Nuovi episodi di cancellazione dell'identità storica e attuale della Palestina nel quadro dell guerra devastante avviata con la "dichiarazione Balfour del 1046, che consegnò la Palestina ad Israele
Spesso si tende acredere che il turismo sia un'attività neutra, legata a svago e piacere, equindi sconnessa da precisi interessi geopolitici. Esso ci pare cioèirriducibilmente estraneo al conflitto, formidabile costruttore di ponti tra differentipopoli della Terra. L'Organizzazione Mondiale del Turismo lo definisce adesempio "driver of peace".
NENA news, 2 febbraio 2018. Prosegue senza tregua, rafforzato dall'intervento del bulldozer Donald Trump, il tentativo di Israele di cancellare cultura, storia e popolazione dalla Palestina
«Secondo lo studio, i progetti di Tel Aviv nelle parti occupate di Gerusalemme est sono usati come “mezzo politico per modificare la narrativa storica e promuovere la colonizzazione”. Un documento dell’Onu, intanto, identifica 206 aziende internazionali che fanno affari con gli insediamenti illegali israeliani»
Nello studio è citato in particolare il progetto “La città di David”, un parco archeologico finanziato dallo stato nell’area palestinese di Silawan che offre “tour” nelle rovine dell’antica Gerusalemme. Peccato però che Silwan sia casa di 10.000 palestinesi e che da anni sta subendo un costante processo di de-arabizzazione il cui obiettivo palese è quello di cancellare qualunque traccia della presenza autoctona palestinese. La Città di David è diretta da una organizzazione di coloni, scrivono i diplomatici, che presenta una “narrativa esclusivamente ebraica separando il luogo dalle vicinanze palestinesi”.
Ma le brutte notizie per Tel Aviv non finiscono qui. Un rapporto dell’Ohchr (Alto Commissariato delle Nazioni Uniti per i diritti umani) pubblicato mercoledì ha identificato 206 compagnie internazionali che fanno affari con le colonie israeliane costruite nella Cisgiordania occupata in barba al diritto internazionale. Lo studio dell’Ohchr avrebbe dovuto riportare originariamente anche i nomi delle aziende implicate, tuttavia, dopo intense pressioni statunitensi e israeliane, è stato deciso di indicare solo il numero delle compagnie che violano il diritto internazionale. “Gli affari – si legge nel testo – giocano un ruolo centrale nella fondazione, mantenimento ed espansione delle colonie israeliane. Agendo in questo modo, [le aziende] stanno contribuendo alla confisca di terra da parte d’Israele facilitando il trasferimento di popolazione nei Territori Occupati palestinesi e rendendosi complici dello sfruttamento delle risorse naturali palestinesi”.
Duro il commento dell’inviato d’Israele all’Onu Danny Danon che ha parlato di “una vergognosa e scandalosa lista nera”. Della stessa idea è Raz Shechter, ambasciatrice e rappresentante permanente d’Israele all’Onu: “E’ al di là delle competenze e autorità del Consiglio dei diritti umani compilare blacklist. Ma ciò rientra nei tentativi di provare a delegittimare Israele”. “Le compagnie – ha sottolineato Shechter – non stanno facendo alcuna attività illegale”. A darle man forte è l’ambasciatrice Usa all’Onu, Nikki Haley, secondo cui il rapporto è figlio del “cronico pregiudizio anti-israeliano” ed è l’ennesima “dimostrazione dell’ossessione anti-Israele del Consiglio”.
Sul piano politico, intanto, i ministri degli esteri arabi riuniti al Cairo hanno chiesto la creazione di un “meccanismo multilaterale” sostenuto dall’Onu per ravvivare il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Il vertice di due giorni nella capitale egiziana, che ha avuto al centro delle discussioni il recente riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele da parte del presidente Usa Trump, ha quindi proposto la convocazione di una conferenza internazionale per ravvivare i negoziati tra le due parti e per riconoscere lo stato di Palestina con Gerusalemme est come sua capitale. Non è chiaro quale sia questo “nuovo meccanismo” di cui parlano, ma il ministro degli esteri palestinese Riyad al-Malki ha ribadito che quello “vecchio ha smesso di esistere, è storia”. I palestinesi si muovono però anche sullo scenario internazionale: il 20 febbraio il presidente palestinese Abbas parlerà al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Ieri notte, intanto, l’aviazione israeliana è tornata a colpire la Striscia di Gaza. Secondo i palestinesi, i jet di Tel Aviv hanno colpito le al-Nada Tower nella zona nord orientale di Beit Lahiya. Non si registrano feriti. In precedenza, l’esercito israeliano aveva riferito che alcuni razzi erano stati lanciati dalla piccola enclave palestinese sotto assedio verso il territorio israeliano senza causare danni.
il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2018. il drammatico e cruento incidente ferroviario, derivante dalla decisione di privatizzare le periferie e di privilegiare le linee redditizie risparmiando su quelle di lavoratori, studenti, casalinghe
La tratta è gestita da Trenord, società partecipata da Ferrovie nord Milano, tra i cui soci c’è la Regione Lombardia. Mentre la rete, ovvero i binari, sono in carico a Rfi. Attualmente risulta indagato per disastro colposo il responsabile della sicurezza di Rfi, mentre i vertici di Fnm ieri sera sono stati convocati in Prefettura. L’attenzione è massima nell’attribuire le varie responsabilità.
Secondo le ricostruzioni della Polfer e dei tecnici di Rfi a provocare l’incidente sono state due cause coincidenti. Da un lato il pezzo di rotaia che tecnicamente viene definito un giunto isolato e incollato. Dall’altro uno (e uno solo) dei carrelli con le ruote che è uscito dal suo alloggiamento. È chiaro che al netto delle cause ancora da attribuire l’incidente è provocato comunque da una mancata manutenzione. Nel momento in cui il carrello si sposta, il treno sta viaggiando a 140 chilometri orari. Il macchinista frenerà fino a 70, l’impatto avviene a questa velocità. A guardare bene il percorso si comprende che il deragliamento riguarda solo quel carrello che fa inclinare il convoglio. Un’inclinazione che però non viene segnalata al macchinista. Questi treni, infatti, non sono dotati di allarmi specifici. C’è dunque da capire se quel pezzo di rotaia fosse già rotto oppure se sia stato il carrello già staccato a romperlo.
Su questa tratta, da Bergamo a Milano, passano ogni giorno 500 treni. Mentre i giunti sono posti ogni 1.350 metri. Stando a quanto emerge dalle prime indagini solitamente la rottura di un giunto viene rilevata dal macchinista che comunica il guasto. A quanto risulta, però, su quel particolare giunto non vi era stata nei giorni scorsi alcuna segnalazione. L’ipotesi, dunque, è che si sia rotto ore o minuti prima dell’impatto. Sul tratto in questi giorni alcune rotaie dovevano essere sostituite. Allo stato, quindi, le responsabilità sono attribuibili in ipotesi a metà tra Trenord e Rfi, anche perché di mezzo ci sono risarcimenti importanti. Nei prossimi giorni la Procura eseguirà una perizia tecnica sul giunto e sul treno posto sotto sequestro. Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha già disposto il sequestro della scatola nera e dei registri della manutenzione del treno.
Camminando ieri pomeriggio sulla massicciata erano evidenti i tagli sulle traversine e oltre le rotaie. Secondo qualche addetto, però, appare difficile pensare che un treno, che ha vagoni da 40 tonnellate l’uno, possa deragliare su un avvallamento di 23 centimetri. Più probabile, ma resta una ipotesi, che il carrello staccatosi con gli urti alla fine abbia provocato lo schianto finale.
