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Si chiama "Policentro", ed è una società con sede ad Agrate Brianza, che ha già realizzato diversi centri commerciali in tutta Italia e all'estero, particolar­mente in Croazia e in Ungheria: attualmente sta indirizzandosi verso il mercato russo e quello cinese. Questa volta ha scelto Partinico per la realizzazione di quello che è preannunciato come uno dei centri com­merciali più grandi d'Europa. L'analisi di mercato ha rilevato che il posto è favorevole: è ubicato a 30 km da Palermo, a 15 dall'aeroporto di Punta Raisi, a tre dall'autostrada Palermo-Mazara del Vallo: intorno vi gravitano alcuni grossi centri urba­ni, come Alcamo, Castellammare del Golfo, l'area si estende sino a Trapani, per un'utenza stabile di circa 300.000 clienti, ove si escludano gli abitanti della capitale, per i quali è già in progettazione un altro centro che dovrebbe nascere in Viale della Regione Siciliana, in un'area di 95.200 mq. Il progetto originario ha previsto, su un'area di 361.311 mq., 4863 posti auto, due alberghi su 8.862 mq., un'area di ristorazione di 5.900 mq., una multisala (12 sale) su 7000 mq, dei quali 4.600 per tempo libero, sport e servizi vari: il tutto dovrebbe gravitare intorno al vero e proprio centro commerciale, che pre­vede 65 attività in 51.637 mq. e alla cittadella della moda, vera e propria factory outlet, che prevede 68 attività in 21.520 mq.

Nelle previsioni il centro dovrebbe occupare circa 4000 persone, avere una presenza giornaliera di 30.000 visitatori e un afflusso annuo da uno a due milioni di utenti. La struttura delle future attività commerciali dovrebbe essere nelle mani della COGEST, la quale si occuperebbe della gestione vendite e dell'affitto di spazi e stand a privati, per i quali si parla di 3000 euro al mese e di 750 euro a mq. per la vendita della super­ficie di uno stand.

Tutto è iniziato circa sei anni fa, allorché, dietro la sponsorizzazione di Marcello Dell'Utri e del proconso­le berlusconiano Giancarlo Miccichè, con la mobilitazione dei locali del partito, la Policentro, servendosi di intermediari, ha cominciato ad acquistare terreni in contrada Margi Soprano, pagandoli il doppio del loro valore di mercato. L'area era conti­gua al centro di controllo del territo­rio da parte della locale cosca mafio­sa dei Fardazza-Vitale, stretti alleati dei Corleonesi, che nell'ultimo decennio a Partinico hanno fatto il bello e il cattivo tempo, prima attra­verso Leonardo, poi attraverso il Fra­tello Vito e infine attraverso la sorella Giusy Vitale, esempio eccezionale di donna-boss, oggi pentita. Dalle inter­cettazioni fatte e dagli arresti eseguiti nel corso dell'operazione "Terra bru­ciata" si è appreso che il "pizzo" imposto sulla vendita dei terreni ha fruttato ai Fardazza 125.000 euro, su un ammontare di investimenti pari a 250 milioni di euro. Si può avere così un'idea chiara del perché tutti i pro­prietari hanno venduto senza battere ciglio, e delle prospettive di arricchi­mento che il futuro centro rappresen­tava per i mafiosi. E tuttavia il pro­getto andava incontro a una difficol­tà: l'area scelta era stata destinata, sin dal 1996, dal Piano Regolatore del Comune, ad insediamenti artigianali. Undici comuni del Golfo di Castellammare avevano costituito un patto territoriale e ottenuto, nel 1999 un finanziamento: tra i destinatari anche il "Cosar", un consorzio di artigiani partinicesi, che chiedeva e otteneva dal Comune l'esproprio di 26 mila mq. di terreno proprio in contrada Margi Soprano. Nel 1999 diventava sindaco di Partinico Giuseppe Giordano, sostenitore del­l'operazione centro commerciale. Primo atto del nuovo sindaco è stato quello di dichiarare illegittima la deli­bera del passato Consiglio Comunale, con la quale si destinava l'area agli artigiani; inoltre, sono seguiti ricorsi al TAR, occupazione dell'aula consiliare da parte degli artigiani; episodi inquietanti come mazzi di crisantemi e croci trovati davanti al portone di casa del presi­dente del Cosar, auto incendiate, sino ad arrivare al rinvenimento di un topo infiocchettato sul parabrezza dell'auto del sindaco, spacciato al quattro venti come minaccia terrori­stico-mafiosa. A questo punto è inter­venuto il plenipotenziario Miccichè a cercare una soluzione di compromes­so tra le richieste legittime degli arti­giani, che temevano di perdere il finanziamento, e quelle della "Policentro", che aveva fretta di ini­ziare e di concludere i contratti di compravendita prima della scadenza delle "caparre". L'accordo si è con­cluso con gli artigiani che ottenevano la loro area, che la Policentro avreb­be completato aggiungendo una parte della propria: l'insediamento artigianale diventava il cavallo di Troia, per ottenere dal Consiglio Comunale il cambio di destinazione del resto dell'area. Il progetto è stato esibito in pompa magna a tutto il paese, il quale è rimasto affascinato da tanto bagliore che prometteva di cambiarne il volto.

A questo punto i commercianti locali hanno fiutato il vento e si sono svegliati, rendendosi conto che: 1'insediamento del "mostro" avrebbe significato per loro la chiusura. Con le elezioni vicine nessuna forza politica ha osato schierarsi apertamente a favore del progetto "Policentro", che addirittura è stato respinto dal Consiglio Comunale, in attesa di tempi migliori. Gli artigiani e i com­mercianti si sono presentati con una lista, che si è schierata col centrosini­stra, mentre il centrodestra ha pro­posto un ridimensionamento del pro­getto, continuando a vendere pro­messe di lavoro per tutti. A sorpresa è stato eletto sindaco il candidato del centrosinistra Giuseppe Motisi, con un consiglio comunale espressione di un paese politicamente schierato, nella sua quasi totalità, col centrode­stra. La nuova leadership ha indotto il patron della "Policentro" ad elabo­rare una nuova strategia di contatti politici che è ancora in atto e che sta portando a un ammorbidimento delle parti, sia di destra che di centro, attraverso una scientifica divisione di competenze, di fette di torta, di futu­ri posti di lavoro, di rivalutazione delle aree circostanti. Tramontata l'era dei Fardazza-Vitale, tutti in car­cere, malgrado immediati tentativi di riorganizzazione sventati dalle forze dell'ordine, sembra che un nuovo astro si stia facendo spazio, cercando di pacificare le due violente fazioni dei filo-totò-riina e dei filo-binnu­-provenzano: si tratta di Mimiddu Raccuglia, detto "U Veterinariu", latitante da tempo e boss dell'area di Altofonte. Intanto, sul vicino fronte di Castellammare scalpitano già le motopale dei boss locali, pronte a ini­ziare i lavori di movimento terra per l'avvio della costruzione.

John A. Jakle, Keith A. Sculle, Lots of Parking. Land use in a car culture, University of Virginia Press, Charlottesville, London 2004; Capitolo 8: Parcheggiare per lo Shopping: lo sviluppo nell’ambiente suburbano; Traduzione di Fabrizio Bottini (parte I)



Il parcheggio è stato raramente considerato come fatto a sé. Molto più spesso è stato visto come facilitatore di altre attività. Urbanisti e ingegneri del traffico possono certo pensare ai parcheggi come questione centrale, ma l’utente normale di solito non lo fa. Come ci ha detto recentemente un esperto del settore, “il parcheggio è qualcosa che tutti si aspettano, ma a cui nessuno ha voglia di pensare” [1].

In questo capitolo trattiamo il ruolo al tempo stesso di servizio e centrale dei parcheggi per il commercio, per i clienti che cercano un posto dove fermarsi e i negozianti che ragionano su come offrirlo, spesso col pericolo di morte economica se non lo fanno. Quale è stata l’influenza del parcheggio nella transizione del ventesimo secolo, dal commercio nei negozi centrali urbani, ai complessi nei quartieri e infine ai centri commerciali suburbani? Quali configurazioni fisiche sono state proposte, per questo invisibile ma fondamentale elemento di forza? Quali alternative sono state prese in considerazione? Quali forme sono prevalse, e perché?

Guardiamo al parcheggio come un fattore essenziale integrato nell’insieme generale dell’insediamento commerciale. Vogliamo capire quali elementi hanno prevalso, nello stesso modo in cui vorrebbero capirlo la maggior parte delle persone se il parcheggio fosse qualcosa a cui si presta attenzione.

Le decisioni su come organizzare il parcheggio legato al commercio non nascono in modo razionale, se per “razionale” intendiamo consapevolezza, valutazione delle alternative, azioni intraprese nella prospettiva di un programma di lungo termine. I critici razionalisti del parcheggio commerciale – molti urbanisti e gli attivisti anti-automobile – ritengono la nazione colpevole di essere scivolata nelle conseguenze della mobilità automobilistica senza piana coscienza del suo significato o intenzioni che andassero oltre obiettivi di breve termine [2]. L’esperienza nel tempo dimostra che la stragrande maggioranza degli americani che in qualche modo si sono interessati del prodotto collaterale parcheggio, erano soddisfatti di come e dove parcheggiavano prima che la scarsità di spazi iniziasse ad essere un deterrente della mobilità, ed alcuni sollevassero dubbi, critiche, e suggerissero soluzioni ai problemi di parcheggio determinati anche dalle migliori intenzioni di chi li aveva preceduti.

Gli americani in generale hanno sempre colto le occasioni di massima mobilità fisica, individualismo, insediamento decentrato, di cui l’automobile ha stimolato le più recenti espressioni. I geografi hanno sottolineato la passione americana per il movimento attraverso il paesaggio, variamente alla ricerca di miglioramento economico, specie prima del XX secolo, nel quadro del processo di reinsediamento o del tempo libero attraverso il turismo. Più di recente gli studiosi di letteratura hanno evidenziato l’emergere di un genere della strada negli scritti americani, secondo varie dimensioni tutte tese a considerare le strade su cui si spostano le persone come “spazio sacro”. Gli scrittori, usando la strada come strumento o metafora, speculano su ciò che la cultura americana è stata, e dove ritengono stia andando. Gli storici hanno rintracciato l’emergere dell’industria automobilistica e dei settori ad essa dipendenti per affermare anch’essi che determina gran parte della vita nazionale e all’estero nel corso del XX secolo. Gli abitanti del Sud, spesso considerati la parte più conservatrice del paese, hanno comunemente modificato il loro stile di vita per inserirci la mobilità automobilistica. Gli americani hanno teso a riempire la vastità dello spazio nazionale continentale con edifici e strutture sovradimensionati, a contrassegnare il raggiungimento di un luogo definitivo, continuando nonostante questo a celebrare il politicamente incontrollato passaggio da un luogo all’altro. Le lunghe distanze da percorrere in automobile non scoraggiano gli americani. Gli spostamenti più brevi come quelli attraverso città e cittadine non hanno mai impressionato chi se lo poteva permettere, preferibilmente con mezzi personali. Il concetto di “strada del re”, che risale al Medio Evo, dava base giuridica alla credenza secondo cui le persone avevano il diritto di muoversi senza impedimenti attraverso un certo percorso. Nel XX secolo questo si unisce alla superiorità fisica dell’automobile rispetto alle altre forme di trasporto e alla mobilità pedonale, producendo una presunzione di superiorità dell’automobilista nell’uso della strada, e del parcheggio come sua estensione [3].

Gli americani hanno in genere opposto resistenza ai programmi governativi di aumento delle tasse, perché queste sono percepite come imposizioni che interferiscono con l’individualismo. L’assenza di un forte movimento socialista nella storia nazionale conferma la predilezione dell’individualismo. L’eccezione forse più degna di nota, è la rapida adozione delle imposte sulla benzina in tutti gli stati (a partire dall’Oregon nel 1919) per finanziare la costruzione di un sistema stradale in ogni stato, e l’emanazione di una serie di leggi federali di sostegno per le strade (a partire dal 1916) per costruire un sistema portante di grandi arterie nazionali. Anche nelle zone con valori più radicatamente anti-statalisti, furono tranquillamente accettate le norme sulle patenti di guida e i limiti di velocità. La vita in comune e urbana, è sempre stata minoritaria nell’ambienta americano [4].

Joseph Interrante ha attribuito il modo inconsueto in cui l’automobile influenza il tipo di insediamento al “metropolitanismo”, termine ripreso da Recent Social Trends della Commissione Hoover, 1933: “Riducendo le dimensioni delle distanze locali, il veicolo a motore allarga l’orizzonte della comunità e introduce una divisione territoriale del lavoro fra le istituzioni locali e le amministrazioni confinanti unica nella storia dell’insediamento. ... Inoltre, cittadine e villaggi un tempo indipendenti, e anche il territorio rurale, diventano parte del complesso urbano allargato”. Interrante, anche se non offre una spiegazione adeguata del perché l’automobile sia diventata un prerequisito di sopravvivenza in ambiente metropolitano, correttamente sottolinea come non si tratti di un percorso obbligato. La mobilità automobilistica avrebbe potuto essere riservata al tempo libero o agli spostamenti oltre le zone servite da ferrovie e tranvie [5].

Sono i ceti medi urbani a introdurre l’idea di usare l’automobile non solo per il tempo libero ma anche per risolvere una serie di problemi urbani che si erano accumulati alla fine del XIX secolo. Molte città all’epoca erano diventate luoghi poco piacevoli per vivere, e quelli che un tempo erano vantati come elementi di superiorità ora erano messi in dubbio. Molti riformatori sociali attribuivano alla città problemi sanitari e psicologici. Nella Progressive Era i suburbi erano proposti come panacea, e il trasporto a basso costo verso di essi divenne un importante obiettivo politico, contro le compagnie tranviarie che ne erano i principali gestori. È stato dimostrato come nell’importante caso di Chicago la corruzione, la cattiva gestione e il servizio carente abbiano indebolito il trasporto pubblico, mentre in contemporanea l’automobile migliorava il proprio servizio alla élite politica della città, diventando attraverso una serie di complessi sviluppi il modo dominante di trasporto. I particolari cambiano a seconda delle città e degli hinterland suburbani, ma la mobilità automobilistica e il suo risultato in termini di centri di popolazione a bassa densità rappresentano una forte componente delle soluzioni idealizzate da molti. Uno storico sostiene in modo convincente che i riformatori municipali avevano previsto almeno che l’auto avrebbe eliminato la vita della strada, ma non furono in grado di contenere l’alta opinione che avevano di essa i ceti medi urbani, che rappresentavano la loro base politica [6]. La mobilità automobilistica produceva alcuni problemi inattesi, come quello che sarebbe stato portato dal parcheggio, ma in un primo tempo la sua completa egemonia fu la benvenuta.

Furono concepite alcune alternative per evitare che il traffico urbano venisse ulteriormente congestionato dall’automobile, ma tutte presupponevano che si trattasse di un mezzo di soddisfazione sociale, rispetto al quale fosse possibile suscitare nei proprietari gli istinti verso un’armoniosa comunità. Chi pensava alle alternative, non previde come quasi tutti gli americani che potevano permettersi un veicolo a motore, almeno per la maggior parte del XX secolo, avrebbero agito secondo le proprie inclinazioni individualiste nella guida dei veicoli, e non secondo forze centripete nella costruzione della comunità, ma in modo centrifugo a spingere l’insediamento sempre più lontano dai nuclei densi. Le alternative, da quelle dei teorici a quelle dei costruttori di suburbi, illustrano una fede nelle possibilità di mettere le briglie all’automobile. Nel 1914, la filantropa Mary Emery progetta Mariemont, Ohio, a 30 chilometri da Cincinnati per i lavoratori urbani poveri. È un adattamento americano della città giardino inglese, un’alternativa pastorale alle grandi città sovrappopolate, inquinate, senza servizi; Mariemont adotta l’automobile, e una strada la collega a Cincinnati. “Le strade di cemento assicurano pulizia, levigatezza, durata” all’interno del villaggio, secondo una descrizione [7]. Nel 1932, la " Broadacre City" di Frank Lloyd Wright propone un modello per 1.400 famiglie di cui il trasporto automobilistico è parte integrante, e l’insediamento si stende su dieci chilometri quadrati. Ma non si pone enfasi sugli spostamenti fra i vari punti; la soddisfazione è spirituale e va cercata nella vita di una comunità autosufficiente [8]. Radburn, New Jersey, a una ventina di chilometri da New York City, è progettata per superare le crescenti opposizioni alle macchine rumorose per le strade di molti nuovi centri, ed essere comunque “la città dell’epoca dei motori”. Gli urbanisti di Radburn evitano la classica griglia stradale che consente l’attraversamento continuo da parte delle macchine, a favore di una serie di cul-de-sac in cui sono situate le case. Un sistema a verde completa l’insediamento pensato per una popolazione di 25.000 abitanti [9].

Luoghi del genere erano proposti nella convinzione che la mobilità automobilistica fosse un’aggiunta alla buona vita interna alla comunità, e si trattava di spazi antiurbani. I loro sostenitori presumevano che non ci fossero aumenti nel numero di persone all’interno di ciascun insediamento, e non si edificasse fra l’uno e l’altro. Si abbandonavano le città esistenti per trovare rifugio in nuovi spazi pionieri nell’aperta campagna, ovvero suburbi. Non prevedevano il livello a cui l’automobile, all’inizio solo un mezzo di trasporto, alla fine si sarebbe trasformata in un agente di modificazione, anziché di integrazione, delle potenzialità. Molte persone apprezzavano i viaggi in automobile, e gli spostamenti pendolari non li scoraggiavano dall’abitare nei suburbi e lavorare in città anche distanti. I sostenitori di un’organizzazione definitiva degli insediamenti lungo le strade nell’aperta campagna, e concentrazioni separate per centri, col commercio posto al di fuori del nucleo urbano, magnificavano a questo proposito la domanda di “comodità” da parte dei consumatori. In una indagine condotta dalla catena di giornali Scripps-Howard a oltre 53.000 casalinghe, e in un altro della Kroger Grocery and Bakery Company in 5 città, fu posta la domanda perché facessero spesa più frequentemente in un certo negozio alimentare. La risposta fu per comodità nel 27,2% del casi per l’indagine Scripps-Howard, e sempre per comodità nel 70,5% del sondaggio Kroger [10]. Chi se non qualcuno con interessi finanziari nell’insediamento di complessi decentrati forieri di nuove automobili poteva in un primo tempo verificare le preferenze della gente? Orientamenti verso la suburbanizzazione e conclusioni delle ricerche egualmente orientate.

Comodità è un termine pigliatutto, che maschera una convergenza di molte motivazioni particolari. La comodità è relativa. Ciò che conviene a una persona può non esserlo nel giudizio di un’altra. I dati empirici che hanno influenzato le decisioni nel modo degli affari sono insufficienti. Non sappiamo, soprattutto, quanto davvero la clientela di allora fosse disponibile a guidare per raggiungere la propria destinazione. I primi complessi commerciali di tipo drive-in a Los Angeles, quelli degli anni ‘20, potrebbero essere stati collocati secondo le impressioni del potenziale proprietario riguardo al volume di vendite e relativi profitti, in una località promettente. Non sembra ci siano stati studi sul traffico simili a quelli condotti dagli imprenditori dei garages a parcheggio. Le piccole dimensioni dei negozi e mercati drive-in possono giustificare l’assenza di dati, perché la rilevazione era considerata una spesa non necessaria. Uno studio per una catena alimentare pubblicato nel 1941 rivela che il 76% dei clienti che arrivano in automobile percorre più di 500 metri, e il 34% oltre un chilometro. Alcune persone, dunque, erano disponibili a guidare oltre una veloce passeggiata, sino alla loro destinazione. Questa comodità può anche essere stata gergo da piazzisti, ma la maggior parte delle persone arrivando aveva una certa serie di aspettative. Aspettative che sono state voluminosamente e ripetutamente elaborate dalla letteratura commerciale a partire dagli anni ‘20 [11].

Gli americani non volevano far compere nei negozi del centro dove la congestione assediava la loro meta. Una serie di valori giocarono un ruolo di primo piano, contribuendo a configurare aspetto e accessibilità delle destinazioni commerciali. Come era possibile riconciliare il gusto per l’espressione individuale, il fastidio per un’involontaria delega all’autorità, il desiderio di spazio, la fede nella libertà attraverso l’automobile, di fronte agli ingorghi da traffico? Lo stesso agire sincrono della propria esistenza rispetto a quella degli altri automobilisti aggirandosi per il centro a cercare un buon posto auto o a pagamento, su strada o in garage, qualcosa che molti ritenevano troppo dispendioso, qualunque fosse il prezzo, rappresentava un’intrusione nella vena libertaria di parecchi americani. Ci furono anche altri fattori ad allontanarli dallo shopping in centro: una scarsa scelta di beni e servizi, un ambiente poco piacevole e insicuro, la distanza dalle loro abitazioni suburbane. Ma molti americani si sentirono anche rapidamente troppo immersi nella folla in uno spazio ristretto, preferendo generose distanze fra sé e gli altri clienti. L’assenza di parcheggi abbondanti e gratuiti respingeva i consumatori; dunque anche il parcheggio stesso era un importante fattore. La mobilità automobilistica, scartando alternative intermedie come Broadacre City, Mariemont, o Radburn, trionfava negli insediamenti dispersi e fasce commerciali perché a molti non dispiaceva, o addirittura piaceva, spostarsi, per lo shopping come per il tempo libero, quando all’arrivo era promesso un rapido parcheggio e un’altrettanto rapida scappatoia se il posto si trovava molto al di fuori della serie di complessi commerciali congestionati nel centro o di quelli originari di prima fascia periferica. Riesaminando le origini della fascia commerciale e del suburbio, alcuni studiosi concordano sul fatto che luoghi-tipo del genere dimostrano come gli americani vogliano semplificare gli spazi in cui vivono, dove fanno acquisti, e il modo di arrivarci, adottando un tipo di insediamento meno formalizzato [12]. Ma questo è senno di poi.

Le conseguenze non furono né preordinate né ovvie a coloro che fecero evolvere il paradigma attuale. Nel 1927, John Ihlder, funzionario della United States Chamber of Commerce, apprezza l’importanza dei parcheggi, ma non capisce che una loro corretta organizzazione può attirare i clienti. Ihlder avverte che i centri città coi loro problemi di sosta non stimolano l’attività commerciale, ma non incoraggia la realizzazione di garages parcheggio – probabilmente perché si tratta secondo lui di innovazioni non sperimentate – e propone invece di aumentare lo spazio sulla strada regolamentando la disposizione planimetrica degli edifici. I parcheggi insufficienti nel decennio successivo danneggiano il commercio. Un’indagine della camera di commercio del 1944 sul centro di Montclair, New Jersey, per esempio, rivela che la città possiede il più alto potere d’acquisto per famiglia dell’Est, e il terzo a livello nazionale, eppure quasi la metà delle spese viene effettuata nelle città vicine [13].

Frank R. Hawkins, responsabile di Unterecker's, catena di vendita dolciumi di Buffalo, è uno degli imprenditori più immaginifici, e sa utilizzare il proprio metodo per tentativi e correzioni di organizzare le attività portate dall’automobile, a partire dagli anni ’20. Hawkins comprende che “oggi quasi tutti quelli che hanno voglia di comprare un dolce e di spendere denaro per questo, hanno anche un’automobile”. In un punto vendita nel centro città congestionato, di fianco a un cinema, dove ci si poteva aspettare un gran andirivieni, la maggior parte dei clienti arrivava di giorno, non nelle ore notturne in corrispondenza degli affollati spettacoli al cinema. In un altro negozio, fuori dalla zona congestionata del quartiere commerciale”i nostri clienti possono trovare quasi sempre un posto per parcheggiare di fronte al negozio, o molto vicino ad esso. Non devono venire a piedi o guidare una o due volte attorno all’isolato per trovare un parcheggio, come succede spesso nella parte congestionata di questa zona”. La differenza di frequentazione era dovuta alla disponibilità di parcheggio, e Hawkins astutamente preparò il futuro di Unterecker's, non solo con un prodotto di qualità, ma basandosi anche sulla geografia.

Nel futuro, le posizioni che sceglieremo saranno quelle che ci assicurano ampi spazi a parcheggio per i clienti, al centro di una buona comunità residenziale. Il numero di persone che passa dal negozio a piedi non conta molto in realtà, non quanto quello di chi passa in automobile, tende a fermarsi, e lo spazio a parcheggio che gli rende facile la sosta e l’acquisto”[14].

Il parcheggio, chiaramente visibile dall’auto e facilmente accessibile, era un incentivo. Hawkins è chiaro in modo disarmante, contro i numerosi commercianti che rivendicheranno poi la primogenitura dell’importanza del parcheggio, e fornisce un’immagine ravvicinata notevole della sensibilità dell’imprenditore ai nuovi orizzonti dell’attività.

Molta parte dell’evoluzione dei negozi verso modalità più comode per il parcheggio delle automobili, ad ogni modo, deve essere studiata attraverso la cultura materiale non scritta. Di fatto i fondatori delle attività sulle fasce stradali non hanno lasciato memorie. Dallas è uno dei primi ambienti in cui si sviluppa il parcheggio riservato a scopi commerciali, che in città comincia nel 1921 come scelta non originariamente pensata come tale da chi se ne avvantaggia. In mancanza di una norma urbanistica che proibisca i negozi di quartiere, molte attività si spostano verso gli incroci, dove arretrano almeno 7 metri dal bordo stradale per consentire il parcheggio perpendicolare. La successiva domanda di questa attrattiva spaziale per automobilisti da parte delle catene di distribuzione in cerca di immobili, la rende molto popolare fra i proprietari. Los Angeles contemporaneamente offre una gamma più vasta di tipi di negozio dipendenti dal parcheggio. Longstreth ha correttamente individuato nei negozi suburbani una frattura radicale rispetto al commercio tradizionale. Il parcheggio attira l’occhio dell’automobilista verso una serie di elementi architettonici del negozio [15].

La progettazione dei parcheggi entra rapidamente in quella degli shopping centers e gli imprenditori con essi lanciano l’esca per il cliente. Il Country Club Plaza a Kansas City, cominciato nel 1923, è il modello originario poi adattato da molti operatori. Il fondatore J. C. Nichols voleva che il parcheggio fosse più che non solo facilmente visibile e accessibile. Il parcheggio era un aspetto del flusso veicolare, calcolare gli angoli, carico e scarico merci, dimensioni dell’isolato, solo per nominare alcuni elementi. Gli imprenditori disposti a prendersi dei rischi iniziano ad apprezzare il potenziale del parcheggio nei tardi anni ‘20 [16].

La comodità inizia ad essere compresa intuitivamente, così come tante altre cose in questi shopping centers. Ne fanno parte certamente anche gli ampi, visibili e accessibili parcheggi. Non esiste nella letteratura commerciale uno spazio specifico per il ruolo del parcheggio, ma la sua frequente inclusione nelle dichiarazioni su cos’è buon commercio ne chiarisce le potenzialità. Commenti come "I visitatori hanno la comodità di parcheggiare di fronte ai negozi” o “questo crescente bisogno di comodi parcheggi” caratterizzano la letteratura dagli anni ‘30 [17]. “ Convenience goods” sta a significare articoli comprati per impulso, presumibilmente perché la situazione lo consente. Il parcheggio aiuta a indurre questo impulso. La posizione degli shopping centers, il loro progetto, quello dei singoli negozi all’interno, certo contribuiscono, ma il parcheggio è sempre a fianco, curiosamente poco amato. Un vuoto in attesa di frequentatori, implicitamente attrattivo, singolarmente diverso dagli altri elementi espliciti di attrazione geografica e architettonica degli shopping centers.

Torniamo brevemente a queste attrazioni, che completano l’immagine del cliente che arriva in automobile. Partiamo dalla geografia. I primi nodi commerciali suburbani possono essere chiamati “ shopping centers esterni”, un nome che J. C. Nichols contribuisce a rendere popolare, a sottolineare gli elementi di rottura rispetto agli spazi tradizionali del centro città [18]. La macro visione di questi centri esterni è già stata proposta molte volte ed esaurientemente. Possiamo tranquillamente generalizzare la descrizione fatta da un ingegnere del traffico nel 1942 di Los Angeles, panorama automobilistico per definizione. I centri terziari esterni cominciano a qualunque incrocio di traffico, seguendo o anticipano qualunque direzione dei flussi. “Lo sviluppo continua, e i bracci delle numerose croci sulla scacchiera delle strade principali si incrociano, così ogni via e arteria principale di Los Angeles è diventata o diventerà presto fittamente edificata con tutti i generi di strutture per attività” [19]. A livello del terreno, l’urbanista descrive le sezioni stradali come ridotte; gli incroci, aree a velocità limitata, segnali di Stop, come numerosi; gli affacci stradali pullulanti di piccoli negozi, le abitazioni in calo, i cartelloni; e poi i locali notturni, i chioschi, i depositi, a ricoprire qualunque sopravvivenza di aperta campagna. Gli shopping centers esterni colonizzano la fascia stradale [20].

