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ROMA - Servirà a famiglie e imprese e aiuterà l’economia, ma a quale prezzo per l’ambiente? Il "piano per l’edilizia" potrebbe stimolare lavori per 60 miliardi, secondo il Governo. Previsione prudente per il Cresme che riguarda l’adesione del 10 per cento dei proprietari degli oltre 9 milioni di edifici residenziali, mono o bifamiliari, concentrati soprattutto nel nord del Paese. Se solo questa parte dell’Italia delle villette sfrutterà l’occasione, gli effetti sull’ambiente e il sistema urbanistico del territorio sarebbero pesanti: l’aumento del volume delle abitazioni del 20%, permesso dal dl, equivarrebbe alla costruzione da zero di quasi due città e mezzo come Roma. Pari a un miliardo e mezzo di metri cubi di cemento in più.

È l’allarme lanciato da uno studio dei Verdi che accusa il piano-casa di «deregulation edilizia». Per Angelo Bonelli, ex capogruppo dei Verdi alla Camera, sarebbe «una svolta negativa senza precedenti che potrebbe portare al collasso del sistema ambientale». Sotto accusa: l’espansione urbanistica, l’incremento della produzione di cemento (oggi l’Italia è seconda in Europa) «insostenibile», il raddoppio delle cave esistenti e le emissioni inquinanti del settore che produce cemento triplicate.

Il Cresme ha simulato le modifiche su edifici che hanno una superficie media di 260 metri quadri: se un proprietario su dieci deciderà di ingrandire, con un costo di circa 1200 euro per metro quadro, la superficie abitabile aumenterà complessivamente di oltre 490 milioni di metri quadrati.

Per questo ampliamento, secondo le stime dei Verdi, serviranno 800 milioni di tonnellate di sabbia e ghiaia per fare il calcestruzzo, e altre cave a danno di boschi, montagne e aree agricole. Un esempio: le cave di inerti (sabbia, ghiaia o pietrisco) in Italia sono circa 5.725 e gli inerti da costruzione sono oltre il 60% della loro produzione. Per soddisfare la domanda di cemento - si legge nello studio - ne servirebbero circa 10mila.

Effetti pesanti anche sull’applicazione del protocollo di Kyoto: se nel totale di emissioni di CO2 il settore dell’edilizia contribuisce per l’8 per cento, in futuro potrebbe incidere per oltre il 15 per cento. E ancora: i processi di combustione per la produzione di cemento sono responsabili dell’emissione nell’atmosfera di circa 2.600 tonnellate l’anno di polveri sottili, con il provvedimento passerebbe a 8000 tonnellate l’anno.

Non basta: in controtendenza rispetto ad altri Paesi europei, come Germania, e Gran Bretagna e Olanda (che hanno leggi sul contenimento del consumo di suolo), dai noi aumenterà. Se oggi si distruggono 244mila ettari l’anno è previsto un aumento del 2%. Le stime escludono modifiche nei condomini (più di 2 milioni) e negli edifici non residenziali (oltre 11 milioni). Ma bastano per gli ambientalisti per parlare di un «atto di pirateria», che farà anche danni economici e sociali. Per Bonelli «non si può pensare di risolvere così la crisi: serve un piano nell’edilizia che metta al

ROMA - Stretta sulle sanzioni, certificazione giurata del progettista invece del permesso di costruire, meno burocrazia e tempi più stretti: ecco i punti chiave del piano per l’edilizia a cui sta lavorando il governo, la "legge quadro" che domani dovrebbe approdare al Consiglio dei ministri. Anche se è possibile che il via libera slitti di qualche giorno per mettere a punto i dettagli del pacchetto e sciogliere le riserve dell’alleato leghista. Ieri Bossi ha espresso ancora dubbi sul provvedimento per quanto riguarda il nodo immigrati e la tutela del territorio: «Vogliamo vedere bene cosa ha in mente Berlusconi», ha detto.

Ma la "rivoluzione" per sostenere l’edilizia va avanti, e si muove su due livelli. Mentre i tecnici del governo lavorano alla legge quadro, parallelamente, il tema è all’ordine del giorno anche alla conferenza Stato-Regioni: oggi alle Regioni sarà proposta una bozza di ddl simile a quella discussa da Berlusconi e Galan e approvata dalla giunta regionale del Veneto. Ogni Regione potrà decidere se farla sua.

Il consenso della Sardegna c’è, la Lombardia ha annunciato un intervento a breve. «È una bella idea che può mettere in moto l’indotto», ha chiarito Formigoni. L’ "Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per promuovere l’utilizzo di fonti di energia alternative e rinnovabili" prevede che le abitazioni private potranno essere ingrandite fino a un tetto del 20% del volume. I Comuni potranno scegliere di ridurre il "contributo di costruzione", previsto per l’ampliamento, del 20%. Se si tratta di prima casa invece lo "sconto" può arrivare al 60%. Prevista la possibilità di realizzare un ampliamento separato dal fabbricato, e fissata una scadenza (fine 2010) per presentare la richiesta di modifica. C’è la cosiddetta "rottamazione" per palazzi vecchi: gli edifici pre-1989, non soggetti a forme di tutela, possono essere abbattuti e ricostruiti con un aumento del volume del 30%, fino al 35% se si usano tecniche di bioedilizia. Se si costruisce su un’area diversa da «quella occupata dal fabbricato demolito - si legge nella bozza - dovrà essere gravata da un vincolo di inedificabilità o ceduta all’amministrazione comunale per essere adibita a verde pubblico o a servizi». Fissati paletti rispetto ai vincoli ambientali e paesaggistici, e il divieto di ampliare immobili abusivi.

Punta a semplificare le procedure e a tagliare i tempi la "legge quadro" del governo che dovrebbe modificare il testo unico dell’edilizia e il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Tra le novità: confermata l’abolizione del permesso di costruire, sostituita con una certificazione di conformità giurata del progettista e la creazione di una Camera di conciliazione presso i Comuni. Per evitare che le norme si trasformino in un condono sanzioni più severe per chi interviene sui beni vincolati. È allo studio anche il "ravvedimento operoso": per i casi meno gravi potrebbe essere immaginata l’estinzione per l’illecito e la possibilità che accertamento di conformità e quello di compatibilità ambientale estinguano i reati. Infine il piano vuole semplificare le procedure per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.

Piano casa? Quale piano casa? Questo non è un decreto che dà un’abitazione a chi non ce l’ha. È un decreto per rilanciare l’economia. Tant’è che si chiama così. Cominciamo col fare chiarezza». A Claudio Martini, presidente della Regione Toscana, le mistificazioni non piacciono. E dice chiaro e tondo che non ci sta a subire un aut aut sulle norme urbanistiche. Non ci sta allo scambio rilancio economico contro regole. «Lo dico subito, io quel piano non lo voglio attuare». È pronto a fare ricorso alla consulta, come aveva già fatto con l’ultimo condono edilizio. Legge e rilegge gli articoli dell’ultima bozza del provvedimento annunciato da Berlusconi, e non crede ai suoi occhi: deroga totale, su tutto il territorio. Leggi regionali azzerate con un tratto di penna.

Sarà difficile contrastare il decreto.

«Faccio un appello ai colleghi della Lega e a tutti i sindaci del Carroccio. Si è tanto parlato di federalismo, e poi su una materia concorrente come questa ci si chiede di accettare un atto d’imperio come questo? Quel testo è inaccettabile. Sostanzialmente abolisce tutti i vincoli su tutto il territorio nazionale, istituendo una nuova norma generale a cui in un secondo momento le Regioni dovrebbero adeguarsi con norme regionali. Ebbene, al premier dico: io la legge regionale ce l’ho già. Ma se lui procede per decreto, vuol dire che quando ha annunciato che le Regioni in disaccordo erano libere di non adottare il provvedimento ha mentito».

Il rilancio dell’economia è comunque un punto forte.

«Bene, allora parliamo di quello. Io sono disposto a discutere. Se davvero dobbiamo aiutare l’edilizia, se davvero ci sono norme farraginose, se davvero c’è una burocrazia troppo pesante, parliamone. Possiamo razionalizzare il sistema, renderlo più efficiente. Faccio presente che in Toscana la Dia (dichiarazione di inizio attività) già c’è. Comunque su questo sono d’accordo. Ma il risultato non può essere l’eliminazione delle regole, lo smantellamento dei vincoli. Anche i cittadini devono saperlo: senza regole alla fine ci si rimette. Se uno non ha vincoli, vuol dire che non ce li ha neanche il vicino di casa. Chiunque potrà costruire un muro davanti alla finestra di un altro. Con l’anarchia non si risolvono i problemi, si aggravano».

Berlusconi si è impegnato a un confronto con voi.

«Sì, ma poi leggo che incontrerà le Regioni mercoledì e dopo qualche ora varerà il decreto. Se così fosse, è una presa in giro. Che confronto sarebbe? Per questo mi appello a chi crede nel federalismo. Non si possono varare per decreto norme tanto dirompenti, che fanno tabula rasa di legislazioni locali. Sa cosa si prevede per i Comuni?»

Cosa?

«I Comuni dovranno istituire un albo dove registrano le modifiche apportate. Entro il 31 dicembre 2011 dovranno inserire quelle modifiche nello strumento urbanistico. Significa recepire passivamente tutto quello che è stato deciso da altri, e per di più dovranno anche assicurare gli standard urbanistici, magari costruire parcheggi e altri servizi dove serviranno. Ma come fanno i sindaci della Lega ad accettare questo?».

Lei cosa propone?

«Io chiedo che ci sia un vero confronto con gli enti locali. Accetto di discutere sulla semplificazione delle norme. Infine chiedo che ci sia un piano casa vero, che assicuri gli alloggi ai più deboli e costituisca un’opportunità per il mondo delle costruzioni. I dati del Sunia sugli sfratti dimostrano che c’è bisogno di case, non di stanze o di verandine».

Il decreto facilita anche il cambio di destinazione d’uso.

«Sì, e per noi in Toscana vuol dire distruggere anni di lavoro con le associazioni agricole, con cui avevamo concordato regole condivise per tutelare il territorio».

Piano casa: ecco come funzionerà

Palazzo Balbi batte Palazzo Chigi. La legge nazionale per rilanciare l’edilizia approderà venerdì al Consiglio dei ministri, ma già ieri mattina il governo regionale del Veneto ha licenziato un dettagliato provvedimento che consente senza troppe burocrazie l’ampliamento degli edifici. Galan ha deciso di non attendere la normativa nazionale: «Lo Stato darà direttive che la nostra legge regionale rispetta perché l’abbiamo concordata con Berlusconi», assicura il governatore. La legge regionale consentirà ampliamenti di volumetrie in deroga agli strumenti urbanistici fino al 35% se si ricorrerà a «tecniche di bioedilizia» o si installeranno sistemi per l’utilizzo di energie rinnovabili. Nessun ampliamento è permesso in edifici storici o abusivi.

Leggi che puntano anche a rilanciare un settore pesantemente in crisi come quello dell’edilizia in un momento in cui la disoccupazione aumenta a ritmi decisi: + 46% a febbraio. Unica consolazione di ieri in questo panorama plumbeo, la ripresa delle Borse trascinate da Citigroup. Il Banco Popolare è la prima banca italiana che chiede l’aiuto di Stato.

Legge veneta per l’edilizia,

Galan batte Roma sul tempo

di Alda Vanzan

Palazzo Balbi batte Palazzo Chigi. Prima ancora che il Consiglio dei ministri approvi il piano casa (lo farà venerdì), la giunta regionale del Veneto licenzia il disegno di legge che, dai paesi di montagna del bellunese fino alle periferie di Venezia, consentirà aumenti di cubature dei fabbricati, demolizioni e ricostruzioni di case e capannoni con più di vent’anni, snellimenti delle procedure burocratiche. Avviene tutto in mattinata e nell’arco di un paio d’ore: visto che il testo di legge regionale tutto sommato era pronto, anziché presentarlo ai colleghi di giunta nella consueta seduta del martedì e poi prendersi una settimana di pausa, il governatore Giancarlo Galan decide di accelerare. In fin dei conti, spiega poi Galan ai cronisti, questo è un provvedimento «concordato» proprio con il premier: «Con il governo, meglio, con il presidente del Consiglio - perché le cose continuo a farle con lui o con Letta - abbiamo pensato a qualcosa per rilanciare il settore edilizio e che vada incontro ai cittadini». Il fatto che Palazzo Chigi affronti la questione dopodomani è un dettaglio: «Lo Stato darà qualche direttiva che da parte nostra sarà assolutamente rispettata perché l’abbiamo studiata assieme», dice Galan. Di lì a poche ore, da Roma giungerà la conferma dello stesso premier che il piano casa sarà varato proprio venerdì. Con una assicurazione di Berlusconi: «Nessuna cementificazione, sarà un piano di buon senso».

Giancarlo Galan, che al fianco ha l’assessore all’Urbanistica Renzo Marangon, sintetizza il testo di legge. «Primo: ci sarà una assoluta abolizione della burocrazia». Per l’aumento delle cubature del 20%, per intenderci, basterà una Dia, la Dichiarazione di inizio attività. Ma chi potrà usufruirne? «È chiaro che la legge funzionerà di più per le abitazioni singole, con i condomini sarà più difficile. Ma nel Veneto ci sono più case e casette che non palazzoni». Aggiunge: «È anche in incentivo per l’economia, così la gente tira fuori i soldi da sotto il materasso». Mattoni e nuove tecnologie: «Butti giù vecchi capannoni e li ricostruisci, ampliandoli, con le nuove tecniche». L’ambiente, sottolinea il governatore, sarà salvaguardato: tutti i vincoli e le tutele esistenti non si toccano. Oneri finanziari a carico della Regione: zero. E a chi già contesta la diminuzione degli oneri di urbanizzazioni a favore dei Comuni, Galan risponde con una battuta: «Sì, i Comuni prenderanno minori contributi, ma non avrebbero preso niente senza questa legge, perché se non costruisci non hai gli oneri di urbanizzazione». E comunque, aggiunge Marangon, questa è «una risposta, la via veneta, alla crisi economica».

Approvata all’unanimità dalla giunta veneta, ora il disegno di legge passa all’esame del consiglio regionale. L’auspicio di Galan è che venga licenziato in tempi stretti: «Tra l’altro stavolta ho notato meno fanatismo ideologico, il sindaco di Vicenza Achille Variati per esempio ha preso una posizione intelligente». E le perplessità della Lega? «In giunta la Lega ha votato a favore. C'è questa preoccupazione per cui sarebbero case per immigrati: ma che c'entra? Se io dò il permesso per costruire due stanze in più che c'entrano gli immigrati? Forse non avevano ancora letto il testo». Marangon spera in una approvazione in aula prima dell’estate: «Anche perché altrimenti perderebbe senso, questa norma ha due anni di validità, fino al 2010». E il governatore confida anche un altro progetto: «Fare in modo che le 40mila persone che pagano un affitto per abitare in una casa dell'Ater possano diventare con una firma proprietari dell'abitazione. E su questo le banche devono fare la loro parte».

Dagli alleati di governo (regionale) plausi all’iniziativa: «Mi auguro che il Veneto possa ancora una volta fungere da apripista con questo interessante, intelligente, innovativo progetto di legge», dice Antonio De Poli (Udc). Leonardo Padrin, Forza Italia, ha già inserito il disegno di legge con l’intero articolato nel suo sito Internet. Ma Franco Frigo, consigliere regionale del Pd, è di tutt’altro avviso: «Tanto fumo e poco arrosto».

Sono 250mila le case abbandonate

di Adriano Favaro

C’è anche un record, poco noto, nel settore edilizio a Nordest, quello delle case disabitate e inutilizzate: quasi 250 mila. Precisi precisi i numeri dicono 200 mila tra Veneto e Trentino Alto Adige e altre 41 mila in Friuli Venezia Giulia. Un calcolo-stima fatto dal Cescat, il Centro studi casa ambiente e territorio di Assoedilizia. Che fornisce anche una somma complessiva. «In tutto il paese - spiegano i ricercatori Cescat - ci sono due milioni di edifici abbandonati: case di montagna e di campagna, casolari, casupole, baite, ville rustiche, antiche magioni, casali, rocche e cascinali». Il record del Nordest viene dal fatto che esistono quasi 250 mila edifici disabitati per una popolazione di poco superiore ai sei milioni e mezzo.

La Lombardia registra la stessa quantità di edifici disabitati con una popolazione di circa dieci milioni di abitanti. Di fronte a queste cifre Assoedilizia, associazione legata a Confindustria aveva deciso - alcuni mesi prima della recente proposta del governo - di dare una scossa lanciando un’idea: nell’attuale congiuntura economica molti cominciano a guardare con interesse crescente alla ricerca di nuovi affari. E, contemporaneamente, i Comuni - attenti ai bilanci - potrebbero favorire la forte spinta al "riuso". «Le amministrazioni comunali - spiegava l’avvocato Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia - dovrebbero istituire incentivi, non solo sul piano delle agevolazioni strutturali, ma anche in termine di premi volumetrici, per coloro che promuovono operazioni di recupero del patrimonio edilizio abbandonato». Quasi come le idee di Berlusconi.

Procedimento facile? «Tutto dipenderà anche dal comportamento dei Comuni - spiegava Riccardo De Gobbi, il responsabile della direzione Agroambiente e servizi per l'Agricoltura del Veneto - In questo periodo stanno redigendo i "Pat" o "Pati", in pratica quello che una volta erano i piani regolatori. Alcune delle richieste per la salvaguardia delle abitazioni rurali abbandonate potrebbero essere accolte». De Gobbi segue questi temi da anni e ha spiegato come la regione del Veneto sia stata la prima (e forse l’unica) regione in Italia a rispondere ad una legge nazionale del 2003 che aveva lo scopo di salvaguardare e valorizzare le architetture rurali, cioè gli insediamenti agricoli, gli edifici o fabbricati rurali realizzati tra il XIII e il XIX secolo; almeno 80 mila nel Veneto.

Resta da fare i conti anche con un altro dato: nelle ultime rilevazioni il Catasto nazionale ha censito 31,5 milioni di abitazioni. Mentre l’Istat, dalle sue indagini, ne rileva 28,5 milioni. Un patrimonio esistente ma "scomparso" - gli immobili in caso di permanenza dell'abbandono dovrebbero essere stralciati dal catasto - che diventa ancora più significativo se a questi numeri si aggiungono (ma per il Nord del Paese vale poco) gli immobili abusivi, comunque stimati attorno al milione e mezzo.

IL CONTENUTO DELLA LEGGE VENETA

LE DEROGHE - La legge regionale stabilisce che quando l’intervento edilizio sia volto a «preservare, mantenere, ricostituire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente» oppure sia diretto a «favorire l’utilizzo di energia rinnovabile», è consentito l'ampliamento degli edifici esistenti nei limiti del 20% del volume se destinati ad uso residenziale e del 20% della superficie coperta se adibiti ad uso diverso, e questo anche «in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali comunali provinciali e regionali».

AMPLIAMENTI - L’ampliamento degli edifici «deve essere realizzato in contiguità rispetto al fabbricato esistente» ma se ciò risulti materialmente o giuridicamente impossibile «potrà essere autorizzata la costruzione di un corpo edilizio separato, di carattere accessorio e pertinenziale».

CONDOMINI - In caso di edifici composti da più unità immobiliari l'ampliamento potrà essere realizzato anche separatamente per ciascuna di esse, compatibilmente con le leggi che disciplinano il condominio negli edifici.

DEMOLIZIONI - Per realizzare gli interventi, sono consentiti la demolizione e l’integrale ricostruzione degli edifici con aumento del 30% dei volumi per gli immobili residenziali e del 30% della superficie coperta per gli immobili a uso diverso. La percentuale di aumento puà arrivare fino al 35% se si utilizzano «le tecniche della bioedilizia» o le energie rinnovabili.

MIGRAZIONI - La ricostruzione dell’edificio demolito può anche avvenire su area diversa, purché l’area dove si ricostruiscono i volumi demoliti sia destinata a questo scopo, aumenti di volume compresi, dagli strumenti urbanistici e territoriali. Inoltre, l’area originariamente occupata dal fabbricato demolito «dovrà essere gravata da un vincolo di inedificabilità».

FOTOVOLTAICO - Per incentivare l’installazione di impianti fotovoltaici fino a 6 kilowatt, le pensiline o le tettoie realizzate su abitazioni già esistenti al momento di entrata in vigore della legge non siano calcolate nella cubatura dell’immobile. Inoltre, tali tettoie o pensiline finalizzate al supporto di impianti fotovoltaici «sono realizzabili anche in zona agricola» con una semplice Dia (Dichiarazione d’inizio attività). Dovranno però rispettare caratteristiche e dimensioni che verranno stabilite dalla Giunta regionale con successivo decreto.

SCONTI - Per questi interventi, il contributo di costruzione, ove dovuto, è commisurato al solo ampliamento ridotto del 20%. La riduzione arriva al 60% nell’ipotesi di edificio o unità immobiliari destinati a prima abitazione del proprietario o dell’avente titolo.

LIMITAZIONI - I comuni dovranno istituire ed aggiornare l'elenco degli ampliamenti autorizzati. Gli interventi «sono subordinati al titolo edilizio previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380». Gli edifici per i quali si chiede l’ampliamento dovranno essere già stati ultimati entro il 2008. Gli interventi sono subordinati all'esistenza delle opere di urbanizzazione primaria e al loro adeguamento al maggiore carico derivante dagli ampliamenti. Non si può intervenire su immobili aventi valore culturale o paesaggistico. E gli interventi su immobili commerciali non possono condurre a «derogare alle norme in materia di programmazione di grandi strutture di vendita».

