Rinascita a Washington

Una di queste collaborazioni è stata a Washington, D.C., dove sindaco e associazioni economich elocali hanno istituito il Washington, DC Marketing Center per attirare i commercianti più scettici verso i quartieri in ripresa.

“Abbiamo raccolto tutte le offerte commerciali in un unico documento” racconta Michael Stevens, direttore generale del Centro “e l’abbiamo diffuso tramite il nostro sito web. Abbiamo tutte le informazioni demografiche e sul traffico”.

Un’ampia ricerca ha rivelato che i quartieri possiedono un enorme potere d’acquisto, molto ma molto più di quanto calcolato dal censimento, e reddito superiore a quanto chiunque potesse immaginare. Ma dall’area uscivano annualmente 424 milioni di dollari (un terzo del potere d’acquisto) verso negozi collocati altrove. Così l’amministrazione ha steso un accordo per realizzare Tivoli Square, progetto che contiene un negozio Giant Foods – cosa rara in città, su 5.000 metri quadrati – il restaurato teatro Tivoli, 2.000 mq di negozi e 3.000 di uffici nei piani superiori.

Tivoli Square ha innescato il più grosso programma commerciale della zona, chiamato D.C. USA, che combina operatori regionali e nazionali con ristoranti e una grossa palestra.

Transit Village a Oakland

Un progetto per Oakland, California, sta rimediando ai danni provocati alla zona Fruitvale da anni di espansione suburbana.

“Fruitvale era diventato un quartiere assai poco attraente, e piuttosto sporco” dice Arabella Martinez, ex responsabile dell’associazione ispanica Unity Council, ente senza scopo di lucro che offre opportunità ai latino-americani nell’area della Baia.

Il viale era degradato; la vicina stazione della linea BART, circondata da ettari di parcheggi, era priva di collegamenti alla zona commerciale. L’associazione faceva pressioni sull’amministrazione per realizzare su propria iniziativa un “ transit village” nel parcheggio della BART. Si pensava che negozi e ristoranti a servizio sia del quartiere che dei pendolari avrebbero collegato stazione e zona commerciale, offrendo anche un luogo di incontro. Poi si sono aggiunte case e uffici, per aumentare l’offerta di posti di lavoro. Oggi, a realizzazione quasi completata, l’area ha cambiato aspetto.

“Si vede un incredibile numero di persone che fanno shopping, e non ci sono più le sbarre di ferro per sicurezza davanti alle vetrine” dice la signora Martinez. “Il quartiere è passato da un tasso di superfici non occupate del 40% circa nel 1990 all’1% di oggi. Tutto dimostra che la strategia di concentrarsi sul commercio ha funzionato. Sto vivendo nel mio sogno”.

Nuova vita a St. Louis Park

Se i progetti per Oakland e Washington indicano la strada per iniziative del genere a Detroit o Grand Rapids, una buona realizzazione in Minnesota potrebbe essere d’esempio a posti come Troy, o anche la piccola Acme. Entrambi mancano di un centro, e sono minacciati dallo sviluppo a sprawl.

Nei primi anni ‘90, la principale striscia commerciale di St. Louis Park era decaduta sino a diventare una fila di banchi dei pegni, negozi a credito e altre botteghe stentate. Il consiglio comunale decise che era tempo di pensare a un vero centro città.

“La gente desiderava davvero avere un luogo dove si potesse andare semplicemente per starci: un vero centro” dice Richard McLaughlin, l’architetto e urbanista che ha condotto i laboratori partecipati per il distretto commerciale con residenze e verde. La città ha ingaggiato la TOLD Development Company, che con particolare attenzione all’atmosfera commerciale ha iniziato i lavori nel 2001 per 10.000 metri quadrati di negozi e 660 unità residenziali. Il principale dell’impresa, Bob Cunningham, dice che il progetto ha ripagato.

“Quello che davvero attira le persone lì è la miscela di offerta commerciale, perché migliora la vita” dice Cunningham, e aggiunge che l’occupazione degli spazi residenziali non è mai scesa sotto il 94%.

Il mix comprende un centro daycare, Pier One Imports, ristoranti, Panera Bread, Starbucks Corporation, e boutiques locali, insieme a uno spazio farmers market e iniziative pubbliche che hanno fatto di questo spazio a verde lungo 200 metri connesso ai 12 ettari di Wolfe Park un punto focale di incontro.

La città ha sostenuto l’iniziativa realizzando piccole strutture a parcheggio condiviso, oltre a rivedere il proprio sistema di tassazione locale per sfruttare i valori immobiliari in crescita e ripagarsi gli investimenti negli spazi verdi e arredi stradali. Cunningham dice che il finanziamento è stato la parte più difficile: “Chi concede prestiti lavora su appartamenti, condomini, o commercio. La maggior parte non tratta il mixed use. Ma ora è arrivato il tempo anche per questo tipo di prodotto”.

Nota: il testo originale al sito Michigan Land Use Institute ; qui su Eddyburg, tra l'altro, esperienze analoghe descritte nel "Manuale per i centri commerciali dismessi" o nella mia nota sul piano di recupero dell'area di Greater Southdalea Edina, nella fascia metropolitana di Minneapolis (f.b.)

Titolo originale: A Phoenix from the Mud – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La cosa giusta sostenuta da David Brooks nel suo commento sul New York Times, Katrina’s Silver Lining” è che la devastazione di New Orleans offre un’occasione unica – a dire il vero, l’obbligo – di ricostruire questa città americana in modi che riducano la povertà urbana endemica.

Ma, quando descrive come ciò debba essere fatto, Brooks rivela il suo vero scopo. Questo rappresentante dell’American Enterprise Institute non è tanto interessato a cambiare la vita della povera gente, quanto lo è a consolidare quei miasmi suburbani essenziali al potere politico conservatore in America. Come? Brooks vuole inserire le persone residenti a New Orleans colpite dalla povertà, e ora sfollate, in vari suburbi middle-class sparsi per il paese:

“Nel mondo del post-Katrina, ciò significa dare alle persone che non desiderano tornare a New Orleans il modo di disperdersi in varie zone a ceto medio della nazione”.

Ovviamente, questo vuol dire collocarli nei suburbi, dove il loro costo della vita schizzerà alle stelle. In primo luogo, avranno bisogno di automobili. Per comprarsele, e comprare la benzina, avranno bisogno di lavori che offrano di più di quelli per cui sono, presumibilmente, qualificati ora. Se trovano lavoro, magari da Wal-Mart, avranno bisogno di assistenza familiare perché i parenti non abitano più nello stesso quartiere, e magari nemmeno nello stato. Naturalmente saliranno anche i costi per la casa, a meno che queste persone vengano ricollocate dentro a ghetti urbani: vanificando così l’intero programma.

Il fatto è, che la povera gente si muove verso i suburbi middle-class in tutti gli Stati Uniti, e la cosa non funziona. Man mano le giovani coppie agiate e i baby-boomers verso la pensione riscoprono la qualità dei quartieri ben progettati ad alta densità nei nostri centri urbani serviti da trasporti pubblici, essi spingono la popolazione più povera verso i suburbi di prima fascia. (Questo, a sua volta, spinge fuori la gente del cento medio, verso sobborghi più esterni, spesso nuovi, aumentando le distanze di pendolarismo, le tensioni nelle famiglie, quelle nei bilanci statali e negli ecosistemi locali). Questa dinamica, talvolta definita gentrification, altre volte rinnovo urbano, in effetti significa spostare povertà e criminalità verso i sobborghi, dove l’assenza di senso comunitario, di parentele, di connessione sociale, rende anche più difficile fronteggiarle. E, chiamatemi cinico, ma dubito fortemente che un programma di migrazione forzata imposto dal governo federale possa offrire occasioni e spazi tali da garantire il successo di questo esperimento.

C’è un metodo migliore, e più semplice da mettere in pratica. Invece di consolidare una sperimentazione che dura da cinquant’anni ed è fallita, col sobborgo a bassa densità, la ricostruzione della New Orleans metropolitana dovrebbe essere vista come l’occasione non solo per correggere i problemi causati dalla povertà umana e dalla vulnerabilità fisica della città, ma anche per segnare la strada a tutte le altre realtà metropolitane d’America.

Ciò comporta integrare tre concetti all’interno di un piano di riorganizzazione regionale negoziato coi residenti di New Orleans. Il primo concetto è la smart growth. Il secondo è un tipo di insediamento basato sul trasporto collettivo. Il terzo è una produzione di energia diffusa nel territorio. Smart growth significa progettare insediamenti a densità più elevate, per abitanti a redditi misti in modo da rafforzare le famiglie, costruire un senso comunitario e collocare i servizi di necessità quotidiana ad una distanza da casa facilmente percorribile a piedi. Sta accadendo in tutti gli Stati Uniti. L’insediamento pensato per il trasporto collettivo si basa sull’idea che le nuove costruzioni, o le ricostruzioni, si debbano organizzare attorno a trasporti di massa energeticamente efficienti, che aumentano la mobilità metropolitana, riducendo il tempo trascorso in auto (e la correlata dipendenza dal petrolio). Integrare questi due concetti significa una rete di comunità sane, legate da reti di trasporto efficiente e a prezzi ragionevoli, incrementare l’attività commerciale, le possibilità e le scelte in tutta l’area metropolitana.

L’ultima idea, della produzione energetica distribuita, è la più innovativa, ma al tempo stesso la più importante dal punto di vista strategico. La produzione energetica diffusa, l’uso di generatori locali più piccoli ad alta efficienza, è in contrasto con l’uso tradizionale di grossi generatori centralizzati, spesso inefficienti e inquinanti. Le tecnologie esistono, e molti edifici terziari nelle zone urbane, o fabbriche high-tech che hanno bisogno di energia altamente affidabile, li utilizzano. Addirittura, New York City ha deliberato che una certa percentuale dei nuovi impianti energetici debba essere distribuita, per ridurre il carico sui sistemi centralizzati man mano aumenta il consumo. L’effetto è di creare un sistema energetico metropolitano più solido, in grado di sostenere cadute locali in modo più efficiente, eliminando al contempo circa un terzo dell’inefficienza dovuta alle perdite durante la trasmissione. Coi prezzi energetici in salita e la minaccia certa di nuovi uragani, efficienza e affidabilità diventano essenziali.

La partecipazione locale, sino al livello di quartiere, sarà un fattore critico di questo processo. La ricostruzione post-bellica nei Balcani (in gran parte ignorata nel caso dell’Iraq) ha insegnato nel modo più tragico che senza partecipazione sociale gli sforzi per la ripresa possono prendere direzioni orribilmente sbagliate. Fra le cosiddette “ charrette” sviluppate nei processi di smart growth, e le metodologie di coinvolgimento comunitario delle agenzie umanitarie, i tre elementi per una New Orleans sostenibile possono essere plasmati su misura secondo bisogni, speranze e valori degli abitanti. All’interno di questo processo, il ruolo della politica locale, ora piuttosto scosso, si rafforzerebbe, e l’economia subirebbe un vero boom a causa del lavoro di ricostruzione.

Tutto sommato, abbiamo le conoscenze, capacità e tecnologie per collaborare con gli abitanti di New Orleans a trasformare la città, da simbolo dell’America peggiore, a quanto l’America potrebbe diventare. O meglio, avrebbe bisogno di diventare. Quello che non possiamo fare, è di ricostruire semplicemente l’ingiustizia urbana, e il disagio suburbano.

Nota: il testo originale al sito TomPaine Common Sense; su Eddyburg sono numerosissimi i contributi sul "caso" New Orleans dopo le distruzioni dell'agosto 2005, si veda almeno per confronto sui temi della ricostruzione, questo articolo di Drake Bennet dal Boston Globe (f.b.)

Kenneth M. Chilton, Greyfields: The New Horizon for Infill and Higher Density Regeneration, Southeast Regional Environmental Finance Center, EPA Region 4, University of Louisville, 2005 – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

Introduzione

I greyfields sono vecchie aree commerciali e terziarie obsolete e abbandonate, in particolare centri commerciali [ mall]. Basta percorrere in auto qualunque arteria principale di qualunque città, per vedere centri commerciali un tempo attivi e ora sottoutilizzati. Molte di queste ex strutture base urbane ora subiscono un processo di disinvestimento. Gli inquilini si sono spostati verso il suburbio e i nuovi corridoi commerciali dotati della “giusta” demografia di mercato, del complesso di attività insediate e forme architettoniche.

Si lasciano dietro migliaia di metri quadrati di spazio commerciale, circondato da un mare di asfalto grigio. Comunemente note come greyfields, queste brutture sono i simboli di una radicata modalità di sviluppo casuale.

Questi greyfields pongono una particolare sfida immobiliare e di sviluppo urbano. Sono difficili da definire. Alcuni ricercatori chiamano greyfield solo i centri commerciali chiusi ad aria condizionata contenenti un minimo di 40.000 metri quadri di superficie commerciale. Altri prendono in considerazione anche le fasce commerciali aperte, i power center (complessi dominati da pochi grossi anchor come Kmart o Wal-Mart), o anche complessi di quartiere a servizio di piccole zone, abitualmente basati su un negozio alimentare. L’entità del problema varia a seconda del tipo di definizione utilizzato.

Per la comunità circostante un complesso commerciale abbandonato, fa poca differenza il tipo di definizione usato: quello spazio abbassa i valori immobiliari, scoraggia nuovi investimenti e non produce sufficiente gettito fiscale e posti di lavoro. Molte fasce commerciali aperte abbandonate risalenti agli anni ’50, ’60, ’70, non vengono qualificate come greyfields se si considerano solo i “centri commerciali” chiusi. Ma queste aree che un tempo ospitavano supermarkets, altra grande distribuzione e ristoranti, sono piuttosto comuni nei suburbi delle fasce più interne, colpite dallo sviluppo suburbano più esterno. Indipendentemente dalle dimensioni di questi complessi, ciascuna area rappresenta una possibilità di rafforzare la comunità se solo si trovano investitori sufficientemente capaci di comprendere i bisogni del mercato.

Una obsolescenza non pianificata

Il declino dei vecchi malls si può attribuire ad una varietà di fattori. I movimenti di popolazione e il nuovo insediamento suburbano hanno modificato l’ambiente commerciale in modi che ricordano il declino delle aree centrali urbane. Le città hanno perso molta della propria attività commerciale con la “centrocommercializzazione” degli anni ’60. Ora, con le tendenze ad un insediamento sempre più esterno al centro, si ripete un processo simile di dismissione. Gli analisti del settore indicano come motivo primario di declino del mall i gusti dei consumatori in rapida evoluzione che alimentano la domanda per nuove esperienze di shopping. Il mall è considerato “artificiale” e il consumatore sceglie invece nuovi formati più interessanti e vari. Con sempre più tempo dedicato agli spostamenti pendolari, il consumatore cerca possibilità commerciali più comode. A seconda di come si guarda la questione, il problema cambia. In alcuni casi, sono gli stessi centri commerciali a non essersi organizzati al meglio per la concorrenza. Devono dare parte della colpa della propria crisi ai mancati investimenti per restare sulla cresta dell’onda.

Individuazione del problema

I dati attuali

Al momento esiste un’informazione limitata sull’entità del problema greyfield. Non se ne conosce il numero esatto. Secondo il Congress for New Urbanism (CNU), circa il 7% dei centri commerciali regionali è da considerarsi in situazione greyfield, con un altro 12% avviato a diventarlo. In generale il CNU stima che il numero dei complessi commerciali in queste condizioni sia di oltre 2.000. Lo International Council of Shopping Centers, utilizzando una definizione più ristretta, stima la quantità di greyfields in 1.200 unità. Secondo un articolo recente, i centri commerciali “morti” o morenti rappresentano circa il 19% del totale nazionale. Il centro studi privato RetailForward, calcola che per ogni supercenter della Wal-Mart inaugurato in futuro, chiuderanno due punti vendita alimentari nelle vicinanze. Da quando Wal-Mart ha saturato il mercato dell’area, a Oklahoma City ha chiuso un totale di 30 grocery stores. Il Mall of Memphis, Tennessee, ha chiuso la vigilia di Natale del 2003 dopo 21 anni di esistenza. La crescita dei mega-negozi e il continuo sprawl suburbano indicano che quello dei complessi commerciali dismessi sarà un problema di lungo periodo.

In media un greyfield occupa 18 ettari, una superficie sufficiente a realizzare varie possibilità, come residenza, commercio e altre funzioni di servizio. Diciotto ettari ad esempio potrebbero servire a 400 alloggi su una densità di oltre venti abitazioni ettaro. Quindi i greyfields rappresentano una possibilità di ridimensionare l’ondata di insediamento diffuso. I vantaggi di queste zone sono parecchi, essendo di solito dotate di:

• buona localizzazione lungo arterie di traffico

• superfici notevoli in zone a insediamento consolidato

• infrastrutture disponibili

• assenza di contaminazioni, visto l’uso precedente

• una certa densità di popolazione circostante

La localizzazione

L’investimento originale che ha creato il complesso commerciale si basava su analisi di fattibilità tradizionali. L’area aveva propri valori localizzativi che la rendevano matura per l’edificazione. Purtroppo, mentre le città continuavano a svilupparsi verso l’esterno, i costruttori hanno continuato a cercare spazi ben posizionati da edificare, ovvero terreni su strade di grande traffico, incroci o svincoli autostradali. Il fatto che crescano nuovi insediamenti non rende i vecchi malls obsoleti. Al contrario, essi e le strisce commerciali sono ottimamente collocati. Molti sono vicini a fermate del trasporto pubblico, con grande movimento connesso di traffico automobilistico. Nel corso degli anni i quartieri sono cambiati, ma si tratta di localizzazioni vitali per le città che ospitano i greyfields.

Le dimensioni

Uno degli argomenti più diffusi fra i costruttori che esitano a intervenire nei vecchi quartieri, è la mancanza di spazio. La superficie di molti complessi commerciali dismessi è un’enorme opportunità, per un investitore attento. A ben vedere, alcuni greyfields sono nei pressi di quartieri in corso di rinascita, con gli abitanti in cerca di possibilità per case a prezzi accessibili vicine al centro città. Gli ex spazi commerciali potrebbero essere una risorsa di spazi per case del genere e catalizzare investimenti più ampi e diffusi. In questi quartieri il potenziale di intervento sui greyfields è molto alto. La sfida è di progettare complessi che siano adeguati a gusti dei nuovi residenti, anziché offrirsi al ribasso ad una nicchia di mercato non più sostenibile nell’area.

Le infrastrutture

I siti già urbanizzati possono essere meno dispendiosi per l’intervento, dato che non necessitano di grandi spese di infrastrutturazione. Esistono giù i collegamenti alle reti idriche, elettriche, di comunicazione e fogne. Spesso esiste anche quello al servizio di autobus. Comunque, nei casi di interventi che richiedono sostanziali modifiche all’assetto esistente, i costi infrastrutturali possono essere elevati. Ad esempio, la trasformazione di uno spazio a funzioni mixed use richiede molti interventi in termini di strade, marciapiedi, verde, edifici.

Contaminazione

Alcuni investitori preferiscono evitare i quartieri esistenti e spazi urbanizzati a causa dei pericoli di contaminazione. Nel caso degli spazi dismessi commerciali, questo non è un problema. I greyfields non hanno una vicenda di usi industriali, e a meno che il mall non ospitasse un garage per i trasporti o una lavanderia secco, non c’è alcun bisogno di occuparsi di contaminazione. Un problema in più può essere l’amianto. Questi problemi possono essere facilmente ridimensionati verificando prima dell’intervento sia la documentazione sugli usi precedenti, sia tramite sopraluogo sul sito.

La densità di popolazione

I greyfields tendono a collocarsi in aree densamente popolate. Spesso il declino del complesso commerciale è in parte connesso ai mutamenti demografici. La popolazione resta stabile, ma il potere d’acquisto o i gusti dei consumatori sono cambiati. L’incapacità del mall di produrre reddito è spesso connessa a quella della proprietà degli immobili di rispondere ai mutamenti del mercato.

Se i complessi commerciali dismessi hanno tutti questi vantaggi, perché mai restano vuoti o sottoutilizzati? È un paradosso a cui si trovano di fronte sia la proprietà che i residenti del quartiere. È difficile credere che questi centri commerciali un tempo fossero luoghi all’ultimo grido. La chiave per capire questo paradosso è ricordarsi sempre che mercati e città sono cambiati. Le caratteristiche che facevano di un mall un buon investimento possono essere ancora valide, ma in condizioni diverse. Così come il quartiere che la ospita, anche il sistema funzionale della superficie ora greyfield deve cambiare, per rispondere alla domanda di oggi. Uno dei maggiori ostacoli al riuso è quello di insistere nell’usare il sito per lo scopo originario: il commercio.

Gli operatori tendono ad irrigidirsi sull’uso commerciale di uno spazio a mall. Di conseguenza, vengono spesi milioni di dollari per restaurare facciate o aggiungere nuovi punti vendita. Purtroppo, si tratta di una pratica inutile, perché a pochi chilometri di strada è possibile trovare ambienti commerciali più nuovi, più grandi, con proposte migliori. Il vecchio mall di solito non può competere con le strutture più nuove. Eppure spesso i complessi più vecchi tentano proprio di rispondere all’obsolescenza attraverso la competizione, anziché tentare di ridefinire il proprio ruolo urbano.

Tendenze dei centri commerciali

Un tempo considerati l’esperienza di shopping più avanzata, i centri commerciali soffrono da un decennio. Le nuove tendenze prediligono gli spazi aperti, dove i clienti non devono camminare attraverso l’intero complesso per raggiungere i negozi che desiderano. I complessi Lifestyle centers e quelli che uniscono commercio e attività per il tempo libero sono sorti come risposta a una nuova domanda, così come i malls “all’aria aperta”, attorno a un padiglione o ad altro elemento. Secondo lo International Council of Shopping Centers (ICSC): “Si prevede vengano realizzati 13 centri regionali/sovraregionali per un totale di 1,4 milioni di metri quadrati di superficie commerciale lorda [ gross leasable area] (GLA), dal 2003 al 2005”. In più, lo ICSC stima che nello stesso periodo si inaugureranno altri tre centri ibridi (a pianta chiusa combinata con un formato all’aria aperta) e tre value-oriented (gestori commerciali con temi per il tempo libero). Complessivamente, ciò significa oltre 2 milioni di metri quadrati di GLA, circa 100.000 metri quadrati per centro. Nel 2000-2002, hanno aperto 12 centri regionali/sovraregionali, 11 ibridi, e cinque value-oriented. Questi 28 grossi complessi coprono oltre 3 milioni di metri quadrati, vale a dire in media oltre 100.000 metri quadri a centro.

Lo scopo di queste cifre, è di mostrare le tendenze nella costruzione di nuovi centri commerciali. I malls più vecchi e in declino hanno diversi svantaggi competitivi paragonati al numero crescente dei lifestyle centers. Di conseguenza, gli operatori di greyfields devono analizzare le potenzialità dei siti nel contesto di queste tendenze del mercato. La scelta è fra il proseguire nella concorrenza per il capitale mobile – il denaro dei consumatori – o il ripensare al proprio ruolo urbano secondo modi diversi.

Sfide e incentivi

Il ruolo della pianificazione

L’amministrazione municipale di Charlotte ha intrapreso un’approfondita analisi dei propri problemi riguardo ai greyfields. Deborah Currier, esperta immobiliare che ha condotto stime riguardo al commercio big box, calcola che Charlotte – città con circa a 550.000 abitanti – possieda oltre 200.000 metri quadri di superfici big-box vuote. La Currier individua i seguenti ostacoli al riuso dei greyfields:

• trasformazione della demografia commerciale

• l’alterazione di una vecchia struttura potrebbe innescare processi costosi

• trasformazione del sistema stradale e del traffico

• superfici troppo ristrette

• incapacità del mercato di sostenere così tanti tipi dello stesso negozio

• commercianti che richiedono solo il proprio prototipo, e nessun altro

• siti lasciati vuoti volontariamente, per proteggere un bacino di mercato

Molti di questi problemi possono essere risolti attraverso una pianificazione creativa. Ciò richiede un coordinamento fra il settore pubblico e quello privato in termini di pianificazione dei trasporti, zoning, interventi mirati e nuove regole per promuovere lo infill development.

Gli incentivi necessari a sostenere il riuso dei siti commerciali dismessi devono controbilanciare le forze del mercato attraverso la pianificazione urbanistica. Per esempio, le municipalità potrebbero approvare regole di riuso che non sovraccarichino i costruttori di interventi costosi. Detto semplicemente, le amministrazioni locali devono rendere facile a chi interviene il riuso attraverso le cosiddette clausole grandfather. Una norma grandfather è una regola di zoning che esenta dall’adeguamento alle norme attuali: nel caso dei greyfields, ciò significa continuare a basarsi sull’uso precedente degli spazi. Ciò consente di intervenire senza rispettare i requisiti dell’azzonamento corrente per quanto riguarda arretramenti, spazi aperti e altri vincoli che potrebbero rendere quel sito meno competitivo sul mercato di oggi. Le città potrebbero istituire un ufficio di “facilitazione” col compito di rimuovere gli ostacoli burocratici che si incontrano nel corso di un progetto edilizio di riuso. In questo modo, la realizzazione potrebbe attraversare tutto l’iter urbanistico senza rinvii.

Gli urbanisti devono essere creativi, e capire che molte ordinanze di zoning riescono a impedire il riuso dei vecchi complessi. I greyfields potrebbero trarre beneficio da standards di parcheggi ridotti. Nello stesso modo l’esenzione dalle norme su arretramenti e alberature consentirebbe ai costruttori di aumentare al massimo la superficie edificata. Si potrebbero concedere premi di densità per i costruttori interessati al riuso dei greyfields a scopi residenziali. In più, si potrebbero usare incentivi finanziari come riduzioni fiscali o beautification grants per promuovere gli investimenti sui siti commerciali in disuso. Come chiarisce l’esempio di Charlotte, gli incentivi da soli sono solo un parte dell’equazione. Un’attenta pianificazione della crescita futura può diminuire le conseguenze negative dello sviluppo suburbano, a utilizzare le risorse interne alle aree urbanizzate.

È necessaria un’attenzione maggiore alla pianificazione generale verso lo sviluppo sostenibile. Gli esperti di trasporti devono collaborare coi funzionari dello sviluppo economico, i comitati cittadini, le agenzie ambientali e gli operatori immobiliari. Altrimenti, l’attuale problema dei greyfields potrebbe perpetuarsi e diffondersi sempre più lontano dal centro della città.

Molte città di tutto il paese stanno limitando le dimensioni dei big box – grandi edifici commerciali isolati come Home Depot o Wal-Mart – usando norme di tipo smart growth. In più alcune amministrazioni richiedono un versamento cauzionale per la demolizione nel momento dell’edificazione di un grosso complesso commerciale. Se in futuro gli edifici dovessero rendersi vacanti queste somme sarebbero utilizzate per demolirli. Un’altra tattica è quella di introdurre standard edilizi minimi. Si richiede ai costruttori di complessi commerciali l’uso di mattoni, o di particolari stili architettonici, ad esempio, nella realizzazione di nuovi centri.

Le amministrazioni proseguono con la lotta sui due fronti, della crescita in nuove aree e del declino di quelle di più antica urbanizzazione, e si realizzano nuove collaborazioni fra gruppi abitualmente ignorati dal r processo edilizio. Le scuole stanno diventando attori sempre più importanti, e potenziali beneficiari degli spazi greyfield riutilizzati. I distretti scolastici del Maine e Wisconsin stanno spendendo milioni di dollari in nuove costruzioni scolastiche, mentre sperimentano una contemporanea bassa crescita demografica. Sia le scuole che i governi potrebbero rivolgersi ai siti commerciali in disuso, prima di iniziare i lavori su nuove aree.

Sono necessari nuovi approcci, per consentire il riuso de greyfields su larga scala. Ciò richiede nuove collaborazioni, un nuovo modo di pensare, e incentivi strategici progettati per integrare forze di mercato e tecniche di pianificazione.

Commercio, o Mixed Use ?

I greyfields sono un elemento di interesse per gli analisti di problemi urbani, perché si adattano bene ad altre tendenze di riuso. Sono collocati in modo ideale per promuovere sia lo infill development che un’edificazione sostenibile. Infill development significa letteralmente riempire le aree urbane non utilizzate o abbandonate in fasi successive. Il processo di riempimento reinserisce la città nei nuovi mercati e crea occasioni per la comunità. L’edificazione sostenibile è un tentativo di crescita in modo ambientalmente consapevole, che promuove un riuso del suolo in alternativa all’edificazione di nuovi terreni suburbani, boschi, aree agricole. Le tendenze attuali verso enormi centri commerciali regionali, localizzati nei punti chiave degli svincoli autostradali, incoraggiano uno sviluppo meno sostenibile, auto-dipendente nelle fasce più esterne. Il riuso dei greyfields è un valido strumento nello sforzo di arginare lo sprawl urbano.

Uno dei tipi più interessanti di riuso è la riconversione di vecchi malls in complessi mixed-use. L’elemento centrale di questo genere di progetti è la trasformazione del complesso commerciale in un sistema orientato al trasporto pubblico contenente una miscela di funzioni commerciali, di servizio e residenziali. Mixed use è un termine noto fra gli urbanisti, ma non è diffusamente accettato dal mondo dell’impresa immobiliare: specialmente quando si tratta di ristrutturare un mall chiuso o in crisi. Ad ogni modo, il fatto che un centro commerciale sia in decadenza può essere un’indicazione che gli scopi che l’hanno fatto nascere non sono più validi. La soluzione del problema richiede di riorganizzare il complesso orientandolo ai bisogni della comunità, degli affari e dell’amministrazione. Ovvero, ricostruire l’area in un modo che generi profitto per gli operatori, realizzi obiettivi comunitari e contribuisca al gettito fiscale locale.

Da spazi commerciali in disuso a piazze urbane?

Qualche volta un centro commerciale fallisce perché ha perso la propria ragion d’essere economica. Ma ogni città ha bisogno di qualcosa. Smettiamola di pensare a questi spazi come shopping centers decaduti, e iniziamo a considerarli potenziali complessi mixed-use. [Victor Dover, Architetto].

Come è possibile riutilizzare i centri commerciali per promuovere città migliori? Uno dei maggiori ostacoli all’edificazione mixed use sono le attuali norme di zoning. Lo zoning corrente tende a separare gli usi dello spazio anziché mescolarli. La maggior parte dei costruttori e dei modelli di pianificazione urbanistica lavorano secondo questi principi tradizionali. Ne consegue che si creano involontariamente vaste zone dipendenti dall’automobile, dove le funzioni residenziali sono separate da commercio e servizi. Gli urbanisti in città come Nashville stanno tentando di sviluppare un nuovo tipo di aree omogenee, che rendano più facile ai costruttori realizzare quartieri di tipo tradizionale. Come sottolinea il responsabile per l’urbanistica di Nashville, Rick Bernhardt, “Si pensa di solito che ciascuna comunità abbia un nucleo centrale, con le zone funzionali collocate attorno”. Molti insediamenti suburbani mancano di un nucleo centrale, e i greyfields sono grandi a sufficienza per svolgere questa funzione, se configurati opportunamente.

I complessi commerciali in disuso sono un’enorme occasione per le città, perché si ridefiniscano attorno a un nucleo centrale. Possono essere progettati sistemi di strade che colleghino il mall ai quartieri circostanti. È possibile incorporare le fermate del trasporto pubblico, a offrire un’occasione di spostamento da e per i posti di lavoro. Spazi pubblici come biblioteche, uffici pubblici, strutture scolastiche o agenzie di servizio possono contribuire a rendere più attrattivo il complesso. Come già detto, le dimensioni della maggior parte dei greyfields li rendono adatti anche all’insediamento residenziale. Una certa varietà di usi dello spazio li rinforza l’uno con l’altro, in modo da sostenere la vitalità del luogo a tutte le ore, tutti i giorni della settimana.

Non tutti questi spazi commerciali dismessi sono buoni candidati a un riuso multifunzionale. I costruttori desiderano un ragionevole ritorno economico ai propri investimenti, ed esitano di fronte a progetti rischiosi. Ma anche il settore pubblico può giocare un ruolo centrale in questi processi di riuso. Dimensioni e localizzazione dei greyfields li rendono spazi adatti per scuole, campus di istituti superiori, parchi, uffici governativi e di associazioni. Trovare le funzioni più adatte per uno spazio del genere richiede una capacità di visione che vada oltre il “riconfezionare un ambiente commerciale”. Il resto di questo manuale, è dedicato alle raccomandazioni per il riuso di un greyfield. Particolare attenzione è posta al comprendere le dinamiche urbane, di quartiere, e i bisogni del mercato.

Alcuni esempi

Si chiama demalling il riuso di un ex centro commerciale a nuove funzioni. Come già accennato nei paragrafi precedenti, le possibilità comprendono funzioni miste, usi civici, o altro commercio. Anche se il riuso dei greyfields appare perfettamente logico in teoria, la realtà pratica è molto più complessa. I progetti coinvolgono numerosi soggetti interessati, milioni di dollari, complesse collaborazioni, e il consenso della comunità. Gli elementi esposti di seguito, secondo un ordine casuale, sono essenziali a facilitare il passaggio di un progetto greyfield dalla teoria alla pratica.

La comunità e la partecipazione pubblica

Per questa guida, sono stati intervistati diversi professionisti del campo immobiliare, architetti e funzionari pubblici, al fine di compilare un elenco dei passi necessari al riuso dei malls obsoleti. Una delle affermazioni ricorrenti fra chi è interessato ai greyfields è che sia essenziale conoscere la relazione fra centro commerciale e città. Che ruolo ha giocato nello sviluppo locale? Quanto è profondo il radicamento di questa struttura? Come può, un piano di riuso, equilibrare bisogni comunitari e interessi economici? per rispondere a queste domande, è necessario coinvolgere nel piano i residenti.

La maggior parte delle persone conoscono il termine NIMBY (Not In My BackYard). Per molte comunità, un ex centro commerciale è meglio di un intervento sconosciuto. Gli abitanti spesso temono i cambiamenti, e istintivamente oppongono resistenza a progetti che possano modificare l’ambiente locale. Quindi, la partecipazione pubblica è un punto irrinunciabile nel riuso dei greyfields.