Una volta attirato il cliente col parcheggio, me merci vengono mostrate nel modo che più probabilmente concluderà la vendita. Una visibilità chiara sembra rinforzare la capacità di discernimento del cliente. L’idea della chiara visibilità suggerisce anche affidabilità del prodotto; quello che si vede è quello che si acquista. Pesi, misure, limpidezza dei prodotti avevano da tempo creato problemi nei mercati. Il commercio nell’era dell’automobile provava con la certezza. Longstreth indica nella corte aperta dei mercati drive-in di Los Angeles una delle prime forme di commercio automobilistico. Le vetrine degli shopping centers esterni, più comuni a livello nazionale degli ingressi aperti di Los Angeles per motivi di condizioni atmosferiche e sicurezza, occasionalmente incoraggiano i proprietari di edifici “ taxpayer” sulle fasce stradali alla visibilità per pedoni e chi viaggi sui tram (gli edifici " taxpayer" sono realizzati per produrre il reddito necessario a pagare le tasse immobiliari, in attesa di guadagni più elevati dalla proprietà in un secondo tempo). Guardare le grandi vetrina passando in tramo a piedi diventa la chiave perché i " taxpayers" inizino ad aggregarsi in blocchi, arretrando e offrendo arcate sui fronti e vetrine, organizzati in “isole” realizzate a moltiplicare i preziosi affacci commerciali di tre o quattro volte. Le automobili che per parcheggiare sono orientate direttamente verso le vetrine offrono una drastica innovazione nella proposta delle merci a chi arriva, molto diversa dal parcheggio in senso parallelo. Il commerciante capisce immediatamente dagli arrivi dei clienti che i prodotti di fronte al vetro dell’abitacolo sono più desiderabili [21].

Però, tenendo il passo con la lentezza con cui i negozianti capiscono i potenziali del parcheggio fino ai tardi anni ’30, la maggior parte delle zone commerciali esterne offrono modesti spazi per la sosta. Molte uniscono agli isolati di taxpayer col loro parcheggio sul marciapiede qualche piazzale riservato di fronte all’esercizio che funge da anchor dell’insieme. La zona di Woodlawn a Chicago, South Side, nel 1940 ben rappresenta il problema del parcheggio per i più vecchi isolati di taxpayer; invece della quantità desiderata di 2:1 o 3:1 metri quadrati di parcheggio per ciascuna unità di superficie commerciale, Woodlawn soffre di una quota del solo 0,8 [22]. Alcuni di questi complessi taxpayer con parcheggi bloccati sopravvivono, e se ne realizzano anche di nuovi, grazie alla vicinanza di quartiere o a un negozio tradizionale a fare da anchor. Ma si tratta di un modesto orizzonte di affari.

I parcheggi contribuiscono a definire posizione e aspetto delle zone commerciali esterne, ma molto più spesso sono alcune tipologie di esercizio a guidarne lo sviluppo. Fanno da pionieri i grandi magazzini alimentari e i cinema, forse perché i grossi investimenti alle loro spalle riescono più facilmente a tentare maggiori profitti attraverso esperimenti di ampia portata.

Bastano, qui, i grocery stores a illustrare lo schema iniziale. Le persone prima degli anni ’30 spesso acquistano i generi alimentari in tre negozi diversi, uno per gli articoli da drogheria, uno per le carni e uno per ortofrutticoli. Le merci devono essere pesate e impacchettate dopo una scelta, e c’è un impiegato addetto a questo servizio, a mettere insieme il tutto e a concludere la vendita a ciascun cliente [23]. I commercianti nella loro ricerca di maggiori profitti ristrutturano la propria attività in vari modi. Lo spostamento verso spazi esterni al nucleo centrale congestionato è un elemento critico per trarre vantaggio da un consumatore che sempre più si muove in automobile, e che in quanto tale probabilmente avrà un reddito superiore a molti di quanti vivono nei confini tradizionali. Il caso di Atlanta dimostra quanto è vero anche a livello nazionale: dato che i clienti fanno spesa spesso e regolarmente ai grocery stores, questi negozi non possono sopravvivere alla congestione da traffico che funge da deterrente ai visitatori [24]. Nel 1925, il lungimirante direttore immobiliare dei Safeway Stores di Los Angeles descrive la posizione più auspicabile come vicina a un incrocio affollato, dove esiste un notevole volume di traffico ma al tempo stesso l’affitto è più economico che non in posizione d’angolo, e sullo stesso lato rispetto alla corsia di chi è diretto verso casa. “L’automobile sta diventando sempre più un problema commerciale” e “comodità e spazio nei parcheggi sono necessari, per questa attività”. [25] Gli operatori più aggressivi, di solito le nascenti grandi catene distributive, si interrogavano su come integrare pienamente ed efficacemente la mobilità automobilistica nei propri progetti.

Alcune immagini di una maggior motorizzazione, con diverse proposte di servizi, compaiono all’Automarket di Louisville nel 1927. Nel prototipo, i clienti guidano le loro macchine lungo una corsia con ai lati scaffali rotanti da cui si scelgono i prodotti. In varie proposte di nuovi grocery stores, la comodità comprende due elementi: l’acquisto di tutti i generi alimentari in un solo negozio – punti " one-stop", come vengono chiamati vari esercizi automobile-dipendenti – e il parcheggio: abbondante, con ampi spazi laterali, e vicino al negozio. La MacMarr Stores, con quartier generale a Portland, Oregon, rileva che il 70% della sua clientela arriva in macchina, e così la compagnia realizza dei " drive-in" con parcheggi immediatamente di fianco a ciascun esercizio [26].

Il commercio alimentare più innovativo a partire dagli anni ’20 unisce varie strategie, sia interne che esterne a ciascun punto vendita, come la pubblicità via stampa, ma diventa imperativo soprattutto attirare i clienti dal ciglio stradale. Il parcheggio si evolve per primo, forse perché a quanto pare non richiede grandi costi né immaginazione. Una rassegna a caso di progetti di negozi modello dagli anni ’30 agli anni ’50 comprende in modo uniforme i parcheggi [27]. I primi grocery stores sulla fascia stradale di solito limitano le insegne a cartelli sul margine del tetto o sulla striscia al di sopra delle vetrine. Segnali più grandi, sia su una torre all’angolo sopra o di fianco all’ingresso principale, verranno dopo. Verso gli anni ‘50, i progettisti calcolano in modo più preciso l’effetto desiderato. Un droghiere di Hot Springs, Arkansas, credeva inizialmente che i cartelli attirassero i clienti perché erano nuovi, facendo capire che i messaggi avrebbero dovuto continuamente essere rinnovati, per funzionare meglio. I passanti avrebbero creduto di perdersi qualcosa se non si fermavano, e molti facevano manovra per leggere attentamente la scritta dell’insegna [28].

Il parcheggio si evolve da forma di cortesia a strumento per aumentare le vendite e variabile per prevederle. Alcune particolarità locali nella correlazione fra negozi e parcheggio continuano sin dall’apparire dell’automobile. A Los Angeles si preferisce lo spazio davanti ai negozi, e a Houston quello sul retro. Un architetto di supermarket parla di utilizzare sia fronte che retro, a posti diagonali, a seconda di quante auto il commerciante intende sistemare. Il parcheggio diagonale è riconosciuto come quello a massima capacità. La stretta vicinanza è un dogma cardinale: la massima distanza fra auto e negozio è di 150 metri, preferibilmente 100. Il resto delle corpose elaborazioni sul tema comprende i particolari per gli accessi, le uscite, manutenzione e scarichi. Nel 1964, i supermercati colossali, quelli oltre i 2.000 metri quadrati e non inseriti in uno shopping center, avevano in media spazio per 400 auto; era più di quanto offrisse ai clienti un parcheggio multipiano nei garages delle zone centrali un quarto di secolo prima. Normalmente nei supermercati parcheggiavano 194 automobili [29]. Il parcheggio era diventato l’insegna di sé stesso, e pochi esercizi venivano considerati degni di essere frequentati senza parcheggi, in omaggio alla dipendenza dall’automobile di tanti consumatori.

Se cinema e supermercati attirano e radunano esercizi più piccoli verso particolari nodi delle zone commerciali esterne sulle arterie di traffico automobilistico alla fine degli anni ‘30, emerge un’altra conformazione tipo che usa il parcheggio in modo più spettacolare: la fascia stradale [ strip]. La strip si differenzia in modo notevole dai suoi predecessori orientati all’automobile. Le fasce sono più vaste e maggiormente dedicate in modo esplicito al commercio. I piccoli operatori, senza alcuna pretesa architettonica collocano i propri edifici l’uno di fianco all’altro in serie parallela alla strada, come in un bazaar per automobilisti. I raffinati critici del gusto d’élite se ne ritraggono con sdegno, e conducono campagne di abbellimento per regolamentare l’esistente e migliorare le attività per il futuro [30]. Il primo obiettivo di questi abbellitori non è il parcheggio, che rende gestibile il commercio; sono piuttosto i materiali che si accumulano nei piazzali dei rigattieri [31]. I teorici dell’architettura postmoderna che campionano gli aspetti visivi di questo commercio stradale di cascami alludono brevemente al contributo del parcheggio [32]. Puntualmente, piccoli imprenditori sul ciglio della strada colgono l’opportunità per scavarsi una nicchia con ampi e ovvi parcheggi. La nascente attività della distribuzione di petroli su strada a partire dai ‘10 e quella della ristorazione e alberghiera negli anni ’20 aprono la strada. La catena di motel Rodome per il suo lancio a Sacramento, California, nel 1922, ad esempio, annuncia il progetto di offrire in ogni punto garages deposito a ogni cliente e un “cortile centrale asfaltato”. In ciascun Rodome possono trovare posto 90 auto e 420 clienti [33]. Molti automobilisti possono parcheggiare e portare i bagagli in stanza senza facchini, facendo così diventare il parcheggio self-service accanto al proprio alloggio un tratto distintivo della catena di motel sempre più popolare [34]. Nel 1958, la catena Downtowner si allontana dal self-parking quando il fondatore, socio in due catene di servizi parcheggio a dimensione regionale, si affida ad un servizio esterno, non come elemento ornamentale ma per massimizzare le disponibilità di posti nei caratteristici piccoli lotti urbani dei Downtowner [35].

Le attività di tipo drive-in, alcune limitate a uno sportello di servizio dove gli automobilisti sostano brevemente per qualche transazione, e altre con un parcheggio aggiunto per soste più prolungate, fondano una strategia di vendita totalmente nuova. Le banche sono tra le prime a offrire uno sportello automobilistico di servizio [36]. Negozi di calzature e rilascio di biglietti aerei sono compresi nella pletora delle attività che seguono a ruota, coi loro punti di sosta momentanea o più prolungata, caratterizzando così in modo molto sostanziale la fascia stradale. [37]

Il commercio di veicoli e pezzi di ricambio, in particolare auto e camion, è forse fra tutti quello che più sconcerta l’élite estetizzante. I nuovi spazi espositivi si collocano dapprima in edifici adattati, poi attorno al 1910 alcuni commercianti cominciano a profondere grosse somme di denaro in saloni dove i nuovi modelli dell’anno sono circondati da ornamenti degni di un palazzo. Le auto in mostra sono parcheggiate, ma l’insieme dei molti veicoli invenduti e tenuto ai livelli superiori alla zona espositiva in forma di parti smontate negli imballaggi forniti dal produttore. Riducendo così la necessità di spazi magazzino. Numerose fotografie di autosaloni che mostrano gruppi dei modelli più vendibili in stretta formazione parcheggiati sul ciglio della strada, col muso rivolto verso l’obiettivo, fanno pensare alla possibilità di depositi esterni in terreni adiacenti. Quelli mostrati sono solo fantasiosi allestimenti. Negli anni ‘60, le auto parcheggiate in attesa di clienti nei piazzali vicini rivaleggiano con la vetrina del concessionario nell’attirare l’attenzione visiva. Comunque i venditori di auto usate si concedono spazi espositivi a parcheggio più grandi, e che costino il meno possibile. Solo di rado, in questo paesaggio vernacolare, si evolve qualche tipo di miglioramento [38].

Gli sfasciacarrozze operano in “cimiteri” che occupano il gradino più basso nella scala estetica del ciglio stradale, essendoci pochi motivi, oltre al rispetto delle norme urbanistiche, per organizzare i materiali di recupero in altro modo. Nel 1929, il Connecticut approva uno dei regolamenti più efficaci per i cimiteri delle automobili. Per quell’epoca, dall’altra parte, gli operatori del settore in altri stati sono considerati portatori di “una minaccia dei cimiteri di automobili” tale da deprimere i valori degli immobili vicini, secondo il parere di un costruttore di New York [39]. Carcasse di auto e parti smontate sono variamente impilate l’una sull’altra o sporgenti, su notevoli superfici di fianco alle strade o su piccoli lotti urbani. Variano le dimensioni, ma raramente cambia l’impatto visivo. Nonostante i veicoli nuovi accuratamente allineati nei parcheggi dei concessionari siano molto diversi dai gusci dei cimiteri, in entrambi i casi chi osserva passando per la strada vede prodotti automobilistici posti al di fuori di uffici o saloni proporzionalmente piccoli, in questo settore preminentemente basato sul parcheggio.

Le città continuano a reagire lentamente al potenziale dell’automobile. Arlington, Virginia, è considerata lungimirante per l’adozione di un’ordinanza del giugno 1938 che prevede parcheggi non su strada per tutte le abitazioni, ma cinque mesi più tardi sono già necessarie delle modifiche per evitare che i veicoli facciano retromarcia immettendosi sulla via, impedendo nel frattempo il flusso del traffico. Ulteriori emendamenti del 1941 stabiliscono che gli edifici residenziali non possono occupare più del 35% del lotto in modo che i veicoli riescano a manovrare al suo interno e spostarsi rapidamente nel flusso di traffico anziché interferire con altri veicoli parcheggiati. Infine, nel 1942, le norme sul parcheggio entrano a far parte delle norme urbanistiche per le zone destinate a commercio o attività produttive. Questi adeguamenti incrementali stanno a indicare la generale incapacità di cogliere in pieno il potenziale della mobilità automobilistica. I commercianti del centro hanno anche tra i vari motivi la lunga tradizione, per rimanere ostinatamente attaccati alle proprie abitudini. Ad esempio, i negozianti di Passaic, New Jersey, "centro di acquisti" per una enorme area metropolitana, non si convincono facilmente della necessità di attivare un’autorità cittadina di regolazione dei parcheggi col potere di acquisire spazi e realizzare tre garages ai margini del distretto commerciale. Esempio del mancato adeguamento a quanto sta cambiando, e di un approccio più positivo verso la clientela, un negoziante obbliga i clienti ad andare sul retro dell’esercizio e salire di un piano, per timbrare il tagliando del parcheggio e avere uno sconto sulla tariffa. Il caso di Atlanta, soggetto di uno studio particolareggiato su come la mobilità automobilistica abbia ricreato la struttura fisica di una città, mostra che un centro congestionato spinge i clienti verso le zone esterne. La domanda di parcheggi supera la capacità di molti vecchi settori commerciali esterni. I sostenitori del commercio main-street consigliarono di applicare una “chirurgia radicale” alle pratiche correnti [40]. Altri spostarono altrove le attività. (fine Parte I)

Nota: per lo sviluppo del "metropolitanismo" fra gli anni '20 e '30 e il ruolo dell'automobile, citato anche qui, si veda il saggio in tre parti di R. D. McKenzie, La Comunità Metropolitana (f.b.)

vai alla parte 2

[1]Jo Ann Whelan (Alco Parking, Pittsburgh), intervista telefonica a Keith A. Sculle, 3 febbraio 2000.

[2]Jane Holtz Kay, Asphalt Nation: How the Automobile Took Over America and How We Can Take It Back (Berkeley: University of California Press, 1997), 172-73.

[3]For geography, see John A. Jakle, The Tourist: Travel in Twentieth-Century North America (Lincoln: University of Nebraska Press, 1985). For literary studies, see Ronald Primeau, Romance of the Road: Literature of the American Highway (Bowling Green, Ohio: Bowling Green State University Press, 1996); Kris Lackey, Road Frames: The American Highway Narrative (Lincoln: University of Nebraska Press, 1997). For histories of the automobile industries and the infrastructure supporting their products, see James J. Flink, The Automobile Age (Cambridge: MIT Press, 1988); John B. Rae, The American Automobile (Chicago: University of Chicago Press, 1965). For the South's response, see Blaine E. Brownell, "A Symbol of Modernity: Attitudes toward the Automobile in Southern Cities in the 1920s," American Quarterly 24 (March 1972): 29, 44. Regarding the cultural significance of the automobile in America's vast space, see Karal Ann Marling, The Colossus of Roads: Myth and Symbol along the American Highway (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1984). For a history of the American highway system, see Tom Lewis, Divided Highways: Building the Interstate Highways, Transforming American Life (New York: Viking, 1997). For the concept of the "king's highway" see M. G. Lay, Ways of the World: A History of the Worlds Roads and the Vehicles That Used Them (Brunswick, NJ: Rutgers University Press, 1992),64-65, 299.

[4]Warren I. Susman, Culture as History: The Transformation of American Society in the Twentieth Century (New York: Pantheon Books, 1973), 75-85; John Chynoweth Burnham, "The Gasoline Tax and the Automobile Revolution," Mississippi Valley Historical Review 48 (dic. 1961): 445-47; Kenneth T. Jackson, Crabgrass Frontier: The Suburbanization of the United States (New York: Oxford University Press, 1985), 288. Per quanto riguarda la fede originaria nell’automobile come efficace panacea sociale senza alcun bisogno di intervento governativo, vedi James J. Flink, America Adopts the Automobile, 1895-1910 (Cambridge: MIT Press, 1970), 107-12. Per l’accettazione da parte di un importante direttore di un giornale del South Dakota, della necessità di patente di guida e limiti di velocità, vedi Keith A. Sculle, "An Editor Hails the Automobile: Al J. Adams and the Sisseton Courier," Great Plains Heritage 29, no.1 (primavera-estate 1996): 45.

[5]Citato in Joseph Interrante, "The Road to Autopia: The Automobile and the Spatial Transformation of American Culture," in The Automobile and American Culture, a cura di David L. Lewis e Laurence Goldstein (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1980), 91, 100.

[6]Martin Wachs, «Men, Women, and Urban Travel: The Persistence of Separate Spheres," in The Car and the City: The Automobile, The Built Environment, and Daily Urban Life, a cura di Martin Wachs e Margaret Crawford (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1992), 86-100; Paul Barrett, The Automobile and Urban Transit: The Foundation of Public Policy in Chicago, 1900 - 1930 (Philadelphia: Temple University Press, 1983); Clay McShane, Down the Asphalt Path: The Automobile and the American City (New York: Columbia University Press, 1994), 225-26. Il ruolo di avanguardia di Los Angeles nel decentramento si è meritato il classico studio di Scott L. Bottles Los Angeles and the Automobile: The Making of the Modem City (Berkeley: University of California Press, 1987).

[7]"This Is the 'Garden City' Idea," Building Age 51 (ago. 1929): 49.

[8]Frank Lloyd Wright, The Disappearing City (New York: William Farquar Payson, 1932).

[9]Joseph B. Mason, "Two Fronts for Every House," Building Age 52 (sett. 1929): 42-44,106.

[10]Joseph B. Hall, "What Makes the Hot Spot 'Hot'?" Appraisal Journal 7 (ott. 1939): 344.

[11]Richard Longstreth, The Drive-In, the Supermarket, and the Transformation of Commercial Space in Los Angeles, 1914-1941 (Cambridge: MIT Press, 1999),72-73; Harry E. Martin, «Trends in Decentralization of Shopping Centers," Chain Store Age 17 (apr. 1941): 39.

[12]Kent A. Robertson, Pedestrian Malls and Skywalks: Traffic Separation Strategies in American Downtowns (Aldershot, GB: Avebury, 1994), 24, 83; E. Relph, Place and Placelessness (London: Pion, 1976), 132.

[13]John Ihlder, "Coordination of Traffic Facilities: Annals of the American Academy of Political and Social Sciences 138 (sett. 1927): 5-6; Cleland Austin, "New Life for an Old Shopping Area," American City 63, ott. 1948, 106.

[14]Frank R. Hawkins, "Making It Easy for the Automobile Shopper," Chain Store Age 4 (apr. 1928): 17. Per un esempio di uomo d’affari che non solo aveva riconosciuto, ma anche documentato la scoperta del fatto che gli automobilisti preferivano guidare più a lungo per raggiungere parcheggi disponibili anziché percorrere distanze minori e dover andare a caccia di un posto, vedi F. R. Henry, "Changing Buying Habits Set Our Location Policies," Chain Store Age 10 (lug. 1934): 18.

[15]R. E. Wood, "Space for Head-in Parking Relieves Congestion and Facilitates Suburban Street Widening," American City 4° (feb. 1929): 127; Richard Longstreth, City Center to Regional Mall: Architecture, the Automobile, and Retailing in Los Angeles, 1920-1950 (Cambridge: MIT Press, 1997),46-47.

[16]J. C. Nichols, "Developing Outlying Shopping Centers:' American City, 42, lug. 1929, 99. La migliore storia delle realizzazioni di J. C. Nichols non spiega la ragioni della sua prescienza riguardo al potenziale commerciale dell’automobile e dei modi per rispondere nel caso del Country Club Plaza; si veda William S. Worley, J. C. Nichols and the Shaping of Kansas City: Innovation in Planned Residential Communities (Columbia: University of Missouri Press, 1990), 80, 254-55.

[17]"All-Chain Shopping Area," Chain Store Age 6 (dic. 1930): 58; "Taking Business out of Traffic," Chain Store Age 15 (dic. 1939): 23.

[18]J: C. Nichols, "Developing Outlying Shopping Centers," American City 41 (lug. 1929): 98-101.

[19]E. E. East, "Los Angeles' Street Traffic Problem," Civil Engineering, ago. 1942,437. Per una descrizione generale, vedi Gerald J. Foster and Howard J. Nelson, Ventura Boulevard: A String-Type Shopping Street (Los Angeles: Real Estate Research Program, Bureau of Business and Economic Research, University of California, Los Angeles, 1958), 7.

[20]L. Deming Tilton, "Roadside Control through Zoning," Civil Engineering 10, no.1 (gen. 1940): 11. Per un esempio di sviluppo di shopping center nella fascia occidentale di Cleveland, vedi "How Searstown Grew," Chain Store Age 24 (sett. 1958): 35.

[21]Longstreth, Drive-In, 46-47; Chester H. Liebs, Main Street to Miracle Mile: American Roadside Architecture (Boston: New York Graphic Society, 1985), 10-13; M. S. C., "Shop Fronts Must Advertise," Building Age 52 (gen. 1930): 40.

[22]"A Program for Community Conservation in Chicago and an Example: The Woodlawn Plan," ([Chicago]: Chicago Plan Commission, 1946),49.

[23]"Looking Backwards: 25 Years of Super Market Progress," Super Market Merchandising 20 (1955): 68-69.

[24]Howard L. Preston, Automobile Age Atlanta: The Making of a Southern Metropolis (Athens: University of Georgia Press, 1979), 131.

[25]H. S. Wright, "Locating Grocery Stores," Chain Store Age 1 (ago. 1925): 54-55.

[26]"Now Comes the 'Automarket,"' Chain Store Age 4 (giu. 1928): 49-53; "MacMarr Develops the 'Drive-In' Store," Chain Store Age 6 (ott. 1930): 59- 60, 62, 72.

[27]Ad esempio, vedi Andrew Williams, "Super Markets to Endure Must Excel in 5 Ways," Chain Store Age 13 (ago. 1937): 18; "All the Most Modern Red and White Food Store in the United States (Today)," Red and White Hy-Lites, ago. 1940, 3; "Include a New Store Front in Your Post-War Plans," Red and White Hy-Lites, gen. 1945, 6; "Tom's Quality Market," Monthly Bulletin, Michigan Society of Architects 23 (22 marzo 1949): 3; Samuel Shore, "How We Planned Our New Providence Unit," Super Market Merchandising 15 (mar. 1950): 43; "Supers Continue Forward March, Part I," Super Market Merchandising 19 (feb. 1954): 41.

[28]"Supers Emulate 'Great White Way,' Super Market Merchandising 19 (lug. 1954): 55.

[29]H. W. Underhill, "What It Costs to Build a Modern Super Market," Super Market Merchandising 19 (sett. 1954): 62-63, 66; "What Do You Think?" Super Market Merchandising 17 (feb. 1952): 124-25; "Shopping Centers - A Neighborhood Necessity," Urban Land: News and Trends in City Development, sett. 1944, 4; "The 1964 Model," Super Market Merchandising 33 (apr. 1965).

[30]Per un eccellente esame dei conflitti di lungo termine fra estetica elitaria e vernacolare riguardo alle fasce stradali, vedi Daniel M. Bluestone, "Roadside Blight and the Reform of Commercial Architecture," in Roadside America: The Automobile in Design and Culture, a cura di Jan Jennings (Ames: Iowa State University Press, 1990),170-84. Per un’attenta comprensione del significato della concorrenza sulle fasce stradali, vedi Richard P. Horwitz, The Strip: An American Place (Lincoln: University of Nebraska Press, 1985).

[31]J. M. Bennett, Roadsides: The Front Yard of the Nation (Boston: Statford, 1936), 165.

[32]Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour, Learning from Las Vegas: The Forgotten Symbolism of Architectural Form (Cambridge: MIT Press, 1997), 3.

[33]"Tourist Hotel Project Includes Maintenance and Accessory Sales," Buffalo Motorist 15 (ago. 1922): 30-31.

[34]Warren James Belasco, Americans on the Road: From Autocamp to Motel, 1910-1945 (Cambridge: MIT Press, 1979),139.

[35]George Thomason (architetto di Downtowner, 1958-c. 1971), intervista di Keith A. Sculle, Memphis, 22 maggio 2000.

[36]Per esempio, vedi "Bank Caters to Motorists Curb Service for Depositors," Hoosier Motorist 18 (mag. 1930): 15; "'Drive-In' Bank Opens New Field," American Builder 60 (feb. 1938): 52-53.

[37]"Ticket Office for an Airline," American Builder 77 (ago. 1955): 144- 45; "'Drive-In' Retailing Setting New Trend?" Chain Store Age 33 (lug. 1957): 32-33.

[38]"Something New in Selling Used Cars," Accessory and Garage Journal 19 (ago. 1929): 39. La storia del commercio di automobili si è concentrata da qui sia sulla storia delle architetture che più ampiamente sulle pratiche distributive. Per il primo aspetto, vedi Liebs, From Main Street to Miracle Mile, 75-93. Per il secondo, vedi Henry Dominguez, The Ford Agency (Osceola, WI: Motorbooks International, 1981), e Robert Genat, The American Car Dealership (Osceola, WI: MBI,1999).

[39]"Ways of Controlling Automobile 'Graveyards,"' American City 41 (ott. 1929): 171. Vedi anche "What Disposition of 'Junked' Automobiles," American City 43 (lug. 1930): 14.

[40]C. G. Stoneburner, "The Development of Off-Street Parking in Arlington, Va.," Trafiic Engineering 15 (mag. 1945): 309, 311; "Adequate Parking Holds Big Regional Retail Trade," American City 67 (nov. 1952): 155; Harold C. Frantzen, "The Speculative Stop-and-Shop," Appraisal Joumal 17 (gen. 1949): 98; Howard T. Fisher, "Can Main Street Compete? American City 65 (ott. 1950): 101; Preston, Automobile Age Atlanta, 130.

Titolo originale: Satellite urban areas to change City’s face – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Ho Chi Min City – Le città satellite cambieranno la struttura economica, della forza lavoro, e ridurranno la densità di popolazione in centro, sostiene Nguyen Van Dua, vicepresidente del Comitato del Popolo municipale.

Al momento, la città sta preparando l’area di Thu Thiem, accelerando le costruzioni in quella di Sai Gon a sud, ha approvato il piano generale per la zona urbana nord-ovest e ne sta preparando un altro per una nuova nel porto di Hiep Phuoc.

”Le nuove zone urbane di questo tipo dovrebbero risolvere alcuni dei problemi socioeconomici della nuova città moderna, comprendendo anche piani generali dei trasporti, l’ambiente, l’abitazione, elettricità, drenaggio e trattamento dei rifiuti” dice Dua.

Per raggiungere lo scopo, la città deve invitare esperti di pianificazione nazionali e internazionali, per il miglior progetto di una nuova città moderna.

Sarà anche necessaria l’opinione degli abitanti interessati dalle realizzazioni, nel quadro dell’attuazione dei piani.

”Un altro obiettivo urgente per rispondere alle necessità di sviluppo urbano è incrementare quantità e qualità del personale addetto” continua il vicepresidente.

Al momento, una delle cose più difficili per le autorità locali è avere a disposizione un’area libera.

”Le norme esistenti sono arretrate e impediscono un veloce processo di costruzione, oltre a non considerare i bisogni degli abitanti locali. Per risolvere la situazione, se ne devono fare di nuove che siano di beneficio allo Stato, agli investitori e ai residenti” dice Dua.

La città ha urgente bisogno di nuovi appartamenti per le rilocalizzazioni, e quindi si deve accelerare il programma per la costruzione di nuovi 30.000 alloggi municipali.

”Si devono coinvolgere più investitori, compresi i privati, all’interno del programma” aggiunge.