ABUSIVI - Non può essere riconosciuto alcun aumento di volume o di superficie ai fabbricati anche parzialmente abusivi soggetti all'obbligo della demolizione, così come agli edifici che sorgono su aree demaniali o vincolate ad uso pubblico o dichiarate inedificabili.

ESCLUSIONI - I comuni hanno 60 giorni di tempo dall’entrata in vigore della legge per escludere l'applicabilità delle norme a specifici immobili o zone del proprio territorio, sulla base di specifiche valutazioni o ragioni di carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico, ambientale. I comuni possono pure stabilire limiti differenziati di ampliamento in relazione alle caratteristiche proprie delle

Ed ecco il testo del disegno di legge, in eddyburg

l'Assessore alle Politiche del Territorio, Angela Barbanente, ci ha inviato la nota che si seguito si riporta:

L’assessore

“Davvero gli Italiani sono così ingenui da ritenere efficace il piano straordinario per l'edilizia annunciato da Berlusconi? A nessuno sorge il dubbio che si tratti di un modo per distrarre l’opinione pubblica dai problemi quotidiani di una crisi gravissima che attanaglia persone e imprese e per coprire con sensazionali notizie spazi mediatici che potrebbero essere occupati dalla cruda realtà dei fatti? Una realtà che, come sappiamo, consiste in molteplici scippi a danno delle regioni del Mezzogiorno e, per quanto più direttamente ci interessa, in un’ostinata predilezione per inutili grandi opere, nella riduzione dei già esigui fondi destinati a rispondere ai bisogni abitativi delle fasce più deboli e a un’insopportabile perdita di tempo in tentativi di accentrare competenze regionali e risorse già ripartite. Per distogliere l’attenzione da tutto questo, basta annunciare provvedimenti sensazionali!

“E no, caro Berlusconi, noi non cadiamo nella trappola. Siamo molto attente e in grado di valutare i provvedimenti in base ai contenuti.

“Intanto per il Piano casa non c’è certo da esultare. Esso è ancora largamente una scatola vuota. Ci fa certo piacere che il governo abbia riconosciuto le nostre ragioni e si possa, con molti mesi di ritardo, far partire i Piani regionali promossi dal Governo Prodi immediatamente con 200 milioni e poi anche con i restanti 350. Non si può però dimenticare che ci sono voluti mesi di trattative e una raffica di ricorsi alla Corte costituzionale per conseguire questo risultato. Ma tant’è. La grande macchina comunicativa del governo Berlusconi è capace di far passare prima una scatola vuota e poi il recupero tardivo di programmi regionali per “iniziativa importantissima” del Governo.

“Quanto alle altre parti dell’annunciata "rivoluzione", l’idea appare di una rozzezza incredibile e certo non innovativa. Si tratta, infatti, del ritorno alla stagione delle deroghe indifferenziate, tristemente nota in Puglia per la sua scarsa trasparenza e per aver reso peggiore la qualità dell’ambiente, del paesaggio e anche della vita delle persone senza aver creato sviluppo. Su questo mi piacerebbe conoscere l’opinione di qualche Consigliere regionale di opposizione.

“Riguardo poi alla sostituzione del permesso di costruire con una perizia giurata di conformità resa dal progettista, sa Berlusconi che già oggi per molte opere è prevista la denuncia di inizio attività? E sa che le grandi speranze di semplificazione e snellimento riposte nella modifica della disciplina di tale procedimento e nell’istituto del silenzio assenso varati nel 2005, quando egli era presidente del Consiglio, sono state profondamente deluse? Ne conosce i problemi e le incertezze interpretative? E chi oggi esulta per l’innovazione annunciata si rende conto che la semplificazione viene così posta a carico del privato che si assume un onere istruttorio assai gravoso e rischioso in un paese caratterizzato da norme complicate e farraginose?

“Su questo abbiamo le idee chiare: riteniamo dannose le politiche fondate solo su modifiche procedimentali e provvedimenti derogatori. Per questo in Puglia abbiamo operato e continueremo a operare in modo diverso: con una politica per la casa attiva, con direttive e regole chiare, con incentivi mirati a rispondere ai bisogni sociali e a migliorare la qualità urbana come quelli previsti dai Pirp o dalle norme per la rigenerazione urbana, per l’abitare sostenibile e per aumentare l’offerta di edilizia residenziale sociale.”

Il governo Berlusconi si accinge a varare un provvedimento che sconvolge tutte le procedure edilizie. Sostiene di volerle snellire, agevolando la ripresa economica. Secondo le associazioni di tutela. questa misura sarebbe un disastro per il paesaggio e per l'assetto delle città. La Repubblica sostiene un appello promosso dagli architetti Gae Aulenti, Massimiliano Fuksas e Vittorio Gregotti al quale hanno già aderito gli urbanisti Pierluigi Cervellati, Vezio De Lucia, Italo Insolera ed Edoardo Salzano.

" Le licenze facili e i permessi edilizi fai da te decretano la fine delle nostre malconce istituzioni. Il territorio, la città e l’architettura non dipendono da un’anarchia progettuale che non rispetta il contesto, al contrario dipendono dalla civiltà e dalle leggi della comunità. La proposta di liberalizzazione dell’edilizia, annunciata dal presidente Berlusconi, rischierebbe di compromettere in maniera definitiva il territorio. Ecco perché c’è bisogno di un sussulto civile delle coscienze di questo paese. ".

L’appello può essere firmato sul sito di Repubblica.it, precisamente qui

La legge prevede l'abolizione della concessione edilizia da parte dei Comuni, sostituita dalla dichiarazione di un tecnico privato: per conto di chi costruisce, il professionista certificherebbe la conformità del nuovo edificio alle norme urbanistiche. In più, stando alle anticipazioni, si consentirebbe di aumentare il volume di un edificio nella misura del 20 per cento, se si tratta di un edificio residenziale, del 30 se commerciale. Sarà consentito demolire e ricostruire tutti gli edifici sorti entro il 1989 che non abbiano vincoli di tutela incrementando il volume del 30 per cento. Alcune Regioni, come la Sardegna e il Veneto, hanno già aderito e il governatore Giancarlo Galan porterà già oggi all'approvazione della giunta un provvedimento simile. Da parte di molte altre Regioni vengono invece avanzati dubbi quando non forte opposizione.

In 5 anni già dati permessi per 94 milioni di metri cubi. Negli anni Ottanta si costruivano 10 milioni di metri cubi di capannoni, saliti fino a 38 milioni nel 2002

MILANO — Tirar su l'equivalente d'una palazzina di tre piani alta dieci metri, larga 10 e lunga 1.800 chilometri può davvero rilanciare l'Italia «nel pieno rispetto dell'ambiente », come dice Claudio Scajola? In un paese dove solo lo 0,97% degli abusi «non sanabili» è stato demolito? Auguri. Tanto più che una regione simbolo qual è il Veneto, stando a uno studio universitario, ha già oggi tante abitazioni e cantieri aperti da soddisfare la domanda di case, onda immigratoria compresa, fino al 2022. Se poi dovesse calare l'immigrazione, fino al 2034. Quando l'oggi giovanissimo Pato sarà già in marcia verso la cinquantina.

Prendiamo la tabella dei metri quadri a disposizione oggi degli europei. Ogni italiano ha in questo momento 36,3 metri quadri di casa. Cioè quasi il doppio di un ceco o di un ungherese, più o meno quanto un francese o uno spagnolo (che vivono in territori enormemente più vasti), un po' più di un greco o di un belga. Davanti a noi stanno più comodi i tedeschi (41,3 metri quadrati a testa), gli svedesi (43,6) gli olandesi (48,3), gli austriaci (50,4), i danesi (53) e gli inarrivabili abitanti del Lussemburgo, uno staterello urbanizzato che svetta con 62,7 metri pro capite, ma per la particolarità e dimensione non andrebbe manco messo nel mazzo.

Si dirà: «Visto? Siamo nella media». Vero. Tutti gli europei che hanno case più grandi, però, hanno due caratteristiche. O godono di spazi molto maggiori dei nostri, come gli austriaci che hanno il doppio di territorio pro capite di noi o gli svedesi che ne hanno quasi il decuplo. Oppure, a differenza di noi che abbiamo il 33% della superficie montagnosa e forestale, vivono in territori molto più pianeggianti, quali i tedeschi, gli olandesi o i danesi, il cui cucuzzolo più alto, il Moellehoi, svetta a 170 metri e 86 centimetri sul livello del mare.

Per capire quanto pesino queste differenze basta rileggere gli atti di un seminario di qualche anno fa promosso tra gli altri dalla allora presidente provinciale leghista Manuela Dal Lago sul consumo del suolo in una delle province forti dell'Italia, Vicenza. Seminario dal quale emerse che l'uomo, in tutta la sua storia, aveva occupato dall'età della pietra ai primi anni Cinquanta 8.674 ettari. Per poi occuparne, nell'ultimo mezzo secolo, molto più del doppio: 19.463.

Una colata di cemento che ha stravolto la campagna descritta da Goffredo Parise e Luigi Meneghello fino al punto che il calcolo della «impronta ecologica» (un indice che attraverso sistemi complessi misura il livello dei nostri consumi) ogni vicentino si ritrova oggi a disporre di poco più di tremila metri quadri di territorio, ma ne consuma per 39.000. Una scelta obbligata per uscire da secoli di fame, miseria, emigrazione? In parte, se è vero che nella seconda metà del Novecento l'aumento della popolazione non ha superato il 32% e la superficie urbanizzata è aumentata dieci volte di più: 324%.

Un'accelerazione spettacolare, ma accompagnata da contraccolpi sul paesaggio, sull'inquinamento, sulla viabilità. E addirittura accentuata nell'ultimo decennio del Novecento con un aumento della popolazione del 3% (52 mila abitanti in più dei quali 37 mila immigrati) e un'impennata dell'edilizia abitativa del 13%. Per non dire della parallela impennata industriale che, seminando dubbi perfino fra i più eccitati esaltatori del mitico Nordest, portò a un dato paradossale: ogni neonato vicentino arrivato nel decennio si ritrovava in dote un blocco di 3.718 metri cubi di calcestruzzo. Il tutto distribuito non uniformemente, ma quasi sempre in pianura. Esattamente come nel resto del Veneto dove, tolti quelli di montagna e larga parte di quelli collinari, i 444 comuni adagiati nell'ormai ex campagna hanno quattro o cinque aree industriali ciascuno se non, in certi casi, otto o nove.

Il prezzo? Elevatissimo, rispondono gli esperti: ogni miliardo di euro di crescita reale in più sarebbe costato un consumo di mille ettari di campagna. Il che significherebbe, appunto, che se avesse ragione il ministro Scajola a sostenere che il «piano casa» può mettere in moto 60 miliardi di euro, questo porterebbe a occupare come minimo 60 mila ettari di territorio con l'equivalente in cemento d'un mostro come quello calcolato all'inizio.

Ne vale la pena? Mah... Una ricerca di Tiziano Tempesta, ordinario del Dipartimento Territorio dell'Università di Padova, lascia qualche perplessità. Almeno nel Veneto. E non solo sul piano dell'ambiente, del paesaggio, delle margherite e delle violette. Spiega il professore che non solo una nuova colata di cemento rischia di dare il colpo di grazia a una pianura dove negli anni Ottanta si costruivano mediamente 10 milioni di metri cubi di capannoni l'anno saliti via via fino a una mostruosa quota di 38 milioni nel 2002, tirati su spesso solo per approfittare della Tremonti Bis e oggi malinconicamente vuoti. Ma che la case a disposizione sono già più che abbondanti.

Se è vero che lo standard di riferimento per ogni programmazione di questi anni è stato di 120 metri cubi per abitante (cioè 40 metri quadri: quattro più dell'attuale media nazionale), «tra 2001 e 2006 sono state rilasciate concessioni edilizie per nuove abitazioni o ampliamenti per un volume pari a 94,6 milioni di metri cubi» contro un aumento della popolazione intorno all'1% l'anno. Risultato: sono già state costruite in questi anni «abitazioni sufficienti a dare alloggio a circa 788.000 persone». Il triplo delle 243.000 in più (in buona parte straniere) registrate. Morale: se anche proseguissero (difficile, di questi tempi) gli «elevatissimi tassi d'immigrazione degli ultimi anni, le concessioni edilizie» già rilasciate saranno «sufficienti a soddisfare la domanda di case per i prossimi 13 anni». Con un tasso immigratorio ridotto a quello (che già era alto) degli anni Novanta, basterebbero per altri 25. Fino, appunto, al lontano 2034. Non basta. Nello studio di Tempesta si sottolinea una contraddizione che farà drizzare le orecchie a diversi: negli ultimi anni di risacca segnati da un calo del manifatturiero del 5,6%, «uno dei motori dell'immigrazione è stato il boom edilizio: il 65% dei nuovi posti di lavoro creati nel Veneto dal 2001 al 2006 ha riguardato il settore delle costruzioni». Non basta ancora: «Analizzando i dati Istat sul rilascio di concessioni edilizie e sul valore aggiunto del settore costruzioni, si può stimare che nel Veneto, per aumentare dell'1% il prodotto interno lordo, sia necessario realizzare ogni anno non meno di 6,5 milioni di metri cubi di abitazioni, pari a una capacità insediativa aggiuntiva di circa 55.000 abitanti». Irreale, secondo i demografi. Tanto più se qualcuno puntasse a 55 mila neonati di «pura razza Piave».

E allora? Allora «non sembra plausibile che, in una situazione di crisi del credito e di eccesso di offerta di abitazioni » la faccenda possa tradursi davvero in un affare.

Se poi ci mettiamo anche le ferite che rischiano di essere inferte al patrimonio artistico e monumentale che è il tesoro dell'Italia...

Palazzo Chigi ha diffuso, inviandola ufficialmente a Regioni ed enti locali, un’irresponsabile bozza di decreto legge su sedicenti "Misure urgenti per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili".

Nulla ha dunque insegnato al nostro governo la "bolla edilizia" (housing bubble) che ha duramente colpito l’economia americana l’anno scorso. Secondo l’analisi di George Soros nel suo ultimo libro (The New Paradigm for Financial Markets: The Credit Crisis of 2008 and What It Means), le aspettative artificialmente create da un mercato immobiliare gonfiato ad arte hanno prodotto, fra 2001 e 2005, una crescita incontrollata degli investimenti immobiliari, e dunque dei relativi meccanismi di finanziamento (a cominciare dai mutui), sul presupposto che il valore degli immobili possa crescere indefinitamente, appoggiandosi a finanziamenti e prestiti sempre più alti, per immobili sempre più cari. Il solo fatto di concedere sempre più mutui, a condizioni facilitate, fece crescere la domanda immobiliare, anzi per alcuni anni parve convalidare le previsioni più ottimistiche, innescando un perverso inseguimento fra eccesso di domanda (e di debito) ed eccesso di offerta. Bastarono pochi anni, e l’eccesso degli investimenti immobiliari e del relativo indebitamento, oltre che distrarre il risparmio da investimenti più produttivi, finì con l’esser tanto alto da trascinare l’intero sistema nella rovina: la terribile housing bubble con conseguente bancarotta, appunto, di cui abbiamo letto su ogni giornale, evidentemente invano.

L’Italia, si sa, è il Paese europeo col più basso tasso di natalità. Ma è al tempo stesso il Paese col più alto consumo di territorio: per dare solo un esempio particolarmente raccapricciante, la Liguria ha consumato negli ultimi vent’anni il 45% della propria superficie libera da costruzioni, inondando il paesaggio di cemento (la media italiana è un già pessimo 17%). Basta mettere insieme questi due dati (bassa natalità, altissimo consumo del suolo), che contrastano drasticamente con l’esperienza Usa (un Paese in continua espansione demografica e con ampie aree a bassa densità abitativa), per comprendere come la "bolla immobiliare" nostrana, se gli investimenti non vengono dirottati altrove, sia destinata a esplodere con ben maggior violenza. La bozza ora emanata da Palazzo Chigi parte al contrario dall’ipotesi, quando meno azzardata, che per rilanciare l’economia nulla di meglio vi sia che scatenare la cementificazione del Paese. Allo scopo, s’intende, «di sostenere la domanda generale interna di beni e servizi, nell’attuale fase di congiuntura globale» (art. 1 della bozza). L’arcaica superstizione secondo cui l’unico investimento sicuro è quello del "mattone", comprensibile come retaggio di una società preindustriale, viene dunque adottata dal governo come linea vincente per salvare l’economia del Paese.

L’intento di fornire al "partito del cemento" una piena licenza di uccidere non potrebbe esser più chiaro. Si possono ampliare del 20% tutti gli edifici ultimati entro il 2008: la percentuale si calcola sul volume per le unità residenziali, sulla superficie coperta per ogni altra (art. 2, c. 2). Se poi il 20% non basta, niente paura: si può arrivare comodamente al 35% (del volume o della superficie), purché si abbatta integralmente un edificio, ricostruendolo più in grande. Queste ed altre espansioni edilizie saranno fatte, assicura la bozza, «in deroga alle disposizioni legislative, agli strumenti urbanistici vigenti o adottati e ai regolamenti edilizi» (art. 2 c. 1); persino l’altezza della nuova fabbrica può essere modificata, portandola fino a «quattro metri oltre l’altezza massima prevista dagli strumenti urbanistici vigenti». Per tutti questi interventi basta una d.i.a. (dichiarazione inizio attività), senza tanti permessi: il risanamento dell’economia non può aspettare. E se per caso si trattasse di edifici storici? Facile: basta far domanda alla competente Soprintendenza, e se per caso non risponde entro 30 giorni vale il principio del silenzio-assenso (art. 5, c. 3 e 5). Il Codice dei Beni Culturali viene in tal modo non ignorato, ma consapevolmente calpestato. La certezza del diritto cede il passo a una feroce delegificazione.

Impallidiscono, al confronto, i condoni edilizi ex post, piombati a proteggere e incoraggiare la cementificazione dell’Italia coi governi Craxi (1985) e Berlusconi (1994, 2003, 2004). La foglia di fico della crisi economica non nasconde l’essenziale: questa bozza di legge è un condono ex ante, anzi non solo legittima e depenalizza, ma incoraggia ciò che fino ad oggi è reato, consegnando città e paesaggio dell’intero Paese al partito del cemento, al saccheggio di speculatori senza scrupoli, devastando senza rimedio borghi e campagne, persino lo skyline delle nostre città. Se, come è da sperare, questa bozza null’altro è che un ballon d’essai, sarà molto interessante vedere quali saranno le reazioni delle istituzioni. Che cosa farà il Ministero dei Beni Culturali, che in passato seppe far cadere le proposte di silenzio-assenso presentate dai ministri Baccini (2005) e Nicolais (2006), di fronte a questa norma assai più distruttiva? Che cosa diranno Regioni ed enti locali di fronte a tanta selvaggia deregulation? Qualcuno si ricorderà dell’art. 9 della Costituzione, che impone alla Repubblica, in via prioritaria rispetto ad ogni altro interesse anche economico, «la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione»?

Lo stuolo di portavoce del governo, nel rosario quotidiano dei telegiornali, spende spesso e volentieri la definizione "sinistra del no" (molto trendy anche su svariati quotidiani). Nel mazzo sfiorito di questi "no" seriali, che sarebbero la prova provata della sterilità intellettuale dell’opposizione, sono finite anche le dure critiche al cosiddetto "piano casa", che a una parte consistente dell’opinione pubblica appare come la deregulation della già sregolatissima cultura edilizia di uno dei Paesi più (mal) cementificati del mondo.

Come altre formule "pop" della destra di governo, lo slogan "sinistra del no" è semplice e funzionale: attribuisce all’opposizione una sorta di malumore preconcetto; e al governo un’alacre attivismo. Peso morto da una parte, motore virtuoso dall’altra. Il clichè rientra nel "normale" fastidio che questa maggioranza coltiva nei confronti dell’opposizione e delle sue prerogative. Ma c’è, specie in un caso come questo, strutturale per il futuro di tutti, un’aggravante sostanziale. L’aggravante è questa: che il merito delle questioni scompare. Si fissano (o si rifissano) le parti in commedia, quella dell’operoso Berlusconi e quella dei suoi neghittosi osteggiatori, e si evita accuratamente di parlare delle scelte concrete, delle loro conseguenze, dei pro e dei contro.

Un "no", isolato dal suo contesto, non ha senso. Ogni "no" (esattamente come ogni "sì") può essere giusto o sbagliato, motivato o pretestuoso, sciocco o intelligente, solo in misura della proposta o dell’evento che lo ha suscitato. Dire "sinistra del no" equivale a decontestualizzare ogni idea, ogni parola, nascondendola dietro un siparietto propagandistico uguale e contrario a quello assegnato al premier, ormai da quindici anni (tre piani quinquennali) sulla scena come fattivo e generoso artefice della rinascita nazionale.

La scomparsa del merito, della dimensione concreta dei problemi, non è solo uno dei morbi più velenosi e ottundenti della scena pubblica italiana. Sta diventando uno degli elementi fondanti dell’egemonia berlusconiana. L’aspetto psicologico, emotivo e dunque televisivo e spettacolare della politica ruba la scena alla discussione razionale. Un capo che sorride e ha nel cuore le sorti del popolo contro un’opposizione frustrata e invidiosa: questo è il plot che la gragnuola delle dichiarazioni da telegiornale, molti talk-show, molti titoli strillati hanno confezionato e consolidato. Quando si tratti, poi, di decidere se è giusto o ingiusto dare corso legale a centinaia di migliaia di piccoli abusi edilizi, favorire l’iniziativa privata magari a scapito di interessi collettivi nevralgici come l’integrità del paesaggio (quel che ne resta), ri-condonare di fatto l’attitudine anarchica che molti italiani scaricano sul territorio, allora ci si accorge che si deve risalire la china della caricatura propagandistica costruita in anni di sapiente semplificazione dei problemi. Se dico ancora "no", è costretta a chiedersi "la sinistra del no", faccio la solita figura del livido guastafeste? Mi si nota di più se dico "no" o se resto in disparte e non dico niente? E non sarà più simpatico dire "sì", in modo che il pubblico capisca che so variare il copione?