Senza il coinvolgimento della comunità, gli sforzi per il recupero di questi spazi probabilmente saranno vani. Il Continuum Group di Denver è stato il protagonista del positivo piano di riuso per il complesso Villa Italia di Lakewood, Colorado. Il centro aveva funzionato come polo commerciale dagli anni ’60, soffrendo però di mancati investimenti nel corso degli anni. Seguendo alcuni principi New Urbanism, il piano di riuso ha trasformato i circa 50 ettari del sito da solo commercio a struttura mixed-use con 1.300 case, 80.000 metri quadrati di superficie commerciale, un albergo con 250 stanze, 1,5 ettari di giardini, piazze e altri spazi verdi, un grosso negozio alimentare e 9.000 posti auto. Il progetto è stato eletto a modello per il riuso dei greyfields, ma non è stato per niente facile realizzarlo. Ha richiesto una grande quantità di partecipazione del pubblico.

Come spiega uno degli architetti responsabili del progetto:

Quello spazio aveva una storia di idee e proposte, tutte respinte dalla comunità locale. Per superare questa sfiducia, abbiamo dovuto costruirci approvazione e sostegno. Non siamo arrivati lì con piani e progetti. Abbiamo lavorato con la città per capire i fatti, il potenziale del mall, le caratteristiche desiderate del luogo, le funzioni future più adeguate ... e abbiamo passato molto tempo con le persone in modo che capissero cosa stavamo facendo e cosa volevamo ottenere”.

Questo tipo di approccio ha costruito comprensione, credibilità e fiducia. L’amministrazione locale ha anche coinvolto i cittadini organizzando un comitato consultivo che rappresentava uno spaccato sociale della comunità. Grazie a questo percorso, il pino di riuso ha evitato le potenziali trappole delle paure dei cittadini.

Il governo degli interessi immobiliari

Come molte operazioni immobiliari, anche il riuso può essere reso complesso dagli obiettivi contrastanti di vari proprietari. In molti casi, affittuari, proprietari del mall, proprietari degli immobili adiacenti, possono sabotare i piani di recupero. Alcuni occupanti, per esempio, hanno potere di veto sui progetti che riguardano il complesso. A meno che un unico ente non riesca ad avere in qualche modo un efficace controllo sulla proprietà, un piano può restare paralizzato. I contratti di affitto contengono clausole che proprietari e occupanti usano come merce di scambio. La contrattazione rappresenta la chiave per superare questo ostacolo, ma può essere necessaria la minaccia di esproprio da parte dell’ente pubblico, per i rappresentanti più ostinati di alcuni interessi. Tom Dujan, architetto del progetto Villa Italia, spiega che “la volontà e una buona idea non bastano, perché alcuni sotto-interessi riescono ad impedire che le cose succedano. Nel nostro caso l’amministrazione locale era disponibile a usare il potere di esproprio, per assicurare unità di intenti”. Ciò richiede una considerevole spesa, di tempo e denaro.

Anche nel caso del Bayshore Mall vicino a Milwaukee, Wisconsin, l’amministrazione locale era disponibile a utilizzare il potere di esproprio. Il vecchio mall era troppo piccolo per interessare il mercato, e doveva espandersi da circa 50.000 a 100.000 metri quadrati. Sinora, il progetto ha realizzato 35.000 metri quadrati di commercio, 10.000 di uffici, e 20-40 edifici residenziali del tipo town house in un ambiente pedonale. Una volta completato, comprenderà ristoranti, palestra, strutture sanitarie, un teatro, un negozio alimentare di categoria superiore.

Un impegno pubblico/privato

Come già accennato, i progetti mixed use per i complessi commerciali in disuso possono essere dispendiosi. Aumentare la densità e promuovere i collegamenti richiede investimenti sostanziosi in infrastrutture. L’organizzazione e realizzazione di strade, verde, piazze, marciapiedi è costosa. In più, la maggior parte di questi spazi non possono essere sottoposti a tariffa, vista la collocazione suburbana della maggior parte dei centri commerciali. Per finanziare questi interventi tanto radicali, ci deve essere la volontà del settore pubblico di investire nel progetto. Costruttore, comunità locale e amministrazione cittadina devono collaborare alla creazione di una struttura pubblica di finanziamento finalizzata alla realizzazione di uno spazio pedonale. I sostenitori del progetto devono convincere i potenziali associati del vantaggio economico dell’investimento. Dunque è necessario un alto livello di complessità per coordinare i meccanismi di finanziamento e gli interessi di lungo termine di tutti gli associati al programma.

Conoscenza

La maggior parte degli intervistati è stata cristallina riguardo al bisogno di cominciare il processo da zero, evitando qualunque approccio rudimentale a questi spazi. In primo luogo, i costruttori devono sapere se prodotti e servizi si collocheranno bene in quel luogo. Ciò dipende dalle condizioni del mercato locale e dai modi di intervento. La forma fisica ideale dell’ambiente può variare a seconda delle dimensioni della proprietà, degli stili architettonici circostanti, delle caratteristiche accettabili dalla comunità.

Esiste il pericolo di un approccio per formule rigide al riuso dei greyfields. Per esempio, la definizione di un piano generale corretto richiede una conoscenza approfondita degli spazi pubblici, delle sezioni stradali adeguate e dimensioni dei marciapiedi, che non sono uguali per qualunque intervento.

I costruttori devono sapere cosa funziona, e cosa no, in termini di architetture e spazi pubblici. Saranno centinaia di scelte sulle dimensioni, il rapporto fra edifici strade, l’animazione dei marciapiedi, la facilitazione dei collegamenti fra punti diversi, a determinare il funzionamento o meno del complesso. In alcuni contesti, ciò significa che non bisogna risparmiare su edifici, arredi, arte pubblica. E naturalmente tutte queste cose hanno impatti sui costi del progetto.

Ciascun caso deve essere trattato come unico, con una propria logica interna. Si tratti di un progetto mixed use o di riconversione commerciale, la mancanza di conoscenze su progetto, tendenze locali del mercato o bisogni della comunità può condannare al fallimento. Il modo migliore di evitarlo, è di avvicinarsi al problema tenendo conto del contesto, e partire da zero.

Miscela di funzioni

Una delle sfide principali è quella di ottenere la giusta miscela di occupanti dei nuovi spazi. L’ambiente fisico deve essere strutturato in modo attraente per i potenziali inquilini (il progetto non deve essere un “ripensamento”). Per un complesso a funzioni miste, il problema è di attirare una base commerciale insieme ad altre attività economiche, con persone che abitano all’interno, non semplicemente nelle vicinanze. Quella miscela di occupanti, è quella giusta? Molto spesso, è necessario un equilibrio fra catene nazionali e operatori locali. Le attività locali possono contribuire a dare carattere inconfondibile e unità al progetto, ma i vari ristoranti, boutiques, gallerie, devono essere economicamente validi. Nello stesso modo, un eccessivo sbilanciamento verso le grandi catene produce un ambiente commerciale facile da ritrovare in altri complessi concorrenti della regione.

La residenza aggiunge vitalità ed energia a un progetto. Gli abitanti rendono gli spazi vivi ventiquattro ore al giorno. Si tratta di residenti che ricercano un ambiente unico, il che significa che gli affitti possono essere elevati. La sfida e di costruire un ambiente vivo, non facile da riprodurre nel suburbio tradizionale. A sua volta, questo vuol dire che alcune fasce di reddito possono non essere in grado di sostenere gli affitti delle case. Per una vera riuscita, occorre comunque verificare costantemente l’atteggiamento della comunità per i nuovi arrivati.

Gestione

Molte delle idee esposte sinora possono sembrare ottime, ma qualunque progetto si decida, deve avere alla base un solido e funzionante modello economico. Si devono creare valori immobiliari, e ottenere affitti dagli occupanti. I progetti mixed-use sono per propria natura ambienti che necessitano di molta gestione. Un’attività distribuita su tutte le 24 ore richiede più sicurezza, manutenzione e sorveglianza. Dall’acquisizione originaria ai contratti d’affitto, deve essere sostenibile l’impianto finanziario. Per questo obiettivo, va creata una forte struttura di gestione.

Il ruolo del management è egualmente importante anche per i progetti diversi dal mixed-use. La costruzione di alleanze di quartiere, collaborazioni pubblico-private, attrazione di capitali, richiede fiducia in un modello di intervento e gestione. Senza una forte leadership, la maggior parte dei progetti troveranno difficile andare oltre la fase di studio.

Traffico

Quelli che ora sono greyfields a suo tempo sono stati progettati per gestire grossi volumi di traffico. Una delle considerazioni che può promuovere flussi più tranquilli è quella relativa a un’organizzazione funzionale tale da evitare picchi di utenza. Un cinema, ad esempio, attira flussi serali. I momenti di punta del commercio sono di solito i fine settimana. Il momento massimo del traffico residenziale sono l’ora di punta del mattino e quella serale. Con una sana mescolanza di occupanti degli spazi, l’insediamento può limitare i propri impatti sul sistema di mobilità interno ed esterno.

Realismo

Costruttori e operatori devono essere flessibili. Non tutti gli spazi si prestano a diventare ambienti mixed-use tali da attirare inquilini di fascia superiore. Acquisizione, demolizioni e ricostruzioni sono costose. Di fatto, molti greyfields dovranno adattarsi a qualcosa in meno dell’ideale. I complessi commerciali in disuso rappresentano la possibilità di riutilizzare una struttura urbana in modo corrispondente ai bisogni degli abitanti. Dopo una valutazione realistica delle possibilità di intervento, è possibile che il riuso debba orientarsi esclusivamente a residenza, giardini pubblici, strutture scolastiche, uffici amministrativi o altre funzioni.

L’utilizzo finale è in gran parte determinato dagli obiettivi del progetto. Se sono di generare profitti da vendite e relativo gettito fiscale, allora la funzione da preferire è quella commerciale. Se si tratta di offrire servizi alla città, allora sarà preferibile l’opzione per qualche tipo di struttura civica. La lezione, è che i greyfields possono essere anche qualcosa di diverso da semplici grandi magazzini.

Le possibilità del commercio

Non tutti i malls in difficoltà devono abbandonare il commercio a favore del concetto di mixed use. Wal-Mart, Target, Kohls e altre grandi catene stanno cominciando a considerare i centri commerciali in disuso come localizzazioni interessanti. Negli ultimi tre anni, Wal-Mart ha aperto vari negozi urbani a San Diego, Los Angeles, Dallas, Houston, Milwaukee, e a 30 chilometri da New York City. Sempre la Wal-Mart di recente ha inaugurato un punto vendita in un ex Macy’s che fa parte di un centro commerciale da 80.000 metri quadrati a Baldwin Hills Crenshaw (notizia dal National Real Estate Investor, 25 giugno 2003). Uno dei fattori chiave della decisione di aprire il negozio è stata la densità di popolazione: oltre 360.000 residenti in un raggio di cinque chilometri dal centro. Con l’opposizione suburbana ai big box in crescita, gli operatori potrebbero rivolgere lo sguardo ai greyfields nei centri città o nelle fasce suburbane più interne. Uno studio di consulenza commerciale ha calcolato che le catene discount occuperanno 300 spazi come anchor entro centri commerciali entro il prossimo decennio (Business Week, 14 agosto 2003).

Un’altra possibilità commerciale nelle città in corso di trasformazione demografica, è quella del mall etnico. La maggior parte dei complessi commerciali degli anni ’60 e ’70 erano progettati per una clientela bianca di ceto medio. In alcuni casi, l’immigrazione di afroamericani, americani di origine asiatica e latini ha cambiato la composizione sociale degli spazi urbani attorno ai greyfields. Alcuni operatori commerciali, senza capire nel nuove nicchie di mercato, si sono semplicemente allontanati nel corso degli anni. Eppure, in molti quartieri, i centri commerciali si sono evoluti in complessi a orientamento etnico per servire i bisogni degli abitanti secondo modi che costruiscono fedeltà e forte domanda. A chi non conosce le culture locali, alcuni di questi centro possono apparire poco attraenti o degradati. Ma agli abitanti del posto questi complessi offrono un insieme di prodotti e servizi che mancano al centro commerciale classico.

Anche la pubblica amministrazione può intervenire, affittando spazi per servizi sociali di cui c’è il bisogno, e rivolgersi ai nuovi membri della comunità.

Possibilità di re-investimeno sociale urbano

Un eccellente esempio di realizzazione di un autentico elemento urbano è rappresentato dal Jackson Medical Mall di Jackson, Mississippi. Nel contesto di un accelerato sviluppo di tipo suburbano a Jackson, il centro commerciale aveva iniziato la propria crisi nel 1987 rimanendo in gran parte vuoto per dieci anni. Il mall (80.000 metri quadrati) è circondato da una popolazione afroamericana a basso reddito, che dipende per gli spostamenti in gran parte dal trasporto pubblico. Oggi, la struttura è un ottimo esempio del potenziale rappresentato dai greyfields anche per l’investimento pubblico.

Il Medical Mall offre servizi sanitari, molto richiesti, da una popolazione altrimenti sottoservita. Oltre a questo, la miscela funzionale comprende negozi di alimentari, sedi di organizzazioni comunitarie, ristoranti, parrucchieri, negozi di calzature, uffici dei servizi sociali, un’agenzia di credito e scuole private. Anche la Jackson State University, la University of Mississippi (tramite la scuola di medicina) e il Tougaloo College hanno spazi per la ricerca e la didattica al Medical Mall. L’Ufficio Sanitario della Hinds County, alcuni uffici locali e vari servizi sociali operano all’interno del centro.

Il caso del Medical Mall è un esempio di come il riuso dei complessi commerciali dismessi possa avere successo anche in ambienti a basso reddito. L’intero passaggio da uno shopping mall regionale obsolescente, ad una struttura di servizio urbana ha richiesto oltre dieci anni. Il successo dell’operazione si può attribuire ad una forte capacità di visione, alla valutazione realistica dei bisogni sociali, e alla capacità di costituire un gruppo di persone orientate al reinvestimento comunitario. La miscela di servizi sanitari, università, organizzazioni locali, commercio, uffici pubblici cittadini e statali, è stata tenuta insieme dall’obiettivo di servire la città.

Cosa limita le possibilità dei greyfields

I progetti come Villa Italia mostrano che i complessi commerciali in disuso possono essere convenienti per gli investitori. Ma, per ogni Villa Italia, c’è un Cloverleaf Mall di Richmond, Virginia. Il Cloverleaf occupa uno spazio di circa 90 ettari con un valore calcolato a 65 milioni di dollari nel 1995, caduti a 12 milioni nel 2003. Le tasse immobiliari generate dal mall sono cadute da 700.000 a 130.000 dollari nello stesso periodo. Negli anni, gli abitanti più agiato hanno abbandonato il quartiere, i negozi anchor se ne sono andati, e la zona è considerata pericolosa. Questo spazio certo potrebbe non produrre ritorni economici tali da attirare il commercio trendy, ma potrebbe essere più utile alla comunità dal punto di vista dell’istruzione, dei servizi sociali, dei bisogni residenziali degli abitanti.

Conclusioni

Gli esempi esposti in questo manuale rappresentano un punto di partenza. Sono desunti da casi studio in ambienti diversi. Probabilmente, dimostrano come è possibile sfruttare la “miniera” rappresentata dai complessi commerciali in disuso in modi che contribuiscano alla qualità della vita locale. A seconda delle condizioni specifiche di mercato, il riuso dei greyfields deve essere flessibile e rispondere ai bisogni del quartiere. La Atlanta Regional Commission (ARC) si è impegnata attivamente per coinvolgere rappresentanti della comunità nell’ambito del riuso dei greyfields. La ARC si è concentrata sul ruolo del settore pubblico nello stimolare il riuso, e si rivolge soprattutto alle agenzie pubbliche che intendono sviluppare piani per greyfields. La ARC ha individuato alcune variabili fondamentali per il successo di questi progetti, come:

• Identificare i siti greyfield maturi per l’intervento

• Coinvolgere i soggetti interessati

• Costruire collaborazioni pubblico-privato

• Organizzare gruppi di lavoro interdisciplinari

• Impegnare risorse economiche per l’attuazione

Molte città hanno fatto esperienze valide seguendo questo percorso per il recupero di zone industriali dismesse [brownfields]. Molti aspetti sono applicabili anche ai greyfields. Costruire un elenco di disponibilità, ad esempio, è indispensabile per individuare i siti che necessitano di sostegno finanziario pubblico. La costruzione della società pubblico-privata con partecipazione della cittadinanza e l’attivazione dei gruppi multidisciplinari sono pure essenziali, e molte città possiedono programmi modello che possono essere utilizzati a stimolare il recupero.

Le informazioni di questo rapporto offrono una cornice generale. Iniziando da nuove prospettive, le comunità e il mondo economico possono iniziare nello stimolante lavoro di convertire i greyfields a elementi di valore urbano.

Nota: il testo originale, integrato a tutti gli altri capitoli della manualistica, al sito della University of Louisville; qui su Eddyburg, due studi del Congress for the New Urbanism sulle "zone grigie" commerciali, uno analitico, e uno di proposta; di seguito, links ad alcuni casi citati nel testo, e il file PDF scaricabile di questa traduzione. Per la (scarsa) bibliografia faccio riferimento al testo originale (f.b.)



Villa Italia Lakewood, Colorado

Jackson Medical Mall, Jackson, Mississippi

Manuale_greyfields

Titolo originane: Land Gluttony – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

[Questo articolo è estratto dal libro Sprawl Kills: How Blandburbs Steal Your Time, Health and Money, Sterling & Ross, 2005]

Con tanta attenzione rivolta all’invasione degli immigrati clandestini o ai prezzi della benzina che schizzano alle stelle, è difficile interessare la gente rispetto a un altro problema sfuggito al controllo. Stiamo finendo la terra.

Nelle discussioni sullo sprawl suburbano, badate alle menzogne riguardo ai terreni. L’argomento dell’abbondanza di terre è il più fuorviante, folle e pericoloso tra quelli utilizzati dai sostenitori dello sprawl. La diffusione urbana, sostengono, può continuare a risucchiarsi terre come se non ci fosse un futuro. Non fatevi prendere il giro quando questi agenti segreti dello sprawl affermano che solo una piccola quota, circa il 5% della superficie nazionale, è edificata, a far intendere che abbiamo ancora taaanta terra su cui spaparanzarci. Si tratta di una cifra generale per l’intero paese. Quello che conta in una prospettiva di mercato è il terreno su cui l’edificazione è tecnicamente possibile, e dove le persone vogliono abitare, non un dato statistico semplificato e fuorviante.

Per cominciare, pensate ai deserti, canyons, crinali montani, pendii ripidi, pianure gelate del settentrione, zone umide, regioni spoglie e desolate, pianure alluvionali, per esempio. Ci sono anche le terre federali, tribali, o le aree contaminate. Le terre di proprietà federale sono l’83% del Nevada, il 65% dell’Utah, il 63% dell’Idaho, ad esempio, e in generale contano per il 25 per cento di tutti i terreni. Esistono superfici significative destinate a parchi, boschi, zone umide, vedute paesaggistiche, habitat naturali. Alcune zone di interesse storico sono preziose a causa di cimiteri o vecchi edifici. Si è già perso il 20% dei campi di battaglia della guerra civile a causa dell’edificazione. Anche considerevoli superfici vicino a tracciati ferroviari, linee elettriche, torri di ripetitori per telefonia cellulare, condotti sotterranei, sono inedificabili.

Altre terre sono agricole, e la maggior parte degli americani intendono mantenerle tali. Un’indagine sui residenti di Seattle, stato di Washington, e Portland, stato del Maine, ha rilevato che il 91% riteneva importante conservare le terre agricole produttive. Ma se ne perdono 400.000 ettari l’anno a causa dello sprawl. Gli americani vogliono davvero, dipendere ancor di più dal cibo di importazione, anziché subire piccoli condizionamenti pubblici?

Tolte le terre dove l’edificazione è impossibile o improbabile, considerate che circa il 53% della popolazione degli Stati Uniti vive sul 17% del paese, escluse Alaska e Hawaii. I terreni più ambiti sono quelli lungo le coste. Agli americani piace abitare vicino all’Oceano, al Golfo del Messico, o ai Grandi Laghi, anche dove esistono rischi naturali. Se c’è un luogo dove esiste urgente bisogno di insediamenti più sostenibili, è proprio l’area delle, che contrariamente a quanto pensano i conservatori è limitata. Chi vuole vivere nelle aree costiere probabilmente non considererà egualmente attraenti le zone del Missouri o South Dakota.

La California è lo stato più popoloso, e il terzo per dimensioni dopo Alaska e Texas. Il commentatore di destra Randal O’Toole guarda il mondo attraverso lenti verniciate di sprawl, e diffonde il messaggio propagandistico secondo cui la California “è ben lontana dall’essere a corto di superfici” dato che solo l’8,6% di tutta l’area è edificata per insediamenti urbani e rurali. La Association of Environmental Professionals afferma: “La crescita in California si è sempre verificata verso i terreni aperti. Il paradigma sta cambiando man mano comprendiamo che sinora abbiamo utilizzato quasi tutto il territorio edificabile. L’edizione del 2002 del rapporto Invest for California dice che le contee in grande crescita di Los Angeles, Orange e Santa Clara se continuano i ritmi attuali inizieranno già nel 2010 a non avere superfici sufficienti a contenere le abitazioni previste. Nella città in rapida crescita di San Diego, è edificato l’88% dei terreni. Il Los Angeles Times ha pubblicato nel 2003 un articolo sul fatto che la Orange County ha raggiunto lo stadio finale delle possibilità di edificazione, e citando un analista immobiliare: “Abbiamo finito i terreni. Non ci è rimasto più niente”.

Riflettete su questi altri esempi di vorace consumo di suolo e, in altre zone, di scarsità di superfici:

Col 32% dei terreni edificati, il New Jersey è lo stato più costruito. Il rapporto Measuring Urban Growth in New Jersey ha calcolato che tutte le superfici disponibili rimanenti dello stato saranno edificate entro circa 40 anni, anche conservando 400.000 ettari. Il periodo potrebbe accorciarsi a 20 anni se il tipo di diffusione insediativa è soprattutto quello a lotti residenziali da 2 ettari o più, come ora è d’uso, o previsto dalle norme locali.

A Long Island, New York, alla fine del 2003 l’80% della Nassau County e il 64% della Suffolk County erano già edificati.

Ragionando sul boom edilizio del 2003 un economista della National Association of Home Builders ha dichiarato: “L’unica lamentela che ho ascoltato l’anno scorso dai costruttori, è che non riuscivano a trovare terreni a sufficienza”.

Pensate allo sprawl come alla tempesta perfetta. Proprio quando la popolazione cresce a grandi passi e si assottiglia la superficie per l’edificazione, l’insediamento diffuso si fa sempre meno denso. Si usa più superficie per ogni singola casa, e dato che le lottizzazioni sono più disperse, si usano più terreni per strade, reti idriche e altre infrastrutture. La crescita di popolazione non diminuisce: una persona in più ogni 11 secondi. Ogni 11 secondi! Pensate a circa 50 milioni o più, di persone che avranno bisogno di una casa nei prossimi vent’anni, e a 100 milioni o più entro il 2050. Il paese si avvia ad una popolazione di 400 milioni di abitanti, e il consumo di suolo determinato dallo spraw è insostenibile. Entro il 2050 il totale nazionale dei terreni edificati sarà più che raddoppiato, se continuano gli attuali modi di crescita insediativa. La costante influenza dell’industria dello sprawl ci farà diventare gli Stati Affollati d’America.

In tutto il paese si vende un ettaro di terreno a cifre da 500.000 a 2 milioni di dollari, se si trova in aree a scarsità di suoli e con una forte domanda di case. I conservatori favorevoli allo sprawl vogliono forse negare agli americani il diritto di vivere nelle zone geografiche che preferiscono? L’edificazione non governata porterà esattamente a questo, in particolare per chi non è ricco. Nel lungo termine, lo sprawl a bassa densità riduce l’accessibilità economica delle abitazioni.

La cupidigia porta alla golosità di terre. Edificando e consumando quantità eccessive di superfici, l’attuale ricerca di felicità da parte di pochi impedisce la felicità futura di molti. I bambini dovrebbero studiarlo a scuola: i terreni edificati sono terreni persi. Chi non si preoccupa di questo rapido consumo di suolo negli USA dopo aver conosciuto la verità sullo sprawl, ricorda quel tipo che cade dal sessantesimo piano, e mentre sfreccia a livello del ventesimo sta ancora pensando: “ È tutto OK”. Non subite le bugie sui terreni degli agenti dello sprawl. C’è un’America ancora più brutta e affollata che ci corre incontro.

Nota: la versione originale di questo estratto è disponibile sul sito Freezerbox dal 23 agosto 2005; per chi volesse saperne di più, un'intervista dell'Autore al periodico progressista del Wisconsin, The Capital Times (f.b.)

Titolo originale: Park wins out over Wal-Mart – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La Gainesville City Commission ha tolto Northside Park dal mercato lunedì, votando contro il proseguimento di qualunque discussione sullo scambio con la Wal-Mart per la costruzione di un supercenter.

Dopo più di tre ore di dibattito e interventi degli abitanti, i commissari hanno votato 4 contro 3 per interrompere l’esame della proposta che avrebbe consentito di scambiare Northside Park, una superficie di 13 ettari all’incrocio della 34° Street con la statale 441, con un’altro appezzamento acquistato dalla Wal-Mart all’incrocio della statale con la 53° Avenue, di 37 ettari.

In più, Wal-Mart avrebbe versato 1 milione di dollari per lavori di allestimento delle strutture per il tempo libero sull’area.

Il sindaco Pegeen Hanrahan, considerato l’ago della bilancia per il voto della commissione prima dell’incontro, ha dichiarato che la decisione è stata determinata dal collegamento della proposta di Northside Park con un supercenter, dalla complessità delle operazioni per lo scambio funzionale tra i due terreni, e infine dalla credibilità dell’amministrazione nel gestire il proprio verde.

”C’è una certa sacralità per quanto riguarda un parco, e una carta credibilità per un governo locale, su come gestisce le destinazioni d’uso” ha detto la signora Hanrahan.

Rinunciando a quel parco, la città potrebbe perdere la fiducia di altri orientati a donare superfici in futuro, o di chi potrebbe scegliere un’abitazione in base alla vicinanza a spazi per il tempo libero, ha aggiunto.

Dopo la delibera, il portavoce di Wal-Mart Eric Brewer ha affermato che la compagnia comincerà a cercare un’altra collocazione. Wal-Mart è decisa a costruire supercenters sia a nord che a est di Gainesville, ha detto Brewer.

”È sconcertante” ha commentato Brewer a proposito della decisione. “Specialmente vista la difficoltà dell’amministrazione di trovare risorse per il verde, di recente”.

la delibera di lunedì è il terzo caso dal 2003 in cui i commissari cittadini di Gainesville hanno respinto proposte della Wal-Mart. Lo scambio dell’area di Northside Park era stato suggerito alla compagnia dall’ex City Manager Wayne Bowers, affermano i consiglieri, dopo il secondo fallimento di costruire un supercenter sulla 53° Avenue nord-ovest lo scorso luglio.

Circa 140 people, compresi consiglieri - in carica ed ex – della città e della contea, hanno partecipato alla riunione, interrompendo a volte il dibattito con applausi o commenti.

Quando la signora Hanrahan all’inizio ha chiesto di verificare la posizione del pubblico presente sul tema, quasi tutti hanno manifestato opposizione.

”Apprezzerei una fiducia della commissione nel fatto che i cittadini siano in grado di esprimere cosa vogliono e di cosa hanno bisogno” ha dichiarato nel corso del dibattito Carol McCoy, abitante del nord-ovest di Gainesville che si era opposta negli anni ’80 ai tentativi di vendere Northside Park.

I commissari avevano anche ascoltato il costruttore Phil Emmer, che offriva un altro milione di dollari per la creazione del nuovo parco sulla 53° Avenue nord-ovest.

Il commissario Warren Nielsen ha comunque incoraggiato Emmer a sostenere gli spazi per il tempo libero, lì o altrove in città.

”Mantieni quella visione, stringila con pugno di ferro” ha detto Nielsen.

”Non so cosa succederà stasera o nel futuro, ma non lasciamo che la decisione di oggi possa modificare il sogno” ha aggiunto.

Prima che la commissione iniziasse i lavori di fronte al municipio circa cento persone hanno partecipato alla manifestazione organizzata da “ Save Our Parks”, gruppo che si oppone allo scambio di superfici. Alcuni leaders del gruppo hanno parlato dall’ingresso del municipio, mentre i dimostranti agitavano cartelli, battevano sui tamburi e cantavano, contro l’ipotesi di edificazione su Northside Park.

”Deve restare quello che è stato per gli ultimi trent’anni: un giardino di quartiere” annuncia attraverso un megafono il militante di Save Our Parks Rob Brinkman alla folla.

Nel corso della discussione il commissario Chuck Chestnut ha espresso il dubbio che il dibattito si svolgesse in una atmosfera di contrasti razziali. L’osservazione si riferisce al fatto che c’erano oppositori bianchi allo scambio del nord-ovest Gainesville contro alcuni neri favorevoli dell’est, perché lo scambio significherebbe la realizzazione del supercenter lì.

Chestnut ha chiesto che lo Equal Opportunity Office cittadino esaminasse i programmi per migliorare le relazioni razziali.

Ma il sindaco Hanrahan ha sostenuto che le opinioni divergenti non si basavano – come invece sostento da Chestnut – sull’idea che Wal-Mart non fosse adatto alle zone più ricche della città. Si tratta invece, ha sostenuto la signora, di bisogni diversi per zone diverse della città, con diversi desideri di sviluppo.

”Questa è una città molto diversificata, ed è dura per una persona tentare di rappresentare tutti gli interessi e bisogni della comunità di Gainesville," ha concluso la signora Hanrahan.

Le contrapposizioni di commissari e residenti sul problema si basano in gran parte sull’impatto del progetto per le zone di tempo libero a Gainesville. I sostenitori della proposta sottolineano l’aumento delle superfici a verde e attrezzature realizzabili sulla 53° Avenue nord-ovest, invece dell’attuale destinazione ad area edificabile.

”Credo che tutti in questa commissione abbiamo dimostrato ripetutamente di voler salvare i nostri parchi” ha detto il commissario Rick Bryant, sostenitore dello scambio. “Molti vogliono tutelare e migliorare i parchi, ma è difficile farlo in un’epoca in cui è difficile trovare risorse”.

Gli oppositori della proposta hanno sottolineato l’importanza del Northside Park per i quartieri lungo la statale 441 e sollevato preoccupazioni ambientali sui danni che causerebbe l’edificazione del sito di Northside Park, e il tipo di attività di Wal-Mart.

Hanno giocato un ruolo importante anche considerazioni economiche. Contemporaneamente alla proposta di scambio su Northside Park, la Wal-Mart ha ipotizzato un supercenter sulla Waldo Road da realizzarsi contemporaneamente a quello a Gainesville nord-ovest.

”So che porterà altro commercio, ristoranti e opportunità di impiego in quella zona di Gainesville” ha dichiarato Chestnut.

Ma molti interventi hanno definito questa doppia proposta un ricatto.

”Non hanno alcun impedimento all’edificazione lì, salvo tentare un’estorsione” ha detto la cittadina Sarah Poll.

Nota: il testo originale al sito del Gainesville Sun ; in questo articolo di Francesco Piccioni dal manifesto, le nuove strategie sindacali internazionali contro Wal-Mart (f.b.)

È sempre stata considerata , una preda ambitissima da investitori italiani e stranieri. Tanto che in molti, in passato, avevano provato a darle la caccia ma senza successo. Lo scorso 22 aprile, però, dopo due anni di faticose trattative, l’affare è stato finalmente concluso. Infatti, Aletti Merchant, merchant bank del gruppo Banco Popolare di Verona e Novara, e Investindustrial, la finanziaria di partecipazioni che fa capo alla famiglia Bonomi, hanno annunciato l’acquisizione del 90% del capitale di Gardaland, il maggiore parco divertimenti italiano e uno tra i primi nel mondo. Il valore dell’operazione è di circa 300 milioni di euro e per l’acquisizione è stata utilizzata la società veicolo Cornel, controllata pariteticamente, con il 45% a testa, da Aletti Merchant e Investindustrial. Della la cordata fa parte anche Italian Lifestyle Partners II, società di partecipazioni riconducibile a Gaetano Marzotto e Marco De Benedetti, che detiene il 10% di Cornel. Il rimanente 10% del capitale del parco divertimenti di Castelnuovo del Garda è rimasto nelle mani di alcune tra le famiglie fondatrici della società. A presiedere il nuovo consiglio d’amministrazione di Gardaland, dove entreranno, tra gli altri, Gaetano Marzotto e Ettore Riello, è stato chiamato l’imprenditore dolciario Alberto Bauli (che è stato appena nominato anche vice-presidente della Banca Popolare di Verona). Mentre Sergio Feder, da 7 anni amministratore delegato del Parco, è stato confermato nel suo ruolo. Sulle ragioni dell’appetibilità di Gardaland i numeri parlano da soli: un fatturato di 100 milioni di euro con un margine operativo lordo di 41 milioni; 1700 dipendenti; 3 milioni di visitatori all’anno; oltre un milione di metri quadri di superficie totale, di cui 500 mila adibiti al solo Parco; 130 artisti a contratto provenienti da tutto il mondo.

Oggi, il Parco può contare su più di 40 attrazioni per soddisfare le esigenze dei suoi visitatori, propone 40 show giornalieri, è dotato di 18 negozi e di 20 punti di ristoro, tra cui 5 ristoranti a tema. Inoltre, lo scorso anno, la società ha avviato un progetto di diversificazione estendendo le proprie attività anche al comparto alberghiero dando vita al Gardaland Hotel Resort.

Invece, i motivi del fallimento dei precedenti tentativi di scalata e la laboriosità dell’acquisizione appena conclusa vanno ricercati nell’estrema frammentazione dell’azionariato e in una norma dello statuto che fissava la soglia di controllo all’81% del capitale della società. Gardaland era una specie di public company all’italiana con ben 250 soci, di cui i primi 4 controllavano il 51% dell’azienda. Una situazione che ha comportato momenti difficili di governance, liti giudiziarie, frequenti passaggi di quote e la formazione di fazioni in guerra tra loro che hanno bloccato diversi tentativi di takeover.