Nel 2006, l’amministrazione approverà i piani generali per Thu Thiem e Sai Gon sud, ed è stato prescelto un consulente di Singapore per redigere il piano dell’area nord-occidentale.

”Elementi infrastrutturali importanti come il tunnel Thu Thiem, il ponte Phu My e l’anello di circonvallazione autostradale devono essere oggetto della dovuta attenzione, per creare le condizioni di uno sviluppo in queste zone urbane chiave” dice Dua.

Tra le nuove quattro zone, Thu Thiem avrà un ruolo particolarmente importante per la città del futuro.

Sull’altro lato dell’attuale centro cittadino rispetto al fiume Sai Gon, la nuova zona contribuirà allo sviluppo su entrambe le sponde e con più spazio.

Collocata nel Distretto amministrativo n.2 su un’area totale di 770ha, Thu Thiem è progettata per essere il centro finanziario e di servizi della città. Al momento, il 50% della superficie è stato predisposto per le opere preliminari.

Su complessivi 2.975ha fra i Distretti 7 e 8, l’area urbana di Sai Gon sud è interessata da 17 progetti internazionali con un investimento totale di 884 milioni di dollari e da 79 progetti nazionali per complessivi 680 milioni.

Molti nuovi ponti, come Tan Thuan 2, Nguyen Tri Phuong, Kinh Te, Nhi Thien Duong e presto anche il Nguyen Van Cu, creano le condizioni favorevoli per i trasporti dalla nuova zona [sede del progetto residenziale ad appartamenti e ville Phu My Hung] verso il centro città.

L’area nord-occidentale compre una superficie di 6.000ha nei distretti Hoc Mon e Cu Chi, e dovrà diventare un polo industriale, aumentando di dieci volte la densità dei residenti rispetto agli attuali 30.000 abitanti.

La zona urbana del porto di Hiep Phuoc occuperà 3.600ha nel distretto Nha Be dell’omonimo comune. Circa 300ha sono destinati a industria, e l’amministrazione municipale prevede di consentire ai contadini di contribuire con propri terreni al processo di costruzione.

here English version

Titolo originale: As Roadside Memorials Multiply, a Second Look – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

HOCKESSIN, Delaware – Una volta la settimana Lyn Forester si inginocchia, ripulisce da mozziconi di sigarette, confezioni di dolciumi e lattine di birra ai piedi della nuda croce di legno, e si raccoglie in silenzio ricordando la figlia, uccisa qui in un incidente stradale otto anni fa.

Con le caviglie vicinissime al ciglio della strada e i rimorchi che le sfrecciano a qualche decina di centimetri di distanza, la signora Forester dice di essere consapevole del pericolo, anche che è illegale venire qui in questo spartitraffico centrale largo un metro sulla Highway 141 vicino a Wilmington, Delaware. Ma non può farne a meno.

”Questo è l’ultimo posto dove è stato lo spirito di mia figlia, racconta la Forester, raddrizzando i fiori di plastica e i rametti di pino in un vaso ai piedi del monumento per sua figlia, Jenni. "Sono molto più attratta qui di quanto non sia al cimitero dove teniamo i suoi resti”.

I memoriali sul ciglio della strada come quello della signora Forester sono diventati tanto numerosi, fonte di distrazione e pericolosi, dicono i funzionari responsabili per le strade, che sempre più stati stanno cercando di regolamentarli. Alcuni, come Montana e California, li permettono, ma solo se l’incidente è legato all’alcol. Altri, come Wisconsin e New Jersey, limitano il periodo di tempo in cui possono restare sul posto.

Ora, con un’azione osservata da altri stati, il Delaware sta tentando un approccio diverso, realizzando un piccolo parco di memoriali vicino a uno svincolo della superstrada, nella speranza di scoraggiare i monumenti sul ciglio stradale. Il parco comprenderà una vasca per la meditazione e mattoni – a libero accesso per i cari delle vittime degli incidenti – coi nomi incisi in onore dei morti.

Solo 20 anni fa, un intervento statale del genere era impensabile, dice Arthur Jipson, che ha studiato le leggi che governano i memoriali ed è direttore degli studi in diritto penale all’Università di Dayton in Ohio. Ora, continua Jipson, 22 stati hanno leggi su questo argomento, e il loro numero è più che raddoppiato negli ultimi cinque anni.

Ma questo ha obbligato i rappresentanti locali ad un delicato tentativo di equilibrio.

”I governi sono riluttanti quando si tratta di dire alla gente cosa sentire, come portare il lutto” dice Jipson. “Allo stesso tempo, è loro compito mantenere pubblici questi spazi”.

La richiesta di monumenti del genere ha generato un sito web specializzato roadsidememorials.com dove un’impresa edile vende e spedisce memoriali alle famiglie che non vogliono costruirselo da sole. La Roadside Memorials avverte i clienti che “non si riterrà responsabile per qualunque incidente dovuto al posizionamento della vostra croce”.

Secondo alcuni, questi segnali sono un efficace promemoria a guidare lentamente, e un piccolo prezzo da pagare per aiutare ad allentare l’angoscia della perdita. Ma per altri, sono macabre brutture e pericolose fonti di distrazione, per curiosi e visitatori su strade già a rischio.

I funzionari stradali dicono anche che questi memoriali spesso interferiscono con il lavoro delle squadre di manutenzione quando falciano l’erba o spalano la neve. Altri mettono in dubbio la loro legittimità.

”Per noi, questi memoriali sollevano seri problemi costituzionali di rapporto fra stato e chiese, visto che di solito rappresentano simboli religiosi e sono collocati su proprietà statale” dice Robert R. Tiernan, avvocato della Freedom From Religion Foundation di Madison, Wisconsin, che ha difeso con successo un uomo di Denver arrestato nel 2001 dopo che aveva rimosso un monumento in memoria di tipo religioso sul ciglio stradale.

"Capisco le persone che affrontano questo tipo di sofferenza" continua Tiernan, il cui figlio di 13 anni è morto in seguito a un incidente automobilistico nel 1981. "Ma lo spazio pubblico è di tutti, e credo sia importante riconoscerlo”.

Debby Lewkowitz, con un figlio di 16 anni, Adam, morto in un incidente stradale nel gennaio 2004, parla di motivazioni puramente personali per il suo memoriale.

"Lo scuolabus di mia figlia passava di qui tutti i giorni, io lo faccio ancora per andare al lavoro” dice la signora Lewkowitz, in piedi di fianco al mazzetto di fiori di plastica e farfalle di seta segnato dal tempo, che ha attaccato a un supporto di legno su un sovrappasso della Interstate 95 a Newark, Delaware. “Purtroppo, il ricordo di mio figlio sta qui, e lasciarlo senza nessun segno semplicemente dà troppo dolore”.

Senza nessuna legge federale a regolamentare la posa di questi segni, è stato lasciato ai funzionari statali di negoziare la questione. Florida, Colorado e Texas realizzeranno un segno di tipo non religioso nel punto dell’incidente mortale. Il Missouri consente i memoriali ma tenta di incoraggiare le famiglie delle vittime a partecipare, invece, al programma statale “adotta una strada”.

Il Delaware spera che i suoi giardini della memoria scoraggino i monumenti.

”La nostra filosofia è di mantenere le strade sgombre e sicure, e fare di tutto per incoraggiare le persone verso un punto sicuro dove possano raccogliersi in ricordo”, dice Darrel Cole, portavoce del Delaware Department of Transportation.

la costruzione del Delaware Highway Memorial Garden è cominciata alla fine del 2004 ma si è poi arrestata lo scorso anno per tagli di bilancio. Lo spazio di 1.000 mq sarà nell’area di sosta di Smyrna sulla U.S. 13, la Dupont Highway, fra Dover e Wilmington, e costerà 75.000 dollari. Ci saranno panchine attorno alla vasca da meditazione, e un sentiero lungo i mattoni rossi con le scritte.

Cole dice che, nonostante lo stato abbia approvato una legge l’anno scorso che impone una multa di 25 dollari per usi non autorizzati sulle strade statali, le squadre di manutenzione tentano di non strappare via i memoriali, concentrandosi invece sulle pubblicità illegali e le scritte politiche.

Secondo Peter Medwick, amministratore al Wesley College di Dover, non basta. I memoriali sono fatti per i cimiteri, non per le strade, sostiene Medwick, ed è responsabilità dello stato mantenere le strade sgombre.

”Questi monumenti spesso vengono lasciati abbandonati per lunghi periodi” dice, ricordando di aver visto palloni sgonfi, orsetti di peluche fradici inchiodati su croci, o fotografie dentro a buste di plastica trasparenti. “Può superare il limite e diventare mostruoso”.

Chiamati spesso “ descansos”, termine spagnolo che sta per “luogo di riposo” i memoriali stradali sono piuttosto comuni nel sud-ovest americano. La maggior parte degli studiosi ritiene che discendano dalla tradizione spagnola in cui chi porta in spalla la bara lascia croci o pietre a segnare il punto in cui ci si è fermati durante il corteo dalla chiesa al cimitero. A causa di questa tradizione in New Mexico i memoriali sono tutelati come “oggetti di tradizione culturale” dalla statale Historic Preservation Division.

Jipson dice che anche se non è stata fatta alcuna indagine a livello nazionale dei memoriali, la maggior parte dei funzionari concorda sul fatto che il loro numero sia cresciuto negli anni recenti. Uno studio informale condotto dal Maryland Department of Transportation nel 2004 stimava che veniva eretto uno di questi monumenti nel 10-20 per cento degli incidenti fatali.

Sylvia Grider, antropologa e studiosa di folklore alla Texas A&M University che ha studiato la storia dei memoriali, dice che la loro crescente popolarità negli USA fa parte di una crescente accettazione del lutto pubblico.

”È successo qualcosa nella cultura americana da quando è nata la Vietnam Wall e ci sono state tutte quelle offerte di fronte ad essa, quando nessuno se l’aspettava”, dice la Grider. “È diventato più accettabile esprimere un lutto personale in questi spazi pubblici”.

Anche internet ha sostenuto questo interesse per i memoriali. Ci sono innumerevoli siti web che mostrano gallerie di foto da tutto il mondo.

Jacquelyn Quiram, di Shorewood, Illinois, dice di aver venduto molte centinaia di croci lo scorso anno, da quando ha fondato la Roadside Memorials. Croci da un metro, impiallacciate bruno quercia o dipinte, per 80 dollari vengono fornite dotate di mazzetto di fiori in stoffa e cornice per la fotografia.

A partire dall’agosto del 2004, Marcii Magliulo di Penngrove, California, ha seguito la squadra di calcio del college di sua figlia che viaggiava attraverso il paese, per oltre un anno. Lungo la via, la signora Magliulo ha fotografato memoriali e lasciato messaggi che chiedevano ai proprietari di contattarla.

”Ero solo incuriosita di scoprire chi c’era dietro” dice.

Lo scorso dicembre, ha pubblicato a sue spese un libro che raccoglie più di 180 storie e fotografie, e dice di averne vendute parecchie centinaia di copie via Internet.

Anche se molti stati hanno adottato negli anni recenti alcune regole riguardanti i memoriali, Melissa Villanueva, filmmaker di Kansas City, Missouri, che sta lavorando a un documentario sull’argomento, dice che le leggi non vengono quasi mai applicate.

”Abbiamo trovato molta gente a cui i memoriali non piacciono, ma molto pochi che vogliono davvero toglierli” dice la Villanueva. “La maggior parte delle persone non può fare a meno di sentire che si tratta di suolo sacro”.

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Titolo originale: Rebuilding New Orleans, One Appeal at a Time – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

NEW ORLEANS, 4 febbraio – Ogni giorno la fila si snoda lungo uno spartano corridoio qui all’ottavo piano del Municipio, con centinaia di persone che stringono un pezzo di carta con scritta una fatale percentuale, che potrebbe obbligarli ad abbandonare la propria casa.

Quella cifra è sempre superiore a 50, e ciò significa che la casa era tanto danneggiata dall’alluvione dell’uragano Katrina – più di metà rovinata – che deve essere demolita, ameno che il proprietario possa spendere le decine di migliaia di dollari necessari a sollevarla qualche metro sopra il terreno, e sopra il livello di qualunque futura inondazione.

Ma c’è un modo per uscirne, ed è il motivo per cui tante persone fanno la fila ogni giorno, trasformando collettivamente questa città a pezzi. “Quello che dovete fare è rivolgervi a un ispettore edilizio, per far abbassare la percentuale sotto il 50” spiega un impiegato comunale alla folla. Ed è esattamente quello che succede alla fine della fila, in una grande sala aperta giù in fondo, in quasi il 90 per cento dei casi, raccontano i funzionari di New Orleans.

Accettando tanto spesso queste richieste – più di 6.000 negli scorsi mesi – i funzionari comunali essenzialmente stanno consentendo una ricostruzione a caso in tutta la città, minando alla base l’idea della commissione nominata dal sindaco C. Ray Nagin per la ricostruzione, di non rilasciare permessi di ricostruzione nelle zone colpite per molti mesi, finché non fosse possibile redigere un piano più accurato. Quel piano, già accolto da una diffusa opposizione, compreso il sindaco, ora è sostanzialmente morto.

Casa per casa, nei quartieri devastati di tutta la città, i proprietari tornano coi loro nuovi permessi di costruzione rivisti e ricostruiscono New Orleans. Si rilasciano 500 permessi del genere ogni giorno, dice Greg Meffert, funzionario comunale incaricato per la ricostruzione.

E non c’è nessun criterio particolare riguardo a chi ottiene un permesso, o considerazioni sulla possibilità del quartiere di contenere tanti abitanti quanti prima. Un ispettore edilizio della città, Devra Goldstein, ha definito le procedure dell’ottavo piano “davvero un salto nel buio, caotiche, Selvaggio West, prendetevi quel che volete”.

Quello che accade a quel piano, dice, rappresenta “un intero progetto del tutto casuale”.

Rappresenta anche la testimonianza del pervicace desiderio di molti abitanti di New Orleans di ritornare a casa, non importa con quali incertezze.

”Ci hanno detto, che controllando meglio ci sono possibilità di avere una valutazione di danni abbassata sotto il 50%, così potremo iniziare a ricostruire” dice George Aguillard, 65 anni, scaricatore di porto in pensione, mentre aspetta pazientemente tra la folla composta in gran parte da afroamericani al municipio.

”Alla mia età, non si può ricominciare di nuovo una nuova casa” racconta il signor Aguillard, che abita nel quartiere allagato di Pontchartrain Park. La sua valutazione di danno è stata del 52,13%.

Ma ci può essere un alto prezzo da pagare per questa elasticità dell’amministrazione nel lasciare che tanta gente rientri nelle zone alluvionate senza dover sopraelevare le proprie case. I responsabili delle assicurazioni federali antialluvione sostengono che questa pratica viola la procedura, che stabilisce come regola quel 50% per orientare verso un’edilizia sicura nelle zone a rischio. La gran parte delle città l’hanno adottata come criterio minimo, dicono i funzionari della Federal Emergency Management Agency, che gestisce il programma.

In cambio dei forti sussidi per l’assicurazione degli abitanti, il programma prevede che le città impongano un’edificazione in grado di resistere agli allagamenti. Alcune municipalità che violavano queste regole sono state escluse dai programmi assicurativi, mettendo a grave rischio migliaia di residenti.

”Si devono fermare, assolutamente”, dice J. Robert Hunter, ex capo del programma assicurativo federale per le alluvioni e ora direttore per il settore alla Consumer Federation of America. “Si può falsificare” sostiene. “Capisco queste persone. Ma non si può dire: va bene, sei povero, quindi puoi costruire in un posto pericoloso dove ci può essere un’alluvione, e dove puoi rimanere ucciso”.

Aggiunge “Non si può distruggere il programma assicurativo per ottenere un obiettivo di breve termine”.

Un altro ex direttore delle assicurazioni federali antialluvione, George K. Bernstein, è egualmente critico, e sostiene che la pratica di ridurre la percentuale di danno è “solo uno scippo ai contribuenti”.

”Se New Orleans sta falsificando le rilevazioni dei danni per consentire una ricostruzione inadeguata, deve essere buttata fuori dal programma” dice.

I funzionari della FEMA sostengono di osservare da vicino il caso di New Orleans ma di giudicare che la città stia rispettando le regole.

”So che stanno gestendo queste pratiche” dice Michael Buckley, vicedirettore per la riduzione degli impatti alla FEMA. “Non lo chiamerei un modo per modificare le regole”. Buckley dice di “non essere a conoscenza” di un processo di riduzione su grande scala delle valutazioni di danno.

Ma su all’ottavo piano, le revisioni al ribasso si concludono in pochi minuti. “È stato tutto molto semplice” racconta Charles Harris, vicesceriffo che ha avuto un metro e mezzo d’acqua nella sua casa nella zona orientale di New Orleans, e la cui percentuale di danni è stata portata al 47% dal 52% che era. “Sono stati davvero collaborativi. Credevo dovesse essere una cosa più combattiva. Ero pronto a mettermi in guardia. Non è stato niente del genere”.

Kevin François, manutentore di apparecchi ad aria condizionata con l’abitazione classificata al 52% di danni, dice “È stato fondamentalmente un entrare e uscire”. Lui, è uscito dal municipio con una cifra di parecchi punti inferiore al 50.

Meffert, il funzionario municipale, dice che le prime valutazioni qualche volta contengono degli errori. I proprietari devono giustificare qualunque modifica di queste quote, sostiene, e mettere a disposizione i particolari dei progetti di ricostruzione. “Quello che cambia il punteggio è: ‘Farò in questo modo’” dice.

Ma qualcuno se ne va dal municipio ancora di umore pugnace, nonostante l’accoglienza amichevole. “Non gli ho lasciato scelta” racconta fiera Florestine Jalvia, che ha fatto ribassare la propria valutazione fino al 47% di danni, dal 52,5%. Un atteggiamento più rigido sulla ricostruzione probabilmente avrebbe innescato il medesimo tipo di reazione dell’ora defunta idea della moratoria di quattro mesi. “Credo che la città stia cercando di evitare un grosso conflitto coi cittadini” dice la signora Goldstein, ispettrice edilizia.

Fuori, nei quartieri che si erano allagati, c’è un’attività febbrile, intermittente. Quelli che stanno lavorando duro escludono nettamente l’idea di aspettare finché sarà chiaro quali aree avranno la possibilità di ripresa.

”Beh, io non li ascolto” dice Kristopher Winder, mentre finisce di sventrare la casa di sua madre nel quartiere di Gentilly. L’ha ridotta alla sola struttura portante. Più giù lungo la stessa via, cartelli di fronte alle case lanciano messaggi di sfida: “ Stiamo ricostruendo, e non cercate di fermarci!” recita uno, e “ Non c’è nessun altro posto come casa tua”, un altro.

”Ci ho pensato, quando hanno detto quella cosa dei quattro mesi, e ho pensato che fosse pazzesco” dice il signor Winder. “Ero furioso. Non aveva senso”.

”Sto lavorando su questa casa” racconta. “Sarà di nuovo in piedi e funzionante in tre o quattro mesi”.

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Titolo originale: Albert Speer Jr. to Build "Detroit of the East" in China – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Col piano di costruzione di un intero settore urbano dedicato all’industria automobilistica nella città di Changchun, la Cina sta compiendo un altro ambizioso passo per diventare protagonista di primo piano dell’industria automobilistica globale. Presta i suoi servizi anche il figlio dell’architetto di Hitler.

Non è un segreto, che la Cina si stia gettando a capofitto nell’industria dell’automobile. Ma è di questa settimana la scelta da parte dei funzionari cinesi dello studio di architettura che realizzerà la loro prima Città dei Motori. E hanno indicato il figlio dell’architetto di Hitler – e il suo studio che si chiama Albert Speer & Partners – per il compito.

Albert Speer Jr. ha confermato che il suo studio ha vinto il concorso di progettazione da 140.000 dollari indetto dalla città di Changchun per progettare un intero distretto dedicato alla produzione di automobili e all’abitazione degli occupati nel settore.

Changchun è uno dei punti focali nelle ambizioni della Cina di diventare un attore di primo piano nel mercato automobilistico. La città è già al secondo posto a livello nazionale e sede di una joint venture con la Volkswagen che produce la Golf per il mercato interno cinese. Sono presenti in modo simile in questa città industriale anche Audi e Mazda, e i funzionari di Changchun affermano di avere in progetto altre cinque linee di montaggio nei prossimi anni.

Quella che è già chiamata la “Detroit d’Oriente” comprenderà alloggi per 300.000 abitanti e si prevede sarà completata nel giro di 10-15 anni. L’amministrazione municipale sostiene che il progetto si ispira in parte alla “ Autostadt” della Volkswagen nella sua Wolfsburg, quartier generale per la Germania. Autostadt mescola produzione automobilistica e strutture culturali aperte al pubblico.

Lo scorso anno, i cinesi hanno lasciato tutti perplessi dopo l’introduzione in Europa della loro prima vettura di esportazione, la Landwind, entrata nel mercato e che ha sollevato critiche pressoché universali. Ora nei mercati internazionali si sta introducendo anche la linea di auto cinesi Chery. Grazie al know-how tecnico acquisito attraverso le collaborazioni con produttori occidentali come General Motors e Volkswagen, la Cina sta avanzando rapidamente nelle tecnologie automobilistiche. Molti prevedono che diventerà un potente protagonista nei mercati globali nel giro di pochi decenni.

L’architetto, figlio del criminale di guerra nazista Albert Speer, architetto e ispiratore di Hitler, opera da tempo con successo in Cina. Nel 2002, il suo studio ha vinto un concorso di progettazione per realizzare una città dell’automobile simile a Shanghai. In Germania, Speer è uscito dall’ombra del passato familiare diventando uno dei principali architetti del paese. Il suo studio ha collaborato alla Expo 2000 di Hannover e alla ristrutturazione di gran parte del centro di Francoforte.

Nota: sul medesimo tema, Eddyburg ha proposto tempo fa un documentatissimo servizio dall'Economist (f.b.)

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LA SENTENZA, esemplarmente dura, contro la banda di giovani assassini di paese che si faceva chiamare Bestie di Satana, prova a rimettere sotto il dominio della legge e della ragione una vicenda criminale davvero sconvolgente. La logica della sottomissione violenta non è rara tra gli adolescenti "difficili". Ma come da quel meccanismo (che al grado più ordinario genera solo spregevole bullismo) abbia potuto germinare una violenza così mostruosa e continuata, fatta di torture e sadismo, con un accanimento da navigati aguzzini, è uno di quei misteri che rientrano nella psicopatologia criminale.

Mantenendoci al di qua di quell’estremo territorio, rimane da riflettere sulla miserabile ambientazione di questa storia di sangue: una stracca vita di provincia, il basso livello culturale, la paccottiglia satanista e metallara che dapprima attecchisce come atteggiamento per darsi un tono tra ragazzi, e piano piano diventa forsennata liturgia, movente di morte. Uno dei capi si faceva chiamare "Ozzy", nomignolo di un estroso e ormai anziano ciccione americano, star della scena heavy metal, perfino spiritoso nelle sue ributtanti performance sul palco. Ma quel minimo di comprendonio richiesto per distinguere gli abiti di scena dalla vita vera, evidentemente non era alla portata della improvvisata setta di ragazzi, e Ozzy, da nomignolo di un clown, è diventato il nome di battaglia di un mostro.

Tutto è smisurato e senza freni, in questa storia: come se in nessuno dei luoghi di socialità (la famiglia, la scuola, il lavoro, il bar, perfino gli amori tra coetanei) le aspiranti Bestie avessero incontrato un minimo intoppo, un percettibile elemento di ripensamento, di esitazione, di morale, di logica, perfino di paura della punizione. Come se la setta avesse potuto crescere, nel tempo, in una solitudine allucinante, senza che niente di esterno al delirio del leader riuscisse a interferire, a bloccare in tempo la ferocia omicida.

Colpisce – e non è la prima volta – che sia ancora il paese, la provincia, la piccola Italia ex rurale, quella fatta di villette tra i campi e di modeste attese, il teatro di un così orribile massacro. Abituati come siamo a considerare la metropoli come luogo per eccellenza della dissoluzione sociale, dell’anonimato a rischio, dovremmo invece prendere atto, se non altro per onor di statistica, che quasi tutti i più efferati casi di cronaca nera italiana degli ultimi anni non hanno per scenario grattacieli o muri di fabbrica, ma cascine, boschi, campi, casali isolati. Dal mostro di Firenze a Cogne, da Pietro Maso alle bande dei cavalcavia, emergono facce e vite di un’Italia minore, distante dai grandi crocevia urbani, aperta dalla televisione alla fruizione virtuale del caotico flusso di consumi, spettacoli, nozioni, contatti, ma nella vita reale ancora chiusa in piccole cerchie, piccoli itinerari: quel famoso "qui tutti si conoscono" che consideriamo in genere una garanzia di controllo sociale, ma evidentemente non basta più a munire lo sguardo pubblico, e forse, al contrario, lo illude e lo confonde.

Tanto da far sospettare che le nostre vere banlieues siano queste ex campagne, queste non città cinte da capannoni e stradoni, con le radici contadine sradicate e lasciate disseccare, e ancora nessuna cultura metropolitana che aiuti (almeno aiuti) a capire che il satanismo è appena una moda scema fra altrettante altre, un look balordo, un’intenzione ostile, e non può essere una verosimile maniera per diventare qualcuno o qualcosa di decente. Di satanismo si comincia a morire piuttosto spesso (vedi il caso della suora martirizzata a Sondrio, e le sospette venature "diaboliche" del delitto tra compagne di studi in Puglia), e i casi sono due: o si crede che la colpa sia davvero di Satana, o si considera con amarissimo dolore quali e quante forme di imbecillità possono assumere l’ignoranza e l’odio degli uomini, colpiti da immagini, mode, parodie di identità che non sono in grado di controllare.

Postilla

Non solo i "casermoni", quindi, sono fonte di smisurato disagio sociale, ma anche lo "sprawl". A proposito, chissà se quando Bruegmann scrive dello sprawl tiene presenti solo le linde periferie londinesi, o si riferisce anche alla dispersione insediativa cui si riferisce Michele Serra?

Titolo originale: Red Hook, Wounded by good intentions – Traduzione di Fabrizio Bottini

“Il resto del paese le vede il culo” racconta Frank, da lungo tempo abitante a Red Hook. “Red Hook è l’unico posto da cui puoi vederla in faccia”. Siamo sul recentemente rinnovato Molo 39, ora un fantastico piccolo parco che guarda direttamente negli occhi verdi della Statua della Libertà. È vero: escluse alcune eccezioni puramente tecniche – come la sponda settentrionale di Staten Island, che non conta davvero – Red Hook ha, grazie alla propria posizione, un’immagine singolare della Signora Libertà. Ma se è per questo, a Red Hook la posizione è sempre stata tutto.

Red Hook è una penisola, circondata dalla Gowanus Bay, dallo Erie Basin e dal Buttermilk Channel. Dal 1600, quando per primi gli olandesi colonizzarono “ Roode Hoek”, fino agli anni ‘60, la sponda ha significato tutta l’economia di Red Hook. La Brooklyn Navy Yard, fondata nel 1801, ha varato molte delle più famose navi da battaglia americane: la Monitor, la Maine e la Missouri fra le altre. Di norma impiegava circa 6.000 persone in tempi di pace, ma il cantiere ebbe un boom durante la seconda guerra mondiale, mettendo al lavoro oltre 70.000 abitanti di Brooklyn. Nel 1840 avevano aperto gli Atlantic Docks, e alla fine del XIX secolo si caricava più grano da qui che da qualunque altri posto nel mondo. Il Grain Terminal, un incredibile ammasso di cemento, torreggia ancora nerastro, enorme e desolato all’imbocco del Gowanus Inlet. Nella prima metà del XX secolo New York vantava i moli più attivi del paese, e quelli di Red Hook erano i più attivi di New York.

Tutta questa attività marinara portò a un quartiere rude, violento, pieno di bar e posti come il Byrnes’ Bar su Lorraine Street, che ostentava un grazioso nomignolo: “il Secchio di Sangue”. Un gestore di bar dell’epoca ha ricordato che se si arrivava la domenica mattina e non c’era segatura sul pavimento, ad asciugare i fluidi corporei del sabato sera, ciò significava una serata fiacca.

Tutto questo finì nei vent’anni dopo la guerra. L’avarizia dei rozzi mafiosi che controllavano i moli ci ha messo del suo, ma la colpa fu soprattutto del nuovi trasporti via container, e dello spostamento verso il sud e approdi più profondi a Charleston e Houston. La chiusura dei cantieri della Marina nel 1966 diede un altro grave colpo ai ranghi della classe lavoratrice di Red Hook. Ma non fu la sola somma di questi due fattori a eliminare il fronte del porto. Quello che lo uccise fu l’urbanistica delle buone intenzioni.

