Il tema della "casa per tutti" per la sua nobiltà e per le sue urgenze (sia quelle italiane dove negli ultimi dieci anni si è costruito abitazioni per meno della metà degli altri paesi europei, sia quelle gravissime dei paesi del terzo mondo) si presenta tanto rilevante da giustificare ogni tentativo di messa in evidenza.
Nel caso della mostra alla Triennale di Milano, Casa per tutti, con l’ambizioso sottotitolo "Abitare la città globale", il tentativo ci sembra lo spostamento del punto di vista rispetto a quelli proposti dal movimento moderno, con grandi speranze ideali di uguaglianza e di liberazione collettiva, a partire dagli anni Venti e Trenta del XX secolo. Ad essi sono dedicate nei cataloghi della mostra una serie di testi di grande interesse per il loro contenuto specifico, ma anche come termine di paragone rispetto all’attuale tensione ideologica verso una "città delle differenze". Si tratta di una sfida assai difficile in una società dove l’omogeneità sembra essere l’obiettivo strutturale al momento dell’uscita dalle povertà più disperate. Invece là dove i bisogni primari, oltre alle soluzioni abitative, sono le fognature, l’acqua, l’energia ed i servizi elementari, certo nessuna soluzione molecolare può far fronte. In qualche modo la città delle differenze sembra più una speranza alimentata da una lettura delle difficili condizioni delle periferie "sprawl" delle città europee che da quelle dei terzi mondi. Forse è questa ragione strutturale il motivo del fatto che alla serietà dei propositi dei testi e delle loro sia pur discutibili tesi, fanno riscontro una serie di proposte, che certamente senza volerlo, trasformano in burla estetica la tragicità del problema.
Il recente pronunciamento del TAR del Lazio circa la legittimità del dispositivo di sosta a pagamento attuato in una zona della città di Roma, pronunciamento che ora il Codacons brandisce a guisa di clava contro le moltissime Amministrazioni comunali che hanno adottato analoghe misure, evidenzia, al pari di altre analoghe vicende, uno sconfortante livello di inciviltà tecnica, giuridica e sociale.
Inciviltà giuridica in primis: al di là delle motivazioni della sentenza, che saranno ovviamente ineccepibili sotto l’aspetto formale, non si può non cogliere come sia costantemente assente nella logica che muove questi ed altri analoghi giudizi il principio del rispetto della volontà del legislatore.
Il nuovo Codice della Strada è infatti ben chiaro nella volontà di superare la vecchia e del tutto insensata norma, quella appunto applicata nella sentenza ed a gran voce reclamata dal Codacons, della garanzia di parità tra posti-auto a pagamento e posti auto-gratuiti, dando la potestà alle Amministrazioni di non applicarla nelle “Zone di particolare rilevanza urbanistica”, che sono definite semplicemente e genericamente come “ aree nelle quali sussistono esigenze e condizioni particolari di traffico”.
Che ora un tribunale decida la sufficienza o meno delle motivazioni che portano alla definizione di tali zone è quantomeno imbarazzante, anche perché purtroppo la sentenza si dilunga a spiegare che le ritiene dubbie in quanto queste ricomprendono anche “ vie secondarie, prive di abitazioni e di negoz.”, e nello stesso tempo quindi dimostra la notevole ignoranza degli estensori della medesima circa il funzionamento del sistema della sosta e del concetto basilare di regolazione di area che da questo deriva.
Senza qui voler invocare il vulnus ai fondamenti dello stato democratico moderno, il mancato rispetto dei ruoli istituzionali e dei poteri qui porta più banalmente ad indurre persone nel loro campo certamente brave e competenti ad occuparsi di materie di cui palesemente non capiscono nulla.
La stessa mancanza di rispetto si era peraltro manifestata in altre e ben più gravi occasioni, in particolare rispetto alla pervicace volontà di impedire l’applicazione delle finalmente efficaci forme di controllo telematico delle infrazioni, dai limiti di velocità, al rispetto dei semafori, al controllo delle corsie preferenziali e di emergenza.
Come fanno giudici e presunti difensori del cittadino a non accorgersi di come la sostituzione di norme non di rado mal scritte ma chiare nelle finalità con una sterminata e contraddittoria produzione giurisprudenziale privi il cittadino del suo diritto più importante, che è quello appunto della certezza della norma e del diritto stesso?
E quando la norma non va applicata ma ‘interpretata’ tutto può succedere: anche che un semplice funzionario ministeriale si arroghi il diritto, come non molto tempo fa è successo, di sostituirsi al legislatore e di impedire, di fatto, l’applicazione di un sistema tranquillamente e positivamente diffuso in tutta Europa, che è quello che prevede di utilizzare i semafori per il controllo delle velocità.
Inciviltà tecnica poi: la tariffa è unicamente vista dal Codacons come balzello vessatorio. Nella teoria economica dei trasporti la tariffa è invece riconosciuta come uno dei metodi più efficienti per regolare l’accesso competitivo all’uso di risorse scarse, quale è la capacità di una strada o la quantità di sosta di un parcheggio. E non è senza significato sottolineare come efficienza significhi in questo caso proprio la massimizzazione del surplus del consumatore.
Al contrario l’accesso non regolato, e la congestione che ne deriva, risulta essere un meccanismo di regolazione altamente inefficiente e fortemente penalizzante proprio per i soggetti più ‘motivati’ al consumo.
Altra cosa sarebbe porre il tema della equità distributiva della tariffazione, ma non di questo sembra ci si voglia occupare con tali crociate: è evidentemente un tema troppo complesso e di scarso interesse forense.
Inciviltà sociale infine: la tariffazione della sosta e, più in generale, del consumo di trasporto automobilistico, è uno degli strumenti fondamentali per governare i livelli di traffico nelle aree urbane, dai quali discendono impatti rilevantissimi sull’ambiente e sulla qualità del vivere urbano: dall’inquinamento, alla sicurezza, all’uso degli spazi ….
Decidere di difendere, per giunta maldestramente come abbiamo prima spiegato, il solo “automobilista consumatore”, significa negare le ragioni degli altri e non meno meritevoli “cittadini consumatori”: consumatori di sicurezza, di aria pulita, di silenzio, di qualità urbana; questo senza nemmeno avere l’onestà di rendere esplicite e di giustificare le ragioni di tale decisione. E questo significa sfruttare nell’interesse di una parte un ruolo di rappresentanza che dovrebbe, nelle finalità fondamentali di tali associazioni, essere un poco più universale.
Ne è un chiaro e ben amaro esempio la già citata opposizione all’utilizzo delle forme di controllo telematico delle infrazioni, laddove evidentemente si preferisce salvaguardare gli interessi di chi, volendo poter correre senza noiosi limiti di velocità e snervanti attese ai semafori rossi, pregiudica l’altrui sicurezza; o la mai sopita guerra agli ausiliari del traffico che nella pratica significa difendere chi si ritiene in diritto di lasciare la propria macchina sui marciapiedi o in doppia fila, con buona pace dei passeggeri del tram bloccato o dell’invalido cui viene impedito il passaggio.
P.S. - Poichè uno strumento è buono solo se correttamente applicato, è ben possibile che, nel caso in questione delle strisce blu di Roma Ostiense che non conosciamo nel dettaglio, il provvedimento di pagamento della sosta fosse del tutto scorretto. Questo nulla toglie al ragionamento svolto, dato che l’opposizione a tale provvedimento è stata essenzialmente condotta sui principi generali e non nello specifico, come avrebbe invece dovuto essere. Ne è riprova il successivo annuncio da parte del Codacons di voler intraprendere altre analoghe impugnazioni ovunque tale provvedimento sia vigente.
Un piccolo caleidoscopio, che fa vedere tutta l'infamia, tutta la vera, schifosa natura degli «imprenditori politici» della paura e del razzismo, dai quali, si spera, perfino Berlusconi, sui clandestini, forse comincia a prendere le distanze: tale si rivela il blitz di ieri a Mestre di un gruppo di leghisti contro un villaggio per i sinti (che vivono da trent'anni poco lontano, in un insediamento ormai inadeguato) progettato dal Comune di Venezia. Di per sé, il blitz ha raccolto ben poco, una ventina di persone. In compenso, a favore del villaggio, sono schierate tutte le istituzioni della città, associazioni e gente di buona volontà, il Patriarca, la Caritas, mentre prefetto e questore hanno garantito che l'insediamento non ha mai dato problemi.
I 169 sinti sono tutti residenti, tutti regolari, tutti lavorano, tutti i loro bambini vanno a scuola. Il progetto, risalente al '98, era nato sulla base di finanziamenti governativi. Inaffidabili, come sempre in questi casi, i vari governi hanno poi tagliato i fondi. Così il Comune, che si era impegnato con i sinti e con la città attraverso un contratto di quartiere (che prevede nell'area dell'attuale campo un intervento di edilizia residenziale e una struttura per anziani), ha deciso di onorare l'impegno stanziando la cifra necessaria (2,8 milioni di euro).
Nel villaggio si trasferiranno 38 degli attuali nuclei, 130 persone circa, avendo 7 nuclei deciso di accettare un alloggio pubblico. L'area interessata è poco distante dal campo attuale, è più spaziosa, non a ridosso di un quartiere popoloso come è l'attuale e, perciò, rende possibile ampliare e riqualificare l'insediamento. Una soluzione razionale e civilissima, perfino economicamente vantaggiosa per il Comune, perché se tutti i sinti avessero scelto l'alloggio pubblico (a cui avrebbero diritto per cittadinanza, reddito, numero di figli e altri membri) i costi sarebbero stati ben maggiori.
Perché tutto questo livore, dunque? Perché, appunto, gli «imprenditori politici» della paura e del razzismo (la definizione è di Luigi Manconi) non hanno alcun interesse a soluzioni razionali e civili. Al contrario, vogliono alimentare un disordine rancoroso e nevrotico, che finora li ha premiati elettoralmente (Berlusconi compreso, che rischierà di misurarsi con i mostri che ha creato). Non a caso, anche a Mestre, da giorni, stanno cercando l'incidente, per enfatizzare il proprio livoroso discorso. Oggi gran parte dei media, in perfetta sintonia con l'Italia paranoica e irragionevole, ha regalato allo sparuto drappello leghista una visibilità del tutto immotivata, data la miseria non solo dei loro argomenti ma della mobilitazione stessa.
Il Comune, comunque, intende procedere e in città si sta preparando la contro mobilitazione degli anti razzisti. Resta da vedere cosa farà il resto del centro destra, anche alla luce delle differenze createsi ieri con la Lega sul reato di clandestinità. Qui, però, non ci sono «clandestini». Il nuovo insediamento è un segno della città che cresce e migliora. Nessuno potrà fermarla.
Nota. - Si confronti la prospettiva a cui ci obbligano i nostrani imprenditori della paura, con le linee guida sull’abitazione per le minoranze nomadi appena pubblicate dal ministero britannico per le aree urbane, dove la frase di apertura suona più o meno “ tutti hanno diritto a un’abitazione decorosa …” (f.b.)
Riprendendo un tema che fu oggetto nel '33 di una celebre mostra e che negli ultimi anni è stato trascurato, la Triennale di Milano presenta l'esposizione «Casa per tutti» fino al 15 settembre. Abitazioni come abiti, capanne o capsule, per esistenze nel segno del nomadismo.
Con la mostra Casa per tutti, in corso fino al 15 settembre, la Triennale rende omaggio alla sua storia riprendendo il tema affrontato dalla famosa esposizione del '33, quando i più importanti progettisti italiani si confrontarono sperimentando tipologie di alloggio differenti. Dopo anni in cui le ricerche degli architetti si erano orientate altrove, verso gli spazi del mercato, con le architetture di Koolhaas per Prada o di Toyo Ito per Tod's, va riconosciuto ai curatori - gli storici dell'architettura Fulvio Irace e Carlos Sambricio insieme a Matteo Agnoletto, Silvia Berselli, Teresa Feraboli, Federico Ferrari, Gabriele Neri, Jeffrey Schnapp - il merito di aver riportato al centro del dibattito architettonico la casa e più in generale la questione dell'abitare.
In contemporanea, infatti, il sociologo Aldo Bonomi cura nella stessa sede la mostra La Vita nuda dove trovano spazio fra l'altro il progetto di sensibilizzazione sulle comunità rom che Stalker/Osservatorio nomade conduce da un decennio, gli esperimenti di co-housing sempre più frequenti nelle nostre città e infine la ricerca di multiplicity.lab sulla rete di cascine presenti nel territorio milanese da trasformare in residenze. E nel parco della Triennale sono installate le architetture per l'emergenza di Fuksas, Kengo Kuma, Cino Zucchi, Cruz Roja Peruana + IFRC, Piero Barbanti e Luca Tontini (vincitori del concorso indetto in concomitanza con la mostra), I-Beam Design, Alejandro Aravena e Andreas Wenning/Baumraum, mentre nell'atrio è collocata la Clothes House, architettura temporanea degli olandesi MVRDV, un monovolume costruito con i vestiti riciclati che si propone come riflessione etica sulla quantità di indumenti buttati via ogni giorno nel mondo.
Gli stessi MVRDV sono presenti anche nella sezione «macro-house» con il progetto Mirador Residences che, realizzato a Madrid nel 2005, riprende il tema della macrostruttura residenziale cara ai Metabolisti giapponesi. Qui la forma è generata dall'assemblaggio di singoli parallelepipedi trattati in maniera differente nel ritmo e nella forma delle finestre, nei colori e nelle scelte dei materiali ma anche nella tipologia abitativa: un gioco a incastri unitario ed efficace.
«Macro-house» è una delle sezioni in cui si articola Casa per tutti (le altre sono «casa abito», «casa leggera», «casa mobile», «case rapide», «capsule aggregabili», «cabanon», «emergenze e quotidianità», «sezione americana», in un allestimento, firmato da Cliostraat, che rischia a tratti di essere disomogeneo e prepotente) e propone un confronto interessante tra architetti noti, come appunto MVRDV, Steven Holl e Rem Koolhaas e altri meno conosciuti in ambito internazionale, come i tre progettisti italiani invitati alla rassegna: Stefano Mirti con la casa d'emergenza per immigrati, Dogma con la Stop City (una citazione della no-stop city teorizzata dagli Archizoom nel '69) e il gruppo di architetti romani altro_studio con l'unità di abitazione verticale per vacanze Sentina.
Ma all'interno dello spazio dedicato al «macro» sono presenti anche tre «architetture-città»: le Unités d'habitation di Marsiglia e Nantes di Le Corbusier (i cui straordinari disegni aprono il percorso tematico), il Corviale di Mario Fiorentino e il quartiere Ina-Casa Forte Quezzi realizzato da Luigi Carlo Daneri a Genova, esempio di re-interpretazione del Plan Obus lecorbusieriano. Un tema che si svilupperà poi negli anni Settanta con architetti come Paolo Soleri (assente giustificato dalla mostra avendo progettato macro-città e non residenze), i metabolisti giapponesi, i radicali Archigram, Hans Hollein, Superstudio.
Ma tornare a discutere sulla casa in Italia pone in evidenza soprattutto le questioni legate ai destinatari dei progetti: i giovani, gli immigrati, i lavoratori fuori sede, gli studenti, le neo-famiglie.
L'architetto viene così sollecitato a rioccuparsi dell'abitare come istanza etica nei confronti della società. E forse - suggerisce la mostra milanese - per raggiungere questo obiettivo occorre ripartire dalle case rapide realizzate con materiali prefabbricati, veloci da costruire e dai costi contenuti, secondo l'insegnamento del fabbro-architetto Jean Prouvé, di Marco Zanuso con la sua unità abitativa di emergenza Fiat-Anic e oltreoceano di Buckminster Fuller con le case fatte di materiali riciclati. A questo proposito, Casa per tutti dedica un posto di rilievo proprio al contesto statunitense, dove sono presentate alcune tra le ricerche più interessanti sulle residenze mobili: è questo il caso di Rocio Romero che commercializza i kit di case prefabbricate in alluminio con tanto di istruzioni d'uso, e dei container ripensati in forma di abitazioni da Jennifer Siegal/Design Mobile, mentre più tradizionale appare la ricerca di Marmol-Radziner con i suoi prefabbricati modulari. La prefabbricazione è uno dei temi affrontati anche dalla ricerca di altro_studio, da un decennio all'opera su questi temi, come dimostrano i progetti in mostra a Milano, dal prototipo in scala 1:1 Absolute box (una scatola di quindici metri quadri sostenuta da cavalletti di acciaio, dotata di bagno, zona giorno, sistema fotovoltaico e recipiente per un'autonomia idrica di tre giorni e un costo pari a quello di un'auto utilitaria) al plastico del modulo infinito di chiara ispirazione fulleriana.
Lo spazio che Casa per tutti dedica a questa ricerca rappresenta un riconoscimento importante, soprattutto tenendo conto di come spesso la critica italiana sia distratta nel valorizzare l'impegno professionale di architetti che lavorano su contenuti specifici. Ma al tempo stesso è la dimostrazione che ben di più l'esposizione della Triennale avrebbe potuto fare per fornire un quadro completo e stimolante della ricerca contemporanea sul tema dell'abitare.
Spuntano come funghi e ridisegnano il territorio e le relazioni sociali, sono gli outlet e factory outlet center (Foc), per semplicità i grandi centri commerciali. Vere e proprie città dello shopping che invadono la campagna e relegano i paesi a periferie di borghi artificiali e immensi parcheggi.
In Italia l’apripista è stato nel 2000 il Foc di Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria. Con 180 negozi e tre milioni di visitatori all’anno è il più grande d’Europa, il primo aperto e gestito nel nostro paese da gruppo britannico McArthur Glen. In tutto sono 16 i megacentri che hanno visto la luce dal 2000 a oggi, entro la fine del 2008 saranno 24. E se oggi la superficie totale occupata da questi spazi è pari a 333.506 mq, le previsioni dicono che entro l’anno raddoppierà (Urb&Com, 2007).
Un mostro sta ad esempio per sorgere in Toscana, a Migliarino (Pi). Quelli che accompagnano gli imminenti lavori per la costruzione del “Parco Commerciale San Rossore”, nome che beffardamente evoca la vicina area protetta, sono numeri da capogiro: 222mila mq di superficie, senza considerare l’area dello svincolo autostradale di 33.600 mq, una superficie di vendita dedicata alla grande distribuzione di 31.500 mq (di cui 20mila concessi a Ikea), alla media di 8.500 mq e 1.500 dedicati alla piccola distribuzione. Il tutto per una superfici coperta di 48.800 mq e un bacino d’utenza di 1.200.000 persone.
Un centro enorme, se si considera che l’intero comune di Migliarino è pari a 35,37 kmq, abitati da poco più di 3.700 anime. “I 20mila visitatori medi giornalieri e i circa 200 mezzi pesanti per i rifornimenti merci previsti – denuncia il Movisati, movimento spontaneo di cittadini sorto per contrastare la nascita del parco commerciale – porteranno il paese al collasso”.