Si noti come le precedenti domande non abbiano niente, ma proprio niente a che fare con la sostanza delle questioni politiche in generale, e con il "piano casa" nello specifico. Una delle poche frecce rimaste nell’arco dell’opposizione è proprio questa: azzerare questo ricatto psicologico, ignorare le freddure sulla "sinistra del no", procedere come se si vivesse e si facesse politica in una Paese in cui i "no" e i "sì" si pronunciano solo in rapporto a quanto accade, non in rapporto a quanto sta scritto in un copione mediatico scritto, per giunta, da altri.

L’altolà di Carandini

di Carlo Alberto Bucci

«Il piano-casa è un allarme per il Paese». Andrea Carandini veste i panni dell’urbanista e boccia il progetto del governo Berlusconi. Seduto in pizzo alla poltrona alla quale ammette «di non essere affatto legato», tanto da «non vedere l’ora di tornare ai miei studi», il vecchio archeologo, neo presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, ieri ha fatto un discorso di insediamento che lo mette immediatamente in bilico sullo scranno che Salvatore Settis ha lasciato in polemica con il ministro Sandro Bondi. Il sì convinto dell’allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli alla proposta arrivata con una telefonata di Bondi «mentre ero in ascensore», appare infatti appannato dal "piano-casa". «L’intervento, per quanto si intravede - ha detto Carandini, aspettando di leggere la proposta nella sua forma definitiva ai primi di aprile - allarma, nel suo disordinato pointillisme, che rischia di portare nuove rughe al volto già usurato del nostro paesaggio rurale e urbano».

La "puntiforme" estensione dei condoni «viene ad aggiungersi al grande ciclo espansivo dell’edilizia dell’ultimo decennio che ha interessato soprattutto la "città diffusa"». Un pericolo incombe sull’Italia: «È ragionevole temere che venga ulteriormente impoverita la sostanza paesaggistica che potremo offrire a coloro che verranno a visitare il nostro Paese». Per Carandini «bisogna completare al più presto i piani paesaggistici». E in attesa che questi vengano messi a punto (potrebbero servire anche due o tre anni, ipotizza con una buona dose di ottimismo) «non resta che regolamentare l’attività edilizia, caso per caso attraverso le norme del Codice dei beni culturali, ricordando però che la potestà del ministero sull’autorizzazione paesaggistica, secondo la norma transitoria, ben presto si esaurisce: passati i sessanta giorni dal ricevimento del progetto, e il personale tecnico disponibile è scarso».

Davanti al ministro dei Beni culturali (dicastero «con problemi di sopravvivenza», sottolineata la penuria di fondi e personale) e ai consiglieri vecchi e nuovi (i professori Elena Francesca Ghedini, Emanuele Angelo Greco e Marco Romano, nominati al posto dei cattedratici dimissionari Andrea Emiliani, Andreina Ricci e Cesare De Seta), l’archeologo dell’Università la Sapienza ha anche, innanzitutto, sottoscritto le novità portate al Collegio romano dal ministro che starebbe pensando di tornare a occuparsi del suo partito (Forza Italia): ossia nomina di un commissario speciale, il capo della protezione civile Guido Bertolaso, per l’area archeologica di Roma, e quella di un super manager, l’ex leader di MacDonald, Italia Mario Resca, per la valorizzazione dei musei italiani. Ma, in conclusione del suo intervento, Carandini ha posto l’accento sull’ultima parola che dà corpo al Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici. Il paesaggio, appunto. Per l’autore di Archeologia classica (Einaudi), dal "piano-casa" vanno esclusi: «Le aree ad alto grado di tutela o a tutela integrale previste nei pochi piani paesaggistici già adottati o approvati, i beni immobili di interesse culturale sottoposti a disposizioni di tutela del codice e le zone perimetrate come "centro storico" e "città storica" dagli strumenti urbanistici vigenti».

Il ministro Bondi ha approvato la relazione definendola «un perfetto affresco sul patrimonio culturale italiano» e ha ringraziato Carandini «per lo stimolante discorso e le utili indicazioni di lavoro». Molto apprezzata soprattutto l’analisi «sul rapporto Beni Culturali-Stato-Regioni». E già, perché Carandini ha brindato all’accordo di programma tra Bondi e Bassolino in tema di gestione delle bellezze della Campania. E ha detto che «il modello, completato per l’aspetto universitario potrebbe essere esteso, gradualmente, anche alle altre Regioni, nel quadro di una prospettiva nazionale».

Anche uno stop alle mire espositive del governo c’è nella relazione del vecchio archeologo. Che prima s’è trincerato dietro un «non è di nostra competenza» alla domanda se sarebbe d’accordo a prestare i Bronzi di Riace per il G8 in Sardegna. Ma poi, ribadendo che i prestiti si possono concedere solo per rassegne di alto contenuto culturale e scientifico, ha ammesso: «Sono contrario all’esposizione dei feticci, dirò sempre no alle mostre delle belle statuine».

L’obbrobrio chiamato "villettopoli"

di Leopoldo Fabiani

«Ha fatto benissimo Andrea Carandini a condannare il progetto del governo. Tutte le persone di cultura dovrebbero mobilitarsi contro una legge che si risolverà in un’ulteriore devastazione del nostro territorio». Pierluigi Cervellati, urbanista, docente a Venezia, autore di diversi piani regolatori, si oppone ferocemente al "piano casa" del governo Berlusconi.

Professore, non ci vede almeno un tentativo di rivitalizzare l’economia?

«Nemmeno un po’. È un condono edilizio "preventivo e gratuito". Almeno quelli degli anni ‘90, comunque micidiali nei loro effetti, prevedevano una sanzione economica. Tra i costi di un’operazione del genere non si può ignorare l’impoverimento del territorio e del paesaggio, bene primario per il nostro paese».

Qual è l’aspetto più criticabile?

«L’assenza totale di qualsiasi programmazione pubblica, la privatizzazione del bene comune, la crescita senza limiti di quell’obbrobrio che chiamo "villettopoli"».

Non le piacciono le villette?

«Andrebbero proibite per legge, anzi dovrebbero essere demolite. Sono uno degli elementi che più contribuiscono al degrado edilizio del nostro paese».

Ma non esiste un problema abitativo in Italia?

«Abbiamo un numero di case esagerato, e allo stesso tempo troppe persone (specie i giovani) che non dispongono di un’abitazione. Perché abbiamo il mito della casa di proprietà, e mancano gli alloggi pubblici da dare in affitto a chi non si può permettere di pagare un mutuo. La cosa che più mi indigna è che tutti saranno favorevoli a questi ampliamenti del 20% previsti dalla legge, perché le loro proprietà aumenteranno di valore. Alla fine il risultato è che in Italia abbiamo case sempre più belle, ma delle città e un territorio che fanno schifo».

Postilla

No, i panni dell’urbanista li veste proprio male l’uomo che ha sostituito Settis e, con l’uomo della McDonald, ispira e gestisce la politica del Mibac. Concentrare la protesta al “piano casa” di Berlusconi alla sola questione della tutela del paesaggio e dei beni culturali, per di più di alcune oasi, significa non aver capito nulla di che cosa succede a deregolamentare la legislazione urbanistica. Carandini propone di far salve dalla distruzione “le aree ad alto grado di tutela o a tutela integrale previste nei pochi piani paesaggistici adottati o approvati” e i centri storici. Ma lo dicono anche i berluscones, che il paesaggio va – per l’amori di Dio! – tutelato, che i centri storici vanno protetti, anzi, rivitalizzati, che le aree protette vanno rispettate. Ma quante sono le aree effettivamente (sottolineo effettivamente) protette in Italia? E per di più,non è necessario essere un urbanista per comprendere che il territorio è un sistemam e non un insieme di brandelli, e che la protezione è assicurata solo dall’uso razionale e trasparente del territorio. La pianificazione urbanistica serve a questo. Oppure ci si accontenta di avere qualche isola protetta in un paese sempre più distrutto dallo svillettamento e divorato dal consumo di suolo? In una società sempre più devastata dalle privatizzazioni e commercializzazioni dei beni comuni?

Dal Garda a Messina, da Siena alla Murgia, il piano del governo rischia di dare il colpo di grazia al paesaggio. Legittimando l'edilizia selvaggia. Ecco gli scempi del futuro prossimo

Arriva l'onda. Un'onda anomala. Un'onda di cemento. La temono in Liguria, dove l'invasione di nuove costruzioni minaccia i pochi varchi lasciati liberi da decenni di speculazioni. Si prepara al peggio il lago di Garda, già deturpato dal boom di seconde e terze case. Guai in vista anche nella fascia agricola che ancora cinge la periferia sud-ovest di Milano, un'oasi di verde sotto assedio ormai da anni. Per non parlare delle regioni del Sud già deturpate da un abusivismo dilagante.

"Più case per tutti", annuncia Silvio Berlusconi. Ma il piano studiato dal governo per rilanciare l'edilizia rischia di dare il colpo di grazia ad alcuni dei paesaggi più sensibili del territorio nazionale, aree di straordinario valore ambientale e culturale finora almeno in parte risparmiate dall'aggressione dei costruttori. L'allentamento delle regole, la possibilità di aumentare la cubatura degli edifici fino al 20 per cento, di abbattere e ricostruire, magari altrove rispetto all'originale, le case realizzate prima del 1989, il tutto con procedure ridotte al minimo, viene descritta come una sciagura nazionale dalla grande maggioranza degli urbanisti, degli studiosi del territorio, degli ambientalisti. Un vero 'piano Attila' che secondo Antonello Alici, segretario generale di Italia Nostra, mette nero su bianco la definitiva estinzione "di quel poco di governo del territorio che finora aveva salvato alcune parti d'Italia". Nel mirino degli speculatori rischiano di entrare alcune delle aree a maggior valore ambientale e culturale del Paese. Nella lista spicca il parco dell'Appia antica a sud di Roma, da tempo segnato da abusi piccoli e grandi che ora potrebbero diventare legali. Alle porte di Milano è in pericolo il parco di Monza, polmone verde assediato dalle villette in stile brianzolo. A Torino invece la deregulation introdotta dal piano casa potrebbe addirittura stravolgere la struttura urbana del centro già compromessa da demolizioni e grandi opere. E al Sud va citato a titolo di esempio, ovviamente in negativo, la colata di cemento che ha stravolto l'area costiera dello stretto di Messina. Qui il piano casa, secondo le critiche di Italia Nostra, rischia di legalizzare perfino le costruzioni in aree ad alto rischio di frane e alluvioni.

Peggio ancora. Il nuovo provvedimento studiato dall'esecutivo con la collaborazione (interessata) di alcuni governatori regionali come Giancarlo Galan (Veneto) e Ugo Cappellacci (Sardegna) andrebbe ad aggravare la situazione ormai fuori controllo di alcune grandi aree urbane. Gaetano Benedetto, condirettore generale del Wwf, parla di "polverizzazione edilizia". E cioè una miriade di iniziative che finiscono per sottrarsi a una qualunque regia centrale. "Nella sola città di Roma giacciono almeno 700 mila pratiche edilizie inevase", segnala Benedetto. A cui vanno aggiunti i 60 milioni di metri cubi supplementari previsti dal piano regolatore varato dalla vecchia giunta di Walter Veltroni. Basterà l'effetto annuncio della legge berlusconiana per provocare un aumento delle richieste dei cittadini. E alla fine, prevede Benedetto, "sarà il caos, una situazione ingovernabile dove risulterà di fatto impossibile perseguire gli abusi".

Roma non è un'eccezione. Molte importanti amministrazioni comunali, non solo al Sud, faticano a gestire l'esistente. E adesso rischiano di essere travolte da una valanga di lavoro straordinario. Niente paura, fa sapere il governo, la burocrazia sarà ridotta al minimo. Nel nome della deregulation, il permesso di costruire verrà abolito e sostituito da una perizia giurata del progettista. In pratica, sarà lo stesso geometra pagato dal costruttore ad autocertificare la regolarità dell'intervento edilizio. In questo modo, sostiene Alici di Italia Nostra, "si legalizza un principio dagli effetti devastanti, peraltro già molto applicato in Italia. È il principio secondo cui prima si fanno i lavori e poi qualcuno controllerà se si poteva oppure no". E a questo punto, come insegna l'esperienza del passato, l'eventuale abuso potrà essere sanato con un provvedimento ad hoc. Le possibilità di manovra per gli speculatori allora diventano pressoché infinite.

Del resto, è lo stesso progetto casa berlusconiano a somigliare molto a un condono camuffato. Le irregolarità degli anni scorsi - alzare il tetto, aggiungere una stanza, chiudere un balcone - potranno essere sanate in base ai criteri introdotti dal nuovo provvedimento. Liberi tutti, allora. Magari rispettando i più moderni criteri di risparmio energetico e sicurezza. Perché chi abbatte una casa costruita prima del 1989 potrà rifarla più grande di prima (fino al 30 per cento) anche in un luogo diverso dall'originale, ma a patto che si adegui a determinati standard ecologici. Fin qui niente di straordinario o particolarmente innovativo. Anche il Wwf si dichiara favorevole ai provvedimenti che consentono aumenti delle volumetrie condizionandoli all'aumento dell'efficienza energetica delle abitazioni. Il fatto è, però, che l'indubbio vantaggio per l'ambiente rischia di essere annullato dal consumo supplementare di territorio. Se nei centri cittadini mancherà lo spazio per ristrutturare e ricostruire, gli immobiliaristi demoliranno i vecchi edifici per lottizzare nuove aree di periferia strappate a quel poco che resta di verde e agricoltura.

"La dimensione urbana conquisterà nuovi spazi e si aggraverà il problema del consumo di suolo libero, e quindi di paesaggio", dice Sergio Lironi, presidente onorario di Legambiente a Padova. Paesi come Germania e Inghilterra hanno da tempo affrontato la questione fissando limiti severissimi per impedire le nuove costruzioni su terreni agricoli. "In Italia invece cemento e asfalto stanno divorando territorio a una velocità sempre maggiore", denuncia Paolo Pileri, il professore del Politecnico di Milano che guida l'Osservatorio nazionale sui consumi di suolo, promosso dall'ateneo lombardo insieme a Legambiente e all'Istituto nazionale di urbanistica. E così, secondo gli unici dati disponibili, tra il 1999 e il 2004 le aree urbanizzate, cioè trasformate da cemento e infrastrutture, sono cresciute in Lombardia di 24.742 ettari: quasi 5 mila all'anno. È come se ogni 12 mesi nella Pianura padana si costruisse una nuova città delle dimensioni di Brescia là dove prima c'erano prati, terreni agricoli e boschi. In Liguria, già sottoposta a un enorme stress ambientale, dal 1990 fino a oggi è andato perduto oltre il 45 per cento del territorio libero. Anche in Veneto l'ultimo decennio è stato segnato da una velocissima espansione degli insediamenti residenziali e produttivi. Dal 2001 al 2007 sono state realizzate case d'abitazione per circa 40 milioni di metri cubi all'anno. Quanto basta per dare alloggio ad almeno 600 mila nuovi abitanti. Al ritmo di incremento demografico attuale (immigrati compresi) servirebbero 15 anni per utilizzare tutte queste abitazioni, come ha calcolato Tiziano Tempesta dell'Università di Padova. E nel frattempo continuano a mancare gli alloggi per chi ne ha più bisogno: giovani coppie, famiglie povere e immigrati.

In Veneto come altrove, il frenetico sviluppo edilizio degli ultimi anni ha privilegiato le iniziative speculative: villette, capannoni e centri commerciali. Poco o nulla, invece, per le fasce più deboli della popolazione. E adesso che la recessione minaccia i bilanci dei costruttori, Galan rilancia. La giunta veneta ha fatto addirittura da battistrada varando a tempo di record (martedì 10 marzo) un progetto di legge sulla casa che anticipa le novità governative. Da altre Regioni, invece, arrivano reazioni tiepide o negative. Il presidente della Liguria, Claudio Burlando, ricorda che "questo governo ha tagliato i fondi stanziati per l'edilizia residenziale pubblica". In Piemonte, Mercedes Bresso avverte che "il piano potrebbe provocare disastri sia nel patrimonio architettonico delle nostre città che nel paesaggio delle nostre campagne". Hanno preso le distanze anche Calabria, Umbria ed Emilia Romagna. Ce n'è abbastanza per prevedere che il piano casa finirà sotto il fuoco incrociato delle regioni. Quelle guidate dal centrosinistra, probabilmente. Ma non solo, visto che da Palermo anche il governatore Raffaele Lombardo ha accolto con freddezza le novità da Roma. Del resto in materia di governo del territorio e tutela ambientale, la Costituzione assegna alle Regioni una competenza concorrente con quella del governo centrale. Che deve limitarsi a fissare principi fondamentali. "Ma a questo punto non escludo ricorsi alla Corte Costituzionale per risolvere eventuali conflitti", dice Daniele Granara, avvocato che da anni difende le ragioni delle grandi associazioni ambientaliste. Giovanni Losavio, presidente nazionale di Italia Nostra, arriva a ipotizzare "una violazione di tre diverse norme costituzionali, compreso il principio fondamentale di tutela del paesaggio".

Ma più che dai ricorsi legali, i programmi berlusconiani potrebbero essere frenati dalla recessione. Nella sola Milano oggi si contano oltre 100 mila appartamenti sfitti. I prezzi degli immobili sono in caduta. Dopo gli anni del boom innescato dal credito facile, le aziende faticano a finanziare i nuovi investimenti. E le banche scottate dalla crisi pensano più che altro a ricapitalizzarsi stringendo le maglie di prestiti e mutui. Intanto nelle agenzie si accumulano offerte di immobili che restano invenduti. E il piano casa non sembra davvero in grado di contrastare neppure l'impennata della disoccupazione. Anzi, come ricorda anche il Wwf, il "settore edile è il più segnato dal lavoro nero".

Le Associazioni qui rappresentate hanno più volte denunciato il processo di manomissione, di cementificazione e di imbruttimento dei paesaggi italiani, pur in presenza di taluni atti (le demolizioni dell’ex Hotel Fuenti e di Punta Perotti, l’approvazione del Codice per i beni culturali e paesaggistici) che sembravano aprire una fase di rinnovata, consapevole e condivisa tutela di questo bene fondamentale. Esse rivolgono ora un pressante appello al governo, al parlamento, al presidente della Repubblica affinché il programma per l’edilizia enunciato non venga, anzitutto, approvato nella forma sbrigativa del decreto legge con cui si impone alle Camere di ratificare un provvedimento tanto complesso senza, di fatto, discuterlo. Mentre, trattandosi di principi fondamentali nella materia di governo del territorio (oggetto di legislazione concorrente di Stato e Regioni), si deve escludere che ricorra il caso straordinario di necessità ed urgenza che legittima il Governo all’assunzione di potestà legislativa. Tanto più se fossero previste modifiche peggiorative al Codice dei beni culturali e del paesaggio (in materia dunque che ha copertura nell’art. 9 della Costituzione) con la più volte annunciata esclusione della efficacia vincolante del parere rimesso alle Soprintendenze sugli interventi in aree vincolate.

Osserviamo nel merito che la semplificazione delle procedure edilizie non può spingersi fino all’abolizione del permesso di costruire (garanzia insopprimibile di legalità nell’edilizia) e alla sua sostituzione con una spicciativa autocertificazione del progettista, mentre agli uffici tecnici comunali sono date limitatissime facoltà di contestazione. Contro il principio costituzionale di buon andamento dell’amministrazione e in un evidente squilibrio di forze fra gli uffici comunali e chi rappresenta corposi interessi privati.

Molto rischioso, nella stessa direzione, anche l’ulteriore allargamento della già discutibile Dichiarazione Inizio Attività (DIA), nonché l’inclusione di ogni sorta di interventi fra le opere di “conservazione” e l’ammissione ai benefici della nuova legge dei Comuni ancora privi di strumenti urbanistici i quali semmai vanno, in vario modo, sollecitati a dotarsene. Mentre del tutto improponibile è la prevista assoluta liberalizzazione delle opere interrate, accessorie alla residenza, e nella elevatissima misura del 20 per cento del volume dei fabbricati esistenti, quando invece l’edificazione sotterranea esige rigorosi controlli di fattibilità e sicurezza e, specie nelle aree urbane storiche, verifiche preventive di compatibilità con la tutela archeologica. La quale va mantenuta salda e forte, in capo alle Soprintendenze e non disarticolata con continui commissariamenti (vedi Pompei, ed ora Roma, addirittura l’intera sua Provincia) per ragioni di “protezione civile” che svuotano le Soprintendenze stesse e rimandano nel mondo l’immagine di un’Italia disastrata.

La ristrutturazione e il recupero di fabbricati e la riqualificazione di interi quartieri semi-periferici e periferici precariamente edificati nell’ultimo dopoguerra possono essere attuati soltanto con piani pubblici, attenti e rigorosi, elaborati d’intesa fra Regioni e Comuni, col controllo degli organismi della tutela. Piani i quali tengano conto non del solo mercato ma di una domanda di alloggi popolari e sociali sin qui largamente insoddisfatta, con un intervento pubblico precipitato all’1 per cento.