Se guardiamo a una carta MTA della metropolitana, il folle intrico di linee colorate del centro di Manhattan lascia posto, appena oltre lo East River, a grandi spazi di grigiastro vuoto. In realtà sembra che tutti i treni siano stati spinti verso nord e est, verso Heights e il centro di Brooklyn. La fermata più vicina a Red Hook è Smith & 9th St., che a trenta metri dal suolo è la stazione più in alto della città, a causa delle regole per la navigazione fatte per consentire alle navi dalle alte alberature - da tempo scomparse – di passare lungo il Gowanus Creek sotto la stazione. Sul lato sud, la veduta ovest verso Red Hook è impedita dalla Gowanus Expressway (più nota in genere come Brooklyn-Queens Expressway), che insieme al Brooklyn Battery Tunnel separa Red Hook dalle vicine zone residenziali operaie o di ceti medi. Entrambi i percorsi sono dell’epoca di Robert Moses.

La stazione Smith & 9th sta a quasi due chilometri da Red Hook. Una separazione del genere dalle arterie cittadine in città ce l’hanno solo “comunità autosufficienti” come Mill Basin o Marine Park, che non hanno mai voluto essere invase dalla sotterranea. Ma Red Hook non è un quartiere residenziale: è una zona di lavoro.

E ancora, la chiave sta nella posizione. Quando il quartiere era pieno di attività sui moli, nei cantieri e nei bar, gli abitanti di Red Hook potevano andare a tornare dal lavoro a piedi, o con un piccolo spostamento in tram o autobus. Ma quando le attività se ne sono andate, gli abitanti rimasti hanno dovuto andare altrove a lavorare, obbligati a una lunga e affollata corsa sull’autobus B77 per Van Brunt Street soffocata dai camion, fino alla linea F, tra l’altro uno dei treni più lenti della rete.

A isolare ulteriormente Red Hook dal resto di Brooklyn – e da un futuro a pieno regime – ci sono le Red Hook Houses, settori East e West, dove abita la gran maggioranza di chi è restato qui. Realizzate nel 1938 nel quadro della prima generazione di case pubbliche, le Houses ora stanno acquattate, basse e larghe, giusto in mezzo al quartiere. Le vaste distese indifferenziate di sola residenza ospitano soprattutto persone sostanzialmente emarginate, ulteriormente tagliate fuori dalla vita della città di quanto non accada agli abitanti delle solite case popolari, in virtù dell’isolamento fisico della zona. Proprio a causa del tipo di abitanti, Red Hook è uno dei quartieri più poveri di Brooklyn, con un tasso di disoccupazione del 21.6%, e col 43,6% di persone con titolo di scuola media. E questo è un altro elemento che scoraggia la gente di fuori a venire qui.

Ma questo stesso isolamento ha consentito a Red Hook di ospitare molte delle piccole attività che tengono in piedi New York, proibite da norme urbanistiche e alti costi in altre zone della città. C’è un distributore di sali antineve, un grosso impianto che realizza scene per spettacoli televisivi, e parecchie strutture per autobus e camion. Poi ci sono laboratori che lavorano il legno, il metallo, imprese edilizie e un produttore di plexiglass. Si può farsi riparare l’estintore, o farsi costruire una passerella pedonale, comprare un pollo vivo (o uno macellato davvero di fresco) o trovare i migliori costruttori di armadi di New York. Tutto a Red Hook.

E ora, naturalmente, potete comprarvi una borsetta alla moda. Si: Red Hook è stata invasa dai pirati dello spazio, ovvero gente bianca con cinture bianche, occhiali da sole enormi e pantaloncini stretti che gira in bici a ore strane. Hanno aperto parecchi negozi di lusso sulla Van Brunt Street, arteria commerciale del quartiere, e molti altri sono arrivati a Columbia Street, la quale dato che passa più a nord rispetto al resto del quartiere è sempre stata più legata al resto di Brooklyn.

Tutta questa gente di tendenza è attirata dai bassi affitti, ma anche dall’autenticità che qui a Red Hook è disponibile a palate. È difficile arrivarci, ci sono ancora parecchie strade selciate e posti sfasciati. Ma resta ancora da vedere quanto possa continuare questa gentrification senza migliori trasporti pubblici, e visto che i prezzi aumentano.

Ancora una volta, e come sempre, la chiave di tutto sta nella posizione: allettantemente vicina alla città, ma tanto lontana da quasi tutto.

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TRAPPOLE PER TOPI - Così nel gergo degli addetti ai lavori vengono definiti i centri commerciali . Chi siano i topi è facilmente intuibile, l’oggetto di ogni desiderio distributivo per i quali si declinano le più diversificate teorie che invitano a operare “per la loro massima soddisfazione”. E’ sintomatico che un intero settore con una fortissima valenza economica esprima una così irriverente definizione nei confronti di chi, tutto sommato, li mantiene. In ogni caso la comunità umana è un poco diversa da quella dei ratti ed è per questo che molte discipline si sono scomodate per meglio comprenderne le dinamiche relazionali, un lungo elenco con un unico denominatore comune: Pavlov.

Nel mondo distributivo tutti hanno “scientificamente” lavorato per individuare quali fossero i segnali che facessero scaturire il comportamento desiderato : l’acquisto. Ambienti che con la loro atmosfericità predispongono, colori che favoriscono, musiche e odori che inducono, analisi antropologiche che a dispetto delle più elementari forme di privacy guardano con telecamerine varie i comportamenti dei topi. Come si muovono, come guardano e muovono gli occhi quando sono nello spazio di consumo ed ora anche che cosa si dicono al telefonino avviene sistematicamente in molti spazi di vendita, soprattutto centri commerciali. Un approccio “scientifico” decisamente Galileiano, ma anche poco educato e al limite del lecito, anzi oltre il limite, ma da quando nell’economia il linguaggio si è radicato in forme e contenuti di tipo militare, esprimendo la dimensione ultima di questo tipo di economia: la guerra, con i topi tutto è lecito pur di vincere. Cioè vendere.

Noto che vi sono luoghi non ancora completamente pervasi da questa cultura in cui gli ammaestratori di topi potrebbero sbizzarrirsi oltre modo: Chiese e luoghi di culto dove si potrebbero sponsorizzare matrimoni, battesimi e funerali con un adeguato merchandising potrebbero ricavarsi profitti interessanti. Problemi con le gerarchie ecclesiali non ce ne sarebbero, loro, da tempo badano al sodo, purché renda. Ospedali dove ad ogni malato e tipo di malattia possono essere indirizzati specifici messaggi promozionali, dalla lungo degenza alla convalescenza le opportunità di vendita sarebbero molto ampie. Dal supporto psicologico alle vacanze ristabilizzatrici la gamma delle possibili offerte coinvolgerebbe molti.

Anche i cimiteri rappresentano luoghi in cui una costante presenza di consumatori è garantita, giorno e notte. Anche i topi morti possono avere un loro mercato. Coniugare la dilagante moda new age con un ritrovato culto dei defunti renderebbe tutti più in pace con la coscienza e darebbe una discreta scremata a tanti sensi di colpa che ogni decesso lascia a molti rimasti. Basta modernizzare un poco il bene dell’anima, o dell’energia vitale, o dell’afflato universale,il tutto rigorosamente post mortem, con beni di consumo hic et nunc che ne aiutino il trasmigrare, verso un altro corpo, il paradiso, il nirvana, al cospetto di vergini etc etc , ogni religione è buona pur di vendere. I costruttori di trappole sono abili , in particolare i cacciatori di topi sono i più ricercati, novelli pifferai magici sanno, perché spiano, quali sono i punti deboli del loro oggetto di studio e riescono abilmente a condurli là dove massimo si esprime il loro desiderio di consumo, anche quello latente ed inespresso.

Questi bracconieri passano dalla antropologia del consumo alla ermeneutica del profitto, tralasciando alcune categorie filosofiche quali la morale e l’etica che riconosca dignità ai topi i quali la acquisiscono solo quando acquistano, e basta. Consumo ERGO SUM Il loro ideale di consumatore è l’assuefatto che, senza alcun altro desiderio che “tutto consumare”, si aggira per le varie trappole in cerca della merce, che risulta preferita quando ha intrinsecamente le caratteristiche dell’eroina, ogni atto d’acquisto è propedeutico al successivo. Hanno elaborato una teoria, molto semplice ma efficace, adatta per i topi, la prima fase consiste nel creare il desiderio, successivamente trasformare questo desiderio in bisogno, di cosa è secondario, più sono inutili e più sono ricercati. Mode, tendenze, un dover essere come tutti, o diversi da tutti, che è la stessa cosa, sono le linee guida delle liste per la spesa per i topi, che in massima parte almeno tana e formaggio l’hanno assicurata. Ma non tutti.

Quanto può ancora durare?

Frank Wilkinson, scomparso a Los Angeles la scorsa settimana all’età di 91 anni, fu il protagonista di una vicenda fondamentale, pur se meno nota, della stagione delle epurazioni maccartiste in California e la persona che forse più di ogni altra contribuì al successivo scioglimento dei tribunali di inquisizione sulle attività “antiamericane”.

Wilkinson era nato e cresciuto a Beverly Hills, in una famiglia agiata al punto di permettergli in gioventù, come disse, di ignorare la stessa esistenza della depressione economica che attanagliava il paese. Alla fine degli studi in scuole private il giovane Wilkinson, profondamente religioso, si reca in Terrasanta per perseguire la vocazione che avrebbe dovuto portarlo all’ordinazione come pastore metodista. Ma la rivelazione che lo colpisce durante il soggiorno in Palestina e in Nord Africa è invece quella della povertà profonda in cui versa tanta umanità all’ombra dei luoghi sacri a cristianesimo, islam e giudaismo. Una crisi di fede che lo vede rientrare in patria agnostico convinto, lo spinge al volontariato nei ghetti urbani della Los Angeles nera e chicana e ad interessarsi di conseguenza della riforma urbanistica ñ che in quegli anni di urbanizzazione accelerata si andava sviluppando come terreno di intenso scontro ideologico.

Col National Housing Act del 1934 l’amministrazione di Roosevelt istituisce la Federal Housing Administration, una sorta di ministero per la casa preposto alla regolazione degli affari edili della nazione e inizialmente a far fronte alla disperata situazione determinata dalla depressione. Alla concezione dello sviluppo pianificato si oppone quella, prevalentemente repubblicana, che vede l’urbanizzazione come dominio naturale degli interessi di mercato. » uno scontro senza quartiere con il Nareb (National Association of Real Estate Brokers), ricca e potente lobby degli agenti immobiliari, ripetutamente all’attacco delle iniziative di urbanistica progressista del New Deal, definite “esperimenti socialisti”, e delle case popolari, “fattorie comuniste”. Un terreno su cui si gioca la forma che prenderanno nei decenni a venire le metropoli americane.

Diecimila villini monofamiliari

Sono gli anni in cui sotto l’impulso demografico dei veterani di ritorno dalla guerra vengono edificate le prime “suburbie” in serie, periferie replicanti come le Levittown del costruttore Abraham Levitt: comprensori da 10.000 villini monofamiliari edificati a catena di montaggio fordista che sono speculazioni commerciali e al contempo progetti ideologici di american dream: il concetto del modello suburbano come espressione di “americanismo” ricorre nel dibattito politico e sulla stampa dell’epoca. Elizabeth Gordon sulla rivista femminile House Beautiful spiegava alle lettrici che la “moderna casa famigliare” era un antidoto naturale al comunismo; lo stesso Levitt, il “padre” di suburbia, dichiarava: “nessun uomo che possieda una casa e un giardino potrà mai essere un comunista”. O almeno non sarebbero potuti diventarlo gli uomini bianchi cui l’accesso a Levittown era riservato.

La suburbia che nasce in quegli anni è anche un progetto sociale; le periferie istantanee per la middle class, rimosse dai centri urbani, favoriscono la polarizzazione sociale e razziale che col white flight , la “fuga” dei ceti medi bianchi dai quartieri misti, avrebbe nei successivi 50 anni dato ai centri urbani americani la caratteristica struttura con un nucleo “di colore” circondato da bianche periferie concentriche formate da villini rigorosamente unifamiliari. La “densità” urbana ñ e quindi anche i servizi e le infrastrutture che ne conseguono, come reti efficienti di trasporto pubblico ñ diventano anatema nell’analisi liberista proposta dall’industria edilizia. Era solo e unicamente la casa per famiglia individuale (single family home) ad incarnare idoneamente i concetti di libertà individuale e proprietà privata su cui la nazione era fondata. Lo avrebbe spiegato qualche anno dopo a Nikita Krusciov il vicepresidente Nixon nel famoso battibecco della fiera di Mosca: “Per noi la cosa più importante è la varietà, il diritto di scegliere, il fatto di avere mille costruttori che costruiscono mille modelli diversi di case. Non abbiamo un governo che decide dall’alto, questa è la differenza”.

Alla fine degli anni ‘40 ci sono però ancora dei bagliori di politica rooseveltiana che favoriscono la progettazione socialmente responsabile: nel 1949 l’amministrazione Truman vara il Housing Act, il cui preambolo dichiara che “ogni americano ha diritto ad una abitazione adeguata”. Nello stesso periodo, a Los Angeles, Frank Wilkinson, all’età di 28 anni, diventa responsabile della Housing Authority preposta alla “riabilitazione urbana”. La sua concezione è di bonificare i ghetti neri e ispanici sempre più segregati della inner city e il suo primo intervento è ambizioso: la costruzione di un quartiere popolare per 7.000 abitanti composto di edifici organizzati attorno a servizi, trasporti e parchi pubblici su una collina nei pressi del centro, la cui progettazione affida al maestro modernista Richard Neutra, per un modello esemplare di urbanistica illuminata.

Il progetto “Chavez Ravine” è controverso per la presenza sul sito prescelto di una comunità messicana, un quartiere abusivo autogestito da diverse generazioni all’ombra dei grattacieli del centro. La comunità dovrà essere sacrificata, ma nell’opinione di Wilkinson ciò è per il maggior bene; tutte le famiglie rimosse saranno risistemate nel nuovo moderno quartiere che, in una città profondamente segregata, sarà socialmente ed etnicamente integrato.

Coalizione di costruttori

L’opposizione al progetto viene subito coordinata dal Committee Against Socialist Housing, una coalizione di costruttori, padroni affittuari e grandi interessi edili che gode del notevole supporto dei corsivisti del Los Angeles Times. L’”anticomunismo edile” non è una novità: già nel 1948 le housing hearings, i dibattimenti parlamentari sulla casa indetti a Washington furono dominate nientemeno che dal senatore Joseph McCarthy che le affrontò con lo stile che avrebbe di lì a poco applicato alla caccia ai comunisti del Dipartimento di stato e di Hollywood.

Alleato con Herbert U. Nelson, presidente della Nareb,McCarthy riuscì ad affossare la proposta di legge (decreto Taft-Ellender- Wagner) che avrebbe dovuto stanziare fondi pubblici per incentivare la progettazione urbanistica. » così che nel dibattito in corso a Los Angeles sul progetto “Chavez Ravine” l’attenzione si sposta d’improvviso sui “moventi” di Wilkinson, che in una seduta pubblica del consiglio municipale per l’edilizia viene invitato ad elencare le organizzazioni politiche cui appartiene. Il rifiuto sdegnato di rispondere porta al suo licenziamento dall’authority e poi a una serie di convocazioni da parte della Huac (House Unamerican Activities Commission) di Mc Carthy fino a quella nel 1958 che lo condannò a nove mesi di reclusione per essersi rifiutato di collaborare, pena confermata in appello dalla Corte suprema per 5 voti contro 4. Malgrado il movimento in suo sostegno, Wilkinson sconta in un penitenziario federale una delle pene più lunghe inflitte durante la caccia alle streghe.

Al rilascio, la carriera di Wilkinson è finita. Lavora per un periodo come guardiano notturno per un’azienda di Pasadena che lo assume segretamente per evitare ripercussioni. Il progetto di “Chavez Ravine” viene archiviato, anche se il quartiere popolare viene effettivamente demolito dalle ruspe, i baraccati trasferiti di forza e il terreno adibito alla costruzione dello stadio di baseball preteso da Walter OíMalley, padrone dei Brooklyn Dodgers, per trasferire la squadra da Brooklyn a Los Angeles.

McCarthy, all’apice dell’influenza, passa all’attacco dell’industria culturale di Hollywood ma non solo: nel mirino della Huac ci sono intellettuali, progressisti, sindacalisti, insegnanti; fra questi ultimi, epurati con particolare dovizia, anche Jean Wilkinson, la moglie di Frank.

Wilkinson non si occuperà mai più di architettura e politica urbana ma si consacrerà invece alla battaglia per i diritti civili imbastendo una serie di cause per la propria riabilitazione, organizzando, con la Aclu (American Civil Liberties Union) un comitato di difesa dei testimoni convocati dai tribunali di McCarthy ed in seguito costituendo il comitato per l’abolizione del Huac. Nel corso del suo contenzioso trentennale col governo scoprirà l’esistenza sul suo conto di un dossier del Fbi di 132.000 pagine frutto della sorveglianza Cointelpro (il programma di diffamazione con cui il bureau mirava a destabilizzare “sovversivi” come Martin Luther King e le Pantere nere) che rivela che la trasmissione al capo della polizia di Los Angeles degli atti serviti a “neutralizzarlo “ era stata ordinata dallo stesso J. Edgar Hoover.

Il baricentro si sposta in periferia

La sua lotta avrà esito nel 1975, quando la Huac verrà infine sciolta. Ma nell’urbanistica americana si è intanto determinata un’inversione epocale di rotta: se per cinquant’anni lo sviluppo era avvenuto nei grossi centri urbani, come ha scritto Dolores Hayden, i prossimi decenni avrebbero spostato il baricentro dell’edificazione in periferia, non più cioè verso lo sviluppo di quartieri e città ma verso la moltiplicazione di contigui comprensori. Una privatizzazione dello spazio urbano che avviene a scapito dei servizi pubblici e a netto favore del complesso edil-industriale, fatto di megacostruttori e di una gigantesca industria del legno che tuttora gestisce lo sviluppo. Secondo il progetto dell’industria viene definitivamente eclissato il concetto di casa come diritto civile a favore di quello che ne fa una “comodità “, oggetto di consumo di massa e proprietà, disegnando con le città americane, salvo poche eccezioni, una geografia del capitalismo avanzato fatta di villini, automobili e shopping center.

Nota: quello trattato qui da Luca Celada è un tema molto presente in questo sito, e nel parallelo Eddyburg, su cui ho inserito per esempio a suo tempo sia le recensioni a Dolores Haydenche uno studio contemporaneo sul caso di Levittown (f.b.)

BOLOGNA. Mentre il Governo nazionale, anche nell’ultimo scorcio di mandato, conferma il suo disinteresse per ogni tipo di politica e di intervento finanziario capaci di indicare una direzione di gestione dell’emergenza abitativa, dall’istituto di ricerche «Nomisma» arrivano alcuni dati interessanti, che contribuiscono, tra l’altro, a frenare l’entusiasmo di chi vede nella dimensione proprietaria della casa l’unica via possibile ed efficiente per affrontare questo diritto primario delle famiglie.

Alla fine del mese di novembre 2005 l’istituto fondato da Romano Prodi ha pubblicato una ricerca, commissionata dall’ASPPI, dal titolo «Il mercato abitativo italiano: un’analisi territoriale sullo stato, la conservazione, la redditività», nella quale vengono esaminati, tra l’altro, i vantaggi delle diverse soluzioni abitative cui si affidano i cittadini delle grandi città italiane.

Il rapporto tra mutuo e affitto – scrive Nomisma nella ricerca – risulta mediamente pari all’87%, quota che non favorendo né l’una né l’altra soluzione, lascia ampio spazio ad altri fattori di costo e di incertezza che accompagnano la decisione dell’acquisto. Comprare casa sembra quindi una scelta non sempre vantaggiosa, almeno economicamente. Soprattutto in città come Bologna, dove – stando sempre ai risultati della ricerca – per appartamenti di dimensioni inferiori ai centro metri quadrati – cioè alle dimensioni medie della produzione residenziale degli ultimi decenni - risulta in netto vantaggio l’affitto rispetto al mutuo. Condizione accentuata, in prospettiva, dall’aumento dei tassi del costo del denaro previsto dalla BCE.

Ma perché mai dovrebbe risultare vantaggioso affittare una casa a un canone pur inferiore della rata del mutuo, ma improduttivo in termini d’investimento nel luogo periodo?

Intanto perché alla rata del mutuo si sommano spese che gli affittuari non hanno: imposte statali e comunali, costi di istruttoria e gestione delle pratiche del mutuo e delle transazioni, spese per manutenzioni ordinarie e straordinarie dell’immobile, spese per eventi incidentali. Voci di costo che spesso, per i proprietari con maggiori vincoli di bilancio familiare, rappresentano carichi difficilmente affrontabili, se non a scapito di altri consumi, in un ciclo che rischia da un lato di ingessare l’economia e dall’altro di ridurre le possibilità di sviluppo degli individui.

Poi – non ultime – ci sono le esigenze lavorative. L’instabilità del mercato del lavoro, la mobilità richiesta dei nuovi paradigmi produttivi, le incertezze congiunturali, sono tutti fattori che inibiscono la «stanzialità residenziale», in special modo nella popolazione più giovane, che trova tuttavia un mercato, e uno Stato, in grave ritardo nel rispondere a queste esigenze.

Nonostante le indicazioni che emergono dalle rilevazioni empiriche si continuano però ad immettere sul mercato nuove abitazioni per la vendita e a sostenerla in vari modi (mutui agevolati, stanziamenti pubblici a fondo perduto ecc.), ritenendola una strategia coerente con le necessità della popolazione. Ciò che a prima vista sembrerebbe paradossale, o miope, trova una parziale giustificazione se si considera che la produzione edilizia non solo ha sostenuto, in questi ultimi e difficili anni, l’economia e le imprese, ma ha alimentato le entrate degli enti locali e ha fornito lavoro per la popolazione di nuova immigrazione.

Nelle opulente e trainanti città dell’Emilia-Romagna – e non solo qui – il settore delle costruzioni, negli ultimi due decenni ha mostrato tassi di crescita da record, arrivando anche a raddoppiare gli addetti grazie soprattutto agli incrementi di produzione, per certi versi paragonabili a quelli registrati durante il boom edilizio degli anni sessanta. Così oggi, anche per conseguenza dei diversi dispositivi federalisti, non stupisce che un terzo delle entrate correnti dei comuni emiliani provengano dall’ICI, che una quota assai rilevante derivi dai contributi di costruzione, e che il governo urbanistico sia annichilito dalla «ragion di stato» dei bilanci.

Questo sistema ha prodotto anche un’altra esternalità negativa, difficilmente trascurabile: una parte rilevante delle famiglie, specialmente quelle di nuova formazione, non è nelle condizioni economiche di pagare agevolmente né un affitto né un mutuo. Una condizione di indifferenza rilevata, in altro senso, anche dal mercato, nella citata indagine di «Nomisma».

Si tratta di capire, a questo punto, che futuro possano avere una città, una regione o un Paese, sostenuti da una economia implicitamente orientata a sottrarre vivibilità alle famiglie. E che senso possa avere, in assenza di una severa riforma della fiscalità locale, la politica abitativa pubblica.

Titolo originale: Regional differences– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Se un documento prodotto a Whitehall suggerisce esperimenti pilota per città-regione, probabilmente nelle amministrazioni della Grande Manchester si starà borbottando sotto voce: “ma perché ci avete messo tanto?”. La discussione sulle città-regione dura da decenni, ma solo ora il governo si è accorto delle loro potenzialità.

Richard Leese, leader del Labour al consiglio cittadino di Manchester e appassionato sostenitore delle città-regione, si sta aspettando davvero che la Grande Manchester venga nominata fra gli esperimenti pilota prima della fine del mese. “ Greater Manchester è un’area che possiede le infrastrutture migliori per cominciare ad assumere un ruolo di governo superiore” dice. “Non si tratta di superiorità su altre città-regione, ma di una conseguenza della storia della Grande Manchester da quando è stato abolito il consiglio di contea e l’inera area è riuscita a mantenere forte identità attraverso la Association of Greater Manchester Authorities (Agma). Una struttura che ha operato attraverso decisioni da parte di leaders di 10 distretti: sono stati discussi grandi temi come i trasporti, lo sviluppo economico, e raggiunte intese di carattere generale su una base di consenso”.

Il termine “ città-regione” si riferisce ad un livello politico e strategico di amministrazione e decisione simile alle deleghe speciali per Londra, ma non necessariamente secondo le stesse modalità di struttura e governo. Una città-regione è individuata come “ città centrale” e suo “ hinterland” con confini geografici chiaramente definiti. Ora che l’idea di assemblee regionali elettive è affondato senza lasciare tracce dopo un disastroso referendum nel 2004, il ministro per il governo locale, David Miliband, si è entusiasmato per questo approccio più flessibile al decentramento regionale, che potrebbe essere adottao da alcune delle otto città centrali del Regno Unito. Che comprendono Birmingham, Leeds, Newcastle, e Sheffield, oltre alla Grande Manchester.

Lo scorso mese è stato pubblicato un rapporto sull’argomento dal think-tank New Local Government Network che sottolinea l’evidenza di come “”città dotate di maggior indipendenza politica e fiscale sono più propulsive, intraprendenti e competitive”. Le città-regione assumerebbero alcune funzioni delle assemblee regionali, come ad esempio le responsabilità sui trasporti, coinvolgendo altri soggetti interessati – di fatto le imprese – come già accaduto a Manchester. Il rapporto auspicava una “sanzione legislativa” da parte del governo per rendere la città-regione una realtà.



L’esperienza di Manchester

Nella Greater Manchester, i membri della Agma, che si riuniscono ogni mese, ritengono che una città-regione leverebbe di mezzo la fissazione su Londra come unico motore economico del paese, facendo da guida per una politica della Northern Way. La Grande Manchester è una delle tre regioni della Northern Way, piano regionale di sviluppo per incrementare il livello economico sino alla media europea.

Sin da quando è stato abolito il Greater Manchester Council nell’ambito di una riorganizzazione di confini, la collaborazione è diventata la pietra di paragone della cultura di governo locale, nonostante le oscillazioni di maggioranza politica dei vari consigli nel tempo. Il comitato esecutivo istituito alla Agma, per esempio, consente ai leaders di orientare i fondi governativi verso i casi più urgenti. La nuova circonvallazione di Salford è il risultato di un accordo congiunto che stabiliva come priorità regionale l’accessibilità ai posti di lavoro nella vicina Oldham.

L’eredità dei vecchi confini, di quando esisteva ancora un consiglio di contea, ha lasciato alcuni utili residui. Il braccio economico dei defunti consigli per l’istruzione e la formazione professionale è diventato la Manchester Enterprises, istituita dalle autorità locali come agenzia di marketing per la regione. Le camere di commercio locali hanno ritenuto opportuno amalgamarsi in un’unica unità coi medesimi confini.

C’è molto altro in comune fra le autorità locali sui modi per rendere operante una città-regione: una crescita dal basso, anziché secondo un modello imposto dall’alto, è considerata irrinunciabile; finanziamenti da parte del governo centrale per progetti chiave come quelli sui trasporti; e una certa riluttanza ad assumere poteri di raccolta risorse, che si sono rivelati la campana a morto al referendum sull’assemblea regionale eletta del nord-est. Pochi sembrano credere che l’assemblea del nord-ovest, articolata per entità sub-regionali, sarà smantellata e le sue funzioni trasferite. Sembra esistere la possibilità di una felice coesistenza, anche se si tratta di un punto di vista dipendente dalle linee politiche.



La lista dei desideri politici

Nonostante l’insistenza sulla collaborazione cooperativa fra le 10 autorità, il desiderio personale di Leese sulla legge è il dovere, di collaborare, e la richiesta di un organismo congiunto composto dalle amministrazioni locali.

Susan Fildes, unica esponente Tory in un’area dominata dal Labour, avverte chiaramente che si potrebbero migliorare le relazioni di lavoro. In quanto leader di Trafford, sede del Manchester United e uno dei principali parchi industriali d’Europa, la Fildes si preoccupa per la parità degli enti locali, indipendentemente dalla quantità di popolazione o se siano o meno consigli collocati nello “ hinterland”.

”Ci dovrebbe essere maggior riconoscimento di come Trafford possa svolgere un ruolo da punto di vista economico” dice. “Dovrebbe funzionare in modo che ciascuna autorità locale abbia un peso identico dal punto di vista delle politiche da sviluppare, ma naturalmente poi prevale la dimensione politica del partito”.

La signora Fildes è chiarissima sul fatto che, se la città-regione inizierà ad assomigliare sotto sotto a un’assemblea regionale eletta, il suo entusiasmo politico sparirà. “Secondo me, una città-regione è un concetto economico e territoriale, in cui all’interno di una regione si collabora perché tutte le entità elette lavorino al miglioramento dell’insieme” dice.

Quello a cui tutti sono decisamente contrari, è l’idea di avere un mayor eletto a capo di una grande città, un modello di leadership simile a quello della capitale. John Merry, leader del consiglio di Salford, da’ voce al punto di vista dei colleghi. “La nostra proposta non è quella di avere una figura di mayor eletto, ma di un comitato esecutivo. Non vogliamo che venga imposta una sola struttura, e passare attraverso tutta la trafila di chiacchiere e opposizioni che ciò comporta”.