Costi ambientali
Dal punto di vista ambientale, il prezzo da pagare per la nascita di questi megacentri dello shopping è insostenibile. “Qualunque area vicina ai sistemi autostradali è ormai un patchwork sporco dove anche gli spazi non urbanizzati e impermeabilizzati sono comunque di bassissimo valore – sentenzia Fabrizio Bottini, urbanista e autore di I Nuovi Territori del Commercio (Alinea 2005) – Le acque si inquinano per il di lavaggio dei parcheggi e l’aria si riempie degli scarichi degli ingorghi. La nascita di questi centri consuma moltissimo suolo e impermeabilizza chilometri e chilometri quadrati di superficie”. Ne è un esempio il Foc di Noventa di Piave, di prossima realizzazione, che occuperà circa 16 ettari di terreno e, come tutte le opere superiori agli 8.000 mq, per essere attuato avrebbe bisogno della Via e della Vas. “In realtà costruendo a stralci di 4.500 mq per volta, si porta avanti una frode urbanistica legalizzata”, spiega Irene Rui, sociologa dell’ambiente e del lavoro. Come se non bastasse la nascita di questi centri porta anche un incremento vertiginoso degli spostamenti carrabili: scompaiono i “negozi di vicinato” e i consumatori sono costretti a utilizzare l’automobile.
Lavoro al centro
“Visto che nelle nostre desolate periferie sono spesso le attività commerciali di vicinato a svolgere una funzione di legante sociale, non c’è dubbio che in futuro aumenteranno i fenomeni di marginalità urbana – spiega l’ingegnere urbanista Paolo Berdini – Per ogni centro commerciale che apre sono circa 70 i negozi tradizionali costretti a chiudere. Le conseguenze urbane e sociali dell’apertura delle grandi superfici di vendita, a Roma in sette anni ne sono state aperte 28, saranno quelle di una rarefazione del tessuto commerciale, in particolare quello periferico”.
In molte regioni del centro-nord, secondo Luca Tamini, docente di Progettazione urbanistica di strutture commerciali al Politecnico di Milano, “si assiste a un’avanzata saturazione del mercato dei grandi insediamenti commerciali che, acquisendo gli elementi qualitativi presenti nella riforma del commercio Bersani del marzo 1998, ha incentivato politiche di refurbishment, cioè messa a nuovo, e progetti di riconversione di strutture esistenti con interventi di integrazione funzionale e di cooperazione con la rete del commercio locale. Il Sud Italia e le Isole – continua Tamini – rappresentano invece ancora un territorio in via di consolidamento. Sono previsti circa 2,3 milioni di mq di commercio nei prossimi anni, dove poter sperimentare modelli di sviluppo commerciale maggiormente compatibili con le diverse dinamiche socioeconomiche”.
C’è poi il caso degli outlet che nascono a pochi chilometri o poche centinaia di metri l’uno dall’altro. “Questi centri, quando vogliono e possono, si fanno concorrenza esattamente come due panettieri nella medesima via – riprende Bottini – non a caso se si confrontano i potenziali bacini d’utenza, esistono moltissime sovrapposizioni, e non di poco conto”.
Chi difende queste strutture dice che un nuovo centro commerciale porta nuovi posti di lavoro: è vero. Ma è altrettanto vero che la chiusura dei posti vendita tradizionali i posti di lavoro li toglie. Un esempio? Il nuovo outlet di Noventa di Piave (Ve) occuperà circa 500 persone, a fronte di 2.500 posti in meno causati dalla chiusura dei punti vendita vicini, secondo una stima del presidente della Federmoda provinciale Giannino Gabriel.
Super Luoghi
Da non luoghi a super luoghi. Stazioni ferroviarie, aeroporti, ma soprattutto centri commerciali e outlet, hanno ormai perso le caratteristiche di contenitori anonimi e senza identità descritte dal sociologo Marc Augé all’inizio degli anni Novanta, che definì questi spazi “non luoghi”. Così l’outlet di Serravalle oggi si propone come “un centro storico del tipico borgo ligure”; l’outlet di Barberino del Mugello è progettato come “un borgo rinascimentale”; quello di Castel Romano propone ai suoi visitatori uno shopping “passeggiando fra le vie dell’antca Roma”; il nuovo outlet in costruzione a Noventa di Piave prevede addirittura una “finta Venezia” e l’intero centro nascerà come “villaggio palladiano” con barchesse, palazzi in stile palladiano, veneziano e trevigiano, ampi portici e affreschi alle pareti.
“Non sono più semplici contenitori, ma prodotti essi stessi”, ha spiegato qualche tempo fa il professor Giandomenico Amendola, docente di Sociologia urbana all’università di Firenze. “Sono l’emblema della città che si disperde nel territorio – spiega Amendola – il centro che di solito manca in essa, vorrebbero rappresentare quello che erano le piazze italiane e infatti le imitano”.
E così sorgono centri commerciali e factory outlet curati nei minimi particolari, dalla fontana in stile neoclassico alla piazzetta attorniata da panchine sulle quali durante il week-end trascorrono felicemente le proprie giornate adolescenti, coppie e anziani.
“La cura del progetto spaziale degli outlet – riprende Bottini – ameno sul versante microurbanistico è estrema. Gli operatori gestiscono quantità enormi di risorse economiche, ed è giusto e doveroso che queste risorse si traducano nel costruire città, overo spazi anche e soprattutto pubblici che si sommano a quelli della tradizione. Così ci si allontana – continua Bottini – dall’idea di scatola con attorno un parcheggio, uno svincolo, e intorno l’aperta campagna”.
Se basta un trucco
Insomma, un po’ di maquillage e al peggio non c’è fine. Ma è possibile fermare la continua occupazione di nuovi spazi? “No – risponde secco l’urbanista Fabrizio Bottini – se si accetta come ineluttabile destino il modello insediativi che per comodità, interesse o pura cultura di impresa gli operatori continuano a proporci come immodificabile. Sì, se affrontiamo il tema dell’insediamento diffuso nel suo insieme”.
Riguardo alla qualità dei progetti, c’è una nota di tiepido ottimismo. “Negli ultimi 5-6 anni si è alzato il livello qualitativo nella realizzazione architettonica e urbanistica delle nuove grandi strutture di vendita – riprende Luca Tamini – Questo per effetto dell’orientamento delle politiche pubbliche di governo degli insediamenti commerciali, focalizzato sulla riduzione del consumo di suolo, sulla compatibilità ambientale e su una corretta accessibilità viabilistica. E anceh per via del carattere integrato e diversificato dei nuovi format commerciali”.
Qualche esempio? “Il progetto Portello a Milano, il Vulcano Buono a Nola-Napoli, il mercato di Santa Caterina a Barcellona, che oltre ad essere stati disegnati da attenti progettisti come Studio Valle o Renzo Piano building workshop, hanno contribuito a superare la monofunzionalità insediativi dei luoghi del commercio di prima e seconda generazione costruendo, spesso, relazioni virtuose con il contesto urbano e territoriale”.
Quello che è certo è che “piccolo è bello” non esiste più.
“Ma la domanda c’è” – parla il capo del Consiglio nazionale centri commerciali
Il presidente del consiglio nazionale dei centri commerciali, Pietro Malaspina, non ha dubbi: “I nuovi spazi di vendita sono richiesti dagli operatori”. Il fenomeno, insomma, non sembra andare incontro a crisi. Anche se urge una buona pianificazione del territorio.
Ma sono davvero necessarie così tante strutture?
Ogni centro commerciale ha un proprio “posizionamento” di mercato: per la gamma merceologica offerta, per il segmento di reddito o per lo stile di vita dei frequentatori cui si rivolge. La distribuzione non segue una logica spaziale, ma è dettata dalla presenza di un mercato. Aree metropolitane dense o forti addensamenti di piccoli centri urbani richiamano evidentemente maggiore attenzione da parte degli operatori.
Come mai si trovano grandi centri a pochi chilometri di distanza?
Ci sono situazioni irrazionali, di densità o rarefazione: la normativa per l’autorizzazione alla loro realizzazione non è mai stata completamente inquadrata in un’ottica di governo complessivo del territorio. Spesso sono stati realizzati dei centri commerciali dove era possibile farlo e non nelle posizioni che, idealmente, sarebbero state ottimali. Ma investimenti privati della dimensione di quelli necessari per realizzare un centro commerciale sono sempre decisi in base ad analisi accurate, che partono dal mercato potenziale e dal livello di servizio commerciale esistenti.
Quindi ne verranno costruiti altri?
In Italia i centri commerciai hanno livelli di frequentazione e di vendite soddisfacenti, quasi sempre superiori a quelli di altri mercati europei. I risultati economici delle operazioni di sviluppo dei nuovi centri sono buoni, come è dimostrato dall’interesse degli investitori istituzionali all’acquisto dei centri esistenti e in progetto. C’è un’evidente e documentata domanda: in un’economia di mercato una domanda genera sempre un’offerta. Si tratta quindi non di bloccare il mercato, caso mai di governarlo, inquadrando lo sviluppo di una formula commerciale che risulta nei fatti gradita, in una più ampia visione di governo del territorio”.
Alternativa a misura d’uomo - Nascono i “centri commerciali naturali”: reti organizzate di botteghe e negozi per rilanciare il commercio
Rilanciare l’economia del territorio mettendo in rete esercizi commerciali già esistenti, dando loro una regia unitaria nella promozione e nell’approvvigionamento delle merci. È la ricetta dei centri commerciali naturali, un’esperienza nuova che sta dando già i suoi buoni frutti, da Firenze a Torino, dalla Val d’Aosta alle Marche, sono ormai molti i centri commerciali naturali che operano oggi in maniera ottimale, mettendo in piedi vere e proprie campagne di fidelizzazione o limitandosi a manifestazioni a carattere di spot, giusto per attirare un maggior numero di consumatori.
In Toscana in particolare i centri commerciali naturali della provincia di Lucca stanno riscuotendo un certo successo: un’iniziativa nata per impulso di Ascom-Confcommercio e del Consorzio centro commerciale Città di Lucca e realizzato grazie al contributo della Regione Toscana. “La regione ha fortemente creduto nel progetto finanziandone sia lo start up che le successive azioni di rafforzamento e sviluppo – spiega Sara Giovannini della Confcommercio – La nostra realtà in particolare è poi riuscita a crescere, seppur con molte difficoltà, grazie soprattutto al sostegno di tutti gli enti, pubblici e privati, coinvolti: Provincia, Camera di Commercio, i Comuni interessati e la fondazioni bancarie”.
In Sardegna i primi centri commerciali naturali finanziati dalla Regione cominceranno invece a operare tra qualche mese. “Il loro successo – ha affermato il segretario regionale della Confesercenti, Carlo Abis – è una nuova stagione di rilancio per l’economia di Cagliari e potrà avvenire se ci sarà un modo nuovo di collaborare per il bene comune”. L’obiettivo è quello di dare un volto umano al commercio riscoprendo quello tradizionale all’interno dei centri urbani, rivalutando vie, piazze, gallerie, centri storici e quartieri in cui spontaneamente e storicamente si sono addensati negozi, botteghe, bar e ristoranti.
I vantaggi sono molteplici. I centri commerciali naturali, forme d’aggregazione spontanee e provviste di stato giuridico proprio, hanno una regia unitaria che coordina le iniziative correlate al commercio e risanano alcune inefficienze tipiche del commercio tradizionale, come la scarsa incisività della comunicazione e promozione. Ma soprattutto restituiscono ai consumatori il piacere dello shopping in un ambiente familiare e non artificiale, spesso anche all’aria aperta.
Da cittadini a clienti, di Sandro Polci (presidenza Comitato scientifico Legambiente)
Gli iperluoghi trionfano, punteggiando sempre più le aree periferiche delle città o, baricentricamente, estese aree semirurali. Sono le nuove centralità del consumo. Sono definiti democratici perché alla portata di molti, ma è più giusto parlare di “target commerciale esteso” perché la democrazia è altra cosa e riguarda valori che nella piazza, luogo per eccellenza della centralità urbana, trovano il gioco, lo “struscio”, il monumento, il municipio, il comizio, il giardino, la chiesa a non la sola funzione mercantile.
Meglio non giocarla sul piano economico. Se la regola è “dove c’è domanda si crea l’offerta” non c’è partita fra le multinazionali della grande distribuzione e una bottega di due vetrine. È invece indispensabile una ferrea programmazione, che contemperi esigenze e tipologie non essendo i mall commerciali integrativi ma quasi sempre completamente sostitutivi del tessuto mercantile esistente. E questo non per nostalgia ma perché il commercio urbano di piccolo taglio garantisce diversità, imprenditorialità, socialità e sicurezza.
La realizzazione degli iperluoghi, inoltre, impatta violentemente sul paesaggio ma non lo fa così direttamente sulla quotidianità e l’economia visiva delle aree urbane consolidate. Quindi paradossalmente danno meno fastidio. Come esiste la sindrome nimby esiste quella yiop, perdonate l’invenzione: “ yes in other place”, fate pure in altri luoghi che non tocchino la mia “caverna”, che va dal giardino al plasmaschermo. Il tram a Firenze che significa meno auto, meno inquinamento e meno costi fa inorridire i difensori dell’italica eccellenza artistica, mentre “Porta di Roma” crea il più grande mall commerciale d’Europa soltanto fra borbottii e malumori.
Gli operluoghi creano un’inarrestabile spinta centrifuga. Ne consegue una forte crescita degli spostamenti con il mezzo privato, e l’inquinamento continua a salire. Ogni anno percorriamo in automobile 528 miliardi di km producendo 79,2 milioni di tonnellate di CO2. Nel mondo? In Europa? No, in Italia. Ma dove andamo? Dei nostri 37 chilometri percorsi ogni giorno la maggioranza servono per divertirci. Tendiamo a disperderci sul territorio, consumandolo. Lo sprawl (dispersione urbanistica), la mancanza di infrastrutture, l’insufficienza di metropolitane, tram e ferrovie, uniti alla frenesia degli spostamenti in auto, ci porteranno alla felicità? Quando tutti si accentrano il problema è razionalizzare, se tutti si disperdono il problema diviene però enorme. Nessuno vuole tornare alla città multitask. Ma se rivisitato, il modello pedonale, relazionale, ergonomico non è poi così malvagio.
Se con le “tasse per costruire” si paga la pubblica illuminazione o l’asfalto delle strade, si incita il municipio a fare cassa con il rilascio delle concessioni edilizie. Una pratica da contrastare.
E poi basta con il consumo di paesaggio. Ma non solo quello collinare toscano, anche quello perimetropolitano, fruito da milioni di persone che lentamente si contaminano con la bruttezza come con le polveri sottili, Inoltre le nostre città sono quasi sempre centri d’arte da tutelare.
Guardiamo il meglio: in Germania e Gran Bretagna esistono leggi “no sprawl” che impongono il saldo zero (con debite eccezioni) nell’uso del territorio destinato alle costruzioni. Altrimenti trasferiamo qualche residua funzione pubblica all’interno degli iperluoghi e rottamiamo le città storiche, scrigni nostalgici per sola arte e pedoni.
Nota: Sandro Polci evidentemente non lo sa, e non è un frequentatore abituale del sito Mall, ma la sua “provocazione” finale sul trasferimento di funzioni pubbliche negli spazi del commercio non è affatto tale. Nel contesto nordamericano il fatto è diventato talmente patologico che nelle indicazioni anche manualistiche della “smart growth” (e dunque nei documenti guida urbanistici delle amministrazioni che la adottano) sono comprese prescrizioni alternative. In Italia, al contrario, in alcuni casi specie di outlet village viene presentato come un successo, dall’amministrazione locale, la presenza di propri uffici e spazi nei passeggi commerciali. Ne dobbiamo ancora fare, insomma, di strada … (f.b.) [scaricabile di seguito l'impaginato dell'articolo con le immagini]
Class action sulle strisce blu e da Milano a Napoli arriva una pioggia di ricorsi
Caterina Pasolini – la Repubblica, 31 maggio 2008
Da oggi nella capitale parcheggio gratis per tutti ovunque. Ma è solo l'inizio. La rivoluzione corre lungo una striscia azzurra sull'asfalto. La rivolta contro le soste a pagamento si allarga, dilaga e una pioggia di ricorsi sta per abbattersi su decine di comuni, da Milano a Napoli, da Parma a Firenze, da Salerno a Bologna, da Trieste a Biella. Li stanno mettendo a punto in queste ore i legali del Codacons, l'associazione dei consumatori convinta che sia irregolare l'80% delle aree a pagamento, pronta anche a fare una class action per un risarcimento collettivo di chi ha ricevuto multe dopo il 2004 per aver sistemato l'auto senza versare la somma prevista ed esibito il tagliandino.
È questo il primo effetto della sentenza del Tar Lazio che ha annullato le strisce blu a pagamento al quartiere Ostiense perché irregolari, e il sindaco Alemanno che ha momentanea allargato il risparmio a tutta la città sino a nuovo ordine e nuova delibera.
E se gli automobilisti brindano al free parking c'è chi giudica il provvedimento del primo cittadino «demagogico», come Legambiente che ricorda come quelle zone erano gratuite per i residenti e favorivano la mobilità. E chi come l'assessore al traffico di Napoli parla di «vero e proprio disastro» se venisse esteso altrove. Perché le strisce blu, sottolinea, sono uno degli strumenti di controllo del traffico, insieme con la Ztl e il ticket d'ngresso. E di fatto impediscono l'accaparramento per intere giornate di spazi destinati alla sosta proprio nei centri urbani.
«Roma è solo la prima vittoria», ribatte comunque il presidente del Codacons Carlo Rienzi. «I comuni devono smetterla di usare i parcheggi per fare cassa. Noi siamo favorevoli alle zona di sosta a pagamento, ma solo dove sono veramente necessarie e dove prescrive la legge e non inventandosi aree di rilevanza urbanistica per spillare soldi». La legge prevederebbe solo strisce blu nel centro storico, nelle aree con 50 negozi per km, con cinema teatri, palazzetti dello sport. Altrimenti bisogna che ci siano in egual misura aree di sosta gratuite, come ha sancito la sentenza della Corte di Cassazione dell'anno scorso annullando le multe a chi non aveva pagato il parcheggio non trovando posti non a pagamento fuori da queste zone ben delimitate.