Ci avevano provato gli inglesi del Tussauds Group (quelli del famoso museo delle Cere di Londra) prima da soli e, poi, insieme a Investindustrial. Senza contare che, negli anni 90, la svizzera Ubs Capital era entrata con il 20% del capitale ma, in seguito, aveva dovuto rinunciare. “È stata una faticaccia - racconta Andrea Bonomi, presidente di Investindusdtrial - ce l’abbiamo fatta al terzo tentativo grazie all’intervento della Popolare di Verona che è riuscita ad avvicinare e convincere molti piccoli azionisti locali, che per noi erano irraggiungibili, a vendere le proprie quote. Adesso, però, siamo soddisfatti perché quello dei parchi di divertimento è un bellissimo business. E Gardaland vanta indici di redditività e un posizionamento competitivo sul mercato veramente unici”.

E un grande compiacimento per il closing dell’operazione è riscontrabile anche tra il management di Aletti Merchant: “In questa acquisizione - spiega Luca Modonesi, il direttore generale - si riflette la strategia del nostro gruppo bancario di essere sempre più presente nella realtà delle imprese dei territori in cui siamo radicati, un elemento che abbiamo voluto ulteriormente sottolineare con la nomina, a nuovo presidente di Gardaland, di Alberto Bauli”.

Per quanto riguarda gli sviluppi futuri i nuovi azionisti ci tengono a mettere in evidenza che il loro investimento non è di breve termine ma ha un orizzonte di almeno 3-5 anni con un obiettivo finale che potrebbe essere la quotazione in Borsa della società. Per adesso, però, punteranno a un consolidamento dei risultati ottenuti dal Parco con una strategia che prevede maggiori investimenti promozionali, l’espansione del pubblico di riferimento (passare dalla fascia di 4-14 anni a quella di 4-18), l’allungamento della fruibilità dei divertimenti (con più posti letto), l’ampliamento dell’offerta di attrazioni e il prolungamento della stagione (ospitando nuovi eventi). Insomma, Aletti Merchant e Investindustrial sono arrivati per restare e, dopo il grande sforzo fatto per avere partita vinta, vogliono veder fruttare il proprio investimento.

Titolo originale: One Happy Big-Box Wasteland – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Volete sentirvi come se foste a Tucson oppure Boise o Modesto o Wichita o Muncie e non conta maledettamente niente, perché come nazione abbiamo perso qualunque senso comunitario e dei luoghi? E perché mai: andate un po’ più avanti, fino al prossimo svincolo. Proprio qui, esattamente questo.

Ah, eccolo, un altro gigantesco big-box mega-strip mall, enorme vessillo di gloriosa decadenza urbana, possente punto esclamativo del consumismo impazzito. Questa è l’America. Ci siete arrivati. Siete a casa. Mangiatelo e sorridete.

C’è Target. C’è Wal-Mart e ci sono Home Depot, e Kmart, Borders, Staples, e il Sam’s Club e Office Depot, e Costco, e Toys “R” Us, e naturalmente l’obbligatorio Container Store dove potete comprare altri enormi vasconi di plastica dove buttare tutte le vostre nuove porcherie prodotte in nero.

Di cos’altro avete bisogno? Ah, si: cibo. O qualcosa che ci si avvicini. C’è Wendy, e Burger King, e l’ibridoTaco Bell/KFC, e il Mickey D’s, e Subway e Starbucks e dozzine di altri mostri del cibo spazzatura allineati sulla strada come pedine del Domino velenose, appostati in attesa di bistrattarvi le arterie, avvelenarvi il cuore, e farvi pensare all’ospedale.

E qui arriva la parte migliore: l’immagine è la stessa di dieci chilometri fa, i denti a quella fra dieci chilometri, lo stesso esatto cumulo di insidiosi edifici che troverete più o meno in altre diecimila noncittà in tutto il paese, ciascuno e tutti a farvi sentire legati alla città dove state e al corpo che abitate, così come si sente un pesce su Saturno. Al buio. In un buco. Morti.

Questa pestilenza l’avete vista voi, l’ho vista io. Chiunque ha più di trent’anni l’ha vista evolversi da un piccolo focolaio alla fine degli anni ’80 alla fase acuta dell’epidemia, con l’inferno commerciale dei big-box. Di recente ero nel nord dell’Idaho, dove la mia famiglia possiede da quarant’anni una magnifica casa su un lago in un piccolo paese vicino al confine col Canada, e per andare nella zona si deve attraversare la crescita esplosiva del centro turistico di Coeur d’Alene, dove l’epidemia ha colpito forse peggio che ovunque entro un raggio di cento chilometri.

Sono anagraficamente vecchio abbastanza per ricordare quando attraversare Coeur d’Alene voleva dire fermarsi esattamente a un – uno – semaforo sulla Highway 95 verso nord, circondati più o meno da un milione di pini, da panorami montani mozzafiato e da vasti, tranquilli spazi aperti, campi e fattorie, segherie e curiosi negozi lungo la strada, bellissimi laghi, per chilometri.

Ora ci sono più o meno venti semafori, aggiunti in altrettanti anni, sparpagliati su quindici chilometri di strada, e ciascuno di essi segna l’ingresso a massicci e orrendamente progettati bassi complessi commerciali, mal costruiti, senz’anima ed evidentemente senza che si usasse alcun criterio urbanistico per questi mega-negozi, salvo distanziarli in modo così esagerato che si deve risalire dentro la maledetta automobile per fare il chilometro dal Target, al Best Buy, al Wal-Mart, al Super Foods, e tornare ad una scossa sanità mentale.

Volete saperlo, cosa deprime lo spirito americano? Volete saperlo, perchè sembra che la tirannia della mediocrità si sia stesa sul nostro mondo? Volete sapere cosa instilla più pensieri suicidi e produce una rabbia sorda e disperata, la cui fonte non riusciamo a identificare, ma sappiamo che sta proprio sotto il nostro naso, e per attenuarla prendiamo vagonate di Prozac e Xanax e Paxil?

Ho la risposta. Eccola. Guardate. È questa orribile diffusione di big-box strip malls, casette suburbane come cancro, metainsediamenti asfaltati sopra il paesaggio americano, tutti a costruire una bizzarra sensazione di grande perdita, eccesso di vuoto, saturazione senz’anima, e che ci obbliga a formulare una volta ancora la Grande Domanda Americana: come è possibile avere dannatamente tanto, e sentirsi come se non avessimo quasi niente?

Ah, tra l’altro, a Coeur d’Alene c’è una parte centrale della cittadina, ben lontana dalla strada avvelenata. È calma, piena di alberi, graziosamente vuota e stipata di ristoranti, e gallerie d’arte. E di agenzie immobiliari. Per gli yuppies. Perché, ovviamente, non è rimasto nessun negozio locale. Nessuna bottega a gestione familiare, e pochissime piccole attività in genere. Nessun fascino. Nessuna vera comunità locale. Solo cibo ben confezionato e arte mediocre, che nessun vero residente locale può permettersi, e qualche business park dove un tempo stava il centro.

Non ho idee chiare su cosa vedranno, invecchiando, i bambini che crescono dentro a questa specie di bizzarra distopia megaconsumistica, che razza di prospettiva distorta e senso dei luoghi, della comunità, della casa, decimato. Ma se pensate che la dipendenza da metadone e le gravidanze minorili, e la perversa omogeneità religiosa, o la spaventosa dipendenza dalla violenza dei videogiochi non siano una reazione a tutto questo, probabilmente non ci avete prestato abbastanza attenzione.

Questa è la nuova America. Il nostro senso di possesso impazzito, il nostro quasi rabbioso desiderio di portar via montagne di paccottiglia a poco prezzo ha portato all’ascesa dei negozi scatolone senz’anima, che poi hanno portato a quella sensazione di mortale di identità prefabbricata, uguale ovunque andiamo. E qui arriva il botto: crediamo che sia un bene. Crediamo che aiuti, produca posti di lavoro, gettito fiscale, prodotti a buon mercato. Lo chiamiamo progresso. La chiamiamo possibilità di scelta. È esattamente il contrario.

Risultato n. 1: le città hanno perso personalità, individualità, anima. La comunità arranca. L’ambiente soffre. Il nostro paesaggio un tempo diversificato e capriccioso e idiosincratico diventa piatto, brutto, vacuo, banale.

Risultato n. 2: c’è un falso senso di sicurezza, comodità, fatto di vuoto sempre uguale. Vogliamo che tutti i prodotti siano asettici, disinfettati, lucidi e illuminati. In una nazione che ha perso il senso dell’orientamento, l’orgoglio, il cui dollaro è uno scherzo globale, la cui economia sta andando in fumo, i cui prodotto sono tutti fabbricati oltremare, e il cui incompetente guerrafondaio leader è la macchietta mondiale, questo velenoso sempre identico risulta, paradossalmente, rassicurante.

Risultato n. 3: ci siamo abituati, ancora una volta, alla paura del diverso, l’Altro, la Chi non si Adegua. Impariamo a non gradire il particolare, lo straniero, gli stranieri. Perdiamo il senso del rapporto personale con quello che creiamo o compriamo, e non mi importa quanto poco costi quel tappeto di juta dell’Ikea: se sono prodotti in serie 100.000 alla volta in una fabbrica in Malesia, non sono niente di speciale.

L’Identico è tra noi. L’Identico è la nuova oscurità. Non è diverso dalle vacanze preconfezionate a Disney World o dalla religione organizzata o dalle crociere o dai ristoranti a tema, dove tutti gli angoli sono arrotondati e ogni esperienza predigerita e sterilizzata a vostra protezione, perché Dio proibisce l’esperienza autentica o l’osservazione da una vera prospettiva individuale, o l’osare discutere la semplice norma, oppure i Poteri ti guarderanno come una seria minaccia.

Ho visto la pestilenza, e l’avete vista anche voi. Anzi, probabilmente ci state dentro, a far compere. Dopotutto, che scelta avete?

Nota: il testo originale al sito SFGate (f.b.)

Titolo originale: Living Large, by Design, in the Middle of Nowhere – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

WESLEY CHAPEL, Florida - New River Township è, per il momento, ai confini dell’oltre.

I suoi due chilometri quadrati di case strette l’una all’altra stanno sulla fascia più esterna dell’espansione residenziale di Tampa, sette chilometri dal più vicino negozio di alimentari e mezz’ora dal più vicino centro commerciale. Appena altre la strada, oltre i ciuffi di aranci, il bestiame pascola languido tra il ronzio degli insetti di una spianata cotta dal sole, c’è solo qualche piazzola per case mobili e un chiosco che vende ombrelloni di paglia, a interrompere il grande mare di pini e palmizi.

Ma è una vita isolata che durerà poco. Ci sono più di una trentina di centri del genere, alcuni più grossi di New River, in corso di realizzazione nella Pasco County, che promettono 100.000 nuove abitazioni per i prossimi cinque anni. Sta arrivando anche un mega-mall, e il primo big-box, con Home Depot e Sam’s Club, ha tenuto non molto tempo fa la festa inaugurale.

”Prima c’eravamo solo noi e i pensionati”, dice Ruth Parker, occupatissima a sistemare un nuovo asilo sui margini di New River, annesso a Wesley Chapel, dove vive da nove anni. “Tra cinque anni qui ci sarà una città”.

L’America sta crescendo. E cresce più in fretta qui, su strade di campagna ai margini delle aree metropolitane, con centri che spuntano dappertutto e diventano fulcro, quasi feticcio, nelle strategie elettorali di entrambi i partiti.

Posti del genere non nascono per caso. Sospinti da forze economiche inarrestabili, plasmati da complessi mutamenti sociali, sono progettati sin nel più minuto dettaglio da una manciata di grossi costruttori, secondo un gigantesco piano generale per la nuova America. Nel caso di New River, il costruttore è KB Home, uno dei più importanti e attivi del paese, con vendite per 7 miliardi di dollari lo scorso anno, che l’hanno collocato al sesto posto nella classifica Standard & Poor delle 500 imprese con i ricavi più elevati.

La KB Home ha 483 centri in costruzione in 13 stati, e prevede di completare più di 40.000 nuove case entro l’anno. Ma è solo una della ventina di grosse imprese in feroce concorrenza per terreni e clienti, ai confini estremi dell’espansione suburbana d’America.

Osservando elaborate ricerche di mercato, queste corporations estrapolano i bisogni delle famiglie, affrontando questioni come la consistenza della moquette, la posizione della cucina, stabilendo quanti lampioni stradali e strade a fondo cieco possano evocare un gradevole senso di sicurezza.

Sanno quasi al centesimo quanto i consumatori siano disposti a pagare, in termini di ore di pendolarismo, per avere più spazio, un’idea di condizione sociale superiore, un senso di sicurezza.

”Le persone vengono qui, e dicono ehi, guarda quanto spazio aperto!” racconta Marshall Gray, presidente della filiale di Tampa della KB. “Ma vi assicuro che ne vale la pena, in tutti i terreni che potete vedere qui attorno”.

Entro i prossimi dieci anni, New River crescerà di 750 ettari, e 15.000 persone in 4.800 case unifamiliari, condomini, town houses e alloggi in affitto. Ci sarà un centro servizi di cento ettari, con 15.000 metri quadrati di uffici, 50.000 di negozi, e poi scuole, uffici pubblici, e 100 ettari di verde.

Ma al momento è solo un’isola, di 400 case suburbane in mezzo al nulla, un esurbio in fasce.

Il termine “esurbio” fu coniato negli anni ’50 con The Exurbanites di A. C. Spectorsky, storico sociale, a descrivere le zone semirurali molto lontane dalle città, dove i ricchi avevano tenute di campagna. Ma l’esurbio del XXI secolo è un animale del tutto diverso. E non sta nelle medesime fasce del suburbio tradizionale.

Rispetto al suburbio, poi, le case dell’esurbio in genere sono più grandi, e gli spazi tra l’una e l’altra più ristretti. Si tende a girare le spalle alla strada, con le stanze più grandi e usate poste sul retro. Anche la gente che ci vive è diversa. Invece delle énclaves bianche degli anni ’60-70, i nuovi esurbi sono un mélange di colori e culture.

Un esodo di tipo diverso

”In un certo senso, questi esurbi sono semplicemente suburbi dove si impiega più tempo ad arrivare”, dice John Husing, consulente politico-economico della California. “Qui la fuga dei bianchi dalle città non ha niente a che vedere. È solo una questione di prezzi delle case. La composizione di queste comunità rispecchia esattamente il tipo di emigrazione, e si tratta di persone con reddito sufficiente a considerarsi middle class”.

Basta guardare alle vicende di questi nuovi suburbi, per trovare figure imprenditoriali come Beat (si pronuncia BAY-at) Kahli, costruttore di Orlando.

Figlio di un panettiere di un sobborgo di Zurigo, Mr. Kahli ha abbandonato il sogno di correre al Tour de France quando ha scoperto che non sarebbe mai stato abbastanza veloce. Così è andato alla business school di Zurigo ed è diventato banchiere di investimento.

Nel 1989, Flag Development, un consorzio di Fort Myers, Florida, acquitò il terreno destinato a diventare New River da una famiglia di agricoltori, e un appezzamento anche più vasto nell’estrema fascia orientale di Orlando. Chiesero a Mr. Kahli di investire in immobili in Florida, e lui e altri europei entrarono nell’affare.

Ma nel 1993, coi suoi azionisti a chiedere risultati, il quarantunenne Kahli venne in Florida centrale e rimase esterrefatto.

”Ho pensato, oh signore, cos’abbiamo fatto?” dice. “Sulla carta questi posti sembravano non troppo lontani da Disney World o dal Kennedy Space Center, ma mi accorsi che erano molto, molto fuori mano, in mezzo al nulla”.

Nel mezzo della recessione dei primi anni ‘90 era poco realistico pensare di costruire in questi luoghi remoti, ricorda Kahli. Ma alla prima ripresa dell’economia, decise che si potevano trasformare la proprietà fuori da Tampa e l’enorme terreno a est di Orlando in grossi insediamenti.

”La maggior parte delle persone in Florida vengono da altri posti” racconta Mr. Kahli, ometto rotondo e vivace, con un entusiasmo contagioso per quello che ha costruito. “Io semplicemente venivo da un posto un po’ più lontano. Tutti mi accettavano. Non è assolutamente possibile che un americano possa andare dalle mie parti in Svizzera, ed essere accettato in questo modo”.

Mr. Kahli acquistò le quote dei suoi investitori europei, trovò nuovi soci americani, e si trovò con l’82% dell’affare. Nel 1996, si trasferì in Florida, prima a Fort Lauderdale, dove ha conosciuto sua moglie, e poi a Avalon Park, il suo intervento a est di Orlando. Ora vive nella vicina Winter Park in una casa con piscina e garage per cinque auto, milionario e pilastro della comunità, membro dell’ufficio direttivo della Orlando Regional Chamber of Commerce.

“Sono case normali per gente normale” dice Kahli mentre guida la sua brillante BMW nera lungo le strade serpeggianti di Avalon Park come un ammiraglio sulla sua nave.

Indica le scuole e lo stadio, che ha aiutato a realizzare, e il centro civico dove possiede due ristoranti e il settimanale locale, East Orlando Sun, su cui tiene una rubrica. Appena fuori dall’edificato c’è un cementificio, il primo di sette realizzati in tutto lo stato, che fa di lui il co-proprietario del principale fornitore di materiale della Florida.

Qualche volta, insediamenti come Avalon Park nascono in zone non appartenenti ad alcuna municipalità, in contee rurali remote. Qualche volta stanno dentro ai confini di vecchie cittadine, a cui offrono un gettito fiscale obbligandole però a realizzare i servizi. Spesso, quando sono cresciuti abbastanza, diventano essi stessi città.

Avalon Park comprende 14 “villaggi” coordinati attorno al centro civico. Gli abitanti, dice Mr. Kahli, sono soprattutto famiglie giovani, con una media di quasi tre figli a famiglia.

Quando il progetto sarà realizzato completamente, fra cinque anni, ci vivranno 15.000 persone. In centro ci sono già caffè, saloni di bellezza, un distributore di benzina e un enorme supermarket. In periferia spuntano nuove file di condomini.

”Questo è quello che sarà New River tra cinque anni” dice Mr. Kahli.

Ma ora non ne ha per niente l’aspetto. Basta guidare sulla Interstate 275 dalle torri luccicanti del centro di Tampa, oltre i vecchi suburbi con case in legno e il cinodromo, sin quando la striscia commerciale sui lati della strada si assottiglia, e inizia l’infinito canyon di pini e palmizi. Ci sono solo i cartelloni a rompere la monotonia, e almeno la metà pubblicizzano le nuove case: “ Un nuovo standard di lusso”, “ Comprate a partire da 220 dollari”. Giusto prima di entrare nel territorio della contea di Pasco, che sta come un cappello sull’area metropolitana di Tampa Bay, la I-275 incrocia la I-75. La seconda rampa di uscita verso nord immette nella Route 54.

”Una volta si diceva vado a Tampa a trovare i genitori, e vado a Pasco a trovare i nonni” racconta Mr. Gray, della KB Home. “Pasco era il regno dei quasi morti e dei neo sposati”.

Una spessa fascia di paccottiglia commerciale si ammucchia sullo svincolo della Route 54 e gli incroci circostanti, ma andando verso est il ciglio stradale diventa un intrico di cespugli e ghiaia. Si passa davanti a otto chiese, tutte Protestanti.

A circa sei chilometri dall’uscita della Interstate, l’ingresso a New River appare da dietro un gruppo di alberi, un viale con aiuole fiorite fiancheggiato da pareti intonacate e da una fila di case che offrono il retro al clamore della strada.

Mr. Gray, conoscitore di terreni, indica l’erba e i giovani alberi del viale d’ingresso. “Guardi l’erba di quel prato” dice. “Vede com’è sana e folta. Si chiama floratam. Adesso guardi quest’altro. Si chiama Bahia. Costa meno, ha un aspetto un po’ selvatico”.

Quando Kahli iniziò a costruire nel 1999, prima a Avalon Park e poi a New River, firmò un accordo con American Heritage, impresa acquisita dalla KB Home nel 2002. Ora, KB coordina le costruzioni residenziali, che comprendono una miscela di tipo della KB e della Windward, altro costruttore nazionale. Mr. Kahli mantiene il controllo sul centro civico e altri spazi commerciali.

Al centro la ricerca di mercato

Un ambito di cui la KB Home va fiera è quello delle ricerche di mercato. Ci si domandano cose come la posizione desiderata per la cucina, o quanti spostamenti pendolari il residente è disposto a digerire. E si svolgono verifiche sugli acquirenti per avere un’idea generale di chi sono e perché hanno comprato.

I dati della KB raccontano parecchio su New River. Nella prima fase della costruzione, più del 60% dei compratori aveva un reddito familiare di 40.000-80.000 dollari: per Tampa, questo significa solida middle class. Circa la metà era fra i 30 e i 40 anni. Il 38% era ispanico, il 24% bianco, e il 16% nero. Tre quarti dei compratori avevano bambini. Più dell’80% si spostava per lavoro, la gran maggioranza verso Tampa, con tempi in macchina da 20 minuti a un’ora.

Quattro anni fa, le prime case di New River si vendevano a 150.000 dollari. Oggi i modelli più piccoli ne costano 212.000, e l’abitazione media di circa 250 mq tre stanze e un garage per due macchine costa almeno 250.000 dollari.

Nelle ricerche più recenti sugli acquirenti di case a Tampa, la KB ha chiesto alle persone cosa ritenevano più importante nella casa e nel quartiere. Volevano più spazio e un maggior senso di sicurezza. La sicurezza sta sempre al secondo posto, anche in posti dove di fatto non c’è criminalità.

Alla domanda cosa volete in una casa, l’88% ha risposto un sistema di sicurezza, il 93% preferisce quartieri con “più illuminazione stradale” e il 96% insiste su serrature speciali e porte blindate.

E così la KB Home offre tutto quanto. “Sta a noi capire cosa vuole davvero la gente, e tradurlo in architetture” dice Erik Kough, vicepresidente alla KB responsabile per l’architettura. E la compagnia progetta i suoi quartieri con strade curve, marciapiedi, cul-de-sacs per mantenere il traffico lento, dare un senso di contenimento allo spazio, un aspetto diverso dal sistema stradale urbano che le giovani famiglie middle-class istintivamente collegano alla criminalità. “Mi sento decisamente al sicuro, qui. Mi sento protetta” dice Lisa Crawford, che si è trasferita a New River circa un anno fa col marito, Steve, e i loro due bambini.

”E posso dirvi che la gente di Tampa è parecchio diversa dalla gente di qui” aggiunge la signora Crawford. “A Tampa, c’è un ritmo più veloce. Mi piace, qui, c’è più comunità, un ambiente da piccolo centro”.

Gray dice che alla sede di Tampa della KB si parla di “ zona Mendoza” quando si tratta di decidere quali caratteristiche inserire in una casa. È un modo di dire derivato dal baseball e si usa per descrivere qualcuno con una media di battute oltre 0,200. Gray dice che non sa come sia migrato nel linguaggio immobiliare, ma lo usa per descrivere elementi fortemente desiderati da oltre il 70% dei compratori.

Un grande spazio per gli sgabuzzini, una dispensa dove si possa entrare, un patio coperto, sono tutti in zona Mendoza, e così vengono inseriti in tutte le abitazioni di New River. Chi spende più di 220.000 dollari per la propria casa ha lo spazio per uno studio, perché questo sta in zona Mendoza. Oltre i 260.000, ci sono i lavandini doppi nel bagno principale.

Arrivati al cuore della questione, la KB chiede ai compratori di dare un valore in dollari al proprio tempo. Accetterebbero un tempo di spostamento per lavoro più lungo di 15 minuti, in cambio di una casa del 10% più economica? E del 15%? E se lo spostamento fosse di 30 minuti in più?

La risposta, ha deciso la compagnia, è che una casa a New River deve essere di 12.000 dollari più economica di una casa identica nei sobborghi settentrionali di Tampa, 15 minuti più vicini al centro. E a Silverado, quartiere che la KB spera di realizzare 15 minuti più a nord nella Pasco County, la casa deve costare 12.000 dollari in meno che a New River.

Quasi tutte le contee con popolazione in crescita degli Stati Uniti sono aree di esurbio. E questi centri tanto lontani si sono dimostrati, nelle ultime elezioni, fra i più decisi sostenitori del Presidente Bush. I suoi consiglieri principali danno almeno in parte il merito della vittoria nel 2004 a una strategia concentrata su quella che il direttore della campagna, Ken Mehlman, chiamava la “fortezza” repubblicana, lontana dalle città.

Anche se ci sono opinioni diverse sul perché i repubblicani si sono comportati tanto bene in queste zone l’anno scorso, sembra che la ragione sia riconducibile a un fatto demografico. La massa delle persone che sceglie di vivere in comunità esurbane, famiglie proprietarie con bambini piccoli e un desiderio di sicurezza e più spazi per sé, statisticamente votano più probabilmente per i Repubblicani, come i residenti rurali che abitavano qui prima dell’arrivo dell’esurbio.

Nel 2004, i due distretti più vicini a New River – gli elettori alla vicina scuola media e alla Chiesa Battista a qualche chilometro di distanza – hanno dato 1.265 voti, o il 61 per cento, a Mr. Bush, e 782 voti, o il 38 per cento, a John Kerry.

Una comunità di Repubblicani

”La maggior parte delle persone che conosco qui sono repubblicani” dice Yolanda Breuer, 34 anni, che lavora per una compagnia di software a Tampa. “Al lavoro, in città, è più 50-50. Certo ci sono anche alcuni sostenitori di Kerry qui. Ma la maggior parte sono Repubblicani”.

La signora Breuer racconta che lei e suo marito Andrew, 29 anni, che ha cambiato lavoro diventando vigile del fuoco per la Pasco County, non si sono trasferiti nell’esurbio per stare insieme ad altri che condividevano i loro valori. Semplicemente, è successo così.

”Quello che volevamo era una casa più grande, con una camera da letto più grande” dice. E l’hanno trovata, trasferendosi da circa 200 metri quadrati a circa 400, compreso un patio con una schermatura alta due piani. Sanno di aver pagato un prezzo per vivere qui. In un giorno normale, il tempo di pendolarismo della signora Breuer è di 35 minuti, che si possono gonfiare fino a un’ora e più nelle brutte giornate. Le strade di campagna sono intasate all’ora di punta, o quando familiari e furgoncini compiono il quotidiano pellegrinaggio verso scuole o campi di pallone. “Oh, è tremendo” dice la signora Breuer. In una casa modello KB non molto lontana, Piper Bein e suo marito Mike, installatore elettrico, casualmente stanno visitando l’edificio di 300 metri quadrati. Alla domanda cosa vogliono dalla nuova casa i Bein, entrambi 28 anni, rispondono all’unisono “spazio”.

I loro due bambini, Landen, 6 anni, e Cade, 3, scorazzano per le stanze giocando a nascondino nel labirinto di anticamere, dispense, sgabuzzini e bagni.

Il venditore, Ole Pietersen, coglie al volo l’occasione per indicare uno sgabuzzino: “C’è un sacco di posto per nascondersi, eh, ragazzi?” dice, sorridendo ai genitori.

Nota: il testo originale al sito del New York Times ; sulle tendenze demografiche e insediative dell'esurbio, anche un articolo qui su Eddyburg Megalopoli : la KB Homes più volte citata nell'articolo, è il potenziale sponsor della fiction televisiva Casalinghe Disperate (f.b.)

Philadelphia City Planning Commission, Neighborhood Design Guidelines for all of Philadelphia Neighborhoods – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

Linee guida per le parti commerciali

L’insediamento commerciale è componente necessaria di una città vitale. Le seguenti definizioni e raccomandazioni vengono esposte in tre parti.

La prima descrive i tipi di funzioni commerciali presenti nei vari quartieri della città.

La seconda sezione offre linee di progettazione applicabili ai nuovi insediamenti commerciali infill nei quartieri residenziali esistenti, e a quei complessi commerciali che abbiano necessità di restauro e ristrutturazione.

L’ultima parte espone le raccomandazioni progettuali da applicarsi ai grandi insediamenti commerciali esterni ai quartieri residenziali.

A. Tipi di insediamento commerciale:

Il commercio del centro città

Il cuore commerciale è diverso da qualunque altro quartiere della città. Caratterizzato da alte densità e attività, il core contiene una miscela di funzioni come commercio, residenza, spazi aperti. Un fenomeno tipico di questa area è la collocazione di spazi commerciali al pianterreno di edifici residenziali o a uffici.

I negozi di strada a gestione familiare

Il negozio d’angolo è una forma commerciale tradizionalmente pedestrian friendly dove le attività si collocano al pianterreno di un edificio posto a un incrocio in un quartiere residenziale.

Il commercio a orientamento stradale / Corridoi commerciali

In molti quartieri di Filadelfia l’organizzazione commerciale tradizionale è lungo corridoi di mobilità, caratterizzata da pianterreno commerciale, e residenza, attività produttive o uffici a quelli superiori. Questo tipo di insediamento mixed-use è quello consigliato nel caso di ristrutturazione delle fasce commerciali esistenti, o di nuova realizzazione lungo i principali “corridoi di trasporto pubblico.”

Il Big Box

Il commercio di tipo Big Box richiede grandi superfici e parcheggi, e può occupare sia spazi entro un centro commerciale a orientamento stradale, sia spazi autonomi. Il commercio Big Box ha poche o nessuna correlazione con il contesto, privo com’è di aperture, con scarsi o nulli dettagli architettonici.

Centri e fasce commerciali

I malls sono insiemi di grandi negozi e punti vendita di catene nazionali su ampie superfici, con grande disponibilità di parcheggi. Centri e fasce commerciali sono caratterizzati da magazzini che fungono da anchor a ciascuna estremità, inframmezzati da negozi più piccoli. I malls tendono ad avere collegamenti al coperto fra i vari negozi, mentre le strisce commerciali li hanno all’esterno.

B. Linee di progettazione per l’insediamento commerciale all’interno dei quartieri residenziali:

Le raccomandazioni che seguono valgono sia per gli interventi su complessi esistenti, sia per le nuove edificazioni interstiziali.

1. Dimensioni e organizzazione

Deve essere definita una dimensione pedonale, con dettagli gradevoli, e facciate aperte e invitanti.

2. Progettazione coordinata e rapporto con la strada

• Il fronte commerciale deve mantenere l’arretramento esistente. Questa “ street line” è molto efficiente per chi fa acquisti, e crea una piacevole composizione di edifici. I progetti che modificano l’allineamento di un particolare fronte rispetto a quelli vicini sulla strada devono avere motivi di qualche significato progettuale o funzionale per farlo.

• Si consiglia che i nuovi edifici commerciali, o le nuove facciate degli edifici esistenti, vengano progettati contemporaneamente, mantenendo la posizione tradizionale relativamente alla linea stradale.

3. Ingressi e percorsi

• Devono essere realizzati per tutti i negozi punti ben identificati di accesso e uscita, per pedoni e veicoli.

• Deve essere considerato che ingressi trasparenti con invitanti legami rispetto all’ambiente pubblico fanno parte integrante di ogni negozio ben riuscito.

4 . Parcheggi

• I negozi hanno bisogno di stare molto vicini a comodi parcheggi.

• I parcheggi devono essere non vistosi, meglio se non collocati davanti ai negozi a lato strada.

5. Illuminazione e vetrine

• Le zone commerciali devono contribuire e promuovere l’attività delle strade nelle ore diurne e serali. Ciò si realizza anche attraverso illuminazione e ampie vetrine che consentano la visuale all’interno dei negozi, aumentando in tal modo la sicurezza.

• I negozi non devono avere pareti cieche prive di aperture lungo pubbliche vie, in particolare lungo quelle principali.

• Parcheggi, percorsi pedonali, zone di servizio, devono essere ben illuminati per tutta la notte. L’illuminazione deve essere sufficiente ad assicurare la sicurezza di pedoni e veicoli, ma non deve invadere le zone residenziali adiacenti, che non richiedono eccessiva luminosità. In più, si deve evitare l’inquinamento luminoso, un problema generale in diffusione. Ciò può essere ottenuto attraverso una progettazione attenta che sappia controllare quantità, qualità e direzioni dell’illuminazione notturna.

• Le saracinesche di sicurezza, se sono necessarie, devono essere trasparenti. Non serrande metalliche compatte.

6. Insegne e tende parasole

• Le insegne dei singoli negozi devono essere chiare, e comunicare l’identità del punto vendita che rappresentano. Insegne progettate in modo inventivo possono anche riflettere identità o “personalità” del quartiere.

• I tendaggi parasole devono essere progettati e realizzati secondo le modalità previste per la via. Conferiscono individualità alla strada.

7. Aree per servizi e rimozione dei rifiuti

• Le gestione dei rifiuti deve avvenire in uno spazio di servizio condiviso da più esercizi commerciali quando possibile, ed efficacemente schermato.

• Questa area schermata deve essere comoda per i negozi, e chiusa.

• Le attività di servizio e consegna devono essere tenute lontane dai percorsi pedonali e dalle zone residenziali adiacenti.

C. Raccomandazioni progettuali per insediamenti commerciali di grande scala:

1. Raccomandazioni per i nuovi centri di quartiere:

a. Posizionare i nuovi insediamenti commerciali nei pressi dei servizi di trasporto collettivo:

• I nuovi insediamenti commerciali devono concentrarsi attorno a nodi di trasporto esistenti o in progetto. I negozi devono essere accessibili con vari mezzi: automobile, autobus, tram, metropolitana, e sempre dai pedoni. [...]

• Inserire spazi aperti: localizzare le aree commerciali presso piccoli e contenuti spazi aperti pubblici dove normalmente la gente possa raccogliersi, far colazione o altre attività tra cui anche lo shopping. Questi spazi possono comprendere verde, acqua, sculture o strutture provvisorie di vendita espansione di quelle esistenti.

b. Architetture “verdi” e arredo a verde

È fortemente consigliato l’uso di architetture “verdi” energeticamente efficienti, e di un arredo a verde con attenzione all’ambiente.[...]

c. Dimensioni e organizzazione generale

• I nuovi insediamenti commerciali devono riflettere scale e organizzazione del sistema stradale esistente. Non devono essere chiuse vie per realizzare sistemi a superblocchi, ma cercato un adattamento al sistema del quartiere circostante.