Howard Bernstein, chief executive del consiglio cittadino di Manchester, concorda. “Ken Livingstone è una grande mayor per Londra, ma lì non ‘era alcuna leadership prima. Queste figure funzionano in alcuni casi, in partcolare se esiste il modo di costruire una efficace guida cittadina, ma credo che si tratti proprio dell’ultimo dei nostri problemi”.

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Il problema sollevato da Giovenale nei suoi due articoli del 20 dicembre e del 4 gennaio sulla necessità o meno di nuove costruzioni per affrontare il disagio abitativo si lega indissolubilmente a quello della cosiddetta “programmazione negoziata”, che a partire dai Programmi Integrati di Intervento introdotti nel 1992 ha progressivamente dissolto ogni orizzonte di bilancio pubblico complessivo nei criteri di utilizzo della città e del territorio.

Se si ragiona in termini di piano di governo complessivo, la quota di edilizia sociale è una parte dell’edificabilità ritenuta ambientalmente sostenibile e va, quindi, sottratta a quella privata; se, invece, si ragiona in termini di “programmazione negoziata”, l’edilizia sociale (così come le attrezzature urbane necessarie) è una quota aggiuntiva contrattata con la proprietà dopo che questa ha fissato autonomamente il proprio livello di redditività e la sostenibilità ambientale della quantità edificabile è una variabile dipendente dagli altri fattori (redditività privata + servizi pubblici e sociali).

Il tema si era già posto nel 1962 con la legge 167 sull’edilizia popolare, sia pure in termini non strettamente di sostenibilità ambientale, ma piuttosto di corretto assetto insediativo. L’art. 3 della legge diceva: “Le aree da comprendere nei piani (di edilizia pubblica) sono di norma scelte nelle zone destinate ad edilizia residenziale nei piani regolatori vigenti... Ove si manifesti l’esigenza di reperire in parte le aree in zone non destinate all’edilizia residenziale nei piani regolatori...si può procedere con varianti agli stessi.”

E’ noto che i Comuni, di sinistra o di destra che fossero, ritennero preferibile destinare in massa nuove aree agricole all’edificazione pubblica, ritenendolo socialmente più tollerabile che incidere sulle aspettative edificatorie dei privati, ma a scapito della logica insediativa (ciò che può spiegare il malanimo degli utenti assegnatari cui ha accennato Simoni nella sua precisazione) e in prospettiva storica della sostenibilità ambientale dell’insediamento, come abbiamo verificato poi.

Oggi il tema si ripropone col dilagare della “programmazione negoziata”, presentata dai fautori del neoliberismo urbanistico come superamento della tradizionale e a loro parere vetusta concezione pianificatoria per approdare a quella di una neonata “economistica”, che denuncia clamorosamente come questa negoziazione “ad personam” riduca il tanto declamato principio di “sussidiarietà” dell’Ente pubblico ad una sua succube subordinazione agli interessi economici forti, senza nessuna interlocuzione con le esigenze dei cittadini e con i criteri di sostenibilità ambientale degli interventi.

Occorre, invece, che le quantità edificatorie previste siano vengano definite dai Comuni, sia pure nelle forme più attuali ed articolate, in base ai criteri di sostenibilità ambientale dell’insediamento e alle dotazioni di aree e servizi pubblici necessari alle esigenze di vita dei cittadini.

Ciò significa chiudere definitivamente la stagione della “programmazione negoziata”, che si è dimostrata un gioco truccato, in cui a perdere sono sempre gli interessi ambientali e di vivibilità urbana dei cittadini.

L’obiettivo della ripresa della capacità di indirizzo pubblico va oggi assunto con chiarezza e determinazione dalle forze politiche del centrosinistra anche alla luce delle direttive europee sulla Valutazione Ambientale Strategica e della concezione della città e del territorio come beni comuni non negoziabili.

E’ sorprendente che nel momento in cui anche da parte di alcuni esponenti DS si propone l’adozione di criteri di valutazione del PIL che tengano conto dei costi di sostenibilità ambientale, alleanze trasversali tra rappresentanti UDC/FI/Margherita (Verga, Lupi, Mantini) continuino a sostenere la liceità di una preminente visione economistica in tema di strumenti di governo della città e del territorio.

Titolo originale: Robot car: streets ahead in cities of the future – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Non è cosa di tutti i giorni, che un nuovo concetto di automobile riscriva le regole di oltre cent’anni di motorizzazione. In corso di sviluppo da quattro anni da parte di un gruppi di architetti e ingegneri guidato da William Mitchell, già a capo della scuola di architettura al Massachusetts Institute of Technology (MIT), nell’ambito del suo gruppo di ricerca Smart Cities, è nata la nuova auto targata MIT, da un completo ripensamento dei rapporti delle persone con la propria automobile, nelle città in crescita del futuro.

Il professor Mitchell prevede che condivideremo le auto con cui sarà più facile guidare nelle città congestionate, che saranno non inquinanti e potranno essere usate a piacimento.

Questo prototipo di city car, con design dell’architetto Frank Gehry, sarà completato e consegnato dal MIT alla General Motors all’inizio dell’anno.

”Siamo interessati principalmente alla vita urbana” dice Ryan Chin, architetto e ingegnere al media lab del MIT e membro del programma di ricerca del prof. Mitchell. “Tutto discende da come pensiamo sarà la città del futuro”.

Il gruppo Smart Cities si concentra su come possano essere meglio adeguate le auto ad affrontare i problemi noti della vita urbana, ovvero congestione, inquinamento e parcheggi. Le aziende automobilistiche sono ben consapevoli del problema. Ma il gruppo ritiene che non abbiano capito il punto, anche con vetture cittadine come la Smart, l’auto simbolo a due posti introdotta da Swatch e Mercedes nel 1998.

”Non dobbiamo pensare alle vetture da città come semplici veicoli che occupano poco spazio e si possano adattare a ambiti ristretti, ma che possano invece lavorare all’unisono, essere quasi dei parassiti, aggrappati ai sistemi di trasporto di massa” dice Chin. Se la Smart ha cambiato il modo di pensare al parcheggio e alle dimensioni, gli ingegneri del MIT avvertono che il suo successo è stato limitato perché non è stata adottata in modo diffuso e non ha fatto molto per i problemi di congestione e inquinamento.

Così la squadra MIT è partita da zero per realizzare la propria idea: una vettura a due posti facile da immagazzinare ripiegata, condivisibile, elettrica. “Immaginatevi un carrello della spesa – veicoli che è possibile infilare l’uno nell’altro – che è possibile estrarre dalla fila, e andarsene via” dice Chin. “Queste file sarebbero collocate in tutta la città. Una buona posizione sarebbe fuori dalle fermate della metropolitana, o dell’autobus, o all’aeroporto, luoghi dove convergono persone e linee di trasporto”.

I precedenti di questo tipo di mezzo di trasporto condiviso sono verificabili nei piani di bicycle-sharing delle città europee, e nei progetti ZipCar e FlexCar rispettivamente sulla costa orientale e occidentale degli USA.

La concept car del MIT è un completo ripensamento della tecnologia di un veicolo. Per cominciare, non c’è un motore, almeno in senso tradizionale. L’energia viene da apparecchi chiamati ruote-robot. “Sono elementi ruota autosufficienti che contengono un motore elettrico” racconta Chin. “La cosa interessante è che la ruota può girare di 360 gradi in modo da avere movimento in tutte le direzioni. È possibile girare la macchina mentre ci si sta muovendo, qualunque direzione può diventare in avanti o all’indietro, si possono fare cose come muoversi lateralmente o di traverso. È quasi come immaginereste di guidare un sedile computerizzato”.

Le ruote robot, complete di propria sospensione, eliminano il bisogno di una scocca di guida e blocco motore, lasciando liberi i progettisti di fare un uso diverso dello spazio dell’auto.

”Essenzialmente l’auto si compone di quattro ruote robot e di uno chassis adattabile” dice Chin. “Il telaio può essere realizzato in modo specifico per ogni cliente”.

Aggiungete sottilissimi display programmabili che coprono interno ed esterno dell’auto come uno strato di vernice, e avrete ottenuto un veicolo che può essere adattato a piacere. “Si può immaginare il sistema di segnalazione come qualcosa di non necessariamente statico, ma anche dinamico” suggerisce Chin, che propone a dichiarare le intenzioni del conducente parole come “ in inversione” oppure “ sto svoltando a sinistra” che scorrono lungo il corpo della vettura. “Dal punto di vista della climatizzazione, si potrebbe volere la propria auto più chiara o più scura a seconda del tempo. All’interno, è possibile adattare il cruscotto a ciascuna persona. Se sono anziano, magari vorrò un indicatore più grosso in modo da vederlo meglio; se sono un pilota da corsa, forse mi basta un tachimetro”.

La grande vicinanza delle auto l’una all’altra in città aumenta il rischio di incidenti, e l’auto del MIT contiene una serie di idee radicali per affrontare il problema. Le caratteristiche principali di sicurezza comprendono sedili attivi che eliminano il bisogno di cinture e air bags: tutto si basa su una colonna vertebrale lungo lo schienale con una serie di “dita” per avvolgere il passeggero e mantenerlo al suo posto se l’auto capisce che si è coinvolti in un incidente. E la cabina assorbirà gli impatti degli urti utilizzando nuovi materiali. “Ci sono evoluzioni nel campo dei fluidi che è possibile magnetizzare, in modo da trasformarsi dallo stato liquido a quello solido in un nanosecondo. È possibile immaginare l’uso di questi fluidi come metodo per assorbire energia in un impatto”.

Nei prossimi mesi il gruppo del MIT completerà il progetto definitivo per presentare i risultati alla General Motors, che costruirà il primo prototipo. Oltre a ciò, Chin sta già cercando di organizzare un esperimento pubblico in Estremo Oriente. “Potremmo provare a Hong Kong o a Singapore” dice. “L’interesse di quei posti è che sono molto densi, hanno trasporti pubblici e dimensioni limitate. Un’isola come Hong Kong sarebbe il posto perfetto per un test perché esistono tutte le condizioni”.

Resta ancora da vedere se questa idea di city car possa un giorno comparire nei garages e cortili, così come concepita dal gruppo Smart Cities, oppure se le varie tecniche saranno sviluppate singolarmente. Chin dice che il gruppo sarà soddisfatto in entrambi i casi.

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Titolo originale: Fury greets new plan for Heathrow expansion – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

È pronta a scoppiare la più aspra battaglia imbientale di una generazione, sui progetti del governo per dare il via libera ad una massiccia espansione dell’aeroporto di Heathrow.

Migliaia di persone potrebbero essere obbligate ad abbandonare le proprie abitazioni, affermano gli attivisti, che si sono impegnati a fermare i lavori con ogni mezzo.

Si credeva che i piani per costruire una terza pista in quello che è già uno dei più affollati aeroporti del mondo fossero stati frustrati per la minaccia di inquinamento dall’aumento dei voli.

Gordon Brown ha espresso la propria determinazione a trovare un modo di aggirare il problema, promuovendo un nuovo studio finalizzato a “trovare soluzioni che consentano” la costruzione della pista. La mossa riflette i timori più generali di Brown per i problemi economici generati da anni di contese su nuovi porti, aeroporti e strade.

La notizia ha riempito di orrore gruppi verdi e organizzazioni locali. Ieri, hanno avvisato che dare il semaforo verde a Heathrow significa innescare un’enorme reazione, non solo da parte degli abitanti dei corridoi di volo, ma anche da quella del più ampio movimento ambientalista.

John McDonnell, deputato del Labour per il collegio Hayes e Harlington vicino all’aeroporto, ha incontrato il ministro responsabile Karen Buck poco prima di Natale.

Ha confermato che il governo vuole andare avanti celermente: “Il governo e il settore stanno facendo tutto quanto possibile per tentare di creare un’atmosfera di inevitabilità per quanto riguarda Heathrow”. Comunque, avverte, non comprendono la difficoltà dell’impresa: “Indipendentemente da quello che vogliono i ministri, non si può aggirare il dato dell’inquinamento. E hanno sottostimato il potenziale di una campagna ambientalista. Il deputato conservatore del collegio vicino al mio, John Randall, ha minacciato di sdraiarsi di fronte alle ruspe. Stiamo attirando anche gli Swampys dell’opposizione [attivisti ambientalisti conservatori] sul problema”.

McDonnell afferma che migliaia di persone potrebbero essere obbligate ad abbandonare le proprie case, perché l’ampliamento dell’aeroporto le renderebbe invivibili. E comunque, anche altri studi indicano che il numero di abitazioni interessate potrebbe essere di parecchie centinaia.

I rapresentanti del settore aereo sostengono che l’economia britannica perderà miliardi di sterline se l’ipercongestionato Heathrow perdesse traffico a favore dei concorrenti europei, e uomini d’affari evitassero la Gran Bretagna per essere più vicini alla rete internazionale.

Nel rapporto governativo sull’aviazione del 2003, si afferma che l’ampliamento di Heathrow sarebbe stato bloccato e rinviato per almeno 10-15 anni a causa delle difficoltà col rumore e l’inquinamento. Si raccomanda invece una nuova pista all’aeroporto di Stansted in Essex.

Ma in alcune osservazioni nascoste nelle pieghe del recente rapporto pre-Budget, emerse solo di recente, il Cancelliere sottolinea l’importanza economica del ruolo unico di Heathrow per la crescita dell’intero paese.

E descrive in dettaglio progetti per un lavoro di simulazione “ampio” che porti a “comprendere natura e dimensioni” del problema di inquinamento atmosferico a Heathrow, aggiungendo:

”Questo lavoro mira a individuare soluzioni che consentano la costruzione di una terza pista, da realizzarsi entro ampi limiti di qualità dell’aria”. Brown è noto per la volontà di accelerare i progetti di grandi infrastrutture come gli aeroporti, attraverso decisioni prese su basi “nazionali e strategiche” – come i vantaggi economici – anziché impantanarsi in anni di dispute locali.

Un forte sostegno ai ministri per Heathrow dal punto di vista trasportistico verrà anche dall’ex direttore generale British Airways Rod Eddington, da cui ci si aspetta per la prossima primavera una raccomandazione a far avanzare il processo decisionale.

Gli attivisti affermano che i commenti di Brown rappresentano un significativo spostamento a favore della terza pista, e riflettono sia nuove ricerche che sostengono come l’inquinamento degli aerei non sia grave come temuto, sia le crescenti preoccupazioni che la società responsabile per l’aeroporto non sia in grado di raccogliere i fondi per ampliare Stansted.

”Mentre tutti guardano a Stansted, sta emergendo senza che nessuno se ne accorga tutto questo lavoro su Heathrow” afferma John Stewart, presidente del gruppo anti-ampliamento Hacan ClearSkies. “[Brown] non dice qualcosa, se non pensa che succederà”.

Tony Bosworth, degli Amici della Terra, avverte che l’impatto ambientale potrebbe essere il più grave dai tempi del discusso progetto stradale a Twyford Down e Newbury negli anni ‘90: “Sarà una enorme cause célèbre per il movimento ambientalista”.

Lord Soley, già deputato per il Labour in un collegio a ovest di Londra e responsabile dell’associazione pro-ampliamento Future Heathrow, afferma che sia il Cancelliere che il Primo Ministro sostengono la causa di Heathrow, e aggiunge: “Tony e Gordon capiscono come sta cambiando l’economia mondiale, e come si debba restare all’avanguardia tecnologica in Europa. Ciò significa che non possiamo permettere ad un settore chiave high-tech, come quello di aeroporti e aeroplani, di restare indietro”.

Un fonte del Tesono afferma che Brown considera prioritario rendere più semplice l’ampliamento degli aeroporti del Regno Unito, ma aggiunge: “Si sta aspettando il parere di Eddington prima di fare qualunque mossa”. Le scelte definitive per Heathrow non saranno presentate ai ministri prima del prossimo autunno. Questo mutamento di rotta ha fatto ipotizzare che il governo stia pensando di rinunciare all’opzione dell’ampliamento a Stansted.

Nota: scaricabile da qui: Department of Transport, The Future of Air Transport, White Paper, Chapter 11: The South East (f.b.)

here English version

In seguito alla lunga fase di crescita del prezzo di acquisto e di affitto delle abitazioni l’accesso alla casa è diventato proibitivo per larga parte della popolazione, mentre il patrimonio immobiliare rimane per una parte significativa improduttivo e segnato da un’opacità fiscale. Tre problemi che vanno affrontati insieme, innanzitutto attraverso una profonda e complessiva revisione del trattamento fiscale della casa, da articolare sotto diversi profili. Si dovrebbe inoltre avviare un grande piano per la costruzione di alloggi nelle grandi e nelle medie città, per favorire l’accesso all’abitazione delle giovani coppie.

Siamo nella fase finale di una lunga fase di crescita del prezzo delle abitazioni, che ha determinato effetti sociali ed economici importanti. Si vendono molte case, grazie ai tassi di interesse contenuti, ma l’accesso all’abitazione per larga parte della popolazione è diventato proibitivo per l’elevato prezzo di acquisto e per l’alto livello raggiunto dagli affitti in particolare nelle grandi città. La casa è il problema principale che devono affrontare le giovani coppie, ed è diventato un problema grave anche per molti anziani non proprietari, le cui pensioni non sono sufficienti a sostenere il maggior costo degli affitti.

Dal punto di vista economico il problema è altrettanto rilevante perché la componente immobiliare è una parte rilevante del patrimonio degli italiani, ma è per una parte considerevole un patrimonio inattivo e improduttivo, il che ne fa una ricchezza utilizzata in maniera inefficiente, come dimostra il gran numero di case sfitte e l’ancora più grande numero di abitazioni che hanno dimensioni non ottimali rispetto alle esigenze di colore che le occupano. Nel suo complesso il patrimonio immobiliare è anche caratterizzato da una grande opacità fiscale e da una tassazione che non favorisce la trasparenza, la mobilità, una più corretta allocazione delle risorse e una vera efficienza del mercato. Tutti e tre questi problemi vanno affrontati congiuntamente, al fine di avere un mercato immobiliare più trasparente ed efficiente, una più efficiente allocazione delle risorse, una più facile mobilità delle persone sul territorio, un più facile accesso all’abitazione per le giovani coppie.

Gli strumenti per affrontare la questione possono essere di varia natura. Il primo riguarda il trattamento fiscale della casa, al momento dell’acquisto e della vendita, nel perdurare della proprietà, nell’affitto attivo e passivo, e riguarda tutti i soggetti coinvolti: venditori e compratori, intermediari, proprietari locatori e locatari. L’obiettivo di una revisione complessiva del trattamento fiscale della casa non deve essere quello dell’aumento di gettito ma della trasparenza fiscale e di un trattamento che favorisca la migliore allocazione delle risorse. Il maggiore gettito dovrebbe essere quello derivante dalla trasparenza (e quindi da una sostanziale riduzione dell’evasione), e dalla maggiore vitalità economica del settore.

Partiamo da una situazione falsata alla base da estimi catastali che non corrispondono ai valori effettivi degli immobili. Il primo punto da affrontare quindi è quello di una revisione dei valori catastali per portarli a livelli realistici. Perché l’aumento dei valori catastali non si trasformi in un aumento del prelievo, contestualmente vanno riviste tutte le aliquote che hanno come riferimento i valori catastali al fine di rendere l’aggiornamento del catasto indifferente ai fini del prelievo. Il secondo punto è modificare le imposte sulle transazioni, in modo da rendere meno oneroso il passaggio di proprietà, o addirittura fiscalmente nullo per chi passa da una abitazione ad un’altra più consona alle proprie esigenze (per dimensione o localizzazione o qualsivoglia altra ragione). Cambiare casa deve diventare più facile e sostanzialmente meno costoso, per facilitare il passaggio da una città ad un’altra o da un quartiere ad un altro, secondo le esigenze crescenti determinate dalla mobilità del lavoro; il passaggio da una casa piccola ad una più grande con il crescere della famiglia e da una grande ad una più piccola per esempio per gli anziani. Una effettiva corrispondenza tra i valori catastali e quelli di mercato, insieme ad una tassazione più equilibrata delle compravendite, può rendere più trasparenti fiscalmente le transazioni senza danneggiare soverchiamente il gettito. Si possono prevedere sconti fiscali per passaggi di abitazione.

Va anche prevista una parziale deducibilità, da distribuire in più anni, dei costi di intermediazione, sia per ridurre l’onere rilevante di questa voce, sia per rendere - attraverso l’interesse alla trasparenza fiscale di venditore ed acquirente - meno facile l’evasione in questo settore. Va affrontato sul piano fiscale anche il trattamento degli affitti, che oggi vanno a cumularsi al reddito del locatore (persona fisica) con l’applicazione dell’aliquota marginale più alta. Questo rende meno conveniente affittare e favorisce una massiccia evasione. Una soluzione potrebbe essere assoggettare l’affitto percepito ad una aliquota fissa (per esempio del 20%) in linea con il trattamento fiscale (auspicabile) delle rendite di natura finanziaria. Questa equiparazione ha una logica funzionale ma anche di equità all’interno di un più equilibrato trattamento delle rendite di qualsiasi natura. Per equità e al contempo per scoraggiare l’evasione si dovrebbe introdurre anche la detraibilità di una quota dell’affitto, uguale per tutti, per esempio nella misura di 200 euro mensili. L’impatto sul gettito sarebbe probabilmente compensato dalla riduzione dell’evasione e darebbe un sollievo non marginale alle famiglie (ma si dovranno individuare misure per non svantaggiare i proprietari della casa di abitazione rispetto agli affittuari). Anche nel caso degli affitti dovrebbe essere consentita la parziale deducibilità dei costi di intermediazione, sia per ridurre l’evasione che per rendere meno onerosa la mobilità. L’intera normativa dovrebbe estendersi, soprattutto a fini di trasparenza fiscale, anche agli affitti temporanei.

Per favorire un adeguato livello di manutenzione delle case andrebbe ribadita la deducibilità parziale dei costi ristrutturazione, mentre - Bruxelles permettendo - andrebbe ridotta sostanzialmente l’Iva sugli interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione per combattere una delle più diffuse aree di evasione fiscale. Tutto ciò dovrebbe essere accompagnato da norme efficaci per garantire il rispetto della durata dei contratti di locazione, al fine di rimuovere uno degli ostacoli più rilevanti all’affitto.

Insieme alla profonda revisione del trattamento fiscale della casa che qui proponiamo, andrebbe avviato un grande piano per la costruzione di alloggi nelle grandi e nelle medie città per favorire l’accesso all’abitazione delle giovani coppie. Questi piani, da elaborare in collaborazione con i comuni interessati, potrebbero essere finanziati con fondi privati (anche con l’emissione di titoli a lunghissimo termine garantiti dalle pubbliche amministrazioni e, se possibile anche con contributi in conto interessi) da ammortizzare con piani di riscatto trentennali o anche di maggiore durata.

L'articolo è tratto da questo sito, nel quale è inserito anche un breve commento di Edoardo Salzano. Si vedano anche, in qusta cartella, l'intervento di Giovanni Caudo e le proposte presentate da un gruppo di architetti alla conferenza programmatica dei DS.

In queste ultime settimane il problema della casa è tornato di grande attualità. E’ entrato nell’agenda politica e anche in quella del presidente del consiglio. I giornali hanno seguito a ruota il crescere di interesse e hanno alimentato speranze. Le lotte di strada nelle periferie parigine hanno ulteriormente acceso riflettori e illuminato la questione della casa che si è in alcuni momenti confusa con altri temi: l’immigrazione, il degrado urbano, le periferie italiane, ecc… .

Le forze politiche, in particolare quelle di opposizione, impegnate nella predisposizione dei programmi per la prossima campagna elettorale hanno ricevuto stimoli e sollecitazioni che andavano nella direzione di una nuova centralità della questione casa. Io stesso ho partecipato ad alcuni di questi incontri e ho avuto modo di raccogliere impressioni e stimoli oltre a leggere e commentare documenti e contributi di analisi e di proposte sull’emergenza casa.

Ora che il clamore sembra essersi in parte attenuato penso sia utile fissare qualche punto fermo nel tentativo di evitare che sull’onda dell’emergenza restino nascosti alcuni argomenti che a mio parere sono ineludibili.

Il quadro generale entro cui si collocano queste riflessioni è contenuto negli articoli pubblicati su Eddyburg negli ultimi due anni, a cui rimando.

L’emergenza abitativa, ma possiamo ancora usare il termine disagio, è determinata, in prevalenza, non dalla domanda di alloggi di chi non ha casa ma da chi ha una casa e paga, sempre con maggiore difficoltà, un canone di affitto. La liberalizzazione del mercato degli affitti e la finanziarizzazione del mercato immobiliare hanno scaricato sulle famiglie la crescita della redditività del patrimonio immobiliare.

Negli ultimi 7-8 anni il mercato immobiliare ha ulteriormente accentuato il suo profilo selettivo, esso soddisfa in prevalenza la domanda di casa in proprietà e non risponde ai fabbisogni delle fasce sociali più deboli ma anche, e sempre di più, a quelli delle classi medie e ai molti soggetti che articolano la domanda abitativa (famiglie monopersonali, giovani, lavoratori precari, immigrati, studenti, anziani soli, …). Le società immobiliari hanno fatto profitti mai visti e incrementano il fatturato da un anno all’altro.

I fattori nuovi, quelli che sembrano più determinanti, nel riaffacciarsi della questione abitativa e che la connotano in modo del tutto diverso dal passato sono:

a. la frammentazione della domanda a seguito dell’articolazione dei bisogni abitativi, dei modelli di abitare, delle differenziazioni sociali e culturali;

b. la pressione esercitata dal mercato immobiliare sulle famiglie del cosiddetto ceto-medio a seguito dell’aumento dei canoni di locazione e dell’incremento di valore degli immobili.

Negli stessi anni si è registrato un consistente arretramento della presenza del soggetto pubblico sul versante sia dell’offerta di alloggi sia della formulazione di politiche attive. Nel 1984 le abitazioni costruite con sovvenzioni pubbliche ammontavano a poco meno di 35.000, nel 2004 erano meno di 1.500. Oggi il soggetto pubblico promuove appena l’1% delle iniziative immobiliari.

Dovrebbe quindi esserci un primo atto di sano realismo, proprio da sinistra, che far fare tutto e solo al mercato non è più possibile. Qualcuno nel 1998 con la legge 431 sulla liberalizzazione dei canoni di affitto ci ha creduto, oggi per cominciare a parlare sarebbe bene che si dicesse con chiarezza che quella impostazione non ha funzionato.

Sarebbe bene che si tornasse invece a puntare su un rinnovato protagonismo del soggetto pubblico, non tanto (ovviamente!) nel predisporre direttamente le soluzioni quanto nel porre in essere politiche pubbliche che favoriscano risposte, anche da parte del mercato, in grado di corrispondere ai caratteri delle nuove questioni abitative.

Pertanto qualsiasi azione di policy che rincorre l’attuale andamento del mercato immobiliare è destinata, nonostante le buone intenzioni, a non incontrare la domanda di chi vive una condizione abitativa con crescente vulnerabilità.

Se si condivide questo quadro di contesto i principi che dovrebbero essere contenuti in una azione di programmazione sono:

1. Intercettare con la fiscalità parte degli incrementi di valore, plusvalenze, realizzati dagli investitori immobiliari a fronte del processo di finanziarizzazione degli immobili e favorire l’emersione dei contratti di affitto, oggi in nero. Reinvestire questi introiti a livello locale per finalità sociali.

2. Avviare politiche urbanistiche attive a regia pubblica che comportino il riuso del patrimonio di immobili pubblici e la realizzazione di interventi di riqualificazione urbana e la loro valorizzazione coinvolgendo gli operatori privati.

3. Realizzare un progetto nazionale di housing sociale favorendo la presenza sul mercato di nuovi soggetti e finanziato con la raccolta di risorse economiche non speculative.

1. L’azione sulla fiscalità si può tradurre in alcuni interventi, alcuni dei quali di immediata operatività:

- aumentare la tassa di registro (a favore degli enti locali) per tutte le compravendite di immobili che avvengono nelle aree a forte tensione abitativa (le principali aree metropolitane);

- differenziare la tassazione degli immobili. Gli immobili che risultano affittati con regolare contratto vengono tassati fuori dall’IRPEF con una tassazione equivalente a quella degli strumenti finanziari (oggi il 12,5%). Mentre gli immobili che risultano non affittati vengono tassati dentro l’IRPEF con un canone imputato e contribuiscono all’ammontare dei redditi (la tassazione è quella progressiva sulla base delle soglie di reddito). Per chi stipula contratti di locazione a canoni concordati si possono prefigurare ulteriori incentivi;

- consentire all’affittuario di detrarre dalle tasse, nell’ambito del reddito del nucleo familiare, il canone di affitto secondo soglie di progressività collegate alle diverse soglie di reddito.

Interventi nel medio lungo termine.

- Riclassificazione catastale degli immobili e riequilibrio della rendita catastale.

2. Politiche urbanistiche attive.

Due diversi azioni:

- Recupero e riuso del patrimonio di edilizia pubblica, a partire da quello realizzato con i grandi interventi della legge ex 167. In questi quartieri è possibile avviare interventi di ristrutturazione anche urbanistica che portano ad un migliore uso delle aree, alla realizzazione di servizi e attrezzature, oggi solo sulla carta, e che comportino la realizzazione di spazi pubblici lì dove oggi ci sono solo aree pubbliche spesso degradate.