Il convoglio comunque ha viaggiato per tre chilometri fuori dalle rotaie, tranciando qualsiasi cosa, dai cavi alle traversine e scaraventando ai lati i sassi. Tanto che i testimoni hanno parlato di una sorta di “sassaiola”. Quando è passato nella stazione di Limito di Pioltello ha divelto le grate di acciaio vicine alle banchine. Le prime immagini sequestrate dalla Procura mostrano il treno passare per la stazione facendo delle scintille (a causa dello sfregamento contro il muro di cemento) mentre un uomo osserva terrorizzato. In quel momento le carrozze sono già pericolosamente inclinate verso sinistra e cioè verso la massicciata. Poco più di un chilometro dopo, il carrello salta via definitivamente, tanto da essere ritrovato intero accanto ai binari. In tarda serata si contano tre morti e 47 feriti, di cui cinque gravi.
casadellacultura.it, 19 gennaio 2018. Recensione al nuovo rapporto Ecomafia, che annualmente riporta i reati ambientali accertati e le connivenza tra illeciti ambientali, mafia e politica. L'efficacia punitiva migliora, ma con la prevenzione c'è ancora molto da fare.
Puntuale come ogni anno è stato pubblicato dalle Edizioni Ambiente il rapporto Ecomafia 2017. Le storie e i numeri della criminalità ambientale, curato dall'Osservatorio nazionale ambiente e legalità di Legambiente.
Il rapporto Ecomafia, dunque, ha il merito di tentare una descrizione dettagliata ed anche una quantificazione del fenomeno di questo intreccio tra criminalità e devastazione ambientale. È d'obbligo precisare che, sia nel titolo che nel testo, il termine "mafia" è usato in modo estensivo, sta per criminalità e non si limita ai reati contemplati dall'articolo 416 bis del codice penale come criminalità organizzata di stampo mafioso. Questa distinzione ha sicuramente un rilievo importante nei tribunali, meno per identificare quell'intreccio perverso che precipita nei cosiddetti "ecoreati". La particolare propensione criminale in campo ambientale nel nostro Paese ha peraltro diverse cause che occorre rammentare: pesa il fatto che la nostra sorprendente scalata nella graduatoria dei principali Paesi industriali del mondo, fino al quinto posto, avvenuta nel secondo dopoguerra, ha goduto del vantaggio competitivo di disporre a titolo gratuito delle risorse ambientali (suolo, acqua, aria); da qui è discesa una strutturale inadeguatezza delle normative di tutela, fino al recente Sblocca Italia; va ricordato, a titolo d'esempio, che il reato ambientale è stato inserito nel codice penale solo nel 2015; in ogni caso la struttura istituzionale dei controlli, in particolare il sistema Ispra e Arpa, è molto carente e, spesso, condizionata dalla politica; infine, a questo quadro oggettivamente critico va associato il retaggio del tradizionale costume degli italiani, il diffuso "familismo amorale" che si traduce nel disinteresse per ciò che è al di fuori del perimetro della famiglia e della propria dimora e proprietà, la disponibilità corruttiva in nome del particulare e la conseguente noncuranza per l'ambiente naturale e per la casa comune, l'oikos, appunto.
Non possono quindi stupirci più di tanto i dati del rapporto predisposto da Legambiente. Nel 2016 i reati ambientali accertati delle forze dell'ordine e dalla Capitaneria di porto hanno toccato il ragguardevole numero di 25.889, pari a una media di 71 al giorno, circa 3 ogni ora. A questi corrispondono 225 arresti, 28.818 denunce e 7.277 sequestri. Il fatturato delle ecomafie è valutato attorno a 13 miliardi, in netta diminuzione rispetto ai 22 miliardi del 2014, a testimoniare una sempre maggiore efficacia dell'azione investigativa e repressiva. Vengono inoltre evidenziati il fenomeno della corruzione, che continua a dilagare in tutta la Penisola con ben 76 inchieste in cui le attività illecite in campo ambientale si sono intrecciate con vicende corruttive, la questione dell'abusivismo edilizio con 17mila nuovi immobili abusivi nel 2016, il ciclo illegale dei rifiuti in crescita con 5.722 reati contestati (+ 12%), il fronte incendi segnato da 4.635 roghi che hanno mandato in fumo 27mila ettari. Per quanto riguarda la distribuzione geografica le quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso si confermano ancora ai primi posti nella classifica per numero di illeciti ambientali: in vetta la Campania con 3.728 illeciti, davanti a Sicilia (3.084), Puglia (2.339) e Calabria (2.303). La Liguria resta la prima regione del Nord, il Lazio quella del Centro. Su scala provinciale, quella di Napoli è stabilmente la più colpita con 1.361 infrazioni, seguita da Salerno (963), Roma (820), Cosenza (816) e Palermo (811). Il rapporto 2017, comunque, segnala un trend positivo, sia per la diminuzione del numero dei reati, sia per la maggior efficacia delle sanzioni, che potrebbe essere ascrivibile ai primi effetti dell'introduzione delle legge che punisce i reati ambientali. Questi, infatti, mentre erano 29.293 nel 2014, sono scesi a 27.745 nel 2015 e a 25.889 nel 2016. Cresce, invece, il numero degli arresti 225 (contro i 188 del 2015), di denunce 28.818 (a fronte delle 24.623 della precedente edizione di Ecomafia) e di sequestri 7.277 (nel 2015 erano stati 7.055).
Nella parte finale del testo, Legambiente indica opportunamente gli ulteriori interventi necessari a rendere ancor più incisiva l'azione repressiva. Alcune riflessioni, tuttavia, si possono aggiungere. Indubbiamente colpire i responsabili di reati ambientali è importante, anche agli effetti preventivi: forse si comincia a percepire che non sempre si può farla franca. Ma occorre ricordare che l'azione penale arriva sempre a posteriori, quando il disastro è stato compiuto e spesso, per le caratteristiche intrinseche dell'inquinamento ambientale, gli effetti nefasti sono irreversibili. Non solo. L'azione penale incontra difficoltà oggettive: molto spesso gli effetti sull'ambiente e sulla salute dei cittadini indotti dall'inquinamento si scoprono molti anni dopo l'evento che li ha provocati e dunque la prescrizione è spesso in agguato. D'altro canto, in particolare per i danni alla salute, dimostrare il nesso di causalità, che nel penale ad oggi è di tipo individuale, risulta estremamente difficile. Va inoltre considerata la difficoltà strutturale del sistema giustizia nel nostro Paese, che dopo la stagione eccezionale di "Mani pulite" e del maxiprocesso alla Mafia, sembra regredire nell'alveo rassicurante di una grande cautela nei confronti del potere, economico e politico. Sembra, insomma riemergere la logica, appunto, di un "Sistema", nell'accezione che la storia del nostro Paese ha ampiamente sperimentato e da cui tuttora è attraversato: la "chiesa istituzione", il regime fascista, la "democrazia bloccata" del secondo dopoguerra, la mafia, la corruzione politica…
Ogni "sistema" per perseguire i propri fini ha bisogno di "vittime sacrificali" che vanno accettate in nome di interessi superiori. E per questo è del tutto illusorio e impensabile che un simile "sistema" sia in grado di autogiudicarsi ed autocondannarsi in modo radicale: le vittime dell'inquisizione di ieri e della pedofilia ecclesiastica di oggi attendono ancora giustizia; i criminali fascisti, sfuggiti ad un tribunale "altro" come quello di Norimberga, hanno goduto di un "salutare" colpo di spugna; le stragi per "bloccare" la democrazia restano in gran parte impunite; oggi sembra "impossibile" estirpare le mafie e la corruzione politica. Paradossalmente, tra l'altro, è proprio "l'intermediazione della vittima" che rende forte il "Sistema" (J.-P. Dupui, Per un catastrofismo illuminato, 2011). Cosicché, la mancata giustizia viene "compensata" celebrando le vittime, monumentalizzandole. Nei casi dei grandi ecoreati in gran parte impuniti (per tutti, il caso dell'amianto) il "sistema" è il capitalismo industriale italiano, così come si è costruito nel corso del Novecento. Una sorta di "supersistema", perché animato dalla "superideologia" dello sviluppo (Pier Paolo Poggio), comune a tutte le ideologie novecentesche (liberaldemocratica, fascista, comunista). La legittimazione di quell'immane scempio compiuto in Italia tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, opera ancora in profondità, è un dato strutturale dell'industrializzazione italiana ancora oggi. Perché il "supersistema" in versione italiana, in generale, salvo poche eccezioni, rimane un gigante con i piedi di argilla, ancora oggi dipendente dalle quelle condizioni che ne determinarono le fortune nel secondo dopoguerra: bassi salari; energia importata a basso costo grazie all'Eni di Mattei; imitazione creativa delle innovazioni altrui senza dover sviluppare in proprio costose strutture di ricerca; risorse ambientali concesse a titolo gratuito e senza alcun vincolo. Nella congiuntura attuale e nel contesto di una globalizzazione senza regole, emerge con ogni evidenza la sua strutturale fragilità: quelle condizioni di un tempo si incontrano oggi molto più vantaggiose in tante regioni del mondo, mentre l'energia fossile non ce la regala più nessuno. E l'Italia manifatturiera, in molti settori, arranca, inevitabilmente.