Tali piani di recupero possono prevedere, in sede regionale, anche premi in cubatura ma non certo nella misura preventivata del 20 per cento. Allo stesso modo un premio generalizzato pari al 10 per cento non può venire regalato indiscriminatamente a chiunque voglia aggiungere altra edilizia nelle zone agricole già tanto invase e di per sé preziose come bene primario, con l’ulteriore effetto di grave alterazione nelle tipologie delle superstiti architetture rurali di tradizione.

Il Paese ha bisognodi una legge-quadro la quale ponga le Regioni in condizione di legiferare in modo snello e insieme rigoroso, valorizzando il paesaggio, i centri storici, i parchi nazionali e regionali (minacciati invece da nuove norme a favore della caccia e a danno dell’avifauna), riqualificando le nostre periferie, potenziando il trasporto locale su rotaia, dando risposte serie ad una nuova domanda di edilizia economica e sociale anche attraverso il recupero attento del patrimonio esistente ed evitando il più possibile ogni nuovo consumo di suoli liberi, agricoli e forestali. Che si stanno infatti diffusamente impoverendo, con danni irreversibili al bene primario del paesaggio: dalla collina veneta, all’Agro Romano (dove la superficie agro-forestale è stata più che dimezzata fra il 1961 e il 2000), alla costa siciliana.

Assotecnici, Ass. R. Bianchi Bandinelli, Comitato per la Bellezza, eddyburg, Italia Nostra, Legambiente

La manovra è concertata con due "regioni di destra" che, sodali del Presidente del Consiglio, gli aprono la strada e danno la linea alle altre regioni. I comuni saranno dunque abilitati, contro le prescrizioni di piani e regolamenti, a promuovere l’ampliamento del patrimonio edilizio nelle misure dal 20 al 35 per cento.

Non importa se è così sovvertito l’assetto razionale delle città disegnato dai piani regolatori. Berlusconi promette un boom edilizio pari a quello del dopoguerra, perché dall’edilizia civile pretende un contributo decisivo al superamento della crisi economica, non bastano le grandi opere, Ponte sullo Stretto, Mose e infrastrutture d’ogni specie. Anche i permessi di costruire (irrinunciabile controllo di legalità) sono un inutile ostacolo, basta la parola del progettista. Ma pure le sanzioni dell’abusivismo debbono essere attenuate e anzi cancellate se c’è il ravvedimento operoso.

Non basta, l’ostacolo infine del paesaggio deve essere rimosso e cosa nasconda la promessa semplificazione delle procedure per i permessi in materia ambientale e paesaggistica è ben facile intendere.

Sull’ordine urbano e il paesaggio si scarica uno sregolato boom edilizio.

Italia Nostra, allarmata, invita le Regioni che ancora sentono la responsabilità del governo delle nostre città a respingere il progetto del Presidente del Consiglio, così dimostrando di saper fare buon uso delle autonome potestà che la Costituzione ad esse attribuisce. Mentre non dubita che il Presidente della Repubblica, nell’esercizio dei poteri a lui affidati dall’art. 87, comma 4, della Costituzione, verificherà se il disegno di legge di iniziativa governativa risponda al principio del buon andamento dell’Amministrazione (art. 97 Cost.) e a quello, fondamentale, della tutela del paesaggio (art. 9).

Il Presidente del Consiglio ha confermato il proposito di procedere con decreto-legge per l’approvazione del cosiddetto Piano Casa, benchè sia ben consapevole – più volte lo ha ripetuto – che il provvedimento attiene ad una materia, il governo del territorio, rimessa dalla Costituzione alla legislazione concorrente di Stato e Regioni.

La potestà legislativa dello Stato è quindi limitata – così vuole la Costituzione – alla determinazione dei principi fondamentali della materia. Intervento legislativo questo quanto mai complesso per la materia del governo del territorio e a questo adempimento non bastarono neppure le due precedenti legislature mentre la presente ha appena iniziato ad affrontare quel compito attivando al riguardo la competente commissione della Camera dei Deputati.

E se dunque si tratta di dettare, anche con il Piano Casa, principi fondamentali che dovranno indirizzare la produzione legislativa delle Regioni, non solo l’annunciato contenuto non pare che in concreto si mantenga entro quei limiti, ma innanzitutto non può per certo, come enunciazione di principi fondamentali di legislazione concorrente, costituire il caso straordinario di necessità ed urgenza che legittima l’assunzione di potestà legislativa da parte del governo.

Italia Nostra, che ha espresso radicale e motivato dissenso su una misura che esonera dalla responsabile pianificazione pubblica rilevanti trasformazioni urbane e territoriali, ritiene doveroso segnalare il proprio convincimento sulla pregiudiziale incompatibilità funzionale della legislazione di principi con la decretazione d’urgenza.

Berlusconi: "Via al piano edilizia"

ma molte Regioni dicono no

di Paola Coppola

Serve "per smuovere l’economia", per rimettere in moto l’edilizia "ferma e impastoiata da mille burocratismi". Darà "a chi ha una casa e nel frattempo ha ampliato la famiglia la possibilità di aggiungere una o due stanze". Senza rischi di abusi, garantisce Berlusconi. Il piano straordinario per l’edilizia si farà, e subito: alla prossima riunione del Consiglio dei ministri, "venerdì faremo il provvedimento", chiarisce il premier.

Per il ministro delle Infrastrutture Matteoli è possibile trovare punti di incontro sul provvedimento perché "è una necessità non solo delle Regioni di centrodestra ma di tutto il Paese". Giusto riparlare del piano per il leader leghista Bossi, che però frena: "Alcuni ci credono molto, io meno".

Ora toccherà alle Regioni valutare il documento, discusso con Veneto e Sardegna, e che potrebbe essere ripreso in gran parte dal governo con una norma nazionale da affiancare a quelle regionali. Il piano dà il via libera a un aumento delle cubature del patrimonio edilizio con la possibilità per le Regioni che lo accettano di ampliare gli edifici esistenti del 20%, di abbattere edifici realizzati prima del 1989 per ricostruirli, con il 30% di cubatura in più in base agli "odierni standard qualitativi, architettonici, energetici", di abolire il permesso di costruire e sostituirlo con una dichiarazione di conformità da parte del progettista.

Ma la maggioranza delle Regioni già frena sul testo che dovrebbe essere alla base della normativa che vuole rivoluzionare le norme su costruzioni e ristrutturazioni. Se il Veneto si candida a fare da apripista, e per il governatore Galan "non ci sarà alcuno scempio, ma si tratterà di operare sul patrimonio edilizio esistente", e la Sardegna è favorevole, l’Abruzzo è pronto a valutare il piano e la Sicilia lo "sposa pienamente", come dice l’assessore ai Lavori pubblici della giunta Lombardo, Gentile, ma molti governatori di centrosinistra sono perplessi perché temono soprattutto l’impatto ambientale.

È cauto il governatore lombardo Formigoni: "Tutto ciò che va nella direzione della sburocratizzazione e della accelerazione dei procedimenti normativi non può che essere positivo", dice. E precisa: "Studieremo il progetto con un atteggiamento di apertura, ma anche con prudenza, per ciò che può andare a discapito del territorio. Quello della Lombardia è già fortemente antropizzato". Frena anche l’assessore lombardo al Territorio, il leghista Boni: "Abbiamo approvato una legge che restringe i poteri dei Comuni per impedire di occupare nuovo suolo pubblico". Bocciatura dal Piemonte: "Discutibile la proposta di permettere di aumentare la cubatura nelle parti esterne, senza controlli: potrebbe provocare disastri nel patrimonio architettonico e nel paesaggio", dice Mercedes Bresso. In Piemonte una legge permette già di ampliare la cubatura per interventi di ecoedilizia e per le ristrutturazioni di mansarde e parti interne degli edifici. Il piano preoccupa il presidente della Regione Emilia Romagna, Errani; Martini lo bolla come "una proposta inaccettabile, costruita solo con alcune regioni, anziché attraverso un confronto con tutte". Anche in Toscana si possono ampliare le superfici abitative o installare impianti di energia rinnovabile "con i contributi regionali e senza far saltare leggi e regolamenti", dice il governatore. Per Marrazzo, governatore del Lazio, è "una forma surrettizia di condono". Rilanciare l’edilizia è un volano utile, ma bisogna ripartire da quella pubblica, dice Burlando, governatore della Liguria. Contraria la presidente della Regione Umbria, Lorenzetti, il governatore delle Marche, Spacca, chiede di "evitare la deregulation". E "no" anche da Campania, Puglia e Basilicata. Perplesso Loiero: "Si può raggiungere meglio l’obiettivo con incentivi reali come quelli che la Calabria ha messo a disposizione e senza cambiare le regole".

Ambientalisti sul piede di guerra

di Adriano Bonafede

La più dura è Legambiente, che in una nota scomoda addirittura il classico Mani sulla città di Francesco Rosi: "Sembra di tornare alla situazione descritta in quel film, al tempo in cui in barba a qualsiasi norma, Piano o Regolamento edilizio, negli anni '60 in Italia, speculatori senza scrupoli hanno potuto ampliare, demolire, ricostruire edifici brutti e insicuri". Secondo l'organizzazione di difesa dell'ambiente, "sono pagine di storia del nostro Paese che hanno fatto nascere edifici e periferie squallide, dove l'edilizia ha creato ricchezza solo per gli speculatori e case invivibili". Ha poi aggiunto Edoardo Zanchini, responsabile Urbanistica di Legambiente: "Pensare di premiare con il 20-30% di aumento di cubatura interventi che verrebbero realizzati in deroga a Piani urbanistici e regolamenti edilizi significa rendere più brutte e invivibili le città italiane e premiare gli speculatori".

Le preoccupazioni degli ambientalisti riecheggiano anche nel commento di Ermete Realacci, ora responsabile di queste tematiche per il Pd: "È indispensabile un forte rilancio dell'edilizia pubblica sia per l'uso abitativo che per quello scolastico. Ma le norme annunciate dal governo appaiono confuse e pericolose. La proposta di oggi sarebbe iniqua e devastante per l'equilibrio delle città, speriamo resti solo un annuncio come tanti altri".

Per Giovanna Melandri, responsabile Cultura del Pd, "l'Italia rischia di dare l'ultimo assalto alla propria bellezza e al proprio paesaggio, valori imprescindibili della nostra identità e del nostro futuro".

Da parte degli urbanisti, come si vede anche dagli articoli in pagina, si insiste sul fatto che con questa liberalizzazione il governo rinuncia sia al progetto iniziale che al controllo finale. Dice Daniel Modigliani, ex direttore del Piano Regolatore di Roma: "Il governo ha di fatto deciso di non volersi occupare della trasformazione edilizia delle aree metropolitane, nelle quali, peraltro, abita l'85 per cento della popolazione italiana. È quasi peggio di un condono edilizio: almeno quello riguarda soltanto gli edifici irregolari; in questo caso, invece, anche tutto ciò che è regolare".

Gli unici a vedere con favore il provvedimento "liberalizzatore" sono i costruttori, che si aspettano una nuova stagione di affari.

Fuksas:

"Un delirio che può accadere solo qui in Italia"

L’architetto Massimiliano Fuksas è categorico: "Non esiste nessun altro paese in cui si possa fare quello che il governo italiano sembra ora ipotizzare. In Francia, in Spagna, in Germania, paesi che conosco bene, c’è sempre la presentazione di un progetto e c’è un’autorizzazione. Qui invece c’è la resa totale dello Stato. È un delirio". Per Fuksas il governo, anche nel campo edilizio, ripropone una strada che ha già battuto in altri casi: "Il messaggio è chiaro: la burocrazia non è capace, quindi fate come credete. Così come si dice: fatevi le ronde perché la polizia non può farlo. Per uno come me, affezionato all’idea di Stato, c’è un senso di frustrazione". Un intervento sull’edilizia si può fare: "Ma ci vorrebbe un piano vero come il Piano Fanfani negli anni 50".

Cervellati:

"Sciagura che impoverisce tutto il Paese"

"Manca totalmente un progetto. C’è semmai un elemento di speculazione e di favore per chi ha già una casa, che può ampliarla. L’edilizia ha un valore ma andrebbe indirizzata verso determinate aree e problemi". L’urbanista Pier Luigi Cervellati è a dir poco allarmato. "Siamo di fronte a una forma di deregulation con il paravento del risparmio energetico. E poi, nessuno sa con quali parametri misuro questo risparmio: aumento la profondità dei muri? Lavoro all’interno? In Trentino Alto Adige sono stati identificati dei parametri. È evidente che il tutto andrebbe pianificato, studiato con obbiettivi molto precisi. Senza di ciò il progetto diventa una forma di speculazione che porta a un impoverimento del paese. Il liberismo nell’edilizia senza un’idea è una sciagura".

Secchi:

"Uno scandalo che farà scattare

la deregulation selvaggia"

"Questo progetto mi sembra veramente scandaloso". A parlare è l’architetto Bernardo Secchi, ordinario di Urbanistica all’Università di Venezia. "È vero che quando si adeguano gli edifici alle norme energetiche c’è bisogno di qualche metro quadro in più, ma tutto ciò non può essere lasciato all’iniziativa di chiunque". All’estero, aggiunge Secchi, si fanno sempre dei progetti di massima, "dove gli urbanisti dicono quali sono le performance che devono avere gli edifici (ad esempio in Francia ci sono le classi A,B,C, ecc). Soltanto all’interno di questi progetti possono intervenire i singoli". E poi non basta un’autocertificazione del progettista: "Certo che no. La certificazione deve essere fatta da un apposito ente, altrimenti è liberalizzazione selvaggia".

Buzzetti:

"Il progetto darà una spallata alla burocrazia"

"Comprendo le perplessità che alcuni hanno manifestato, ma confido nel fatto che alla fine il progetto del governo sarà più equilibrato di quanto non sia apparso finora". Chiedere a un costruttore cosa ne pensa di una norma che di fatto liberalizza e semplifica l’edilizia è come chiedere all’oste se il vino è buono. Paolo Buzzetti, presidente dell’Ance, fa dunque il suo mestiere, ma si rende conto delle criticità: "Io credo che la norma che prevede l’abolizione dell’autorizzazione riguarderà solo gli interventi più piccoli, non i più grandi. In ogni caso da sempre i costruttori chiedono ai governi una semplificazione e una maggiore rapidità delle procedure. Questo provvedimento darà una spallata alla burocrazia".

Otto anni di boom edilizio ininterrotto

di Rosa Serrano

Quanto è cresciuto in questi anni il patrimonio abitativo italiano? Quanti metri cubi di cemento si sono posati uno sull’altro per venire incontro alla richiesta di case delle famiglie italiane? E soprattutto, questo bisogno è stato alla fine soddisfatto? Alla vigilia della nuova "rivoluzione del mattone" annunciata dal presidente del Consiglio, cerchiamo di dare qualche risposta, di diradare qualche dubbio. E come prima cosa, scopriamo che dal 2000 ad oggi il flusso di nuove abitazioni costruite ogni anno si è fatto via via sempre più impetuoso. Il dato ci viene fornito dal Cresme: nel 2000 erano 159 mila. Lo scorso anno quasi il doppio: 287.000 (che salgono a 323 mila se includiamo gli ampliamenti di edifici esistenti). Un balzo di oltre l’80 per cento, che sarebbe stato anche maggiore se nel 2008 non si fosse registrata una lieve flessione. L’Agenzia del territorio non fa che confermare questo boom pluriennale del mattone: tra il 2003 e il 2007 il patrimonio residenziale complessivo (cioè lo stock esistente) è salito da 28,8 milioni di abitazioni a 31,4: 2 milioni 600 mila in più. Metà di questo aumento è concentrato al Nord. Il resto se lo dividono Centro e Mezzogiorno con una prevalenza di quest’ultimo, dove lo stock è salito di 700 mila unità.

Malgrado l’ultimo rallentamento creato dalla crisi economica, si è tornati a costruire allo stesso ritmo degli anni ‘80, decennio che conobbe il primo grande condono edilizio, quello deciso da Bettino Craxi. Seguìto dalle due sanatorie di Berlusconi e dalla legge "padroni a casa propria", che oggi il premier vuole in qualche modo riprendere ed estendere dalle ristrutturazioni interne alle cubature esterne.

Di fronte a questo rinnovato e duraturo boom edilizio, ci si aspetterebbe di veder soddisfatta gran parte della fame di abitazioni delle famiglie italiane, ancora non proprietarie. Invece no. Sentiamo quello che ci dice l’associazione dei costruttori, l’Ance, in un suo report. Nel quadriennio 2003-2007 sono stati rilasciati permessi per costruire 1,2 milioni di alloggi a fronte di un fabbisogno abitativo proveniente da nuove famiglie di circa 1,5 milioni di case. Insomma, alla fine ci sono 78 abitazioni per 100 nuove famiglie. Cosa significa questo? Che bisogna costruire ancora di più? In realtà, finora si è costruito moltissimo per il mercato (sempre più ricco) e pochissimo per l’edilizia popolare. Al rilancio di quest’ultima ora punta il Piano Casa che il governo ha sbloccato ieri l’altro con le Regioni. Si cerca in altre parole di intercettare quelle fasce deboli di famiglie tagliate fuori in tutti questi anni dai prezzi inaccessibili e dalla stretta creditizia che ha drasticamente ridotto il ricorso ai mutui soprattutto da parte di giovani o immigrati. Ma tagliate fuori anche da una scarsa offerta di case in affitto a canoni possibili. Chi contesta, come gli ambientalisti, il ricorso a nuove costruzioni, ricorda a questo proposito il fenomeno delle case sfitte. Secondo una recentissima ricerca del Sunia, a Roma sono oltre 245.000 su 1,7 milioni di abitazioni; a Milano 81.000 su 1,6 milioni.

Oltre al piano di edilizia popolare che il governo cerca di legare a una maggiore offerta di affitti a basso prezzo, resta da capire se e in che misura la "liberalizzazione edilizia" che Berlusconi si appresta a presentare (con libertà di ampliare, di demolire e di ricostruire case) verrà incontro alle esigenze delle famiglie attraverso il recupero del patrimonio abitativo esistente, o se verrà utilizzato solo per nuove speculazioni edilizie.

Licenze edilizie, no della Puglia

di Giuliano Foschini

"Nessun aumento di cubature straordinarie. "Fin quando governeremo noi, operazioni scellerate come questa non saranno mai possibili". L’assessore regionale all’Urbanistica, Angela Barbanente, chiude le porte in faccia alla proposta di legge del governo Berlusconi che consentirebbe aumenti di cubature dal 20 al 35 per cento a tutte le strutture residenziali. "Non firmeremo mai quella convenzione - continua l’assessore che è anche docente al Politecnico di Bari in Pianificazione urbanistica - perché sarebbe come mandare all’aria decenni di studi, di dibattiti, di leggi e discussioni sulla pianificazione del territorio soltanto per soddisfare pericolosissimi appetiti speculativi. Questa manovra con lo sviluppo non ha nulla a che fare: è un’operazione che serve soltanto a sanare gli abusi, prima ancora che diventino tali, senza una verifica della sostenibilità ambientale e paesaggistica degli interventi".

"In questi anni - continua la Barbanente - la Regione ha dato in materia di urbanistica e quindi di tutela del territorio degli indirizzi ben precisi, puntando soprattutto sulla sostenibilità ambientale. La nostra linea di governo è questa, chiara e netta. Se qualcuno ha intenzione di portare avanti la politica dell´abuso e delle sanatorie, dovrà bussare ad altre porte".

La Barbanente è critica con Berlusconi anche sulla vicenda legata al piano casa. "Stanno cercando di fare propria - spiega – un’operazione voluta e finanziata del governo Prodi che loro avevano distrutto e che oggi è stata recuperata soltanto grazie alla strenua resistenza delle Regioni, comprese quelle di centrodestra. Oggi il governo ha sbloccato 200 milioni di euro, rispetto ai 550 iniziali, privilegiando i progetti cantierabili. Noi quindi dovremmo vederci finanziare tutti i nostri progetti da 36 milioni". Ma non è soltanto l’urbanistica il terreno di scontro tra il governo pugliese e quello nazionale. Ieri il presidente della Regione, Nichi Vendola, ha criticato duramente la spartizione dei fondi Cipe e Fas decisa venerdì dal consiglio dei ministri. "Dagli interventi del Governo - dice - sono scomparsi il piano per le bonifiche dei siti inquinati, comprese quelle per Brindisi e Taranto, i fondi Industria 2015, e gli interventi per le imprese. L’alta capacità ferroviaria Bari-Napoli è completamente assente mentre opere come la Maglie-Leuca ed il Nodo di Bari non rappresentano alcuna novità, essendo già state indicate dai piani del governo precedente".

Il nostro paese, specie al Nord, ha scelto la strada della Metropoli diffusa senza alcuna qualità urbana senza alcuna coscienza di quanto si può guadagnare se si costruisce meglio

I decreti e le norme in un paese populista sono un´immagine fedele dell´idea che i governanti hanno dei cittadini ma anche di quella che i cittadini hanno di sé

Se passa la nuova legge nel paese del "fai da te"

di Franco La Cecla

Il piano del governo potrebbe risolversi in un ulteriore degrado del paesaggio, senza portare benefici. Ma alle famiglie italiane non dispiace la "deregulation edilizia"

Le leggi, i decreti legge, in un paese a regime populista come il nostro sono una fedele immagine dell’idea che i governanti hanno dei cittadini, ma anche, purtroppo, dell’idea che i cittadini hanno di sé stessi. La promessa legge sulla casa racconta un’Italia di abitanti del sotterfugio, un paesaggio di verandine e cantinette, di superfetazioni e solai sempre pronti a trasformarsi nella cameretta per i figlioli con lo stiracalzoni reguitti e la collezione di lattine di birra vuote. È una popolazione in perenne competizione con gli odiati vicini alla cui faccia si può aprire una finestra abusiva, sopraelevare un terrazzo, rubare aria, vista e metri cubi. Infatti la cosa più singolare della legge in cantiere è che solleverà una marea di contenziosi tra vicini, perché il fatidico 30% di cubatura in più sarà sì certificato dal geometra o dal giovane architetto disoccupato, ma non certo dal dirimpettaio. È una legge fatta per incrementare il lavoro degli avvocati. Non per dare una spinta al settore edilizio.