E se l'associazione per la difesa dei consumatori annuncia di voler dare battaglia dal nord al sud, invitando tra l'altro il sindaco Moratti a seguire l´esempio di Alemanno - «perché la verità è che i comuni hanno esteso a casaccio le aree a pagamento, inventandosi che erano tutte zone di rilevanza urbanistica» - le diverse amministrazioni cittadine da Milano a Firenze passando per Torino o Parma e Palermo, sottolineano tutte per bocca dei vari assessori al traffico che nei loro comuni la legge è seguita. Le proporzioni tra strisce bianche o gialle e blu, tra gratuite, a pagamento o per residenti rispettate. Tutte convinte che «la sentenza non avrà alcuna ricaduta» nei loro comuni. Come Milano, una delle prime ad inaugurare le strisce blu, gialle dieci anni fa e dove ora il sistema della sosta regolamentata è doppio: da una parte strisce blu a pagamento (1,50 euro all'ora dalle 8 alle 20), accanto strisce gialle dove non si paga nulla ma i posti sono riservati ai residenti che espongano un pass comunale. Più volte ci sono state contestazioni, perché ci sono intere zone dove sono spariti i posti liberi per chi non abita nel quartiere. Ma il doppio sistema ha sempre resistito. E progressivamente è stato esteso dal Comune in tanti quartieri anche fuori dal centro storico per disincentivare il traffico e proteggere la sosta dei residenti. Così oggi i posti auto a pagamento in strisce blu sono 43mila in tutta la città, quelli gratuiti riservati ai residenti in strisce gialle 22mila. Ma tutto rischia di cambiare se passeranno i ricorsi annunciati ieri dal Codacons a Milano, Firenze, Trieste, Cassino, Biella, Lecce, Bologna, Napoli, Udine Catanzaro. E siamo solo al primo giorno dopo la sentenza.
Ma il Centro storico si ribella "Pronti a scendere in piazza"
Laura Serloni – la Repubblica, ed. Roma, 31 maggio 2008
«Decisione demagogica e irresponsabile»: la Consulta per la vivibilità del Centro storico spara a zero contro la scelta di sospendere i parcheggi a pagamento. E giudica la disposizione del Campidoglio "un atto che riporta la città indietro di quindici anni". Decine di comitati sono sul piede di guerra. Tutti pronti a mobilitarsi.
«I parcheggi a tariffazione esistono in tutte le metropoli del mondo - sottolinea Gisella Pandolfo, portavoce della Consulta - Per Roma, città complessa dove ci sono 780 auto per mille abitanti, le strisce blu hanno costituito un disincentivo all'uso dell'auto privata e un incentivo all'impiego dei mezzi pubblici». Una conquista, insomma, che ha contribuito a diminuire il caos della circolazione e della sosta. E incalza: «La sospensione è un gravissimo errore e farà felici i parcheggiatori abusivi, le cui vessazioni come cittadini conosciamo benissimo. Senza le strisce blu, i lungoteveri e le strade a scorrimento ripiomberanno nell'incubo delle doppie e triple file con il blocco della circolazione in moltissimi punti nodali per il traffico».
Una linea che si sposa con quella espressa dal comitato Monti. «È una follia - commenta Natalie Naim - un'azione controproducente per gli abitanti. Con un'ordinanza del Consiglio dei Ministri nel 2006 era stata decretata l'emergenza mobilità a Roma e occorreva riportare la situazione alla normalità. Le strisce blu e la Ztl ne sono un esempio. Già il traffico è insostenibile, ora senza la sosta tariffata si torna al caos. Noi residenti siamo inviperiti. E pronti a mobilitarci». Temono che la città si trasformi in un "far west". «Già è difficile parcheggiare, adesso sarà impossibile - spiega Fabio Nicolucci del comitato di residenti del Celio - Il posteggio a pagamento non è solo una tassa, ma una garanzia per il governo del territorio». Taglia corto Viviana di Capua, presidente degli abitanti del Centro Storico: «Non si prendono decisioni di questo genere in un giorno. Se certe regole non vanno bene si possono anche cambiare, ma con un progetto discusso e condiviso da associazioni e comitati. Così regna solo l´anarchia. E si risponde solo alla lobby dei commercianti, senza nessuna tutela per gli abitanti».
"Tutto a favore delle auto è il ritorno al Far West"
Cecilia Gentile – la Repubblica, ed. Roma, 31 maggio 2008
«Il ritorno al Far West». Così Eugenio Patanè, responsabile della Mobilità per il Pd del Lazio e presidente della commissione comunale Traffico nella scorsa consiliatura, vede la scelta del sindaco Alemanno di bloccare le strisce blu in tutta Roma.
Ci spieghi perché non condivide questa scelta.
«Perché ci vedo una volontà precostituita di distruggere tutto quello che è stato conquistato dalla precedente amministrazione in materia di mobilità. La sentenza del Tar è solo sul quartiere Ostiense, invece Alemanno ne ricava una regola per tutta la città».
Il sindaco e l'assessore alla Mobilità Marchi sostengono il carattere vessatorio dell'attuale disciplina delle strisce blu.
«Le strisce blu sono state pensate e realizzate come strumento di mobilità per regolare la sosta nelle zone con una forte presenza di uffici, negozi e abitazioni. In queste zone è necessaria una rotazione del parcheggio ed è anche necessario assicurare ai residenti il posto auto. L'amministrazione non ha mai pensato di fare cassa con i parcometri. Anzi, il più delle volte sono stati i residenti a chiederli».
In ogni caso, l´attuale amministrazione vuole cambiare le regole.
«Un conto è la revisione, un conto è la rimozione. Anche noi avevamo intenzione di rivedere le tariffe e la distribuzione degli stalli. Io e il collega Valeriani avevamo preparato una delibera che abbassava a 50 centesimi l'ora la sosta nelle zone con minor concentrazione di uffici, negozi e case, la annullava intorno agli ospedali e la alzava nelle aree monumentali e a grande vocazione commerciale. Ma quello che adesso fa Alemanno è un'altra cosa».
Cos'è?
«Sta incoraggiando i romani a prendere il mezzo privato a svantaggio del trasporto pubblico. E dalle dichiarazioni dei suoi assessori, per esempio al Commercio Bordoni e alla Mobilità Marchi che già parlano di cambiare gli orari della ztl notturna, si capisce quali saranno le prossime scelte: tutte a favore del mezzo privato».
Forse i romani saranno contenti di non pagare.
«Invece non esulterà proprio nessuno perché le stesse auto occuperanno perennemente gli stessi spazi: i residenti non avranno più posto, gli avventori non sapranno più dove lasciare la macchina, i commercianti perderanno i clienti».
La mafia è arrivata anche nei grandi centri commerciali della regione. Dopo la droga, l’usura, la prostituzione, il controllo del voto, le infiltrazioni negli appalti (uno su tutti quello per l’alta velocità Roma-Napoli),nelle attività economiche del porto di Civitavecchia, nel settore alberghiero e nel mercato ortofrutticolo di Fondi, la criminalità organizzata sta ora puntando la sua attenzione e i suoi capitali sulla distribuzione commerciale. È questo uno dei punti salienti del primo «Rapporto sulle presenze della criminalità organizzata a Roma e nel Lazio» presentato ieri dal presidente della Regione Marrazzo al Forum Pubblica Amministrazione in corso in questi giorni alla Nuova Fiera di Roma.
«La vera novità di queste migrazioni di capitali - si legge nella relazione - sta nel fatto che non si tratterebbe di investimenti a pioggia, ma di investimenti finalizzati - è il caso in particolare di uno o due clan della camorra - a creare reti commerciali, a condizionare settori, a stabilire prezzi, a ricollocare non solo capitali ma anche refurtiva. Questa preoccupante tendenza sta via via emergendo da indagini o segmenti di inchieste che abbiamo avuto modo di osservare e che ci permette di notare la ricostruzione di una vera e propria invasione - soprattutto nel settore dei grandi centri commerciali della regione -di sigle societarie provenienti tutte da aree geografiche omogenee per una migrazione che non può in nessun caso essere casuale».
Ma dal rapporto emerge anche una ramificazione e una invadenza delle organizzazioni mafiose che conta tra le 60 e le 70 cosche legate a ‘ndrangheta, camorra, cosa nostra e sacra corona unita. A queste sono da aggiungersi le organizzazioni locali (come la famiglia Nicoletti da un lato e dall'altro il network criminale rappresentato dalla galassia familiare dei Casamonica - Di Silvio) e quelle straniere di matrice cinese, rumena e nigeriana.
Un puzzle di attività illecite che fa domandare all’Osservatorio presieduto da Enzo Ciconte: «Il Lazio è solo infiltrato dalle formazioni criminali provenienti dalle regioni di origine delle criminalità mafiosa tradizionale o è stato già in parte occupato?».
Un allarmante quesito che fa lanciare a Marrazzo l’appello al ministro dell’Interno Maroni e al sindaco Alemanno: «Nessuno faccia finta che nel Lazio ci sono solo i problemi della microcriminalità: c'è anche quello della criminalità organizzata. Noi come Regione daremo tutte le risorse per assicurare la lotta alla criminalità e alla illegalità diffusa,ma che nessuno faccia finta che non ci sono altri problemi». Appello a cui per primi rispondono i consiglieri regionali Laurelli (Pd), Fontana (Verdi) e Robilotta (Sr) che chiedono una riunione straordinaria della Pisana sul tema criminalità organizzata. A contribuire però alla scarsa emersione delle ramificazioni mafiose contribuisce anche la relativa “stabilità” dell’attività criminale. Lo spiega approfonditamente il Rapporto: «Nonostante la dimensione della piazza e degli affari illegali non ci sono mattanze vere e proprie, al massimo operazioni chirurgiche, non solo perché non va suscitato allarme, ma anche perché vengono sostanzialmente rispettati precisi accordi di spartizione territoriale ». Ma il “governo” di realtà così complesse fa pensare all'esistenza «di una sorta di organismo che svolge non solo il ruolo di "camera di composizione" dei conflitti ma di vero e proprio regolatore degli interessi, degli affari e delle presenze, garantendo l'immutabilità della condizione di Roma "città aperta a tutte le mafie" che è la prima condizione perché avvengano e siano garantiti in sicurezza lucrosi guadagni per tutti» conclude la relazione.
E' vero che le statistiche sulla criminalità dicono che il fenomeno è in buona sostanza stabile. Ma sottovalutare la soglia di allarme sociale a cui siamo giunti sarebbe per la sinistra un errore devastante. E' infatti innegabile che la percezione di vivere in città e territori sempre meno sicuri ci coinvolge tutti e davvero non ce la possiamo cavare con un'alzata di spalle. La questione è seria e va affrontata con rigore, prima che le paure fomentate dalla destra riescano a scalfire un altro pezzo del sistema della convivenza civile. Ma con altrettanta chiarezza credo che vadano affrontate anche le cause strutturali del fenomeno. Senza questa analisi si rischia la deriva autoritaria: tutto, anche i writers o i lavavetri, diventa ordine pubblico. Se guardiamo invece allo stato delle nostre città, potremmo cogliere quelle contraddizioni che derivano dai modelli economici imposti dalla globalizzazione.
Sono due le principali caratteristiche della vita urbana. La prima è che si stanno espandendo in maniera impressionante. Siamo a ritmi simili a quelli degli anni '60 quando c'era il boom economico e una impetuosa crescita demografica. Oggi siamo a economia stagnante e popolazione ferma ai circa 60 milioni di residenti. E non si venga a dire che le città crescono per quei 3 milioni di immigrati che vivono in Italia! Crescono perché gli investitori finanziari internazionali operano ormai senza ogni regola. Si stanno realizzando centinaia di immensi centri commerciali in ogni città e nelle campagne. Si stanno costruendo dovunque giganteschi alberghi a beneficio dei pochi tour operators che guidano il miliardario mercato turistico globale. Si sta realizzando, infine, un'immensa villettopoli, visto che i prezzi delle abitazioni urbane sono inaccessibili.
L'altra caratteristica della fase di vita urbana è che di fronte a questa espansione urbana si vanno spegnendo uno a uno i luoghi pubblici che formavano i nodi della rete di relazioni sociali. A parte le poche di maggiore grandezza, tutte le stazioni ferroviarie sono senza presidio. Non c'è più personale perché la spesa pubblica è stata falcidiata. I capolinea del trasporto pubblico locale hanno subito lo stesso destino. E che dire della piccola rete commerciale delle periferie urbane che ha rappresentato uno dei rari elementi di socialità nelle nostre tristi periferie? Cancellate dall'apertura dei megastore di cui parlavamo prima.
Insomma le città crescono a dismisura mentre i presidi pubblici vengono chiusi uno dopo l'altro. Ecco il motivo strutturale dell'insicurezza. Il neoliberismo sta cancellando le città come le avevamo ereditate da una secolare tradizione, e cioè luoghi di relazioni economiche e sociali. Oggi tutto è ridotto al solo fattore economico.
Il dramma è che la parte maggioritaria della sinistra è ancora ubriacata dai miti del liberismo e non riesce più ad articolare nessun ragionamento. Non sarebbe difficile sbattere in faccia alla tracotanza securitaria di Alemanno che è proprio la loro concezione liberista ad aver costretto le pubbliche amministrazioni a chiudere servizi e luoghi pubblici. A rendere insomma più povere e insicure le nostre città. Qualche settimana fa sono morte cinque persone nella desolata periferia romana. Investite da un'automobile perché non c'era neppure un marciapiede. Tre delle vittime erano bambini che stavano andando a scuola. Il luogo della tragedia è lontano duecento metri da un gigantesco centro commerciale: si accendono le vetrine del consumo e si spengono città intere.
Allora, insieme alle doverose risposte in termini di prevenzione della criminalità diffusa, apriamo la stagione di un ripensamento della nostra condizione urbana. Ricominciamo a vedere il deserto che c'è nelle periferie. E' da lì che sono volati via milioni di consensi.
1. Speculazioni. Sorgerà a Belpasso il centro commerciale più grande della Sicilia. Con un paio di deroghe al Prg
Catania. Volere è potere. Far sorgere un insediamento industriale grande circa 650mila metri quadrati in un’area a destinazione agricola potrebbe sembrare impossibile, soprattutto quando si parla di una cittadina che ha già due zone destinate allo sviluppo: la prima è quella dell’Asi, la seconda è quella del Piano regolatore. I cittadini non ne sono a conoscenza ed il caso, nel silenzio della grande stampa, lo segue solo un magazine guidato da giovani giornalisti: “Sciara”.
L’ombra della speculazione. Chi considera il centro commerciale Etnapolis come il più esteso della Sicilia, non ha fatto ancora i conti col nuovo centro logistico di Belpasso che sarà grande almeno il doppio. Si parla di 65 ettari sui quali non è possibile dire quanto cemento verrà armato tra uffici, capannoni e strutture che stando ai progetti ricordano molto quelle tipiche dei grandi insediamenti produttivi. Ma qui si parla di logistica, almeno sulla carta, almeno per adesso, ed è chiaro che i numerosi terreni acquistati come agricoli ad un certo prezzo dopo un passaggio in consiglio comunale valgono oro. Per un fatto semplicissimo. Stando al Prg vigente nessuno poteva pensare ad una loro rivalutazione.
La location. È strategica. La posizione del nuovo insediamento produttivo sembra non essere casuale. Da un lato ci sono lo svincolo autostradale della Catania-Palermo e la stazione ferroviaria di Motta S. Anastasia. Dall’altro sono presenti una azienda che produce prefabbricati per l’edilizia e qualche deposito del gruppo Ard Discount. Poi c’è il Simeto che lambisce gran parte dei 65 ettari in questione di cui 20 edificandi, con un gomito che regala una bellezza unica al paesaggio attuale fatto di aranceti a perdita d’occhio. L’arrivo delle ruspe è previsto entro pochi mesi.
L’iter. Nel novembre 2006 la General Costruzioni srl amministrata da Domenico Santonocito (sede legale Tremestieri Etneo) e la Gec amministrata da Salvatore Leotta (sede legale a Catania) presentano un progetto attraverso lo Sportello unico per le attività produttive guidato da Sebastiano Leonardi, dirigente del settore Urbanistica del comune di Belpasso. Pare che la società incaricata della progettazione del centro cercasse un’area di 61 ettari per l’insediamento produttivo. Ma questa non esisteva e non rientrava nelle prerogative del Prg all’interno di una cittadina di 24mila anime. È intervenuto così l’art. 5 del Dpr. 447/98 modificato dal Dpr 440/2000 che definisce, grazie allo Sportello unico, le modalità per le approvazioni in genere in materia di attività produttive. L’art. 5 prevede che, ove l’imprenditore proponga un insediamento in una localizzazione che non ha la compatibilità e la conformità con il Prg, l’amministrazione comunale, dopo averlo rigettato e valutate tutta una serie di indicazioni fornite dalla normativa, può convocare, su richiesta dell’azienda proponente, una conferenza di servizi. La normativa dice che, trascorsi i termini di legge, la conferenza di servizi approva favorevolmente l’iniziativa imprenditoriale. Per quanto riguarda la variante, la procedura è quella classica: pubblicità sulla Gazzetta Ufficiale e proposta di tutto il pacchetto al consiglio comunale, il quale ha 60 giorni di tempo per decidere in merito, adottando o meno la variante urbanistica. Quello che viene presentato di per sé è già un progetto edilizio esecutivo, con tanto di valutazione ambientale fatta dalla Regione. Il resto lo hanno fatto i dodici pareri favorevoli dopo che il 16 febbraio e il 24 settembre 2007 era stata riunita la conferenza dei servizi. Le società Gc e Sgc vengono inglobate in un’altra società, la Parco Mediterraneo srl che contemporaneamente diventa proprietaria di tutta l’area. A fine marzo del 2008 il consiglio comunale approva in nottata tutto il progetto con undici voti favorevoli, sei contrari e un astenuto.
Industrializzazione punto e basta. I territori situati a sud di Belpasso sono noti per le produzioni agrumicole. A forza di varianti e di insediamenti industriali più o meno controllati da qualche anno la classe politica ha scelto quello che deve essere il futuro di questa cittadina e ha scelto anche in quale maniera deve concretizzarsi questo futuro in assoluto disordine. Non c’è regola o programmazione urbanistica che tenga. Il discorso vale per l’insediamento di cui si parla ma anche per i numerosi capannoni industriali che continuano a sorgere sui terreni agricoli dapprima come strutture che dovrebbero ospitare attività connesse con la lavorazione della terra, poi, una volta realizzati, si preparano ad ospitare qualunque tipo di impresa. Un futuro di cementificazione che forse fa rima con speculazione, un futuro delineato nel chiuso delle stanze del palazzo municipale, mentre la cittadinanza dorme sonni tranquilli.
2. Enna. L’outlet targato Ciancio e Virlinzi
Enna. Metti Vincenzo Viola a capo di una cordata della quale fanno parte l’imprenditore Ennio Virlinzi e l’editore Mario Ciancio oltre che il costruttore sardo Gualtiero Cualbu e il torinese Riccardo Garosci, europarlamentare ed ex presidente della Federcom. Metti un paesino in provincia di Enna poco distante dall’unica arteria autostradale esistente, un progetto firmato da Guido Spadolini (lo stesso del primo outlet italiano a Serravalle Scrivia), ed un’area di 31 ettari sulla quale è concessa “carta bianca” dalla classe politica. Il gioco è fatto, potere è volere. Nasce così un’intera città destinata allo shopping fatta di strade, piazze, bar, ristoranti e alberghi di lusso, ma anche negozi di tutte le dimensioni e per i più tradizionalisti ci sarà anche un centro commerciale di 6.700 metri quadrati. Tutto questo ad Enna, cuore della Sicilia, città più povera d’Italia, dove però gli imprenditori in questione ritengono di poter pescare su un bacino che supera i tre milioni di abitanti.