- Acquisizione di immobili (non solo suoli) per edilizia sociale nell’ambito degli interventi di nuova edificazione e di trasformazione e recupero avviate dagli operatori privati. In molti comuni questo intervento consente già di acquisire il 20-30% dell’edificabilità oltre alle aree destinate agli standard.

3. Il progetto di Housing sociale.

Il PHS ha un carattere integrativo (complementare) alle altre iniziative di policy che la nuova questione abitativa richiede. Esso ha un carattere delimitato ed è rivolto essenzialmente a conseguire due obiettivi generali:

- intervenire nelle grandi aree metropolitane dove maggiore è la pressione dell’emergenza abitativa;

- rispondere alla domanda di quelle famiglie che hanno un reddito troppo alto per l’edilizia residenziale pubblica ma troppo basso per accedere ai valori di mercato, dell’affitto o dell’acquisto. Si tratta di dare risposte concrete ai bisogni di specifici gruppi sociali: giovani coppie, spesso con occupazione precaria, anziani, immigrati e altri soggetti con bisogni abitativi che non prevedono la proprietà della casa ma la considerano un bene d’uso.

Il PHS è finalizzato alla realizzazione di alloggi a basso costo. Le condizioni essenziali per la sua realizzazione sono tre: a) individuare il suolo da edificare a costo basso o nullo; b) intercettare risorse economiche non speculative; c) attivare forme di gestione di tipo privato. In particolare esso si articola:

- nel dare priorità, nella fase di avvio, all’uso di suoli di proprietà pubblica già acquisiti, ad esempio, con la realizzazione dei grandi interventi di edilizia pubblica economica e popolare e oggi non utilizzati o male utilizzati;

- nel promuovere l’utilizzo di risorse non speculative capaci di attivare interventi di dimensioni significative coinvolgendo il soggetto pubblico e il settore del no profit cui spetterà la gestione tecnico operativa;

- nell’individuare interventi che contribuiscano al recupero e alla realizzazione di spazi pubblici prevedendo attività di animazione sociale delle nuove comunità dei residenti e di quelli già insediati.

Il territorio del progetto urbanistico nei prossimi anni sarà quello già urbanizzato. Sarà necessario conoscerlo, modificarlo, ricostruirlo. Dovremmo ripensarlo a partire, come avviene in altri paesi europei, dai grandi quartieri di edilizia pubblica. Il PHS incrocia questo tema più ampio che riguarda il progetto della trasformazione della città contemporanea. E’ necessario aumentare il livello di conoscenza sulla città pubblica costruita. A Roma, ad esempio, si tratta di conoscere un patrimonio consistente (circa 7.000 ha) e di individuare le possibili risorse da poter attivare nei processi di trasformazione della città.

La realizzazione del PHS, compatibilmente con il disposto del titolo V che affida alle Regioni le competenze in materia di alloggi, avviene attraverso un programma nazionale che individui le condizioni normative e le agevolazioni che possono favorire:

- la nascita di soggetti che hanno come scopo la realizzazione di housing sociale nella forma di agenzie di scopo che possono essere costituiti dagli enti locali, o di fondazioni promosse da operatori economici con caratteristiche sociali. Questi soggetti hanno il compito di attivare le risorse economiche non speculative da impegnare per la realizzazione delle case a basso costo. Le risorse possono essere acquisite sul mercato finanziario da soggetti di mediazione finanziaria o attraverso il ricorso al risparmio statale da attivare per finalità sociali (ex CDDPP);

- l’attivazione di progetti integrati a regia pubblica, finalizzati alla rigenerazione dei quartieri, che comportino l’intervento sui quartieri di edilizia pubblica (o comunque sul patrimonio di aree pubbliche) allo scopo di valorizzarlo (senza prevederne l’alienazione) integrando differenti modelli di intervento e ricorrendo anche a forme di tassazione differenziata per favorire la mixitè sociale della popolazione.

E’ di grande interesse per almeno due ragioni. 1. Perchè è un esempio, mai più raggiunto, di compiuta analisi economico-sociale di una realtà (il “blocco edilizio”) che ha ostacolato, e continua a ostacolare, i tentativi di governare efficacemente l’ambiente della vita dell’uomo e della società. Purtroppo il metodo dell’analisi marxista non è stato negli anni successivi nè superato, nè applicato al campo indagato dall’Autore. 2.Perchè le realtà economica e sociale che il saggio descrive sopravvive in larga misura alle trasformazioni intervenute negli ultimi decenni nell’economia, nella società, nella politica e nella cultura. Per incidens mi limito a ricordare la finanziarizzazione dell’economia e il rafforzato intreccio tra rendite finanziarie e rendite immobiliare a scapito del salario e del profitti; la crescente prevalenza dei “valori” individuali, la frammentazione dei corpi sociali, la graduale emarginazione dei beni comuni; la scomparsa di un’egemonia di sinistra nello schieramento di opposizione, l’accodamento al potere delle posizioni culturali una volta d’avanguardia, limpidamente testimoniato dalle posizioni assunte dell’Istituto nazionale di urbanistica. (A quest’ultimo proposito rinvio al mio Commiato dall’INU, i cui argomenti gettano forse qualche luce sull’atteggiamento attuale del gruppo dirigente dell’INU)

Il Blocco edilizio

Può anche apparire singolare, ma in Italia – dove la parte di ispirazione marxista ha tanto discusso e discute di processi di formazione di un nuovo blocco storico – manca, quasi del tutto, un’analisi del blocco storico esistente, quello dominante, che sarebbe necessario conoscere e disaggregare. Questa considerazione, non priva di significato culturale e politico, vale anche per la complessiva questione delle abitazioni, rispetto alla quale solo di recente, e di passaggio, a un convegno del PCI è stato detto che intorno ad essa “si cementa un blocco sociale, che è una delle cerniere essenziali del blocco di potere dominante”. Questa analisi però continua a mancare, nonostante che già un secolo fa Engels – schematicamente quanto si vuole – avesse individuato proprio questa capacità aggregante della questione, quando – in polemica con la rivendicazione proudhoniana di trasformare il canone di fitto in canone di riscatto – sosteneva che “gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno i sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato”. Al riguardo si può aggiungere che nello stesso arco della nostra esperienza (pensiamo alla secca liquidazione della legge Sullo) non ci sono mancate prove della potenza d’urto di questo esercito.

Fatte queste constatazioni di assenza, resta tuttavia da aggiungere qui – per difficoltà oggettive e soggettive – non si intende offrire lettore una compiuta analisi di quel che si potrebbe definire “il complesso edilizio”, ma solo un avvio di questa analisi, nella forma di una serie di schematiche osservazioni relative alle stratificazioni che fanno parte, o sono in qualche modo subordinate, a questo “complesso” e ai legami, anche sovrastrutturali, che sono condizione della sua conservazione. Ma prima di addentrarci in queste osservazioni appaiono utili alcune sommarie informazioni sulla entità e le caratterizzazioni dell’“affare casa”.

Nel 1968 il prodotto lordo al costo dei fattori del settore costruzioni (fondamentalmente a uso residenziale) è stato pari a 3.341 miliardi di correnti, cioè di non molto inferiore al prodotto dell’agricoltura (4.096 lordi) e sensibilmente superiore a quello dell’industria meccanica (2.790 miliardi ). Se poi al prodotto lordo dell’industria delle costruzioni aggiungiamo quello del settore fabbricati residenziali (cioè l’ammontare dei fitti pagati per l’uso del patrimonio edilizio esistente), che ammonta a ben 2.310 miliardi di lire, arriviamo a una somma complessiva di 5.651 miliardi, largamente superiore a quella del prodotto dell’agricoltura e pari a un po’ più del 15% del prodotto nazionale lordo complessivo. Tale rilevanza economica del settore viene confermata e sottolineata dalla sua incidenza (30% circa nella media degli ultimi dieci anni) sul totale degli investimenti fissi lordi e sul totale delle spese per consumi finali (quasi il 10% nel 1968). Si può ancora aggiungere che dall’edilizia dipendono totalmente produzioni non trascurabili come quelle del cemento, dei laterizi, del legno e dei mobili, e dipendono in larga misura molte produzioni del settore meccanico. Per ultimo si può considerare economicamente significativo anche l’elevatissimo indice di gradimento che, a livello locale e nazionale, hanno assessorati e ministero ai lavori pubblici. La consistenza economica e le ramificazioni del complesso fondiario industriale-finanziario dell’edilizia appaiono evidenti.

Nonostante le profonde interrelazioni tra pubblico e privato, il segno di questo settore è tuttavia nettamente privatistico. Il settore dell’edilizia, proprio dal punto di vista della produzione e della proprietà, è tra i più privatizzati della nostra economia. Il patrimonio edilizio esistente è quasi integralmente privato e, quanto alla produzione, si ricordi che mentre nell’industria gli investimenti fissi lordi si ripartivano tra imprese private e pubbliche rispettivamente nella misura del 64,6% e del 35,4%, nel settore delle costruzioni, invece, l’incidenza degli investimenti pubblici, in tutto il periodo che va dal 1962 al 1968, si è aggirata tra un minimo del 4,1% a un massimo del 7,4%. Tale carattere privato del settore risulta ancora più evidente dal confronto con gli altri paesi nei quali la incidenza dell’intervento pubblico è di gran lunga superiore. Questa assoluta prevalenza privata non deve però indurre nell’errore di credere che l’intreccio tra pubblico e privato sia di scarsa rilevanza: esso si realizza, ed è fonte di grandi affari e di spostamenti di convenienze, attraverso l’intervento normativo, i piani regolatori e particolareggiati, la predisposizione dei servizi pubblici, le grandi opere pubbliche, la politica fiscale e creditizia ecc. Dopo avere sommariamente indicato dimensioni economiche, ramificazioni e carattere privatistico del complesso edilizio, si tratta di individuare le aggregazioni sociali e le articolazioni economiche e culturali che compongono il blocco. Secondo rapporti di maggiore o minore o subordinazione, in questo blocco si raccoglie un coacervo di forze che fa pensare ad alcune pagine del “18 brumaio di Luigi Bonaparte”.

Ci sono tutti: residui di nobiltà fondiaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, oppure che ritengono di risparmiare in avvenire sul fitto pagando intanto elevati tassi di interesse, grandi imprese e capimastri, cottimisti ecc. Un mondo nel quale, all’infuori di poche sicure coordinate (quelle di sempre, della potenza economica e del potere politico) vasta è l’area magmatica delle improvvise fortune e della prigione, del triste esproprio (pensiamo solo alla sorte di molti piccoli proprietari di case a fitto bloccato). Un mondo, però, che si tiene saldamente insieme strumentalizzando – per rafforzare i più solidi legami di interesse economico – il fanatismo dell’ideologia della casa, la drammatica necessità di ottenere una casa anche a costo di sacrifici, la necessità di avere un lavoro: il contadino fattosi edile, di fronte alla minaccia di non lavorare, è naturalmente portato a considerare inutili e dannose sottigliezze tutti i perfezionamenti democratici dei regolamenti edilizi. Il fatto che questo sistema non sia in grado di dare la casa a tutti finisce con l’essere la condizione di forza del “complesso edilizio”.

1. Fino a oggi i contingenti decisivi dell’esercito conservatore, che i capitalisti si allevano contro il proletariato sono stati sostituiti dalla vasta massa dei proprietari di abitazioni. Nel più recente rapporto del CENSIS sulla situazione sociale del paese si legge:

“solo una parte dell’offerta di abitazioni è collocata, in proprietà o in affitto, presso gli utilizzatori finali del bene abitazione: una quota rilevante, pari, secondo stime relative agli ultimi anni, a circa un terzo viene invece acquistata da piccoli e grandi risparmiatori a scopo di investimento”.

Si può quindi calcolare che quasi centomila abitazioni all’anno siano andate ad accrescere il patrimonio di questi “risparmiatori”, che sono le truppe scelte dell’esercito conservatore e il cui numero, per proporzionalità alle centinaia di migliaia di case che compongono questo monte, va certamente oltre l’ordine delle decine di migliaia. Vi è poi la sterminata fanteria di coloro i quali sono proprietari degli appartamenti nei quali abitano (tra questi rientrano anche coloro che posseggono qualche o molti altri appartamenti oltre quello in cui abitano). Si tratta di una massa in continua e rapida crescita: 4.301.000 nel 1951 5.972.000 nel 1961, 7.562.000 il 20 gennaio del 1966; dall’andamento degli impieghi bancari e degli istituti speciali risulta che la crescita si è ancora accelerata nel 1967 e nel 1968.

La concentrazione delle case in proprietà è, comprensibilmente, maggiore nei comuni non capoluoghi che in quelli capoluoghi, nel Mezzogiorno più che nel triangolo industriale. Questo dato richiama inevitabilmente la questione del rapporto città-campagna (che è chiave rispetto al problema abitazioni) sulla quale occorrerà ritornare.

Le statistiche non dicono nulla sulla figura sociale degli oltre 7,5 milioni di proprietari di case; si limitano a darci le percentuali della distribuzione degli oltre 6 milioni di case in fitto a seconda della condizione professionale o non professionale del capofamiglia. Relativamente al 1966 dati, nell’ordine, sono i seguenti: imprenditore 0,5%; liberi professionisti 0,9%; dirigenti 1,3%; lavoratori in proprio 13,9%; impiegati 12,0%; lavoratori dipendenti 46,1%; coadiuvanti 0,5%; pensionati 20, 2,%; benestanti 0,3%; altri 4,3%.

Questi soli dati sono insufficienti a conclusioni socialmente qualificate, tuttavia se ne possono trarre almeno due indicazioni: la prima è la conferma che il problema dell’affitto interessa fondamentalmente (quasi nella misura dell’80%) i percettori di reddito fisso, lavoratori dipendenti, impiegati e pensionati; la seconda – alla quale si giunge anche attraverso un confronto tra la distribuzione percento e delle case in affitto e la distribuzione percentuale della popolazione totale secondo la condizione professionale e non professionale – conferma anch’essa ciò che si può facilmente intuire, e cioè che la massa prevalente dei proprietari è costituita da imprenditori, liberi professionisti, dirigenti, lavoratori in proprio e impiegati. Questa conclusione – che conferma quella derivante dalla scarsa incidenza dell’edilizia pubblica – contribuisce a dare una qualificazione sociale a quella che è stata qui definita come la fanteria del “complesso edilizio”: la massa rilevante dei proprietari di appartamenti (in generale di un solo appartamento o al massimo di due), più intensa nel centro-sud e nei comuni minori, è costituita fondamentalmente da ceti medi – e medio-alti – professionali, commerciali, imprenditoriali e impiegatizi, venuti in possesso di uno o più appartamenti o per precedente accumulazione familiare, o per aver varcato una soglia di reddito (o di sicurezza di reddito) che ha consentito l’acquisto in contanti o il versamento di una prima quota (aggirantesi grosso modo intorno al milione di lire) e quindi l’impegno di continuare a pagare per quindici o venticinque anni.

Va poi osservato che, in generale, la possibilità di acquisto di un appartamento si accompagna a uno status che consenta accesso o agevolazioni al credito. In sostanza la possibilità di acquisto presuppone condizioni di privilegio anche minimo, ma precluse alle masse lavoratrici: la proprietà della casa diventa, cioè, nell’attuale contesto, per un verso un elemento di distinzione sociale e per l’altro un aggregante, in senso conservatore, di quel complesso di stratificazioni, che – in modo piuttosto indeterminato – va sotto la definizione di ceto medio, al punto che si potrebbe concludere che è impossibile fare una politica di segno progressivo nei confronti del ceto medio senza sciogliere il nodo della casa, e che è impossibile affrontare il problema della casa senza – quanto meno – neutralizzare il ceto medio.

2. Al di sopra di questo schieramento di massa, vi è il gruppo dominante in verità eterogeneo e non fortemente coeso, almeno nelle sue pur consistenti frange marginali.

Ci sono i proprietari di grossi patrimoni immobiliari e gli speculatori, i padroni di piccoli orti suburbani, gli imprenditori che non sono sempre imprenditori soltanto, i gruppi finanziari privati e pubblici. La categoria dei puri proprietari di aree, non numerosa ma decisiva, grosso modo dalle prime fasi del boom edilizio fino al 1964, viene ora perdendo di peso in rapporto all’ingresso nel campo edilizio dei maggiori gruppi industriali del paese.

Il nucleo determinante di questo raggruppamento è sempre più nettamente costituito dalle società immobiliari, e più di recente, da società specificamente commerciali. Nelle società immobiliari la accumulazione di veri e propri demani di aree si unisce all’attività di costruzione e a quella finanziaria, sia per la raccolta di fondi di investimento, sia per il credito (a carissimo prezzo) praticato agli acquirenti a riscatto. Attorno a questo nucleo centrale si può calcolare vi siano un po’ meno di 50.000 imprese di costruzione e di installazione che assolvono, per una loro larga parte, il ruolo di imprese marginali e costituiscono una vera e propria fascia di copertura, destinata a essere sacrificata nei periodi di cattiva congiuntura. Vi è poi una massa consistente di piccoli speculatori, di intermediari, di procacciatori di favori ecc. Un mondo che non ha riscontri nell’industria vera e propria e che è specifico della persistente condizione di arretratezza e parassitismo del settore. (Il meccanismo di realizzazione della rendita continua a trascinarsi appresso forme di impronta feudale, ma si tratta pur sempre di un mondo esistente, niente affatto disposto a perire silenziosamente, da solo).

Descrivere e quantizzare il gruppo dominante richiederebbe, quanto meno, alcune ricerche dirette che mancano, ma in via di approssimazione possono avanzarsi due osservazioni.

a. Nel nucleo dominante del “complesso edilizio” si realizza uno dei collegamenti centrali tra le varie componenti dell’attuale potere borghese. Le dimensioni dell’“affare casa” sono tali da far superare ogni pregiudizio di modernità, e nel campo edilizio giocano tutti: per le grandi società assicurative l’investimento immobiliare risponde addirittura a un canone di buona amministrazione, ma intervengono anche i maggiori gruppi industriali e ci sono arrivate ormai, e con grande ampiezza di vedute (dalla tangenziale, al prefabbricato, alla società immobiliare), anche le imprese a partecipazione statale.

La saldatura-collusione con i pubblici poteri si realizza attraverso i piani di opere pubbliche, che sono uno degli esempi più realistici della concentrazione programmata: dato socialmente oggettivo rispetto al quale la proposta di un “buon governo” è solo illusione di resuscitare miti. Basterebbe soffermarsi su due o tre delle maggiori società immobiliari permettere in evidenza questi collegamenti e offrire al lettore anche qualche dato interessante, ma si tratta in generale di fenomeni noti.

Quel che qui si vuole sottolineare è che ci troviamo oramai di fronte a un intreccio di interessi e di forze, consolidato sulla realizzazione di un dato surplus, nel quale si intrecciano, e si confondono in verità, forme diverse di rendita con interesse e profitti industriali e commerciali. Questo surplus viene realizzato in una generalizzata situazione di monopolio rispetto a un bene, la casa, il cui mercato, per le specifiche caratteristiche de1 bene (dove c’è una casa non può essercene un’altra, non trasportabilità ecc.), è tipicamente monopolistico e si svolge secondo le più dispendiose forme di concorrenza monopolistica (differenziazione del prodotto nelle sue infinite possibilità: dal tipo di casa, alla sua localizzazione in quartieri socialmente differenziati ecc.). In questa situazione di mercato monopolistico, e nella quale la rendita (nelle sue varie forme) non è più appropriazione esclusiva del proprietario fondiario, il solo esproprio generalizzato può non essere sufficiente (anzi è assai improbabile che lo sia) a ridurre radicalmente (o nella misura oggi attribuita all’incidenza della rendita) il prezzo di uso della casa. Se non si spezza l’aggregato di potere che si esprime nel “complesso edilizio” anche l’esproprio generalizzato rischia di pervenire allo stesso risultato cui è pervenuta l’accresciuta offerta di aree fabbricabili da parte dei comuni emiliani. Come ha scritto Giuseppe Campos Venuti:

Lungi dall’abbassare il costo dei suoli edificabili, l’abbondanza di aree sul mercato vuol dire soltanto portarle tutte al massimo costo sopportabile dagli utenti, costretti a cedere al ricatto della insopprimibile fame di case che si crea in una società caratterizzata dal fenomeno dell’urbanesimo accelerato.

Del resto, nella nota situazione di penuria di case esistente a Roma non vi sono forse 30.000 abitazioni non utilizzate?

b. Questo blocco, specie con l’ingresso recente nel settore dei maggiori gruppi industriali, si prepara ad attraversare una fase di tensioni sia all’interno di quello che si definisce il nucleo dominante sia nei rapporti tra questo e la sua base di massa. Le categorie come rendita o profitto non sono quantità rispetto alle quali si possono fare sottrazioni o addizioni, ma concreti rapporti sociali che vanno sciolti con uno scontro; per questo occorre guardare ai nuovi elementi di tensione che possono favorire una disgregazione del blocco centrale, se non si vuole correre il rischio di finire con l’attaccare quel guerriero, di cui dice il poeta, che continuava a combattere ed era già morto. Questo è infatti il rischio che si corre quando si pensa di concentrare i propri colpi sulla rendita, e su coloro che si appropriano della sola rendita, nell’illusione di potere restaurare un mercato libero-concorrenziale delle abitazioni, è il rischio che si corre quando si sottovalutano le caratteristiche monopolistiche del mercato delle case e l’incidenza diretta che su questo carattere monopolistico ha, e avrà ancora in futuro, la determinazione storica del bene casa e del suo uso.

3. Rispetto al complessivo “blocco edilizio”, una posizione a sé stante, fondamentalmente antagonistica, ma col pericolo di essere a volte subordinata, ha la massa degli edili, tra le più sfruttate, ma anche tra le più coinvolte. Nel settore delle costruzioni lavorano circa due milioni di persone, nella grande maggioranza edili; questi lavoratori, in buona parte di recente provenienza meridionale o agricola, sono distribuiti in una miriade di aziende di varia dimensione e tra loro diversamente collegate (subappalto dell’impresa maggiore alla minore o, addirittura, semplice fornitura di forza-lavoro da parte di quest’ultima). All’interno della stessa organizza-zione del lavoro esiste una forte gerarchizzazione di fatto (la catena del cottimo), che è causa di divisione interna della categoria; la sicurezza della continuità del lavoro è fortemente soggetta ai cicli stagionali e congiunturali e ai casi della legislazione (legge-ponte per esempio).

Tutte queste cause di debolezza oggettiva e soggettiva comportano che le condizioni di lavoro siano subcontrattuali per moltissimi lavoratori (nella provincia di Milano, che non è certo tra le più arretrate, si calcola che il 30-40% degli edili subisca, in forme diverse, “gravi evasioni” alle norme regolanti il rapporto di lavoro). Una seconda conseguenza delle indicate ragioni di debolezza è costituita dalla permanente minaccia di subordinazione e strumentalizzazione: i casi di utilizzazione della massa degli edili come strumento di copertura o di pressione per deroghe ai regolamenti edilizi o ai piani regolatori, o contro leggi che possono ledere gli interessi del “complesso edilizio” fanno parte delle cronache del nostro paese.

Si aggiunga che proprio: a. la bassa composizione organica del capitale, b. la relativa brevità del ciclo produttivo; c. la coincidenza delle funzioni di speculatore, costruttore e commerciante nella stessa persona o gruppo, consentono ai boss dell’edilizia una elasticità di manovra nei confronti dei lavoratori assai maggiore di quella degli industriali veri e propri. Nel tenace e soffocante sistema di ricatto che tiene unito il vasto ed eterogeneo aggregato del “complesso edilizio” si realizza una pressione continua alla corporativizzazione coatta della categoria degli edili. Anche in questo caso però deve osservarsi che le trasformazioni produttive, che ormai si annunciano nel settore, insieme a prospettive di difficoltà e di tensione, prospettano anche la possibilità di accentuare e rendere più netto il contrasto di classe tra proletario e capitalista, che è specifico al rapporto di lavoro dell’edile.

L’obiettivo politico, proprio in rapporto al problema della casa non ci pare sia tanto quello di impegnare gli edili in lotte per la riforma, quanto piuttosto di rafforzarne il potere contrattuale e quello relativo ai modi di organizzazione del lavoro, in modo da impedirne l’uso strumentale da parte del padronato.

Queste componenti sociali del cosiddetto blocco edilizio, oltre che da ragioni immediatamente economiche, sono tenute insieme anche da legami che possono considerarsi sovrastrutturali: la famiglia, i modelli culturali e il consumo

L’attuale modo di abitare sarebbe certo del tutto diverso ove l’attuale famiglia fosse stata superata e, per converso, si può anche sostenere che una soluzione sociale del problema delle abitazioni non è possibile fino a quando la famiglia imporrà un certo uso della casa. La famiglia è ancora un centro di rapporti di riproduzione, storicamente determinati, e di produzione di servizi; è un centro di. consumi individuali; un rifugio di fronte alle difficoltà e alle durezze della vita nella società. Queste funzioni famigliari si rispecchiano nettamente nelle forme assunte dal bisogno (in origine naturale) di abitare; è un punto questo sul quale ha esattamente ragione Adorno quando dice: “A che punto siamo con la vita privata si vede dalla sede in cui dovrebbe svolgersi”.

Ma non si non si tratta solo di questo. Come la famiglia non si è ancora liberata del tutto da funzioni di produzione e di accumulazione, così la casa non è ancora soltanto un bene di consumo, resta ancora un bene capitale, occasione di investimento privato (anche forzato o poco conveniente come per gli acquisti a riscatto) che continua a mantenere sostenuto il mercato, salda la difesa della rendita, tenace la resistenza alla socializzazione della casa.

Le funzioni di rifugio privato e di centro di consumi privati hanno nell’attuale abitazione privata la loro massima esaltazione e, nella misura in cui, trasformandosi in bene di consumo, la stessa abitazione diventa un esaltazione di consumo socialmente improduttivo. L’abitazione si imbottisce di beni di consumo sempre più costosi e sempre più scarsamente utilizzati; diventa – alle varie scale – momento di raffinamento continuo dei bisogni privati da un lato e quindi, dall’altro (in un sistema capitalistico) momento coattivo di imbarbarimento e di astratta semplificazione dei bisogni. Il risvolto di questa abitazione, bene e centro di consumo, momento di progressivo raffinamento del bisogno privato è quello, sia pur con iperbole giovanile, lucidamente indicato da Marx:

Lo stesso bisogno dell’aria aperta cessa di essere un bisogno nell’operaio; l’uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria è però viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando essa per lui un’estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare. La casa luminosa, che, in Eschilo Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l’operaio [... ] e parimenti il povero apprende che la sua dimora è qualitativamente opposta alla dimora umana che ha sede nell’al di là, nel cielo della ricchezza.

In questo senso spingono le forze di natura del capitalismo: negli Stati Uniti, insieme al proliferare degli slums accade che non i miliardari, ma anche la middle class si costruisca casette unifamiliari negli stili più inutilmente bizzarri. La struttura del monopolio e l’ideologia della fase monopolistica spingono in questo senso: da una parte la differenziazione del prodotto, dall’altra il principio di distinzione sociale; congiuntamente la distribuzione di surplus e la creazione di sacche di miseria, di fasce di marginali.

La citazione di Marx è solo una indicazione e l’Italia, per varie ragioni, è ancora diversa dagli USA, ma pure nel nostro paese le indagini sulle condizioni abitative non solo dei marginali ma anche di larga parte dei ceti operai non offrono quadri luminosi, e gli esempi di differenziazione di prodotto in rapporto al bene e ai beni di consumo domestico diventano sempre più frequenti.

Del tutto al di fuori del blocco del cosiddetto “complesso edilizio” sono gli inquilini e i cittadini senza casa, i baraccati, gli abitanti alloggi impropri. I primi – come tutti sanno – numerosissimi, da un punto di vista sociale non sono niente: sono soltanto un disaggregato sociale. Non solo va respinta la facile assimilazione del rapporto tra inquilino e padrone di casa a quello tra proletario e capitalista, ma ancora va chiarito – nonostante l’elevato livello del fitto solleciti iniziative più generali – che l’unificazione di base tra inquilini (per contrattare il fitto o altre condizioni di locazione) può realizzarsi soltanto tra persone che abbiano l’elemento aggregante non solo nel contratto di fitto, ma anche nel rapporto di lavoro e nella condizione sociale, cioè in una specificità effettiva, tale che la lotta per la riduzione del fitto non muova da un rapporto mercantile fondamentalmente astratto (padrone di casa-inquilino), ma dal rapporto di lavoro concreto che qualifica socialmente la lotta. Va però sottolineato che il livello raggiunto dai fitti consente, nell’immediato, una serie di iniziative da parte di inquilini abitanti in quartieri anche socialmente eterogenei.