L’Italia si trova ad avere una enorme quantità di edifici mal costruiti da dopo la guerra ad oggi con materiali scadenti, una totale disconoscenza dell’economia energetica, una disastrosa collocazione: le periferie nate come una escrescenza mostruosa di un’idea della vita e della città mutuata dalla divisione tra sonno, lavoro, consumo ed una condanna della meravigliosa realtà dei nostri centri storici. Il nord soprattutto ha scelto la strada della metropoli diffusa senza nessuna qualità urbana e senza nessuna coscienza di quanto si può guadagnare e risparmiare se si costruisce meglio e con una idea di comunità. Lo scandalo di questa legge non consiste solo nella promessa di cementificazione, ma nel fatto che è una occasione perduta per dare lavoro e respiro all’unico vero settore che "tira" in Italia, le trentamila piccole imprese che si sono lanciate sulla strada della efficienza energetica grazie ad un decreto Bersani che qualche anno fa diede agevolazioni fino al 55% a chi si riconvertiva nell’immobiliare ad alta efficienza climatica.

Oggi in Italia c’è bisogno di demolire molto e di ricostruire con materiali e tecniche innovative. La provincia di Bolzano lo ha capito e offre un "premio" di 3,5 di cubatura % in più (non trenta!) a chi si fa una casa che rientri nelle alte graduatorie di efficienza energetica. Oggi il consumo energetico del nostro patrimonio immobiliare incide per il 40% dell’energia consumata in un anno nel paese. Perfino la nuclearista Francia a cui facciamo il favore di comprare una tecnologia datata, oggi ha provveduto ad avere il 23% dell’energia prodotta da vento, sole, fotovoltaico. Noi arriviamo appena sopra le decine. Obama ha investito 70 miliardi di dollari per la formazione di tecnici che controllino l’efficienza energetica delle nuove costruzioni. Da noi nemmeno una vaga idea nella formazione dei progettisti della importanza di questa competenza. I nostri architetti che si strappano le vesti contro questa legge qualche mese fa - su questo giornale - sostenevano che ci vogliono 3 milioni di nuovi vani per dare respiro all’edilizia. Da noi l’idea è che l’Italietta è fatta di scappatoie costruite da imprese più o meno legali e di fondo tutto l’immobiliare puzza di inciucio, laddove in altri paesi come la Spagna non si fanno progetti se non in una stretta trasparente collaborazione tra pubblico e privato, tra comuni, banche e real estate, i famosi project financing che qui sono solo serviti alle mangiatoie autostradali e lì hanno creato un sistema di "paradores", una fruizione del patrimonio monumentale e dell’ospitalità turistica correlata con soldi privati e controllo pubblico che ha dato frutti economici magnifici. Il problema è che il nostro paese è all’avanguardia solo nell’idea di cortile e di interesse privato e preferisce distruggere la propria ricchezza urbana e paesaggistica in nome di una logica di agenzia immobiliare: pochi, maledetti e subito. Nessuna proiezione nemmeno in avanti di cinque, dieci anni. È l’arraffa bavoso di chi dal governo ha creato delle xerox di sé in ogni padre di famiglia.

Perfino in paesi molto più indietro economicamente come la Grecia la superficie di fotovoltaico e pannelli è una cifra tre o quattro volte superiore alla nostra, 3 milioni e mezzo di metri quadri. Greenpeace Italia ha spiegato come da noi ci siano state energie, inventiva, un tessuto di piccole imprese diffuse che aveva scoperto nella edilizia "efficiente" un polmone di innovazione. Ma non sono state aiutate dalla incoerenza delle leggi, dalla mancanza di coraggio dei governi e adesso l’Italia è nel fanalino di coda di questo settore. Potremmo riprenderci perché comunque l’intero immobiliare è in fermento e nuovi materiali, nuove soluzioni possono essere adottate, ma si tratta di concepire un pensiero, di avere un’idea del tipo di città e di insediamenti che vogliamo. Gli architetti, come al solito stanno giocando a fare "i buoni" contro il governo cattivo e non sono come al solito capaci di un pensiero urbano innovativo. Il 30 per cento di cemento in più pesa sul nostro futuro perché da noi perfino l’idea di demolire lo Zen di Palermo è considerata uno scandalo, laddove oggi uno dei settori più trainanti dell’immobiliare è proprio quello delle demolizioni, ma razionali, energeticamente e ambientalmente controllate e con una idea di cosa farci di meglio. È probabile però che vinca il paesaggio populista, quello di una nuova Italia che ha bisogno di identificarsi nel balcone trasformato in verandina, e poi sublimato in stanza in più a gloria di futuri crolli sui vicini: peggio per loro!

Dove comanda il condominio

di Italo Insolera

Molte volte nella storia troviamo la parola "crisi" (e quasi sempre abbiamo paura di essere colpiti dalla "crisi più grave della storia"). Non sappiamo - per ora - come questa prima crisi del millennio uscirà dal confronto con le crisi del secolo scorso. In questo ci sono stati certamente due momenti di crisi insuperabili: la prima e la seconda Guerra Mondiale (1914-1919/1939-1945) quando l’unità di misura erano i morti.

Quelle guerre ebbero una pesantissima coda che vedeva in primo piano - soprattutto la Seconda - la crisi delle abitazioni. In Italia esisteva dall’inizio del XIX secolo una istituzione pubblica con lo scopo di far fronte appunto al problema della casa; l’Istituto Case Popolari; però alla fine del secondo conflitto si ritenne che l’Icp fosse insufficiente ad affrontare il pesantissimo problema della ricostruzione e si creò un istituto apposta, l’Ina-Casa.

Esso non fu certo organizzato come un ufficio tecnico di un ente assicurativo, ma come una originale e completa struttura incaricata dell’attuazione del "Piano Fanfani", dal nome del ministro dei Lavori Pubblici Amintore Fanfani (1908-1999). Questa complessa struttura mobilitò tutti i tanti neo-laureati, studenti, giovani ingegneri, architetti, geometri, impresari ecc., a dirigere i quali fu chiamato Arnaldo Foschini (1884-1968). Furono costruite case isolate nei piccoli centri e sorsero nelle grandi città i primi "quartieri" veramente moderni: a Torino, a Milano, a Bologna, a Firenze, a Genova, a Roma, e Napoli, a Palermo, ecc., offrendo standards tecnici fino ad allora impensabili per l’edilizia popolare. Le estreme periferie proposero ai cittadini uno "stile" inconfondibile che non si tardò a indicare appunto con il nome dell’Ina-Casa, realizzando contemporaneamente l’obiettivo della lotta alla disoccupazione edilizia e della ricostruzione post-bellica, utilizzando i fondi E.R.P. (European Reconstruction Program) e delle apposite trattenute su stipendi, salari e ogni altro compenso dei lavoratori.

Adesso, a mezzo secolo di distanza, quale insegnamento si può trarre da quella esperienza? La via che sembra indicata potrebbe intitolarsi "Via ventipercento". Non c’è nessun E.R.P., nessuna Ina-Casa come protagonista. L’immagine che si può prevedere è estremamente disordinata. Chi sopraeleverà un pezzo, chi occuperà un distacco, chi farà a destra il contrario di quello che un altro fa a sinistra. Salvo per qualche villetta, si può prevedere che saranno le "assemblee di condominio" a dirigere le trasformazioni urbanistiche!

Come è noto la formazione degli strumenti urbanistici, la loro attuazione, il loro controllo passano attraverso un iter amministrativo che nessuno rimpiangerà. Se ne prevede infatti la sostituzione con quella che potremmo chiamare "autoburocrazia" della perizia giurata e sostituzione dei progetti di architettura-ingegneria con i "più" e i "meno" dei documenti bancari. Nessuno di questi atti può garantirci il paesaggio urbano che ne deriverà; anzi.

Il "ventipercento" edilizio raramente costituirà un arricchimento effettivo e duraturo per il proprietario: infatti il valore totale del fabbricato è già stato certamente utilizzato alla sua costruzione e il 20% aggiunto adesso ha senso per portare via i soldi della banca, non per aggiungere metricubi. Ci sembra che ci sia un solo caso in cui è possibile pensare ad una trasformazione diversa ed è quello della demolizione totale e ricostruzione (che in questo caso può passare dal 20% al 30%); ossia attuare una operazione che trasforma il territorio, una operazione di urbanistica vera e propria.

La prigione degli italiani

di Francesco Merlo

In Italia ci vorrebbero due piani casa: uno di distruzione, l’altro di costruzione, perché l’architettura non è solo aggiungere ma anche sottrarre, non importa se con l’esplosivo purificatore o a colpi di piccone come si fece con il muro di Berlino. Si può dunque investire nella Santa Ruspa e far ripartire l’economia anche distruggendo le case brutte che hanno devastato l’Italia nelle periferie, nelle campagne, lungo le coste. E bisognerebbe distruggerle pur sapendo che in quegli orrori ci sono l’aria di casa e gli odori di casa, la casa dolce casa, la casa italiana da dove non si può scappare perché persino il marinaio che abita lo spazio aperto sogna, come Ulisse, di tornare a casa.

L’italo americano di John Fante addirittura vi torna solo per coricarsi nudo «in una specie di avvallamento che aveva la forma del corpo di mia madre». Ed è la stessa la casa ironica e calda con Brancati, malinconica e disperata con Vittorini, la casa del Nespolo, la casetta in Canadà. Nell’illusione fragilissima che fuori c’è il baccano e in casa ci sono le emozioni. E forse perché solo la casa in Italia garantisce la vita dopo la morte. La casa è l’appartenenza organica, etnica e tribale, la coincidenza tra il luogo d’origine e il luogo d’arrivo: patto d’amore, di fede e di soldi.

A simbolo e a fondamento del familismo italiano, non importa se industriale politico o criminale, c’è sempre la casa: Villar Perosa, Arcore o magari Corleone dove il reato dei figli e dei parenti di Totò Riina non ha bisogno d’essere provato. E infatti anche gli esterni vengono adottati, punciuti, accasati: la casa è già il reato e non esiste l’uomo senza limiti che non rincasa nel casotto, nel caseggiato e nel casamento dei pregiudizi, nella casamatta e nel casino.

È quasi tutto negativo l’universo semantico della parola casa, dalla casalina della serva alla moglie ridotta a casalinga, angelo del focolare che sente la casa come una disgrazia. E si va dalla casa chiusa della prostituta alla casa di custodia e poi di tolleranza, di piacere, di correzione, di salute, di pena, di reclusione, di cura.

E tuttavia la casa è il sogno ed il bisogno, e per l’Italia è stata la rinascita, la maniera di mutare in forza la tragedia dei bombardamenti. Ma la casa è stata anche, nell’Italia del benessere, l’assedio della bruttezza, la casa dei geometri e dei muratori con la complicità degli ingegneri che non misurano la Terra come voleva Platone, non hanno più nulla dei genieri del genio, di quei militari cioè che distruggevano e poi ricostruivano, ma in Italia si ingegnano soltanto ad aggirare le leggi per allargare, sopraelevare, condonare.

Non ci può più essere un piano-casa italiano senza una legge che promuova e protegga l’investimento estetico: non solo edifici che funzionano, ma anche edifici che affascinano, seducono, incantano. Non solo case sicure, a prova d’umidità, ma anche case belle, dentro e fuori, case per la poesia del ritorno. Anche se...

È vero che «bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse», ma noi siamo che certi che molto presto il povero Ulisse si sentì prigioniero della tela di Penelope in quella casa-reggia che finalmente lo proteggeva ma gli riduceva l’anima. E, se non ripartì per mare, certo sognò di farlo e di fuggire dalla casa ché sempre diventa casa di riposo e di ignavia. Ulisse capì subito che, al contrario di quel che aveva creduto sul mare, è in casa che ci si smarrisce, ed è fuori casa che ci si ritrova. A Itaca dunque si perdette, disperatamente rimpiangendo Circe, Polifemo, Nausica e la spiaggia dei Feaci.

Casa

di Italo Calvino

Alzare gli occhi dal libro (leggeva sempre in treno) e ritrovare pezzo per pezzo il paesaggio - il muro, il fico, la noria, le canne, la scogliera - le cose viste da sempre di cui soltanto ora, per esserne stato lontano, s’accorgeva. Sapeva già tutto a memoria: eppure continuava a cercare di far nuove scoperte, così di scappata, un occhio sul libro l’altro fuori dal finestrino, ed era ormai sempre una verifica di osservazioni, sempre le stesse.

Però ogni volta c’era qualcosa che gli interrompeva il piacere di quest’esercizio e lo faceva tornare alle righe del libro, un fastidio che non sapeva bene neanche lui. Erano le case: tutti questi nuovi fabbricati che tiravano su, casamenti cittadini di sei otto piani, a biancheggiare massicci come barriere di rincalzo al franante digradare della costa, affacciando più finestre e balconi che potevano verso mare.

Il testo del Sillabario di Italo Calvino è tratto da La speculazione edilizia (Mondadori). Franco La Cecla insegna Antropologia all’Università San Raffaele di Milano. Ha scritto Contro l’architettura (Bollati Boringhieri). Italo Insolera, urbanista, è autore del notissimo Roma moderna (Einaudi)

"Venerdì (in consiglio dei ministri, ndr) faremo il provvedimento" sul piano casa che avrà "effetti straordinari" sull’edilizia ma non permetterà abusi. Lo ha detto ieri Berlusconi passeggiando per Roma. Il piano straordinario per la casa allo studio da parte del governo servirà a "dare a chi ha una casa e nel frattempo ha ampliato la famiglia la possibilità di aggiungere una stanza, due stanze o dei bagni con servizi annessi alla villa esistente".

"Saranno le singole Regioni - ha aggiunto il premier - che dovranno valutarlo: serve per smuovere l'economia e in particolare l'edilizia da sempre ferma e impastoiata da mille burocratismi".

Ma non ci saranno rischi di abusi edilizi? "No - ha risposto Berlusconi - perchè tutto quello che si farà è in aderenza e in continuazione di case esistenti, quindi nelle zone previste dal piano regolatore e con una vidimazione sotto responsabilità dei progettisti". Quanto agli effetti che il piano avrà sull'economia e sull'edilizia, il Cavaliere è apparso ottimista: "A sentire i responsabili del settore e i costruttori potrà avere effetti straordinari". Il piano, anticipato ieri prevede nuovi alloggi per giovani coppie, anziani, immigrati regolari, studenti. Il piano, concordato con le Regioni, prevede 550 milioni per l'edilizia popolare. Le abitazioni saranno date in affitto con diritto di riscatto.

I primi interventi prevedono la costruzione di circa 5.000-6.000 alloggi. È previsto un aumento delle cubature, pari al 20%, delle costruzioni esistenti. E la possibilità di abbattere edifici vecchi (realizzati prima del 1989), non sottoposti a tutela, per costruirne nuovi con il 30% di cubatura in più. Questi interventi dovranno rispettare le norme sulla tutela dei beni culturali e paesaggistici e non potranno riguardare edifici abusivi. Sono previsti sconti fiscali.

Critiche da Pd e Legambiente. "Sembra di tornare alle "Mani sulla città" di Francesco Rosi, al ricordo di come, in barba a qualsiasi norma, Piano o Regolamento edilizio, negli anni '60 in Italia, speculatori senza scrupoli hanno potuto ampliare, demolire, ricostruire edifici brutti e insicuri". Lo afferma in una nota Legambiente. "Sono pagine di storia del nostro Paese che hanno fatto nascere edifici e periferie squallide, dove l'edilizia ha creato ricchezza solo per gli speculatori e case invivibili".

"Aggiungi una stanza a casa tua". Passeggiando per Roma il premier annuncia che venerdì il governo approverà il piano-casa. Si potrà "ampliare" l’abitazione di proprietà. Critiche da Pd

e Legambiente.

C'è una parte di Stato che ha in cima alla propria agenda non la cementificazione ma le demolizioni. È quella rappresentata dalla Procura della Repubblica di Napoli. Il pool antiabusivismo è guidato dal procuratore aggiunto Aldo De Chiara, un magistrato che ai reati ambientali ha dedicato l'intera carriera, sin da quando era giovane pretore negli anni Settanta e Ottanta, e che nel 2008 è stato insignito anche del Premio Elsa Morante per l'impegno civile. Dice: "Il nostro compito è far rispettare la legge, e l'abusivismo edilizio è un reato e va perseguito ".

A Ischia il procuratore aggiunto e il suo sostituto Antonio D'Alessio hanno trovato forse anche più di quanto immaginassero. Abusi edilizi in ognuno dei sei comuni dell'isola. Una infinità quelli sanzionati, per per almeno un migliaio si è arrivati alle sentenze di demolizione che ora hanno superato tutti i gradi di giudizio e resistito a ogni forma di ricorso. In pratica le case debbono andare giù, e se il consiglio dei ministri, come sollecitano i sindaci, non farà un provvedimento ad hoc, le ruspe potrebbero cominciare a fare il loro lavoro da un giorno all'altro. "La politica segue il suo percorso, ed è giusto che sia così — dice De Chiara —. Ma noi seguiamo il nostro, che prevede il rispetto e l'applicazione delle leggi in vigore e delle sentenze emesse in virtù di queste leggi".

Sui numeri c'è ancora un po' di confusione. Il sindaco di Lacco Ameno (uno dei Comuni di Ischia), Tuta Irace, parla di "circa diecimila ordini giudiziali di demolizione", mentre De Chiara ritiene che la cifra sia di gran lunga inferiore: "Credo che siamo nell'ordine delle centinaia, forse un migliaio", dice.

Si tratta in parte di abitazioni i cui proprietari non hanno usufruito dell'ultimo condono, ma soprattutto di case costruite in zone protette, e per questo non condonabili. "Lo scempio a Ischia è vastissimo", dice De Chiara. Ma il sindaco di Lacco Ameno pone un'altra questione: "Le demolizioni riguarderanno le prime case, in maggior parte di cittadini disperati, in particolare di giovani famiglie con figli in tenera età, prive di altro alloggio, che hanno realizzato con duri sacrifici la loro prima abitazione. Non si tratta di speculazioni edilizie".

Le sentenze giudiziarie sono arrivate però a ben altra conclusione, e ora tocca alla Procura fare entrare in azione le ruspe. Potrà farlo coinvolgendo il genio civile o rivolgendosi a ditte specializzate. Teoricamente potrebbero provvedere anche i Comuni, e infatti pochi giorni fa a Ercolano è stata proprio l'amministrazione locale a far eseguire la sentenza di abbattimento di un immobile abusivo. Ma a Ischia è difficile che ciò accada: i sindaci sono compatti nell'opporsi alle demolizioni. Temono problemi di ordine pubblico e soprattutto temono di perdere popolarità e consensi. Perciò hanno scritto a Berlusconi, nella speranza che la soluzione gliela trovi lui".

''Dobbiamo approfondire perchè stiamo parlando di un'indicazione quadro che daremo alle Regioni perchè sulla casa la legge devono farla le Regioni''. Lo ha detto il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in merito all’annunciato provvedimento del governo di aumento delle cubature edilizie di un 20/30%. Berlusconi ha inoltre spiegato:''chi ha una casa potrà ampliarla senza far perdere valore e rendendola più bella. Sembra più logico che se uno fa un ampliamento perchè ha bisogno, magari perchè gli è nato un nipotino, potrà farlo e non perderà il valore della casa, anzi lo accrescerà ''.

Il ministro agli affari regionali, Raffaele Fitto, in un’intervista a Il Messaggero ribadisce che “ovviamente il testo verrà sottoposto ad un confronto con le regioni proprio per renderlo compatibile con le normative locali ed evitare che venga svuotato dalle leggi regionali”.

Il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, ha sottolineato di aver “già affermato che mi preoccupa la politica degli annunci e mi preoccuperebbe ancor più se si facesse la scelta grave delle deregolazioni invece di seri percorsi di semplificazione, che sono necessari". Errani aggiunge: "trovo gravemente sbagliato il metodo. Se si vuole una vera politica della casa, anche per rispondere alla crisi economica, si azzeri questo 'piano segretò, come è stato definito, si rimetta il treno sui giusti binari, si riparta da un corretto rapporto istituzionale con regioni ed enti locali, titolari della materià'.

È una forma surrettizia di condono, “una ferita al territorio", afferma in un'intervista a 'Repubblicà Piero Marrazzo, presidente della Regione Lazio. "È l'idea di fondo che è sbagliata - ha proseguito Marrazzo -. L'emergenza alloggi non si fronteggia solo con l'aumento di cubature, ma attraverso un processo".

Anche per il presidente della Toscana, Claudio Martini, ''il piano annunciato dal Governo è un condono preventivo e camuffato”, quello che serve è un piano nazionale casa. ''Anche le assicurazioni date contro una crescita dell'abusivismo sono ridicole. È bene che si sappia - ha aggiunto Martini - che per i piccoli abusi dettati da esigenze reali esistono già normative regionali di sanatoria. Non c'è quindi alcun bisogno di nuove deregulation”. Occorre pertanto aprire un tavolo tra Governo e Regioni “per definire contenuti, obiettivi e risorse. Le Regioni sono pronte a contribuire e a lavorare per questo obiettivò'.