• I nuovi edifici commerciali si devono comporre o raggruppare secondo i modi degli isolati esistenti nel quartiere. Ciò non significa isolati rigidamente allineati o delle medesime dimensioni di quelli adiacenti.

• Si deve costruire un sistema a scala di pedone, con facciate gradevoli aperte e ricche di dettagli.

2. Raccomandazioni per complessi di grandi dimensioni, come big box e centri commerciali.

a.Ingressi e percorsi

• In tutto l’ambiente commerciale, percorsi pedonali sicuri ed efficienti devono essere connessi l’uno all’altro.

• Gli ingressi ai negozi devono corrispondere ad altre facciate esistenti nel quartiere. I nuovi complessi commerciali non devono avere entrate prospicienti al solo spazio interno, e che lasciano una parete cieca sulla pubblica via.

b.Parcheggi

• Nei nuovi complessi commerciali di grandi dimensioni, quando è economicamente possibile di consiglia che i parcheggi siano collocati a livelli inferiori, o in apposite strutture con gli usi commerciali posti al pianterreno.

• Quando si prevede un parcheggio di superficie, vanno realizzati arredo stradale e a verde così come richiesti nell’ordinanza di zoning [...].

• Nelle progettazione dei garages a parcheggio questi devono essere integrati nel complesso commerciale. Sopraelevazioni degli edifici, e adeguato trattamento generale, possono schermare una struttura a parcheggio anche nel caso in cui la sua massa sia superiore rispetto a quella degli edifici che la circondano.

• Il pianterreno del garage, verso la strada, deve essere ad uso commerciale.

• Le interruzioni nel margine stradale per consentire ingressi e uscite, devono essere ridotte al minimo, o collocate sulle strade secondarie.

Nota: altri documenti (e questo in versione integrale) al sito della Philadelphia Planning Commission ; su Eddyburg della stessa Commissione anche un articolo sulla suburbanizzazione a Philadelphia; di seguito il file PDF scaricabile di questo articolo tradotto (f.b.)

Premessa

La città è sottoposta alle sole regole di mercato. Il soggetto pubblico (lo Stato) ha ridotto sensibilmente il suo ruolo e si preoccupa solo di rendere più agevole le iniziative dei privati. Investitori con capitali ingenti si costruiscono le regole e determinano l’assetto della città. E’ così che la città cresce secondo una logica tutta privata e in ossequio alle sole regole di mercato. La città è oggetto stesso dello scambio (del negozio). Così non esiste più la città pubblica perché il mercato non produce beni pubblici. Esiste la città privata, quella dei ricchi con quartieri di lusso e dotati di tutti i servizi, una città chiusa e segregata abitata da una popolazione che ha una forte capacità di consumo. Esiste la città dei poveri, anch’essa privata, costruita per soddisfare direttamente le necessità e il bisogno di abitare. Lottizazioni abusive, occupazione dei suoli e autocostruzione definiscono gli insediamenti miserabili dove si insedia la popolazione povera. I servizi, spesso anche quelli essenziali, scarseggiano ma ci si arrangia e se qualcosa non te la danno te la prendi. Due città entrambe con la stessa logica tutta privata che si localizzano vicine perché ci sono sempre delle relazioni tra i ricchi e i poveri, non ultima la possibilità, per i poveri, di “prendersi” quello che non ti danno. Il resto della città, quello che c’è in mezzo è un limbo e non interessa a nessuno. Sparisce la città pubblica quella che con le sue contraddizioni e differenze era la base per l’integrazione sociale. Ognuno vive nel suo mondo e se può si costruisce la propria campana di vetro e la difende con la vigilanza, in mezzo è il territorio di nessuno.

Questa città esiste e sta ormai corrodendo una città che all’inizio del Novecento si era costruita con un lungimirante progetto pubblico: una griglia e i parchi che costituivano la regola per l’edificazione privata: Buenos Aires. La prima città dotata di una rete metropolitana in tutta l’America Latina. A partire dalla politica economica avviata dalla dittatura nella seconda metà degli anni Settanta per concludersi con le sciagurate riforme economiche di Menem è possibile ripercorrere un lucido progetto di privatizzazione del processo di costruzione della città. Il prof. Pedro Pírez dell’Università di San Martín di Buenos Aires, nell’articolo che abbiamo tradotto, e che trovate in fondo a queste righe, ripercorre con estrema sintesi questo processo e ci chiarisce il modo in cui oggi si sta costruendo la città Metropolitana di Buenos Aires.

Nell’articolo “Politiche pubbliche e sviluppo economico: le Green Belt Towns di Rexford G. Tugwell” (pubblicato su Eddyburg il 13 Luglio 2005) avevamo ricostruito l’importanza del soggetto pubblico nel determinare le politiche di sviluppo di un Paese. Il carattere integrato delle decisioni pubbliche era già allora la condizione essenziale per lo sviluppo. La politica agricola non poteva essere disgiunta dalla politica sulla migrazione dalla campagna verso le città.

L’articolo che segue ci mette davanti agli occhi un caso opposto, in cui il soggetto pubblico diventa uno dei soggetti coinvolti nella costruzione della città, riduce così il suo ruolo che diventa marginale sia nell’indirizzare le scelte urbane sia nella distribuzione della ricchezza.

L’Italia non è l’Argentina ma ci somiglia. Per questo leggendo l’articolo si ha come la sensazione di guardare il futuro, di vedere quello che ci aspetta e che oggi stiamo preparando.

Comprendiamo perché molti di noi sono titubanti di fronte alla retorica del mercato che per alcuni è la panacea di tutti i mali, del privato efficiente e innovatore contrapposto ad un pubblico che per principio non funziona, spreca risorse ed è antiquato. Comprendiamo perché vogliamo restare, nonostante tutto, a chiedere più mercato ma anche un nuovo ruolo del soggetto pubblico. Nuovo nel senso di più forte, con più capacità di comprendere i fenomeni, di interpretarne la complessità e di tracciare linee di indirizzo forti che aiutino anche i privati a sviluppare le loro potenzialità di crescita e ad affermare anche l’animal spirits necessario ad ogni imprenditore. Nuovo ruolo vuol dire più capacità di negoziare su posizioni forti e trasparenti per l’affermazione quanto più ampia possibile di principi generali e di benefici collettivi. Vuol dire anche capacità di prefigurare scenari futuri per mitigarne i rischi e cogliere le opportunità, tutto il contrario del giorno per giorno dove ci si limita a misurare gli ettari di verde ottenuti in cambio del prodotto immobiliare imposto dal promotore. Nuovo vuol dire anche saper dire di no. (g.c.)

(*) Pedro Pírez: Investigador del Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (CONICET) en el Centro de Estudios Desarrollo y Territorio (CEDeT) de la Escuela de Política y Gobierno de la Universidad Nacional de San Martín, Buenos Aires; Profesor Titular en la Facultad de Ciencias Sociales de la Universidad de Buenos Aires; Profesor de posgrado en la Universidad Torcuato Di Tella (Traduzione per Eddyburg di Giovanni Caudo]

Di che tipo di privatizzazione parliamo?

E’ ormai un luogo comune riferirsi alla privatizzazione delle nostre città a partire dai cambiamenti che negli ultimi dieci anni hanno interessato sia l’ambito internazionale (ristrutturazione economica e globalizzazione) sia ognuno dei paesi dell’America Latina.

Per comprendere di cosa si tratta è utile però ricordare che queste città, in generale, sono state già costruite in prevalenza da logiche private. Queste città sono state costruite fondamentalmente per mezzo di un processo guidato ed attuato da attori privati che l’hanno orientato, da un lato, verso interessi particolari, così da ricavare dei benefici da ogni fase dell’operazione (il suolo, la costruzione di alloggi, la costruzione di terziario o delle infrastrutture e servizi), e dall’altro lato, per perseguire degli interessi generali, dove questo termine è utilizzato per assicurare il funzionamento delle attività economiche e la crescita dell’occupazione.

Lo Stato è intervenuto introducendo tre condizioni allo sviluppo privato: evitare di subordinare la produzione della città agli interessi particolari del singolo imprenditore, in modo da non contraddire quello che chiamiamo interesse generale (la città come oggetto della negoziazione contro la città come ambito della negoziazione). Limitazioni per garantire l’occupazione e la capacità di accesso ai servizi. Limitazioni per affermare il principio di legittimità in senso ampio.

L’intervento statale dipende in ogni caso dagli attori coinvolti, dalle loro relazioni e contraddizioni. Il risultato è una produzione privata che è orientata all’integrazione sociale e territoriale sia delle attività economiche che della popolazione. Quando ci riferiamo alla privatizzazione possiamo riferirci al processo della produzione urbana (trasformazione del suolo e costruzione) e ai prodotti che sono il risultato di questa produzione.

La privatizzazione della produzione urbana comporta la subordinazione di questa alle decisioni degli attori che si muovono in ragione di una logica di accumulazione del capitale e che sono interessati ad ottenere in prima istanza il guadagno, e poi, in un secondo tempo e se ce ne sono le condizioni, legare la propria azione agli interessi generali, come ad esempio, l’interesse verso altri operatori economici o alla forza lavoro o alla popolazione in senso più generale.

La privatizzazione dei prodotti si riferisce alla capacità di perseguire l’inclusione territoriale e sociale e alla tendenza a lasciare fuori dalla possibilità di consumo segmenti importanti della popolazione. Questo effetto si lega, senza dubbio, con i processi di produzione, però è anche legato con le condizioni più generali della popolazione e di alcuni gruppi in particolare. I cambiamenti nella condizione sociale della popolazione dipendono dalle modificazioni nel mercato del lavoro e nella distribuzione sociale che lasciano fuori dalla possibilità di accesso al consumo dei beni urbani settori importanti della popolazione (disoccupati, precari, poveri, ecc…); cambiamenti che dipendono però anche dalle politiche statali che non si sono fatte carico di queste trasformazioni come anche dalla riduzione delle politiche di sostegno alla popolazione.

Tutto questo è parte di una particolare relazione mercato-Stato, dove il crescente predominio privato è associato a tre diverse situazioni:

a) lo stato riduce o indebolisce il suo intervento favorendo la produzione privata dello spazio urbano; b) lo stato modifica il senso del suo intervento che non è più orientato in ragione dell’ ”interesse generale” ma in favore di interessi economici particolari; c) l’emergere di uno squilibrio nella relazione mercato-Stato per la trasformazione degli investitori, come nel caso dei processi economici globali, in soggetti in grado di alterare il peso negoziale sia nei confronti dello Stato sia del resto degli attori sociali interessati.

2- L’espansione metropolitana di Buenos Aires.

2.1 I precedenti

Dall’inizio dell’espansione metropolitana di Buenos Aires, all’inizio del secolo XX, la costruzione della città si è differenziata in modo significativo tra centro e periferia (Pirez, 1994).

Nella capitale federale, Buenos Aires [i], la produzione della città ha seguito alcune politiche definite dal governo municipale [ii], fondamentalmente si trattava di un disegno di piano che stabilì una griglia estesa per tutta la città (1889-1904) e indirizzò, dall’inizio del secolo, una occupazione relativamente omogenea del territorio (Gorelik, 1984:24). Da questa dipendevano anche la localizzazione delle opere pubbliche che determinarono delle forti centralità [iii] e la costruzione da parte dei privati, sulla base dei regolamenti municipali, delle urbanizzazioni, in particolare energia elettrica e trasporti (ferrovie, tramvie e autobus) così come la produzione e la gestione da parte dello Stato della rete idrica e di quella fognaria. Su questa base la città è cresciuta integrando le parti di città prodotte dai privati, lasciando a carico degli occupanti il compito di completare lo spazio urbano tra il costruito (Dupuy, 1987; Pírez, 1994; Pírez, 1999a). Il centro della città ha una qualità urbana relativamente elevata: dotazione di servizi e norme sull’uso del suolo, che, nonostante talune limitazioni, realizzano la base essenziale per una città capace di integrazione sociale.

Dall’altra parte, la periferia metropolitana [iv] che, nella prima metà del secolo XX, è cresciuta a con l’espansione della classe media [v] e, che a partire dagli anni quaranta, cresce grazie ai settori popolari (in gran parte operai dell’industria). Una crescita senza infrastrutture che restano indietro rispetto all’espansione e, quasi, senza norme che ne regolino l’uso del suolo. In tutti i modi, il mercato del suolo, attraverso il cosiddetto “loteo popular” (Clichevsky, 1990) consentì una sistemazione legale alla popolazione che arrivava in città. Negli anni Quaranta, con la statalizzazione del servizio di trasporto pubblico, anche se le aree servite restavano ancora limitate, ma grazie alle tariffe basse e soprattutto al “permissivismo” nei confronti dei viaggiatori senza biglietto, si favorì una relativa integrazione, anche se con una bassa qualità urbana.

Il risultato fu una città che integrava, in modo legale, ma segregato e in modo molto diseguale, la popolazione di basso reddito.

Questo processo negli ultimi anni si è modificato.

La struttura metropolitana negli anni novanta.

In Argentina la politica economica coerente con il processo di ristrutturazione economica [vi] si è avviata con il governo militare che prese il potere con il golpe del 1976. Il modello industriale subì dei profondi cambiamenti che provocarono disoccupazione, e una forte accentuazione delle disparità economiche. Il Governo centrale ridusse il suo ruolo nelle politiche infrastrutturali di base (acqua e fognature, distribuzione elettrica), in quelle sociali come la salute e l’educazione, decentrandole in primo luogo ai governi provinciali e poi ai comuni. Si avviò così un processo generale di riduzione dello Stato [vii] con il conseguente abbassamento della protezione sociale.

Una politica che si è consolidata e ampliata durante il governo del presidente Menem negli anni Novanta, in un processo di ulteriore deregulation e di apertura all’economia globale.

Passiamo ad evidenziare ora l’aspetto più rilevante del nostro ragionamento. In un contesto di riforma e di riduzione dell’apparato statale, con riduzione delle funzioni e di risorse, avviene il trasferimento, decentramento, agli altri livelli dello Stato e verso le imprese private (privatizzazione).

Si è modificata la forma costitutiva dello Stato, con un peso molto minore nelle politiche pubbliche a favore della popolazione a basso reddito e, per contro, un crescente orientamento verso politiche di tipo finanziario in differenti campi (tra questi quello immobiliare). In quegli anni il capitale finanziario internazionale aumentò il proprio peso nell’economia del paese in modo consistente. Così come il predominio economico nel settore terziario (finanza e servizi) e l’aumento delle attività destinate all’esportazione (prodotti agricoli e energia). Le conseguenze sul mercato del lavoro furono: il consolidamento di una piccola quota di posti di lavoro altamente qualificati e con alta remunerazione (generalmente nel settore terziario); la riduzione dell’occupazione industriale; l’aumento delle disoccupazione e delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito con una conseguente polarizzazione sociale.

Si ebbe così l’emergere di una classe sociale medio-alta con alti redditi e una forte capacità di consumo e, come controparte, l’aumento di una popolazione a basso reddito sotto la linea della povertà e dell’indigenza. Aumentò il divario tra queste due classi e pian piano sparì la classe media tradizionale [viii].

Nel contesto metropolitano tutto questo comportò dei cambiamenti importanti. I soggetti che costruivano la città cambiarono radicalmente. Da un lato fecero la comparsa nuovi attori economicamente forti e con un vero potere di decisione sull’assetto della metropoli, soggetti con un diritto di “cittadinanza” di tipo speciale che potevano fare a meno di rispettare le regole e di subire il controllo sia dell’utente che dello Stato (Pírez, 2004a), in particolare nei servizi urbani (Pírez, 1994 y 1999a; Pírez et al., 2003) e nella trasformazione del suolo. Lo Stato pertanto si fece promotore degli interessi privati nella costruzione della città [ix]. Dall’altro lato, la popolazione di reddito più basso vide ridotta la capacità di promozione sociale a causa della riduzione dell’intervento dello Stato nella produzione di beni pubblici (case, servizi, aree pubbliche) [x]. La disoccupazione e la povertà spinsero questa parte della popolazione a realizzare direttamente i beni di cui aveva bisogno a testimonianza di una condizione di cittadinanza limitata “subciudadanía” (Kovarik, 2000). Si realizzò anche una trasformazione nella realizzazione di residenze per la classe media e medio-alta con l’avvio di un processo di suburbanizzazione attraverso la realizzazione di residence privati (“urbanizaciones cerradas”).

Nel complesso l’esito di queste trasformazioni fu la privatizzazione della città sia a seguito dell’azione dei ricchi ma anche di quella dei poveri. Per meglio comprendere questo processo possiamo ripercorrere quello che è successo nell’espansione metropolitana.

La privatizzazione dell’espansione metropolitana

In questa analisi ci occuperemo della trasformazione del suolo e della realizzazione delle infrastrutture urbane nelle aree della periferia, senza fare riferimento a quanto è avvenuto nella città centrale.

3.1 La privatizzazione del suolo

Differenzieremo due situazioni: il suolo per le case delle famiglie a basso reddito e quello per le residenze dell’elite.

Il suolo dei poveri.

Nel corso degli anni Quaranta la popolazione con basso reddito si sistemava nei “lotti popolari” e nelle “città d’emergenza” o “ città della miseria” (villas miseria).

Queste ultime erano realizzate con l’occupazione illegale del suolo e con la costruzione di abitazioni precarie senza nessun tipo di urbanizzazione. Si formarono per la prima volta negli anni Trenta ed erano abitate dagli immigranti disoccupati (de la Torre, 1983), già nel 1956 vi abitavano 112.350 persone che rappresentevano l’1,9% della popolazione metropolitana (Yujnovsky, 1984). I “lotti popolari” permisero alla popolazione povera di accedere legalmente [xi] al suolo edificabile nella periferia messo a disposizione da promotori privati. Un suolo generalmente senza infrastrutture, spesso a rischio di inondazione, ma che si poteva pagare con quote mensili e che veniva occupato lentamente attraverso l’autocostruzione (Clichevsky, 1990:5; Prévot y Schneier, 1990:131).

Tutto questo fu possibile per la mancanza di regole e grazie ad un contesto sociale e del mercato del lavoro basato sulla redistribuzione economica.

Con il governo militare del 1976, queste condizioni mutarono. Da lì cominciarono i provvedimenti che diminuirono progressivamente la capacità del pubblico di orientare la costruzione della città. [xii]

Nel 1976 venne sospesa la suddivisione dei lotti e nel 1977 si promulgarono le regole per l’uso, la lottizzazione e l’urbanizzazione del suolo. Furono rese obbligatorie una dimensione minima dei lotti, una dotazione di base delle urbanizzazioni (Decreto legge 8912). L’effetto più importante fu la riduzione dei lotti e, pertanto, un forte incremento del costo del suolo (Clichevsky, 1999).

Queste norme si aggiunsero all’impatto delle politiche economiche che portarono ad un incremento della disoccupazione e ad una riduzione dei salari. La conseguenza fu la crisi e la scomparsa del submercato legale dei lotti popolari. La città cessò di offrisre suolo legale ai poveri e questi furono lasciati soli a risolverel le loro necessità e i loro bisogni. Negli anni Ottanta iniziò l’occupazione illegale del suolo pubblico e privato e la formazione degli “asentamientos” [xiii] (Izaguirre y Aristazabal, 1988; Merklen, 1991 y 2000). La popolazione esclusa dall’accesso alla terra si organizzò per occupare (illegalmente) la terra e lottizzarla in base ad una pianificazione preliminare che definiva le aree private e pubbliche. L’azione statale venne sostituita da una pianificazione popolare orientata al soddisfacimento diretto delle necessità e dei bisogni di chi si organizza, pianifica e costruisce.

Tutto questo incrementò il degrado delle zone popolari sia in termini formali (localizzazione illegale della terra, edifici privati e pubblici, lotti clandestini, …), sia in termini ambientali (aree soggette a inondazione e contaminate, senza infrastrutture e servizi, pessima accessibilità e senza alcuna connessione con le aree centrali, ecc…).

Nel decennio degli anni Ottanta si avviarono alcune politiche orientate fondamentalmente alla regolarizzazione del possesso (Clichevsky, 1999) che diedero delle risposte molto limitate e che non si fecero carico delle condizioni economiche della popolazione che vedeva aumentare i costi a suo carico: costo del suolo, imposte e tasse municipali, costo dei servizi urbani privatizzati.

L’assenza di procedure legali per risolvere il bisogno di suolo favorì il consolidamento di un mondo illegale che promosse l’espansione metropolitana attraverso la ricerca di terre da occupare o a prezzi accessibili alle basse disponibilità pubbliche. Alla fine degli anni Novanta oltre un milione di persone vivevano in condizioni di irregolarità e di precarietà ambientale [xiv] mentre continuava l’invasione di nuovi migranti (Clichevsky, 1999).

La residenza dei ricchi

Negli anni Novanta si è avviato un processo di sub-urbanizzazione della classe medio alta e media, che in un contesto di forte disoccupazione, povertà ed esclusione sociale, si è concretizzata in quelle che sono chiamate le “urbanizaciones cerradas” (urbanizzazione chiuse). In questo testo le analizziamo in quanto parte di una pianificazione privata nella produzione del suolo metropolitano associata con:

Cambiamenti nelle condizioni della domanda.

A seguito delle modifiche economiche e del mercato del lavoro è cresciuta e si è rafforzata una classe medio alta con una forte capacità di consumo [xv]. Un gruppo sociale inserito a più stretto contatto con le attività legate al mercato internazionale (finanza, servizio all’impresa, ecc…) che ha sviluppato uno stile di vita in cui l’ostentazione del consumo si è tradotta in un elemento di identità. Due beni erano essenziali: l’automobile e la residenza. Allo stesso tempo la produzione pubblica della città, ulteriormente ridotta, si è allontanata sempre più dal soddisfare i bisogni.

Cambiamenti nella produzione della città.

Con la fine dei lotti popolari restavano delle riserve di suolo che in un primo momento furono destinati a “countries club”, ai cimiteri giardino (Prévot y Schneier, 1990:124) e a luoghi per la produzione di quartieri chiusi . Tutto questo in assenza di norme di carattere metropolitano e con i municipi che avevano delle limitazioni nell’applicare le poche norme esistenti come quelle della legge 8912 prima richiamata. Cambiano gli attori che producono il suolo, si professionalizzano e si concentrano, intervengono capitali e tecnologie straniere (Mignaqui y Szajnberg, 2003). Si sviluppa una grande campagna di marketing [xvi] che rafforza il prestigio della residenza suburbana chiusa come parte di uno stile accessibile solo a chi possiede un reddito alto. Le trasformazioni della rete viaria di accesso alla città di Buenos Aires, privatizzata agli inizi degli anni novanta, consentirono di collegare rapidamente il centro della città con la periferia più lontana, con il conseguente incremento dell’uso dell’automobile [xvii]. Il risultato sono stati dei quartieri chiusi e sottoposti a vigilanza che introducono una discontinuità nel tessuto urbano, frammentano lo spazio metropolitano, con confini che non possono essere attraversati salvo da chi è autorizzato (i proprietari e i suoi invitati). Questo territorio chiuso offre infrastrutture, servizi urbani (rete di elettricità, gas, telefono, internet, marciapiedi, illuminazione, manutenzione, aree verdi, vigilanza), aree commerciali e ricreative, uffici, scuole, centri di assistenza medica e per attività culturali. Si produce un frammento di città privata di alta qualità con un carattere esclusivo. Alla fine del secolo c’erano tra 300.000 e 500.000 persone che risiedevano in circa 400 interventi di questo tipo, più di 130 solo nel municipio di Pilar, dove ormai il 30% della superficie è ad accesso ristretto (Janoschka, 2003). Sono urbanizzazioni estese tra i 400 e i 1600 ettari che includono molti quartieri, con oltre 2.000 alloggi e con una popolazione potenziale, in quella più grande, di circa 200 mila persone (Janoschka, 2002 y Vidal-Koppmann, 2004) [xviii]. A guardare bene le modalità di produzione di questo territorio si percepisce un processo privato di pianificazione che introduce una razionalità forte all’interno dell’intervento, ma dimentica il resto della città nella quale si inserisce. Bisogna ricordare che manca una pianificazione territoriale di livello metropolitano che riconosca l’unità metropolitana come area unitaria. Si può supporre che la legge provinciale 8912 contenga questo carattere, ma si tratta in verità di una norma astratta fatta per la totalità dei Municipi della provincia per di più, nel corso di quest’anno, la si sta riformando per favorire ulteriormente questi processi (Mignaqui y Szajnberg, 2003). Di conseguenza, i municipi tendono a sciogliere i problemi in relazione ai loro interessi particolari, economici e politici. I municipi metropolitani periferici (come Pilar e Tigre), con una bassa occupazione del suolo, valutano come vantaggiose le proposte degli investitori privati e agevolano la realizzazione di questi progetti. Il risultato è l’allontanamento del ruolo del soggetto pubblico a favore del soggetto privato nella decisione della produzione immobiliare (Janoschka, 2004; Núñez et. al, 1998). Come dice uno di questi “… oggi il capitale privato ti permette di determinare regole e norme” (citato da Jacky e Triegerman, 2000).

Così l’urbanizzazione è il risultato di una pianificazione privata che si sostituisce alla inesistente o molto debole pianificazione pubblica. La città si produce attraverso una razionalizzazione tutta dentro alle regole di mercato e alle azioni dell’individuo. Questo implica una forte pianificazione interna alle singole componenti di ciascun intervento e del sistema di controllo per la sua realizzazione, allo scopo di aumentare la qualità del prodotto e la redditività.

Questa operazione si limita ai territori privati e quindi “… si tratta di pianficare accuratamente una città da zero” (Clarín 30/10/99). Come fa notare il titolare dell’impresa che sta realizzando Nordelta [xix], “la città si disegna tenendo in conto l’equilibrio tra spazio verde, acqua e aree urbane; il paesaggio, la forma delle strade, la localizzazione dei quartieri, delle scuole, delle università, dei club e delle zone commerciali…. Si da a tutto un’armonia estetica e urbanistica, con diverse densità di popolazione e una adeguata distribuzione del traffico”. In questo modo, continua il giornalista che lo intervista, si evitano i problemi della città e quindi le cause di uno sviluppo disordinato, l’aumento della popolazione a livelli impensati che produce inconvenienti come la congestione del traffico (Clarín 30/10/99).

Questo processo mostra un orientamento culturale che produce due discontinuità rispetto alla città tradizionale: a) la produzione di una parte della città è “la città”. Una parte si presenta come il tutto, nascondendo che è solo dentro una città reale che queste parti possono trovare le condizioni (lavoro, infrastrutture, servizi generali) per la loro esistenza, anche se in modo “autonomo”; b) il disordine urbano prodotto dalla produzione pubblica della città, si riduce solo per la vita dei gruppi a più alto reddito. Spariscono ad esempio gli abusi della popolazione di basso reddito per trovare una sistemazione.

Di conseguenza il resto della città, la città reale che sostiene queste forme di urbanizzazione chiusa, può essere ridotta ad una specie di limbo.

Siamo all’inizio di una pianificazione che nega la pianificazione urbana pubblica, che disconosce la possibilità di introdurre una razionalità globale, differente da quella del mercato. La città è pensata sempre più come risultato della somma di operazioni private e degli interstizi tra queste. Le operazioni private che si realizzano in un ambiente “caotico” pieno di contraddizioni e di “svantaggi”. Un ambiente che non si percepisce come luogo di un azione di miglioramento.

Se procediamo un po’ oltre possiamo descrivere le componenti essenziali di questa pianificazione:

un sistema di norme che scaturisce da un documento privato (contratto di compra-vendita) e che si impone come clausola di adesione. Una rigorosa norma urbana: di zonizzazione, uso del suolo e norme di edificazione. Luoghi per la residenza e per le attività. I primi differenziati a seconda delle possibilità economiche hanno differenti dotazioni di terra e, quindi, di prezzo [xx]; i secondi invece differiscono per tipo di attività e di uso. Norme di comportamento sociale, ai quali devono aderire chi accetta di stare in queste urbanizzazioni. Regolamento etico e di convivenza che funziona come una sorta di diritto di ammissione (o di esclusione). Le conseguenze dell’uso di uno strumento di mercato che produce però configuraioni sociali e che tende a consolidare l’identità del progetto.

Ampia offerta di infrastrutture e servizi di alta qualità rapportati alla popolazione che soddisfano tutto il necessario senza bisogno di uscire fuori dal confine, tranne che per andare a lavorare.

Subordinare alla rendita la crescita della città, tanto per l’espansione metropolitana con l’uso sconsiderato del suolo, come anche per l’urbanizzazione arbitraria del suolo occupato a seguito della lottizzazione delle aree senza alcun controllo pubblico né uno studio sugli impatti che si realizzano sulla città esistente.

Incremento della tassazione a carico dei residenti per poter sostenere la realizzazione e la manutenzione delle infrastrutture e dei servizi. Una sorta di imposta privata che funziona anche come strumento per differenziare economicamente il territorio, in prima istanza con il fuori e dopo per realizzare delle differenze anche all’interno.

Le sanzioni per il mancato rispetto delle norme con multe decise dall’amministrazione privata che gestisce l’insediamento.

Un sistema decisionale che suddivide la popolazione e ne configura (amministrativamente) un ruolo marginale mentre favorisce il ruolo del proprietario dell’investimento (governo privato-di impresa).

Insomma si riproduce nella produzione della città la logica del mercato globale: concorrenza disordinata a fronte di una forte razionalità (pianificazione) in ogni singola unità individuale, orientata a raggiungere le migliori condizioni di commercializzazione e la qualità solo per alcuni.

3.2 La privatizzazione delle infrastrutture della città

Fin dagli anni Quaranta i servizi urbani dell’Area metropolitana di Buenos Aires sono a carico di imprese pubbliche del Governo Federale (Pírez, 1999a). Dalla fine degli anni Ottanta, il degrado di queste imprese era tale (in gran parte dovuto alla cattiva gestione del periodo della dittatura) che mostrava una basso livello di servizio, problemi finanziari e impossibilità ad investire, cattiva qualità e, in alcuni casi, corruzione nelle relazioni con i sindacati. Ricordiamo che questa gestione, permissiva con il consumo clandestino della popolazione a basso reddito, evitò in molti casi l’esclusione di questa popolazione dall’accesso ai servizi.

La crisi delle imprese in associazione con il deficit dei conti statali e con l’inflazione furono le cause per l’avvio della privatizzazione. Una privatizzazione realizzata velocemente all’inizio degli anni Novanta, trasferendo [xxi] alle imprese private la gestione del servizio delle infrastrutture (telefono, elettricità e gas naturale, acqua e fogne), i trasporti ferroviari di superficie e la metropolitana (gli autobus già lo erano) e la infrastruttura viaria di accesso alla città. La privatizzazione modificò gli attori e le relazioni, lo Stato si escluse come soggetto redistributore, ridotto ad assicurare il compimento delle relazioni di mercato e delle sue conseguenze inique. Il cittadino diventò un cliente di fronte all’azienda. I diritti del consumatore si ridussero: solo il cliente ha il diritto di usare il prodotto in base al prezzo che paga.

Le conseguenze. I servizi finirono si essere pubblici e di essere considerati dei diritti per diventare delle attività economiche regolate solo sulla base di principi concorrenziali. Si sono trasformati in una relazione commerciale di tipo privato. E’ migliorata la qualità, l’efficienza, ma con l’incremento delle tariffe si è esclusa dall’accesso ai servizi la popolazione di reddito più basso [xxii]. Le imprese di servizi, nella maggior parte di origine internazionale, sono diventati degli attori con un forte peso economico e politico. La carenza di un quadro di regole e di sistemi di controllo ha contribuito a tutto questo. In alcuni casi si sono anche sommate le pressioni dei paesi di origine delle imprese.

I principali effetti di questo processo. L’accentuazione del processo di concentrazione e di esclusione economica e sociale.

Le norme hanno prodotto condizioni di rischio basso o nullo per le imprese e gli hanno consentito di realizzare tassi di redditività esorbitanti (Aspiazu y Schorr, 2003:21). L’indicizzazione basata sull’inflazione degli Stati Uniti, proibita dalla legge di convertibilità, la dollarizzazione e le successive rinegoziazioni hanno reso possibile l’aumento delle tariffe molto al di sopra dell’inflazione [xxiii]. In alcuni servizi, come il gas e l’elettricità, le tariffe residenziali per i singoli proprietari sono uamentate molto di più di quelle dei grandi consumatori industriali (Aspiazu y Schorr, 2003:19). L’incremento delle tariffe, la cancellazione del sussidio, e l’aumento dei controlli sempre più restrittivi rispetto alla gestione statale, sono le concause che hanno messo la popolazione di basso reddito sempre più in difficoltà nell’accesso a questi servizi (Pírez, 2000). Questa condizione non ha riguardato solo gli utenti privati ma ha alterato le condizioni per lo sviluppo delle attività produttive “condizionando negativamente la competitività di numerose imprese –in particolare le piccole e medie imprese impegnate nella elaborazione di beni commerciabili- e la distribuzione del reddito” (Aspiazu y Schorr, 2003:38).

Per le aziende tutto questo si è tradotto in guadagni spropositati [xxiv].

Aspetti importanti della pianificazione urbana diventarono di competenze delle aziende. Si trasferì alle imprese la capacità di definire la politica e soprattutto la pianificazione dei servizi, assumendo un ruolo chiave nella configurazione urbana (Pírez, Gitelman y Bonnafé, 1999). Ogni impresa prende decisioni sulla base delle necessità di mercato: quale territorio occupare, quale processo sviluppare e in che ordine farlo. Si servono popolazione e territorio e si realizzano le operazioni che possono dare una più alta e veloce redditività (per esempio si realizza l’espansione della rete dell’acqua ma non delle fogne o il trattamento dell’acqua sporca). Lo Stato non assolve più il ruolo di pianificatore. La possibilità di ampliare il servizio è data solo dal mercato, dalla relazione tra le imprese concessionarie e l’utente, tutto questo presuppone un potere di decisione tutto privato. La conseguenza è che dipendono da queste decisioni delle imprese tanto il mercato del suolo come la qualità della vita urbana.