I cittadini senza casa che sono tanti e concentrati soprattutto nelle grandi città, sono quello che negli Stati Uniti si definisce il “proletariato urbano” (o i negri), sono un analogo dei contadini senza terra nelle campagne e, proprio in quanto testimonianza vivente della incapacità di tutti i capitalismi di risolvere il problema, sono il ferro di lancia nella lotta anticapitalistica per la casa. Sono le forze che lottando per conquistarsi la casa, oggettivamente (e con un livello di coscienza certamente più elevato di chi può acquistarsi l’uso della casa sul mercato capitalistico) negano l’assetto capitalistico della società e pertanto portano in germe (nonostante la degradazione culturale e le alterazioni di valori intrinseche alla miseria in una società di ricchi) forme e modi di uso della casa di segno non capitalistico, che comunque vanno oltre l’orizzonte borghese dell’uso individualistico e privatistico della casa. Del resto nelle baracche e nelle coabitazioni il capitale fa ogni giorno giustizia sommaria degli ideali di “focolare”, e di “nido”, e anche di “famiglia”. Ma le forze dei “baraccati”, dei soli cittadini senza casa non bastano a vincere in questa lotta anticapitalistica.

Come la lotta dei contadini senza terra raramente ha superato la soglia della jacquerie, così le impetuose occupazioni di questi mesi rischiano di diventare una guerra contadina, di esaurirsi in una serie di scontri, o nella precaria conquista di alcuni edifici. L’articolazione e la forza del “complesso edilizio”, il peso delle sue componenti, la tenacia e profondità dei suoi leganti, economici e non economici, e soprattutto l’indissolubile dipendenza della penuria di case dall’esistenza del sistema capitalistico comportano che l’offensiva dei cittadini senza casa, per essere efficace, debba iscriversi in una più vasta articolazione di lotte, che investano tutti i gangli dell’attuale equilibrio capitalistico e abbiano obiettivi al livello delle trasformazioni e delle contraddizioni in atto.

Ora, l’attuale situazione si caratterizza da una parte per la persistente esasperazione e offensiva di una importante avanguardia, costituita dai cittadini senza casa, e dall’altra dalla prospettiva di tensioni all’interno del nucleo dominante il “complesso edilizio”, quanto meno per l’ingresso in campo di nuove forze imprenditoriali, private e del capitalismo di stato. Questo ingresso provocherà tensioni all’interno delle forze attualmente dominanti il mercato edilizio e investirà necessariamente la massa degli edili, che dovrà ridiscutere i suoi rapporti col padronato e quindi sarà impegnata in lotte di grande peso. Contemporaneamente è registrabile in alcune sfere di comando della nostra economia (discorsi di Petrilli, di Carli, di Agnelli) la coscienza che l’elevato costo delle case (che aumenta necessariamente il prezzo della forza lavoro), dato l’attuale livello del potere rivendicativo della classe operaia, incide negativamente sulla redditività e competitività della industria. Nell’ipotesi quindi che la classe operaia non subisca, nel breve periodo, gravi sconfitte, è assai probabile che l’intervento pubblico e privato nel settore edile provochi un arresto o anche una lieve flessione nella dinamica ascendente dei fitti e della valorizzazione delle abitazioni di livello medio-basso. In questa ipotesi (che non sarebbe diversa dalle cicliche espropriazioni dei risparmiatori che hanno investito in case), la potente fanteria dei piccolo-medi proprietari di casa avrebbe fa talmente degli ondeggiamenti (basterebbe uno spostamento del risparmio verso gli investimenti in obbligazioni, in molti casi già oggi più convenienti) e il gruppo di potere sarebbe indebolito proprio nella sua decisiva base di massa.

Queste affrettate ipotesi non vogliono delineare una illusoria prospettiva di automatico crollo del “complesso edilizio”, ma la prospettiva di un allentamento della sua coesione e la possibilità di riaggregare in un blocco alternativo parte delle forze che oggi lo compongono, e che le politiche per la casa fin qui fatte (emerge così anche l’inefficacia della politica nei confronti dei ceti medi e delle città meridionali) hanno invece consolidato, o ingrossato.

La possibilità di disaggregazioni e riaggregazioni sottolinea la necessità e l’urgenza di elaborare e costruire una linea efficace, e quindi alternativa a quella riformista, fallita. Una linea alternativa non si inventa: viene prendendo forma, nel corso del tempo, attraverso le esperienze del movimento, la riflessione, il confronto polemico, anche. Nel numero 3-4 del “ Manifesto”, dalle schede, dagli articoli, dall’esame della forma della rendita, emerge già un primo abbozzo di linea alternativa, del quale cerchiamo qui di isolare i tratti essenziali. E va ricordato che a rendere alternativa una linea non basta, né è necessario, l’attribuzione di un obiettivo “più avanzato”. Non occorre essere strutturalisti per capire che il segno di una linea dipende dalla organizzazione dei suoi obiettivi e dai rapporti intercorrenti tra obiettivi e forze sociali. Così una linea che non si fondi su una analisi (e su una organizzazione) delle forze sociali e non consideri l’obiettivo come momento di aggregazione e potenziamento di uno schieramento socialmente qualificato, ma punti invece, sostanzialmente, a sommare rivendicazioni (quando non addirittura proposte) con un riferimento socialmente indeterminato (programmi d’opinione pubblica o programmi genericamente antimonopolisticì) potrà forse essere utile in una fase di difesa, ma sarà sempre una linea verticistica (con netta separazione tra momento sociale e momento politico) e riformista.

Schematizzando al massimo, questa linea si caratterizza per cinque qualificazioni: a. essere anticapitalistica; b. avere come sua avanguardia i lavoratori privi di abitazione e gli inquilini poveri aggregati in base alla loro qualificazione sociale; c. fondarsi su un movimento di vertenze sociali autogestite; d. avere l’obiettivo della casa come servizio sociale, rompendo quindi l’attuale tipizzazione privatistica del prodotto casa e del suo uso; e. avere l’obiettivo della nazionalizzazione del settore edile, oltre all’esproprio generalizzato delle aree.

Di questi punti, esaminati anche negli altri articoli, qui si considerano rapidamente solo il primo e gli ultimi due:

a. Caratterizzare come anticapitalistica la lotta per la casa consegue alla constatazione che il capitalismo in nessun paese è stato finora in grado di assicurare una abitazione abitabile a tutti, e quindi che il problema non si risolve attraverso riforme, ma solo attraverso il rovesciamento del sistema. Le prevedibili obiezioni di nullismo appaiono concretisticamente miopi e avvocatesche. La risposta più facile sarebbe nel dire che il più grosso concentrato di nullismo politico si trova nelle opere di Marx, o che ripubblicare la Questione delle abitazioni di Engels senza una prefazione che spieghi come con la GESCAL o con l’attesa legge urbanistica sia cominciata o comincerà una nuova fase del capitalismo, sarebbe prova di massimalismo intellettualista. E a voler rimanere sempre ai primi elementi di marxismo si potrebbe ancora ricordare che in Salario, prezzo e profitto, Marx – che pure aveva particolarmente insistito sul fatto che il proletariato si sarebbe liberato solo attraverso la distruzione del capitalismo – non ritenesse tutto ciò incompatibile con la lotta operaia per migliorare i salari reali. Dire che questa lotta deve essere anticapitalistica se vuole avere un senso, significa avere chiarezza del problema e quindi della necessità di condurla in connessione con le altre lotte (che debbono essere anch’esse di segno anticapitalistico), quelle operaie e quelle per la conquista di alcuni strati di ceto medio (gli statali per esempio), quelle contadine e quelle meridionali. Significa che questa lotta deve avere, per essere efficace, un respiro ideale e culturale comunista, che deve alimentare – traendone forza essa stessa – un contropotere di classe. Proprio nel caso delle abitazioni vale ripetere che “l’opposizione tra la mancanza di proprietà e la proprietà, sino a che non è intesa come l’opposizione tra il lavoro e il capitale, resta ancora una opposizione indifferente”.

d. Fare della casa un servizio sociale comporta assicurare a tutti l’abitazione in base ai bisogni di ciascuno: è un obiettivo comunista, ma raggiungibile, e già oggi può consentire di migliorare le condizioni di abitazione degli strati inferiori della società. Le esperienze del boom e le decine di migliaia di case vuote dimostrano che non ci troviamo di fronte ad impossibilità per carenza di capacità produttive in astratto, ma ad impossibilità derivanti dai modi di operare di queste capacità, dai profitti o sovraprofitti e sprechi da eliminare. L’ingresso nel settore edilizio di grandi gruppi imprenditoriali annuncia una industrializzazione e una più spinta tipizzazione della produzione; la rivendicazione della casa come servizio sociale può consentire di intervenire su questa tipizzazione e sulla sua graduazione contrastando, sulla base di una impostazione egualitaria, una differenziazione del prodotto in base ai livelli di reddito e cercando di ottenere che la stessa necessaria tipizzazione corrisponda a scelte autonomamente elaborate dagli utenti delle case e dagli architetti. Non si tratta qui di definire modelli di case per il futuro, ma di tornare a ribadire che, in quanto consumo sociale, l’abitare si deprivatizzerà e casa e città dovranno assicurare ricchezza di libertà individuale e intensità di rapporti sociali nel senso di Marx, quando scrive del “comunismo come soppressione positiva della proprietà privata” e dei modi privatistici di vita a quella conseguenti. L’abitare inteso come consumo sociale comporta che la tipologia delle nuove abitazioni, e quindi delle città, si liberi dalla rigidità che ha dominato per secoli e che ancora oggi crea frizioni costose tra modi di costruzione e modi di abitare, di studiare, di curarsi, ecc. Al di fuori della futurologia si vuole solo affermare che casa e città dovranno essere tra l’altro adattabili al variare delle esigenze sociali.

e. Per nazionalizzazione del settore edile deve intendersi che le abitazioni avranno un regime analogo a quello delle scuole, che sono un bene pubblico. Non si tratta, neppure in questo caso, di definire i particolari del futuro, ma di limitarsi ad alcune indicazioni, per esempio che non appare utile estendere la nazionalizzazione al patrimonio edilizio esistente (che col passare del tempo dovrebbe esaurirsi) limitandola invece alle nuove costruzioni. La nazionalizzazione delle cose di nuova fabbricazione è, da una parte una logica conseguenza della rivendicazione, ormai diffusa, che si esprime nella formula “casa come servizio sociale”, e, dall’altra, è una condizione necessaria perché l’agganciamento del canone di fitto alle possibilità di pagamento dell’utente (e anche questa è una rivendicazione diffusa) non dia luogo alla creazione di una serie di ghetti rigidamente distinti a seconda dei livelli di reddito. Vi sono evidentemente una serie di problemi, da quello dell’assegnazione (che potrebbe avvenire anche attraverso simulazioni di mercato) a quello del finanziamento (che potrebbe ricadere sugli utenti o sulla società nel suo complesso), ma si tratta di questioni che troveranno soluzione soltanto nel corso della lotta per la casa e delle altre lotte, nella misura in cui quella e queste andranno avanti. Ma se si vuole che chi non ha abitazione possa conquistarsela e chi la ha possa riappropriarsi di un uso “umano, cioè sociale” della abitazione, crediamo proprio che la via da seguire sia quella, nella quale il cambiamento del modo di produzione si accompagni al cambiamento della natura del prodotto.

Nel campo dell'urbanistica si gioca in questi giorni una partita importante per la sua credibilità. Già nel 2003, di fronte alle diffuse critiche verso il nuovo piano regolatore che stava per essere adottato, si pose la questione. Erano due le più severe critiche verso quel piano. Riguardavano le enormi espansioni edilizie con 65 nuovi milioni di metri cubi di cemento e poi lo strumento fondamentale con cui si affrontava il governo della città, la cosiddetta compensazione urbanistica. Per il lavoro fatto in questi anni riconosciamo al sindaco di Roma, Valter Veltroni una fattiva attenzione verso la società civile e un'encomiabile puntualità nel mantenere le promesse. In questa occasione fu Vezio De Lucia, tra i più importanti urbanisti italiani, a spiegargli quale logica aberrante si nascondesse dietro quel sostantivo: un enorme regalo alla rendita immobiliare perché l'uso della compensazione moltiplica oltre modo le previsioni urbanistiche. Il giorno successivo a quell'incontro i quotidiani riportarono il comunicato stampa del sindaco che giustificava la compensazione urbanistica con la contingenza: la necessità di chiudere una fase lunga e difficile, che cancellava per il futuro l'uso di quello strumento di deroga. Addio alla compensazione scrissero, infatti, i giornali.

Per comprendere i devastanti effetti di quest'invenzione tipicamente capitolina è utile ricordare cosa è accaduto nel comprensorio di Tormarancia. La battaglia ambientalista che fu combattuta per strappare quello splendido lembo di campagna romana alla speculazione edilizia riuscì anche per il grande impegno di Antonio Cederna. L'edificazione fu cancellata, ma il comune di Roma argomentò che i proprietari vantavano “diritti edificatori” che andavano dunque trasferiti in altri luoghi urbani.

Uno dei più autorevoli giuristi italiani, Vincenzo Cerulli Irelli, insieme a uno dei più stimati urbanisti, Edoardo Salzano, tentarono invano di dimostrare che i cosiddetti diritti edificatori non esistono e che è solo il piano urbanistico a decidere il destino dei terreni da edificare. Ma il comune decise, comunque, di trasferire le cubature originariamente previste a Tormarancia (un milione e ottocentomila metri cubi) in altri luoghi. La sperimentazione della compensazione urbanistica ha portato a questo risultato: la cubatura iniziale è aumentata di due volte e mezzo, per la precisione è di 5 milioni e duecentomila metri cubi. Il motivo di questo impressionante aumento è che il meccanismo si fonda sull'iniziativa privata: se dunque un proprietario mette a disposizione un terreno per "ospitare" un nuovo quartiere deve, in una logica speculativa, guadagnarci. E il guadagno viene quantificato in ulteriori cubature e questo spiega il vertiginoso aumento delle quantità da edificare. La compensazione è un moltiplicatore della rendita fondiaria. Rendita fondiaria, è appena il caso di ricordarlo, che gode in questa fase di straordinaria salute, caratterizzata da una fase di accumulazione di intensità mai registrata in passato. In un paese in cui sono evidenti i segni del declino produttivo e la ripresa economica appare sempre lontana, la speculazione edilizia trionfa. Dal 1998 a oggi i valori immobiliari, la fonte è Ance-Nomisma, sono aumentati mediamente del 69 per cento. Nello stesso periodo i salari sono aumentati del 26 per cento. In particolare, ne12003 l'aumento degli immobili è stato del 10 per cento e nel 2004 del 9 per cento.

Mentre migliaia di famiglie sono sottoposte a procedura di sfratto; mentre dalle grandi città è in atto una grande fuga dei ceti popolari verso le aree metropolitane in cui è possibile ancora l'acquisto di una casa; mentre il mercato dell'affitto completamente liberalizzato produce ulteriore espulsione dalle maggiori città; mentre, insomma, i ceti più deboli sono sottoposti a un drastico arretramento delle condizioni di vita, c'è chi si è arricchito oltre misura con la più classica speculazione immobiliare. Le cause di questo fenomeno risiedono in una serie di devastanti provvedimenti del governo Berlusconi. Non è questa la sede per elencare la numerosa serie di coerenti provvedimenti concretizzati dal governo della Casa delle libertà. Quello che occorre mettere in evidenza è che se la sinistra vuole innovare l'azione di governo deve darsi un profilo diverso. Il caso di Roma è in questo senso il paradigma di un più generale stato di smarrimento culturale della sinistra. I due censimenti del 1991 e 2001 hanno, infatti, certificato che la popolazione residente è diminuita di circa180mila abitanti, qualcosa come 60mila nuclei familiari. In gran parte si tratta delle famiglie più povere che hanno risolto la questione abitativa andando nei comuni dell'area metropolitana. I posti di lavoro sono però restati nel centro di Roma: questi stessi cittadini sono dunque costretti quotidianamente a impiegare ore della propria esistenza per effettuare gli spostamenti che li porteranno nel centro di Roma. La capitale in quello stesso arco di tempo stava disegnando il nuovo piano regolatore. Aveva dunque la possibilità di risolvere i problemi di assetto urbano. Invece la questione non viene affrontata e i numeri ufficiali del nuovo piano regolatore prevedono la realizzazione di nuovi 65 milioni di metri cubi. Trenta di questi sono produttivi; 35 sono abitativi. In buona sostanza si prevede di costruire nuove case per circa 350mi1a nuovi residenti. L'amministrazione progressista di Roma vorrebbe dunque realizzare una quantità smisurata di case private con le stesse caratteristiche di quelle abbandonate da 180mi1a romani. È una situazione paradossale e inspiegabile dal punto di vista politico e sociale. Ma è una logica che privilegia la proprietà fondiaria ed è culturalmente prigioniera delle stesse logiche perseguite dalla destra liberista. Del resto, il gruppo di immobiliaristi che ha movimentato le cronache estive (da Caltagirone al gruppo Coppola, Ricucci e Statuto), si afferma proprio a Roma in evidente sintonia con queste dissennate politiche urbane. Questa stessa subalternità si evidenzia nella proposta di legge speciale per i poteri urbanistici da delegare al comune di Roma presentata proprio in questi giorni dall'assessorato all'urbanistica della Regione Lazio. Questa proposta infatti si fonda proprio sull'equivoco della compensazione urbanistica. Addirittura, essa viene promossa di rango: da semplice strumento di lavoro la si fa diventare niente meno che un principio generale.

Ma i principi sono questioni di fondamentale importanza e devono conseguentemente avere rilevanza culturale, sociale e politica. Un principio progressista sarebbe quello di riaffermare il diritto di tutti i cittadini ad una città migliore e più vivibile. La Regione Lazio vorrebbe, invece, far diventare principio il trionfo della rendita speculativa. Ricucci, Statuto e Coppola sono i principi della nuova urbanistica regionale.

È dunque importante che ci sia a questo proposito un pronunciamento del Sindaco di Roma, teso a ristabilire un percorso virtuoso dell'urbanistica regionale e a mantenere le solenni promesse di due anni fa.

Titolo originale: Privatizing the Inner City – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

In giugno la Corte Suprema ha dichiarato che l’amministrazione di New London, Connecticut, poteva obbligare Susette Kelo e un piccolo gruppo di proprietari di case a cederle a un costruttore privato. Non è stata una decisione molto popolare. La Camera ha già approvato un disegno di legge per togliere i finanziamenti federali agli stati o amministrazioni locali che usano i poteri di esproprio per questo tipo di interventi costruttivi. Molte assemblee statali stanno prendendo in considerazione norme simili.

Ma alcune aree urbane hanno seri problemi urbanistici. Come si può riuscire a rivitalizzare una zona densa come New London o Hartford se i costruttori possono intervenire solo su un lotto alla volta? Gli abitanti delle città degradate devono poter continuare a far realizzare centri commerciali solo nei sobborghi più esterni, a sostituire aziende agricole e ad aumentare lo sprawl suburbano? Tutti gli interventi residenziali di una certa dimensione devono venire relegati negli esurbi?

Esiste un modo migliore per dare ai costruttori accesso ad aree di una certa dimensione in città: consentire ai proprietari di case di privatizzare i propri quartieri, e cederli en masse direttamente alle imprese.

Un esempio recente di come funzionerebbe questo meccanismo si può vedere nel caso di una cooperativa per abitazione di Washington, D.C. chiamata Sursum Corda (“levate i vostri cuori”). La Sursum è iniziata alla fine degli anni ’60 come progetto in affitto sostenuto dal Department of Housing & Urban Development. Nel 1992 si è trasformata in cooperativa, formata dagli ex affittuari. Sei mesi fa ha bussato alla sua porta il costruttore KSI. Voleva realizzare un intervento da 500 alloggi sul sito da 2,5 ettari della Sursum. Alla fine di ottobre le 167 famiglie a basso reddito della Sursum Corda hanno concordato la vendita del complesso alla KSI. Riceveranno 80.000 dollari per alloggio, una quota nei profitti futuri sul progetto della KSI e un opzione all’acquisto a prezzo scontato di una casa nel complesso. La transazione è stata approvata da un voto del comitato, senza la possibilità di diritto di veto da parte di un solo proprietario.

Si tratta di un buon accordo per tutte le parti. Sotto lo stimolo della pressione da parte di altri concorrenti, la KSI ha aumentato l’offerta iniziale di 30.000 dollari. Dato che le famiglie contrattavano insieme come un’unica entità, hanno avuto un risultato migliore di quanto avrebbero ottenuto come singoli. Il terreno, che sta vicino a una nuova fermata della Metropolitana, verrà convertito a usi più vantaggiosi.

Ci sono leggi del genere in molte altre nazioni, che rendono più facile ai proprietari mettere in comune le proprie risorse. In Giappone queste norme hanno giocano un ruolo significativo nella ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale. Le associazioni dei piccoli proprietari giapponesi unificano i terreni, installano infrastrutture e redigono piani di intervento. Le decisioni possono essere deliberate con una maggioranza di due terzi.

Le associazioni di cittadini si stanno diffondendo rapidamente nei suburbi d’America. Dal 1980 al 2000 la metà di tutti gli interventi di edilizia residenziale USA è stata realizzata nell’ambito di una associazione. È tempo che i benefici delle associazioni si rendano disponibili anche nelle aree interne alle città.

Una nuova legge statale funzionerebbe così: se un gruppo di proprietari di immobili urbani vuole mettere insieme le proprietà, ne fa richiesta al comune. Si stende un accordo che riguarda anche strade, verde e altri servizi pubblici. Poi, con l’approvazione di una maggioranza qualificata del 70% o 80%, si istituisce una nuova associazione privata comprensiva di tutti i proprietari.

Non ci sarà alcun esproprio calato dall’alto; saranno gli stessi proprietari, attraverso una maggioranza qualificata all’interno della propria associazione, ad approvare qualunque vendita. E si fisserà un prezzo non tramite decisione di un giudice, ma attraverso la contrattazione privata. I proventi saranno suddivisi secondo le regole dell’associazione. Se i proprietari preferiscono restare all’interno del quartiere anziché vendere, l’associazione funziona come versione residenziale di un business improvement district. Possono ad esempio raccogliere risorse per spazzare il marciapiede.

Negli anni ’30 il Wagner Act regolamentò la contrattazione collettiva fra le nuove associazioni sindacali dei lavoratori e le imprese. Oggi c’è bisogno di un nuovo Wagner Act urbano, che consenta una contrattazione collettiva fra proprietari e imprese costruttrici.

here English version

Titolo originale: Shantytown Dwellers in South Africa Protest Sluggish Pace of Change – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

JOHANNESBURG, 24 dicembre – Mandando un segnale che qualcuno definisce sinistro ai dirigenti nazionali, le vaste baraccopoli del Sud Africa hanno iniziato a ribollire, talvolta in modo violento, per protesta contro l’incapacità del governo di offrire una vita migliore, come sembrava annunciare la fine dell’apartheid una dozzina d’anni fa.

In una di queste baraccopoli sul fianco della collina di Durban chiamata Foreman Road, i poliziotti antisommossa hanno sparato proiettili di gomma a metà novembre per disperdere 2.000 abitanti che marciavano verso l’ufficio del sindaco in centro. Due manifestanti sono stati feriti, 45 arrestati. Gli altri hanno bruciato un’immagine del sindaco della città, Obed Mlaba.

L’accusa era senza troppi fronzoli: da quando sono spuntate le mille baracche di Foreman Road circa vent’anni fa, l’unico miglioramento tangibile nella vita degli abitanti sono un rubinetto dell’acqua e quattro gabinetti di legno compensato. Elettricità e gabinetti veri sono rimasti un sogno. Le promesse di nuove case, si dice, sono state cose effimere.

”Questa è la zona peggiore del paese” dice uno degli abitanti, un uomo di mezza età che si presenta semplicemente come Senior. “Non abbiamo tanto bisogno di acqua o elettricità. Abbiamo bisogno di terra e case. Devono trovare terreni e costruirci le nuove case”.

A Pretoria la stessa settimana, 500 abitanti di una baraccopoli hanno saccheggiato e messo a fuoco la casa e l’automobile di un consigliere comunale per protestare contro la limitazione degli accessi alle case pubbliche. Quindici giorni dopo, altri dimostranti hanno bruciato gli uffici municipali di Promosa dopo essere stati sgombrati dalle proprie baracche illegali. A fine settembre, gli abitanti della township di Botleng si sono rivoltati dopo che l’acqua potabile con infiltrazioni dalle fogne aveva causato 600 casi di tifo e forse 20 morti.

Solo giovedì scorso, i funzionari di Cape Town hanno avvertito i residenti di una vasta baraccopoli vicina all’aeroporto della città che potevano essere arrestati se avessero tentato di occupare un complesso di case popolari non finito.

Il ministro della sicurezza del Sud Africa ha dichiarato in ottobre che l’anno precedente ben 881 manifestazioni di protesta hanno scosso gli slums; voci non ufficiali dicono che almeno 50 sono state violente. Non sono state tenute statistiche per gli anni ancora precedenti, ma l’analista David Hemson dello Human Sciences Research Council in Pretoria, stima che il dato ufficiale del ministro è almeno di cinque volte superiore a qualunque paragonabile periodo precedente.

”Credo sia uno degli sviluppi più importanti del periodo post-liberazione” dice Hemson, coordinatore di un progetto sullo sviluppo urbano e rurale per l’istituto. “Mostra che la gente comune ora sente che l’unico modo di andare avanti in qualche modo è scendere per strada e mobilitarsi: e si tratta dei segmenti più poveri della società. È una trasformazione radicale dall’atteggiamento, diciamo, del 1994, quando tutti si aspettavano grandi cambiamenti dall’alto”.

In realtà, il governo ha fatto molti cambiamenti. Dal 1994, il governo del Sud Africa ha costruito e in gran parte consegnato 1,8 milioni di abitazioni minime, di norma 6x8 m., spesso ad ex occupanti di baraccopoli. Più di 10 milioni di persone hanno avuto accesso all’acqua potabile, e un numero incalcolabile di altri sono stati collegati all’energia elettrica o a strutture igieniche di base.

Ma contemporaneamente, dicono i ricercatori, la povertà crescente ha causato a 2 milioni di altri la perdita della casa, e oltre 10 milioni hanno avuto tagliata l’acqua o la corrente per bollette non pagate. È anche aumentato il numero degli abitanti delle baraccopoli, sino al 50%, a 12,5 milioni di persone: più di uno su quattro sudafricani, molti ad un livello di squallore che lascerebbe senza parole la maggioranza degli osservatori del mondo sviluppato.

Per i neri sudafricani, la congiuntura attuale è minacciosamente vicina a quella sopportata sotto l’apartheid. Le prime baraccopoli nere sorsero sotto il dominio dei bianchi, risultato di una politica tesa a mantenere i non bianchi in povertà e privi di potere. Durante l’apartheid, dagli anni ’40 agli ‘80, i governi sradicavano e spostavano milioni di neri, collocandone molti in campi provvisori che diventarono poi baraccopoli permanenti, mandandone altri nelle townships nere che rapidamente attirarono masse di abusivi.

La povertà portò altri milioni di neri a migrare verso le città, dentro a vasti campi nelle fasce esterne di Cape Town, Johannesburg, Durban e altre città.

Sin dai primi giorni, il governo nero del Sud Africa si impegnò a rivolgersi alle miserie della vita nelle baracche. Il fatto che il problema in parte sia peggiorato, dicono ricercatori sociali, urbanisti e molti politici, è in parte il risultato di politiche fiscali che si sono concentrate ad alimentare l’economia da primo mondo che sotto l’apartheid, faceva del paese la nazione più ricca e avanzata d’Africa.

Il basso debito pubblico, la strategia dell’inflazione bassa, si sono costruite sulla premessa che un’economia stabile avrebbe attirato investimenti, e che il benessere si sarebbe esteso ai poveri. Ma mentre l’economia da primo mondo ha subito un boom, ha mancato di sollevare le masse di underclass fuori dalla loro miseria.

La disoccupazione, stimata al 26% nel 1994, è lievitata a circa il 40% come calcolano molti analisti; il governo, che non mette nel conto che ha smesso di cercare lavoro, dice che la disoccupazione è bassa. Le grandi imprese come le miniere e il tessile hanno licenziato i lavoratori manuali, e i settori di attività in crescita come quello bancario o il commercio non hanno riassorbito le eccedenze. Molti dei senza lavoro si sono spostati negli slums.

Sinora, i manifestanti delle baraccopoli si sono concentrati esclusivamente sulle amministrazioni locali, che ne hanno subito la furia. Ma anche se quasi tutti questi amministratori appartengono all’African National Congress di governo, di cui eseguono il mandato sociale e politico, “i poveri non hanno ancora collegato le due cose”, dice Adam Habib, altro ricercatore allo Human Sciences Research Institute che ha completato di recente uno studio dei movimenti sociali in Sud Africa.

Al contrario, il sostegno alla coalizione nazionale del presidente Thabo Mbeki sembra più grande che mai. E Mbeki ha visitato le baraccopoli e townships, promettendo di aumentare la spesa sociale e chiedendo ai propri ministri di migliorare i servizi per i poveri.

Per ora, quasi la metà dei 284 distretti municipali, che hanno l’onere della fornitura dei servizi, non può farlo, afferma il ministro per le amministrazioni locali. I problemi vanno da una base fiscale in diminuzione all’insufficienza degli stanziamenti nazionali, all’AIDS, che ha ridotto i ranghi degli amministratori istruiti.