Per il presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo, il provvedimento. ''appare frutto di improvvisazione e comunque cosi' come segnalato faciliterebbe molto l'abusivismo e poco l'efficacia di un intervento concreto che solo le Regioni da tempo stanno attuando sui diversi territori regionali”. Secondo De Filippo il Governo “farebbe meglio ad abbandonare la strada dei tagli ai trasferimenti alle Regioni e agli Enti Locali, se realmente vuole sostenere il settore. In mancanza di adeguate risorse anche le politiche delle Regioni e degli Enti Locali in materia di edilizia pubblica e scolastica rischiano di essere del tutto evanescenti''.

Il presidente della Regione Marche, Gian Mario Spacca, afferma di voler vedere prima i contenuti del provvedimento e ribadisce: ''qualunque normativa sull'edilizia e il territorio non potrà prescindere da un ruolo attivo di Comuni, Province e Regioni. Quello che ci aspettiamo è che l'intervento del Governo sia compatibile e concordato con questi livelli di governò'.

Anche il il presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, sostiene che ''prima di dare un qualsiasi giudizio sul piano del governo attendiamo di conoscere i dettagli”. ''Sulla base delle notizie di stampa, che parlano della possibilità di aumento delle cubature con procedure poco chiare per consentire alle giovani coppie di avere un proprio tetto mi sento di dire però che si può raggiungere meglio l'obiettivo con incentivi reali come quelli che la Calabria ha messo a disposizione e senza cambiare le regolè'.

Mentre il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, dichiara che ''si può partire anche prima dell'estate. Anzi, si deve partire subitò'. Roberto Formigoni, in un'intervista a Il Tempo, sottolinea che ''l'edilizia è un settore moltiplicatorè', non solo ''direttamente ma anche sull'indottò'. E poi le ristrutturazioni rendono le città più belle quindi ''aiutare l'edilizia significa rimettere in modo il paesè'. Formigoni spiega che ''proprio perchè c'è la crisi'' gli investimenti in borsa non rendono. La casa, invece, ''è quanto di più caro hanno gli italiani'' e ''investire sulla propria casa significa - ricorda il presidente della regione Lombardia - investire sul proprio benè'. Formigoni inoltre afferma che non ci sarà un criterio unico, perchè la possibilità di costruire cambierà da zona a zona, anche se il 20% di cubatura in più è ''una soglia media giusta'. E non ci sarà, assicura, nessun lassismo da parte delle regioni: ''Il testo del governo definirà la cornice generale, offrirà alle regioni la possibilità di decidere. Non c'è alcuna imposizionè'. In Lombardia, annuncia, ''avremo delle regole molto rigide, ci saranno controlli molto intensi e chi sbaglierà -garantisce Formigoni- sarà pesantemente bastonatò'.

Nessuno ''scempio” ambientale, nessuna ''violazione”, sostiene invece Giarcarlo Galan, presidente della regione Veneto: ''ci limitiamo a sveltire la burocrazia” e a rimettere in moto il sistema economico. Lo dice Galan in un'intervista al Giornale, respingendo ogni critica al piano: ''stiamo parlando di un progetto che riguarda il patrimonio edilizio esistente, senza contare che è un provvedimento a termine, che durerà un anno, al più tutto il 2010, e limitatamente agli edifici del 1989''. Galan esorta gli altri presidenti delle regioni a fare altrettanto, a ''far decollare questa proposta”. ''In tanti edifici - aggiunge Galan - c'è dispersione energetica, non si utilizzano fonti alternative. Ecco l'indotto dell'edilizia: non riparte solo il mattone ma anche le tecnologie collegate”.

Il piano casa che si appresta a predisporre il Governo è un contributo concreto per uscire dalla crisi economica, che non si può superare spendendo solo parole. Lo dice il portavoce di palazzo Chigi e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti:"Questo –spiega Bonaiuti- è un progetto che ha due obiettivi: il primo a lungo termine che è tutto del nostro Governo, di eliminare le burocrazie e le carte bollate, la semplificazione, l'uscita dai coni di bottiglia della burocrazia; e l'altro è un discorso più generale che riguarda la crisi in corso e il far lavorare tutte quelle piccole e medie imprese che generano occupazione nel settore edilizio e rientra in quel progetto per cui dalla crisi si esce non con le grandi parolone della sinistra ma con procedimenti concreti, precisi, netti, che danno lavoro alle persone"."Ma perchè -si chiede Bonaiuti- vedere sempre questa volontà di cementificare? Non si tratta di questo, si tratta, con molta semplicità, di ricordare che l'80 per cento dell'occupazione è dato dalle piccole e medie imprese. Quindi vanno bene i grandi piani –siamo stati noi i primi a fare il piano per le grandi opere- però occorre anche rimettere in moto tutta quella miriade di piccole e medie imprese artigiane di poche persone, magari familiari, che si diano da fare con tutto quell'indotto che è piccolo nei singoli casi ma che moltiplicato per 108 Province e 20 Regioni produce un moltiplicatore impressionante". Il meccanismo di aumento delle cubature sarà subordinato a vincoli ambientali precisi “stabiliti dalle Regioni e dai piani regolatori comunali e quindi non si potranno prestare a speculazioni". Bonaiuti è fiducioso su quello che sarà l'atteggiamento delle Regioni: "Quando si va ad un tavolo e si comincia a parlare tutti dimostrano un certo senso di responsabilità: quando si è incominciato a discutere di ammortizzatori tutti escludevano che le Regioni potessero trovare un accordo con il Governo invece poi alla fine l'accordo per quegli otto-nove miliardi di ammortizzatori sociali in deroga sono stati trovati. Le Regioni di destra e di sinistra hanno fatto tutte imparzialmente il proprio dovere ed espletato il proprio senso di responsabilità. Quindi credo che un accordo si potrà trovare".

Scettico in un'intervista a Repubblica il presidente della Sicilia Raffaele Lombardo: "non sono pregiudizialmente ostile, ma ho delle riservè'. ''La Sicilia -ha riferito Lombardo- ha sofferto a lungo la piaga dell'abusivismo, stiamo attenti con le nuove cubature. L'impatto ambientale deve essere compensato da norme di risparmio energetico come quelle che incoraggiano l'uso dei pannelli solari. Ma mi interrogo sui reali benefici economici di questo progetto. in Sicilia, con i consumi depressi non so quante famiglie possano spendere 150mila euro per allargare la propria abitazione".

''Siamo consapevoli- ha aggiunto la presidente della Regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti - delle esigenze dei cittadini, soprattutto quelli a più basso reddito, per interventi di ampliamento delle proprie abitazioni. Come siamo consapevoli che il settore dell'edilizia può contribuire positivamente alla riprese economica. E siamo anche favorevoli, avendoli chieste noi per primi, ad interventi di semplificazione delle norme. Insomma, si tratta di tante buone ragioni, che però non possono essere un pretesto per dare una spallata al sistema di regolè'.

Lorenzetti, che è coordinatrice per le Regioni proprio per le questioni della casa, spiega che “la cosa più saggia da fare ora è quella di fermare tutto e avviare una seria discussione tra Governo, Regioni e Autonomie locali''.

Per Maria Rita Lorenzetti, ''le rassicurazioni del ministro per gli Affari regionali, Raffaele Fitto, cercano di sminuire la portata di quanto annunciato, con forte effetto mediatico, dal premier Berlusconi. Resta il fatto che si è trattata di un annuncio improvviso, confuso e senza che di ciò si sia mai discusso con le Regioni ed il sistema delle Autonomie locali''. ''Tutto ciò - ha osservato la Lorenzetti - desta non solo sconcerto, ma grande preoccupazione, visto che per mesi Governo e Regioni hanno discusso del Piano casa, senza che mai fossero emerse le proposte che sono state oggetto delle affermazioni del premier''.

Da Regioni.it, periodico telematico a carattere informativo plurisettimanale N. 1323, lunedì 9 marzo 2009

Seoul, distretto di Yongsan, poco dopo l'alba di un mese fa. Una quarantina di persone occupa il tetto di un edificio dismesso per opporsi a un piano di riqualificazione urbana che toglierebbe loro casa e attività commerciali senza adeguate compensazioni. Con sé i cittadini in protesta hanno molotov e materiale infiammabile. La polizia lo sa, ma interviene lo stesso calando sul tetto, tramite una gru, i suoi uomini in tenuta antisommossa dentro un container. Lo scontro è immediato, volano manganellate, gli squatter si difendono con bombolette di pittura spray, qualcuno appicca il fuoco, le fiamme divampano e scoppia l'inferno. Sei i morti, cinque squatter e un poliziotto. E' il bilancio più tragico che si ricordi negli ultimi anni a Seoul in uno scontro tra polizia e manifestanti. Nemmeno nell'ondata di manifestazioni di piazza del luglio scorso, quando i sudcoreani scesero per le strade in centinaia di migliaia contro il presidente Lee Myung-bak e la sua decisione di riprendere le importazioni di carne americana, c'era scappato il morto.

L'episodio ha riportato a galla le critiche alla polizia per i suoi metodi brutali e all'atteggiamento "da imperatore", come dicono i suoi detrattori, del presidente Lee nella gestione del potere. Un mese dopo "la tragedia di Yongsan", come ormai tutti chiamano il drammatico episodio del 20 gennaio scorso, le polemiche continuano. Le accuse contro le forze dell'ordine sono volate subito, sia da parte dei pariti dell'opposizione che da parte delle organizzazioni di cittadini, che fin dal giorno dopo gli scontri hanno cominciato a organizzare marce e fiaccolate per chiedere chiarezza e giustizia, a cominciare dalla testa del capo della polizia di Seoul.

Ad autorizzare l'azione di "sgombero" degli squatter che occupavano l'edificio è stato infatti Kim Seok-ki, capo della polizia della capitale sudcoreana ma anche fresco di nomina a capo della polizia nazionale.

Il presidente Lee, appena due giorni prima, aveva presentato con orgoglio il nuovo ufficiale, chiamato a sostituire quello precedente cacciato proprio perché sotto accusa per i metodi brutali usati dai suoi uomini contro i manifestanti nel luglio scorso. Una storia che si ripete, perfettamente in linea con la politica della "tolleranza zero" sbandierata da Lee.

Ci sono volute tre settimane prima che Kim, strenuamente difeso dal governo nonostante fosse ormai al centro di una vera e propria bufera, lasciasse il suo posto e rinunciasse anche al nuovo incarico. Alla fine il presidente Lee ha sacrificato il capro espiatorio, sperando così di sopire la rabbia dell'opinione pubblica.

"Me ne vado assumendomi la responsabilità morale di ciò che è accaduto", ha fatto sapere Kim annunciando le sue dimissioni. Un gesto "per evitare di alimentare ulteriormente le polemiche a danno del governo, alle prese con la crisi economica". Ma, ha aggiunto, non ha nulla da recriminare contro i suoi uomini, che hanno agito correttamente.

Era il massimo che potevano sperare i familiari delle vittime e le migliaia di persone che con loro scendono quasi ogni giorno in piazza in segno di protesta. Dovranno accontentarsi, dato che i risultati dell'indagine condotta nel frattempo dalla procura, pur giudicando "eccessivi" i metodi della polizia, hanno sollevato in toto le forze dell'ordine da qualsiasi responsabilità legale, e incriminato una decina di cittadini sopravvissuti al rogo come colpevoli per aver provocato l'incendio.

Un verdetto che ha lasciato scioccata e incredula l'opinione pubblica, non solo perché l'intervento della polizia aveva delle premesse dubbie - come il fatto, per esempio, che gli uomini in tenuta antisommossa sono entrati in azione appena 24 ore dopo l'inizio del sit-in, senza lasciare alcuno spazio al dialogo e ai tentativi di concertazione con gli squatter-, ma anche perché sembra che gli investigatori abbiano trascurato una serie di elementi importanti. A cominciare dalla presenza di guardie di sicurezza private, ingaggiate dalla polizia per supportare l'operazione, le quali, secondo alcuni testimoni, avrebbero appiccato il fuoco al terzo piano dell'edificio per riempire di fumo il tetto.

Le forze dell'ordine, che inizialmente avevano negato di aver armato contractors, smascherate dalle intercettazioni telefoniche hanno dovuto infine ammettere che sì, le guardie private c'erano ed erano state chiamate appositamente. Gli investigatori, invece, pur avendo condannato alcune di queste guardie private per attività illegali, hanno negato che vi fosse un legame tra loro e la polizia. La loro presenza nelle aree soggette a piani di riqualificazione come Yongsan, del resto, non è nuova.

E' noto che le compagnie di demolizione e quelle dei costruttori assoldano "scagnozzi" privati per minacciare gli abitanti e i negozianti che non vogliono andarsene.

Per la maggior parte di loro significa lasciare le proprie attività commerciali a fronte di risarcimenti poco più che simbolici, pari a tre mesi di guadagno, come vuole la regolamentazione nazionale in proposito. E' il caso, per esempio, dei quaranta asserragliati in cima all'edificio. Molti di loro sono negozianti della zona che, una volta costretti a chiudere bottega e a trasferirsi, rischiano di rimanere senza lavoro. Parecchie sono le denunce di intimidazioni, a volte anche violente, a carico dei contractors.

Ma i dubbi sulla validità delle indagini sono sorti ancor prima che queste iniziassero, quando Lee ha rilasciato dichiarazioni che già preventivamente assolvevano l'operato della polizia, quasi a suggerire agli investigatori una direzione da seguire. I partiti dell'opposizione - che per la prima volta dopo 22 anni hanno creato un fronte anti-governativo insieme alle associazioni di cittadini, era dall'87 che non accadeva - chiedono che sia aperta un'inchiesta indipendente.

Il governo sperava che il sacrificio di Kim sarebbe stato sufficiente a far considerare l'episodio archiviato, ma oggi si trova invece a fare i conti con la goffaggine dei suoi funzionari. Nei giorni scorsi un parlamentare del partito democratico ha reso pubblico un messaggio di posta elettronica spedito da un membro dell'ufficio delle relazioni pubbliche del governo all'Agenzia nazionale di polizia. Nel messaggio c'era un consiglio, o meglio, una direttiva precisa: utilizzare il caso di un presunto serial killer arrestato nella provincia di Gyeonggi per deviare l'attenzione dell'opinione pubblica e dei mezzi d'informazione dalla bufera che si è scatenata dopo i fatti di Yongsan.

Detto, fatto: la polizia, in barba ai diritti umani del presunto omicida, che avrebbe ucciso una donna e sua figlia, ne ha mostrato il volto ai fotografi, dando in pasto il mostro alla stampa. Naturalmente il governo ha subito rigettato le accuse "infamanti", salvo poi dover ammettere che la direttiva è effettivamente partita dall'ufficio governativo, ma "si è trattato di un'iniziativa privata di un funzionario".

Un tentativo disperato, quello del presidente Lee e della sua amministrazione, di risollevare la reputazione e il consenso, ormai in discesa inarrestabile mentre la crisi avanza e l'occupazione è in caduta libera, a colpi di diecimila posti di lavoro in meno al mese.

Quando questo pezzo va in stampa l’Italia ha 109 province e 87 aeroporti. Elenchiamo con la cautela del dubbio, le une e gli altri aumentano ogni piè sospinto, ogni volere politico. Poi ci sono province grandi come un pezzetto di terra e aeroporti dove non atterra nessuno. Ci occuperemo di questi.

Ogni comunità che si rispetti deve avere un municipio, una scuola, un campanile e un aeroporto. È un vanto per i politici locali, una prova di forza di un territorio, una promessa elettorale, un favore (c’è quel ministro che si è fatto lo scalo su misura, a casa sua: è Scajola, e su Albenga piove un milione di euro l’anno per il piccolo aeroporto). Una pigra resa in un Paese che mortifica i trasferimenti su rotaie: per andare da Roma a Milano bastano 4 ore, lo stesso tempo che serve ai residenti e ai turisti per raggiungere Siena dall’aeroporto Galileo Galilei di Pisa, il maggiore della Toscana. Infatti Siena vuole ingrandire il suo aeroporto.

È un fatto anzitutto matematico: un aeroporto, anche il più piccolo, costa quattro milioni di euro. La soglia che permette di ammortizzare questo costo fisso di gestione è di 40 mila movimenti aerei l’anno. Quantità raggiunta da appena dieci-dodici scali italiani. Conto che non spaventa i toscani, terra di rivalità, che provano a sostituire i campanili con le torri di controllo. Firenze, una delle città più conosciute e visitate del mondo, può accettare che lo scalo principale sia a Pisa? Il potere politico può accettare che di là dall’Appennino l’altra capitale "rossa", Bologna, abbia a Borgo Panigale cotanto aeroporto? Sia mai. Così da anni si mercanteggiano quei metri di pista che mancano per consentire un reale sviluppo internazionale al suo aeroporto di Peretola. "Serve la pista di rullaggio", si è detto per anni, per consentire agli aerei maggiori per stazza e capienza di poter decollare. Adesso sembrano bastare poche centinaia di metri. Ma dove, se la pista si conclude a ridosso dell’autostrada (e già una volta un aereo finì in mezzo alle macchine)? È tema di campagna elettorale, visto che si vota per eleggere il sindaco: "Giriamo la pista", dice quel candidato, "e facciamola parallela alla strada". "Meglio in diagonale", risponde l’altro. Meglio Pisa, direbbe il buon senso. Dove il decollo è verso il mare, quindi a minor impatto sugli abitanti. E dove i passeggeri sono quattro milioni l’anno (il doppio rispetto a Firenze) e ne fanno il nono aeroporto italiano. Di una logica sinergia si parla da anni, invano.

Sessanta chilometri più a sud c’è Siena, c’è il Monte dei Paschi che vuole uno scalo di rango, mica quello scherzo di Ampugnano, che nel 2008 ha mosso 5.200 persone, dati di Assaeroporti: in media, 14 persone al giorno. La pista c’è, 1.340 metri, i soldi anche e Siena, in tutti i sensi, è un caso scuola: per la voglia di un aeroporto proprio - anche contro la volontà politica, visto che la Regione esclude questa possibilità - e per la novità di un intervento da subito privato. Volete lo scalo? Pagate. Non c’è calcolo collettivo dietro questa visione, ma se si fosse ragionato così, non ci sarebbero adesso 87 aeroporti in Italia. E non bisognerebbe tenere un centralinista all’aeroporto di Grosseto che alla domanda: scusi, che voli ci sono oggi, è costretto a rispondere: "D’inverno non si vola".

Nemmeno a Salerno si vola. Appena cinque mesi fa c’era anche la fanfara per il primo lancio commerciale, Costa d’Amalfi-Malpensa. A 50 chilometri di distanza c’è Capodichino, ma questo non ha spaventato gli investitori pubblici: 10 milioni di euro per riqualificare uno scalo in disuso da decenni. E che forse lo sarà anche per i prossimi, per il totale disaccordo degli attori parte in causa: la Gan (Global aviation network), società di Fiumicino che organizzava i voli di linea, contesta alla Orion Air, compagnia low cost spagnola alla quale la Gan si è rivolta per il noleggio degli aerei, i continui disservizi e ritardi, che avrebbero stancato in fretta i passeggeri. E rimprovera ai politici locali, che tramite un consorzio partecipano alla gestione, di essere venuti meno alle promesse di incentivi fiscali e "di non aver speso nemmeno un euro per pubblicizzare le nuove tratte". Succede.

Alle sei del pomeriggio l’ingresso dell’aeroporto di Ancona è lugubre, una luce fioca annuncia una presenza nel bar al centro della grande sala. "Qui chiudono tutto, guardi sul blog del comitato per l’aeroporto". Il blog si è rianimato, in verità, perché proprio lunedì la Cai ha deciso di assicurare almeno i voli per Roma, mentre sono perduti i collegamenti con Milano, cari agli imprenditori marchigiani. Il Raffaello Sanzio è da proteggere per la popolazione e da blindare per gli amministratori del territorio: rinunciarvi è vissuto come un ridimensionamento, una testimonianza di sudditanza. Meglio tenersi lo scalo che alle sei di sera si spegne, fine dei programmi, lo schermo del tabellone delle partenze scuro come un televisore spento. Meglio vivere coi debiti: un milione e settecento mila euro il buco di gestione. Per favore, rimediate e pagate, viene detto agli Enti locali da Cai, la nuova compagnia che deve fare bilanci veri (e così lo Stato è comprensivo due volte: accollandosi la bad company e foraggiando queste pretese per far tacere i malumori locali). Altrimenti si chiude e sarebbe perfino un finale logico in questa strana storia dove per anni, ovunque, non è stato importante fare i conti, ma esserci. Perché, per dirla con l’ingegner Domenico Di Paola, presidente di Assaeroporti e di Aeroporti di Puglia, "l’aeroporto è uno status per il territorio e per i politici locali". E lui incarna ciò che dice, se è vero che Aeroporti di Puglia ha speso 10 milioni per Foggia, dove transitano 8.000 passeggeri l’anno. Forse perché nella stessa regione si vola da Brindisi, Bari, Taranto, Lecce e nessuno accetta di declassare lo scalo. Insomma, la solita polverizzazione italiana, "situazione unica in Europa", lamentò l’ex ministro dei trasporti Alessandro Bianchi. Che ricevette la risposta dell’Aopa, un parasindacato che tutela l’aviazione in tutte le forme: "Lo sa che questi scali sono per gli Enti locali un serbatoio di posti di lavoro per raccomandati e amici?". Citava due esempi polari: Cuneo, vizioso, con 85 mila passeggeri l’anno, quindi circa 230 al giorno, che impiega 70 dipendenti e l’aeroporto di Saint Tropez, virtuoso, che serve la rinomata Costa Azzurra ed è gestito da 10 addetti.