La privatizzazione della relazione con l’utente.

Questo processo è evidente nel rapporto negoziale che si stabilisce tra le imprese e l’utente clandestino. Un rapporto che si sviluppa senza alcun intervento da parte dell’autorità di governo e in modo discrezionale potendo convenire soluzioni differenti per situazioni che sono simili (Martínez, Navarro y Pírez, 1998). L’intervento del governo si ha solamente quando emerge un conflitto politico (Pírez, 2002). Questo è il nuovo ruolo dello Stato regolatore: esercitare il potere di polizia sull’impresa aggiudicataria del servizio, realizzando uno scenario in cui il cittadino è diventato cliente ed è sottomesso al potere dell’impresa in una relazione di tipo asimmetrico.

Asimmetria che risulta molto chiara osservando la politica della distribuzione dell’elettricità nella popolazione a basso reddito che non riesce a fare fronte ai costi. Le imprese preferiscono non tagliare il servizio a causa dei costi e poi perchè si suppone che il servizio sarebbe comunque sostituito da una connessione clandestina. Di conseguenza negoziano con l’utente, individuale o collettivo, differenti forme di pagamento, senza l’intervento di nessuna autorità statale. Così le aziende coprono nell’immediato parte del fatturato ma indebitano l’utente che mese dopo mese incrementa il proprio debito, senza che si sappia né come né quando potrà farsi carico di questo debito [xxv].

Qualche conclusione

Il processo di costruzione della periferia metropolitana di Buenos Aires si è modificato a causa delle politiche collegate alla ristrutturazione economica, e a seguito dell’incremento della privatizzazione nel doppio senso che abbiamo sopra richiamato.

Da un lato, come condizione generale, si è ampliata la disuguaglianza economica con un forte aumento della concentrazione del reddito e l’incremento della povertà.

In modo più specifico è aumentata la partecipazione del capitale privato. Questo ampliamento è stato prodotto dalla partecipazione di grandi attori economici con relazioni internazionali (capitale, management, tecnologia, finanziamento) che organizza operazioni ad alta redditività. La produzione urbana (suolo, edifici e servizi) tende ad organizzarsi in modo da favorire il processo economico di ciascuna operazione, contribuendo al processo di concentrazione economica sopra richiamato. La sistemazione della città si è liberata dallo sforzo di ogni famiglia o dei gruppi sociali. Non ci sono più spazi per i poveri. La periferia metropolitana si è segmentata ed è sempre più segregata. Aumentano le differenze tra i diversi ambienti costruiti e si approfondiscono le distanze sociali.

Lo spazio dell’espansione metropolitana risulta segnato dalla presenza dominate di due logiche “non statali”: quella dei settori sociali esclusi dal mercato formale e che si orientano alla soddisfazione diretta dei bisogni; e la produzione privata capitalista per i gruppi di reddito più alto. La conseguenza è una chiara differenziazione in particolare con il resto della periferia. Il territorio prodotto con la logica della necessità, nonostante gli intenti di una organizzazione formale e di una urbanizzazione regolare (lotti, strade, zone per uso pubblico, ecc…) ha una bassa qualità, e si inserisce spesso in contesti residuali dove è anche difficile portare le infrastrutture e i servizi necessari per il suo funzionamento.

Gli ambiti più propri della produzione capitalista, le “urbanizzazioni chiuse” sembrano riprodurre quello che Fishman (1987) chiamò “bourgeois utopias”: alta qualità dell’habitat, segregazione basata sull’identità sociale per proteggere la famiglia separandola dai pericoli della vita urbana e dagli altri, particolarmente dai poveri, e vivendo a contatto con la natura. Della città resta la percezione di una condizione che consente a queste urbanizzazioni di funzionare. Il suo funzionamento si concretizza nelle connessioni per l’accesso ai luoghi del lavoro e di consumo qualificato, connesisoni garantite dalle aziende privatizzate (strade di accesso, ferrovie in particolare). Per il resto la città sembra non esistere. Questa qualificazione implicita di una terra di nessuno è, paradossalmente, coerente con l’occupazione (illegale) del suolo per le famiglie di basso reddito che si costruiscono lì la loro sistemazione di infima qualità.

In entrambe le situazioni il resto della città sembra essere lasciato libero alle conseguenze di uno o dell’altro degli attori sociali ed economici che lo occupano (riproducendo le relazioni del mercato). Le aziende che forniscono i servizi operano e consolidano così la loro capacità di decidere la configurazione metropolitana, rafforzando il loro orientamento privato alla ricerca di sempre maggiori redditività. I settori popolari, tentando di vincere queste ostilità e per superare il loro isolamento, si comportano seguendo la stessa logica della necessità realizzando i servizi in quello che è il “resto” della città. [xxvi]

Tutto questo produce un effetto che è paradossale. Il risultato è un’espansione metropolitana che tende a localizzare in prossimità l’uno con l’altro gli insediamenti precari e quelli chiusi delle classi più agiate. La periferia metropolitana sembra conformarsi come un insieme di insediamenti decentralizzati omogenei al loro interno ed eterogenei all’esterno. Questo presuppone un duplice movimento: perdita dell’eterogeneità della città tradizionale che rendeva possibile il contatto tra gruppi differenti (come conseguenza della segregazione e della chiusura), e l’emergenza di una nuova eterogeneità (forti differenze da un punto di vista sociale ed economico) in una sorta di articolazione per frammenti, quello che possiamo chiamare “microframmentazione” (Pírez, 2004b:123). I due estremi della piramide sociale che occupano la periferia si collocano molto vicini nello spazio. Questo consente che si stabiliscano delle relazioni tra queste: servizi senza qualità, trattamento dei residui solidi e altro, come, perché no, i delitti. Non è l’eterogeneità dell’integrazione, è il contrario, l’eterogeneità dell’esclusione.

Un’ultima riflessione. La capacità di consumo della popolazione dipende dal mercato del lavoro e dalla relazione della distribuzione economica, sono elementi fondamentali per definire il senso dell’inclusione o dell’esclusione del prodotto urbano. L’esclusione presuppone una società che non dà garanzia a nessuno dei suoi membri un equilibrio tra reddito e costo della sua riproduzione. Da qui, ad esempio, l’incremento delle tariffe del servizio privatizzato non ha lo stesso effetto su una città dove tutti hanno un mercato del lavoro che gli assicura un reddito sufficiente, rispetto ad una città (come è il caso di Buenso Aires) dove invece la maggior parte della popolazione non ha queste condizioni. E’ anche per questo che l’obbligo di migliorare la qualità del suolo imposta nel 1977, quando non c’erano le condizioni per affrontare la maggiorazione dei costi, ha avuto come risultato, paradossale, di eliminare il mercato formale del suolo per la popolazione più povera.

Insomma le trasformazioni che hanno interessato la società argentina nell’Area Metropolitana di Buenos Aires, dalla metà degli anni Settanta, hanno incrementato il ruolo del privato, sia nella produzione sia nel prodotto, dando luogo ad una città diseguale, accentratrice e segregata.

Nota: in allegato un file PDF scaricabile con la traduzione completa di note e Bibliografia (g.c.)

Titolo originale: Density is hot, freeways are not, in the new Los Angeles Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Ho ripescato la mia copia del classico Los Angeles: The Architecture of Four Ecologies di Reyner Banham, 1971, l’altro giorno, con l’intenzione di verificare se Banham – straordinario storico dell’architettura, anche se talvolta discutibile – era così ardentemente filo-autostrada come lo ricordavo. Lo era. Banham, morto nel 1988, era una delle personalità più autorevoli riguardo a Los Angeles, e aveva descritto il suo sistema di freeways come la cosa più vicina alla perfezione motoristica a cui la civiltà fosse mai arrivata. Imperturbabile di fronte alle lamentele sulle freeways, insisteva sul fatto che per i pendolari su lunghe distanze “l’autostrada non è un limbo di angst esistenziale, ma il luogo dove si trascorrono le due ore più calme e appaganti della vita quotidiana”.

L’appoggio di Banham al freeway lifestyle ora sembra un reperto storico, simile alla propaganda stradale per la Fiera Mondiale del 1939. Anche se due ore di guida al giorno potevano essere tranquille nel 1971 – cosa che trovo difficile da immaginare – non sono certamente calme e appaganti oggi, con la Los Angeles County stipata da più di tre milioni di abitanti. Dopo essere diventata famosa per le freeways, la California meridionale ha imparato che pianificare una regione esclusivamente attorno all’automobile è la ricetta per la frustrazione.

E così oggi i pedoni della seconda metropoli del paese stanno gradualmente iniziando a ricevere l’attenzione che meritano. L’amministrazione di West Hollywood si è ripresa un tratto di 4 chilometri del Santa Monica Boulevard dal Department of Transportation, e l’ha convertito in una via più orientata a pedoni e ciclisti, con ampi marciapiedi punteggiati da olmi. Pasadena, città di strade spaventosamente larghe, ha fatto grandi cose coi suoi vicoli del centro: costruendo passaggi adatti, talvolta con alberature, dove le persone possono passeggiare fra negozi, punti ristoro e intrattenimenti.

Il trasporto su rotaia – l’equivalente odierno dei tram rossi che attraversavano la regione negli anni ’20 – sta diventando sempre più un’alternativa all’auto privata. Come molte delle altre 1.200 persone che andavano al XIII Congresso del CNU di giugno a Pasadena, ho camminato dal Civic Center fino alla stazione Del Mar a sud di Colorado Boulevard, per salire su un comodo e tranquillo treno della Gold Line. Pochi minuti dopo, scendevo a Mission Street nella zona sud di Pasadena – un nodo commerciale del XIX secolo. Da un tavolino in un curioso locale chiamato Coffee by the Tracks, potevo vedere il Mission Meridian Village, un bell’insieme di lofts, appartamenti affacciati su un cortile, case di città e unifamiliari, con spazi per negozi in parte del pianterreno.

In futuro sta nella densità e nel mixed-use

Il futuro della California meridionale sta, almeno in parte, negli insediamenti densi come il Mission Meridian Village, da cui si possono raggiungere a piedi negozi, mezzi pubblici e altri servizi. La nuova Metro Rail ora ha quattro linee: Blu, Verde, Rossa e Oro, e continua ad espandersi. Anche se non è particolarmente veloce (mi ci è voluta un’ora e tre quarti per andare da Pasadena al Los Angeles International Airport, lungo tratti di tutte e quattro le linee più un bus navetta), il trasporto su rotaia rende possibile per una parte della popolazione spostarsi senza intasare le strade.

“Non esiste centro urbano della Los Angeles County che non stia attraversando qualche processo di rigenerazione” ha raccontato al Congresso Stefanos Polyzoides. Polyzoides vede nel 1990 l’inizio di un “momento di speranza”, un periodo in cui “si possono vedere le forze del cambiamento dappertutto”.

La grande popolazione latino-americana di LA potrebbe giocare un ruolo importante, secondo alcuni leaders locali come James Rojas, tra i fondatori del Latino Urban Forum. I latini vengono da una cultura che tende a usare gli spazi pubblici, dunque esiste il potenziale per quello che Rojas chiama Latino New Urbanism, ovvero strade animate, spazi sul fronte degli edifici, e altri spazi pubblici o semi-pubblici. Quasi a confermare il punto di vista di Rojas, il nuovo sindaco di Los Angeles, Antonio Villaraigosa, ha dichiarato al Congresso che intende nominare nuovo responsabile per l’urbanistica qualcuno che “possa capire e sostenere i tipi di idee di cui parla il New Urbanism”.

Sono tempi di speranze per LA. La regione si sta liberando della propria fissazione per le freeways, alla fine.

Nota: questo e altri articoli al sito di New Urban News (f.b.)

Titolo originale: Is your council wasting the countryside?– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

L’Inghilterra ha bisogno di centinaia di migliaia di nuove abitazioni nel prossimo decennio, per venire incontro alla crescita della popolazione e alla caduta di dimensione delle famiglie. Ma queste nuove abitazioni consumano più terreno di qualunque altro tipo di insediamento, diffondendosi su tutta la campagna, e portando con sé nuove strade e traffico aggiunto. Contemporaneamente, esistono enormi aree di terreni abbandonati e edifici degradati nelle nostre città e cittadine, che danneggiano i quartieri vicini.

La soluzione: riusare gli spazi e abbandonare l’uso delle basse densità.

La Campaign to Protect Rural England da tempo sostiene che dovremmo usare questi spazi un tempo urbanizzati, ma ora sottoutilizzati o abbandonati, detti brownfield land, prima di costruire sull’aperta campagna, o greenfield land. I costruttori potrebbero anche riportare alla vita alcuni edifici abbandonati o sottoutilizzati, convertendoli ad abitazioni.

Allo stesso tempo, dovremmo smettere di costruire nuove case a densità dispendiosamente basse, inferiori alle 30 abitazioni ettaro [il “ twelve per acre” manualistico di Raymond Unwin, fissato nel 1902 con la città giardino, n.d.T.] che sono diventate la norma. Costruendo a densità più alte – non alte in senso assoluto – si utilizza il terreno in modo più efficiente e si salva la campagna. Ed esistono altri benefici ambientali, rinunciando alle basse densità. Si creano comunità più compatte, dove abitazioni, luoghi di lavoro, negozi e servizi sono più vicini gli uni agli altri, i trasporti pubblici sono più economicamente efficienti e le persone trovano più comodo camminare o andare in bicicletta, piuttosto che basarsi sull’uso dell’automobile.

Riuso dei terreni e conversioni

Nel 1998 il governo ha iniziato una politica per le abitazioni che aveva l’obiettivo di far realizzare il 60% di tutte le nuove case su terreni già edificati entro il 2008. Si tratta di un obiettivo raggiunto concretamente nel 1999, e questo suggerisce che si potrebbe fissare un obiettivo superiore.

Costruire a densità più elevate

La politica per le abitazioni del governo indica un’oscillazione da 30 a 50 abitazioni ettaro per le nuove costruzioni, e densità più alte per le aree vicine ai centri città, o con buoni collegamenti di trasporto. Le ultime statistiche indicano che le densità ora si stanno avvicinando al centro di questi estremi, con una media densità di 39 abitazioni ettaro nel 2004.

Abbondanza di spazio

Nella sua azione contro le basse densità, la CPRE non sostiene che dovremmo costruire solo case multifamiliari, o che i nuovi insediamenti debbano essere sviluppati in altezza. Niente di tutto questo. Si possono realizzare case unifamiliari spaziose, con un proprio giardino e parcheggi per le auto, con densità di 50 abitazioni per ettaro. Vogliamo nuove case di qualità, articolate per vari tipi: abitazioni di dimensioni generose con giardino per famiglie con bambini, e insieme case più piccole per le famiglie più piccole.

Il vostro comune distrugge la campagna?

Il vostro comune dà i permessi per le nuove costruzioni. La CPRE vuole esercitare pressioni sui costruttori perché facciano il massimo uso dei terreni brownfield, e perché non vengano autorizzate nuovi insediamenti a distruttive basse densità.

Nota: qui il testo originale, insieme alle altre iniziative al sito della Campaign to Protect Rural England (f.b.)

Titolo originale: Disneyland has given us unreal reality – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Non puoi andare a Disneyland, perché sei già lì.

Il parco a tema paradigmatico, che ha raggiunto il cinquantesimo anniversario questo mese, ha avuto una potente influenza sulla cultura americana, e in particolare sulla cultura dei luoghi.

Prima di Disneyland, con qualche eccezione di rilievo, un luogo era quello che era: prodotto della propria storia, geografia, clima, base economica, equilibri sociali e sviluppo tecnologico.

Dopo Disneyland, gli spazi americani sono diventati sempre di più finzioni narrative idealizzate del luogo: non spazi reali, ma meta-luoghi.

Disneyland non era privo di precedenti, in quanto metaluogo.

Più di un secolo fa, venivano progettati grossi sobborghi lungo le linee ferroviarie per pendolari, con pittoreschi centri in stile Olde English, facendo dei loto abitanti personaggi di storie dell’aristocrazia in tweed.

Alcune atmosfere delle sale cinematografiche degli anni ‘20 (come qui a San Antonio il Majestic o l’ Aztec) anticipano Disneyland nelle loro fantasie romantiche di terre esotiche.

I grandi magazzini dei primi tempi, non erano solo luoghi dove si vendevano beni di consumo. Le vetrine, l’organizzazione e programmazione degli stessi negozi, costruivano un racconto del consumo. Le esposizioni mondiali intrecciavano storie sull’idea di progresso e gli ideali degli scambi internazionali.

Ma Disneyland è andata oltre questi precedenti, in molti importanti modi. Non era solo un edificio o un insieme di edifici, ma una città virtuale progettata come insieme narrativo, in cui ogni dettaglio visibile contribuiva alla trama del racconto. A differenza delle esposizioni mondiali, Disneyland era un’installazione permanente, e disseminava il suo racconto su milioni di famiglie ogni settimana, attraverso il proprio spettacolo televisivo.

Al centro della storia, Main Street USA, idealizzazione rosea della via principale nella città natale di Walt Disney, Marceline, Missouri.

Main Street USA ha concretamente modificato le aspettative degli americani rispetto allo spazio urbano in generale, e per le zone storiche in particolare.

Le strade reali avevano tratti utilitari, zone di carico-scarico, uffici prestiti. I veri centri città avevano edifici realizzati in molte epoche, a riflettere il flusso della storia. I veri marciapiedi erano percorsi occasionalmente da qualche ubriaco, scocciatore, o personaggio stravagante. Le vere città avevano depositi merci, e vicoli sul retro.

Nella Main Street di Disney non c’era niente di tutto questo. Era solo facciate, maschera, copione e ordine omogeneo.

Era un ordine paternalistico, involontariamente simbolizzato dalla grandiosa struttura in cui culminava: non un edificio civico a significare valori democratici, ma dal barocco palazzo reale di Cenerentola e del Principe Azzurro.

Gli americani volevano che la vita imitasse l’arte. I distretti storici iniziarono ad essere governati da criteri progettuali a-storici, che richiedevano segnaletica leziosamente di gusto, e architetture “compatibili”. Nacquero nuovi quartieri con le proprie elaborate garanzie di uniformità nel progetto, nel verde, e nelle condizioni economiche.

Il successo commerciale andò agli spazi irreggimentati e privatizzati: il centro commerciale, il quartiere recintato.

I ristoranti che offrivano buon cibo furono eclissati da artefatte e preconfezionate imitazioni di taverne da strada del Texas, baracche di pescatori della Louisiana, fattorie messicane.

Più o meno lo stesso fato si è abbattuto sulla vita politica e intellettuale, dove l’ideologia liofilizzata si è imposta come denaro contraffatto, svalutando il vero pensiero.

Disneyland è cominciata innocuo diversivo, ma ci lascia in eredità una cultura che disprezza e teme l’esperienza autentica.

Nota: qui il testo originale al sito dello Express News ; da confrontare, almeno qui su Eddyburg, al più elegiaco buon compleanno Disneyland diYoshino-McKibben(f.b.)

Non esiste un monopolio della faziosità, ma la lotta è all’ultimo sangue. Come nelle polemiche sulle “periferie”, i cui guai sono stati ascritti dai vari soloni al solito comunismo, alla poca sensibilità dei progettisti (magari pure comunisti) ipnotizzati dal feticcio della modernità, a un’urbanistica rigida e burocratica sostanziata negli standards, o nello zoning monofunzionale.

A girare la boa del mezzo secolo, però, e a mostrare rughe profonde, non sono solo i complessi di residenza popolare del dopoguerra, ma anche quell’ambiente suburbano middle-class che ne ha sempre rappresentato l’immagine speculare: bassa densità, solidi valori familiari, ubique auto private e falciatrici ronzanti nei week-end. Soprattutto, al centro fisico e immaginario di questo ex sogno, il grande centro commerciale suburbano, tempio del consumo e della socialità programmata sui ritmi della grande impresa moderna.

Qui, il socialismo sembra proprio innocente: privatissime le “macchine della crescita” [1] alla base dello sviluppo residenziale per grandi lottizzazioni unifamiliari e reti superstradali, privatissimo (benché garantito dell’ente pubblico) il sistema di rigida separazione dello zoning monouso, che garantiva certezze di investimento, semplicità progettuale, e in fondo una certa aderenza ai modi e tempi della vita nella società industriale. Attorno il mare di casette, sparpagliate qui e là negli svincoli superstradali le grandi piastre dei malls, con ciambella di automobili a contorno.

Paradigma replicato all’infinito (sino a diventare anonimo), il Southdale Mall di Edina, nell’area metropolitana di Minneapolis, aperto nel 1956 su progetto di Victor Gruen, secondo uno schema allora rivoluzionario: una scatola piuttosto anonima, molto arretrata rispetto alla strada e completamente circondata da piazzali a parcheggio, a contenere in un ambiente chiuso e climatizzato tutta l’articolazione commerciale e di servizi. Un successo incredibile, come chiunque può testimoniare semplicemente uscendo di casa e girando l’angolo.

Come gli speculari complessi residenziali di iniziativa pubblica di tutto il mondo, ma (molto spiegabilmente) senza i medesimi clamori sul rapporto fra qualità del territorio e socialismo più o meno strisciante (che, per inciso, non è ancora reato), anche il Southdale Mall alla fine cade a pezzi. Non le strutture edilizie, sottoposte negli anni da proprietà e operatori commerciali a successivi refurbishments, e nemmeno il sistema urbanistico che lo accoglie e sostiene, e che anzi si è arricchito localmente nel tempo di altri complessi simili, lungo la striscia nord-sud fra l’autostrada urbana 62 e la Interstate Highway 494, come i nuovi scatoloni del commercio big-box. Pochi chilometri a est, nel territorio comunale di Bennington a sud della 494, c’è il nipote affetto da orchite: Mall of America, che replica il medesimo modello con la bellezza (?) di oltre mezzo milione di metri quadrati di superficie commerciale.

E anche il Mall of America, come il trisavolo di Southdale, a suo modo cade a pezzi: nell’immagine, nel rapporto con la città, nel suo faticare a mantenere tutte le mirabolanti promesse.

Per farla breve, la municipalità di Edina e gli operatori commerciali hanno preso la loro decisione: dopo i cinquant’anni, qui ci vuole un lifting serio (magari affiancato da psicoterapia). E proprio dai metodi scelti per lo spianamento delle rughe del Southdale Mall, lifting urbanistico e sociale deciso secondo un processo che sembra abbastanza partecipato, è possibile tentare di immaginare una tendenza.

Non è un caso da questo punto di vista che Victor Gruen, famoso soprattutto per i suoi progetti commerciali, abbia collaborato con alcune firme prestigiose (Oskar Stonorov e Louis Kahn, per fare due nomi) anche negli studi di “famigerati” complessi residenziali modernisti ad alta densità. Non è un caso, dicevo, perché forse la crisi di un modello socio-spaziale è identica a quella del suo doppio, e coincide con un mutamento di paradigma più generale.

Quello ad esempio che nella vulgata del nuovo urbanesimo colloca il centro commerciale tra le

Cinque componenti dello Sprawl: “Le lottizzazioni residenziali, dette anche baccelli ... gli Shopping Centers ... posti dove è piuttosto improbabile camminare ... gli Office Parks ... derivati dalla visione architettonica modernista dell’edificio che emerge da un parco ... fatti di solito da scatole e parcheggi ... gli Edifici pubblici .. grossi e rari, di solito spogli per mancanza di fondi, circondati da parcheggi e collocati a caso ... Strade ... chilometri di asfalto necessari a collegare le altre quattro dissociate componenti” [2].

E come osservano gli stessi critici più feroci di questo modello insediativo, non è detto che le sue parti siano di bassa qualità formale o funzionale, anzi. Quello che non funziona, e sempre più rivela debolezze sociali, ambientali, “insostenibilità”, è l’appartenere di questo modello a un immaginario passato, dove si poteva anche prospettare come desiderabile, in assenza di esperienze concrete, un ambiente di vita del genere: lunghi tempi di pendolarismo in auto; luoghi specializzatissmi per fare pochissime cose alla volta; una socialità ben dosata e segregata tra gli ambienti della famiglia, del lavoro, di tempi liberi standardizzati e incomunicanti. A ben vedere, contraddizioni parallele e simili (almeno nel metodo) a quelle dei grandi quartieri modernisti, con le loro relazioni spazio-società studiate a tavolino, per una società più auspicata che reale, e che l’evoluzione concreta di due generazioni ha ridotto a poco più di una caricatura degna al massimo dei serial televisivi o degli spot pubblicitari. Ma anche lo shopping mall, dal punto di vista dell’obsolescenza strisciante del modello generale, non scherza.

Nasce anche da questi presupposti, l’idea del piano Greater Southdale, promosso congiuntamente dall’amministrazione municipale di Edina e dagli operatori commerciali e immobiliari interessati, per la ristrutturazione urbanistica di un’ampia fascia di territorio, e ritentare di costruire mezzo secolo dopo

“aree pedonali di aspetto attraente, con ombra e verde, e sì, anche opere d’arte, perché queste cose attirano più clienti, aumentando gli affari dei negozi ... un buon progetto significa buoni affari” [3].

Un obiettivo dichiarato 50 anni fa, fa ma evidentemente fallito nella segregazione funzionale dello sprawl suburbano, dove il centro commerciale coi suoi originari 64 negozi e due grandi magazzini anchor, le catene Dayton e Donaldson ha attraversato due generazioni di evoluzione sociale e anche insediativa. Il primo tentativo di riorganizzazione risale al 1972, quando si aggiunsero un terzo grande magazzino della catena JCPenney, e nuovi 43 negozi. Poi nel 1990 ci fu un’altra grossa espansione, con un nuovo magazzino Dayton da 35.000 metri quadrati e 50 negozi, che portarono la superficie commerciale complessiva del Southdale Mall a circa 120.000 metri quadrati, esclusi i parcheggi, parte scoperti e parte su tre livelli serviti da rampe. Poi dai primi anni Novanta la concorrenza, a pochi minuti di macchina a est sulla Interstate Highway 494, del Mall of America, con le sue molte centinaia di migliaia di metri quadri di attrazioni varie, e un relativo declino[4].

Ora, la concorrenza col Mall of America la si intende in modo innovativo: non più (solo) aumento di superfici commerciali, ma ripensamento radicale del ruolo dell’area, che non a caso si dilata a una grossa striscia nord-sud assumendo il nome un po’ altisonante di Greater Southdale. Il fatto innovativo è da un lato un recuperato rapporto col resto dell’insediamento,a superare la segregazione funzionale suburbana in una logica di maggior permeabilità e intreccio con le aree residenziali e non circostanti, dall’altro un ribaltamento dell’organizzazione interna. Del resto si tratta di un’idea coerente ai programmi della pianificazione di coordinamento, così come fissati nelle politiche territoriali del Metropolitan Council per l’area regionale delle sette contee di Minneapolis, approvate nel 2004, che per le fasce di alta urbanizzazione ( Developed Communities,con più dell’85% del territorio urbanizzato) a cui appartiene la circoscrizione di Edina, propone un deciso salto verso uno schema insediativo non più suburbano.

Densità maggiori innanzitutto, perseguite attraverso incentivi e incoraggiamento delle iniziative miste pubblico-privato, finalizzate al riuso, rivitalizzazione, edificazione di riempimento, coordinamento nell’uso e modernizzazione delle strutture. Questo dovrà avvenire, definito nei dettagli dalla pianificazione locale, attraverso l’insediamento in queste zone entro il 2030, del 30% delle nuove famiglie e del 50% dei nuovi posti di lavoro. La parola d’ordine, già a livello regionale, sembra essere così mixed-use, ovvero compresenza (da definirsi poi nelle forme concrete in piani e progetti locali) di varie attività entro i medesimi sistemi, utilizzando la medesima gamma di infrastrutture e servizi, seguendo anche una tendenza già manifestata da alcune grandi imprese che

“riconoscono i benefici di legare posti di lavoro e residenze entro la stessa area, attraverso opzioni di trasporto ad alta accessibilità”, e dalle amministrazioni pubbliche che “vedono i vantaggi economici delle ... aree a mixed-use nei propri piani regolatori, adattando le ordinanze locali ... a questi tipi di uso dello spazio” [5].

Un tipo più compatto di insediamento che mira tra l’altro, oltre ad un minor consumo di suolo a scala regionale, ad un più razionale uso delle infrastrutture esistenti e a un rilancio del trasporto pubblico.

E l’amministrazione municipale di Edina, inizia nell’autunno 2004 il processo di costruzione (abbastanza partecipata) del progetto per l’area di Southdale, sotto gli auspici tra l’altro dello Urban Land Institute, approfittando anche di un cambio di proprietà degli immobili del mall. L’idea, pur ancora (e come potrebbe essere diverso?) fortemente centrata su funzioni commerciali, è quella di costruire un sistema altamente pedonalizzato:

I visitatori che vengono da più lontano sarebbero incoraggiati a lasciare l’auto negli spazi multipiano posti ai margini dell’area, e spostarsi verso i negozi a piedi o con qualche tipo di trasporto collettivo. Gradualmente l’intera zone si evolverebbe da un sistema di negozi posto oltre grandi parcheggi, a un sistema di fronti commerciali con marciapiede, percorsi pedonali trasversali, verde” [6].

Ma c’è di più, della sola razionalizzazione commerciale. Si tratta infatti di una vasta zona, che si intende riorganizzare internamente e fisicamente ricucire al resto della città e della rete metropolitana, ma anche arricchire di funzioni: trasporto pubblico e nodi di interscambio, attività economiche, residenza a varie densità, ruolo di vero e proprio “centro” su cui basare l’intero piano urbanistico cittadino [7].

Salta all’occhio, anche solo ad una osservazione rapida del piano di massima - Greater Southdale Study Concept - attualmente in corso di discussione pubblica, il tentativo di articolare quanto più possibile gli spazi già a grande scala: viali alberati, e un sistema gerarchico di strade che integra il sistema sia all’ex suburbio residenziale, sia alla rete di grandi arterie e autostrade; due stazioni del sistema di trasporto pubblico (impensabili, sino a una decina d’anni fa), a fungere anche da possibili nodi di scambio intermodale; una compresenza e intreccio di funzioni e densità che comprendono la residenza, le attività terziarie con notevoli blocchi per uffici, fronti commerciali ad orientamento pedonale, gruppi di funzioni pubbliche; soprattutto, predominante, la scelta del mixed-use[8]. E si potrebbe sospettare, anche, un uso “ideologico” del termine, se non fosse che anche l’ordinanza di zoning della municipalità di Edina prevede ben quattro gradazioni di aree omogenee così denominate, delle quali tre non includono il commercio ( retail) ma comprendono la residenza mista, e fra gli usi condizionali viene introdotta (fatto nuovo, anche se in diffusione nei regolamenti municipali americani) la possibilità di compresenza di negozi e residenze entro il medesimo edificio [9]. Di particolare rilevanza, infine, il fatto che sia proprio la zona del Southdale Mall di Victor Gruen, a costituire il cuore del sistema mixed-use, definito su un lato da un fronte commerciale a negozi tradizionali, e delimitato a nord da una delle stazioni del trasporto pubblico.

Naturalmente è impossibile, in presenza di un semplice studio di massima per un’area di parecchi ettari e notevole complessità e articolazione, esprimere giudizi sulle potenzialità dei risultati spaziali, sia in termini di rapporti funzionali (ad esempio la pedonalità, o la distribuzione nel tempo delle varie fruizioni), sia in termini di equilibrio fra ambiti effettivamente pubblici, e la sottile privatizzazione che sempre per un verso o l’altro si insinua negli ambienti progettati con un ruolo centrale delle grandi catene e imprese. In mancanza di una articolata serie di linee guida progettuali della municipalità (che auspico comunque in corso di redazione)[10], aiutano a dare meglio un’idea generale le “tipologie”: piccole serie di immagini fotografiche, ciascuna a corredo di una specifica zona omogenea così come segnata nella planimetria. E in effetti, anche solo per restare al mixed-use, gli esempi illustrano né più né meno quanto regolamentato con linguaggio più burocratico alla voce “B. MDD-6. Commercial uses in residential buildings” della citata ordinanza municipale di zoning: spazi da città europea, con arretramenti degli edifici ridotti al minimo, parcheggi anche a lato strada, marciapiedi, e appunto i piani terreni destinati al commercio, e quelli superiori a residenza e uffici[11].

La discussione pubblica del piano è ancora in corso in questi mesi estivi del 2005, e ci si può ragionevolmente aspettare che anche dal punto di vista dei particolari di organizzazione spaziale questo radicale lifting urbanistico dell’ex mall suburbano e dintorni si precisi prima del compleanno ufficiale del 2006. Appare però già chiaro un orientamento: non solo riorganizzazione, per quanto radicale e su vasta scala, di uno spazio commerciale e di servizio immerso nell’ambiente suburbano, ma vera e propria riconversione a spazi decisamente urbani. Sembra, anche e a prima vista, aumentato il ruolo generale dell’ente pubblico, dall’articolata presenza fisica di uffici e servizi nell’ex tempio del consumo familiare, al ruolo di arbitro delle decisioni (ad esempio per il sistema intermodale di trasporti), alla forzatura pianificata del sistema dei tre ambiti: strada, parcheggio, interni. Quella che si prospetta, è una città molto più simile al sistema complesso che sinora la storia ci ha lasciato in eredità, anche se non dovessero necessariamente spuntare i manierismi architettonici neo-tradizionalisti, o se qualche rigidità regolamentare (o interesse commerciale) impedisse l’abolizione dei sistemi auto-oriented e la conseguente piena integrazione fra area suburbana e nuovo centro multifunzionale.

Resta il fatto che, in modo per niente diverso da quanto accaduto ai grandi complessi residenziali modernisti, anche la santa trinità dello sprawl (autostrada, villetta, servizi segregati) sembra entrata definitivamente in crisi anche nella sua icona storica. Il problema è che rischiamo di doverci comunque subire i colpi di coda delle “macchine della crescita”, pronte a spostarsi da un contesto all’altro – come accade ora nel caso della Cina – a riproporre una “modernità” schematica, rozza e stupidotta. Una modernità che certo appariva a tutti un futuro auspicabile a metà Novecento, con la prospettiva di grande mobilità, consumi, specializzazione, socialità taylorizzata. Ma che ora in prospettiva pare attuale come certi capi di abbigliamento scomodissimi indossati in una foto in bianco e nero, o quelle automobili da due tonnellate che consumavano un litro ogni due chilometri. Purtroppo qualcuno continua a ragionare in questi termini.