Quando i poteri forti chiamano arrivano subito autorizzazioni e pareri favorevoli, ma anche infrastrutture più o meno grandi, ma sicuramente rilevanti, come la corsia di immissione e la rotatoria situate ad ovest dell’outlet sulla Sp 75. 32.000 metri quadrati coperti di cui 17.500 corrispondono alla superficie netta dei moduli in vendita ai quali si aggiungono le superfici dell’albergo di lusso e dell’ipermercato. 220 posti auto, autorizzazione rilasciata dalla Regione nel febbraio 2008. Consegna in 18 mesi, chiavi in mano. Altro che burocrazia e tempi lunghi.
Nota: va sottolineato, tra l’altro, il sostanziale silenzio della stampa mainstream, locale e non, su un tema così importante. La cosa si deve anche secondo molti osservatori al fatto che spesso gli interessi di chi possiede i mezzi di informazione coincidono con quelli che inducono certe trasformazioni territoriali, in Sicilia come altrove.
Partinico, 14 marzo 2008 – I posti di lavori promessi o prospettati per l’apertura di grandi centri commerciali in Italia sono sempre inferiori a quelli creati realmente. E’ una delle risultanze di uno studio realizzato dal blog Libera Mente (www.partinico.info) incrociando i dati del territorio e di altre esperienze italiane per capire quale può essere l’impatto sull’economia locale di un progetto della società Policentro Daunia srl di Agrate Brianza da realizzare a Partinico e che viene annunciato come uno dei più grandi d’Europa.
Oltre al bilancio tra posti creati e persi, dall’analisi costi-benefici e dai dati relativi ad altri centri commerciali aperti in Lombardia (province di Bergamo, Sondrio, Pavia, Cremona, Milano, Brescia), Puglia (Molfetta), Lazio (Valmontone) e Sardegna (Sestu, Cagliari) è emerso che: una buona parte dei lavoratori non vengono presi dal territorio dell’insediamento perché le aziende portano con sé personale specializzato di fiducia; spesso si segnalano alti livelli di precariato (soprattutto al sud) fra gli addetti degli outlet; il centro storico della città si svuota e si spostano le attività aggregative e di consumo verso l’outlet; l’impatto sulla viabilità locale è forte (+20-25% traffico, aumento scarichi auto in atmosfera); aumenta la pressione antropica nell’area dell’insediamento (rifiuti, consumi idrici, scarichi civili, ecc.).
L’analisi (scaricabile di seguito) ha registrato anche ricadute positive di questi insediamenti: il generale aumento dei valori immobiliari urbani e dei valori fondiari di terreni vicini all’outlet; la necessità di aumentare la capacità ricettiva; l’aumento del gettito fiscale per il comune dove è insediata la struttura.
Nel caso di Partinico, dove si discute e si polemizza dal 2000 su questo progetto, a fronte dei 2000 nuovi posti di lavoro più 2400 legati all’indotto prospettati dalla società brianzola l’analisi di partinico.info, su dati e statistiche ufficiali trattati dall’economista Giuseppe Nobile (responsabile del servizio statistica della Regione Sicilia), hanno registrato, invece, una media ottimistica di 393 nuovi occupati, indotto incluso.
L’aspetto positivo, anche indipendentemente dal merito, dello studio allegato, è quello di affrontare in modo innovativo il tema della radicale trasformazione socioeconomica e territoriale indotta dalla grande distribuzione. Ovvero, nell’evitare l’abituale (ahimè) contrapposizione fra conservatorismo a oltranza e innovazione ad ogni costo, così come di norma viene proposta da stampa e comunicazione in genere: da un lato società e ambiente “locale”, dall’altro la new wave globalizzante rappresentata dai nuovi spazi della post-modernità.
Le cose non sono naturalmente mai così semplici, perché come si intuisce ogni trasformazione comporta dei costi, e ad esempio quelli per l’ambiente e il territorio sono irreversibili, hanno delle conseguenze anche sociali ed economiche di medio periodo, e via dicendo.
Ben venga, anche, questo modo innovativo e “di base” di approccio ai problemi, soprattutto per il contesto dell’Italia meridionale, sottoposto a fortissime pressioni insediative commerciali e a fronte di una debolezza culturale e istituzionale che rischia di ripetere, con impatti altrettanto devastanti, quanto già avvenuto nei casi delle opere di modernizzazione come strade, grandi impianti, complessi industriali ecc. Con la speranza di vederne ancora molti, e soprattutto di veder affiancarsi e convergere altri soggetti, come il mondo accademico e della ricerca istituzionale, o quello associativo: sia dal punto di vista della qualità, che dell’approccio, che della sua visibilità pubblica. E per un confronto, si vedano ad esempio i vari studi sugli effetti della WalMart proposti su eddyburg_Mall (f.b.)
Aeroporti che passione. In Italia quasi ogni provincia ne può contare almeno uno. E chi non ce l'ha freme ardentemente per averlo. Costi quel che costi, tanto paga lo Stato. E che importa se si alza appena un volo al mese, vuoi mettere il prestigio di avere uno scalo sotto casa? Prestigio certo, ma soprattutto tanto business.
C'è una legge italiana, vecchia di quindici anni, che parla chiaro: sotto i 600mila passeggeri l'anno lo Stato può mettere mano al portafogli e aiutare alla costruzione o alla riqualificazione di una struttura aeroportuale. Così, dal 1993 ad oggi, gli investimenti si sono moltiplicati: oltre 2,5 miliardi di euro, divisi tra fondi dello Stato (550 milioni), fondi Ue (500 milioni) e fondi delle singole regioni (200 milioni).
Per giustificare la nascita di un nuovo aeroporto, dicono gli esperti, c'è bisogno almeno di un traffico di un milione di passeggeri annui. E in Italia solo 21 (il 20% del totale) rispondono a questa esigenza. Il traffico aereo nazionale si concentra infatti esclusivamente su cinque grandi poli. Il più grande è quello di Milano (Malpensa, Linate e Orio al Serio) che solo lo scorso anno ha fatto viaggiare 36,5 milioni di persone. Segue Roma (Fiumicino e Ciampino) con 34,6. Più distanti il sistema dei due scali di Venezia-Treviso (7,6 milioni), Catania (con 5,3) e Napoli (5,2).
Gli altri 80, dunque, potrebbero tranquillamente chiudere e nessuno se ne accorgerebbe. Come l'aeroporto di Taranto-Grottaglia che nel 2007 ha visto salire a bordo appena 16 passeggeri. Uno scalo civile costato oltre 100 milioni di euro, tra finanziamenti della Regione e dell'Unione europea, ma che di civile ha ben poco, visto che la destinazione unica è Seattle e a viaggiare, oltre i pochi tecnici, sono le fusoliere del nuovo Boeing costruito dall'Alenia e destinate al mercato statunitense. Sempre in Puglia, a Foggia, c'è un altro areoporto che gli esperti dell'Enac (l'ente nazionale aviazione civile) definiscono «assolutamente inutile» per via degli appena 6.714 biglietti strappati al check-in in un anno e che non giustificano i 3,1 milioni di euro spesi per il suo ammodernamento.
La regione a detenere il record di aerostazioni è la Sicilia, ben sei. Ma il numero è destinato ad aumentare. Perché nell'isola della rete ferroviaria ad un unico binario non sono sufficienti gli scali già esistenti di Palermo (91,5 milioni di euro stanziati fino al 2013 per interventi di ammodernamento), Trapani (scalo militare che da poco si è aperto al turismo di massa grazie ai 20 milioni di euro stanziati da qui a fine anno), Catania (prediletta dai viaggiatori low-cost con un investimento di 140 milioni), Comiso (l'ex base dei missili Cruise che a giugno aprirà i battenti, costo 40 milioni per una previsione di 3.000 passeggeri annui), Lampedusa e Pantelleria. Ne serve un settimo, Agrigento dice di averne «assoluto bisogno» e Totò Cuffaro si è dato subito da fare riuscendo a mettere sul tavolo 35 milioni di euro. Ne mancherebbero altrettanti per completare l'intera opera, ma intanto i lavori sono partiti. Ed Enna e Messina? Anche loro hanno chiesto uno scalo cittadino e la Regione si è detta disponibile.
Salendo per lo stivale la situazione cambia poco. Nel Lazio, ad esempio, dove si è da poco conclusa una gara fratricida tra Viterbo e Frosinone per la realizzazione di uno nuovo scalo che dia un po' d'ossigeno a Ciampino, sempre più congestionato dai voli low-cost. Le due città sono risultate idonee e così, salomonicamente, si è dato l'ok ad entrambe. Si sale ancora e arriviamo ad Ampugnano, 15 km da Siena, dove, tra le proteste dei comitati cittadini, sta per essere rispolverato un vecchio areoporto militare degli anni '30. L'obiettivo è trasformarlo in uno scalo faraonico, multi-pista e molto hi-tech, che punta, nel 2020, a far viaggiare oltre 500mila persone. «Utopia», dicono gli esperti, ma intanto Monte dei Paschi e Comune hanno già trovato i 70 milioni necessari per posare il primo mattone. Dalla Toscana all'Emilia Romagna, dove si pensa seriamente ad ampliare l'aerostazione di Parma (nel 2007 appena 120mila passeggeri), decisione che ha fatto andare su tutte le furie gli altri due scali della regione, quello di Forlì e Rimini (città che distano appena una cinquantina di chilometri) che vorrebbero più soldi per l'ampliamento delle loro piste.
Anche nel profondo nord la concorrenza è spietata. Tra Milano e Venezia c'è un aeroporto ogni 40 chilometri: Biella, Cuneo, Malpensa-Linate, Brescia, Bergamo, Belluno, Verona, Vicenza, Trento, Padova, Treviso, Trieste e Venezia. Con «chicche» da Guinness dei primati come lo scalo di Vicenza in cui decollano appena sei aerei la settimana, meno di uno al giorno. O peggio a Biella dove si alzano in volo dodici apparecchi l'anno. Tutto questo mentre - paradosso tutto italiano - l'Alitalia è in piena agonia.
(fonte: Cresme)
Anno 2000: i Comuni possono spendere i soldi delle licenze edilizie SOLO a fronte di investimenti.
Anno 2001, ottobre: i Comuni sono autorizzati a spendere i soldi delle licenze edilizie per fare quello che gli pare, grazie al nuovo Testo Unico sull’edilizia.
Arriva il boom edilizio.
Anno 2000: 159.000 abitazioni costruite.
Anno 2007: 298.000 abitazioni costruite e 38.000 ampliamenti di abitazioni.
Le licenze raddoppiano in 7 anni, il territorio italiano viene cementificato da palazzine, nano grattacieli, hangar, seconde, terze, quarte ville, parcheggi, garage. I Comuni raddoppiano gli incassi senza alcun obbligo di destinazione d’uso. Hanno la licenza di uccidere il territorio.
Il territorio comunale, lo dice la parola stessa, è patrimonio “comune” dei cittadini che lo abitano. Appartiene a loro. Il bosco, il prato, la vista panoramica, un posto per passeggiare o far giocare i propri figli, il parco, i giardini o, anche, un semplice spazio vuoto per vedere l’orizzonte. Chiarito che il territorio è dei cittadini e non del sindaco fasciato a festa e dei suoi assessori che sono SOLO dipendenti comunali facciamoci qualche domanda.
Dove sono finiti i soldi delle licenze edilizie concesse senza più l’obbligo di investimento? Nuovi servizi, asili, piste ciclabili, trasporti pubblici non si sono visti. Farei un’indagine, Comune per Comune.
Quanto ancora si può cementificare il paesaggio italiano? Si può solo tornare indietro, decementificare. Il turismo sta morendo di cemento.
Quali sono le maggiori imprese edili che hanno ottenuto le licenze? I costruttori comandano ormai più del sindaco Moratti e del sindaco Topo Gigio, devono uscire dai consigli comunali. Sono lì, anche se non sono stati eletti.
Il processo infernale messo in moto dal Testo Unico del 2001 va fermato. Bisogna riportare le lancette al 2000. Meno cemento, meno soldi per i partiti, i veri padroni dei Comuni. I cittadini devono presentarsi in consiglio comunale per chiedere i motivi dello scempio edilizio e documentare l’incontro con una telecamera.
Il Bel Paese è nostro, riprendiamocelo.
Consumo di suolo e crescita smisurata degli investimenti immobiliari sono facce della stessa medaglia. Mediatori e complici a volte obbligati e a volte compiacenti i sindaci, incapaci di gestire i bilanci senza svendere il territorio comune (il futuro dei loro figli). Mentre s’impoverisce il patrimonio comune si accrescono i patrimoni privati, senza neppure che si riesca a tosare in modo adeguato la rendita parassitaria. Fino a quando la politica lascerà queste verità in esclusiva a Beppe Grillo?
Numeri paradossali, da non credere. Cheraccontano di un fenomeno come quello dell'abusivismo allarmante.Negli uffici dei Comuni di San Felice Circeo e Sabaudia giacciono12.200 pratiche di condono. Ben 3.331 riguardano abusi chericadono nelle aree del parco nazionale del Circeo. Sono 7734sono le pratiche di condono del Comune di San Felice Circeo: unnumero che fa impressione se si calcola che i residenti sono8.036. Quasi un abuso per ogni abitante. Un po' meglio Sabaudiadove le richieste di condono sono 4472 per 16.229 abitanti: unaogni quattro residenti.
Questi alcuni dati che emergono dall'analisi sull'abisivismocondotta dal parco nazionale del Circeo. In questi mesi l'enteparco ha lavorato per predisporre un 'data base' che raccoglie eordina tutti i dati man mano che questi si rendono disponibili.E' emerso che ci sono 7734 pratiche di condono che riguardano ilcomune di San Felice Circeo: di queste, 2050 rientrano nellecompetenze del parco, ma solo 458 sono state trasmesse all'Enteparco. Queste ultime interessano abusi residenziali e commercialiper complessivi 55.470,15 metri quadri e 140.995,29 metri cubi(una parte dei quali relativi a pavimentazioni esterne e cambi didestinazioni d'uso). Sono invece 4472 le pratiche di condono peril Comune di Sabaudia: di queste 1281 sono relative al parco maad oggi trasmesse materialmente all'ente appena 620. Questeultime sono relative ad abusi commerciali e residenziali pari a85.633,87 metri quadri e 240267,13 metri cubi (una parte deiquali sempre inerenti fondamenta o pavimentazioni esterne e cambidi destinazioni d'uso).
Le tabelle del parco sono dettagliate edistinguono i vari tipi di abusi dando anche conto delle pratichegia' definite: "Quello che stupisce- sottolinea il presidente delparco Gaetano Benedetto- e' che ogni cittadino di San Felice,neonato o vecchio che sia, ha sulla sua testa una pratica dicondono. Migliore la percentuale per Sabaudia dove una pratica dicondono e' ogni 4 cittadini". Certo, si tratta di finzionestatistica "poiche' molte pratiche sono relative a immobili dipersone non residenti, ma comunque l'abuso commesso pesa suquesti comuni e quindi sui tutti i cittadini residenti".
Secondo Benedetto servono "obiettivi concreti a breve e mediotermine per uscire da questa situazione paradossale di stallo",in cui c'e' un abuso per ogni ettaro di terreno nel parco. Epropone: "Incominciamo a rigettare subito le 400 praticherelative ad abusi commessi nel parco dopo il 31 dicembre 1993,abusi che per legge sono incondonabili". Infatti, com'e' noto, adifferenza di quelli precedenti l'ultimo condono (che tratta gliabusi edilizi successivi al primo gennaio 1994 e comunquerealizzati non oltre il 31.3.2003) non consente la possibilita'di sanare gli abusi nelle aree protette.(SEGUE)
"Il lavoro che ci attende e' pero' benpiu' complesso- sottolinea il presidente del Parco- e abbiamobisogno di operare in stretto coordinamento con i comuniinteressati per dare risposte definitive a migliaia di cittadiniche, per altro, hanno addirittura anticipato oneri concessori chein molti casi si dovranno restituire". Su mandato del consiglio,l'ufficio tecnico del Parco "accelerera' le risposta allepratiche trasmesse all'ente che pero' rappresentano meno di unterzo di quelle che dovremo esaminare". Per questo lavoro "ciavvarremo ancora di un gruppo di tecnici esterni per lepreistruttorie ed abbiamo deciso un altro affiancamento legaleall'ufficio tecnico", spiega il presidente dell'area protetta. E invita i comuni "che legittimamente parlano di nuovi pianiregolatori" a tenere conto della "pesantissima situazionepregressa ancora da definire". Le proiezioni dell'ente infattidimostrano come la stima delle cubature abusive in aerea parco"ammontano a circa mezzo milione di metri cubi nel comune diSabaudia e a oltre 690.000 metri cubi nel comune di San Feliceper un totale complessivo vicino al milione e duecentomila metricubi".
In un contesto di tendenziale crescita del numero di automobili in circolazione, tale da assorbire la quasi totalità degli spostamenti individuali, si fa sempre più forte l'esigenza di un rinnovamento della cultura sociale e politica sui problemi dei sistemi di trasporto urbano. Per promuovere nella società civile e nelle istituzioni una mobilità urbana alternativa, è stata fondata l'associazione «NoAuto», presentata ufficialmente ieri a Roma.
Tra i promotori della neonata associazione Ugo Boghetta, responsabile trasporti di Rifondazione comunista, Gerardo Marletto, docente di economia dei trasporti a Sassari, Giuseppe Pinna, direttore di ItaliaMondo e Vittorio Sartogo, ambientalista e saggista.
I danni causati dal traffico urbano sono evidenti dal punto di vista della salute, anche per le patologie legate alla sedentarietà, quanto dal punto di vista dei costi economici, sociali ed ambientali. Le amministrazioni locali sembrano essere incapaci di risolvere questi problemi, se non attraverso palliativi. Nuovi insediamenti, mega centri commerciali e altre infrastrutture continuano ad essere pensati e progettati interamente in funzione dell'auto e del trasporto individuale su gomma. In questo contesto, la «leva» dell'auto viene anche in soccorso della speculazione immobiliare e fondiaria.
La predisposizione di un «bilancio sociale ed ambientale della mobilità», che valuti i danni generati dal sistema, dovrebbe essere reso obbligatorio, secondo una proposta dell'associazione, per ogni amministrazione pubblica con competenze in materia di mobilità. Tale bilancio, congiuntamente alla redazione di un documento di programmazione che abbia come obiettivo la riduzione al minimo del trasporto individuale motorizzato, dovrebbe essere reso vincolante per la concessione di finanziamenti pubblici nazionali e comunitari.
«NoAuto» non significa desiderio di eliminare l'automobile, bensì di riportarla a un ruolo complementare del trasporto collettivo. Da città cresciute «a misura di automibile» bisognerebbe quindi arrivare a città «a misura d'uomo».