Dunque, può il nostro "supersistema", in queste condizioni di grande difficoltà, fare i conti con i disastri ambientali che ne hanno determinato le fortune? No, anzi, il "supersistema" chiede alla politica, se possibile, un ulteriore balzo in avanti nell'illusione che si possano ricreare oggi le condizioni di un nuovo "miracolo economico", "riagganciandoci", finalmente, alla mitica "crescita". La ricetta è semplice: mortificare ancor più il sindacato e i diritti dei lavoratori per deprimerne le pretese salariali; rilanciare la ricerca di idrocarburi sul territorio nazionale e nei nostri mari in spregio alla loro naturale fragilità; destinare le poche risorse pubbliche, non all'unica grande opera necessaria di manutenzione e risanamento del territorio disastrato del Paese, ma a benefici fiscali per le imprese distribuiti a pioggia, dunque qualitativamente inefficaci; "sbloccare" grandi opere inutili, rimuovendo per l'ennesima volta l'intralcio dei vincoli ambientali (Sblocca Italia).
La mancata giustizia per i disastri ambientali del passato è quindi coerente con la cultura e la politica attuali, sostanzialmente dominate dalla logica totalitaria del "supersistema". Si tratta della versione italiana di una sorta di "oscurantismo progressista. Un oscurantismo di cui il 'negazionismo' degli assassini della memoria dei campi non era altro che un segno premonitore", e che consiste nel "non prendere in conto i danni di un progresso tecnico crescente, senza limiti e senza alcun freno" (P. Virilio, L'università del disastro, 2008). A quasi 80 anni dalla Shoah, in particolare noi italiani ci ritroviamo ancora con molti conti in sospeso per le nostre responsabilità in quella catastrofe. Sconfiggere il "negazionismo" del "supersistema" è dunque un'impresa improba e di lunga lena. Ed è un'impresa che non può essere, a mio parere, delegata alla magistratura. Un cambio di mentalità e la prevenzione sono fondamentali e possono camminare solo su due gambe. Da un canto la mobilitazione partecipata e consapevole delle popolazioni sul territorio per contrastarne il degrado e per salvaguardane la bellezza e l'integrità. E bisogna constatare che, a questo livello, si registra una nuova effervescenza, fioriscono a migliaia i comitati, i gruppi spontanei, le associazioni di cittadini attenti a quello che accade nei loro territori. Insomma, sembra che quel tradizionale costume italico "menefreghista" cominci ad essere scalfito, in parte superato, in particolare tra i giovani. Dall'altro, però è imprescindibile che si determini negli indirizzi del governo della cosa pubblica, dal livello centrale a quello locale, quella svolta paradigmatica, quella conversione ecologica dell'economia e della società che non è più rinviabile e in cui il nostro Paese mostra ritardi inaccettabili, anche rispetto al resto dell'Europa. E qui le cose non vanno bene.
È impressionante come, anche di fronte ad allarmi sempre più evidenti, come la spaventosa siccità della scorsa estate, si reagisca solo con interventi emergenziali, senza por mano a un progetto strategico di fuoriuscita, già ora tecnicamente possibile, dalla civiltà termoindustriale basata sui combustibili fossili per avviarci verso la civiltà solare. Insomma, come a proposito della corruzione, anche dell'ambiente non devono occuparsi solo le Procure, ma innanzitutto una politica profondamente rinnovata, emancipata dalla subalternità al "supersitema" e dal giogo degli interessi immediati, in certi casi persino personali, e capace di riconquistare il proprio ruolo di guida lungimirante della comunità.
Un'analisi ineccepibile, e riccamente documentata nel testo integrale dell'articolo (allegato in .pdf), della tragedia che sta distruggendo Venezia, come altri luoghi-simbolo di una civiltà che va scomparendo. Con riferimenti
1. Grandi Navi a Venezia: la corsa all'oroL'evoluzione economica del porto di Venezia si inserisce nel panorama più ampio delle trasformazioni urbane iniziate nel secondo decennio del Novecento, che hanno condotto alla progressiva delocalizzazione delle attività produttive in terraferma e alla conversione ad uso turistico e culturale della città storica insulare. È infatti in seguito all'espansione dei traffici portuali a Porto Marghera a partire dagli anni '60 che la Stazione Marittima entra in una prolungata fase di crisi, in cui si rende necessaria una ridefinizione del suo ruolo in rapporto alla città. Essa vede progressivamente ridursi il traffico commerciale, dal 50% del totale negli anni Sessanta, al 40% del 1970, al 22% del 1975, in parallelo all'emergere delle strutture ricettive destinate al traffico passeggeri come possibile nuova funzione per il porto.
Nel momento in cui il turismo crocieristico diventa di massa, grazie all'introduzione delle fun ships a basso costo, e punta ad espandersi nel Mediterraneo per diversificare la propria offerta, Venezia dispone quindi di un immaginario turistico consolidato e di uno spazio acqueo in pesante deficit da ricapitalizzare con urgenza. Il connubio non potrebbe essere migliore ed Alessandro di Ciò, presidente del Porto di Venezia dal 1986 al 1993, non tarda ad abbracciare il crocierismo come destino dell'intera area della Marittima.
Alla fondazione nel 1997 della società privata a partecipazione pubblica VTP S.p.A., incaricata di "gestire ed incrementare il traffico passeggeri", seguirà più di un decennio di lavori infrastrutturali volti all'ampliamento di banchine e servizi necessari ad ospitare l'ormeggio dei giganti del mare. I risultati sono immediati: in questo breve lasso di tempo Venezia diventa il nono porto crocieristico nel Mondo, il terzo in Europa ed il primo home port italiano, con una crescita complessiva del 436% ed un aumento annuale medio dei crocieristi tra 2005 e 2016 del 6,7%.
Nonostante l'emergere di istanze critiche nei confronti di tale sviluppo già dai primi tempi, lo sforzo di ampliamento della Marittima prosegue senza sosta, con la celebrata inaugurazione del teminal Isonzo 1 nel 2009 ed Isonzo 2 nel 2011, verso l'obiettivo dichiarato dei 2,5 milioni di crocieristi in transito all'anno, cifra stimata come limite massimo dell'offerta. Anno dopo anno, il crocierismo lagunare diviene così un business più ampio, il cui indotto si estende nell'intero Alto Adriatico e la cui legittimità pare tautologicamente asserita dalla propria stessa potenza economica.