Nota: i links esterni sono inclusi nelle note bibliografiche di seguito. Per quelli interni, mi limito al solo articolo autocritico di Victor Gruen del 1978. Gli allegati sono: questo testo con note in formato PDF; una foto aerea del Soutdale Mall degli anni Cinquanta; il piano di azzonamento del giugno 2005 ; per inquadrare meglio l'area, qui un link all'immagine dal satellite Google - la fascia di Southdale è visibile al centro (f.b.)

[1] Il termine “growth machine”, complesso di intrecci fra impresa e scelte politico-legislative, nient’affatto orientato da semplici scelte del consumo di massa, è stato ben argomentato da Dolores Hayden, Building Suburbia: Green Fields and Urban Growth, 1820-2000, Pantheon Books, New York 2003, in particolare per il rapporto sprawl/mall pp. 162-172; della stessa Autrice, una definizione più concisa e definitiva, nel glossario illustrato A Field Guide to Sprawl– With aerial photographs by Jim Wark, Norton & Co., New York-London 2004, p. 48.

[2] Andres Duany, Elizabeth Plater-Zyberk, Jeff Speck, Suburban Nation: the rise of Sprawl and the decline of the American Dream, North Point Press, New York 2000, pp. 5-7.

[3] Dichiarazione di Victor Gruen del 1956 a proposito di Southdale, riportata da M. Jeffrey Hardwich, Mall Maker: Victor Gruen architect of the American Dream, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2004, p. 118.

[4]Cfr. Beth Mattson, “The Grand Dame of Twin Cities Retail”,Retail Traffic Magazine, 1 maggio 1999 http://retailtrafficmag.com/mag/retail_grand_dame_twin/

[5] Twin Cities Metropolitan Council, Regional Development Framework 2030, gennaio 2004, Policy Directions and Strategies, p. 13 http://www.metrocouncil.org

[6] David Peterson, Edina’s Southdale area seeks 21st-century look, Star Tribune, 10 febbraio 2005 http://www.startribune.com/stories/462/5232411.html

[7] Cfr. The public is invited to participate in the second public workshop on the future of the Greater Southdale area, comunicato stampa dell’amministrazione municipale di Edina, 28 gennaio 2005 http://www.ci.edina.mn.us/

[8] Cfr. Hoisington Koegler Group Inc., Greater Southdale Area Land Use & Transportation Study, Land Use Concept, City of Edina/Hennepin County, giugno 2005.

[9] Cfr. City of Edina, Zoning Code, 850.14 - Mixed Development District (MDD).

[10] Ad esempio sulla base di quelle di derivazione new urbanism redatte dallo studio Clarion di Denver una decina di anni fa per il caso specifico dei big-box di Fort Collins, Colorado, e poi utilizzate come base da molte città per proprie varianti. Cfr. Chris Duerksen, Robert Blanchard, Belling The Box: Planning For Large-Scale Retail Stores, National Planning Conference, Atti, 1998 http://www.asu.edu/caed/proceedings98/Duerk/duerk.html [trad. it. di Fabrizio Bottini su http://eddyburg.it ]

[11]Cfr. Hoisington Koegler Group Inc., Greater Southdale Area Land Use & Transportation Study, Futures Study – Conceptual Plan – Land Use Typology, gennaio 2005.

A TRICASE, IN PUGLIA, UN COMITATO DI CITTADINI COMPRA UN RUDERE PER POI ABBATTERLO. Ieri l'altro mattina alle 9.00, le ruspe e i martelli pneumatici sono entrati in azione nel territorio di Tricase (Lecce), in contrada Mito, per buttare giù il rustico di una villetta semiabusiva di circa 100 metri quadrati. Il piccolo edificio si trovava su un terreno di oltre 3.000 metri quadrati, a due passi dall'antica Torre del Sasso, compromettendo lo splendido paesaggio sulla serra costiera.

Si è compiuto così il primo proposito della lucertola salentina, Coppula Tisa, il personaggio alla guida del progetto animato dal Comitato Finis Terrae e da Kpr Comunicazione, con il fine di promuovere un cambiamento culturale nella percezione dei luoghi, a partire proprio dal Salento. Il comitato di cittadini formatosi l'anno scorso ha lavorato per sensibilizzare l'intera comunità in un appassionato dibattito culturale sul valore della bellezza e sulla tutela del paesaggio. Primo obiettivo della campagna l'individuazione, l'acquisto e la successiva demolizione di un immobile simbolo del degrado architettonico.

È stata scelta una costruzione in palese contrasto con l'identità culturale dei luoghi e per questo emblematica di una responsabilità storica collettiva sull'uso del territorio e sulla generale perdita del senso della bellezza. L'evento segna un punto di svolta nella storia italiana, dato che da tutta Italia e dall'estero, attraverso la sottoscrizione popolare e il contributo di Banca Popolare Pugliese, sono stati raccolti contributi per un totale di 80.000 euro utili per sostenere l'acquisto e la demolizione di questo piccolo immobile. I cittadini hanno messo mano al portafogli per dire basta all'indifferenza che ha portato le nostre campagne e i nostri litorali ad essere invasi da costruzioni invasive e in totale difformità di logica con il territorio.


La demolizione

L'entusiasmo e la partecipazione di tutti hanno dato finalmente corpo ad un grande ideale: la riscoperta del valore dell'armonia tra l'uomo e il paesaggio naturale. L'associazione, attraverso queste azioni, sostiene di effettuare il condono morale, convertendo il condono edilizio in un gesto di civiltà che ci riscatta tutti. Il terreno, restituito alla sua antica poesia e bellezza, verrà riconsegnato al beneficio della collettività nel corso di una cerimonia ufficiale che si svolgerà sullo stesso luogo il giorno 30 luglio, alle ore 18.00, alla presenza del Presidente della Regione On. Nichi Vendola, chiamato a controfirmare un documento di impegno con il comitato Finis Terrae. La Regione Puglia ritorna così grazie all'impegno dei cittadini ad essere il garante pubblico della tutela di un bene comune, impegnandosi ad apporre un vincolo di inedificabilità assoluta al luogo. In tal modo i cittadini responsabilizzano la regione che dopo un fatto del genere non potrà più far finta di non vedere, e incarnano per un momento un'autorità pari a quella dello stato riuscendo dove questo ha più volte fallito.

È questo il momento centrale della campagna promossa da Coppula Tisa (personaggio del fumetto satirico ideato da Norman Mommens, una lucertola con la coppola all'insù, come usavano i contadini fieri di una volta, che mise alla berlina vizi politici e affaristici), poiché l'obiettivo del progetto non è rappresentato tanto dalla "demolizione", che pure ha un valore simbolico, quanto piuttosto dalla "costruzione" di una nuova cultura dell'armonia, del recupero del buonsenso, che pone in primo piano il bene comune rispetto alle esigenze egoistiche del singolo. L'associazione si propone di acquistare pezzi di territorio ritenuti interessanti allo scopo di preservarli da edificazioni e discariche selvagge, interrare i pali di cemento, bonificare le aree ritenute importanti dal punto di vista ambientale ed estetico, coinvolgere i ragazzi delle scuole a scopo didattico, organizzare campagne di sensibilizzazione ambientale, piantumare essenze botanicamente (e culturalmente) compatibili con il territorio, riorganizzare i cartelloni pubblicitari e i neon nei paesi, abbattere i "mostri" e creare un "pensatoio" economico e legislativo, per incentivare chi costruisce dopo aver abbattuto, o dare più valore a terreni sgombri da edifici. Attraverso queste azioni Coppula Tisa celebra insieme ai suoi sostenitori la riconquista del paesaggio alla comunità, dando al territorio il valore di luogo di relazioni e non di lottizzazioni.


Post

Alla base di questa operazione vediamo scardinate le logiche prettamente consumistiche e di profitto vigenti, in favore di una rinnovata visione per cui "l'uomo contemporaneo recuperi quel sentimento che tocca più i sensi e meno l'intelletto che è la percezione estetica e morale delle cose." Il fatto che tutto ciò passi per i cittadini e il finanziamento di una banca può far sperare che davvero qualcosa stia cambiando nella mentalità del "Bel Paese", che scoppia di costruzioni venute alla luce, nella maggior parte dei casi, negli ultimi cinquant'anni (che superano, per quantità e volume, nove volte quelle edificate nei precedenti 2200 anni fino alla Seconda Guerra Mondiale). Questo ci deve fare riflettere sulle reali possibilità di considerare il territorio e le sue modificazioni in termini di equilibri ambientali e sociali evitando i disastri che derivano da questo attacco all'armonia, all'anima italiana. Dal Tacco d'Italia parte una sfida pronta a colpire su tutto il territorio italiano e chissà che non riesca a fare da ponte per evitare la costruzione di colossi di cemento armato ritenuti indispensabili solo per il grande ritorno in immagine che procurerebbero, e reinvestire i fondi in azioni utili per intervenire sul territorio già palcoscenico di disastri ecologici e sociali.

Nota: qui il sito dell'Associazione Coppula Tisa (l.t.)

City of Philadelphia, Planning Commission, [Report by: Ernest Leonardo, Director, Strategic Planning and Policy, Elizabeth Kozart, Chief, Economic Development Unit] Comparison of City and Suburban Living Costs, 2001; Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

[...] Comparazione dei costi della vita fra città e suburbio è uno studio sistematico sui costi reali sostenuti dalle famiglie in situazioni paragonabili, nell’area urbana e in quella suburbana. Questa scelta di città/suburbio è importante, dato che i dati più recenti sugli spostamenti della popolazione indicano che più della metà delle famiglie che si spostano al di fuori del territorio della City of Philadelphia trovano casa in una delle otto contee circostanti della Pennsylvania e del New Jersey.

Studi condotti in precedenza indicano che uno dei principali vantaggi offerti dalle comunità suburbane, o almeno uno dei vantaggi percepiti, sono tasse inferiori, premi assicurativi per l’auto, costi inferiori per l’istruzione. Ma altri dati indicano che la principale ragione che spinge gli acquirenti a comprare una casa in città è il “prezzo accessibile”.

La ricerca Comparazione dei costi della vita fra città e suburbio è stata pensata per documentare i vantaggi economici di città e suburbio, e successivamente determinare se in generale una scelta sia più vantaggiosa dell’altra dal punto di vista dei costi. Lo studio ha posto, e tentato di dare una risposta, alle seguenti precise questioni:

• Se una famiglia si sposta da un’abitazione in città ad una comparabile in un centro suburbano, come cambia il suo bilancio annuale?

• Si tratta di un cambiamento sufficientemente significativo da influenzare le decisioni delle famiglie di Filadelfia sul restare o meno a risiedere in città?

IL METODO DELLA RICERCA

Generalmente, gli studi che paragonano i costi della vita fra centro urbano e zona suburbana circostante comparano i prezzi medi delle abitazioni, o i costi della vita in abitazioni di prezzo simile, senza badare se le due abitazioni siano in sé equivalenti.

Visto che le famiglie abitualmente pagano di più, per case simili, nei sobborghi che non a Filadelfia, questa indagine della Planning Commission ha paragonato alcune specifiche abitazioni di città con due abitazioni suburbane ciascuna. La prima era una casa venduta nella medesima fascia di prezzi di quella urbana, mentre la seconda era un’abitazione più costosa, equivalente per dimensioni e caratteristiche generali a quella di città. Si noti che, per decidere la “equivalenza” fra le case, la Planning Commission ha guardato prima le dimensioni, e poi stile e aspetto esteriore.

Sono stati scelti dieci quartieri di Filadelfia, paragonandoli a dieci quartieri suburbani in Pennsylvania e New Jersey. Le corrispondenze città/suburbio sono state determinate sulla base dei movimenti di famiglie individuati nel corso di interviste a operatori immobiliari e urbanisti locali. [...]

È stato prescelto un caso di vendita recente in ciascun quartiere di Filadelfia, in modo tale da avere a disposizione sia i prezzi, sia le informazioni fiscali. Queste case sono poi state comparate con due ciascuna, in localizzazione corrispondente suburbana, di cui una in genere equivalente per costo, e l’altra equivalente per dimensioni, tipo e qualità. Queste abitazioni suburbane sono state scelte anche perché avevano cambiato proprietà di recente, e offrivano così dati facilmente accessibili su prezzi e tasse.

È stata poi assegnata a ciascuna abitazione di città una immaginaria famiglia, in base al prezzo di acquisto della casa. Ciascuna famiglia si caratterizzava per reddito annuale, numero di componenti occupati, numero di figli a carico, numero di automobili, localizzazione del posto di lavoro, tipo di scuole parrocchiali/private frequentabili dai bambini. È stato poi calcolato un budget annuale per abitazione, tasse, trasporti, spese scolastiche per ciascuna famiglia di città. Abbiamo poi verificato l’impatto su questo budget dello spostamento della famiglia verso ciascuna delle nuove abitazioni suburbane, in varie condizioni:

• se i genitori lavorano in città o nei suburbi

• se i figli restano nello stesso tipo di scuola (pubblica o privata/parrocchiale) o cambiano da privata/parrocchiale a Filadelfia, a pubblica nel suburbio.

RISULTATI

In generale, lo studio Comparazione dei costi della vita fra città e suburbio rivela che, se un’abitazione equivalente è davvero più costosa nelle comunità suburbane, la differenza di costi è abbastanza ristretta da essere coperta con economie possibili su alte spese, come la retta di una scuola privata o parrocchiale o le tasse locali sul reddito. In particolare, se i genitori lavorano nel suburbio o se i bambini si trasferiscono da un tipo di scuola privata/parrocchiale in città verso quella pubblica nel suburbio, è meno dispendioso abitare nella casa equivalente del suburbio.

Ma, se almeno uno dei genitori lavora in città, e i bambini continuano a frequentare lo stesso genere di scuola, sia pubblica o privata, nel nuovo ambiente suburbano, è meno dispendioso abitare in città, rispetto ad una casa equivalente nel suburbio. Queste affermazioni sono riferite in dettaglio nei paragrafi seguenti. [...]

Costi dell’abitazione

• Una famiglia che si sposta dalla città verso una comunità suburbana deve pagare di più per un’abitazione equivalente, in tutti i casi, eccetto se si muove da Eastwick verso Springfield, nella Delaware County.

• Fra le comunità suburbane prese in considerazione, la quota della tassa immobiliare (la tassa come percentuale del prezzo d’acquisto della casa) era maggiore che in città in sei casi, e uguale o inferiore in quattro (tutti nella Montgomery County). A partire da 1998 questa quota è aumentata in tutti i casi eccetto uno, nelle comunità suburbane, mentre è rimasta stabile a Filadelfia.

• Eccetto per un caso, le quote annuali di assicurazione della casa erano più basse nelle comunità suburbane, anche quando la casa acquistata era più dispendiosa.

• In tutti i casi i costi complessivi annuali (mutuo, interessi, tasse, assicurazione) erano più alti nel suburbio che in città per case equivalenti di dimensione comparabile.

Costi dell’istruzione

• I risparmi realizzati spostando i figli da scuole private o parrocchiali in città verso scuole pubbliche nei suburbi, sono il dato più certo emerso dallo studio: in tutti i casi, con uno o tre figli, se iscritti a scuole parrocchiali o altro tipo di private, la famiglia risparmia sul bilancio annuale anche se acquista una casa di dimensioni comparabili ma più costosa.

• Si è verificato un solo caso, di spostamento dal quartiere Whitman a Turnersville, New Jersey, dove i risparmi per l’istruzione non hanno coperto del tutto le differenze negli altri costi.

• La Planning Commission ha anche esaminato il budget familiare in assenza di qualunque cambiamento nelle spese per l’istruzione (i bambini vanno da una scuola pubblica all’altra, o restano in una scuola privata/parrocchiale). In questi casi, la famiglia non risparmia mai nello spostamento verso un’abitazione equivalente nel suburbio, tranne quando si verifica una significativa oscillazione nei risparmi sulla tassa al reddito, come descritto di seguito.

Tasse locali sul reddito

• In sei dei dieci casi in cui entrambi i genitori lavorano nel suburbio e i figli restano nello stesso tipo di scuola, le famiglie risparmiano se si trasferiscono in un’abitazione equivalente del suburbio con costi generali più alti.

• Il risparmio sulla tassa locale al reddito, per chi si sposta fuori dalla città ma continua a lavorarci, è troppo piccolo per fare una differenza significativa sul bilancio familiare.

• Nel caso in cui un genitore lavora in città e l’altro nel suburbio, il risparmi realizzati non sono sufficienti a tradursi in effetti positivi sul bilancio generale. Ciò si deve al fatto che una famiglia in cui un solo componente lavora fuori città probabilmente aveva una sola auto abitando in centro (nei quartieri più esterni come Somerton o Chestnut Hill si è ritenuto che anche una famiglia di Filadelfia possedesse già due auto) e ne comprerà una aggiuntiva trasferendosi nel suburbio. Nei casi in cui entrambi i genitori lavorano fuori città, si è presunto che la famiglia possedesse già due auto, e che quindi non dovesse sostenere la spesa aggiuntiva dell’acquisto di una nuova.

Costi di trasporto

• I costi dell’assicurazione sull’auto sono in tutti i casi più bassi nelle comunità suburbane, anche se la famiglia possiede un’auto assicurata in città e due con la polizza nel suburbio. Comunque, nella maggior parte dei casi la famiglia dovrà comprare un’auto aggiuntiva quando si trasferisce nel suburbio. I risparmi realizzati con i costi inferiori dell’assicurazione sono più che superati dal costo aggiuntivo di un’altra auto.

• I costi degli spostamenti da e per il lavoro variano molto a seconda delle distanze e della disponibilità di trasporti pubblici. È difficile fare qualunque generalizzazione che abbia senso.

Non ci sono grandi vantaggi economici

• Come chiarito sopra, se una famiglia si trasferisce in un’abitazione di dimensioni equivalenti, più costosa, nel suburbio, ma entrambi i genitori continuano a lavorare in città e i figli a frequentare una scuola pubblica, il costo della vita familiare annuale aumenta. Questo aumento oscilla dall’11% per i trasferimenti da Somerton a Bensalem, al 26% per quelli da University City a Narberth, e al 45% per chi si trasferisce da Whitman a Turnersville.

• Se la famiglia sceglie di acquistare una casa più piccola ma di prezzo comparabile nel suburbio, in assenza di altri fattori di risparmio le spese aumentano ancora, se si deve comprare un’auto aggiuntiva.

CONCLUSIONI

Per molte famiglie middle class che vivono attualmente a Filadelfia, trasferirsi in una comunità suburbana può essere non sono economicamente fattibile, ma anche finanziariamente vantaggioso. Molte famiglie di ceto medio mandano già i figli a scuole private o parrocchiali. Il 24% dei bambini in età scolare di Filadelfia nell’anno scolastico 1999-2000 ha frequentato scuole non-pubbliche. Questa proporzione probabilmente sale fra i bambini in età scolare delle famiglie di ceto medio-superiore.

In più molti residenti, specie nei quartieri più esterni ai margini della città, lavorano già nel suburbio. Secondo i dati del censimento 1990, il 36% degli abitanti di Somerton lavora fuori dai confini comunali. A West Oak Lane-Cedarbrook, la percentuale è del 28% e a Chestnut Hill - West Mt. Airy del 26%. Questi dati indicano che Filadelfia ha un’ampia base di residenti che potrebbe avvantaggiarsi dei risparmi sulla scuola, la tassa locale sul reddito, i costi inferiori dell’assicurazione su casa e auto.

Ad ogni modo, il fatto che trasferirsi nel suburbio sia finanziariamente vantaggioso o comunque fattibile per un significativo segmento della popolazione di Filadelfia, non significa che tutti gli abitanti possano permettersi questo spostamento. Trasferirsi dalla città al suburbio è conveniente nei casi in cui le spese aggiuntive per l’abitazione sono abbastanza ridotte da essere compensate da altri fattori di risparmio, come quello sulle scuole private/parrocchiali o la tassa sul reddito. Nei casi in cui i costi aggiuntivi per la casa suburbana non sono compensati dai risparmi sulla scuola o sul fisco, i quartieri interni di Filadelfia rappresentano la scelta più conveniente.

Nota: il Rapporto insieme agli altri studi della Collana e pubblicazioni, al sito della Philadelphia Planning Commission; allegate di seguito le tabelle statistiche comparative (f.b.)

Philadelphia Living Costs

Titolo originale: Los deseos imaginarios del comprador de Torre Country - Traduzione per Eddyburg di Giovanni Caudo

Ho fotografato i cartelloni pubblicitari di un edificio per abitazioni, a torre, attualmente in costruzione nel corridoio nord di Buenos Aires.

L’ideologia e il desiderio che questi annunci trasmettono sono condizionati dalla strategia pubblicitaria, ma in ogni caso rivelano il contenuto edonistico che l’acquirente di questo prodotto pone a base della sua scelta e, conseguentemente, della decisione di trascorrere buona parte della sua vita da adulto in quel tipo di residenza. I lettori del Café de la ciudades sono persone colte e non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni sugli stereotipi etnici e classiste utilizzate dalla pubblicità, o anche sull’uso delle parole inglesi per indicare concetti che il castigliano potrebbe definire con altrettanta o maggiore precisione, ecc… Il nostro obiettivo non è l’analisi della strategia pubblicitaria, ma descrivere attraverso la strategia di promozione pubblicitaria, il tipo di benessere che si cerca di comprare attraverso questo tipo di prodotti immobiliari.

L’edificio di cui parliamo appartiene a quel genere di edifici che chiamiamo “torres country”: un oggetto isolato al suo intorno, collocato nel tessuto urbano, ma chiuso da recinti e da muri, sviluppato in altezza per conquistare la vista sul rio e sul parco, con una bassa percentuale di superficie coperta rispetto al lotto (il regolamento urbano vigente a Buenos Aires premia una bassa occupazione del suolo) così da realizzare un parco interno che assieme alla dotazione dei servizi comuni, realizzano una alternativa “urbana” al modello del country club o al quartiere chiuso (sicurezza, confort, contatto con la natura, esclusività).

[ “anosa arboleda”]

In questo caso non si fa riferimento al fiume (per onestà intellettuale, la torre è contornata da edifici alti che intercettano la vista della costa), però si fa cenno all’ “ anosa arboleda” [le antiche alberature]. Dati evidenti, come la densa e compatta urbanizzazione circostante, non formano parte della promozione, così come non si parla di vicinanza di stazioni ferroviaria o di quelle della metropolitana.

Per i familiari

Gli acquirenti, una famiglia composita, con qualche tocco di modernità, Famiglia che è solita ricevere i genitori, che ad esempio vivono fuori Buenos Aires (magari degli agricoltori facoltosi, o che gli hanno prestato il denaro per fare l’acquisto…).

La bionda del solarium

Non si capisce bene come si potrà mantenere unita la famiglia, descritta prima, con queste minacce in vista: il giovane muscoloso, la vicina single che passa il tempo in piscina con un minuscolo bikini (a meno che non si tratti di una signora moderna, anche sposata e con figli che però si mantiene sexy e piacevole grazie alla ginnastica e alla chirurgia). Daniel Bell spiegherebbe con facilità questa contraddizione del desiderio.

Si alla natura, no alla città

Distensione, rilassatezza, trasparenza, isolamento, apertura. Sono i valori della Torre Country.

Comportamenti saggi

O, ancora meglio, come contenere la ribellione e l’esplosione ormonale del ragazzo allontanandolo dai pericoli della strada (di passaggio, l’idea che la musica è cosa per adolescenti…).

Per servire e proteggere

Nella realtà, il custode non avrà il glamour di questo poliziotto che sembra Clarke Gable, però non sarebbe commerciale esporre la foto di un ufficiale in pensione della polizia federale o della Bonaerense. Al suo posto il ghigno di un agente cool, di baffi fini e con un atteggiamento di rimprovero.

Non avrà nessuno uguale, non avrà nessuno

La torre country si isola nello spazio del suo intorno urbano, in questo caso anche si isola nel tempo. La frase, riportata contro uno sfondo da cielo pubblicitario, dispiega l’edificio nel passato e nel futuro. Un presente perpetuo, una eternità asettica, una discreta assenza che vuole negare la città.

Nota: qui il sito del Cafè de las Ciudades (f.b.)

City of Lynchburg, Virginia, Comprehensive Plan 2002-2020, CAPITOLO 9, Aree Commerciali e produttive – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

Introduzione

Le zone commerciali e produttive della città sono i suoi motori economici. Offrono posti di lavoro per i cittadini, aumentano il valore degli immobili, offrono una base fiscale locale. La città è da lungo tempo il fulcro economico della regione, un ruolo che intende mantenere a lungo per il futuro. Ma lo spazio inedificato disponibile per nuovi insediamenti economici si sta rapidamente esaurendo, e alcune delle zone commerciali esistenti subiscono un declino. Per continuare ad essere il centro principale della regione e uno dei principali dello stato, per continuare ad offrire beni, servizi e posti di lavoro ai cittadini, la città deve mantenere un’economia vivace.

Contesto e raccomandazioni

Le zone commerciali della città comprendono negozi, servizi alla persona, ristoranti, alberghi, piccoli uffici. Quelle a carattere produttivo comprendono attività industriali, di ricerca e sviluppo, distribuzione, magazzini, grandi complessi ad uffici. Le zone commerciali rispondono ai bisogni dei cittadini in termini di acquisti, ristorazione, ospitalità e servizi personali, oltre a fornire posti di lavoro. Le zone produttive principalmente offrono posti di lavoro. Entrambi i tipi di zone contribuiscono alla base fiscale locale. Le caratteristiche fisiche insediative delle zone commerciali e produttive sono diverse, e quindi vengono trattate separatamente.

Le zone commerciali

Le zone commerciali della città coprono circa 540 ettari, o il 4,2% della superficie totale della città. I quartieri commerciali più vasti sono il centro, l’area Plaza, River Ridge Mall, e la zona di Wards Road. Ci sono anche numerosi shopping centers e fasce commerciali lungo i corridoi di mobilità, come a Timberlake Road, Candlers Mountain Road, Fort Avenue, Lakeside Drive, Old Forest Road, o sparpagliati lungo parti di Boonsboro Road, Campbell Avenue, Fifth Street, e Twelfth Street. La carta dello stato di fatto del Piano indica queste aree, sia come fasce studio che come zone di rivitalizzazione. La tavola di azzonamento le classifica come zone commerciali di quartiere, urbane, o regionali, in base alle dimensioni delle superfici commerciali. La tavola mostra anche le funzioni minori ad uffici (ad esempio studi medici, legali, assicurativi, di consulenza immobiliare) contenute nelle zone commerciali.

Anche se la città offre una significativa quantità di spazi commerciali (circa 300.000 metri quadrati), una certa quantità di essi risulta non occupata (approssimativamente 30.000 mq al marzo 2001). Il centro [ downtown] e alcune delle zone di più antica costituzione lungo Fifth Street, Twelfth Street, e Campbell Avenue, insieme a parti degli shopping centers più vecchi, come The Plaza, soffrono di sottoutilizzazione. Questi vuoti si devono a vari fattori, come la crescita della popolazione suburbana, e il conseguente spostamento della domanda verso i margini del territorio comunale e le contee circostanti, o trasformazioni nelle abitudini di acquisto. Prima della seconda guerra mondiale, la maggior parte del commercio cittadino era situata in centro, o in piccoli negozi d’angolo nei quartieri. Dopo la guerra, con la diffusione delle automobili come mezzo preferito per gli spostamenti, il commercio si è ampliato verso l’esterno, prima in centri commerciali come The Plaza, poi lungo fasce e centri più piccoli lungo i corridoi di mobilità. Negli anni ’70 si è affermato il mall chiuso, e gli anni ’90 hanno portato il big-box, seguito poi nel 2001 da un power center a Wards Crossing. Lo spostamento dei clienti verso il commercio “ big box” ha reso obsoleti alcuni degli shopping centers più piccoli e i negozi del centro per gli acquisti correnti, producendo così degli spazi non utilizzati. I gusti dei consumatori cambiano, ad ogni modo, ed esistono segni crescenti in tutto il paese di una ripresa delle zone centrali tradizionali o di nuovi formati “ town center” simili a quello progettato per Wyndhurst.

[...] Lynchburg rimane il fulcro commerciale della regione, col 93% del totale di superfici commerciali. Un’analisi di mercato svolta nel 2001 per questo Comprehensive Plan indica che nei prossimi 20 anni all’interno della regione si genererà una domanda da 60.000 a 70.000 metri quadrati di nuove superfici commerciali. La città potrà acquisire una quota significativa di queste superfici se sarà in grado di offrire almeno due località con 10.000-30.000 mq ciascuna. Sono state individuate possibili aree libere nella carta di azzonamento, alla McConville nell’incrocio fra la Old Forest Road e Lakeside Drive, e nel complesso mixed-use di Cheese Creek a ovest della Expressway e a sud di Boonsboro Road. Anche l’area di rivitalizzazione di centro, Plaza e midtown, offre possibilità di recupero e riuso di spazi esistenti per rispondere a questa potenziale domanda.

Anche le strutture alberghiere ricadono nella categoria degli spazi commerciali. Servono viaggiatori e clienti delle imprese locali, oltre ad altri vari visitatori. Le analisi della domanda indicano un bisogno approssimativo di ulteriori 250 stanze nei prossimi venti anni. Nelle localizzazioni più adeguate, presso le principali grandi arterie di comunicazione o entro le zone commerciali, saranno offerti spazi per uno o più alberghi.

Le questioni da affrontare riguardo alle zone commerciali della città sono:

• adeguati incentivi al settore privato perché vengano riempiti gli spazi commerciali vuoti, e ripristinati e riutilizzati quelli obsoleti;

• mantenimento di una certa quota commerciale entro i quartieri più interni della città, per rispondere ai bisogni quotidiani;

• offerta di opportunità di espansione per commercio e alberghi, per rispondere alla domanda futura di scala regionale;

• ampliare la base commerciale della città, limitandone al contempo gli impatti ambientali e sociali di insediamento;

• migliorare la qualità progettuale dei nuovi quartieri e delle aree di recupero [...].

Le zone produttive

Le zone produttive contengono spazi industriali e grandi complessi ad uffici. La superficie utilizzata attualmente per questi usi è circa il 5% della città, ovvero 640 ettari. Le zone produttive principali sono quella in centro, poi il parco industriale First Lynchburg, l’area tecnologico-terziaria di Graves Mill, e quella del Lynchpin Center. Queste aree sono evidenziate nella carta dello stato di fatto. La tavola di azzonamento divide le funzioni produttive in tre categorie: Downtown (funzioni miste tradizionali e uffici), Employment 1 (grandi complessi a uffici, ricerca e sviluppo, industria leggera, spazi “flessibili”), Employment 2 (industria pesante, industria leggera, ricerca e sviluppo, grandi complessi a uffici).

Le analisi della domanda indicano che la crescita di questi tipi di funzioni nella regione sarà notevole nei prossimi vent’anni. La città può sperare di ospitare circa 140.000 metri quadrati di nuova industria, 18.000 di ricerca e sviluppo, 70.000 di uffici in questo arco di tempo. Un problema significativo è quello di trovare spazio sufficiente per contenere queste funzioni. Se si parla di terreni liberi non urbanizzati, industria e ricerca e sviluppo avrebbero bisogno di circa 80 ettari, gli uffici di circa 15 ettari. Ma sarebbe difficile reperire spazi liberi sufficienti per queste zone produttive, a causa delle caratteristiche fisiche del territorio: forti pendenze e aree di esondazione rappresentano gli impedimenti principali all’edificazione. Sarà necessaria una rivitalizzazione di aree già urbanizzate, come quelle del centro, per contenere alcune delle funzioni tecnologiche e ad uffici. Anche il riuso degli spazi vuoti degli shopping centers può essere promettente per queste funzioni, lasciando una quantità maggiore di spazi liberi per gli usi industriali maggiori.

Le questioni da affrontare riguardo alle zone produttive della città, sono:

• offerta di spazi liberi in quantità sufficiente per le funzioni produttive;

• incentivi adeguati al settore privato per operazioni di ripristino e riuso degli spazi centrali a uffici ed attività tecnologiche;

• valutare le possibilità di conversione di spazi commerciali inutilizzati ad attività produttive;

• uso efficiente del suolo nelle zone industriali della città;

• espandere la base produttiva della città contenendo al tempo stesso gli impatti ambientali e sociali della crescita industriale e terziaria;

• le norme per le zone industriali sono obsolete, e non rispondono alle attuali tendenze dell’edilizia industriale [...]

• migliorare la qualità progettuale degli insediamenti nuovi e riusi in zone produttive [...].

Si sottolinea che la municipalità riconosce come la crescita futura delle attività commerciali e produttive dipenderà in una certa misura dalla rivitalizzazione e ripristino delle aree di insediamento tradizionale di questi settori. A tale scopo la municipalità ha istituito le Enterprise Zones e le Technology Zones per offrire riduzioni fiscali e altri incentivi alla localizzazione di attività al loro interno. La Downtown Enterprise/Technology Zone comprende le aree centrali terziarie, il Lower Basin, il corridoio di Fifth Street, i quartieri circostanti, e le aree a destinazione industriale fra le Carroll e Campbell Avenues. Un’altra Enterprise/Technology Zone riguarda il parco industriale First Lynchpin, e mette a disposizione aree libere per nuove attività e a contenuto tecnologico.

Finalità, Obiettivi e Strategie

Finalità 1. Promuovere la razionalizzazione e rivitalizzazione di corridoi e distretti commerciali. [...]

Obiettivo 1.A. Funzioni commerciali a livello di quartiere. Sostenere la rivitalizzazione delle strutture esistenti e lo sviluppo di nuovi poli di quartiere di tipo mixed use localizzati in modo da stabilizzare e migliorare l’ambiente residenziale.