Nota: per chi volesse saperne un po' (non molto) di più, qui il sito NoAuto, e naturalmente per un semplice confronto quello Carfree (f.b.)
Di fronte ad una scelta all’apparenza virtuosa che affida la soluzione dei problemi della mobilità urbana (in una città specialissima come Firenze) al mezzo pubblico e, tra i mezzi pubblici, a quello meno inquinante, su ferro e in sede propria, perché la fermissima opposizione di Italia Nostra?
Perché, diremo subito, in una città come Firenze non è dato affidarsi a soluzioni standard, sui modelli che vengono insistentemente richiamati come i più avanzati e innovativi delle principali città europee. Perché Firenze impone una soluzione alla sua, specialissima appunto e sublime, misura.
Il luogo urbano che si vuole attraversare con il convoglio “Sirio” è l’ambiente monumentale nel quale si identifica, si può ben dire, l’Italia storica e artistica, lo spazio esterno di Santa Maria del Fiore, del Battistero, del Palazzo Medici Riccardi, un bene culturale per eccellenza, rappresentativo al più alto livello di qualità di quella speciale categoria di beni culturali espressamente riconosciuta nell’art. 10 del recente Codice dei beni culturali e del paesaggio: “Le pubbliche piazze, vie e strade e altri spazi aperti urbani d’interesse artistico e storico”.
E non può perciò costituire argomento di per sé dirimente quello che valorizza, con la soppressione degli inquinanti autobus tradizionali, gli effetti benefici sui circostanti monumenti, liberati finalmente dalle deteriori condizioni ambientali.
Dunque la prima verifica di compatibilità deve essere attuata con riguardo allo speciale bene culturale che ne risulterebbe fisicamente modificato con opere stabili e irreversibili come la posa del doppio binario con scasso profondo del suolo per le sue fondazioni. Un mezzo di trasporto che tiene delle caratteristiche più di una moderna ferrovia (vera e propria metropolitana di superficie) che non del domestico tram tradizionale.
Certo l’affanno degli autobus inquinanti non può dirsi rispettoso dell’ambiente monumentale, ma possiamo e dobbiamo considerarlo come una soluzione transitoria e agevolmente, poiché non si affida ad opere permanenti, rimovibile. Italia Nostra non si piega alla conservazione di questo assetto organizzativo del trasporto pubblico come servitù passiva di transito pesante subita dal luogo monumentale. Propone invece l’alternativa, questa si radicalmente innovativa, di sopprimere quella indebita servitù con la pedonalizzazione del quadrante centrale del non vasto centro storico di Firenze.
La organizzazione razionale della mobilità non esige, funzionalmente, l’attraversamento del nucleo centrale della città storica e la città storica non tollera soluzioni di astratta geometria per linee rette in funzione della più veloce comunicazione.
L’ambiente di Santa Maria del Fiore e del Battistero è un luogo di cui neppure i fiorentini hanno la disponibilità perché ha un rilievo assoluto nel patrimonio storico e artistico della nazione e la sua tutela è responsabilità della comunità nazionale e anzi investe una dimensione che la supera (Firenze è patrimonio dell’umanità) e che oggi è qui testimoniata da Europa Nostra.
Le complesse e profonde opere di fondazione per la posa dei binari con gli accorgimenti tecnologici necessari a ridurre a valori sopportabili la trasmissione delle vibrazioni agli edifici monumentali sfiorati, rendono irreversibile l’opera i cui elevati costi esigono peraltro lunghi tempi di ammortamento. L’ingombro visivo del convoglio, il Sirio con 32 metri di sviluppo lineare, interferisce, nella prevista frequenza delle corse, con la percezione degli edifici monumentali ed è aggravato dall’accorgimento suggerito per contenere ulteriormente la propagazione delle vibrazioni e cioè la drastica riduzione della velocità in quell’attraversamento.
Già si è detto che la salvaguardia degli spazi che fasciano, se così si può dire, Santa Maria del Fiore, il Battistero, il Palazzo Medici Riccardi, San Marco, supera la responsabilità dei fiorentini e della loro amministrazione comunale e chiama in causa innanzitutto le istituzioni della tutela dello Stato, gli organi non solo periferici del Ministero dei beni culturali (quindi le più alte istanze consultive del Ministero, Consiglio Superiore e Comitati tecnico-scientifici). La cui voce è apparsa timida, come se si trattasse di una interferenza non diciamo indebita, ma subordinata alla scelta politica, rimessa all’autonomia comunale, di strategia della mobilità urbana, come tale incensurabile. E alla “soprintendenza”, quindi (già è avvenuto così per il parcheggio sotterraneo che lambisce le fondazioni del Sant’Ambrogio a Milano) non rimane che dare prescrizioni di attenuazione-mitigazione dell’impatto. Con l’incontro di oggi Italia Nostra ed Europa Nostra intendono richiamare le istituzioni della tutela all’esercizio pieno del compito che ad esse è principalmente affidato (come ha confermato il recente codice): la salvaguardia del cuore di Firenze, esigenza che per precetto dell’art. 9 della Costituzione deve prevalere su ogni altro interesse e pure di rilevanza pubblica.
Piccoli e grandi abusi edilizi. Stati di necessità e maxi-speculazioni. Disperata fame di case nei centri urbani e mega-lottizzazioni in cale esclusive. Mini-ampliamenti in aziendine familiari nel profondo entroterra e saccheggi sistematici lungo le coste. In Sardegna, mai come oggi, appaiono stridenti le diverse facce della diffusa illegalità nelle costruzioni. Gli ordini di demolizione a raffica disposti dalla magistratura nuorese mettono il dito su questa piaga multiforme. Facendo riflettere su un universo di violazioni normative capillari e incresciose ma spesso di lieve entità: terrazzini, box, balconi, verande. E rilanciando il più ampio tema degli interventi spesso inadeguati contro gli scempi sui litorali devastati da ecomostri.
Se naturalmente la legge è uguale per tutti, di tutto c’è pure in questo mondo cementificato. Ingenui. Smaliziati. Furbetti fai-da-te. Volpi professioniste condono dopo condono. Ignoranti colombe. Insaziabili falchi. Imprudenti per caso. Principi, re, imperatori e vassalli del mattone selvaggio. Perciò è importante delineare il quadro degli abusi nell’isola, accompagnato da carenze, omissioni, abbattimenti mancati o disposti in ritardo. Una situazione grave. Con dati che negli ultimi decenni (come dimostrano le statistiche della Regione per il più recente periodo settembre 2006-ottobre 2007) indicano una mole impressionante d’irregolarità. In tutto quasi 60mila, stando a calcoli prudenziali. Ma al di là del numero fa riflettere la tipologia.
Dal dopoguerra ci sono stati interi territori che hanno cambiato connotati. Con una forte accelerazione dovuta all’industria delle vacanze ed enormi scempi provocati da alberghi, residence, seconde case, camping, villaggi turistici. Con la complicità di tanti amministratori e troppi dirigenti sindacali nel tollerare industrie inquinanti quando la massiccia disoccupazione portava a chiudere tutti e due gli occhi sui contraccolpi. Le storie di Pittulongu, proprio in questi giorni al centro di un’inchiesta su intrecci con la ’ndrangheta, sono significative. E con questioni che ora si spostano inevitabilmente dal piano della semplice legalità ai danni comunque subìti - autorizzati o no, sanati o no - dal paesaggio. Qualche esempio per capire meglio? Eccolo. Il riferimento è a casi come La Marmorata a Santa Teresa o Rocca Ruja a Stintino. Ripeterli oggi non sarebbe neppure immaginabile. Anzi, proprio oggi in tutta la loro prorompente regolarità giudiziaria, ricordano le strade da evitare per non compromettere l’ambiente. Concetto che riporta al «consumo senza ritorno del territorio» caro a Renato Soru e alla sua legge salvacoste. E concetto che, nella fase più vicina a noi, ha visto lo sviluppo di una moderna coscienza ecologista. In campo, su questo fronte, le maggiori associazioni per la difesa della natura. Dal Wwf a Italia Nostra. Dal Gruppo d’intervento giuridico agli Amici della terra. Da Marevivo a Legambiente. È spesso grazie alla loro vigilanza che le aspetti preoccupanti sono tenuti sotto osservazione. È sempre grazie a loro, oltre che all’assessorato all’Urbanistica e alle amministrazioni locali più sensibili, che l’entità di un abusivismo senza freni si è contratta sebbene faccia ancora paura suscitando sempre allarmi e timori.
Dice Vincenzo Tiana, presidente sardo di Legambiente: «Le cifre fornite in questi giorni dalla Regione confermano che la gran parte delle violazioni si riscontra in aree agricole. Così la nostra isola si avvicina sempre più al Nord Italia e sempre meno ai disastri che continuano registrarsi sui litorali in Sicilia e in Campania. Tutto perché sono stati fatti moltissimi passi avanti». Specialmente se si riflette sulle sanatorie del passato. «Durante una prima fase, negli anni ’80, sono sorti d’incanto interi rioni: a Olbia Pittulongu e Murta Maria, a Quartu si è andati da un piano di risanamento all’altro fino a collezionarne sette - prosegue Tiana - Nel ’94, con il condono voluto da Berlusconi, c’è stato un proliferare di singoli abusi costieri. Adesso, al contrario, con l’Osservatorio regionale che raccoglie le segnalazioni dei Comuni e l’aiuto della Forestale, la vigilanza è stata notevolmente rafforzato. L’unico scandalo resta il rione illegale di Testimonzos a Nuoro».
Finora in Sardegna sono state eseguite su richiesta dei Comuni qualcosa come 1.100 ordinanze di abbattimento per violazioni non condonabili. Tutte in aree tutelate da vincoli d’inedificabilità assoluta. Con la conseguente demolizione di 300mila metri cubi di volumetrie illecite. «In gran parte si è agito fra il 1986 e il 1987 - ricordano i responsabili del Gruppo d’intervento giuridico - Con una breve ripresa fra il dicembre 1994 e il gennaio 1995». Da allora, ogni anno, vengono emessi almeno un migliaio di nuovi provvedimenti di abbattimento. Ma, sottolineano gli stessi ambientalisti, quasi nessuno viene eseguito dai trasgressori. «Sono tuttora giacenti decine di richieste comunali di personale e mezzi regionali per procedere: inutilmente, perché da anni non si bandiscono neppure le gare d’appalto», rimarcano gli Amici della terra. Proprio in questi giorni, però, l’assessore Gianvalerio Sanna ha reso noto che numerose squadre di demolitori sono a disposizione per i casi nei quali si ravvisa la necessità di un aiuto da parte della Regione.
Soltanto nel 2007 in Costa Smeralda sono state sequestrate una trentina di ville abusive. Interventi analoghi a Monte Ricciu, poco distante da Alghero, in un hotel di Orosei e, appena qualche giorno fa, in 16 alloggi non lontano da San Teodoro. Ma le ruspe nella residenza del ministro Antonio Gava a Palumbalza, vicino a Porto Rotondo, o a Punta Cardinalino, non lontano da Palau, rimangono un ricordo vago.
Gli abusivismi insanabili cumulati negli anni sono ora stimati in 4500, la gran parte lungo i litorali. I nuovi monitorati dall’Osservatorio 1.694, relativi però al 48,28 % dei Comuni. Dati, quindi, parziali e numeri ragionevolmente raddoppiabili perché molte amministrazioni ritardano nell’informare la Regione. Ancora malessere a Quartu, che detiene sempre il record sardo negativo. Oltre che sulla Riviera del corallo: 140 i nuovi casi accertati dal Comune, più di 80 gli avvisi di garanzia.
Molte le storie clamorose. Come 185 edifici nell’oasi di Molentargius. I 26 complessi (campeggi con bungalow e roulotte fissate al suolo) nell’area protetta di Porto Conte. I sigilli a un’intera lottizzazione di Punta Lu Cappottu, vicino a Porto Torres. Cinquanta tra pontili e villette irregolari nel parco della Maddalena. Una baraccopoli con 13 unità abitative a Capo Ceraso. Una quarantina di strutture fuori norma nell’isoletta di Corrumanciu, stagno di Porto Pino. I contestatissimi lavori per il campo da golf sulle sponde dello stagno di Chia, prima sequestrati e poi dissequestrati per permettere, sotto vigilanza, il ripristino ambientale. Valanga di abusi a Pula, Baia delle ginestre, non lontano da Teulada, a Carloforte, Olbia, Golfo Aranci. E l’elenco, quasi senza fine, potrebbe continuare: si calcola che ogni giorno nell’isola si commettano non meno di dieci abusi. Di qui le conclusioni del portavoce del Gruppo d’intervento giuridico, Stefano Deliperi: «Tanti casi scottanti non possono venire lasciati incancrenire: contro l’abusivismo si deve fare di più».
”La vie moderne demande, attend un plan nouveau,
pour la maison et pour la ville”
(Le Corbusier, 1931)
Ville Radieuse: un nome che evoca un sogno, il sogno di una nuova città a misura d’uomo, concepita per sostituire quella malsana città compatta in cui tutte le funzioni si mescolano senza soluzione di continuità. E’ il mito del ‘900, quello del modernismo, tanto dibattuto nei CIAM e nelle Università, un mito che pretendeva di assegnare ad ogni attività umana i suoi spazi ben definiti e che tentava di ordinare quella complessità che per millenni aveva contraddistinto qualsiasi ambiente urbano. Un mito che rievoca inevitabilmente il suo principale creatore: Le Corbusier.
Radiant City, film-documentario prodotto dal National Film Board Canadese, ricorda quel mito e spiega ai più, criticandolo molto esplicitamente, uno dei suoi prodotti più devastanti (o almeno ritenuto tale): il suburbio.
Protagonista è la famiglia Moss, una tipica famiglia che decide di comprare casa in un suburbio, spinta dalle più classiche delle motivazioni: un prezzo ragionevole per uno spazio dove cinque persone, genitori e tre figli, possono vivere comodamente, parcheggiare senza problemi la loro macchina ed essere protetti dal caos della downtown. Si tratta – come si scopre alla fine – di una famiglia costruita a tavolino, ma ciò non toglie nulla al realismo della narrazione.
Radiant City ci racconta il suburbio per quello che è: un agglomerato di case, dove lo spazio pubblico è inesistente, da cui e in cui non puoi muoverti senza una macchina – ma chiaramente ce ne vogliono almeno due per nucleo familiare – e in cui, nonostante i diversi pezzi vengano chiamati community, di quel senso di comunità tanto ricercato non c’è nemmeno l’ombra. Ogni membro della famiglia, ad eccezione della figlia più piccola, si relaziona in maniera diversa con lo spazio in cui vive, rappresentando così diversi “personaggi tipici” del suburbio.
La mamma, Jane, accetta di buon grado la vita suburbana, perché le offre una casa nuova, grande, tutta sua, anche se la contropartita è dover pianificare mese per mese gli spostamenti dell’intera famiglia. Il padre, Evan, un po’ meno entusiasta di quella vita, tenta di nascondere le sue frustrazioni e le sue reali aspirazioni, al punto di farci credere che per lui le due ore passate ogni giorno in macchina imbottigliato nel traffico di una comunissima highway siano salutari, perché può rilassarsi, pensare alla sua vita, ascoltare musica.
E’ intorno a lui che ruota una delle “chicche” del film, un musical fai-da-te ( Suburbs – The Musical) che ironizza sulla vita suburbana, celebrando in particolare la sacralità del giardino:
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I due figli, Nick e Jennifer, rappresentano altre due “costanti”: il primo, impegnato in giochi macabri, rappresenta l’effetto degenerativo della crescita in un ambiente desolante e triste come il suburbio. La seconda, invece, va in palestra (la Gymtastics!), suona il piano e fa karate, simulando così quel superimpegno cui invasati genitori sottopongono spesso i loro figli nell’illusione di dargli una scelta che loro, sostengono, non hanno mai avuto.
L’interesse di questo pseudo-documentario non è tanto nella novità delle informazioni: sui suburbi si è detto e scritto tanto e, tutto sommato, non ci viene detto nulla di nuovo rispetto a ciò che già sapevamo. Radiant City, però, riesce a dare una panoramica esaustiva del fenomeno, affrontando quasi tutti gli aspetti e i problemi della vita suburbana e rendendo il tema accessibile al largo pubblico. Le vicende e le emozioni della famiglia Moss si alternano alle spiegazioni degli “specialisti” – architetti, pianificatori, scrittori e filosofi – e ai vari dati statistici – quanto spazio spreca il suburbio, quanto sono più obesi i giovani abitanti suburbani rispetto ai loro coetanei cittadini e via discorrendo.
Chi guarda Radiant City senza essersi mai posto il problema di che cosa significhi la vita suburbana di fronte alle informazioni chiare e discretamente approfondite del film probabilmente capirà un po’ meglio l’ambiente in cui vive. Come spesso accade, questo non basterà a risolvere il problema, ma, probabilmente, qualcuno resterà meno insensibile di fronte a quelle distese di terreno occupate da migliaia di villette disposte ordinatamente lungo strade deserte o di fronte a tristi centri commerciali persi nel vuoto.
In Italia la situazione è notevolmente diversa. Le nostre grandi città hanno periferie tristi e degradate, ma nulla di lontanamente paragonabile ad un suburbio. C’è un problema di dimensione: le grandi città italiane sono decisamente più piccole delle grandi città nordamericane. Ma non solo. In Italia sono troppe e troppo pesanti le sedimentazioni storiche per pensare di costruire senza porsi il problema di un centro, dei servizi e soprattutto dello spazio pubblico.
La storia ci ha consegnato una realtà in cui oltre le grandi città iniziano i piccoli comuni, sia da un punto di vista culturale che spaziale. Non è infrequente che chi non può permettersi il centro della grande città preferisca fare il pendolare dal piccolo comune limitrofo piuttosto che finire in periferia.
Certo, anche il Belpaese ha le sue “villettopoli”, ma si tratta di piccole lottizzazioni, lontane dai suburbi che si estendono per chilometri e chilometri. E infatti, l’italiano che guarderà Radiant City tirerà probabilmente un sospiro di sollievo nel vedere raccontato un fenomeno che qui fortunatamente non ha mai preso piede.
Tutto fantastico, quindi? Non proprio, perché la storia non basterà a metterci in salvo: forse non avremo mai una Evergreen (il nome della community in cui vivono i Moss), ma il rischio che corrono le nostre città e in generale il nostro territorio è comunque molto alto e le cronache dei giornali ce lo dimostrano. E se scaviamo un po’, scopriremo che all’origine di questo rischio c’è una parentela significativa con il suburbio nordamericano.
Uno dei concetti che i tecnici e gli studiosi intervistati dai registi di Radiant City rimarcano spesso è che il suburbio sia un prodotto del dopoguerra ed è alle teorie moderniste che si addossa gran parte della colpa per la sua diffusione. Non si tratta di un errore, ma è bene fare qualche precisazione.