La mammella è spremuta, Alitalia non esiste più, nella fusione con AirOne si sono persi 80 aerei e circa 640 voli, "assistenziali" per queste tratte diseconomiche, collegamenti che alimentavano la sopravvivenza dei piccoli scali ma che il mercato non chiedeva. Per questo Ancona è in crisi, e lo è Parma, sito in una linea immaginaria che da Milano a Pescara, in poco più di 500 chilometri, allinea 9 aeroporti. Un modello che rattrappisce il sistema, che non si sviluppa ma costa, e il prezzo lo paga il paese: Ancona nel 2007 è stato sovvenzionato con 27 milioni di euro, Pescara - un’ora più a sud - ne ha succhiati altri 7. Vito Riggio, presidente dell’Ente nazionale aviazione civile (Enac), che regolamenta il trasporto aereo, accusa: "In Germania hanno contratto i voli sotto i 400 km per liberare spazio aereo e sviluppare gli aeroporti principali sul medio e lungo raggio. Noi intasiamo i cieli con voli da 200 km". Cai aiuterà giocoforza la razionalizzazione, o assisterà all’invasione delle compagnie low cost, che non hanno oboli da pagare. L’Inghilterra ha inventato l’aviazione e ospita centinaia di campi di atterraggio. Ma gli aeroporti veri e propri si contano sulle dita di una mano. E servono tutto il paese. Ma è un altro paese.

Nota: su queste pagine anche la descrizione più dettagliata e contestualizzata di un caso macroscopico, quello dell'Hub Virtuale (sic) di Montichiari (f.b.)

Signore e signori, ecco a voi la bolla del mattone. Una bolla all'italiana. Piena di furbetti, furbastri, furboni. Ci sono manager, banchieri, grandi imprenditori, politici, uomini delle istituzioni. Tutti a scambiarsi case e palazzi. I pezzi migliori, naturalmente. Sfilati dal patrimonio di società quotate in Borsa con migliaia di piccoli azionisti o dal portafoglio dei fondi immobiliari. Facile, quando si gioca in casa. Facile, quando lo speculatore di turno si trova al crocevia di grandi affari e non resiste alla tentazione di prendersi qualcosa per sé. E i soldi? No problem. C'è sempre qualcuno pronto a far credito ai furboni d'Italia. Per loro le banche sono sempre aperte.

E così, in un'apoteosi del conflitto d'interessi, si scopre che una scelta compagnia di privilegiati è riuscita a cavalcare alla grande gli anni del boom accumulando patrimoni multimilionari. Ci sono case di gran pregio nei centri storici di Milano e Roma che passano di mano più volte nel giro di pochi mesi. Attici di lusso ceduti a prezzi stracciati. Immobili che rimbalzano da un proprietario all'altro a valori sempre crescenti. E a ogni passaggio il venditore intasca la sua bella plusvalenza.

Tutto scritto. Tutto nero su bianco nei documenti ufficiali che 'L'espresso' ha raccolto. Qui non c'entrano i furbetti doc, da Stefano Ricucci a Danilo Coppola. Quelli hanno ballato una stagione soltanto. In questa storia, invece, troviamo marchi prestigiosi come la Pirelli Real Estate, la più grande società immobiliare italiana controllata dalla Pirelli di Marco Tronchetti Provera. Industriali come i Benetton e gli Stefanel. Un manager di lungo corso come Vito Gamberale. E poi gli uomini di punta della filiale italiana della Lehman, la banca d'affari Usa fallita nel settembre scorso. Così, poco alla volta, viene alla luce un complicato network di relazioni affaristiche, alcune davvero sorprendenti.

Affari in autostrada

Partiamo da Padova e dall'Antonveneta. Nel 2004, alla vigilia dell'ondata di cambiamenti che l'avrebbe sconvolta, dall'Opa di Gianpiero Fiorani alle indagini, dalla scalata spagnola all'arrivo del Monte Paschi, la banca patavina decide di vendere il proprio patrimonio immobiliare. Antonveneta allora era controllata da un gruppo di imprenditori, tra cui Giuseppe Stefanel, e poi da Benetton, dagli olandesi di Abn Amro e dal Lloyd Adriatico. Nel dicembre 2004 vengono cedute 160 unità immobiliari in tutta Italia per 140 milioni al gruppo Usa General Electric Real Estate. Appartamenti, negozi e sportelli bancari, ma soprattutto i palazzi di rappresentanza nei centri storici delle città. Ma gli americani di GE rivendono dopo pochi mesi. A chi? Mentre Fiorani e Abn Amro si contendono il controllo della banca, entro l'estate del 2005 il patrimonio approda nei portafogli di Benetton e Stefanel.

A Benetton va il gioiello della collezione: il complesso di negozi e appartamenti all'angolo tra piazza Venezia e via del Corso, a Roma. Mentre Stefanel paga 93,4 milioni di euro per 147 immobili sparsi in tutta Italia (con una plusvalenza per GE di una decina di milioni in sei mesi).

I palazzi di piazza Venezia transitano per una società intestata alla fiduciaria Finnat, che nello stesso giorno stipula il preliminare per vendere al medesimo prezzo (42,2 milioni) alla Piazza Venezia Srl di Gilberto Benetton, amministrata dalla figlia Sabrina (nipote di Luciano e cugina di Alessandro). A rileggerla oggi l'intera operazione appare come una spartizione del patrimonio della banca da parte di due soci autorevoli. C'è solo un palazzo che segue una strada diversa. Prima della vendita in blocco a GE Real Estate, una manina sfila lo stabile di via del Mancino, 50 metri da piazza Venezia a Roma, e lo vende a una società di Vito Gamberale. Ancora una volta si resta dalle parti di Ponzano Veneto.

Il manager in quel periodo era infatti amministratore della principale società del gruppo Benetton: Autostrade. Antonveneta ha finanziato pure l'acquisto del manager di Benetton con un mutuo da 1,5 milioni. Un'operazione che pare in conflitto di interessi, ma Vito Gamberale la difende così: "Benetton non c'entra. Mi ha proposto l'affare il mio architetto e quell'immobile era in condizioni pietose e ho pure dovuto alzare la mia offerta perché c'era un concorrente". Resta il fatto che Gamberale compra bene: 2,1 milioni di euro per un palazzetto di quattro piani per 600 metri quadrati in pieno centro. Dopo la ristrutturazione (costata 3,8 milioni) lo stabile è diventato un residence di lusso. Si chiama Dolce vita e con i suoi 12 appartamentini affittati a 200 euro al giorno vale almeno 10 milioni di euro.

I Benetton comunque hanno fatto un affare ancora migliore: la Piazza Venezia Srl di Gilberto ha comprato nel 2005 per 42,4 milioni il complesso di palazzi più belli dell'Antonveneta a Roma e lo ha ceduto nel 2007 per 57,2 milioni, con una plusvalenza di 15 milioni di euro. Anche gli Stefanel si sono impegnati a guadagnare sul mattone della banca. Di più: grazie agli utili di quelle compravendite immobiliari il gruppo veneto riesce a dare ossigeno ai propri bilanci. Ecco come.

Nel 2007 la società Codone (controllata dalla Finpiave, la holding del gruppo quotato in Borsa) realizza 4,6 milioni di euro di plusvalenze liberandosi dei pezzi meno pregiati, poi passa a vendere le ex sedi prestigiose di Antonveneta. Un palazzo in piazza della Vittoria a Pavia, pagato 3,5 milioni, è stato ceduto a 6,2 milioni. A Genova Stefanel ha incassato 14 milioni contro i 9 sborsati nel 2005. E il meglio deve ancora venire: gli stabili Antonveneta rimasti a Codone vanno da via del Corso a Roma a via Toledo a Napoli (sei piani nella galleria Umberto I), per finire alle strade più belle di Padova, Rovigo, Parma, Vercelli, Bari, Foggia.

A conti fatti, Stefanel ha comprato il patrimonio della banca di cui era socio a debito (96 milioni presi in prestito in buona parte da Areal Bank contro i 16 messi in proprio) e lo ha fatto dando in garanzia gli immobili e gli affitti pagati dall'istituto veneto che in quei palazzi mantiene le sue sedi. Giuseppe Stefanel gioca molte parti in commedia. Il 27 luglio del 2005 entra nel cda di Antonveneta. Quando il 12 agosto compra da GE, paga grazie a un mutuo garantito dai canoni della banca di cui è socio, locatore, e grande debitore, in un tripudio di conflitti di interesse. "Codone ha siglato il preliminare con GE, non con Antonveneta, quando Giuseppe Stefanel non era ancora in cda", si difendono da Ponte di Piave, "e comunque Giuseppe Stefanel dal giugno del 2008 è uscito dalla banca".

I Bianco boys

Anche il più grande operatore immobiliare italiano, la Pirelli Real Estate, non sfugge alla regola dei furbetti del mattone. Dietro il volto abbronzato e charmant di Carlo Puri Negri o quello serio di Marco Tronchetti Provera, in realtà il motore di questa azienda è stato il napoletanissimo Carlo Bianco. Vicepresidente e amministratore del comparto residenziale per anni, Bianco è uscito di scena nella primavera del 2008 quando Pirelli RE, colpita in pieno dalla crisi, ha tagliato molti dei suoi top manager. Negli anni d'oro, però, Bianco ha cavalcato il boom facendo fare grandi affari agli amici. A cominciare dal notaio Antonio Bianchi. Lo studio romano di Bianchi ha stipulato migliaia di atti del gruppo guidato da Tronchetti e Puri Negri. A un certo punto però il notaio (e pubblico ufficiale) si è messo a fare affari in proprio. E già che c'era ha scelto proprio la Pirelli del suo amico Bianco come controparte. Con la società Gemien (intestata a lui e alla moglie) Bianchi ha comprato interi blocchi di appartamenti messi in vendita da Pirelli a prezzi di saldo. Poi i suoi tre figli hanno costituito una società, la Ge.Pa., che ha acquistato in otto atti consecutivi 263 appartamenti, box e negozi di pregio a prezzi stracciati. Per avere un'idea delle condizioni di favore garantite alla società dei figli di Bianchi basta sfogliare l'atto del 6 giugno del 2005: Gepa compra 58 unità immobiliari a Roma per 9,6 milioni. Ci sono ben 15 appartamenti in via Po; due a via del Serafico, zona Laurentina-Eur, cinque appartamenti in via Rubicone, quartiere Trieste, tre appartamenti in Lungotevere Testaccio, più una trentina di box, posti auto, soffitte e cantine. Un affarone, per chi compra. Un po' meno per chi vende. E cioè la Iniziative Immobiliari, che ha Pirelli RE come primo socio con il 30 per cento circa del capitale (più il cinque per cento intestato alla Gpi, la cassaforte di famiglia di Tronchetti e Puri Negri), ma ci sono anche Banca Intesa, Capitalia, Monte Paschi e gli americani di Peabody. Nello stesso periodo Iniziative immobiliari vende un solo appartamento nello stabile di Testaccio a 930 mila euro a un privato e ben 25 immobili di quel tipo a soli 9,6 milioni. I figli di Bianchi spuntano condizioni che appaiono di favore.

Pirelli sostiene che gli immobili sono stati venduti con una plusvalenza del 10 per cento e che comunque quando si vende in blocco si punta a far cassa per rimborsare il debito. Certo i sospetti aumentano quando si scopre che il manager Bianco e il notaio Bianchi sono in società, nella Tigullio srl. Questa società nel 2005 compra un locale commerciale nello stabile di Piazzale delle Belle Arti a Roma (348 metri quadrati più altri 169 di cortile). L'iter di questo immobile è interessante: parte da Iniziative Immobiliari di Pirelli e delle banche, passa alla Rema della famiglia Bianco, che lo cede alla Gepa della famiglia Bianchi e finisce per 1,8 milioni di euro alla Tigullio di Bianco e Bianchi (che ad aprile del 2008 l'hanno ceduta alla famiglia Vulcano).

Molti appartamenti di via delle Belle Arti e del Lungotevere Flaminio, i pezzi più pregiati delle società controllate da Pirelli Re, sono finiti a società e persone di Napoli, legate al giro di Carlo Bianco. Esemplare la storia del superattico con terrazza mozzafiato che guarda il Tevere e San Pietro, dove Bianco alloggia e riceve gli amici quando è a Roma. Grazie a una serie di aumenti di cubatura oggi misura cento metri catastali e la Rema della famiglia Bianco (moglie e figli) lo ha comprato per soli 500 mila euro. Tutto il palazzo apparteneva a una società della galassia Pirelli Re, ma Bianco ha comprato attraverso l'immobiliare Monviso (intestata a una Anstalt del Liechtenstein), rappresentata dal suo amico e socio Giancarlo Riccio.

I conflitti di Lehman

Nei salotti della finanza Gianfranco *** viene descritto come un golden boy. Poco più che quarantenne, origini pugliesi, era il gran capo degli affari immobiliari di Lehman. Nel settembre scorso, quando la banca americana ha fatto crack, è rimasto senza lavoro, ma gli amici scommettono che non avrà problemi a ricollocarsi. Del resto i contatti ad altissimo livello non gli mancano di certo. Negli ultimi anni il giovane banchiere ha seguito da consulente operazioni miliardarie per conto di clienti come le Assicurazioni Generali, Beni Stabili, il gruppo Farina e quello di Giuseppe Statuto, per citarne alcuni. Solo che *** ha sempre amato anche giocare in proprio, e qualche volta i suoi affari personali hanno finito per incrociare quelli dei clienti di Lehman. Prendiamo il caso di un immobile in via Bocchetto, in centro a Milano. Il palazzo proviene dal patrimonio di Diomira, il fondo gestito da Pirelli Real Estate, di cui Lehman ha comprato quote per milioni, oltre a diventarne consulente. Nel 2006 *** partecipa all'acquisto dell'immobile milanese in compagnia del suo amico Aldo Magnoni, il cui fratello Ruggero a quei tempi stava ai vertici europei di Lehman. Nel ruolo di venditore compare una società di Vittorio Farina (amico e cliente di ***).

L'affare vale una ventina di milioni di euro. *** e soci, comunque, non impiegano molto a trovare un acquirente. Giusto poche settimane fa è stata siglata la vendita del palazzo di via Bocchetto alla Polis, società milanese di gestione di fondi immobiliari. È una vendita in famiglia, o quasi: l'azionista di controllo di Polis è la Sopaf, la società quotata in Borsa che fa capo ai fratelli Magnoni. Insomma, a decidere l'acquisto è il consiglio di amministrazione di Polis, ma a finanziare l'operazione alla fine saranno gli investitori terzi che comprano le quote del fondo immobiliare.

Stesso schema per un immobile di gran prestigio nella centralissima piazza Santi Apostoli a Roma. La storia di quel palazzo è a dir poco singolare: insieme ad altri due stabili romani in via Veneto e in via XX Settembre, nel 2005 transita dalla Orione Immobiliare (Pirelli e famiglia Tronchetti) alla Spinoffer di Vittorio Farina con profitti milionari per i venditori. Intorno alla casa di Santi Apostoli si scatena però una vera girandola di operazioni. Nel giro di quattro anni cambia cinque proprietari e nel frattempo il prezzo raddoppia da 38 a 76 milioni. L'ultimo acquirente in ordine di tempo (siamo alla fine del 2007) è il fondo immobiliare Vesta, che fa capo al gruppo Beni Stabili. Che c'entra Lehman? C'entra, eccome. A vendere sono ancora i Magnoni, Aldo e Ruggero. Ma al loro fianco, nella società che porta a termine l'operazione spunta Roberto Banchetti, ovvero il banchiere romano che dopo una lunga carriera in Lehman è stato nominato capo della divisione italiana pochi giorni prima del fallimento. La vendita del palazzo di piazza Santi Apostoli frutta profitti per almeno una decina di milioni. Ma il piatto è ancora più ricco. Oltre 4 milioni di euro vengono versati a non meglio precisati "consulenti", come recita un atto ufficiale. E altri tre milioni di euro risultano pagati a titolo di provvigioni. Niente paura. Alla fine, a saldare il conto, sono gli investitori del fondo Vesta gestito da Beni Stabili.

Non finisce qui. Anche il fondo acquirente era legato a Lehman. La società di gestione di Vesta, infatti, faceva capo per il 10 per cento alla banca Usa fallita qualche mese fa. Ed era guidata da un manager, Terenzio Cugia, che per anni ha lavorato in Lehman. Insieme a Banchetti, Magnoni e ***.

*** A seguito di una istanza di appello al Diritto all’Oblio pervenuta alla redazione di Eddyburg, abbiamo cancellato il riferimento personale per non esporre l'associazione a cause giudiziarie. Restiamo convinti che il diritto di cronaca non debba essere sacrificato e ci adopereremo per trovare un giusto bilanciamento. (Mauro Baioni, presidente pro-tempore dell'associazione).

Sosteneva Eugenio Turri che la bellezza dei centri storici della nostra regione è derivata dalla loro funzione di vetrine nelle quali la nobiltà spendeva i redditi ricavati dalle campagne, esibendoli nei nobili palazzi che fiancheggiano le principali vie cittadine, a partire da Canal Grande a Venezia sino a corso Palladio a Vicenza, corso Cavour a Verona, via XX Settembre a Conegliano e così via. “Ma alla bellezza delle città – scrive sempre Eugenio Turri – corrispondeva allo stesso modo quella delle campagne, perché lo spirito che muoveva la cultura dei signori, anche se non tutti impegnati nello stesso modo, era quella di far produrre i campi attraverso un uso sapiente delle conoscenze agrarie alla cui crescita attendevano esperti prestigiosi e molti degli stessi nobili, appassionati e attenti gestori delle loro possessioni” (E. Turri, La megalopoli padana, 2004).

A testimonianza di quanto fosse ben disegnato il paesaggio agrario veneto dei secoli passati, Turri cita una annotazione dello scrittore settecentesco Charles De Brosse, che affermava non esistere scena più bella o meglio ornata di quella offerta dalla campagna che si estende tra Vicenza e Padova, una terra che “vale forse da sola tutto il viaggio in Italia”.

Di questo paesaggio, patrimonio storico culturale di inestimabile valore ed imprescindibile elemento costitutivo dell’identità veneta, rimangono oggi solo frammenti sparsi, isole circondate e progressivamente sommerse da una inarrestabile alluvione di cemento. “La chiesa romanica – osserva ancora Eugenio Turri – accanto al capannone, il paesaggio dolcissimo dei colli con le ville venete straordinarie testimonianze del passato, offeso dai residences banali, da architetture che nulla hanno attinto dalle meravigliose scuole degli architetti ed artisti veneti”.

In un graffiante articolo pubblicato dal Corriere della Sera del 18 settembre 2004, Gian Antonio Stella, riportando i dati presentati ad un convegno organizzato a Montecchio dall’Accademia Olimpica, denunciava con molta efficacia l’inverosimile consumo di territorio agricolo e la sistematica distruzione di paesaggio e risorse agrarie causati – in particolare nell’area vicentina – dall’allora tanto celebrato modello di sviluppo economico veneto. Nella provincia di Vicenza tra il 1991 ed il 2001 si era registrato un incremento di 52.mila abitanti (dei quali 37.140 stranieri immigrati), a cui era corrisposta una crescita di edilizia residenziale di 56 milioni di metri cubi: per ogni nuovo abitante si erano costruiti oltre 1.070 mc di nuovi fabbricati ed un numero di abitazioni quattro volte superiore a quelle necessarie rispetto all’incremento del numero delle famiglie. Una volumetria complessiva che si può tradurre nell’immagine di un capannone largo 10 metri, alto 10 e lungo 560 chilometri.

In quel decennio la provincia di Vicenza registrava la perdita di oltre 18.mila ettari di terreno agricolo. Una distruzione di risorse dovuta all’entità delle nuove volumetrie residenziali e non, ma anche alla caotica dispersione dei nuovi insediamenti nel territorio periurbano e rurale: in 50 anni, dal 1950 al 2000, a fronte di un incremento del 32 % della popolazione provinciale (da 608.mila a 807.mila abitanti), la superficie urbanizzata era aumentata del 342 %, ovvero di dieci volte tanto (da 8.674 ettari a 28.137 ettari). L’occupazione e impermeabilizzazione dei suoli, un’edilizia incurante dei problemi energetici, il boom dell’auto e del trasporto privato, l’inquinamento indotto, un’economia fondata sulla crescita illimitata dei consumi e sulle logiche dell'usa e getta, facevano sì che l’impronta ecologica di ogni vicentino risultasse pari a 3,9 ettari, ovvero undici volte superiore alla quantità di terreno biologicamente attivo effettivamente disponibile nella provincia di Vicenza (pari a circa 0,33 ettari/abitante).

La situazione di Vicenza non era certo un’eccezione nel panorama della nostra regione ed in particolare nella sua area centrale: un’area che, occupando il 25,7 % del territorio, accoglie il 50,7 % della popolazione ed il 47,2 % della abitazioni (930.mila al censimento del 2001, delle quali ben 80.mila non occupate). Una vera e propria nebulosa insediativa, una metropoli sorta spontaneamente senza alcun disegno ordinatore e senza i servizi e le infrastrutture di una metropoli, caratterizzata dalla ingombrante presenza di capannoni, centri commerciali, lottizzazioni residenziali disseminati senza alcuna logica apparente se non quella del profitto immediato dei proprietari delle aree e con l’avvallo di amministrazioni locali compiacenti, sempre pronte ad approvare varianti e variatine di piano regolatore illudendosi di poter rimpinguare i propri bilanci con le entrate dell’ICI.