1) Studiare la possibilità di creare un Traditional Neighborhood Commercial Overlay District lungo le vie tradizionali a funzioni miste della città, nei casi in cui non sarebbe adeguato un tipo di insediamento suburbano, e dove la municipalità intende favorire la compresenza di residenza e piccole attività commerciali. [Questo tipo di zona omogenea è applicabile lungo Campbell Avenue, Fifth Street e Twelfth Street, e parti di Lower Rivermont e Fort Avenue, a incoraggiare il rinnovamento delle parti residenziali e commerciali esistenti e la realizzazione di nuove a dimensione adeguata, anziché lo sviluppo di attività commerciali rivolte alla mobilità automobilistica].

2) Effettuare uno studio di mercato per individuare i quartieri sottoserviti da funzioni commerciali come mercato locale, agenzia di banca, lavanderia, caffetteria.

3) Dove esiste una domanda di mercato, collaborare con gli abitanti per individuare potenziali localizzazioni a funzioni di quartiere.

4) Individuare le condizioni adeguate per insediamenti mixed use di quartiere che siano compatibili con l’ambiente circostante.

5) Utilizzare lo strumento della Downtown Enterprise Zone per incoraggiare lo sviluppo di adeguate strutture commerciali di quartiere.

Obiettivo 1.B. Commercio di grandi dimensioni. Individuare metodi per aumentare al massimo i benefici, e ridurre al minimo gli impatti negativi, del grande insediamento commerciale di tipo “ big box”.

1) Individuare località adeguate per i grandi elementi commerciali “ big box” e predisporre linee guida alla progettazione che assicurino sicurezza, accessibilità e compatibilità con le funzioni circostanti, riducendo al minimo gli impatti visivi e ambientali.

2) Per ridurre al minimo gli impatti visivi delle pareti cieche, favorire la presenza sulle fasce esterne dei “ big box” di altre funzioni commerciali e di servizio.

3) Esaminare le possibili strategie atte a favorire un uso coordinato dei lotti, scoraggiando gli edifici isolati, là dove sono invece possibili adeguati insediamenti di grande commercio e mixed use.

4) Prendere in considerazione la possibilità di confinare le funzioni che non promuovono un uso attivo dello spazio, come ad esempio quelle di magazzino, alle aree esterne ai nodi o centri commerciali.

5) Promuovere alternative al commercio “ big box”, come i cosiddetti “ town center” a orientamento pedonale e organizzati come una via commerciale, in particolare nei complessi progettati come mixed use [...].

Obiettivo 1.C. Insediamento nei nodi di traffico. Assicurare che gli insediamenti commerciali per le grandi arterie di comunicazione siano accessibili, esteticamente piacevoli, e con impatti minimi sulle zone commerciali e residenziali circostanti.

1) Promunovere adeguate localizzazioni per il commercio highway-oriented lungo le statali 460, 29, e 501, così come indicato sulla carta di azzonamento [allegata, n.d.T.] e predisporre norme e linee guida per una progettazione adatta.

Obiettivo 1.D. Iniziative partecipate. Appoggiare le iniziative della comunità per migliorare le condizioni nelle zone commerciali.

1) Sostenere la creazione di organizzazioni di operatori su base locale, di quartiere o fascia stradale.

2) Offrire assistenza agli operatori per la progettazione di facciate commerciali, spazi a parcheggio, segnaletica, sistemi di accesso.

3) Incoraggiare la promozione coordinata dei complessi commerciali attraverso azioni congiunte di comunicazione e pubblicità, eventi speciali, promozioni, gare, e altro.

Obiettivo 1.E. Sicurezza. Estendere il coordinamento delle azioni per la sicurezza collettiva pubblica con quelle degli operatori commerciali privati.

1) Richiedere fra le verifiche dei progetti quelle relative ai tempi di intervento in casi di emergenza.

2) Sostenere una progettazione degli spazi commerciali in linea con il CPTED, Crime Prevention Through Environmental Design [...].

3) Proseguire il programma municipale di partecipazione della comunità alle azioni di polizia, per mantenere sicuri quartieri e zone commerciali.

4) Aumentare il sostegno ai programmi di videosorveglianza per zone commerciali.

Finalità 2. Sostenere un tipo di insediamento produttivo che utilizzi al massimo la risorsa limitata suolo, che sia attento ai caratteri naturali e culturali, e alle funzioni circostanti.

Obiettivo 2.A. Uso attento delle aree edificabili. Individuare zone inedificate della città e nelle contee circostanti adatte per l’insediamento industriale su larga scala, e stabilire modi e tempi di tutela di tali aree da un inadeguato insediamento di attività minori.

1) Riesaminare e aggiornare l’elenco delle funzioni consentite ai sensi dell’ordinanza di zoning municipale, per adeguarsi alle trasformazioni emergenti nel campo industriale riguardo a tipi dimensioni, usi.

2) Esaminare l’opportunità di costituire entità miste con le amministrazioni circostanti per l’urbanizzazione di località destinate ad attività produttive e terziarie.

3) Considerare la possibilità di aumentare le dimensioni minime degli interventi, ad incoraggiare il massimo uso dello spazio, e scoraggiare la sottoutilizzazione degli spazi disponibili.

4) Definire nuovi tipi di zone omogenee che riconoscano e contengano le caratteristiche di industria “pulita” e imprese ad alta tecnologia generatrici di impatti minimi.

5) Nelle zone destinate all’insediamento industriale, limitare le funzioni commerciali a quelle che offrono beni e servizi alle imprese e ai loro dipendenti.

Obiettivo 2.B. Riuso. Individuare aree della città dotate del potenziale per sostenere, tramite riedificazione, ampliamento e nuova offerta industriale e per uffici.

1) La Industrial Development Authority e la Redevelopment and Housing Authority della città devono verificare la fattibilità di conversione degli attuali edifici multipiano industriale e commerciali inutilizzati a funzioni sia terziarie che mixed use.

2) Individuare zone commerciali e residenziali della città in situazione di rapido declino, e prendere in considerazione la possibilità di sostenervi uno sviluppo terziario e produttivo, sempre che esso sia compatibile con le funzioni circostanti, ambientalmente adeguato, e sostenuto dalle necessarie infrastrutture.

3) Utilizzare il Downtown & Riverfront Master Plan 2000 per promuovere la rivitalizzazione di uffici e altri usi in centro.

Obiettivo 2.C. Riutilizzazione di strutture esistenti. Costruire e tenere aggiornato un elenco delle strutture commerciali e per uffici. Incoraggiare il riuso di tali strutture in modo preferenziale rispetto a nuova edificazione.

Obiettivo 2.D. Incentivi e uso intensivo. Le politiche e norme cittadine devono incoraggiare la realizzazione di spazi adeguati per industrie e uffici.

1) Individuare quelle regole progettuali per spazi e edifici che possano limitare il massimo utilizzo potenziale dei siti industriali, e verificare se modifiche delle norme possano incoraggiare una maggiore utilizzazione senza effetti negativi sugli elementi naturali e culturali e le funzioni circostanti.

2) Per aumentare al massimo l’utilizzo delle limitate superfici di terreno disponibili, verificare la possibilità di ridurre gli spazi di interposizione tra funzioni simili.

Obiettivo 2.E. Coordinamento e riduzione al minimo degli impatti. Coordinare le azioni di piano con lo sviluppo economico, in modo da ridurre al minimo i potenziali conflitti.

1) Affrontare i problemi del traffico pesante, rumore, cattivi odori, circolazione, mercato edilizio, impatti ambientali e altri effetti.

2) Considerare la possibilità di redigere una “guida per l’abitante” che descriva gli aspetti fondamentali dello sviluppo industriale futuro per alcune aree (ad esempio i rumori dell’aeroporto).

Obiettivo 2.F. Edificazione “infill” e massima utilizzazione. Determinare l’efficacia potenziale di offrire incentivi in alcune aree ritenute adatte per edificazione di riempimento [ infill] o riedificazione.

1) Proseguire nella promozione delle Enterprise Zones urbane, e sviluppare una campagna di informazione sulle nuove Technology Zones.

2) Individuare aree o quartieri della città dove possano essere utili incentivi a infill o riedificazione, e verificare le forme di tali incentivi, riduzione fiscale, concessioni alle densità, regole edilizie speciali.

Nota: Tutti i materiali, compresa la versione integrale e originale di questa relazione di piano, al sito Community Planning and Development di Lynchburg. Per maggior chiarezza, si allegano sia una mappa stradale di Lynchburg (circa 65.000 abitanti) con i principali centri di servizio, sia la tavola di azzonamento del piano. Nella carta di azzonamento, sono diverse le zone omogenee direttamente interessate dalle indicazioni del testo riportato sopra: Downtown, Office, Employment 1, Employment 2, Neighborhood Commercial, Community Commercial, Regional Commercial, Mixed-Use (f.b.)

Titolo originale: The privatisation of public space, and the democratic alternative – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La capacità di qualunque nazione di mantenere una sfera pubblica viva, indipendente ed autonoma dipende, almeno in parte, dalla piena disponibilità di spazio pubblico, aperto alla libera fruizione da parte dei vari gruppi e interessi che compongono la società civile allargata. Ad esempio la Agorà dei greci è uno spazio pubblico di questo genere, e nello stesso modo lo è la piazza pubblica tradizionale. Tradizionalmente, questi spazi pubblici si trovavano nel cuore dei centri cittadini di vita civile, e consentivano ai vari gruppi per organizzare ed esprimere le proprie entro un foro all’aperto.

Ma oggi, nei nostri insediamenti suburbani, con l’ascesa dello shopping mall, lo spazio “pubblico” dei nostri “centri civici” suburbani è stato privatizzato, e le possibilità di espressione sono limitate a chi ha le tasche abbastanza piene (MOLTO piene, di solito) per pagarsi il privilegio. Oggi la “sfera civica” si riduce semplicemente alla sfera dei consumi, senza alcuno spazio per una libera e autonoma organizzazione civile. Gli shopping malls moderni, così, sono inondati da grandi magazzini, ristoranti, supermercati e negozi di lusso. In mancanza di qualunque altra forma di espressione sociale o di dibattito, a migliaia sciamano verso questi diffusi malls con ritmi quasi quotidiani, partecipando al consumo come unità atomizzate e ipnotizzate. Ironicamente, con la carenza di spazi offerti per le organizzazioni politiche, sportive, civiche, questo spettacolo è la cosa più vicina che molte comunità hanno a disposizione per radunarsi in qualche tipo di attività collettiva. Diventa così tangibile l’impoverimento della società civile.

Tra le nostre istituzioni, anche molte università e istituti di studi superiori mancano di spazi adeguati dove gli studenti possano organizzare eventi sportivi, culturali, sociali, e adottare le cause che sono care al loro cuore.

”Società Civile” è diventato un modo di dire comune negli anni recenti. Di solito viene utilizzato in opposizione all’idea di “Stato”, e si riferisce all’ambito dei singoli cittadini e movimenti civili. Naturalmente, il discrimine fra Società Civile ( buona) e Stati ( cattivo), è il tipo di semplificazione riduttiva a proposito della quale chiunque si consideri di sinistra dovrebbe essere scettico. Dopo tutto, la “Società Civile” è anche l’ambito del capitale monopolistico, il cui potere è a sua volta garantito dallo Stato.

Ad ogni modo, l’ideale di una Sfera Civica autonoma, costituita da organizzazioni di cittadini – consumatori, organizzazioni culturali, sportive, solidaristiche, religiose, partiti politici, sindacati, movimenti sociali – sta al centro del sistema di principi liberali e socialisti democratici. Per chi tra noi desidera una vivace e autonoma sfera pubblica, che agisca come contraltare alla prevalenza di flussi informativi unidirezionali, la privatizzazione dello spazio pubblico è un aspetto chiave.

Tentare di regolare l’edilizia e l’urbanistica per fare in modo che esistano spazi centrali e ben visibili che costituiscano centri di organizzazione civica, dibattito, senza dubbio suscita le ire del massiccio complesso produttivo che è cresciuto attorno alla costruzione dei centri commerciali. Ma questo non ci deve certo impedire di sostenere questa posizione di principio, e mettere in pratica concretamente parte della retorica che in questi ultimi anni si è sviluppata attorpno al termine “società civile”.

È dunque prioritaria, per i partiti politici australiani, la necessità di attuare una legislazione urbanistica tesa ad acquisire obbligatoriamente spazi pubblici di grande visibilità e centralità, per scopi di libera espressione civile, mobilitazione e organizzazione. Agli esperti del settore dovrebbe essere richiesta consulenza nella stesura di queste leggi, allo scopo di offrire, attraverso le norme edilizie e urbanistiche, fondamenti legali alla creazione di spazio civile, e di conseguenza di una rinvigorita e partecipante società civile.

Infine, attraverso tutto lo spettro delle posizioni politiche, militanti e dirigenti devono riconsiderare il ruolo dell’intervento pubblico, in particolare per quanto riguarda l’offerta di spazi collettivi sociali. Se i nuovi insediamenti fossero realizzati e posseduti dalle amministrazioni locali, con beneficio delle casse statali e federali, sarebbe di gran lunga più facile, nell’interesse pubblico, contestare la logica di impresa che produce la marginalizzazione di ogni attività collettiva diversa dal consumo.

Ad alcuni di noi questa può apparire una questioni di secondaria importanza, se paragonata agli assalti in corso, contro il sistema sanitario pubblico, o quello dell’istruzione. Ma il problema dello spazio pubblico, è al centro del modo in cui siamo, di come viviamo e ci organizziamo, di come ci rapportiamo gli uni agli altri quotidianamente. Qualunque rilancio della cittadinanza attiva, in Australia e altrove, dipende almeno in parte dall’offerta delle concrete infrastrutture pubbliche necessarie per la sua realizzazione.

Nota: qui il testo originale (un estratto da un lavoro più ampio) sul sito della Australian Fabian Society (f.b.)

Jeremy Rifkin ha intitolato la sua ultima fatica editoriale “Il sogno europeo” [1]. Si tratta di una riflessione rivolta ad un pubblico ampio (che fa seguito ad altre due opere di grande successo “L’era dell’accesso” ed “Economia dell’idrogeno) con la quale l’economista americano si propone di evidenziare i tratti significativi dell’inesorabile declino del “sogno americano”, strettamente associato all’individualismo e al benessere materiale; e i vantaggi competitivi di quello che egli considera il sogno emergente contemporaneo, quello europeo.. Del modello culturale e sociale europeo Rifkin sottolinea gli elementi vincenti: fra gli altri, l’aspirazione all’integrazione sociale e alla pacifica convivenza con il resto del mondo, la più elevata qualità della vita (ad esempio in termini di tempo libero e di aspettativa di vita, minore violenza e criminalità) e dei servizi (soprattutto in campo sanitario e sociale), l’impegno in tema di sostenibilità urbana ed ambientale. Il confronto viene corroborato da una talvolta ridondante elencazione di dati quantitativi comparativi, chiaramente dedicati a convincere il lettore americano.

Ma nel contesto statunitense l’Europa sta facendo scuola anche su temi più puntuali ed operativi: ad esempio nel campo delle politiche urbane e, in particolare, delle strategie di pianificazione e progettazione urbana; più recentemente anche le politiche spaziali del governo europeo sono diventate oggetto di attenta considerazione.

Sul primo tema è già maturata una significativa convergenza (come già in questa rubrica abbiamo sottolineato). Accomunati dalla parola d’ordine dello Smart Growth, in alcune città e aree metropolitane si stanno perseguendo obiettivi, praticando strategie e sperimentando azioni e progetti del tutto simili a quelli introdotti nelle città europee in epoca di sostenibilità: definizione di limiti di crescita urbana (urban growth boundary); priorità alla ricostruzione della città su sè stessa (infilling e brownfield regeneration); densificazione insediativa in corrispondenza dei nodi e corridoi del trasporto pubblico (transit oriented development); limitata espansione, delle infrastrutture stradali e autostradali; “città di brevi percorsi” (pedestrian pocket); realizzazione di un’offerta commerciale meno orientata all’automobile.

Naturalmente, nel contesto americano la sfida si presenta ancora più ardua e i problemi da governare ancora più complessi: il modello insediativo “spontaneo” e per sua natura “insostenibile” che si vorrebbe governare è quello della estesissima suburbanizzazione a bassissima densità, divoratrice di risorse territoriali e associata all’incessante incremento della mobilità su gomma. A differenza del contesto europeo, dove ha cominciato a manifestarsi da pochi decenni, si tratta di un modello all’opera da più di un secolo in un paese in cui una componente fondamentale del “sogno americano” è stata l’accesso alla casa individuale in proprietà dispersa nel verde.

Il sogno suburbano americano è in realtà stato in buona misura “imposto” dall’alto: dal governo federale che, a partire dalla metà degli anni ’30 dello scorso secolo, per superare la grande crisi economica cominciò a finanziare l’accesso al credito per la realizzazione di case monofamiliari applicando il criterio del red lining: vietando cioè il sussidio nelle aree dense (e quindi urbane) e in sobborghi etnicamente misti (forzando di conseguenza i ceti medi a stanziarsi nel suburbio monoclasse).Negli anni ’50, sotto la presidenza di Eisenhower fu presa un’altra decisione strategica destinata ad influenzare profondamente la dispersione insediativa: quella di finanziare (e rendere gratuito) il sistema autostradale anziché il trasporto pubblico urbano di massa. Alla base di tali scelte vi fu (e continua ad esservi) un formidabile intreccio di interessi con le lobby del petrolio, del settore delle costruzioni, dell’automobile [2].

Ma la riflessione autocritica sul modello insediativo americano e l’apprezzamento dei vantaggi competitivi offerti dal modello della città europea stanno estendendosi anche a temi più ambiziosi e di scala territoriale complessiva.

Ne costituisce un interessante esempio la proposta avanzata nel 2004 da tre istituzioni culturali prestigiose [3]nel documento dal titolo “Toward an American Spatial Development Perspective”: un titolo dichiaratamente ripreso dallo “Schema di sviluppo dello spazio europeo”, il documento in materia di strategie territoriali ed infrastrutturali di lungo periodo scaturito dalla cooperazione e dall’accordo informali di tutti i paesi membri dell’Unione Europea.

La parte più interessante di questo documento, e che più dovrebbe far riflettere noi europei, è quella dedicata alle prospezioni di lungo periodo: la proiezione al 2025 di alcune variabili significative per l’impatto che eserciteranno sugli assetti territoriali futuri prefigura uno scenario inquietante e chiaramente insostenibile di consumo esasperato di risorse scarse o finite.Al 2025 la popolazione americana dovrebbe aumentare del 40%, determinando una ulteriore dilatazione formidabile dei territori del suburbio: la tendenza alla riduzione dei nuclei familiari comporterà infatti un aumento ancora più elevato della domanda di abitazioni e più lunghe distanze pendolari quotidiane. I consumi di suolo per urbanizzazione sono destinati a crescere in maniera esponenziale: se in tre secoli l’America urbana ha consumato 46 milioni di acri di territorio naturale, si calcola che alla soglia temporale individuata questo valore dovrebbe più che raddoppiarsi (112 milioni di acri), intaccando imponenti risorse ambientali. L’altra problematica cruciale strettamente connessa al modello di dispersione insediativa sarà quella della congestione trasportistica, se si considera che già nel 1999 le 68 maggiori aree metropolitane americane presentavano elevatissimi sintomi di congestione (in termini di tempo medio di viaggio, ore di lavoro perdute, consumi di carburante, caduta di efficienza del sistema autostradale e del trasporto aereo).

La strategia proposta dal documento è dichiaratamente di “imitare l’Europa”, prendendo esempio dalle relazioni policentriche in rete all’opera fra le grandi città europee: una rete che funziona in maniera efficiente grazie anche ai cospicui investimenti destinati dal governo europeo e dai singoli governi nazionali al potenziamento dell’accessibilità sulle lunghe distanze e, in particolare, dell’alta velocità ferroviaria.

La American Spatial Development Perspective individua le principali “città globali” americane: si tratta di metropoli che ospitano importanti hub aeroportuali, spesso localizzati a poche miglia dalle stazioni di un sistema ferroviario ormai ampiamente sottoutilizzato. La proposta, indirizzata in primis al governo federale, è di trasformare tali stazioni nei nodi di una rete ferroviaria ad alta velocità che potrebbe sostituirsi in maniera efficiente ai collegamenti aerei su tratte inferiori alle 500 miglia (così come sta avvenendo in Europa), realizzando altresì un modello di mobilità più sostenibile e facendo recuperare efficienza al trasporto aereo su lunga distanza.

La strategia individuata milita a favore non soltanto di una più ampia ed articolata integrazione territoriale nazionale affidata ad un sistema di trasporto integrato e multimodale (aereo/ferro/gomma), ma anche alla realizzazione di accordi di cooperazione innovativi fra le grandi città che costituiscono i poli di inquadramento economico e direzionale delle 6 macroregioni statunitensi (Northeast, Mid-Atlantic, South, Midwest, Southwest, West). Si immagina la costituzione di 6 Supercity (una rivisitazione del gotmanniano concetto di megalopoli ibridato con le riflessioni della Sassen sulle global cities) attraverso la cooperazione a rete dal basso dei principali poli urbani, e la realizzazione di strategie e progetti condivisi supportati dai finanziamenti del governo federale. Il valore aggiunto consisterebbe non soltanto nell’avvio di un progetto ambizioso di intermodalità trasportistica “all’Europea”, ma anche in un miglioramento del posizionamento competitivo delle città americane nell’economia globale, in una più attenta salvaguardia delle risorse territoriali ed energetiche e in una maggiore equità. Infatti, riprendendo il discorso di Michael Porter sui vantaggi competitivi delle città, si sottolinea che le Supercittà potrebbero diventare l’occasione per estendere i vantaggi della città a una scala territoriale più ampia attraverso strategie, estese alle macroaree, di controllo dei costi delle abitazioni, di salvaguardia ambientale, di riduzione dei costi di trasporto e del consumo di energia.

Nella parte conclusiva del documento si avanzano suggerimenti sulle modalità possibili di attuazione della strategia, in termini di attori da coinvolgere, governance del processo decisionale, risorse finanziarie mobilitabili anche attraverso politiche di “mercato corretto” e di internalizzazione delle esternalità.

Il documento è manifestamente provocatorio, visionario e irealistico, ma al lettore europeo segnala la crescente attenzione attribuita, nella riflessione migliore in ambito di politiche di pianificazione urbana e territoriale sviluppata oltre oceano, alle idee e ai modelli insediativi proposti nel “Vecchio Continente”.

Sulle sue ricadute future nel dibattito nordamericano, nulla è possibile allo stato attuale ipotizzare. Alcuni segnali contradditori marcano oggi la scena per quanto riguarda le politiche trasportistiche: da un lato infatti l’attuale presidenza ha ridotto la quota di risorse finanziarie (peraltro già modeste) messe a disposizione del programma ISTEA dedicato a finanziare nelle grandi città la realizzazione di infrastrutture di trasporto pubblico su ferro [4]; dall’altro, per la prima volta alcuni governi statali sono attualmente in accesa competizione per ottenere finanziamenti federali per la realizzazione di progetti di linee ferroviarie ad alta velocità (ad esempio il Maryland, la Pennsylvania e il Nevada).

La sfida è dunque aperta, ma il sogno delle città europee influenza sempre più le riflessioni critiche e propositive di molti ricercatori, planner ed amministratori pubblici nordamericani.

[1] Rifkin J. (2004), Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano, Mondadori, Milano.

[2] Molti ricercatori americani leggono nella suburbanizzazione un disegno politico ancora più perentorio e ideologicamente connotato: l’attuazione di un vero e proprio progetto di ingegneria sociale volto alla suburbanizzazione dei ceti medi bianchi e alla segregazione spaziale per gruppi etnici a garanzia della pace sociale e del conformismo La caduta dell’interazione e del senso di comunità, caratteristici invece del modello di città densa europea, la banalizzazione e l’omologazione sociale del suburbio sarebbero state le conseguenze inevitabili di questo disegno (si vedano ad esempio: Gutfreund O. D. (2004), 20th Century Sprawl. Highways and the Reshaping of the American Landscape, New York, Oxford University Press, Hayden D. (2003), Building Suburbia. Green Fields and Urban Growth: 1820-2000, New York, Pantheon Books).

[3] Si tratta del Lincoln Institute of Land Policy, una istituzione privata che conduce ricerche nel campo della pianificazione e della land economics and taxation, della Regional Planning Association, una associazione non profit che dal 1922 si occupa delle linee strategiche della pianificazione della regione metropolitana di New York e della Scuola di Architettura dell’Università di Pennsylvania.

[4] ISTEA (IntermodalSurface Transportation Efficiency Act) è un programma federale promosso dal 1991 che prevede nuove modalità per la allocazione di parte dei fondi erogati dal governo per le infrastrutture di trasporto. Mentre normalmente i fondi erano attribuiti esclusivamente agli State Highway Department, ISTEA prevede che, nel caso le municipalità di una agglomerazione metropolitana di più di 200.000 abitanti si associno nella elaborazione di una piano di scala vasta che integri direttive relative alla pianificazione degli usi del suolo e delle infrastrutture di trasporto, alcuni fondi federali possano essere attribuiti direttamente alla coalizione metropolitana che potrà destinarli alla realizzazione di infrastrutture alternative alle autostrade (metropolitane leggere e altre modalità di trasporto ecocompatibile).

Titolo originale: Sinister Paradise. Does the Road to the Future End at Dubai? – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Inizia il racconto: il jet comincia la sua discesa, e si resta incollati al finestrino. La scena sotto è incredibile: più di cinquanta chilometri quadrati di isole color del corallo, a forma di puzzle del mondo quasi terminato. Nelle verdi acque basse tra i continenti, sono chiaramente visibili le forme affondate delle Piramidi di Giza e del Colosseo.

Al largo ci sono tre grandi gruppi di isole a formare una palma entro una serie di mezzelune, popolate di alberghi sviluppati in altezza, parchi tematici, e mille case di lusso costruite su palafitte sopra l’acqua. Le “Palme” sono collegate tramite moli a una spiaggia tipo Miami stipata di mega-hotel, torri ad appartamenti e approdi per yacht.

Mentre l’aereo lentamente plana verso il deserto nell’entroterra, manca il fiato per l’ancora più improbabile veduta che si para davanti. Da una foresta cromata di grattacieli (quasi una dozzina alti più di 300 metri) spunta la nuova Torre di Babele. È impossibilmente alta un miglio e mezzo: l’equivalente di due Empire State Building messi uno sopra l’altro.

Vi state ancora stropicciando gli occhi dalla meraviglia e incredulità quando l’aereo atterra, e vi da il benvenuto un emporio-aeroporto, dove vi seducono centinaia di negozi pieni di borse Gucci, orologi Cartier, lingotti d’oro massiccio da un chilo. Prendete nota mentalmente di fare qualche acquisto d’oro duty-free sulla via del ritorno.

L’autista dell’albergo aspetta in una Rolls Royce Silver Seraph. Gli amici hanno raccomandato l’Armani Hotel nella torre da 160 piani, o l’albergo a sette stelle con un atrio così gigantesco da contenere la Statua della Libertà, ma voi invece avete optato per realizzare una fantasia infantile. Avreste sempre voluto essere il Capitano Nemo delle Ventimila Leghe Sotto i Mari.

Il vostro albergo a forma di medusa, a dire il vero, sta esattamente trenta metri sotto il livello del mare. Ciascuna delle sue 220 suites di lusso è dotata di pareti di plexiglas che offrono vedute spettacolari di sirene che passano, oltre ai famosi “fuochi d’artificio subacquei”: una allucinante esibizione di “bolle d’acqua, sabbia turbinante, e illuminazione accuratamente studiata”. L’ansia iniziale per la sicurezza di un alloggio sul fondo del mare è dissolta da un sorridente responsabile. L’intera struttura è dotata si un sistema di sicurezza multilivello, vi rassicura, che comprende anche la protezione contro i sommergibili terroristi, i missili e gli attacchi aerei.

Anche se avete un importante incontro d’affari nell’area di libero scambio di Internet City, con clienti da Hyderabad e Taipei, siete arrivati con un giorno di anticipo per concedervi una delle rinomate attrazioni del parco a tema di dinosauri Restless Planet. E dopo una notte di sonno ristoratore sotto il mare, salite sulla monorotaia diretti alla giungla giurassica. La vostra spedizione incontra alcuni Apatosauri che pascolano tranquilli, ma venite immediatamente attaccati da una feroce banda di Velociraptor. Le belve animatroniche sono così impeccabilmente verosimili – sono state progettate da esperti di storia naturale del British Museum – da farvi strillare di paura ed eccitazione.

Con l’adrenalina ben pompata da questo incontro ravvicinato, rifinite il pomeriggio con un’emozionante corsa in snowboard sulla locale pista black diamond. Giusto di fianco c’è il Mall of Arabia, il più grande centro commerciale del mondo – altare dove si celebra il rinomato Shopping Festival che attira 5 milioni di frenetici consumatori ogni gennaio – ma decidete di rimandare a dopo la tentazione.

Invece, vi concedete una costosa esperienza di cucina thailandese fusion in un ristorante vicino alla Elite Towers che vi ha raccomandato l’autista dell’albergo. Una splendida bionda russa continua a fissarvi con sguardo da vampira assetata, e cominciate a chiedervi se il panorama locale del peccato sia stravagante quanto quello dello shopping…..

È il seguito di Blade Runner?

Benvenuti in paradiso. Ma dove siamo? É il nuovo romanzo di fantascienza di Margaret Atwood, il seguito di Blade Runner, o Donald Trump che si è fatto un acido?

No, siamo nella città-stato di Dubai, nel 2010.

Dopo Shanghai (popolazione attuale: 15 milioni), Dubai (popolazione attuale: 1,5 milioni) è il più grosso cantiere del mondo: un emergente mondo dei sogni del consumo opulento, di quanto qui si è soprannominato “stile di vita supremo”.

Dozzine di bizzarri megaprogetti – come “ The World” (arcipelago artificiale), Burj Dubai (l’edificio più alto della Terra), Hydropolis (quell’albergo di lusso sott’acqua), il parco tematico Restless Planet, un impianto sciistico sotto una cupola mantenuto costantemente in un ambiente che all’esterno è di 40°, e il super-centro commerciale The Mall of Arabia – sono attualmente in corso di realizzazione, o lasceranno presto i tavoli dei progettisti.

Sotto il dispotismo illuminato del Principe della Corona e Chief Executive Officer, il cinquantaseienne sceicco Mohammed bin Rashid al-Maktoum, l’Emirato di Dubai – che ha le dimensioni del Rhode-Island – è diventato la nuova icona globale dell’urbanistica immaginata. Anche se spesso viene paragonato a Las Vegas, Orlando, Hong Kong o Singapore, il regno dello sceicco assomiglia più a una loro sommatoria collettiva: un pastiche di grosso, brutto e cattivo. Non è solo un ibrido, ma una chimera: frutto del lascivo accoppiamento delle fantasie ciclopiche di Barnum, Eiffel, Disney, Spielberg, Jerde, Wynn, e Skidmore, Owings & Merrill.

Il multimiliardario Sheik Mo – come affezionatamente chiamato dagli espatriati di Dubai – non solo colleziona purosangue (la stalla più grossa del mondo) e super- yacht (il Project Platinum di 160 metri, dotato di sottomarino e ponte d’atterraggio), ma sembra anche avere impressa l’opera di culto di Robert Venturi, Learning from Las Vegas, nello stesso modo in cui i musulmani più pii mandano a memoria il Corano (una delle cose di cui lo Sceicco va più fiero, per inciso, è di aver introdotto in Arabia le gated communities).

Sotto la sua guida, la costa del deserto è diventata un enorme circuito stampato su cui l’ élite delle imprese transnazionali engineering è invitata a inserire grumi di alta tecnologia, zone per il divertimento, isole artificiali, “città nella città”: qualunque ultimo grido del capitalismo urbano. Si può trovare, naturalmente, l’identica fantasmagorica quanto generica composizione di blocchi Lego in dozzine di aspiranti città di questi tempi, ma Sheik Mo ha un suo criterio distintivo invariabile: tutto deve essere “ world class”, ovvero essere il numero uno nel Guinness dei Primati. E così Dubai sta costruendo il più grosso parco a tema del mondo, il più grosso centro commerciale, l’edificio più alto, il primo hotel subacqueo, solo per citarne alcuni.

La megalomania architettonica di Sheikh Mo, anche se ricorda Albert Speer e il suo mecenate, non è irrazionale. Avendo “ Imparato da Las Vegas” capisce che se Dubai vuole diventare il paradiso dei consumi di lusso di Medio Oriente e Asia Meridionale (l’ufficialmente definito “mercato interno” da 1,6 miliardi), deve incessantemente cercare l’eccesso.

Da questo punto di vista, la mostruosa caricatura di futurismo della città è semplicemente un’abile strategia di marketing. I proprietari adorano architetti e urbanisti che la consacrano come punta di diamante. L’architetto George Katodrytis scrive: “Dubai può essere considerata il prototipo emergente del 21° secolo: oasi protesiche e nomadi proposte come città isolate distese su terra e mare”.

In mpiù, Dubai può contare sul periodo di massime quotazioni del petrolio per coprire i costi di queste iperboli. Ogni volta che spendiamo 40 dollari per riempire il serbatoio, stiamo aiutando a irrigare l’oasi di Sheik Mo.

Ed è esattamente perchè sta rapidamente pompando le sue ultime modeste risorse di petrolio, che Dubai ha optato di diventare una post moderna “città di netti” – come Bertolt Brecht definiva la sua immaginaria città del boom economico di Mahagonny – dove i super-profitti del petrolio devono essere reinvestiti nell’unica vera risorsa inesauribile d’Arabia: la sabbia. (E a dire il vero i mega-progetti a Dubai di solito vengono calcolati secondo il volume della sabbia spostata: 500 milioni di metri cubi nel caso di The World).

Al-Qaeda e la guerra al terrotismo possono vantare qualche merito, per questo boom. Dopo l’11 settembre, molti investitori mediorientali, temendo possibili cause o sanzioni, hanno ritirato le proprie quote in Occidente. Secondo Salman bin Dasmal della Dubai Holdings, solo i sauditi hanno riportato in patria un terzo del proprio portafoglio di un trilione di dollari in investimenti esteri. Gli sceicchi li stanno riportando a casa, e lo scorso anno si calcola che i sauditi abbiano sepolto almeno 7 miliardi di dollari sotto i castelli di sabbia di Dubai.