Semplificando molto un processo durato decenni, dopo la Seconda Guerra Mondiale la situazione economica delle famiglie migliora, tra alti e bassi, di anno in anno. Le tecnologie progrediscono, i sistemi di produzione si evolvono, le distanze si riducono e per molti la scelta di dove vivere diventa quasi del tutto indifferente rispetto al luogo di lavoro, perché alla base c’è la consapevolezza di potersi spostare agevolmente. Grazie all’automobile, e non solo, ogni individuo è indipendente dal resto del mondo.
C’è dunque una questione eminentemente pratica all’origine del suburbio: la diffusione dell’automobile. E a conferma di ciò c’è il fatto che proprio a partire dagli anni trenta, quando questo nuovo mezzo di trasporto cominciava a diffondersi, in America si era rotto definitivamente il rapporto tra la pianificazione delle infrastrutture e quelle degli insediamenti, che fino ad allora avevano avuto un’unica regia pubblica. Gli investitori privati cominciano ad avere maggiore libertà di manovra: acquistano terreni lontani dai centri urbani, dove costano di meno, lottizzano e vendono. Il pubblico provvederà poi a seguire le loro decisioni con la costruzione della rete viaria.
Parallelamente a questo cambiamento epocale prendono corpo le teorie anti-urbane di Le Corbusier e soci, che hanno avuto un ruolo non secondario nell’alimentare il mito della vita solitaria e lo spirito di repulsione verso la città di cui il suburbio è concreta manifestazione. Esse rientrano più o meno consapevolmente in una tradizione culturale che considera la complessità dell’ambiente urbano in modo negativo: la vita di prossimità e la condivisione dello spazio con altri individui, infatti, spingono l’uomo verso la corruzione e l’immoralità e per questo vanno combattute.
Grazie all’automobile, adesso la battaglia appare più semplice: edifici immersi nel vuoto al cui interno si cerca di riprodurre in altezza quella complessità tipica delle città. Tutt’intorno, larghe autostrade in cui il traffico e il caos della vita cittadina saranno solo un lontano ricordo. Con qualche timida opposizione, sarà questo il leit motiv della ricerca architettonica per gli anni a venire, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Se riconosciamo nella diffusione dell’automobile e nel consolidarsi di uno spirito antiurbano l’origine del suburbio, allora dobbiamo anche riconoscere che il Belpaese ha avuto il suo “suburbio”. Quella stessa storia che ci ha protetto dalle distese di anonime villette, non ci ha messo al riparo dalla tendenza a costruire in modo diffuso, senza la necessaria attenzione per lo spazio pubblico e con enormi consumi, di suolo e di energie. Il nostro è un suburbio fatto di villette sparse, di palazzine in cui si rinchiudono piccole enclaves familiari, in cui le città crescono per micro-lottizzazioni che spesso non fanno sistema. Il principio è lo stesso che sta dietro a Evergreen: si costruisce lì dove l’automobile permette di arrivare dal centro in tempi ragionevoli, per poter avere il proprio spazio riparato e poter evitare il caos delle città. Il modello insediativo che ne scaturisce è molto diverso, ma in proporzione altrettanto dannoso.
Tutto questo avviene in un contesto politico-amministrativo in cui il pubblico ha rinunciato già da tempo a pianificare la crescita edilizia e a controllare che quella crescita avvenga nel rispetto dei piani-proclami adottati e approvati. A cadenze ricorrenti il pubblico provvede a condonare quei piccoli e grandi disastri che la sua disattenzione ha provocato e che ormai non suscitano più né sdegno né condanne.
Ma lamentarci perché il pubblico non difende abbastanza il territorio non basta. Il “pubblico”, in fondo, è fatto di amministratori che prendono atto dei desideri delle varie Jane Moss italiane: una casa nuova a un buon prezzo, uno spazio abbastanza grande per far crescere i propri figli e stare lontani dal caos della vita cittadina. E così, fatti i dovuti distinguo, non è improbabile che una pièces teatrale dal titolo “Villettopoli – Il musical” possa chiudersi così:
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Per chi volesse saperne di più, qui c'è il sito ufficiale del film; qui, invece, una recensione pubblicata sul New York Times.
Dichiarazione di Aalborg
Ci impegniamo a svolgere un ruolo strategico nella pianificazione e progettazione urbane, affrontando problematiche ambientali, sociali, economiche, sanitarie e culturali per il beneficio di tutti.
Lavoreremo quindi per:
● rivitalizzare e riqualificare aree abbandonate o svantaggiate.
● prevenire una espansione urbana incontrollata, ottenendo densità urbane appropriate e dando precedenza alla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente.
● assicurare una miscela di destinazioni d’uso, con un buon equilibrio di uffici, abitazioni e servizi, dando priorità all’uso residenziale nei centri città.
● garantire una adeguata tutela, restauro e uso/riuso del nostro patrimonio culturale urbano applicare i principi per una progettazione e una costruzione sostenibili, promuovendo progetti architettonici e tecnologie edilizie di alta qualità.
Entrare nell’Era del recupero, invertire la tendenza nel consumo di suolo
Il territorio della provincia di Milano è ovunque intensamente urbanizzato: i dati Misurc [ mosaico degli strumenti di pianificazione n.d.r.] del 2006 registrano una media del 34%, distribuito in modo molto diversificato nel territorio provinciale, attorno al 10-15% nelle aree attorno al Parco Sud e fino quasi alla saturazione a Milano (63%) e oltre in molti centri del nord milanese e della Brianza. Il resto del territorio è costituito per circa il 55% da colture agricole e per la quota residua da aree naturali e forestate, da aree umide, laghi e corsi d’acqua. Anche i processi di urbanizzazione in corso sono ancora quantitativamente significativi.
L’area urbanizzabile (definita in espansione dai piani urbanistici comunali, censiti dal Misurc 2006) è mediamente pari al 13%. In 121 Comuni (su 189) è superiore al 25% del territorio e in 45 Comuni (erano 33 nella rilevazione Misurc 2005) è addirittura oltre il 50%. Rispetto ai precedenti dati disponibili si osserva un significativo aumento delle previsioni di urbanizzazione contenute nei piani regolatori.
Il verde urbano esistente, includendo aree di parco, è quantificabile attorno ai 25 m2/ab. su base provinciale, ma anche in questo caso si tratta di un dato medio che andrebbe invece letto con parametri diversi (l’accessibilità a breve distanza per i cittadini, l’esistenza di aree agricole circostanti l’urbanizzato), viste le fortissime differenze tra i vari Comuni (vi sono 25 Comuni con meno di 10 m2/ab e solo 4 Comuni con più di 100 m2/ab).
Anche il verde urbano pianificato ai sensi degli esistenti PRG presenta forti escursioni, con un valore medio di 19 m2/ab, ma realizzato grazie ai soli 5 Comuni in cui il dato è maggiore a 75 m2/ab (Bibbiano, Tribiano, Pieve Emanuele, Usmate Velate, Cusago. In 65 Comuni la disponibilità pianificata è infatti inferiore a 10 m2/ab.
Dati significativi su cui riflettere sono anche quelli relativi al volume di nuovi fabbricati e alle superfici occupate da nuove abitazioni (in crescita, come valore assoluto e pro-capite), anche se in misura inferiore al più diffuso sprawl che caratterizza altre province della Lombardia.
Le misure di protezione e tutela esistenti (il territorio della provincia di Milano è interessato da 6 parchi regionali e da 14 parchi locali di interesse sovra comunale) hanno fino a oggi svolto un’azione di contenimento dei processi di urbanizzazione e di artificializzazione del territorio. Ora è in corso l’adeguamento degli strumenti di pianificazione territoriale, sia a livello provinciale (PTCP) che comunale (PGT). È l’occasione per produrre una svolta, per riconoscere il limite oggettivo a questo processo di artificializzazione del territorio. Scegliere cioè la sfida del recupero delle aree dimesse, della riqualificazione ambientale dei comparti urbanistici e edilizi già esistenti, investendo sull’innovazione ambientale (si veda Box), stimolando e aiutando i Comuni a trovare alternative migliori alla svendita dei propri territori.
Tasso di artificializzazione reale e pianificato
1 Nella Provincia di Milano la superficie artificializzata (incluso verde urbano, aree estrattive e discariche) nel 2000, pari a 756 km2, ricopriva già il 38% del territorio (dati riferiti alla cartografi a di Destinazione d’Uso dei Suoli Agricoli e Forestali -DUSAF- del 2000). Tale percentuale era mediamente più elevata nell’area Brianza (52%) rispetto all’area di Milano con esclusione del capoluogo (30%), ma risultava molto più elevata nella città di Milano (73%). Quella percentuale scende attorno al 10-15% nelle aree attorno al Parco Agricolo Sud Milano (i valori più bassi sono quelli dei Comuni di Morimondo, Besate, Zelo Surrigone, Nosate) e si impenna fi no a oltre l’80% in molti centri del Nord milanese e della Brianza (Sesto San Giovanni, Cusano Milanino e Vedano al Lambro con valori pari quasi al 90%).
L’artificializzazione del suolo è determinata principalmente dal residenziale e da insediamenti produttivi, rispettivamente il 20% e il 9% della superficie territoriale provinciale, più elevati nell’area Brianza (pari al 31% e 11% del territorio dell’area) e nella città di Milano (pari al 33% e 12% del territorio comunale). Le vie di comunicazione e il verde urbano rappresentano ciascuna circa il 2,5% del territorio provinciale, risultano più elevate nel capoluogo (rispettivamente 11% e 7%) e, per il verde urbano, nei Comuni di Vedano al Lambro, Monza, Segrate, Cinisello Balsamo e Corsico (oltre il 10% del territorio comunale), per le vie di comunicazione, nei comuni di Bresso, Segrate e Peschiera Borromeo (anche qui oltre il 10% del territorio comunale). Le aree artificializzate destinate ad altri usi hanno un peso decisamente minore.
2 In base al mosaico degli strumenti urbanistici comunali l’area urbanizzata pianificata (escluso il verde urbano), consolidata e in espansione, della provincia di Milano ricopre il 42% del territorio, pari a 825 km2. Considerando che il verde urbano pianificato è pari a poco meno del 10% del territorio provinciale, la superficie artificializzata pianificata risulta pari al 51% del territorio provinciale (suddiviso tra il 38% consolidato e il 13% in espansione). Il solo residenziale pianificato, pari al 16% del territorio provinciale (più di 300 km2), costituisce la categoria di destinazione funzionale più estesa e gran parte di tale superficie è consolidata, a differenza del verde urbano pianificato, la cui superficie è principalmente in espansione.
Le aree produttive, i servizi e le vie di comunicazione ricoprono ciascuna più del 7% del territorio provinciale e anche per esse gran parte della superficie è consolidata.
Superficie urbanizzata e urbanizzabile pianificata
Il mosaico al 2006 degli strumenti urbanistici comunali offre anche altri dati complementari a quelli appena esposti.
L’area urbanizzata pianificata consolidata (esclusa quindi l’area in espansione) ricopre il 34% del territorio della Provincia di Milano, con una superficie pari a 681 km2. (il dato si discosta leggermente da quello del 38% registrato dal Dusaf 2000 (ind. 5.1) anche per ragioni di codificazione, non è incluso il verde urbano). Si conferma comunque la differenza sensibile tra l’area Brianza (46% del territorio dell’area) e l’area Milano senza capoluogo (28%) e si evidenzia la criticità dei fenomeni di consumo già individuati dal Dusaf: in 45 Comuni della provincia l’area urbanizzata è oltre il 50%, tra essi vi sono tutti i Comuni con più di 50.000 abitanti residenti ad eccezione di Monza (48% del territorio comunale urbanizzato); in 24 Comuni la percentuale di urbanizzato supera addirittura il 60%, tra essi vi è la città di Milano (63%). Solo in 68 Comuni (su 189) l’area urbanizzata è inferiore al 25% del territorio, ma tra essi vi sono 39 Comuni con meno di 5.000 abitanti residenti.
Il rapporto tra superficie pianificata urbanizzata o ancora urbanizzabile e la superficie totale del territorio è un altro indice di consumo del suolo: maggiore è tale valore e maggiore è la pressione antropica esistente o potenziale sul territorio. Le dinamiche di consumo, considerando anche il potenziale, presentano il quadro in tutta la sua gravità: il valore medio della provincia è pari al 42%, con valori sensibilmente diversi per l’area Brianza (57%) e l’area Milano se si esclude il capoluogo (35%), la città di Milano presenta un valore pari al 71%. Valori superiori al 90% caratterizzano i Comuni di Cusano Dilanino, Vedano al Lambro, Sesto San Giovanni e Cerro Maggiore, valori inferiori al 10% si hanno nei Comuni di Morimondo, Besate, Ozzero, Nosate, Zelo Surrigone e Rosate.
Verde urbano reale e pianificato
1 In base alla cartografi a di Destinazione d’Uso dei Suoli Agricoli e Forestali – DUSAF -, il verde urbano esistente sul territorio provinciale, includendo aree sportive e ricreative, nel 2000 era quantificabile attorno ai 21 m2/ab (la media aritmetica dei Comuni è invece di 25 m2/ab), con fortissime escursioni tra i vari Comuni (vi sono 25 Comuni con meno di 10 m2/ab e i Comuni di Bubbiano, Tribiano, Nosate e Pieve Emanuele con più di 100 m2/ab). Considerando il solo verde urbano (parchi e giardini e aree verdi incolte), solo 17 Comuni (su 189), equamente distribuiti tra le aree di Milano e Brianza, dispongono di una superficie pari ad almeno 25 m2/ab (tra i quali Segrate, Carpiano, Vedano al Lambro e Basiglio con oltre 50 m2/ab e Monza con 39 m2/ab), mentre 84 Comuni hanno meno di 10 m2/ab (la città di Milano presenta un valore appena superiore, pari a 10,3 m2/ab).
2 Al 2006 il verde urbano pianificato dagli strumenti urbanistici comunali (considerando il verde comunale consolidato) ai sensi degli esistenti PRG è complessivamente pari a circa 5.000 ettari nell’intera provincia di Milano (pari al 2,5% del territorio) e presenta anch’esso forti escursioni tra i diversi Comuni, con un valore medio di 13 m2/ab (la media aritmetica dei Comuni è invece di 19 m2/ab). In 65 Comuni la disponibilità pianificata è inferiore a 10 m2/ab e in 5 Comuni è maggiore a 75 m2/ab (Bibbiano, Tribiano, Pieve Emanuele, Usmate Velate, Cusago).
Nella Provincia di Milano sono presenti anche 2.164 ettari di verde sovracomunale pianificato e consolidato. Considerando anche il verde pianificato in espansione, il totale del verde (comunale e sovracomunale, consolidato e in espansione) nell’intera provincia di Milano è di quasi 18 mila ettari, pari a circa il 9% del territorio provinciale.
Fabbricati residenziali di nuova costruzione
Questo indicatore consente di evidenziare le variazioni e le tendenze nel tempo della produzione edilizia, nonché la pressione determinata dall’incremento della massa edificata (spazio occupato) e indirettamente dall’uso di risorse utilizzate per la edificazione.
Nella provincia di Milano il volume di fabbricati residenziali di nuova costruzione è progressivamente aumentato dal 2000 al 2004, passando da 5,6 a 7 milioni di m3 per una variazione complessiva del 25% in più nell’ultimo anno rispetto al primo.
Il volume pro capite di nuova costruzione è stato crescente nel periodo considerato, ad eccezione del 2002, passando nell’intero periodo da 149 m3 ogni 100 abitanti residenti a 183 m3/100ab.
La superficie di abitazioni relativa agli stessi fabbricati è passata dal 2000 al 2004 da 897 a 1.070 mila m2, per una variazione complessiva del 19% in più nell’ultimo anno rispetto al primo. La superficie pro capite è passata da 24m2/100ab a 28m2/100ab, mentre il numero medio di stanze per ogni nuova abitazione è diminuito da 3,5 a 3,0 stanze.
Aree da bonificare e aree bonificate
Le aree contaminate (non ancora bonificate o già bonificate) in provincia di Milano individuate e censite all’inizio del 2007 sono pari a 3.335 ettari, corrispondenti a 168m2 per ogni ettaro di superficie del territorio provinciale. Tali aree sono maggiormente concentrate nell’area Milano (173 m2/ha di superficie dell’area) rispetto all’area Brianza (147 m2/ha di superficie dell’area).
Le aree attualmente bonificate costituiscono il 28% delle aree contaminate; il 24% delle aree ancora contaminate hanno attualmente in corso la bonifica e il 46% sono aree soggette a verifica o in altre fasi dell’iter di bonifica.
L’area Brianza è caratterizzata da una percentuale di aree già bonificate sensibilmente maggiore rispetto all’area Milano (rispettivamente 45% e 24% delle aree contaminate), che tuttavia presenta una percentuale maggiore di aree in corso di bonifica (26% dell’area Milano rispetto al 18% dell’area Brianza).
Sui 149 Comuni della provincia nei quali sono state individuate aree contaminate, le bonifiche sono state completate in 21 Comuni, i Comuni che presentano una maggiore superficie ancora da bonificare sul loro territorio sono Arese, Sesto San Giovanni e Varedo (con più di 1.500 m2/ha del territorio comunale).
Densità della popolazione
Nei Comuni della provincia di Milano la popolazione residente totale è passata dai 2,32 milioni del 1951 ai 3,71 milioni nel 2001 (con un incremento del 59%), ai 3,87 milioni del 2005 (con un ulteriore incremento del 4%). La densità di popolazione, è passata da 1.174 ab/km2 nel 1951 a 1.954 ab/km2 nel 2005. Dal dopoguerra l’incremento maggiore della popolazione è avvenuto nel primo trentennio (+60%), è rimasto quasi stabile fino al 1981, in seguito al quale c’è stata una leggera diminuzione (-3,4% nel ventennio successivo) recuperata (+4,4%) negli ultimi 5 anni.
L’area Brianza ha sempre avuto una densità di popolazione inferiore rispetto all’area di Milano, ma la differenza dal 1991 è andata diminuendo. Al 2005 l’area Brianza presenta una densità di 2.115 ab/km2, decisamente superiore a quella dell’area Milano (pari a 1.249 ab/km2 se si esclude il capoluogo). Milano città presenta attualmente una densità di oltre 7.200 ab/km2, pari a quasi 4 volte la densità media provinciale e a quasi 6 volte la densità media dei rimanenti Comuni dell’area di Milano, in passato tuttavia ha toccato densità ancor più elevate (nel 1971, con 9.530 ab/km2, aveva una densità pari a circa 10 volte quella dei restanti Comuni dell’area).
Nota
Afferma il sito web della Provincia
"L’obiettivo è delineare un’analisi d’insieme del territorio provinciale che affronti il tema della sostenibilità con un approccio integrato e capace di comprendere gli aspetti legati all’ambiente, alla società, all’economia.
Una lettura dello stato del territorio della provincia milanese con un approccio integrato che prende in considerazione una serie di indicatori, con esplicito riferimento agli Impegni di Aalborg: gestione locale della sostenibilità e delle risorse naturali, pianificazione territoriale, traffico e mobilità, salute, economia, equità e giustizia sociale.