Un consumo di territorio talmente abnorme da far sì che lo stesso presidente della Regione, Giancarlo Galan, si sentì in dovere di proclamare alla stampa nella primavera del 2003 : “Basta capannoni!”. Un proclama che, purtroppo, venne smentito dallo stesso Galan un anno e mezzo dopo in un convegno di Forza Italia tenutosi a Cortina.

Nell’aprile 2004 il Consiglio Regionale approva la nuova legge urbanistica, che riprende molte delle novità e degli indirizzi legislativi già in vigore in altre regioni del centro e nord Italia. E’ significativo rileggere le ragioni ed i criteri che – secondo la Relazione al Consiglio presentata dall’allora Presidente della 2.a Commissione, Raffaele Buzzoni – ispiravano i contenuti della nuova legge. Tra questi la necessità di promuovere uno sviluppo sostenibile e durevole, la volontà di tutelare il paesaggio e la qualità degli insediamenti e la presa d’atto che, pur in presenza di un “territorio completamente pianificato”, si era verificata una “sostanziale incapacità di governare e controllare in modo adeguato la pianificazione territoriale” e che si erano “assecondati processi di spontaneismo insediativi, sia residenziale che produttivo” che hanno prodotto “un sistema disordinato che rischia di pregiudicare ogni ulteriore crescita economica”, un processo di disordinata urbanizzazione del territorio riproposto dai vigenti PRG, che “evidenziano una crescita esponenziale di nuove zone residenziali e produttive non accompagnata da una seria e adeguata valutazione del reale fabbisogno e da una attenta verifica dello stato di attuazione delle aree già esistenti”, il tutto connesso all’intenzione dei Comuni di ricavar “maggiori introiti dall’ICI e dagli oneri di urbanizzazione”.

Pur non essendo la migliore delle leggi possibili, la nuova legge urbanistica del Veneto indica alcune importanti finalità prioritarie, in una logica di governance in grado di combinare progetti e programmi con l’effettiva gestione nel tempo delle trasformazioni territoriali, ed introduce nuovi strumenti di piano quali l’articolazione del vecchio PRG in PAT (piano strutturale) e Piani d’intervento, i PATI (piani intercomunali di assetto territoriale), la perequazione, la compensazione urbanistica ed i crediti edilizi, l’obbligatorietà della VAS – Valutazione ambientale strategica. C’era dunque da sperare che la nuova legge urbanistica favorisse l’affermarsi di una svolta radicale nella pianificazione territoriale, condizionando e modificando in positivo lo stesso modello di sviluppo economico e sociale veneto. Purtroppo così non è stato.

L’annuncio della nuova legge e poi le molte proroghe e deroghe concesse prima della sua effettiva entrata in vigore hanno determinato una corsa generalizzata alla presentazione da parte dei Comuni di nuove varianti di PRG, di nuove lottizzazioni e urbanizzazioni. Il nuovo PTRC – Piano Territoriale Regionale di Coordinamento, i cui studi vennero avviati con la “Carta di Asiago” del febbraio 2004 e che dovrebbe recepire le indicazioni della Convenzione Europea del Paesaggio, pur preannunciato nei contenuti da molti documenti preliminari, deve ancora vedere la luce mentre i piani territoriali provinciali ed i PATI, quand’anche orientati ad una maggiore tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e naturale, quasi mai si traducono in una normativa prescrittiva e vincolante e/o in strumenti in grado di conferire effettiva operatività alle previsioni di piano, lasciando troppo ampi margini di discrezionalità ai Comuni, legittimati a continuare – soprattutto sul versante dell’edilizia residenziale – il gioco perverso del sovradimensionamento volumetrico dei propri PAT in funzione di fabbisogni abitativi tanto generici quanto spesso del tutto fantasiosi (anche perché attualmente l’unico vero fabbisogno è quello di case in affitto a canone sociale per le classi economicamente più deboli e per gli immigrati, una domanda abitativa che non trova certo risposta nelle iniziative edilizie della grande speculazione immobiliare).

Nel 2004, l’anno della nuova legge urbanistica, i Comuni del Veneto autorizzano 38 milioni di mc di nuovi capannoni commerciali e 18 milioni di mc di volumetrie residenziali (Benedetta Castiglioni e Viviana Ferrario, ARS n. 114, 2007), superando la media di 40 milioni di mc di nuovi fabbricati realizzati annualmente nel Veneto dal 2001 ad oggi. Un boom edilizio, sorretto soprattutto dalla bolla speculativa che ha caratterizzato la finanza nazionale ed internazionale di questi ultimi anni. Un boom che non ha eguali nel passato e che fa sì che la nostra regione si collochi al primo posto in Italia per l’entità dei volumi di edilizia residenziale e non residenziale annualmente autorizzati con concessione edilizia dai Comuni. Un quadro d’insieme decisamente preoccupante, ben descritto da Tiziano Tempesta dell’Università di Padova, che osserva come le nuove abitazioni costruite dal 2000 al 2004 sono potenzialmente in grado di dare alloggio a circa 600.mila nuovi abitanti: se anche rimanessero costanti gli elevati tassi d’incremento demografico registrati negli ultimi anni per effetto dei nuovi fenomeni migratori, ci vorranno circa 15 anni per utilizzare tutte le case messe in cantiere (Tiziano Tempesta, Agripolis – Legnaro, 2007).

Tutti sembrano convenire sulla necessità di porre un freno alle disastrose conseguenze sociali ed ambientali dei meccanismi della rendita fondiaria e della speculazione immobiliare, meccanismi che non sembrano avere più alcuna diretta relazione con l’effettivo fabbisogno espresso dalla domanda abitativa e dalla produzione industriale. Eppure non c’è amministrazione comunale che non rivendichi la possibilità di consumare quota parte dei residui terreni agricoli ed ambiti naturalistici del proprio territorio per realizzare nuove infrastrutture e consentire nuove urbanizzazioni e lottizzazioni. Una rivendicazione motivata anche dal fatto che – data la sempre maggiore scarsità di risorse finanziarie – non vi sarebbe oggi altro modo di realizzare gli standard urbanistici previsti dai piani regolatori (verde, scuole, nuove strade, centri civici, servizi in generale,…) se non concedendo nuove cubature edificabili ai proprietari dei terreni. E’ la via della cosiddetta “perequazione urbanistica”, ultimo provvidenziale rimedio per i Comuni che – anche negli anni di vacche grasse – si sono limitati a disegnare il verde pubblico sulle carte di piano senza procedere all’acquisizione delle aree e che oggi – dopo le sentenze della Corte Costituzionale che impongono la corresponsione di una indennità per i vincoli finalizzati all’esproprio e che hanno elevato il valore dell’esproprio al valore di mercato – non ritengono che la creazione di nuovi parchi e spazi verdi debba essere una priorità di bilancio.

Certo la “perequazione urbanistica” (consistente di fatto nella concessione di nuove volumetrie edificabili ai proprietari privati in cambio della cessione al Comune di quota parte dei terreni di proprietà) può risultare, a determinate condizioni, uno strumento utile per l’attuazione delle previsioni di piano. Nella visione e nella pratica urbanistica di molti amministratori sembra però prevalere una interpretazione dei meccanismi perequativi quale soluzione taumaturgica di tutti i problemi della pianificazione urbanistica. Non solo. Subordinando l’attuazione degli indirizzi di piano all’iniziativa dei privati, questa interpretazione della perequazione costituisce di fatto un implicito riconoscimento di uno “jus aedificandi” connaturato alla proprietà dei suoli, un diritto che l’ente pubblico potrebbe solo regolamentare ma non negare (anche se in realtà nessuna legge dello stato italiano lo ha mai esplicitamente riconosciuto). E’ quanto ad esempio avvenuto a Padova dove – anticipando la stessa legislazione regionale – con una Variante di PRG (approvata con i voti sia dal centrodestra che dal centrosinistra) si sono trasformati oltre 4,7 milioni di mq di aree destinate a verde pubblico in aree di perequazione, sia pure con indici differenziati, delegando ai privati il progetto delle nuove lottizzazioni ed ottenendone in cambio uno spezzatino di aree di verde pubblico in mezzo o ai margini dei nuovi caseggiati. In realtà la perequazione è un’arma a doppio taglio, destinata a generare il fallimento di ogni politica urbana se il Comune non si pone come soggetto attivo, come protagonista diretto della progettazione e della gestione delle trasformazioni urbane, non limitando la propria funzione a quella di certificatore delle iniziative dei privati. La perequazione non può essere considerata il fine della pianificazione urbanistica, bensì solo come uno tra i possibili strumenti operativi del piano, da applicarsi a specifici comparti urbani e non indiscriminatamente a tutto il territorio, per l’attuazione di un chiaro e condiviso progetto di città pubblica e di infrastrutture ecologiche, così come ad esempio è avvenuto per la formazione di una cintura verde periurbana a Ravenna o per realizzazione di un organico sistema del verde urbano a Jesi e Vercelli. Prioritario deve sempre essere un disegno urbano che ponga l’accento sugli spazi aperti ed i servizi destinati alla vita comunitaria, sulla costruzione di una rete ecologica urbana connessa alle risorse naturalistiche del territorio, ed è in funzione di questo disegno che – situazione per situazione – può essere giudicato utile un accordo perequativo con i privati. Un accordo che, in generale, preveda la salvaguardia integrale degli spazi a più elevata valenza ambientale ed il trasferimento dei “diritti edificatori” concessi in altro ambito urbano (“perequazione ad arcipelago” o compensazione urbanistica), preferibilmente in aree dimesse e/o degradate ove effettuare interventi di recupero e riqualificazione urbanistica ed ambientale.

Purtroppo nella maggior parte delle amministrazioni locali sembra ancora prevalere una logica del giorno per giorno ed una prassi di pura e semplice “ragioneria urbanistica”. Una prassi sganciata da ogni visione strategica a cui continua a corrispondere una sostanziale incapacità di pianificazione e di governo a più ampia scala da parte degli enti sovraordinati. Una prassi che – con processi di tipo molecolare, ma non per questo meno dirompenti – prosegue imperturbabile nell’opera di sistematica distruzione del paesaggio.

“Un paesaggio, per usare ancora una volta le parole di Eugenio Turri, che più che brutto è noioso, irritante nella sua ripetitività, senza sorprese, con il suo traffico intasato sulle sue strade principali, la macchina come elemento onnipresente, onnivoro, insopportabile”. Le uniche iniziative di più ampio respiro a scala territoriale che sembrano destinate al successo – in sintonia spesso con le nuove complanari, tangenziali, raccordi anulari e camionabili finanziate dalle società autostradali per veder rinnovate le loro concessioni – risultano essere quelle della grande speculazione immobiliare, finalizzate alla realizzazione – in luoghi sensibili del territorio regionale – di mega centri commerciali e per il tempo libero. I casi più clamorosi – di seguito riportati – sono quelli del faraonico progetto di “Euroworld” nel delta del Po, della “Città dei motori” , tra Verona e Mantova, di “Veneto City”, tra Venezia e Padova nelle vicinanze della Riviera del Brenta. Progetti che spesso trovano convinti sostenitori tra gli amministratori regionali e che già oggi determinano tutta una serie di attese ed operazioni speculative sulle aree interessate o limitrofe e la progettazione di nuove infrastrutture di supporto, quali la camionabile prevista sul tracciato (o a lato) della mai completata idrovia Padova-Mare.

Che fare? Senza dubbio uno dei compiti fondamentali delle associazioni ambientaliste continua ad essere quello della battaglia in difesa dei beni storici e paesaggistici del nostro territorio, di quanto ancora si conserva del passato, della denuncia di una prassi urbanistica miope e dello smascheramento di operazioni immobiliari che – in nome di un preteso quanto spesso fantomatico sviluppo economico – rispondono solo agli interessi di alcune società private distruggendo beni comuni e luoghi identitari della nostra collettività.

Ma l'azione di denuncia non è sufficiente. Distruzione e degrado del paesaggio e del territorio possono essere efficacemente contrastati solo avendo la capacità di proporre strategie e progetti alternativi, fondati su una lettura del territorio quale ecosistema complesso che può essere riqualificato e rigenerato con un insieme integrato di interventi finalizzati alla formazione di una rete continua di siti e corridoi ecologici in grado di assicurare la biodiversità, di contribuire al disinquinamento dell'aria e dei suoli e di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, al potenziamento del sistema della mobilità e dei trasporti collettivi (in particolare su ferro) pianificando in relazione a detto sistema una più equilibrata distribuzione dell'edificato e dei servizi a scala metropolitana, all'affermazione della cultura e dell'innovazione tecnologica connessa all'ecologia quali motori del rinnovamento urbano. Strategie di lungo periodo e progetti concreti per la tutela dei paesaggi storici e dei beni naturalistici, ma anche per la costruzione di nuovi, più sostenibili e gradevoli paesaggi urbani e periurbani, riconoscendo – come fa la Convenzione Europea del Paesaggio – che il paesaggio, se pianificato e gestito in modo adeguato, può divenire un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni, svolgendo fondamentali funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituendo una risorsa favorevole allo stesso sviluppo economico.

E' essenziale sottolineare come, ai fini della formazione di paesaggi di più elevata qualità estetica ed ecologica anche in ambito periurbano oltre che in aperta campagna, un ruolo decisivo deve essere attribuito alle tecniche ed all'organizzazione delle attività agricole. Ricordavamo all'inizio come il paesaggio veneto – in particolare quello agrario – sia stato, con quello toscano, uno dei più prestigiosi a livello nazionale ed europeo. Va però anche ricordato che il paesaggio agrario è il frutto di un processo di antropizzazione della natura e dell'evolversi delle culture e delle tecniche di coltivazione; è, come scriveva Emilio Sereni, “... quella forma che l'uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale” (E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano). Si può, in altri termini, affermare che il paesaggio – quello agrario in particolare – deriva da un progetto di civilizzazione, è l'espressione di una civiltà e di una cultura. La bellezza, il valore estetico di un paesaggio derivano soprattutto dalla sua capacità di rendere leggibile il senso, l'ordine, le relazioni intercorrenti, il significato culturale delle sue componenti. Non è sufficiente salvaguardare una villa veneta od una casa rurale tipologicamente ed architettonicamente significativa, se nel contempo se ne distrugge il contesto, il rapporto un tempo esistente con l'organizzazione del territorio. Nella percezione di un paesaggio, oltre alla dimensione ecologica (espressa dal rispetto delle leggi che regolano la biodiversità e l'evoluzione naturale, la riproducibilità dei componenti), sono fondamentali la dimensione culturale e simbolica. “Il paesaggio – afferma il sociologo Georg Simmel – non è ancora dato quando cose di ogni specie si estendono, l'una accanto all'altra, su un pezzo di terra e vengono viste immediatamente insieme... così come una quantità di libri accatastati non è una biblioteca, ma lo diventa quando un concetto unificante li ordina secondo il proprio criterio formale”.

Fondamentale è dunque salvaguardare le colture ed i terreni agricoli anche nell'area centrale della nebulosa metropolitana veneta ovvero nei luoghi oggi soggetti ad una più intensa attività di infrastrutturazione ed urbanizzazione. Senza tutela del mondo rurale – ha scritto di recente Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food – sia per quanto riguarda la sua produttività, sia per quanto riguarda la sua bellezza, non può esserci tutela dell'ambiente e del paesaggio (La Repubblica, 5 ottobre 2008). Negli ultimi quindici anni, se si fa un confronto tra i censimenti agricoli del 1990 e del 2005, in Italia sono spariti più di 3 milioni di ettari di superfici libere da costruzioni e infrastrutture, un'area più grande del Lazio e dell'Abruzzo messi insieme. Di questi 3 milioni poco meno di 2 milioni di ettari erano superfici agrarie. “E' uno dei più grandi mutamenti, afferma sempre Carlo Petrini, che il nostro Paese ha subito nel secondo dopoguerra e non accenna a diminuire: sparisce la campagna, insieme ai contadini, si perdono spesso i terreni più fertili in pianura e in prima collina. Gli appezzamenti che resistono sembra che stiano lì, in attesa che qualcuno ci speculi su. Il suolo, se non muore a colpi di fertilizzanti o pesticidi, sparisce... E' uno scempio senza fine, che pregiudica la qualità delle nostre vite in termini ecologici e anche gastronomici. Sì: gastronomici, perché ne va anche del nostro cibo, della sua qualità, della sua varietà e della possibilità di poterlo comprare senza che provenga da un altro continente, con tutti gli enormi problemi che ne conseguono”.

Con l'entrata in vigore della nuova legge urbanistica regionale, Regione, Province e Comuni hanno avviato un processo di revisione e ridisegno dei propri strumenti urbanistici. E' dunque questo il momento di intervenire, evitando che in attesa dei nuovi piani continui l'aggressione al territorio e richiedendo che a tutti i livelli della pianificazione – in stretta connessione con la programmazione economica e sociale e con l'allocazione delle risorse di bilancio – divenga centrale non solo il tema della formazione di una rete ecologica in grado di compenetrare gli stessi ambiti urbani, ma anche specificamente quello della riconversione biologica delle attività agricole. Significativo è, da questo punto di vista, l'esempio della Germania dove governo federale e Länder promuovono e finanziano per l'attuazione dei piani paesaggistici specifici progetti di ricomposizione fondiaria e riordino territoriale, coinvolgendo direttamente nell'elaborazione dei piani agricoltori, allevatori, proprietari dei boschi, cittadini e associazioni ambientaliste. Progetti che prevedono specifici contributi o sgravi fiscali per chi rinuncia all'uso di fertilizzanti chimici e provvede alla manutenzione di vigneti, frutteti storici e strade alberate, al ripristino di muri a secco e terrazzamenti, siepi di confine e recinzioni tradizionali ed al restauro degli edifici rurali.

Vige in Germania, nell'ambito delle procedure pianificatorie, il “principio di cooperazione”, in quanto si ritiene che la salvaguardia del patrimonio naturale ed il controllo della pressione antropica sull'ambiente siano difficilmente realizzabili senza la collaborazione attiva dei cittadini. L'obbligatorietà del coinvolgimento e della partecipazione dei cittadini – sia pure ancora con molti limiti ed ambiguità – viene affermata anche dalla nuova legislazione urbanistica delle nostre Regioni e dalle procedure indicate dalla Comunità Europea per la formulazione della VAS – Valutazione Ambientale Strategica prevista per la pianificazione urbanistica e territoriale. E' un principio di cui, come associazioni ambientaliste, dobbiamo rivendicare la più ampia applicazione, proponendo regole chiare e procedure obbligatorie, che non possono certo esaurirsi nel meccanismo tradizionale delle “Osservazioni” a giochi conclusi e delle “Controdeduzioni” (che nel 99 per cento dei casi respingono la Osservazioni presentate da cittadini e associazioni, in quanto ritenute “non congruenti” con l'impostazione del piano adottato dall'amministrazione).

L'elaborazione dei piani territoriali ed urbanistici, a partire dall'impostazione degli studi preliminari sino alla fase delle fondamentali scelte strategiche e della definizione delle priorità d'intervento, deve divenire un'importante occasione per attivare un processo di”apprendimento collettivo”, un processo di crescita del “capitale sociale” che – come sostiene l'urbanista Roberto Camagni – deve avvenire attraverso la promozione della comunicazione, della partecipazione, della fiducia e della cooperazione, ovvero attraverso la mobilitazione di tutta la società civile”. Un processo partecipativo e cooperativo che deve operare ai diversi livelli istituzionali, ma anche attraverso il dialogo costante con i cittadini e l'associazionismo economico, sociale, culturale ed ambientalista, finalizzato alla costruzione di una visione condivisa del futuro delle comunità locali, condizione essenziale per assicurare efficacia agli stessi strumenti di piano.

Novembre 2008

Il testo in formato .pdf è scaricabile qui.

Norman Myers, ecologo di fama internazionale, insegna alla Scuola del XXI secolo dell'Università di Oxford, e da anni si occupa della natura sempre meno sostenibile dello sviluppo delle megalopoli.

Professor Myers, cosa c'è che non va nelle città?

"Le città occupano il 3 per cento della superficie terrestre ma ospitano la metà esatta dell'umanità, oggi pari a 3,4 miliardi di persone, e sono responsabili del 70 per cento delle emissioni di gas serra. La cosiddetta 'impronta ecologica' delle città è ormai insostenibile, e la situazione sociale e sanitaria della popolazione urbanizzata è critica: di quei 3,4 miliardi di persone più di un miliardo vive in miseria e in malattia".

Qual è la criticità più dannosa?

"La mobilità. All'inizio del '900, quando i londinesi si muovevano a cavallo, la velocità media in città era di 15 chilometri all'ora. Oggi, con l'automobile, è sempre di 15 chilometri all'ora".

Soluzioni?

"Fare come a Curitiba, in Brasile, dove il traffico automobilistico è stato vietato in tutto il centro, e dove i mezzi pubblici sono in grado di trasportate tre quarti dei due milioni di abitanti della città.

O fare come a Berlino, dove la diffusione capillare del car-sharing ha abbattuto del 75 per cento la proprietà delle auto e del 90 per cento il pendolarismo con auto private. O come a Londra e Stoccolma, dove la 'congestion charge' ha ridotto di un terzo il traffico nella zone centrale".

Lei sostiene che il benessere di una nazione non si valuta col prodotto interno lordo. Perché?

"Il Pil è una misura economica assurda, che esprime in termini di ricchezza qualsiasi attività, sia positiva che negativa. Se adottassimo un parametro che io ho definito Genuine Progress Indicator (Gpi), sottraendo i costi negativi di questo tipo a quelli socialmente positivi, avremmo un quadro reale del benessere socio-economico di una nazione".

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