Un momento di arresto simbolico si ha nel 2012 con il naufragio della Costa Concordia e la promulgazione del Decreto Clini-Passera, che vieta il passaggio in Bacino di San Marco e nel canale della Giudecca alle navi di stazza lorda superiore alle 40.000 tonnellate. Il provvedimento, sorto sull'onda emotiva per affrontare solamente la parte più evidente del problema delle Grandi Navi in Laguna, ovvero il transito all'interno della città storica, rinvia però la propria applicazione al momento in cui sarà trovato e realizzato un percorso d'ingresso alternativo. Nel confuso rimpallo di proposte, stalli, progetti e ricorsi che ne consegue, la provvisorietà diventa definitiva e, in attesa di una decisione univoca, nel 2015 le compagnie di crociera scelgono di posizionare a Venezia solo unità fino a 96.000 tonnellate.
A pochi anni dalla privatizzazione dell'aereoporto Marco Polo, si assiste quindi al consolidamento di un grande polo privato che gestisce l'accesso navale e aereo alla città. Un'abdicazione del settore pubblico ai compiti pianificatori e direttivi che ha prodotto "un porto crocieristico estraneo alla città, anche se costruito con capitale pubblico. Un porto basato su una enclave extraterritoriale (le navi), gestito in regime di monopolio da compagnie di navigazione straniere, che hanno interesse a fare apparire pochi profitti in loco, trasferirli all'estero, con una corsa al ribasso dei costi ed un'alta precarizzazione dei rapporti di lavoro" (Tattara).
2. L'impatto sulla città
Esiste però una componente ulteriore dell'impatto del crocierismo sulla città sulla cui centralità per la realtà urbana si tende a sorvolare: l'impatto antropico. Normalmente, infatti, la discussione politica e mediatica si impernia sull'urgenza di vietare il transito nel Bacino di San Marco oppure sulla necessità di allontanare il terminal crocieristico dal cuore della città, decentrandone una parte a Porto Marghera o costruendo una piattaforma off-shore. Entrambe le posizioni, tuttavia, lasciano irrisolto un problema di fondo, che riguarda non tanto la nave in sé, quanto la sua estensione umana, ovvero la quantità e la tipologia di turisti che essa riversa in una città già drammaticamente desertificata dal modello estrattivista promosso dalla monocultura turistica.
3. L'impatto antropico
3.1. Il legame con l'escursionismo
Nonostante i crocieristi rappresentino solo una piccola quantità percentuale del turismo cittadino, essi possiedono una serie di caratteristiche che rendono la loro presenza particolarmente problematica.
Innanzitutto la triplice stagionalità: essi non sono equamente ripartiti durante l'anno, ma si concentrano nei mesi di massima pressione turistica (da Maggio a Settembre), nei fine settimana (in certe giornate scendono dalle navi anche 44.000 persone) e nelle ore di massimo afflusso.
In secondo luogo, sulla base del tempo trascorso in città, essi si configurano per lo più come escursionisti. Tale categoria, oltre al limitato apporto economico che la caratterizza, risulta a causa dei suoi numeri la principale responsabile dell'eccessiva pressione turistica cittadina e a causa delle sue modalità di fruizione dello spazio (necessariamente rapide e di superficie) svantaggiosa per il tessuto urbano e per la comunità locale, in un duplice senso. Dal punto di vista quantitativo, essa genera una presenza concentrata e di massa all'interno di un itinerario specifico in determinate fasce orarie, producendo fenomeni acuti di congestione ed una notevole riduzione di mobilità per gli altri fruitori urbani. Dallo studio condotto da Quinn risulta chiaramente come sia proprio la limitazione della percorribilità individuale nel tempo e nello spazio a costituire per i Veneziani l'aspetto più critico della convivenza con il turismo. Non è un caso che i recenti cortei di protesta abbiano scelto itinerari e orari tipicamente turistici, in una simbolica ripresa di possesso di luoghi e tempi di norma evitati, per rivendicare così proprio a partire dallo spazio, dalla calle, il loro diritto alla città.
Dal punto di vista qualitativo, invece, l'escursionismo genera una proliferazione di esercizi specifici (fast food, take-away, banchetti, negozi di souvenirs a basso costo...) lungo i percorsi di transito, riconfigurando l'intero tessuto commerciale in virtù della propria alta redditività, con un rialzo dei prezzi di affitto degli spazi ed una progressiva desertificazione delle aree marginali. Un processo di esponenziale squilibrio che alza il livello di competizione e costringe i negozi di prossimità destinati ai residenti a traferirsi o cessare l'attività. Questo riduce la qualità complessiva tanto della città "da abitare" quanto della città "turistica", impoverendo la specificità culturale del luogo che via via si omologa al modello di una Disneyland globale.
Come dimostrato da Russo, si entra così nel circolo vizioso dello sviluppo turistico, dove è proprio l'aumento incontrollato dei day-trippers ad accelerare il declino della destinazione nel suo ciclo vitale, facendo lievitare i costi di gestione e mantenimento del sito e crollare il livello di qualità percepita. Un enorme costo economico e sociale cui corrisponde uno scadimento progressivo della tipologia turistica richiamata: una città configurata per soddisfare le esigenze degli escursionisti, infatti, sarà necessariamente meno attrattiva per un pubblico colto, più attento e curioso, più selettivo in acquisti ed attività, di media o lunga permanenza.
In altre parole, sommandosi nei momenti di maggiore afflusso agli escursionisti cittadini, i crocieristi costituiscono tanto una criticità fisica tangibile, quanto, e forse più profondamente, un autentico catalizzatore di cambiamento culturale.
3.2 La Grande Nave come segno
Progressivamente, infatti, le navi da crociera si sono strutturate come vere e proprie città galleggianti, modellando il proprio interno con piazze, viali, ristoranti, boutiques. Come appare evidente nelle réclames e dalle dichiarazioni delle compagnie crocieristiche, è la nave a costituire ormai la vera destinazione. Essa acquista dunque una peculiare autosufficienza, che si traduce in un rapporto sempre più mediato e gerarchizzato tanto con il mare, quanto con i contesti di ormeggio.
L'intera semiosi della nave è costruita intorno ad un'insuperabile verticalità: fin dal suo ingresso in Laguna essa domina completamente il paesaggio, oscurando alla vista interi quartieri e destrutturando il senso topografico della città storica, nel suo caratterizzante equilibrio di forme e proporzioni e nel suo tipico sviluppo orizzontale. Una presenza che rappresenta qualcosa di ben più profondo di una semplice "puzzetta sotto il naso" di "chi dice che sono brutte da vedere", come sostiene l'attuale presidente dell'Autorità Portuale, Pino Musolino. Si tratta piuttosto di un atto che afferma, nella stessa possibilità del suo accadere, un enorme differenziale di potere, non solo economico, ma anche simbolico: la nave annichilisce la città che la ospita, riducendola a mero spazio scenografico, a oggetto rimpicciolito di uno sguardo a distanza in cui l'alterità di Venezia è svilita quale sfondo pittoresco e l'incontro con la sua realtà è per essenza negato. E forse è proprio la costruzione di tale sguardo dall'alto a valere il transito: più della méta finale, più delle facilities portuali, la fonte maggioritaria di plusvalore è l'offerta ai passeggeri di questa visione di dominio, l'ebbrezza di scorrere nelle viscere di un ecosistema antico e delicato come un petalo senza doverne apprendere il linguaggio, senza doversi misurare con la sua complessità. Che poi, detta con le parole di Galliano di Marco, CEO di VTP, significa poter accogliere i passeggeri "in the living room of Venice", anziché "welcoming them in the toilet (sic)", cioè Marghera.
Con la traccia di questo segno, l'estrazione del capitale simbolico e culturale della città è esasperata al punto da coincidere con la licenza di minacciarne la stessa esistenza. Un rischio che, del resto, le compagnie possono correre, data la disponibilità di un portafoglio amplissimo e diversificato di destinazioni cui volgersi in alternativa.