"Il Rapporto costituisce inoltre un’importante banca dati, con interessanti disaggregazioni a livello comunale e di macroaree. Un patrimonio di informazioni e sollecitazioni da utilizzare per definire un programma per la sostenibilità della Provincia di Milano e un sistema di riferimento per orientare e verificare l’efficacia delle politiche già in atto a livello provinciale e comunale" .
Gli altri capitoli e informazioni sono scaricabili alle pagine dedicate (f.b.)
Se volessimo stilare una classifica dei temi più citati all’interno del forum “Ambiente e Territorio” della due giorni della “Sinistra e degli ambientalisti” (Milano, 1-2 dicembre) il consumo della risorsa suolo si collocherebbe sicuramente al primo posto. Consumo di suolo come uso sbagliato di una risorsa irriproducibile, scarsa, preziosa. Un bene, il suolo, inteso come bene collettivo, come l’acqua, l’aria, l’energia. Da utilizzare con parsimonia e per la cui conservazione occorrono politiche locali e nazionali. Il documento finale della due giorni milanese infatti a governo e parlamento chiede addirittura una legge che ne limiti l’uso, come da tempo hanno legiferato in Germania, Olanda e Inghilterra.
Paesi che, a partire dal riconoscimento del suolo come risorsa scarsa, si sono dati obiettivi e tempi di raggiungimento. In Italia non esistono dati sul consumo annuo di suolo. La Provincia di Milano, da tempo alle prese con il rifacimento del Piano territoriale di coordinamento territoriale (Ptcp), ha provato a quantificarne l’uso e i dati sono preoccupanti. In media, nei 189 comuni della provincia Milano compresa, il valore di consumo di suolo è oggi pari al 34% del totale. Dato destinato a crescere al 42,7% se tutte le previsioni urbanistiche esistenti dovessero realizzarsi. I piani regolatori e i piani di governo del territorio oggi vigenti hanno in seno un incremento percentuale di 8,7 punti, che corrisponde a circa 159 km quadrati. Il dato provinciale, per la verità, è un indicatore medio, che vale il 70% a Milano e nei comuni di prima corona, 66, 57 e 35% rispettivamente nella Brianza occidentale, centrale e orientale, 31% nel Castanese e Magentino, 60% nell’Alto Milanese e Sempione e 19% nel Sud Milano. Quest’ultimo risultato confortante è reso possibile dall’esistenza dal 1990 del Parco regionale agricolo Sud Milano, che in molti, a destra e a sinistra, vorrebbero modificare.
La letteratura scientifica sostiene che, superato il limite del 55%, un territorio è nell’impossibilità di rigenerarsi dal punto di vista ecologico e ambientale. Il Ptcp, presentato in Giunta provinciale più di due mesi fa e ancora fermo al palo, pone – e sarebbe la prima volta per il nostro Paese – per il territorio milanese un obiettivo strategico e anche quantitativo: consentire un incremento del 5% rispetto alle previsioni urbanistiche in corso, portando il dato medio al 45% del totale della superficie provinciale. Un obiettivo non rivoluzionario, riformistico si potrebbe dire, ma che pare non bastare a una certa cultura politicoamministrativa milanese che ancora non pone limiti per una risorsa scarsa e chiari obiettivi di sostenibilità. Un incremento insediativo contenuto, quello previsto dal Ptcp, che dovrà collocarsi nelle aree dismesse, lungo le linee di forza del trasporto pubblico, nei poli provinciali attrattori di servizi a scala sovracomunale.
Per evitare nuovo spreco di territorio, per garantire i parchi regionali sottoposti a violenti attacchi da parte del centro destra e non solo, mantenere la continuità della rete ecologica provinciale, combattere il fenomeno della dispersione urbana (lo sprawl urbanistico), consentire la continuità dell’attività agricola. Questi oggi sono i contenuti del Piano territoriale della provincia di Milano, condivisi dall’assemblea milanese della sinistra e degli ambientalisti, che chiede anche qualità dell’abitare e del paesaggio in una delle aree più antropizzate del Paese. Un’assemblea che ha posto con forza il tema del governo del territorio lombardo e milanese, in chiave innovativa e sostenibile.
E che nei processi di trasformazione in atto ha rivendicato il proprio ruolo di governo.
(Pietro Mezzi è assessore al Territorio della Provincia di Milano)
Sur un thème d’actualité (urban sprawl ou étalement urbain) pour la recherche urbaine en raison de la dynamique de ce phénomène que connaissent de nombreuses villes, métropoles et mégapoles dans le monde, cet ouvrage collectif se veut un argumentaire scientifique en faveur de la planification urbaine. Tout en étant centré sur l’expérience italienne, il présente l’avantage de mettre en perspective différentes villes du pays tout en soulignant qu’il n’y a pas un modèle de ville en soi ayant réussi à lutter contre le sprawl mais qu’il revient aux acteurs publics et privés de se préoccuper sérieusement de cette dilution de l’urbain. Après une introduction d’Edoardo Salzano posant de manière explicite la thèse de l’ouvrage soit la reconnaissance des conséquences néfastes de l’étalement urbain et les remèdes suceptibles d’y parvenir, la première partie principalement descriptive rend compte de l’émergence de la ville diffuse. Il est ainsi question d’ « anarchie urbaine ». Tout en précisant que l’Italie ne dispose pas encore d’un observatoire central sur la consommation urbaine du sol (au détriment du paysage rural ou encore de la forêt), certaines régions de l’Italie comme l’Emilie-Romagne fait le constat suivant : la croissance du territoire urbain fut de l’ordre de 73% entre 1976 et 1994 et de 52% pour la décennie 1994-2003. Pour les trente dernières années, la croissance a donc été de l’ordre de 163%, ce qui revient à dire qu’une nouvelle région et demie se serait ainsi construite au fil du temps. La deuxième partie est plus normative comme l’indique clairement le premier chapitre (rédigé par Maria Cristina Gibelli) sur les coûts collectifs de la dispersion urbaine et sur les outils de la planification en mesure de les anticiper et de les prévenir. L’analyse s’appuie ici encore sur des exemples de ville italiennes mais fait également référence aux travaux européens (essentiellement français) et américains, comme l’indique la bibliographie. A la fin de l’ouvrage, l’annexe inclut la proposition de loi (2006) de l’association Eddyburg militant contre l’étalement urbain. Celle-ci dispose d’un site sur internet (www.eddyburg.it) qui accueille 100.000 visiteurs par mois.
L’intérêt de cet ouvrage est multiple. L’analyse explique l’étalement urbain des trois dernières décennies par l’absence de toute loi nationale encadrant l’urbanisation (en dehors de celle datant de 1942) pendant que les régions et les communes bénéficient d’une grande autonomie pour délivrer des permis de construire. Les auteurs déplorent une situation générale de « laisser-faire » à l’image de ce qui se passe dans la région lombarde ou encore celle de Rome où le paysage rural disparaît au profit notamment de lotissements de maisons individuelles. Comme l’indique Piero Cavalcoli, seule la province de Bologne a réussi àmaîtriser ce phénomène en raison d’une stratégie fondée sur le polycentrisme et le principe de la « diffusion concentrée ». Cette même région est d’ailleurs en train de faire l’expérience de l’intercommunalité et de mettre en œuvre le principe de la « compensation territoriale » entre municipalités concernées.
La spécificité de l’ouvrage collectif Gibelli/Salzano réside toutefois moins dans le simple constat de l’étalement urbain, un phénomène que connaissent de nombreux pays, que dans le positionnement explicite en faveur d’une relance de la planification et d’une action publique pour le territoire afin d’y remédier. Cette posture est critiquée par des élus locaux, des professionnels voire même des chercheurs remettant en cause toute idée d’intervention de l’autorité publique afin de ne pas perturber la dynamique immobilière. Toutefois il rejoint en fait les préoccupations croissantes d’individus et de groupes d’individus qui tentent désormais de s’organiser au niveau local. L’exemple fréquemment donné est celui du conflit entre promoteurs et habitants au sujet de la construction de pavillons dans le Val d’Orcia en Toscanie. Les habitants souhaitent protéger le bourg historique de Monticchiello et leur action est désormais relatée par les médias et les quotidiens qui dénoncent la faiblesse de l’Etat ainsi que l’inertie des régions et des communes alors qu’elles peuvent facilement avoir recours aux outils de la planification spatiale. Tout lecteur appréciera également la capacité des auteurs (urbanistes et chercheurs) à se doter d’une perspective historique. Pour eux, le sprawl (expression favorite des chercheurs et médias anglo-américains) présente non seulement une sérieuse menace pour le patrimoine urbain et rural mais il remet en cause les fondements même de l’histoire de la ville en Italie et en Europe. Aussi ils laissent entendre que si l’urbanisation « de faible intensité » s’inscrit dans la continuité de l’expérience urbaine de certains pays (comme les Etats-Unis), ce n’est en aucun cas celle de l’Italie. Cette référence faite à la dimension historique -alors que généralement les chercheurs et urbanistes de ce début de 21e siècle ont du mal à concilier technique et histoire, converge avec les idées défendues dans l’ouvrage collectif La ville insoutenable[1] où figure également un article de Maria Cristina Gibelli.
No sprawl est d’abord un ouvrage recommandé à tous ceux qui s’interrogent sur la viabilité à moyen terme de l’étalement urbain mais il intéresse aussi tous ceux qui continuent de douter de la pertinence de l’intervention publique dans la gestion spatiale des villes et des campagnes alors que par ailleurs la question du Développement Durable s’inscrit progressivement dans les mentalités.
[1] .A. Berque, Ph. Bonnin et C. Ghorra-Gobin (ed.) La ville insoutenable, Paris, Belin, 2006.
Dal sito www.alpmedia.net/ la segnalazione di uno studio francese sul consumo di suolo
La Federazione francese delle società per la pianificazione territoriale e lo sviluppo rurale (SAFER) ha pubblicato un libro bianco sul tema del consumo di territorio per il processo di urbanizzazione dal titolo "La fine del paesaggio?".
Sempre più terreni agricoli vengono costruiti e occupati da edifici residenziali e aree commerciali, così che il consumo di territorio progredisce velocemente e pericolosamente.
Questo sviluppo è particolarmente evidente nelle zone turistiche di montagna. In Alta Savoia, ad esempio, la competizione per il suolo ha assunto dimensioni minacciose. Ogni anno circa 7.000 persone si trasferiscono nella regione, innescando un consumo di superficie pari a 500 metri quadri per ogni nuovo abitante e 500 ettari per infrastrutture e opere di urbanizzazione. Se questo sviluppo proseguirà con lo stesso ritmo, la Valle dell'Arve sarà completamente edificata. Con le sue proposte, la Federazione intende avviare una discussione e influenzare un progetto di legge del Governo francese per una riforma dell'agricoltura e per l'assegnazione dei terreni.
Fonte: http://www.safer.fr/6-actualite/conf_livreblanc_12102004.htm (fr)
Titolo originale: Increases in greenhouse-gas emissions from highway-widening projects – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini
Per calcolare i cambiamenti nelle emissioni dei veicoli determinati dall’aggiunta di corsie stradali, Sightline ha sviluppato un modello di analisi che copre un arco di 50 anni. Utilizzando questo modello, Sightline ha stimato una quantità di emissioni CO2 per chilometro di nuove corsie sulla base di caratteri plausibili degli spostamenti del futuro. Le previsioni sono quelle che seguono.
La superstrada: 3.500 tonnellate di CO2 fra costruzione e manutenzione
Due recenti studi internazionali sul costi del ciclo di vita energetico stradale stimano che, tenendo conto della produzione di cemento, acciaio, e altri materiali da costruzione ad alto dispendio di energia, oltre che dei carburanti consumati dai macchinari per la costruzione, si producono fra le 875 e le 1.440 tonnellate di CO2 per ogni nuovo chilometro di corsie. I costi di manutenzione sul lungo termine aggiungono altre emissioni, valutabili fra 1.930 e 3.250 tonnellate.
Sulla base di queste cifre, e una stima più prudente delle emissioni legate alla manutenzione annuale di quelle adottate da queste ricerche, Sightline calcola che la costruzione di un chilometro di corsia e la sua manutenzione per 50 anni faccia rilasciare circa 2.200 tonnellate di CO2.
Diminuzione netta della congestione: 7.000 tonnellate di emissioni in meno da miglioramento di efficienza
I piani di costruzione e manutenzione possono creare congestione e rallentamenti del traffico, riducendo efficienza nell’uso dei carburanti dei veicoli in movimento. Comunque ai fini delle stime, Sightline presume che i progetti di costruzione causino rallentamenti di minore entità e discontinui, e che i volumi di traffico non siano diminuiti durante il periodo di costruzione. Al netto, calcoliamo che la congestione derivante da lavori di costruzione e manutenzione aumenti di poco le emissioni di CO2 dei veicoli, per circa 500 tonnellate sui 50 anni.
Assumiamo che il traffico dell’ora di punta scorra in modo più fluido dopo l’apertura delle nuove corsie, e che questo calo della congestione aumenti l’efficienza nell’uso dei carburanti per i veicoli in movimento. Però, coerentemente con le conoscenze scientifiche e l’esperienza quotidiana, assumiamo anche che la nuova capacità stradale nell’area metropolitana venga gradualmente sfruttata per nuovi spostamenti, e che congestione e traffico a intermittenza possano incrementarsi gradualmente sino ad un livello simile a quello precedente all’ampliamento. Sull’arco di 50 anni, il calo delle emissioni di CO2 può raggiungere le 7.500 tonnellate, se confrontato al non intervento. La maggior quantità di tali riduzioni si verifica nel primo decennio di apertura al traffico delle nuove corsie.
Al netto, quindi, calcoliamo che le modifiche nella congestione legate all’allargamento stradale (calcolando sia la congestione determinata dai lavori, sia quella attenuata dalle nuove opere) ridurranno le emissioni di circa 7.000 tonnellate.
Nuovo traffico: 90.000 tonnellate di emissioni da traffico aggiunto sulla superstrada
É ben documentato il fatto che allargare le strade può determinare un incremento nel numero di veicoli che si spostano lungo un percorso, specie nelle aree urbane congestionate. E in realtà, il fatto di far posto a nuovi spostamenti è normalmente il motivo per cui si aggiungono altre corsie a una strada. Ma la velocità con cui questo nuovo traffico si riversa nelle nuove corsie spesso sorprende. Un recente studio in California stima che nelle aree urbane congestionate la uova capacità determinate dalle corsie viene esaurita al 90% circa nel giro di cinque anni dal completamento dei lavori. Altri studi hanno rilevato effetti simili di “traffico indotto” dall’aggiunta di corsie.
Ad ogni modo, non tutto il traffico aggiunto dalle nuove corsie è fatto di veri nuovi spostamenti. Poco dopo l’apertura, ad esempio, alcuni viaggi che avvenivano su altre strade si spostano qui. Per tener conto di questo aspetto, Sightline assume che nei primi due anni seguenti alla disponibilità delle nuove corsie, nessuno degli spostamenti sia davvero nuovo, ma semplicemente provenga da altre strade vicine sulla nuova opera.
Gli impatti in termini di emissioni di gas serra in futuro saranno determinati dai cambiamenti nelle tecnologie automobilistiche e nell’efficienza nell’uso dei carburanti. Ma anche presumendo un incremento medio di efficienza del 2,5% l’anno (molto ottimistico, visto che in media l’economia carburante/passeggero risulta stagnante da decenni), si stima che ogni nuovo spostamento per ogni chilometro di nuove corsie rilascerà circa 52.000 tonnellate di CO2 sui prossimi 50 anni. Se si aggiunge il dispendio energetico legato alla produzione e manutenzione del veicolo, il totale aumenta a oltre 56.000 tonnellate.
Consumi di carburante indiretti: 30.000-100.000 tonnellate di CO2 da traffico indotto al di fuori della superstrada
È più difficile prevedere i modi di spostamento futuri fuori dalle nuove corsie stradali, dato che comportano molte incertezze.
Le auto che si muovono su una nuova corsia devono necessariamente farlo anche su altre strade e vie, prima e dopo; questo si traduce in altri chilometri percorsi, oltre a quelli sulla superstrada vera e propria. Secondo una valutazione prudente, Sightline stima che per ogni spostamento di dieci chilometri sulla superstrada, il veicolo percorra anche un chilometro fra svincoli di ingresso e uscita.
Inoltre, aggiungere corsie – in particolare su strade che conducono alle fasce più esterne suburbane o ancora inedificate – tende ad accelerare l’urbanizzazione del tipo diffuso a bassa densità. Molti studi legano l’insediamento a bassa densità con l’aumento dei chilometri percorsi in auto. Nell’insediamento diffuse, praticamente, qualunque spostamento deve avvenire in auto, e anche gli spostamenti quotidiani possono comportare parecchi chilometri. Per contro, chi abita in zone suburbane più compatte o nei quartieri urbani normalmente guida meno, e può spostarsi a piedi o coi mezzi pubblici in molti casi, il che riduce le emissioni per cause di spostamento quotidiano. Quindi l’insediamento a bassa densità si associa ad un maggior consumo di carburante per veicolo.
Sightline stima che se solo un decimo dei nuovi spostamenti sulla superstrada rappresenta un cambiamento netto in direzione di un’urbanizzazione diffusa a bassa densità (es., nuovi suburbi dove ogni famiglia guida un po’ di più che non in zone suburbane più compatte), allora le emissioni di gas serra da spostamenti esterni alla superstrada vera e propria possono avvicinarsi, o addirittura superare quelle della strada stessa. Indpendentemente dalle cifre esatte, gli impatti degli spostamenti esterni alla superstrada vera e propria determinati dall’aggiunta di nuove corsie probabilmente saranno molto significativi, di lungo periodo, e supereranno di molto le modeste riduzioni determinate dal calo di congestione.
Conclusioni
I nostri calcoli indicano che, sull’arco di cinque decenni, aggiungere nuove corsie stradali porterà a un sostanziale incremento negli spostamenti veicolari e nelle emissioni di CO2 da auto e camion. Le affermazioni secondo cui si risparmia carburante diminuendo la congestione, possono essere valide su un orizzonte di un decennio, o meno. Sul lungo periodo, ci sarà nuovo traffico a riempire gli spazi stradali aggiunti, con un incremento permanente nelle emissioni dei veicoli di decine di migliaia di tonnellate per chilometro di corsia.
Perfezionamenti nel nostro modello di previsione e nei dati su cui è basato, potranno in seguito precisare i particolari delle stime. Comunque con assunti plausibili sui futuri modi della mobilità ed efficienza dei veicoli, il modello di Sightline prevede che le emissioni aggiunte da nuovo traffico supereranno di molto le modeste riduzioni di gas serra delle nuove opere.
Nota: la versione originale integrale della ricerca con bibliografia, tabelle ecc. è scaricabile in fondo al testo inglese dell’estratto (f.b.)