Incompetenza e avidità sono diffuse. A Ehlanzeni, distretto con quasi un milione di abitanti nella provincia di Mpumalanga, 3 su 4 residenti non hanno servizio di raccolta rifiuti, 6 su 10 non hanno servizi igienici e 1 su 3 non ha l’acqua: il city manager ha uno stipendio superiore a quello del salario annuale da 180.000 dollari di Mbeki.

La frustrazione degli abitanti delle baraccopoli ha iniziato a ribollire a metà del 2004, quando gli abitanti di una zona vicino a Harrismith, circa 200 chilometri a sud-est di Johannesburg, sono entrati in rivolta e hanno bloccato un’autostrada per protesta contro le condizioni di vita. La polizia ha sparato, uccidendolo, su un contestatore diciassettenne. Da allora, le dimostrazioni si sono diffuse in tutti gli angoli del paese.

A Durban, il comune realizza circa 16.000 case minime ogni anno, ma la popolazione delle baraccopoli, ora circa 750.000 persone, continua a crescere oltre il 10% l’anno.

Le 180.000 baracche della città, stipate sino all’inverosimile, sono una cosa da vedere. Sia isolate o con pareti in comune, ricoprono fianchi di colline fra lottizzazioni per i ceti medi, fanno capolino fra le rampe d’uscita della superstrada o si ammucchiano vicino alle discariche. Sono costruite con legname di recupero, metallo, lamiera ondulata, coperture di cellophane fissate con blocchi di cemento. All’interno spesso sono foderate con strati di confezioni per il latte o succo di frutta, vendute come carta da parati nei mercati agli incroci, per tener fuori il vento e gli sguardi dei curiosi dalle fessure delle tremolanti pareti.

Le più o meno 1.000 baracche sul fianco della collina a Foreman Road sono di questo tipo. Un tubo in cima provvede all’acqua, che si trasporta in secchi a ciascuna baracca per l’igiene personale e lavare i piatti. In basso, a circa 150 metri lungo un avvallamento, quattro latrine scavate a mano con un capanno di legno: oggi tutte incomprensibilmente chiuse con un lucchetto. Gli abitanti dicono di andare raramente giù fino ai gabinetti, svuotandosi invece dentro a sacchi di plastica o secchi che si possono periodicamente buttar via o svuotare.

Le baracche da una stanza offrono il tipo più rozzo di rifugio. Un letto di solito si prende metà dello spazio; una tavola ospita le cose per cucinare; i vestiti vanno in una piccola cesta. Non c’è elettricità, quindi nessuna televisione; il divertimento viene da qualche radiolina a pila. Gli abitanti usano stufe a cherosene e candele per cucinare e scaldarsi, con risultati prevedibili. Un anno fa, un incendio alimentato dal vento qui ha distrutto 288 baracche. Un altro incendio nella baraccopoli di Cape Town all’inizio del mese ha lasciato 4.000 persone senza casa.

Qualcuna delle baracche è verniciata con colori di lotta, o decorata con manifesti pubblicitari di latte o tabacco, oppure porta appesi cartelli strappati dai pali della luce, originariamente messi per avvertire che gli allacciamenti abusivi alla rete elettrica avevano lasciato cavi scoperti penzolanti per la strada.

Gli abitanti dicono che il sindaco Mlaba durante l’ultima campagna elettorale ha promesso di costruire nuove case al posto dello slum e su terreni liberi sull’altro lato della collina. Ma poi invece l’amministrazione ha proposto di trasferire gli abitanti in zone rurali lontane dalla fascia esterna di Durban: e lontane dai posti di lavoro da giardiniere, donna delle pulizie e altri lavori umili trovati nei sedici anni di esistenza a Foreman Road.

Senza automobili, soldi per il taxi e nemmeno biciclette per andare al lavoro, gli abitanti hanno marciato in protesta il 14 novembre, ignorando il mancato permesso per il corteo. La dimostrazione è rapidamente diventata violenta.

Più tardi, in un’intervista piuttosto breve, un sindaco Mlaba chiaramente esasperato ha sostenuto che la protesta è stata opera di agitatori, con lo scopo di metterlo in imbarazzo in vista delle elezioni locali del prossimo anno.

”Naturalmente c’è uno scopo politico” ha detto. “Improvvisamente, ci sono dei leaders. Non ce n’era nessuno, ieri. Ci saranno ancora nel 2006 o 2007, dopo le elezioni?”.

Col medesimo sospetto riguardo agli agitatori, il governo del Sud Africa inizialmente ha reagito alle proteste delle baraccopoli ordinando ai servizi segreti di accertare se c’erano degli agenti esterni – una “terza forza” nel linguaggio dei movimenti di liberazione del paese – con l’obiettivo di indebolire il governo.

Gli abitanti scuotono il capo. “La terza forza” dice l’uomo che si fa chiamare Senior, “sono le condizioni in cui viviamo”.

In una baracca da due metri per tre, a un terzo circa dell’avvallamento di Foreman Road, vive Zamile Msane, 32 anni, con sua madre di 58 e tre figli di 12, 15 e 17 anni. La signora Msane non ha un lavoro. Una sorella ha dato alla famiglia dei vestiti usati, un vicino della farina di mais per mangiare. In sette anni, è scappata da tre incendi, nel 1998, 2000 e 2004, perdendo tutto tutte le volte.

E pure la signora Msane, arrivata qui dalla zona orientale del Capo otto anni fa, dice che non ritornerebbe alle campagne dove viveva, perché non c’è niente da mangiare.

Dice che ha partecipato alla marcia del 14 novembre per un motivo.

”Condizioni migliori”dice. “Non va bene qui, perché non ci sono vere case. Fuori c’è fango. Viviamo nella paura degli incendi. D’inverno fa troppo freddo, d’estate fa troppo caldo. La vita è troppo difficile”.

here English version

Il nuovo collegamento ferroviario Torino-Lione

Ottobre 2005

Conclusioni

Il progetto della nuova linea internazionale Montmélian-Torino non dovrebbe essere incluso nelle priorità strategiche né a livello europeo né a livello italiano, dal momento che la sua utilità potrebbe profilarsi, ma non è certo, oltre il 2025-30.

Il potenziamento della linea esistente può fare sicuramente fronte alla eventuale crescita del traffico internazionale e locale fino al 2020 e, per le merci, fino alla soglia dei 20 milioni di tonn/anno: ovvero circa il doppio del traffico attuale. Gli studi “di modernizzazione” della linea esistente condotti da SNCF e FS nel 2000 (1) hanno evidenziato la gamma di interventi necessari per utilizzare a pieno la capacità della linea. Si tratta di aumentale la sezione delle gallerie, la lunghezza dei binari di stazione, di potenziare dell’alimentazione elettrica, di migliorare il segnalamento, di acquistare materiale rotabile “interoperabile”, e molte altre cose ancora. Che devono essere evidentemente realizzate prima della costruzione di una nuova linea.

Della crescita degli scambi ferroviari tra Italia e Francia non vi è, al momento, alcuna evidenza: il traffico merci è stabile dal 1994 anche in presenza di una larghissima quota di capacità inutilizzata e nell’ultimo periodo è addirittura in diminuzione.

L’accelerazione impressa al progetto, con la sua frammentazione e la sua autorizzazione per parti separate e tra loro non dialoganti non ha alcun senso. Anzi occorre osservare che si è partiti dall’autorizzazione della parte più “vistosa” ma meno problematica, ovvero dalla sezione italo-francese. sapendo che le parti più difficili sono le due linee nazionali di accesso e che sulle linee di accesso, qualora crescessero i traffici, si porranno problemi di saturazione assai prima che sulla tratta di valico.

Non si vuole qui ridurre la strategicità di un progetto al un puro calcolo di costi e benefici monetari, perché la scelta politica può ben indicare prospettive di innovazione. Tuttavia la variabile chiave di una tale progetto strategico, ovvero lo spostamento alla ferrovia del traffico stradale attuale e futuro, non trova alcun segnale nei fatti e nessuna intenzione nelle politiche. Anzi si moltiplicano i segnali contrari: la riduzione del costo del carburante e dei pedaggi autostradali per gli autotrasportatori, la costruzione accelerata di nuovi elementi di rete autostradale per le lunghe distanze, direttamente concorrenti con la ferrovia.

In questa situazione sembra essere del tutto evidente che gran parte della pressione per la nuova opera viene in realtà dai gruppi di interesse coinvolti nella sua realizzazione: per la progettazione e lo scavo delle gallerie, per la costruzione dei rilevati e delle strutture fisiche, per l’acquisto e la posa dei nuovi impianti. per il materiale rotabile, ecc. Tutti interessi legittimi, ma che pochissimo hanno a che fare con il problema dell’utilità strategica della linea. Problema che dovrebbe invece essere al centro dell’attenzione politica, ma come dimostra la storia fin qui sommariamente ricostruita resta invece sistematicamente subordinato agli interessi più forti.

Meglio sarebbe seguire il parere del Conseil Général des Ponts et Chaussées e attrezzarsi per una “Osservazione vigile” che vuol dire sviluppare bene i progetti, utilizzando tutto il tempo che occorre per cercare la soluzione migliore con l’apporto di tutti. Soprattutto sviluppando con le collettività locali il significato delle opportunità possibili per il territorio. Il fine è quello di essere pronti con un buon progetto, capace di indirizzare nel tempo gli usi del territorio, le localizzazione delle attività, la riserva di spazio, la cura e il rafforzamento dei valori ambientali nonché lo sviluppo delle conoscenze necessarie per intervenire in luoghi così complessi e delicati. In modo da essere pronti se e quando il progetto dovesse rendersi necessario. Se questo accadrà, ne saremo tutti felici. Vorrà dire infatti che avremo davvero re-impostato le politiche di trasporto e modificato il modo di muoversi dei passeggeri e delle merci in Italia e più in generale nel contesto europeo, indirizzandolo verso quella prospettiva di riequilibro modale che ci stiamo raccontando, senza risultati, ormai da decenni.

(1) Anche lo studio di “modernizzazione” condotto da FS e SNCF assumeva stime di crescita del traffico assai ottimiste, molto superiori a quelle realmente riscontrate nel periodo 2000-2005.

Qui di seguito potete scaricare il testo integrale del documento, di cui consigliamo la lettura per comprendere quali e quante sono le perplessità sulla realizzazione del tunnel in Val di Susa che vanno ad aggiungersi alle preoccupazioni tutela dell'ambiente e della salute umana nelle aree attraversate dalla nuova linea (m.b.)

Il presidente della Regione esterna di continuo e dovunque, purtroppo anche con qualche scivolone nell’arroganza, sulla nuova ferrovia ad alta velocità inserita nel famigerato “Corridoio 5”.

Ultimamente pretende addirittura la “resa” di chi la pensa diversamente da lui, di fronte all’”evidenza” che la nuova linea sarebbe necessaria perché quelle esistenti non sarebbero migliorabili. Un’evidenza però, purtroppo (per lui), non supportata da alcun dato.

Mentre invece di dati ce ne sono a iosa, contro le sue tesi.

A cominciare da quelli economici, che dovrebbero stare a cuore a chi passa per essere stato un imprenditore. L’Università statale e la Cattolica di Milano hanno prodotto già nel 2003 un’analisi costi-benefici sulla tratta Venezia-Trieste dell’alta velocità: risultato, l’investimento sarebbe pesantemente deficitario, per mancanza di traffico sufficiente.

Inoltre, sia il ministro dei beni culturali, sia la Commissione VIA del ministero dell’ambiente hanno sottolineato le enormi carenze del progetto preliminare della Ronchi sud-Trieste. L’attraversamento in galleria del sottosuolo carsico (ignoto per la gran parte) comporta infatti il rischio di imbattersi in formazioni geologiche di grandi dimensioni e grande valenza ambientale (Illy farebbe distruggere un’altra Grotta Gigante per farci passare il treno? Temo di sì), ma anche incertezza massima sull’effettiva possibilità di realizzare l’opera e sui relativi costi di costruzione. Il costo della Ronchi sud-Trieste veniva stimato pari a 1,28 miliardi di Euro nel 2002, 1,5 miliardi nel marzo 2004 (Sonego dixit) e 2,2 miliardi nel marzo 2005 dalla Commissione VIAministeriale. Decisamente un’inflazione ad “alta velocità”…. E siamo solo al progetto preliminare, poi il definitivo, l’esecutivo, le (inevitabili) “sorprese geologiche” e così via. Illy cita la “riduzione dei costi di trivellazione”, ma finchè non fornirà dati i contribuenti faranno bene a preoccuparsi.

Il presidente afferma poi che la nuova linea è indispensabile per riequilibrare il trasporto delle merci, spostandone una gran parte dalla gomma su rotaia. Giusto, infatti lo chiediamo (invano) da decenni. La nuova ferrovia dovrebbe però essere alternativa alla costruzione di strade e autostrade, non aggiuntiva. Invece Illy – con Galan e Lunardi – ha fatto approvare la terza corsia sulla “A 4”, la superstrada Sequals-Gemona, la Villesse-Gorizia, e sostiene perfino l’incredibile autostrada tra Cadore e Carnia. Se si fa di tutto per potenziare le infrastrutture stradali, perché poi le merci dovrebbero scegliere la rotaia? E se la scegliessero malgrado tutto, a che cosa sarebbero serviti i miliardi di Euro che si stanno già spendendo in strade e autostrade?

Secondo Illy la Regione ha “scelto la via della concertazione” con le comunità locali. Da ciò l’accordo stipulato con i sindaci del monfalconese per modifiche migliorative del progetto. Peccato che la modesta variante di tracciato, accennata nell’accordo ma priva di qualsiasi supporto tecnico, punti a risolvere solo parzialmente alcune criticità, creandone però delle altre (ad esempio lo scavo di chilometri di galleria in un terreno ricco di falde affioranti). Del resto, non è pensabile spacciare per coinvolgimento delle comunità locali, un accordo – di massima - con i soli sindaci, oltre tutto scavalcando i Consigli comunali.

Uno dei nodi della questione, infatti, in Friuli Venezia Giulia come in Val di Susa, è la totale assenza di iniziative – da parte della Regione – per un dibattito aperto e approfondito sulla natura del progetto, sulle sue motivazioni, sulle possibili alternative (esistono, checché ne dica Illy, ma non si sono volute prendere in considerazione), sul modo per risolvere le criticità ambientali. Eppure, il progetto esiste da quasi 3 anni!

Pretendendo un’adesione sostanzialmente fideistica alle proprie idee e continuando a spacciare come verità assolute quelle che sono soltanto sue opinioni o autentiche distorsioni della realtà (come del caso della “concertazione” con le comunità locali), Illy rende un cattivo servizio anche alla causa che vorrebbe difendere. I tempi della “verità” elargita al popolo bue e ignorante dai signorotti, detentori del potere e della conoscenza, sono finiti da un pezzo.

Forse, però, da chi non è stato capace di dire una sola parola di disapprovazione per la brutalità con cui il Governo ha cercato di soffocare la protesta in Val di Susa, non ci si poteva aspettare altro.

Ringraziando per l’ospitalità che spero possa essermi concessa, porgo i più distinti saluti

Dal 1° gennaio 2005 il traffico merci su strada è stato completamente liberalizzato e quindi è ammessa sull’intero territorio nazionale la circolazione dei veicoli con peso massimo fino a 40 tonnellate.Contemporaneamente la tassa sul traffico pesante è stata aumentata.

Sugli assi ferroviari del Sempione-Lötschberg e del San Gottardo circolano sempre più treni gestiti da diverse compagnie ferroviarie. Anche in questo settore procede la liberalizzazione del mercato e prende corpo la concorrenza tra le aziende per assicurare la trazione dei convogli. Sul fronte delle grandi opere ferroviarie i lavori procedono. Al Lötschberg è caduto in primavera l’ultimo diaframma che separava l’avanzamento dello scavo tra il Canton Berna e il Canton Vallese. La messa in esercizio dell’opera è confermata per la fine del 2007. Al San Gottardo,nonostante le difficoltà geologiche incontrate a Bodio e Faido, a metà 2005 era scavato quasi il 45 % delle gallerie e dei cunicoli progettati.

Parlamento e Consiglio federale, nel primo semestre di quest’anno,hanno adottato importanti decisioni sullo sviluppo delle grandi infrastrutture. In particolare è stato sbloccato il credito riguardante la realizzazione della galleria di base del Monte Ceneri e a breve è attesa l’autorizzazione a costruire, di competenza del Dipartimento federale dell’ambiente,dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni. La politica svizzera dei trasporti prosegue quindi il suo corso.Nel frattempo il traffico si sviluppa.Questo articolo vuole dare un quadro dell’evoluzione registrata in questi ultimi anni.In particolare viene considerato il periodo dal 2001 ad oggi, ossia quello intercorsodall’introduzione della tassa sul traffico pesante proporzionale alle prestazioni e dalla liberalizzazione del traffico merci su strada.

1. L’evoluzione del quadro normativo

a) Con il 1° gennaio 2001 la Svizzera ha introdotto la nuova tassa sul traffico pesante proporzionale alle prestazioni in sostituzione della precedente tassa forfetaria. Si è trattato della prima tappa dell’applicazione della nuova tassa; la seconda tappa è scattata con il 1° gennaio del 2005.L’ ultima è prevista in contemporanea alla messa in esercizio della galleria di base del Lötschberg o comunque al più tardi entro il 1° gennaio 2009. La tassa, differenziata secondo il tipo di motore e quindi le emissioni dei veicoli,è stata aumentata del 50 % circa. Parallelamente alla modifica della tassa il limite massimo di peso autorizzato sulla rete stradale svizzera è stato portato da 36 a 40 tonnellate. Sono così stati aboliti i contingenti per i veicoli fino a 40 t e per i veicoli vuoti ammessi alla circolazione nel periodo 2001-2004,che peraltro non erano stati completamente utilizzati.

b) Dal 2001 è pure entrata in vigore la Legge sul trasferimento del traffico,che prevedeva,entro il 2003, la stabilizzazione del traffico pesante attraverso le Alpi svizzere ai valori del 2000. Al più tardi entro 2 anni dall’apertura della galleria di base del Lötschberg ne postula la riduzione a 650.000 unità,quindi alla metà del valore registrato nel 2000. Questa Legge propugna l’adozione di specifiche misure atte a sostenere il raggiungimento degli obiettivi di stabilizzazione prima e poi di riduzione, in attesa della messa in esercizio delle nuove grandi infrastrutture ferroviarie ora in costruzione.

Queste misure fiancheggiatrici euno specifico credito-quadro valido fino al 2010 toccano la gestione della rete stradale e di quella ferroviaria. Nel settore stradale sono in via di attuazione controlli più intensivi dei veicoli e misure di conduzione del traffico;queste ultime toccano specialmente il transito al San Gottardo e al San Bernardino e hanno assunto un rilievo particolare dopo il noto incidente dell’ottobre 2001. Nel settore ferroviario sono in particolare previsti:

– contributi per la riduzione dei costi delle tracce nel traffico combinato e in quello tradizionale a carri completi;

– contributi per la costruzione di terminali per il traffico combinato in Svizzera e all’estero (6 oggetti sono stati sovvenzionati nel periodo 2002-2003);

– contributi per la promozione dei binari di raccordo.

La Confederazione, in sintonia con l’approccio a livello europeo,ha promosso il libero accesso (open access) alla rete ferroviaria. Ha così stabilito condizioni quadro favorevoli per una maggiore concorrenza nell’offertadi prestazioni.Si assiste pertanto a significativi sforzi e nuove iniziative da parte delle imprese ferroviarie per migliorare la qualità delle proprie prestazioni, in particolare nel traffico internazionale. Nel 2005 cinque diverse società ferroviarie offrono i loro servizi per il traffico transalpino.

Le FFS hanno inoltre fondato società consorelle all’estero. Si estende l’impiego di locomotori policorrente ed è stato introdotto dal 2003 l’orario cadenzato anche nel settore merci. Da parte delle FFS é stato avviato,per il traffico interno, il servizio Cargo Domino (trasporti combinati con una nuova tecnica adatta a chi non dispone di un binario di raccordo).

2. L’evoluzione del traffico

Attraverso l’arco alpino tra il Fréjus e il Brennero nel 2003 sono transitati 103,9 milioni di tonnellate di merce, di cui 65,5 milioni su strada (63%).

La crescita è costante, ancorché si noti una stabilizzazione attraverso i valichi francesi (cfr. grafico A).Nel medesimo anno hanno utiliz-zato i valichi svizzeri 31,5 milioni di tonnellate, di cui 11,6 su strada (37%). La quota di mercato del traffico ferroviario si conferma in Svizzera nettamente più elevata rispetto ai Paesi vicini.

Nel 2004 sono transitati attraverso le Alpi svizzere complessivamente 1.255.000 veicoli pesanti.Rispetto all’anno precedente,che ne aveva fatti registrare 1.291.000, si è dunque constatato un calo del 3%.Si è così confermata l’inversione di tendenza osservata nel 2001, quando si è finalmente interrotta la crescita continua che durava ormai dal 1985. Rispetto al 2000, anno in cui si è registrato il maggior numero di veicoli pesanti in assoluto (1.404.000), il traffico è calato dell’11%. Se si distingue per tipo di veicolo si nota che il calo è da ricondurre essenzialmente alla categoria degli autocarri senza rimorchio, che in 4 anni si sono pressoché dimezzati.

A seguito del maggior carico medio per veicolo, la riduzione del numero di veicoli non ha comportato tuttavia un calo del quantitativo di merce trasportata su strada. Questo, tra il 2000 ed il 2004, è invece aumentato passando da 8,9 a 12,1 mio di t (+36% ossia +3,2 mio t).

Il numero di veicoli è invece passato,come si è detto, da 1.404.000 nel 2000 a 1.255.000 (-10,6%). Il carico medio per veicoli è quindi aumentato da 6,3 tonnellate a 9,6 tonnellate (+52%).

Nello stesso periodo il traffico merci su ferrovia è aumentato di 1,5 mio t. Con una quantità di 22 milioni di tonnellate, essa trasporta comunque ancora 2/3 delle merci attraverso le Alpi svizzere.

È interessante constatare che, nel traffico su rotaia,il trasporto combinato tra il 2000 ed il 2004 è comunque aumentato,analogamente al traffico stradale, di 3,2 mio di tonnellate l’anno. Il traffico su carri completi è invece diminuito, da 10,6 a 8,7 mio t, e non rappresenta dunque più il vettore principale. Nel 2005,pur disponendo solo di dati parziali riferiti al transito di veicoli pesanti sul San Got-tardo,che assorbe oltre i 3/4 dell’intero traffico transalpino svizzero,non sembrano esserci cambiamenti significativi rispetto al 2004.

3. Il secondo Rapporto sul trasferimento del traffico dalla strada alla ferrovia

La Legge sul trasferimento del traffico prevede che il Parlamento sia orientato a scadenza biennale sull’evoluzione del trafficotransalpino e sull’efficacia delle misure fiancheggiatrici in rapporto all’obiettivo della sua riduzione. Il primo Rapporto è stato rassegnato nel maggio del 2002 e il secondo nel novembre del 2004.Come illustrato nel capitolo precedente il traffico attraverso le Alpi svizzere è diminuito rispetto al 2000.Diversi fattori hanno contribuito a determinare questa evoluzione e risulta difficile stabilire rapporti di causalità univoci.

Tra i fattori indipendenti dalla politica svizzera dei trasporti vanno segnalati:

– l’evoluzione congiunturale,che è stata in questi ultimi anni debole sia in Svizzera che in Europa;

– l’impatto di eventi straordinari (incidenti, condizioni meteorologiche) che hanno inciso sulla capacità delle infrastrutture. Ricordiamo le interruzioni della linea ferroviaria di Luino e della galleria di Monte Olimpino II (2003), nonché le conseguenze dell’incidente stradale al San Gottardo del 2001 e la successiva introduzione del sistema di dosaggio e poi il cosiddetto contagocce;

– l’evoluzione della politica europea dei trasporti e le sue conseguenze sul mercato dei trasporti.

Tra i fattori che dipendono dalla politica svizzera dei trasporti menzioniamo:

– l’apertura del mercato del traffico merci;

– la tassa sul traffico pesante e i nuovi limiti di peso;

– le misure fiancheggiatrici per favorire il trasferimento del traffico dalla strada alla rotaia.

Secondo le valutazioni di esperti la riduzione del traffico pesante attraverso le Alpi Svizzere è da ricondurre, per circa 2/3, all’introduzione della tassa sul traffico pesante e al contemporaneo aumento dei limiti di peso e, per circa 1/3, alle misure accompagnatorie adottate dal Parlamento.

Le previsioni sull’evoluzione del traffico merci per il periodo fino al 2030,recentemente elaborate dall’Autorità federale,mostrano una crescita costante dell’ordine del 30% fino al 2015 e di un ulteriore 20% circa fino al 2030. Il raggiungimento dell’obiettivo di riduzione stabilito dalla Legge sul trasferimento del traffico appare al momento molto problematico. Ancor di più nell’eventualità che le misure fiancheggiatrici, limitate nel tempo, fossero abbandonate.

Per tale ragione l’Autorità federale intende vagliare non solo il mantenimento delle misure attuali ma anche la loro possibile estensione.In particolare verranno approfondite nuove ipotesi:

– le modalità di gestione del traffico pesante attraverso strumenti nuovi (borsa dei transiti, tassa per l’uso delle gallerie);

– le possibilità di estensione dell’offerta di prestazioni supplementari nel traffico combinato accompagnato;

– le possibilità di controlli più severi dei veicoli in circolazione.

4. Conclusioni

L’evoluzione del traffico su strada e su ferro attraverso le Alpi è confrontata a radicali cambiamenti delle condizioni quadro operative. Alcune misure già mostrano concreti effetti; altre, soprattutto legate ad aspetti strutturali (quali, ad esempio, la ridefinizione dell’organizzazione logistica delle aziende) possono manifestarsi solo sul medio e lungo termine. La debole congiuntura economica non spinge la domanda di trasporto al rialzo. Accanto alla soddisfacente constatazione non solo della stabilizzazione del traffico pesante attraverso la Svizzera ma anche di una sua riduzione permangono i dubbi e la preoccupazione sulle prospettive future, in attesa della messa in esercizio delle nuove infrastrutture. In tal senso si impone una grande prudenza e la messa a punto di una strategia in grado dioffrire le necessarie soluzioni in funzione dei risultati del monitoraggio.

Il Consiglio federale esaminerà in tal senso nel corso del 2006 un Messaggio all’intenzione del Parlamento per una Legge di applicazione sull’articolo 84 della Costituzione federale (protezione delle Alpi).Nello stesso si definiranno le future modalità di gestione del traffico transalpino. Si tratta quindi, per evidenti motivi, di un dibattito di grande rilevanza per il Cantone Ticino.

Decisioni e fatti principali nella politica svizzera dei trasporti attraverso le Alpi 2000-2005

Maggio 2000 In votazione popolare sono approvati gli Accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Unione europea.Nel Ticino il voto è contrario.

Gennaio 2001 E’ introdotta la tassa sul traffico pesante proporzionale alle prestazioni e sono autorizzati i veicoli con carico massimo fino a 36 t. Ammessi pure contingenti fino a 40 t e per i veicoli vuoti.

Marzo 2001 Il Parlamento federale ratifica la Convenzione concernente la garanzia della capacità delle principali linee che collegano la nuova ferrovia transalpina svizzera alla rete italiana ad alta capacità.

Luglio 2001 Il Consiglio federale approva il sistema di galleria a due tubi separati per il Monte Ceneri.

Ottobre 2001 Incidente stradale nella galleria del San Gottardo e sua chiusura temporanea (riapertura in dicembre con divieto di incrocio per i veicoli pesanti).

Ottobre 2002 La gestione del traffico stradale al San Gottardo passa dal sistema “dosaggio” al sistema “contagocce”.

Gennaio 2003 Dichiarazione d’intenti tra Svizzera, Italia,Olanda e Germania per un corridoio ferroviario merci attrattivo nord-sud.

Aprile 2003 E’ pubblicato il piano della galleria di base del Monte Ceneri.

Febbraio 2004 In votazione popolare il Controprogetto all’Iniziativa Avanti viene respinto.

Giugno 2004 E’ approvato il Decreto federale concernente il credito aggiuntivo e la liberazione parziale dei fondi bloccati dalla seconda fase della NFTA.

Novembre 2004 Il Consiglio federale trasmette al Parlamento il Rapporto sul trasferimento del traffico (Verlagerungsbericht).

Dicembre 2004 E’ approvato il Decreto federale concernente il finanziamento del raccordo della Svizzera orientale e occidentale alla rete europea ad alta velocità.

Aprile 2005 E’ posto in consultazione il progettoper il Fondo per il traffico d’agglomerato e le strade nazionali.

Giugno 2005 Il Parlamento approva alcune modifiche del fondo di finanziamento delle grandi infrastrutture ferroviarie.

Giugno 2005 E’ approvato il Decreto federale che stanzia un credito per un’analisi delle capacità degli assi nord-sud della rete ferroviaria svizzera.

Giugno 2005 Il Consiglio federale libera il credito per la realizzazione della galleria di base del Monte Ceneri.

Nota: estratto dal Piano Direttore del Canton Ticino, la documentazione è disponibile in forma completa al sito della Divisione Pianificazione Territoriale (f.b.)

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