3.3. L'habitus del crocierista
Tali caratteristiche trovano un'ulteriore concretizzazione nelle modalità di visita del luogo cui i passeggeri vengono indirizzati. Secondo la logica del pacchetto che qualifica il crocierismo, l'esperienza a terra è infatti fortemente mediata dalla compagnia di navigazione. Le escursioni si svolgono in gruppi guidati di numero variabile, hanno una durata ridotta (che va mediamente dalle 2 alle 6 ore) e seguono itinerari prefissati. Se, data la sua conformazione urbana, la mobilità di gruppo rappresenta di per sé un fattore altamente problematico per la città di Venezia, la rapidità di fruizione e la convergenza di una grande quantità di gruppi in immediata successione nelle medesime zone aggravano ulteriormente l'impatto fisico dei crocieristi sulla popolazione e sul patrimonio storico-artistico. Per ottimizzare i tempi, inoltre, i passeggeri vengono movimentati tramite mezzi acquei privati (lancioni), trasferiti dalla Marittima a Piazza San Marco, spesso tradotti in una carovana di gondole, infine condotti a Murano e Burano e ritorno, generando un moto ondoso costante ed imponente che mette a rischio la sicurezza delle altre forme di navigazione lagunare ed aumenta il livello - già critico – di usura delle fondamenta veneziane.
È chiaro che, a partire da una simile strutturazione della visita, il grado di autonomia del crocierista nello spazio urbano è, se non del tutto assente, quanto meno fortemente limitato. Difficilmente egli riuscirà ad interagire realmente con il luogo e con i suoi abitanti, ad uscire dalla dimensione di gruppo e dai gusci nautici in cui progressivamente si situa, a costruire una propria esperienza aldilà delle veloci indicazioni della guida. Si tratta perciò di una forma di attraversamento che tende a restituirgli solo un surrogato della città e finisce per privarlo del senso stesso del viaggio: incontrare l'altro, entrare in dialogo con la diversità, affrontare l'imprevisto. Nell'escursione crocieristica le distanze sono infatti rigorosamente mantenute, così in nave come in terra, ed i locali tendono a ridursi a mere figure esotiche in un teatrino. Una modalità di consumo dei luoghi di stampo fordista, tarata sul criterio di massima prevedibilità e ripetitività, che, oltre ad espropriare le comunità ospiti del controllo sulla propria rappresentazione, riplasma lo spazio urbano come semplice scenario, drenandovi ogni significato culturale e sociale profondo e costruendo un mondo-sequenza: una serie di scene in successione prive di ordine interno significante, avulse da quel tessuto connettivo che qualifica l'urbano in sé, ed il veneziano in particolare.
In conclusione, anche quando è fuori dalla nave il crocierista finisce per muoversi in una "tourist bubble" che ne è la complementare estensione. A sua volta la terra toccata, anziché costituire la destinazione del viaggio, è investita da un progressivo processo di integrazione all'interno della nave, ovvero indotta a conformarsi plasticamente alle esigenze del modello disneyano di turismo che essa propugna. Non è una semplice coincidenza che il progetto più marcatamente "tematico" degli ultimi anni, la Veniceland di Antonio Zamperla, fosse pensato proprio per il pubblico delle Grandi Navi: tra la modalità di fruizione di una destinazione che caratterizza il crocierismo e la visita ad un parco dei divertimenti esiste una continuità tutt'altro che trascurabile. Chissà se allora anche ai Veneziani, come ai servitori di bordo e ai Disney-figuranti, sarà chiesto un giorno di sorridere, e porgere la mano.
3. Conclusioni
Se il turismo generato dalle Grandi Navi non può essere ritenuto il solo responsabile della difficile situazione in cui versa la città di Venezia, esso risulta tuttavia la più impattante tra le molte forme di viaggio e visita al momento possibili, ovvero quella dotata di maggiori esternalità negative per la popolazione residente. Infatti, all'ampio e documentato insieme di conseguenze di natura ambientale ed idromorfologica prodotte dal mezzo di trasporto in sé, si sommano la pressione antropica indotta dalle sue prassi escursionistiche (nella duplice modalità, pedestre e ondosa, del moto generato) e l'influenza dequalificante sul tessuto commerciale e culturale urbano.
Come dimostrato da Tattara, nessun'analisi del classico tipo costi/benefici può dunque essere applicata sensatamente alle Grandi Navi, dal momento che solo una parte della diade è calcolabile nel breve termine, mentre l'altra, i costi per la comunità, ha una natura molteplice, in parte immateriale, che solo nel lungo periodo può emergere statisticamente. I danni alla salute dei cittadini, alla struttura edilizia fondante, al patrimonio storico-culturale non riproducibile, lo stress quotidiano dei residenti, lo scadimento esponenziale della qualità della vita e dello spazio urbano, l'abbandono della città non sempre si toccano con mano, ma, come particelle elementari, esistono e determinano la possibilità di sussistenza del (e nel) luogo, il suo destino.
Per questo motivo le soluzioni di compromesso avanzate finora paiono insoddisfacenti: anche nel momento in cui venisse parzialmente mitigato (o semplicemente dislocato) l'effetto ambientale, infatti, l'impatto antropico del crocierismo continuerebbe a gravare sulla città, sia da un punto di vista fisico che antropologico-culturale, e, una volta venuti meno anche i residui limiti dimensionali, ancora più difficile sarebbe arginarne la crescita. In una fase in cui la necessità di contenere la pressione turistica, specialmente degli escursionisti, è divenuta una priorità riconosciuta per la città storica, quando non addirittura la condizione della sua sopravvivenza, il sistema-crociera risulta di fatto insostenibile, tanto on-shore quanto off-shore: il modello di fruizione urbana che esso genera è infatti per sua natura incompatibile con la città lagunare.
Ciononostante, il business delle crociere continua a godere di un appoggio pressoché incondizionato da parte delle istituzioni locali e nazionali, in conformità con il riflesso pavloviano del Paese a rispondere alla profonda crisi economica ed industriale con la manna dello "sviluppo turistico", dimenticando che, "in realtà, l'industria più pesante [...] del XXI secolo è proprio il turismo" (D'Eramo).
Parallelamente il pensiero critico che proviene dalla società civile, lasciato ai margini dal processo decisionale e dal suo balletto di competenze, si trova nella scomoda posizione in cui Günther Anders collocava il filosofo rispetto alle innovazioni tecniche: sempre costretto a dare "la precedenza a qualsivoglia apparecchio", ad essere "ritardatario". Infatti, laddove la discussione si sviluppa nel confine circoscritto delle modalità d'uso di una data tecno-struttura introdotta tramite processi top-down, alla comunità viene sottratta la possibilità di esprimersi anteriormente sulla sua stessa opportunità e desiderabilità. A comitati, associazioni e studiosi spetta pertanto l'ingrato compito di dimostrare solamente ex-post la nocività ed i costi di un dato mezzo e del modello economico che esso incarna, nella frequente ostilità di organi istituzionali ed attori economici coinvolti.
C'è un'immagine che forse, più d'ogni altra, riassume la distanza incommensurabile che intercorre tra questa componente critica dei Veneziani ed il dispositivo integrato dell'economia neoliberista che ne sta minacciando il presente, oltre che il futuro. Sono centinaia di persone lungo la riva delle Zattere che urlano in coro "Fuori le navi dalla laguna", fischiano, battono e con quanta voce hanno in gola tentano di far arrivare il loro messaggio alle navi in transito. Lassù, sul ponte, nell'aria afosa della sera, la band di bordo intona le prime note, il presentatore si lancia nei lazzi consueti ed i passeggeri, assiepati lungo i bordi, si godono divertiti e ammirati il paesaggio. Puntini in movimento, fumo colorato, flebili voci sfumate nel tramonto...uno spettacolo che carezza dolcemente la loro partenza e a cui rispondono agitando la mano in segno di saluto. Pare quasi, da laggiù, di vederli sorridere felici, mentre le grida si stemperano nell'acqua scura e densa dell'estate.