Titolo originale: Urban Environmental Accords - Green Cities Declaration; Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
RICONOSCENDO che per la prima volta nella storia, la maggioranza della popolazione mondiale vive nelle città, e che la continua urbanizzazione fa migrare verso le città un milione di persone la settimana, creando così una nuova serie di sfide e possibilità ambientali;
RITENENDO che in quanto sindaci delle città di tutto il pianeta, abbiamo la possibilità unica di offrire la guida per sviluppare centri urbani realmente sostenibili in base ad azioni locali adeguate, culturalmente ed economicamente;
RICORDANDO che nel 1945 i leaders di 50 nazioni si riunirono a San Francisco per stendere e sottoscrivere la Carta delle Nazioni Unite;
SOTTOSCRIVENDO l’importanza dell’impegno e spirito della Conferenza di Stoccolma del 1972 sull’Ambiente Umano, dello Earth Summit (UNCED) di Rio del 1992, della Conferenza di Istambul sugli Insediamenti Umani del 1996, i Millennium Development Goals del 2000, e il Summit Mondiale di Johannesburg del 2002 sullo Sviluppo Sostenibile, vediamo gli Accordi Ambientali Urbani descritti di seguito come estensione e sinergia degli sforzi per il progresso verso la sostenibilità, la promozione di economie vivaci, dell’equità sociale, la protezione dei sistemi naturali del pianeta.
DI CONSEGUENZA, DECIDIAMO, oggi nella Giornata Mondiale dell’Ambiente qui a San Francisco, noi Sindaci firmatari ci siamo riuniti per scrivere unnuovo capitolo nella storia della cooperazione globale. Noi ci impegnamo a promuovere questa piattaforma collaborativa, e a costruire un futuro ecologicamente sostenibile, economicamente dinamico, socialmente equo per gli abitanti delle noste città;
DECIDIAMO INOLTRE di chiamare all’azione i nostri colleghi Sindaci di tutto il mondo, perché firmino gli Accordi Ambientali Mondiali e collaborino con noi a metterli in pratica;
DECIDIAMO INOLTRE che sottoscrivendo questi Accordi Ambientali Urbani, ci impegnamo a portare le questioni vitali della sostenibilità in cima alle agende legislative. Attuando gli Accordi Ambientali Urbani, miriamo a realizzare il diritto ad un ambiente sano, pulito e sicuro per tutti i membri della nostra società.
Le Questioni:
Energia – Energie Rinnovabili| Efficienza Energetica| Mutamento Climatico
Riduzione dei Rifiuti – Zero Rifiuti| Responsabilità della Produzione| Responsabilità del Consumatore
Progettazione Urbana – Edifici Verdi| Pianificazione Urbanistica| Quartieri Degradati
La Natura in Città - Parchi| Ripristino dell’Habitat | Flora e Fauna Selvatiche
Trasporti – Trasporti Pubblici| Veicoli Ecologici| Ridurre la Congestione
Salute Ambientale – Riduzione delle Sostanze Velenose| Sistemi Alimentari Sani| Aria Pulita
Acqua – Accesso all’Acqua ed Efficienza| Conservazione delle Fonti Idriche| Riduzione degli Sprechi d’Acqua
Energia
Azione 1 – Adottare e attuare politiche tese all’incremento nell’uso di energie rinnovabili, per rispondere al 10% del massimo bisogno energetico urbano entro sette anni.
Azione 2 - Adottare e attuare politiche per ridurre il massimo bisogno energetico urbano del 10% entro sette anni, governando i momenti di massima domanda, e attraverso misure di contenimento.
Azione 3 – Adottare un piano urbano di riduzione dei gas serra che riduca le emissioni entro la circoscrizione amministrativa del 25% entro il 2030, e che comprenda un metodo di calcolo e verifica delle emissioni.
Riduzione dei Rifiuti
Azione 4 – Mettere in atto politiche per ridurre a zero lo smaltimento in discarica e inceneritore entro il 2040.
Azione 5 – Adottare una norma cittadina che riduca l’uso di categorie di prodotti di categorie eliminabili velenosi o non rinnovabili di almeno il 50% entro sette anni.
Azione 6 – Attuare un riciclaggio “ user-friendly” e programmi di compostaggio, con l’obiettivo di ridurre del 20% pro capite i rifiuti solidi smaltiti in discarica e inceneritore entro sette anni.
Progettazione Urbana
Azione 7 – Adottare politiche per un sistema edilizio verde applicato a tutti gli edifici municipali.
Azione 8 – Adottare principi e pratiche di pianificazione urbanistica che favoriscano densità maggiori, funzioni miste, quartieri accessibili a piedi, in bicicletta, ai disabili, con un coordinamento fra usi dello spazio e sistemi di trasporto, con sistemi di spazi aperti per il tempo libero e le attività nell’ambiente.
Azione 9 – Adottare politiche o attuare programmi che creino posti di lavoro ambientalmente orientati nei quartieri degradati o in quelli a basso reddito.
La Natura in Città
Azione 10 – Fare in modo che esista un parco pubblico o altro tipo di spazio aperto ricreativo ad una distanza di mezzo chilometro da qualunque abitante della città entro il 2015.
Azione 11 – Costruire un censimento della copertura arborea sulla città; successivamente, dopo aver fissato un obiettivo in base a considerazioni ecologiche e sociali, piantumare e mantenere un sistema di copertura che comprenda non meno del cinquanta per cento degli spazi disponibili sui marciapiedi.
Azione 12 – Approvare norme che tutelino i corridoi ecologici e altri habitat (p. es. corpi d’acqua, piante di cui gli animali si cibano, rifugi per la fauna, uso delle specie indigene ecc.) da tipi di insediamento non sostenibili.
Trasporti
Azione 13 – Definire e attuare politiche che estendano i trasporti pubblici a prezzi accessibili a disposizione entro mezzo chilometro a tutti i residenti della città, entro dieci anni.
Azione 14 – Approvare norme o attuare programmi tali da eliminare il piombo dalle benzine (dove ancora usato); abbassare gradualmente i livelli di zolfo nei carburanti diesel e benzina, e insieme utilizzare sistemi avanzati di controllo delle emissioni su tutti gli autobus, taxi, parchi di veicoli pubblici, in particolare per ridurre i particolati e le emissioni che creano smog da questi gruppi, almeno del 50% in sette anni.
Azione 15 – Attuare politiche per ridurre la percentuale di spostamenti pendolari su auto con un solo occupante del 10% in sette anni.
Salute Ambientale
Azione 16 – Ogni anno, individuare un prodotto, chimico o meno, utilizzato nella città e che rappresenta un grosso rischio per la salute umana, e adottare norme e incentivi per ridurne o eliminarne l’uso da parte dell’amministrazione municipale.
Azione 17 – Promuovere salute pubblica e miglioramenti ambientali attraverso il sostegno a cibi biologici prodotti localmente. Fare in modo che il 20% di tutte le strutture della città (come le scuole) servano cibi biologici e prodotti localmente entro sette anni.
Azione 18 – Fissare un Indice di Qualità dell’Aria ( Air Quality Index / AQI) per misurare il livello di inquinamento atmosferico e fissare l’obiettivo di riduzione del 10% in sette anni dei giorni classificati dallo AQI come “dannosi” o “rischiosi”.
Acqua
Azione 19 – Sviluppare politiche tese ad aumentare un adeguato accesso ad acqua potabile sicura, mirando ad un accessibilità generalizzata entro il 2015. per le città con consumi di acqua potabile superiori a 100 litri a testa al giorno, adottare e attuare politiche di riduzione dei consumi del 10% entro il 2015.
Azione 20 – Proteggere l’integrità ecologica delle principali fonti di acqua potabile urbane (falde, fiumi, laghi, zone umide, ed ecosistemi connessi).
Azione 21 – Adottare linee guida municipali per la gestione delle acque di deflusso e ridurre i volumi di quelle non depurate del 10% in sette anni, tramite l’uso estensivo delle acque riciclate e l’attuazione di un piano di bacino idrico che comprenda la partecipazione di tutte le comunità interessate e sia basato su saldi principi economici, sociali e ambientali.
Visione e Attuazione
Le 21 AZIONI che compongono gli Accordi Ambientali Urbani sono organizzate secondo tematiche omogenee. Sono dimostrabili primi passi verso la sostenibilità ambientale. Ma per raggiungere una sostenibilità di lungo termine le città dovranno progressivamente migliorare la propria efficienza entro tutte le aree tematiche.
L’attuazione degli Accordi richiederà un dialogo aperto, trasparente, partecipato fra governi, gruppi comunitari, gruppi economici, istituzioni accademiche, e altri soggetti importanti. La messa in pratica degli Accordi sarà di beneficio quando le decisioni saranno prese sulla base di un’attenta valutazione delle alternative disponibili, utilizzando i migliori strumenti scientifici a disposizione.
L’invito all’azione contenuto negli Accordi si tradurrà nella maggior parte dei casi in risparmi, a causa del minore consumo di risorse e miglioramento nella salute e benessere generale dei cittadini.
L’attuazione degli Accordi può aumentare il potere d’acquisto di una città nel promuovere o anche pretendere da parte dei venditori pratiche responsabili rispetto all’ambiente, al lavoro, ai diritti umani.
A partire da ora, sino alla Giornata Mondiale dell’Ambiente 2012, le città opereranno per mettere in pratica la maggior quantità possibile delle 21 Azioni. La capacità delle amministrazioni di approvare norme ambientali locali e attuare politiche varia notevolmente. Ma il successo degli Accordi verrà valutato sulla base delle azioni intraprese. Dunque, gli Accordi possono essere attuati attraverso programmi e attività, anche quando alle città mancano i poteri decisionali necessari per adottare alcune norme.
L’obiettivo è che le città decidano di intraprendere tre azioni ogni anno. Per valutare i progressi delle amministrazioni nell’attuazione degli Accordi, sarà attivato un Programma di Stelle Verdi per le Città. Alla fine dei sette anni una Città che ha attuato:
Da 19 a 21 Azioni sarà riconosciuta come Città ☻ ☻ ☻ ☻
Da 15 a 18 Azioni sarà riconosciuta come Città ☻ ☻ ☻
Da 12 a 17 Azioni sarà riconosciuta come Città ☻ ☻
Da 8 a 11 Azioni sarà riconosciuta come Città ☻
Nota: il documento originale UNEP è scaricabile anche (insieme ad altri testi connessi) dal sito Euractiv ; su Eddyburg una cronaca giornalistica delle giornate dei sindaci a San Francisco (f.b.)
Una vampata di violenza, per alcuni giorni, ha investito la banlieue parigina. In modo più delimitato, rispetto a due anni fa, quando si era rapidamente propagata intorno a Parigi e in altre città francesi. Per molte settimane. Questa volta, invece, si è concentrata a Villiers-le-Bel. A Nord della capitale. Contagiando solo la vicina Saint-Denis, teatro di battaglia nel 2005. Inoltre, gli incidenti sembrano essere finiti abbastanza in fretta. Tuttavia, due notti di violenze hanno provocato, tra le forze di polizia, oltre 120 feriti, alcuni gravi. Ovvero: più o meno quanti in tre settimane di scontri due anni fa. Secondo il governo francese, si tratta di delinquenza giovanile organizzata, che ha “sfruttato” un episodio tragico (la morte di due ragazzi in moto, in seguito allo scontro con un’auto della polizia) per scatenare la guerriglia.
Insomma: racaille. Teppaglia, feccia… La definizione usata da Sarkozy, all’epoca degli scontri di due anni fa. Quand’era ministro degli Interni. Tuttavia, se si trattasse “solo” di delinquenza comune, un sistema di polizia efficiente, come quello francese, un Presidente determinato, come Sarkozy, avrebbero contrastato il ripetersi di esplosioni violente, in tempi tanto ravvicinati, negli stessi luoghi. A Villiers-le-Ville, Saint Denis e nella banlieue parigina. Dove comportamenti violenti si ripetono con disarmante e straordinaria regolarità. Se ciò non è avvenuto, probabilmente, è perché questa violenza non nasce nel vuoto. Rischiando la banalizzazione sociologica di alcune letture sociologiche (o sedicenti tali) degli anni Settanta: questa violenza è “anche” figlia del contesto in cui esplode. Banlieues degradate, ad alta concentrazione etnica. Strade e piazze difficili da attraversare, per chi non vive nella zona. (E anche per chi ci vive).Tassi di disoccupazione giovanile elevati. Relazioni intergenerazionali difficili. Genitori che non riescono più a esercitare l’antica autorità sui figli. Un’architettura che denuncia “estraneità”. Dello Stato, delle istituzioni. Questi quartieri, queste città periferiche “producono” tipi sociali violenti e marginali. Un Paese, come la Francia, ostile alla sola idea di “comunitarismo”, intesa come modello di integrazione fondato sulla comune appartenenza religiosa, nazionale, etnica, oggi affronta una situazione peggiore. Alla periferia delle città e nelle città periferiche, emerge, infatti, un “comunitarismo” senza “comunità”. Favorito da “aggregati etnici” (non previsti) che hanno perduto i legami (e le capacità di controllo) di una comunità.
Se pensiamo a noi, è forte la tentazione di chiamarsi fuori. Non siamo la Francia. L’Italia è una terra di città piccole e medie. Con rare eccezioni. Un “Paese di compaesani”, come l’ha definito il sociologo Paolo Segatti. Che ancora non si è rassegnato al flusso, massiccio, degli “stranieri”. E vorrebbe lasciarli fuori. Alle porte della città. Come a Cittadella e in altri comuni veneti, dove, per scoraggiare il flusso dei poveracci, i sindaci hanno emesso un’ordinanza che vincola la concessione agli stranieri della residenza ad alcuni requisiti. Fra cui un reddito minimo intorno ai 500 euro mensili. (Se applicato ai residenti, produrrebbe l’espulsione di numerosi pensionati).
L’Italia non è la Francia. Ma si sta avviando lungo un cammino altrettanto rischioso. Perché si sta trasformando, in modo inconsapevole, in una periferia infinita. Che produce sradicamento, indebolisce il controllo sociale, non contrasta la diffusione di comportamenti violenti.
Nelle nostre metropoli, d’altronde, emergono, da tempo, lacerazioni visibili. A Milano. La “rivolta” del quartiere cinese. Il moltiplicarsi di episodi di ordinaria violenza, nelle periferie, che hanno indotto la sindaca Moratti a promuovere una marcia popolare, per rivendicare maggiore attenzione dal governo. (Come se, durante gli anni precedenti, quando essa stessa sedeva al governo, il problema non esistesse).
A Roma. Dove alcuni eventi drammatici (ultimo: la tragica aggressione di una donna, a opera di un rom) hanno fatto esplodere il malessere delle zone suburbane. Ulteriormente degradate a causa del flusso costante di nuovi immigrati dall’est europeo. Ammassati in baracche provvisorie.
A Napoli. Dove la lunga scia di violenza è, riduttivamente, ricondotta alla “camorra”. Mentre riassume i percorsi di “normale devianza”, che attraversano alcuni quartieri marginali. Come Scampia: raccontata, con rara efficacia, da Roberto Saviano insieme ad altri autori, in un libro antecedente al fortunatissimo “Gomorra” (“Napoli comincia a Scampia”, L’Ancora del Mediterraneo, 2005).
Ma segnali di decomposizione si avvertono anche – soprattutto - nell’Italia minore. Nella provincia “dove si vive bene”. Non è un caso che la “crescita della criminalità” sia avvertita soprattutto nelle regioni del Centro (62%; media nazionale 51%: indagine Demos per UniPolis, novembre 2007) e nei comuni medio-piccoli (56%). Indipendentemente dall’effettivo andamento del fenomeno (che le statistiche considerano in calo). Il fatto è che molti, troppi borghi, molte, troppe piccole città si stanno svuotando. Ridotte a grandi supermarket. Parchi giochi. Musei. Oppure, come abbiamo osservato qualche settimana fa, in “cittadelle universitarie”. Abitate da - anzi, affittate a - studenti. Mentre gli abitanti si sono trasferiti all’esterno. Creando periferie ricche. Ma pur sempre periferie. Aggregati senza centro. Con scarse relazioni. Cariche di edifici affollati. Oppure costellate da villette pregevoli e cascinali ristrutturati. Una umanità che perde l’abitudine alle relazioni; e il “controllo” sul territorio. Il Nord “padano” e “pedemontano”, da parte sua, questa strada l’ha già intrapresa da tempo. E’ divenuto una metropoli inconsapevole. Che incorpora una miriade di piccoli comuni. Perduti in un viluppo di strade, punteggiato di rotonde impossibili da attraversare a piedi; mentre chi passa in bici corre un rischio mortale. Anche perché, in Italia, il tasso di automobili è il più alto d’Europa: quasi 6 ogni 10 abitanti. La provincia tranquilla e quieta del Nord. Una galassia puntiforme. Una specie di Los Angeles involontaria. Dove maturano piccoli omicidi, inattesi e feroci. Dove la “comunità” ha perso ogni controllo sulla società e sulle persone. Perché si è decomposta. Né possono surrogarla pallide caricature, come le “ronde” padane. Riescono solamente ad accrescerne la nostalgia.
Difficile riconoscere il paesaggio intorno a noi. E’ cambiato troppo in troppo poco tempo. Edificato, impersonale e desocializzato. Dove, per rispondere al malessere che si respira, le persone si chiudono dentro casa. E gli amministratori erigono nuove mura, visibili e invisibili, intorno alle città. Ma anche dentro alle città.
Incapaci di “riconoscere” i problemi, ma anche i propri meriti. Preferendo negarli, per opportunismo. Pensiamo, ad esempio, alle città del Nordest. Le aree che, come dimostrano le statistiche della Caritas e del Cnel, garantiscono livelli di integrazione degli immigrati fra i più elevati in Italia. Ebbene, preferiscono negarlo. Si presentano per quel che “non” sono: inospitali. E rifiutano, anzitutto, di proporsi come un “buon modello” di accoglienza. Fondato sul lavoro, sull’offerta di servizi, espressa dalle associazioni del mondo economico e dal volontariato. Meglio immaginare il Nord Est come il Far West degli sceriffi. Pronti a spingere la racaille fuori dalle mura della “cittadella” assediata.
E vero, non siamo la Francia, dove le banlieues critiche si concentrano intorno ad alcune metropoli. Nell’Italia del nostro tempo, invece, la periferia dilaga ovunque. Come una metastasi. Alimentata da logiche immobiliari e immobiliariste; da mille paure. Che la politica si limita a inseguire e ad assecondare. La nostra banlieue infinita non ha un aspetto cupo. Piuttosto: “grigio”. Un reticolo di quartieri residenziali. Cresciuti, in modo disordinato, intorno a un “centro storico”, bello e inabitato. La nostra periferia infinita. Non trasmette identità. Non promuove relazioni. Non comunica regole. Non plasma uno spirito “estetico”, tanto meno “etico”. Al più: un individuo “mimetico”. E insicuro.