Un altro flusso di ricchezza da petrolio scorre dal vicino Emirato di Abu Dhabi. I due staterelli dominano gli Emirati Arabi Uniti: una quasi-nazione messa insieme dal padre di Sheik Mo e governante di Abu Dhabi nel 1971 per allontanare la minaccia dei marxisti in Oman e, più tardi, degli islamisti in Iran.

Oggi, la sicurezza di Dubai è garantita dalle portaerei americane abitualmente ormeggiate nel porto di Jebel Ali. A dire il vero, la città-stato si propone aggressivamente come avamposto, “Zona Verde”, in un’area sempre più pericolosa e turbolenta.

Ne frattempo, mentre un numero crescente di esperti avverte che l’epoca del petrolio a buon mercato sta finendo, il clan di al-Maktoum può contare su un nervoso torrente di profitti da petrolio in cerca di una collocazione tranquilla e stabile. Quando i forestieri mettono in discussione la sostenibilità dell’attuale boom, i responsabili di Dubai sottolineano che la loro nuova Mecca si costruisce sui dividendi, non sui debiti.

A partire dalla decisione spartiacque del 2003, di aprire senza limiti la proprietà agli stranieri, ricchi europei e asiatici sono corsi a diventare parte della bolla di Dubai. Un affaccio su spiaggia in una delle “Palme” o, ancora meglio, un’isola privata nel “Mondo”, ora ha le quotazioni di St. Tropez o di Grand Cayman. I vecchi padroni coloniali hanno guidato il branco, con espatriati e investitori britannici divenuti la miglior pubblicità per il mondo dei sogni di Sheikh Mo: David Beckham è porprietario di una spiaggia e Rod Stewart di un’isola (si mormora sia stata battezzata Gran Bretagna).

Una maggioranza invisibile di non garantiti

Il carattere utopico di Dubai, va sottolineato, non è un miraggio. Anche più di Singapore o del Texas, la città-stato è davvero un’apoteosi di valori neo-liberali.

D’altra parte, offre agli investitori un comodo sistema, in stile occidentale, di diritti proprietari, inclusa la freehold ownership, caso unico nella regione. Compresa nel prezzo un’ampia tolleranza al consumo di alcol, droghe leggere, agli abiti scollati, e ad altri vizi d’importazione formalmente prescritti dal diritto islamico. (Quando gli espatriati di Dubai ne decantano l’inimitabile “apertura” stanno decantando questa libertà di gozzovigliare: non quella di organizzare sindacati o pubblicare opinioni critiche).

D’altra parte, Dubai insieme ai suoi vicini emirati ha raggiunto il massimo in fatto di annullamento delle garanzie sul lavoro. Sindacati, scioperi, militanti, sono illegali, e il 99% della manodopera del settore privato è costituita da non-cittadini, facilmente deportabili. Davvero, i grandi pensatori di istituti come lo American Enterprise o Cato devono sbavare contemplando il sistema di classi e diritti di Dubai.

In cima alla piramide sociale, naturalmente, c’è la famiglia al-Maktoum e i suoi cugini, che possiedono ogni profittevole granello di sabbia dello sceiccato. Poi, il 15% della popolazione nativa – con la caratteristica uniforme del privilegio rappresentata dal tradizionale dishdash bianco – a costituire una leisure class la cui obbedienza alla dinastia è sostenuta da trasferimenti di reddito, scuole gratuite, posti di lavoro governativi. Un gradino sotto, i coccolati mercenari: 150.000 più o meno, ex paracadutisti britannici, insieme a altri europei, libanesi, indiani, managers e professionisti, che traggono il massimo vantaggio dalla propria agiatezza ad aria condizionata, con due mesi di ferie all’estero ogni anno.

Ma sono i lavoratori a contratto dal Sud Asia, legati a una singola impresa e soggetti ad un controllo sociale totale, a costituire la gran massa della popolazione. Lo stile di vita del Dubai è sostenuto da grandi numeri di cameriere dalle Filippine, Sri Lanka, India, e il boom edilizio poggia sulle spalle di un esercito di malpagati pakistani e indiani, che lavorano su turni di dodici ore, sei giorni e mezzo la settimana, nel forno arroventato del deserto.

Dubai, come i suoi vicini, si fa gioco delle regole dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e rifiuta di adottare la Convenzione dei Lavoratori Migranti. Human Rights Watch nel 2003 ha accusato gli Emirati di costruire la propria ricchezza sul “lavoro forzato”. E davvero, cme ha sottolineato di recente il britannico Independent in un servizio su Dubai, “Il mercato del lavoro assomiglia da vicino al vecchio sistema senza garanzie esportato a Dubai dagli antichi padroni coloniali: i britannici”.

”Come i loro impoveriti antenati” continua il giornale, “gli attuali lavoratori asiatici sono obbligati a firmare un contratto di virtuale schiavitù per anni, quando arrivano negli Emirati Arabi Uniti. I loro diritti scompaiono all’aeroporto, dove i funzionari delle assunzioni confiscano passaporti e visti, per controllarli”.

Oltre ad essere supersfruttati, i servi del Dubai devono anche diventare invisibili. I desolati campi da lavoro nelle periferie della città, dove gli operai si affollano in sei, otto, anche dodici in una stanza, non fanno parte dell’immagine ufficiale turistica di una città del lusso, priva di quartieri popolari e povertà. In una visita recente, si racconta che anche il Ministro del lavoro degli emirati Arabi Uniti sia rimasto profondamente scioccato dalle condizioni squallide, quasi insopportabili di un campo di lavoro molto lontano tenuto da un grande appaltatore delle costruzioni. Ma quando i lavoratori tentano di formare un sindacato per migliorare le paghe o le condizioni di vita, vengono immediatamente arrestati.

Il Paradiso, comunque, ha anche angoli più oscuri dei campi di lavoratori senza diritti. Le ragazze russe nell’elegante bar dell’albergo sono solo la fascinosa facciata di un sinistro mercato del sesso costruito sui rapimenti, la schiavitù, la violenza sadica. Dubai – lo dice qualunque guida di tendenza – è la “Bangkok del Medio Oriente” popolata da migliaia di prostitute russe, armene, indiane, iraniane, controllate da varie bande e mafie internazionali. (La città, comodamente, è anche centro mondiale per il riciclaggio di denaro, con uno stimato 10% degli affari immobiliari che avviene in transazioni solo in contanti).

Sheikh Mo e il suo regime profondamente moderno, naturalmente negano qualunque collegamento con questa fiorente industria delle luci rosse, anche se chi ne capisce sa che le puttane sono essenziali per tenere pieni di uomini d’affari europei e arabi tutti quegli alberghi a cinque stelle. Ma anche lo Sceicco in persona è stato direttamente toccato dal più scandaloso vizio di Dubai: la schiavitù di bambini.

Le corse dei cammelli sono una grande passione negli Emirati, e nel giugno del 2004 la Anti-Slavery International ha pubblicato fotografie di bambini in età prescolare che facevano i fantini a Dubai. HBO Real Sports contemporaneamente riferiva che tra questi fantini “alcuni hanno solo tre anni: vengono rapiti, o venduti schiavi, affamati, picchiati, violentati”. Alcuni dei piccoli fantini erano ritratti al circuito di proprietà della famiglia al-Maktoum.

Il Lexington Herald-Leader – un giornale del Kentucky, dove Sheikh Mo possiede due grossi allevamenti di purosangue – ha confermato in parte la storia di HBO in un’intervista a un maniscalco locale che aveva lavorato per il principe della corona in Dubai. Raccontava di aver visto “bambini molto piccoli”, anche di quattro anni, in groppa a cammelli da corsa. Gli allenatori affermano che le grida di terrore dei bambini spingono gli animali a correre più forte.

Sheikh Mo, che si definisce un profeta della modernizzazione, ama impressionare i visitatori con antichi proverbi e acuti aforismi. Uno dei preferiti: “Chiunque non tenta di cambiare il futuro resterà prigioniero del passato”.

Ma il futuro che sta costruendo a Dubai – tra gli applausi dei miliardari e delle imprese transnazionali da tutto il mondo – non sembra altro che un incubo dal passato: Walt Disney incontra Albert Speer sulle coste della penisola arabica.

Nota: il testo originale di Mike Davis al sito TomDispatch; di seguito, alcuni links ai fantasioni progetti descritti nella prima parte dell’articolo (f.b.)

Burj Dubai

Restless Planet

Titolo originale: Mixed-Use Debut – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il complesso a funzioni miste di Birkdale, a Huntersville, circa 25 chilometri a nord del centro di Charlotte, è la prima realizzazione mixed-use della Crosland. Anche se la compagnia aveva già realizzato quelli che si definiscono insediamenti multiuso – progetti con più funzioni al proprio interno – questo è il primo in cui usi diversi condividono lo stesso edificio. Il villaggio di Birkdale, da 110 milioni di dollari, ha aperto in settembre con 320 appartamenti da affittare sopra a 28.000 metri quadrati di commercio.

Anche per un’impresa dotata di esperienza, che ha affrontato ogni tipo di realizzazione immobiliare – commercio, residenza, uffici, industria – impegnarsi nel mixed-use, hanno sperimentato i dirigenti Crosland, non è tutto rose e fiori.

“Non è stata una cosa rapida” racconta il presidente M. Dmyterko, spiegando che la compagnia ha affrontato diverse sfide riguardo al finanziamento, progettazione, manutenzione e anche reperimento degli inquilini. Il Birkdale Village ha richiesto tre anni di progetto e realizzazione, dice.

Prima di tutto, la Crosland ha dovuto convincere l’amministrazione che si trattava del tipo giusto di progetto per quella zona, ricorda Charlie Dulin, vice presidente del settore vendite alla Commercial Carolina, agenzia di servizi immobiliari del gruppo Cushman & Wakefield.

“Molti a Charlotte ritenevano che fosse un progetto troppo all’avanguardia per la zona” dice Dulin. “Ne sottovalutavano il valore, pensando: nessun commerciante vorrà andarci”. Dopo tutto in città c’era già coi suoi 9.000 metri quadrati Phillips Place, un grosso compesso mixed-use realizzato a metà anni ’90 dallo Harris Group di Charlotte. Ma la Crosland insisteva, c’era bisogno di commercio nell’area suburbana a nord. E inoltre, sottolinea Dulin, il Birkdale Village è molto più grande e conveniente di Phillips Place.

“È di sicuro il primo villaggio commerciale in quella zona. [Crosland] ha capito in anticipo il mercato”.

Poi la compagnia ha dovuto convincere le banche. Il mercato commerciale in alcune aree può anche tirare, mentre quello residenziale resta debole, o viceversa, dice il Chief Execuve Officer della Crosland, Todd Mansfield. L’operare su diversi segmenti di mercato – a volte mutevoli – può portare a difficoltà nel finanziamento.

“Ciascuna componente deve operare in modo autonomo. I costi sono senza dubbio superiori”.

Una volta approvato il progetto e trovati i finanziamenti, è iniziata la sfida di rendere il complesso adatto sia agli operatori commerciali che ai residenti. I commercianti richiedono tutte le possibili forme e dimensioni, e gli architetti hanno dovuto pensare gli appartamenti tagliati su misura per collocarsi al di sopra. In tutto, la compagnia ha dovuto realizzare gli alloggi secondo 47 piante diverse.

E gli operatori sollevavano altri problemi. Alla Crosland abbiamo scoperto che i residenti commercianti vogliono arrivare al sabato, parcheggiare macchine e camion direttamente davanti al negozio nel giorno più affollato della settimana. Anche la raccolta della spazzatura si è dimostrata un problema. Dato che a Birkdale tutti gli spazi attorno agli edifici avevano qualche funzione, non si potevano realizzare spazi per i rifiuti sul retro. Invece, ci sono punti di raccolta oltre le aree a parcheggio dei ristoranti e in uno spazio chiuso. Coi rifiuti c’è anche un problema di tempi, dice Mansfield. I ristoranti devono evitare di muoverli di notte, quando i residenti tentano di dormire, ad esempio.

In generale, esistono moltissimi potenziali problemi quando ci si rivolge a gruppi di inquilini diversi, dice Peter B. Pappas, vicepresidente alla Crosland per il commercio: “Richiede una serie frenetica di decisioni”.


Birkdale Village: qualche cifra
Commercio: 28.000 mq Uffici: 9.000 mq
320 Appartament Un teatro da 5.500 mq

Un osservatore che guardasse la strada principale di Birkdale, comunque, potrebbe non capire che tutti i particolari del progetto sono stati pensati e realizzati contemporaneamente. Gli edifici sui due lati sembrano quelli di una cittadina del New England, cresciuta nei secoli, con una miscela di stile coloniale, vittoriano e moderno, vari colori e linee dei tetti. La stessa strada è un ampio viale con al centro una striscia verde abbondantemente piantumata. I comodi parcheggi fuori dai negozi completano l’immagine di un attivo, piccolo centro urbano.

I punti commerciali sono una miscela di catene nazionali e operatori locali. (Crosland dice di aver mantenuto un equilibrio di 80% nazionale e 20% locale). Comprendono Barnes & Noble, Pier 1 Imports o Williams-Sonoma, e marchi locali come Belle Ville, una boutique; una pizzeria Brixx; uno wine bar chiamato Barone’s Wine Room.

“Uno dei modi per rendere ogni spazio inconfondibile è aggiungere caratteristiche locali” dice Pappas. “Se si vuole avere una certa varietà di fronte, basta integrare gli operatori locali”.

Eric Horsley, socio della Brixx, che offre pizza cotta in forno a legna in tre negozi a Charlotte e uno a Chapel Hill, N.C., dice che voleva essere presente con un punto vendita a Birkdale perché le catene nazionali presenti sono quelle che si trovano nei centri commerciali regionali.

“La Crosland ha fatto un enorme lavoro di marketing per questo centro” dice Horsley. Anche se il commercio di Birkdale probabilmente attira clienti da un raggio di 25 chilometri, secondo gli osservatori del settore locali, può pure contare sui residenti degli appartamenti, e ai quartieri in crescita attorno al villaggio.

Fra i progetti multifunzione realizzati dalla Crosland nel corso degli anni ci sono CrownPoint, in insediamento di 100 ettari che comprende commercio, uffici e magazzini, e NorthCross a Huntersville, un business park con centro commerciale.

La compagnia è stata fondata da John Crosland Sr., che iniziò costruendo abitazioni, ma già nel 1938 realizzava il suo primo progetto commerciale con un grocery-store a Charlotte. Nel 1965 John Crosland Jr. – ora ritirato, ma ancora presidente della compagnia – assunse la carica di Chief Executive Officer. La Crosland iniziò a cotruire appartamenti nel 1968, entrando poi nel settore degli insediamenti industriali e di uffici nel 1977. Nel 1987 fu ceduta la branca delle realizzazioni residenziali, salvo poi rientrare nel settore case nel 2000, con la affiliata Lillian Floyd Homes (dal nome della madre di John Crosland Jr.).[...]

Birkdale può essere il primo insediamento mixed-use della Crosland, ma non sarà l’ultimo. La compagnia sta realizzando su 12.000 mq quello di Poyner Place, Raleigh, N.C., e ne prevede altri in futuro.

“Stiamo vedendo che le città richiedono prodotti mixed-use molto più di quanto non avvenisse in passato” dice Mansfield. “Il mixed-use è uno dei pilastri della nostra strategia di impresa”.

Michelle L. Buckley, specialista per il commercio dell’immobiliare Grubb & Ellis Bissell Patrick, dice che questo primo tentativo è stato un grande successo.

“Quello che hanno creato è una città del commercio” dice. “Si tratta di uno spazio per lo shopping assolutamente favoloso”.

E Birkdale Village deve per forza essere un buon spazio, aggiunge Buckley, visto che la Taubman Centers progetta di aprire un mall regionale a mezza strada fra Birkdale e il centro di Charlotte nell’autunno del 2005.

Nota: qui il testo originale al sito International Council for Shopping Centers. A sottolineare l’approccio tutto interno alla logica suburbana del mall (che già si poteva intuire dall’articolo) di Birkdale, anche se con l’uso innovativo di varie funzioni, si veda lo studio su alcuni impatti ambientali allegato di seguito in PDF, che nota come il sistema dei parcheggi e in generale la progettazione spaziale siano ben lontani anche dai criteri del new urbanism. Su Eddyburg anche le Norme di Zoning della municipalità di Huntersville per il villaggio di Birkdale (f.b.)

Premessa

La cittadina di Huntersville si trova nella fascia esterna settentrionale dell’area metropolitana di Charlotte-Meckleburg, North Carolina, ed ha avuto un (a dir poco) massiccio sviluppo in anni recentissimi, passando da circa 3.000 a oltre 30.000 abitanti dai primi anni ’90 ad oggi. Il principale motivo di interesse dei brevi estratti dall’ordinanza di zoning che si riportano sotto riguarda però un aspetto particolare di questa crescita, ovvero l’insediamento del Villaggio di Birkdale, su 20 ettari a nord dell’arteria urbana che connette lo svincolo 25 della Interstate 77 alla zona paesistica del lago Norman, circa 20 km a nord-ovest di Charlotte. Birkdale è uno dei vari e pubblicizzati tentativi USA (new urbanism o meno) di coniugare entro un medesimo complesso insediativo più funzioni, residenziali, commerciali, produttive, e di organizzarsi spazialmente oltre che funzionalmente in modo alternativo alla sola mobilità automobilistica privata, e all’insieme degli stili di uso dello spazio suburbani. Senza ovviamente entrare nel merito dei vari aspetti positivi e negativi del progetto – che comprendono ad esempio la difficoltà generale di farsi finanziare un mixed-use , o le critiche ambientali per un uso del suolo che replica in un certo senso le impermeabilizzazioni da shopping mall – può essere interessante anche solo confrontare le specifiche norme di azzonamento per quest’area con altre. Ad esempio con quelle di altre zone omogenee di Huntersville, ma anche con altra documentazione simile già proposta in questa cartella sul “Territorio del Commercio”. Il Villaggio di Birkdale, per inciso, corrisponde all’articolo 3.2.7 dell’ordinanza municipale (punto 4b), relativo alle fasce commerciali “highway oriented ”. L'ho comunque ben evidenziato (f.b.)

Town of Huntersville, North Carolina, Zoning Ordinance, 2004 – Article 3: Zoning Districts. 3.2.5. Neighborhood Center District (NC); 3.2.6. Town Center District (TC); 3.2.7. Highway Commercial District (HC) – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini

3.2.5 Zona commerciale di quartiere / Neighborhood Center District (NC)

Scopi: le zone commerciali di quartiere sono destinate a contenere negozi, servizi, piccole attività, edifici residenziali e civici, al centro di un quartiere o gruppo di quartieri e a distanza percorribile a piedi dalle residenze. Il neighborhood center deve essere organizzato su un sistema di strade interconnesse, con un raggio limitato a circa 500 metri. Le varie funzioni contenute in questi centri hanno come zona di mercato primaria un’area di circa 1,5 km, e gli edifici devono essere compatibili con quelli residenziali circostanti. Se il centro di quartiere ospita anche una fermata del trasporto pubblico, deve essere progettato per servire sia la base residenziale che l’utenza del trasporto pubblico. Lo Huntersville Land Development Plan contiene la localizzazione di massima dei nuovi centri di quartiere.

a) Funzioni consentite

Funzioni comunque consentite

pensioni bed and breakfast

affittacamere e assimilati, sino a sei ospiti

strutture civiche, associative, comunitarie, circoli

funzioni commerciali

luoghi di residenza collettiva progettati come tipi edilizi “civici”

spazi per il tempo libero al coperto

abitazioni multifamiliari

abitazioni monofamiliari

Funzioni consentite condizionatamente

cimiteri

enti religiosi

ormeggio commerciale

centri servizi day care

servizi essenziali dei tipi 1 e 2

edifici pubblici sino a 600 mq di superficie al pianterreno

stazioni di servizio di quartiere con esclusione delle grandi funzioni di manutenzione e riparazione di veicoli

spazi a funzione di solo parcheggio

parchi

scuole

vendite temporanee all’aperto di prodotti agricoli freschi e simili (esempi: farmers’ market, vendita di alberi di Natale o zucche ornamentali)

spazi a parcheggio per veicoli di trasporto collettivo

ricoveri per veicoli di trasporto collettivo

b) Tipi di edifici e spazi consentiti

edifici ad appartamenti

case in linea

edifici civici

case isolate

edifici a funzioni miste sino a 600 mq di superficie del pianterreno

uso commerciale sino a 600 mq di superficie del pianterreno

attività varie sino a 600 mq di superficie del pianterreno

c) Funzioni accessorie consentite

alloggi accessori

sedi di funzioni day care (piccole)

sportelli drive through, con esclusione di quelli di ristorazione

funzioni accessorie della residenza

ormeggio accessorio della residenza

chioschi per la vendita all’aperto sul fronte stradale (l’occupazione del marciapiede può essere consentita tramite contratto con la municipalità); è proibito il deposito esterno.

● funzioni accessorie consentite in tutte le aree

d) Requisiti generali

1) Lungo le strade esistenti, i nuovi edifici devono rispettare distanze, masse e dimensioni esistenti, oltre alla relazione degli altri edifici col fronte stradale.

I nuovi edifici che si adeguano a dimensioni, volumi, distanze e arretramenti di quelli esistenti lungo le strade devono dimostrare compatibilità.

I nuovi edifici che superano i volumi e dimensioni di quelli esistenti possono dimostrare compatibilità variando l’organizzazione delle masse per ridurne la percezione di scala e volume. [...]

2) Lungo le nuove strade, saranno edifici e tipi di lotto disponibili a definire il tipo di insediamento.

3) Nei complessi insediativi principali, il numero complessivo degli alloggi contenuti nelle abitazioni in linea, edifici ad appartamenti e a funzioni miste non deve superare il 30% degli alloggi totali.

4) Indipendentemente dalle limitazioni di cui al punto 3), in qualunque parte di un insediamento localizzata ad una distanza entro i 500 metri da una prevista stazione del trasporto pubblico, la percentuale degli alloggi contenuti in case in linea, ad appartamenti e a funzioni miste non è soggetta a limiti. Si incoraggia una generale alta densità, entro un raggio di 500 metri dalle stazioni ferroviarie. Tali stazioni sono localizzate nei punti previsti dalla delibera adottata dal Board of Commissioners della città di Huntersville.

Inoltre, la percentuale degli alloggi contenuti in case in linea, ad appartamenti e edifici a funzioni miste non è soggetta a limiti quando gli alloggi facciano parte di un complesso mixed-use (uffici e/o commercio + residenza) sempre che non sia destinato alla residenza più del 45% della superficie.

5) Nelle nuove costruzioni è preferibile commercio al pianterreno, residenza o uffici a quello superiore.

6) Il raggio massimo di una Zona Commerciale di Quartiere è di 500 metri.

7) La crescita di queste zone dovrà avvenire gradualmente per singoli progetti secondo le indicazioni di un piano urbanistico approvato.

8) Ciascun lotto edificato dovrà avere un fronte su una pubblica strada o piazza.

3.2.6 Zona commerciale di scala urbana / Town Center District (TC)

Scopi: Il Town Center District è destinato alla rivitalizzazione, riuso, edificazione di riempimento [ infill] del nucleo tradizionale di Huntersville. Si prevede una vasta gamma di funzioni entro uno schema che integra negozi, ristoranti, servizi, attività, strutture civiche, religiose, per l’istruzione, residenza ad alta densità entro un ambiente compatto a orientamento pedonale. La zona commerciale urbana è il fulcro dei quartieri residenziali circostanti, e serve anche la comunità nel suo insieme. Il quartiere è regolamentato in modo da poter contenere l’alta densità edilizia generale necessaria a sostenere una stazione del trasporto pubblico su rotaia. Si prevede che il Town Center District possa espandersi nel tempo sino ad un raggio di circa 2 km, per rispondere alla domanda di strutture e servizi centrali.

a) Funzioni consentite

Funzioni comunque consentite

pensioni bed and breakfast

affittacamere e assimilati, sino a sei ospiti

strutture civiche, associative, comunitarie, circoli

funzioni commerciali

luoghi di residenza collettiva progettati come tipi edilizi “civici”

edifici pubblici

alberghi

spazi per il tempo libero al coperto

case multifamiliari

night club, locali di musica, bar, e strutture per il tempo libero simili

case unifamiliari

Funzioni consentite condizionatamente

vendita di automobili e/o motociclette, servizi all’auto e riparazioni, sino a un ettaro, con un edificio principale di almeno 800 mq, e tutti i veicoli danneggiati e parti di ricambio schermati da superficie opaca.

cimiteri

istituzioni religiose

servizi essenziali dei tipi 1 e 2

stazioni di servizio con esclusione delle grandi funzioni di manutenzione e riparazione

spazi a funzione di solo parcheggio

parchi

scuole

vendite temporanee all’aperto di prodotti agricoli freschi e simili (esempi: farmers’ market, vendita di alberi di Natale o zucche ornamentali)

spazi a parcheggio per veicoli di trasporto collettivo

ricoveri per veicoli di trasporto collettivo

b) Tipi di edifici e spazi consentiti

case ad apparamenti

case in linea

edifici pubblici

case singole

mixed use sino a 1.500 mq del pianterreno

negozi sino a 1.500 mq del pianterreno

attività varie 1.500 mq del pianterreno

c) Funzioni accessorie consentite

alloggi accessori

sedi di funzioni day care (piccole)

sportelli drive through, con esclusione di quelli di ristorazione

funzioni accessorie della residenza

chioschi o altre strutture simili per la vendita all’aperto

vendita di prodotti sul fronte stradale (l’occupazione del marciapiede può essere consentita tramite contratto con la municipalità); è proibito il deposito esterno; altri usi accessori consentiti in tutte le zone

d) Requisiti generali

1) Lungo le strade esistenti, i nuovi edifici devono rispettare distanze, masse e dimensioni esistenti, oltre alla relazione degli altri edifici col fronte stradale.

I nuovi edifici che si adeguano a dimensioni, volumi, distanze e arretramenti di quelli esistenti lungo le strade devono dimostrare compatibilità.

I nuovi edifici che superano i volumi e dimensioni di quelli esistenti possono dimostrare compatibilità variando l’organizzazione delle masse per ridurne la percezione di scala e volume. [...]

2) Lungo le nuove strade, saranno edifici e tipi di lotto disponibili a definire il tipo di insediamento.

3) Nei complessi insediativi principali, il numero complessivo degli alloggi contenuti nelle abitazioni in linea, edifici ad appartamenti e a funzioni miste non deve superare il 30% degli alloggi totali.

4) Indipendentemente dalle limitazioni di cui al punto 3), in qualunque parte di un insediamento localizzata ad una distanza entro i 500 metri da una prevista stazione del trasporto pubblico, la percentuale degli alloggi contenuti in case in linea, ad appartamenti e a funzioni miste non è soggetta a limiti. Si incoraggia una generale alta densità, entro un raggio di 500 metri dalle stazioni ferroviarie. Tali stazioni sono localizzate nei punti previsti dalla delibera adottata dal Board of Commissioners della città di Huntersville.

5) Nelle nuove costruzioni deve essere favorito commercio al pianterreno, abitazioni e uffici a quelli superiori.

6) Ciascun lotto edificato de avere un affaccio su una via o piazza pubblica.

3.2.7 Zona commerciale per le grandi arterie di comunicazione / Highway Commercial District (HC)

Scopi: lo Highway Commercial District è finalizzato ad offrire funzioni dipendenti dall’uso dell’automobile in aree non gestibili tramite un facile accesso pedonale e un comodo ambiente per gli spostamenti a piedi. Si prevede che questo distretto non serva solo la città di Huntersville, ma anche i viaggiatori sulla Interstate. Le funzioni di questa categoria, a causa delle dimensioni e necessità di accesso, spesso non possono venir collocate in modo compatibile e integrato entro il Town Center o un Neighborhood Center. L’edificazione ai margini di questa zona deve fornire una fascia di transizione compatibile verso le funzioni poste all’esterno del distretto; i confini delle proprietà lungo le corsie stradali e autostradali devono essere attrezzate con una fascia di interposizione a verde di 15 metri; gli affacci sulle strade principali e secondarie devono essere muniti di filari di alberature.

a) Funzioni consentite

Funzioni comunque consentite

strutture per il tempo libero: qualunque funzione al chiuso

strutture per incontri e formazione di organizzazioni militari

vendita all’asta

affittacamere o simili sino a sei pensionanti

enti religiosi

strutture civiche, associative, comunitarie, circoli

funzioni commerciali

uffici di imprese di fornitura e spazi di deposito accessori, con l’esclusione di materiali edilizi e veicoli

edifici pubblici

spazi ricreativi al chiuso e all’aperto

case multifamiliari

locali notturni, clubs musicali, bar e strutture per il tempo libero simili

banchi dei pegni e negozi di seconda mano

case unifamiliari

scuole tecniche e professionali

commercio all’ingrosso e relativi uffici, depositi e magazzini interamente contenuti all’interno di edifici; sono vietati i terminal di autocarri

Funzioni consentite condizionatamente

intrattenimento per soli adulti

strutture per il tempo libero all’aperto, campi da golf e sistemi di accesso e circolazione, campi per il tiro con l’arco

lavaggio auto

approdi commerciali

centri di day care

servizi essenziali del tipo 1 e 2

stazioni di servizio, comprese attività di manutenzione e riparazione veicoli

alberghi

parchi

vendite temporanee all’aperto di prodotti agricoli freschi e simili (esempi: farmers’ market, vendita di alberi di Natale o zucche ornamentali)

vendita temporanea di alimenti da strutture mobili

● spazi destinati esclusivamente al parcheggio di veicoli connessi al trasporto pubblico

● ricoveri di veicoli lagati al trasporto pubblico

servizi per veicoli e imbarcazioni: noleggio, pulizia, riparazioni meccaniche e carrozzeria

b) Tipi di edifici consentiti

case ad appartamenti

case in linea

edifici civici

case singole

commercio da grande arteria di comunicazione; sino a 6.500 mq del pianterreno sulle strade più grandi; sino a 1.500 mq del pianterreno sulle vie minori

mixed usesino a 6.500 mq del pianterreno sulle strade più grandi; sino a 1.500 mq del pianterreno sulle vie minori

negozi, sino a 6.500 mq del pianterreno sulle strade più grandi; sino a 1.500 mq del pianterreno sulle vie minori; al piano superiore si incoraggiano appartamenti o uffici

attività varie; sino a 6.500 mq del pianterreno sulle strade più grandi; sino a 1.500 mq del pianterreno sulle vie minori; al piano superiore si incoraggiano appartamenti o uffici.

c) Funzioni accessorie consentite

canili a scopo commerciale all’aperto

sportelli drive through per qualunque uso

spazio atterraggio elicotteri

deposito all’aperto, esclusi i macchinari per l’edilizia

● chioschi o altre strutture di esposizione merci per la vendita di prodotti all’aperto lungo la strada; il deposito deve collocarsi sul retro degli edifici ed essere schermato alla vista dagli spazi pubblici

magazzini accessori agli showroom, entro gli edifici

funzioni accessorie consentite in tutte le zone

d) Requisiti generali

1) Lungo le strade esistenti, i nuovi edifici devono rispettare distanze, masse e dimensioni esistenti, oltre alla relazione degli altri edifici col fronte stradale.

I nuovi edifici che si adeguano a dimensioni, volumi, distanze e arretramenti di quelli esistenti lungo le strade devono dimostrare compatibilità.

I nuovi edifici che superano i volumi e dimensioni di quelli esistenti possono dimostrare compatibilità variando l’organizzazione delle masse per ridurne la percezione di scala e volume. [...]

2) Lungo le nuove strade, saranno edifici e tipi di lotto disponibili a definire il tipo di insediamento.

3) Nei complessi insediativi principali, il numero complessivo degli alloggi contenuti nelle abitazioni in linea, edifici ad appartamenti e a funzioni miste non deve superare il 30% degli alloggi totali.

4) Indipendentemente dalle limitazioni del precedente punto 3)

(a) In qualunque area di uno dei principali insediamenti localizzata entro 500 metri da una prevista stazione ferroviaria, la percentuale di alloggi nelle case in linea, ad appartamenti e edifici mixed use non è sottoposta a limiti. Si consiglia una elevata densità generale, entro i 500 metri dalle stazioni ferroviarie. La localizzazione di tali fermate è quella stabilita dalla delibera adottata dal Board of Commissioners della città di Huntersville.

(b) All’interno di un complesso a orientamento pedonale organizzato attorno a un sistema di strade e isolati, basato [anchored] su funzioni commerciali, ristorazione, per il tempo libero, anche il 100% degli alloggi nelle varie tipologie edilizie può essere contenuto all’interno dell’isolato delle funzioni commerciali. Per ricadere entro questa categoria, almeno un posto a parcheggio per ciascun alloggio deve essere ricollocato entro uno dei livelli a parcheggio posti all’interno dell’isolato, e almeno il 20% della superficie abitabile del pianterreno deve essere destinata a funzioni commerciali. Per superficie abitabile del pianterreno si intende l’area utilizzata per attività umane al coperto (compresi magazzini per i negozi, dispense e cucine per i ristoranti, e usi simili). La superficie abitabile non include il primo livello a parcheggio, né le aree all’aperto utilizzate per i posti a sedere dei ristoranti o l’esposizione di merci. Alberghi, attività artigianali e spazi per il montaggio, laboratori e strutture di ricerca, sono consentiti all’interno del complesso, ma non possono essere utilizzati per calcolare la quota minima del 20% di spazio commerciale al pianterreno. Le più alte densità residenziali consentite in questo caso offrono una popolazione stabile tale da animare le vie, sostenere le attività su base quotidiana, favorire un accesso a beni e servizi non basato sul solo uso dei veicoli privati.

[...]

Nota: il documento completo dell’ordinanza di zoning, insieme agli altri di settore (come la locale "planning philosophy"), al sito del settore Planning della cittadina di Huntersville. Di seguito, il file PDF scaricabile del site plan di Birkdale Village. Su Eddyburg, un articolo descrive brevemente il Villaggio e il suo ruolo (f.b.)

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