Riferimenti
Il testo integrale del saggio, riccamente integrato da grafici e note, è scaricabile in formato pdf adoperando questo collegamento: Clara Zanardi, Oltre la nave Si avverte che l'articolo è pubblicato su eddyburg con la licenza Creative Commons, che impone la rigorosa fedeltà nella citazione dell'autore, del titolo e della fonte.
wumingfoundation.com, 29 dicembre 2017. Sulle mistificazioni dell'architettura fascista e su come porsi nei confronti di questa eredità, in modo che questi artefatti non tornino ad essere propaganda nel presente e per il presente. (i.b.)
In Sudafrica e nel Regno Unito, ad esempio, c’è stata la campagna Rhodes Must Fall per la rimozione dei monumenti al colonizzatore razzista Cecil Rhodes.
Aprile 2015. La statua di Cecil Rhodes mentre viene rimossa dall’Università di Città del Capo. Fonte: wumingfoundation.com |
Negli USA si rimuovono dagli spazi pubblici i monumenti «confederati», cioè commemorativi della causa sudista nella guerra civile americana. Monumenti spesso nemmeno d’epoca, ma eretti nel ventesimo secolo e alcuni addirittura nel ventunesimo, dunque meramente revanscisti, apologie della schiavitù e simboli del perdurante razzismo contro i neri. Come tali, vengono difesi manu militari da neonazisti e suprematisti bianchi di varie tendenze. Gli scontri di Charlottesville, Virginia, dell’11 agosto 2017, culminati nell’assassinio della manifestante antirazzista Heather D. Heyer, furono scatenati dall’estrema destra per impedire la rimozione di una statua del generale Robert E. Lee.
In Italia, data la monumentalità insita in molte realizzazioni architettoniche e addirittura urbanistiche del fascismo, è difficile distinguere tra architettura e monumenti. I monumenti al fascismo non sono semplici statue, almeno non più.
Di statue del duce e dei gerarchi ce n’erano a bizzeffe, ma molte — purtroppo non tutte — furono distrutte già all’epoca, alcune dopo la caduta del duce, altre dopo la Liberazione. A Bologna, ad esempio, la grande statua equestre del duce al Littoriale (oggi Stadio Dall’Ara) venne decapitata dalla folla la sera del 25 luglio 1943. Dopo la Liberazione venne fusa, e col suo bronzo furono realizzate le statue di partigiani che oggi presidiano Porta Lame.
Statue di fascisti ne esistono ancora, ma in generale i monumenti fascisti sopravvissuti fino a oggi sono edifici.
Scalpellati via — ma nemmeno sempre — i simboli più vistosamente legati all’ideologia del regime (come i fasci littori), quegli edifici oggi sono parte delle nostre città e della nostra vita quotidiana. Solo che la maggior parte degli italiani non ne conosce la storia o, peggio, la conosce in modo parziale, distorto, encomiastico: «Guarda lì, il duce sì che costruiva bei palazzi!» Appunto: il fascismo ha fatto anche cose buone.
Sfruttando questa percezione, i partiti «post»-fascisti e neofascisti usano sempre più quegli edifici per le loro campagne politiche. Come quando a Roma, nel 2015, Fratelli d’Italia ha proposto un paragone del tutto improprio col Foro Italico per chiedere la demolizione del “serpentone” di Corviale.
«è come se la studiosa americana, vedendo che qui in Italia beviamo alcool a qualsiasi ora del giorno, ci avesse chiesto: Non è che avete problemi con l’alcool? E noi, invece di sorriderle bonariamente e spiegarle che vino, grappa, liquori e birra, sono parte integrante della nostra cultura -- come d’altronde l’architettura razionalista - le abbiamo iniziato a sbraitare davanti. “No, che cazzo dici?”, “Sei una mentecatta a pensare una cosa del genere!”, “Ma guardati te!”, “Pensa ai vostri problemi con le armi!”. E forse a questo punto se fossimo in lei, indietreggiando, predicando pace e calma e abbozzando una specie di sorriso, ce ne andremmo pensando che sì, qualche problemino con l’alcool questi ce l’hanno, e pure grosso.»
Che in Italia quel nervo sia scoperto lo dimostrano le bufale diffuse a getto continuo sulla volontà di questo o quell’esponente della sinistra - quasi sempre Laura Boldrini - di demolire il tal o il tal altro monumento. Bufale periodicamente riproposte da siti e giornali di destra: «Ecco i capolavori fascisti che Boldrini vorrebbe abbattere», titolava tempo fa il Secolo d’Italia, in cima a un articolo dove si paventava il rischio che Boldrini riducesse l’Italia a «una città [sic] post-atomica, praticamente un rudere con macerie in ogni angolo delle principali città italiane».
Simili bufale si “viralizzano” e scatenano le solite reazioni violente, facendo crescere la sensazione che di quest’argomento in particolare non sia possibile discutere in modo minimamente sensato.
Al netto delle bufale, a essere sbagliato è il frame, la cornice che inquadra tutti questi discorsi. Per disattivare il frame, dobbiamo porci una domanda, anzi, la domanda: l’«architettura fascista» è davvero fascista?
La «Tavola degli orrori», realizzata da Pier Maria Bardi ed esposta alla II Esposizione universale di architettura razionale, 1931. Fonte: wumingfoundation.com |
Nessuna di queste due spinte contrastanti — la neoclassica/monumentale e la razionalista — fu esclusivamente italiana, men che meno fascista.
Ville Savoye a Poissy, Île-de-France. Progettata da Le Corbusier, 1931. Fonte:wumingfoundation.com |
Il razionalismo rientra nel più vasto Movimento moderno in architettura, che si sviluppò in tutto l’Occidente tra le due guerre. Il razionalismo italiano ha «cugini» in molti paesi, basti guardare gli edifici realizzati dal Bauhaus, a partire dalla sede della scuola a Dessau (1925); la Ville Savoye di Le Corbusier poco fuori Parigi (1928); la Tabakfabrik a Linz (1929), e tante altre realizzazioni dell’epoca.
Quanto al neoclassicismo e monumentalismo, li ritroviamo in altri paesi europei e addirittura nella Washington del New Deal. Si pensi al palazzo della Federal Reserve, costruito nel 1935-1937: è il tempio del dollaro, dell’occhio sulla piramide, eppure ha un aspetto incredibilmente “fascista”.
Si tratta di un’architettura per mezzo della quale lo Stato - ogni Stato - voleva essere fortemente assertivo, soprattutto in reazione alla crisi del 1929. Reazione politicamente trasversale, che andò dalla Francia del Fronte Popolare alla Svezia, passando per gli USA e la Finlandia. Il Palazzo del Parlamento di Helsinki, l’Eduskuntatalo, fu ultimato nel 1931 e potrebbe essere trasportato di peso all’Eur senza sembrare minimamente fuori contesto.
Eccles Building, Washington DC, sede della Federal Reserve, di Paul Philippe Cret, 1937 Fonte: wumingfoundation.com |
I neofascisti che si vantano dell’«architettura fascista» non solo danno l’ennesima dimostrazione di provincialismo e limitatezza di orizzonti, ma attribuiscono al regime “meriti” e tendenze che lo trascendono di gran lunga.
Ecco come si disinnesca la metonimia storica: sprovincializzando i termini del dibattito. Quel che di “buono” o “bello” fece il fascismo, lo fece perché non poteva non farlo: la fase storica lo richiedeva ovunque, e lo Stato “keynesiano” dell’epoca - dittatoriale o democratico che fosse - ovunque lo realizzò. Vale per le politiche sociali, il welfare state, le opere pubbliche.
O come Giovanni Michelucci, uno degli autori della Stazione di Santa Maria Novella a Firenze.
O come l’istriano Giuseppe Pagano (italianizzazione di Pogatschnig), autore dell’istituto di Fisica della Sapienza a Roma. Fu dapprima ardente fascista, ma divenne oppositore del regime già nel 1942, si dedicò all’attività antifascista clandestina ancora prima del 25 luglio 1943, fu arrestato due volte, torturato dalla banda Koch e infine deportato a Mauthausen, dove morì.
«la damnatio memoriae [aridaje, N.dR.] di una architettura, quella fascista, che, al di là delle considerazioni politiche fu un vero e proprio stile, molto studiato. All’estero»
Gianni Biondillo: - Dopo la guerra, sostanzialmente, tutti gli architetti del ventennio continuarono a lavorare. Persino Piacentini, settuagenario, con commissioni di rilevo, e pubbliche! Altro caso esemplare: Luigi Moretti. Grande razionalista metafisico. Non ha mai nascosto le sue inclinazioni di destra, e nel dopoguerra ha lavorato moltissimo. Il Watergate, quello dello scandalo, è suo.
- E la critica, — ho chiesto a Gianni, — la storia dell’architettura? È vero che c’è stata damnatio memoriae? Che l’architettura “fascista” è stata studiata solo all’estero?
Gianni Biondillo: - Assolutamente no. Già nel 1968 Bruno Zevi, ebreo e antifascista, dedica un omaggio a Giuseppe Terragni, considerato insieme a Piacentini l’architetto “di regime” per eccellenza. E per tornare a Moretti, il più autorevole critico marxista – Manfredo Tafuri – non lo “epura” affatto nella sua fondamentale Storia dell’architettura italiana 1944-1985, che esce a metà degli anni Ottanta.
Nel suo documentario La forma della città, che è del 1974, il comunista Pasolini già scinde regime fascista e architettura del ventennio. Parlando di Sabaudia, città di fondazione sul litorale pontino, dopo averla definita «incantevole» spiega:
«Sabaudia è stata creata dal regime, non c’è dubbio, però non ha niente di fascista, in realtà, se non alcuni caratteri esteriori […] Sabaudia, benché ordinata dal regime secondo certi criteri di carattere razionalistico, estetizzante, accademico, non trova le sue radici nel regime che l’ha ordinata, ma in quella realtà che il fascismo ha dominato tirannicamente ma che non è riuscito a scalfire.»
Dalle mie parti, all’improvviso e come dal nulla, nella pianura spuntano città di fondazione e colonie rurali risalenti al fascismo. L’esempio più noto è Tresigallo, borgo natìo del gerarca Edmondo Rossoni, che negli anni Trenta lo fece trasformare radicalmente.
Di Tresigallo il giornalista di viaggi Folco Quilici ha detto: «In tutti gli anni che sono venuto a Ferrara, nessuno mi ha mai portato a vedere Tresigallo. C’era una specie di barriera.»
Io, che a Tresigallo sono stato molte volte senza accorgermi di alcuna “barriera”, mi chiedo: perché Quilici, un uomo che ha esplorato l’intero orbe terracqueo, a Tresigallo non ci è andato sua sponte? Perché inventarsi interdizioni?
A conti fatti, dunque, che fare degli edifici e monumenti del ventennio?
Io credo esistano tre strade.
2. Nel caso dei monumenti più “carichi” e celebrativi, bisogna agire per risemantizzarli, aggiungervi nuovi significati, incorporare alla loro immagine la critica al significato originario e al loro committente.
In Italia esiste una città-laboratorio dove da tempo si conducono esperimenti di questo tipo. Si tratta di Bolzano/Bozen, dove i monumenti del ventennio sono comunemente chiamati «relitti fascisti» (in tedesco faschistische Relikte). Lo ha raccontato su Giap Flavio Pintarelli già nel 2013. Nel frattempo, la situazione si è ulteriormente evoluta.
Bolzano, Piazza Tribunale. Il fregio di Hans Piffrader. Fonte: wumingfoundation.org |
Il percorso che ha portato alla musealizzazione del Monumento alla Vittoria può essere di grande ispirazione, ed è di pochi giorni fa l’avvio della nuova installazione che risemantizza uno dei più ingombranti monumenti fascisti d’Italia, il fregio marmoreo di Hans Piffrader col duce a cavallo, di cui ho scritto anche su Internazionale. Oggi sul grande bassorilievo appare, tradotta nelle principali tre lingue dell’Alto Adige/Südtirol, la massima di Hannah Arendt: «Nessuno ha il diritto di obbedire».
Una soluzione bella e suggestiva, forse un po’ criptica. E troppo facilmente reversibile: basta spegnere l’installazione. Basta che alle prossime elezioni vinca un’amministrazione ostile a quel percorso e faccia un’ordinanza per pigiare il bottone. La pietra è durevole, la luce no.
Intanto, però, quella luce ha fatto imbufalire i neofascisti: «Bolzano, i nuovi talebani tentano di oscurare il bassorilievo di Mussolini», ha titolato Il Primato Nazionale, quotidiano on line di CasaPound. È la conferma che si sta seguendo una buona strada.
Bolzano/Bozen è al momento la realtà dove il dibattito è più avanzato. Ciò avviene, sia chiaro, per via di peculiarità non riproducibili altrove, prodotte dalla coesistenza di due comunità distinte, quasi due mondi accostati uno all’altro. Per semplificare al massimo: gli eredi degli invasori e gli eredi degli invasi. Tale situazione rende impossibile a chiunque blaterare con superficialità di «memoria condivisa». Nell’impossibilità di smussare, appianare, edulcorare, si è dunque spinti a cercare nuove soluzioni, in quella che noi Wu Ming chiamiamo da sempre «mediazione al rialzo».
Affile. Il «Vespasiano» dedicato alla memoria del criminale fascista Rodolfo Graziani, 2012. Fonte: wuming.com |
3. Poi c’è la terza via, che è demolire. Demolire va considerato l’extrema ratio, certo, ma non può essere un tabù. Ad esempio, siamo tutti d’accordo sul fatto che vadano demoliti i monumenti fascisti del tutto indifendibili, quelli nemmeno d’epoca, come il monumento al macellaio Graziani eretto nel 2012 ad Affile. Siamo d’accordo, giusto? Quella roba va demolita col tritolo, e sulle macerie va sparso il sale da lavastoviglie.
Ebbene, non dev’essere ritenuto impensabile nemmeno demolire relitti fascisti d’epoca. Non tutto quel che è durato fino ad oggi merita per forza di durare ancora. Durare non è di per sé una virtù, un manufatto può durare per tanti motivi, per indifferenza, per forza d’inerzia, per ignavia, o per ostinazione dei pubblici poteri.
Ci sono monumenti fascisti che furono imposti a un territorio, veri e propri schiaffi in faccia alla comunità che ci viveva, e diventarono simboli negativi da colpire. È il caso del Monumento all’Alpino di Brunico/Bruneck, eretto per celebrare in un colpo solo la guerra d’Etiopia e l’italianizzazione del Südtirol. Italianizzazione fittizia, s’intende: ancora oggi gli abitanti germanofoni sono il 70% nella provincia autonoma di Bolzano, e l’80% in Val Pusteria, dove si trova Brunico.
L’Alpino fu abbattuto dalla popolazione dopo l’8 settembre 1943, ricollocato al suo posto nel 1951, fatto saltare in aria nel 1966, ricostruito e reinstallato nel 1968, di nuovo distrutto nel 1979, rimesso sul piedistallo nel 1980. È stato preso di mira con azioni più o meno simboliche anche negli ultimi anni.
In pratica, la storia della statua è la storia dei tentativi di sbarazzarsene. C’è molto più genius loci negli attentati che nel monumento, corpo estraneo che pervicacemente lo Stato italiano torna a imporre. Si potrebbe dire, con Simon Levis Sullam sulla scia di Foucault, che si è fatto il «processo al monumento», facendone quindi un documento.
Ancora: un anno fa il comune austriaco di Braunau am Inn, dove nacque Hitler, ha deciso di demolire la sua casa natale. Subito, dall’Italia, Frassineti si è dichiarato contrario. Lo stesso sindaco che risponde – testualmente – di «farsi i cazzi propri» a chi, da non predappiese, scrive di Predappio in un modo che non gli va a genio, poi non ha remore a intervenire, criticando e dando lezioni di memoria, su una decisione presa in Austria. Forse teme che qualcuno proponga di demolire l’ex-Casa del Fascio e dell’Ospitalità? Si tranquillizzi: nessuno pensa che sia quella la strada.
A coloro che, certamente, reagiranno scandalizzati alla mia ipotesi che qualcosa di fascista si possa demolire, a coloro che chiamano «talebano» chi ce l’ha con lo scempio di Affile e persino chi accende una scritta su un bassorilievo perché «è arte», vorrei chiedere: avevate di questi mal di pancia quando nei paesi dell’est buttarono giù le statue di Lenin? Io ricordo che la destra festeggiò. Non erano «arte» quelle statue? Ed eravate così indignati quando nel 2003 avete visto cadere le statue di Saddam Hussein?
— Eh, ma quello era a caldo, durante rivolte e guerre, mica a freddo!
— «A caldo»? Perché, nel 1989 Lenin era vivo?
— No, ma il regime che veniva rovesciato aveva riempito le città di sue statue, buttarle giù era colpire il regime!
— Lo vedi? «Caldo» e «freddo» non dipendono da quanti anni sono passati. Dipendono da cosa significano quei monumenti per chi vive oggi. Negli USA stanno rimuovendo i monumenti del razzismo confederato adesso, ma non certo «a freddo», tant’è che la polemica è rovente. Li rimuovono per il ruolo e il peso che hanno nel presente.
Dopo aver fatto — almeno spero — un po’ di chiarezza sulla questione «architettura e monumenti fascisti», torniamo a Predappio, e all’attitudine: «Non si può demonizzare tutto quel che fece il fascismo, guarda com’è bella la Casa del Fascio!»
Predappio Toxic Waste Blues - I, wumingfoundation.com
la Repubblica, 20 dicembre 2017«La giunta Peracchini ha affondato il Puc già adottato, dal primo gennaio 2018 si potrà costruire dove era vietato. Rimossi gli ostacoli alla costruzione dell’ecomostro di Valdellora, prive di protezione l’area ex Ip e il waterfront»
Alla Spezia, dal 1 gennaio 2018, si potrà edificare il 45% in più di quanto sarebbe accaduto se il nuovo Puc, il piano urbanistico comunale, non fosse stato affondato dalla giunta di centrodestra Peracchini. E spunta, già, all’orizzonte, un “ ecomostro” nel quartiere di Valdellora. Così come diventano “appetibili” per il cemento il waterfront e le ex aree Ip, oltre a tutta la cintura ai piedi della colline, così fragile per le frane, e ora così indifesa dagli attacchi edificatori. Via libera anche per nuovi centri commerciali. E le opposizioni stanno consultando i legali per eventuali manovre d’emergenza a tutela del territorio.
Nella seduta straordinaria del consiglio comunale, l’altra sera, convocata su richiesta delle opposizioni, la maggioranza ha infatti votato un ordine del giorno che, di fatto, ha fatto decadere il Puc che era stato studiato e già adottato dalla precedente amministrazione di centrosinistra, guidata dal sindaco Massimo Federici. Il piano era stato dunque “soltanto” adottato, ma non approvato. La sua gestazione era stata lunga, oltre tre anni e mezzo di lavoro dei tecnici comunali - “ un’eccellenza in house”, la chiamava il sindaco Federici - per studiare un documento che proteggesse e tutelasse il territorio dal cemento, dimezzando le possibilità di edificare nuove strutture. Si sarebbe potuto costruire il 45% in meno.
Dopo l’adozione del Puc, però, è cambiata la giunta, guidata dal sindaco di centrodestra Pierluigi Peracchini, che avrebbe dovuto, trascorso il tempo necessario alle osservazioni, approvare lo strumento entro il 31 dicembre, termine ultimo per la sua decadenza. Si trattava di un piano pioniero, non solo confrontandolo con tanti strumenti urbanistici comunali della Liguria, ma a livello nazionale, proprio per la protezione garantita al territorio. Conteneva anche la mappatura aggiornata delle frane attive. E invece, lunedì sera, la giunta lo ha definitivamente affondato.
Adesso La Spezia tornerà ad avere il precedente piano urbanistico comunale, approvato oltre dieci anni fa, quando parole come cementificazione, dissesto idrogeologico, risparmio energetico, mobilità sostenibile, verde pubblico, protezione delle colline, orti urbani erano rimaste fuori dal documento.
E il primo effetto, indicano i tecnici, sarà ancora una volta lo stesso: nuovo cemento su una Liguria che sembra non aver imparato che con il calcestruzzo non si fa lo sviluppo, ma solo l’interesse ( di qualcuno) .
Il primo a ripresentarsi, puntuale, sarà il cosiddetto ecomostro di Valdellora, un quartiere periferico della Spezia, bloccato proprio dal nuovo Puc di Federici. Si tratta di un ampio complesso residenziale , in un settore urbano difficile dove mancano collegamenti viari. I progettisti, che si erano visti sbarrare la strada dall’amministrazione di centrosinistra, avevano fatto ricorso proprio contro le norme del nuovo ( ora defunto) Puc. Adesso, però, ogni ostacolo al progetto è stato rimosso.
La zona ai piedi delle colline risulta essere la più fragile: più appetibile per la fame di nuove costruzioni, è quella, oggi, totalmente priva di ogni vincolo, con la decadenza del Puc Federici. Nello strumento urbanistico cancellato dall’amministrazione Peracchini c’era poi la mappatura, meticolosamente condotta, delle frane attive, in modo da vietare categoricamente ogni intervento nei settori della città a rischio. Ma pure tutta l’area del waterfront e dell’ex area Ip adesso è rimasta senza alcuna restrizione edilizia, invece severamente imposta dal Puc. E così decade anche il recupero, la protezione e la valorizzazione della rete sentieristica dell’Alta via del Golfo, con tutte le direttive che scendono a Spezia, così come le aree destinate a verde pubblico e orti urbani. E così pure sono polverizzate le azioni mirate a trasformare Spezia in una Smart City, con una mobilità sostenibile.
La nuova formula adoperata per definire le porzioni del patrimonio immobiliare da destinare ai turisti nasconde un pesante inganno. È comunque un premio alla rendita immobiliare: una sommatoria di piccole speculazioni che, come la grande, toglie alloggi alla disponibilità dei residenti per darla ai turisti (e.s.).
Qui il link all’articolo
Internazionale, 24 novembre 2017. Gli abitanti e la vita a Cosmopolis, una delle tante gate community per la middle class di Bucarest, lontana dalla città, recintata, vigilata, verde, sicura, e socialmente omogenea. (i.b)
Ai margini di Bucarest cinquemila persone vivono in un invitante universo parallelo, lontane dalla confusione della città. Casette dai tetti color turchese, come nel Monopoly, si affacciano su un lago e, più avanti, palazzi gialli di dieci piani incorniciano grandi piscine piene d’acqua limpidissima. Tutti lasciano i telefonini e i portafogli in vista sulle sdraio. Un pallone rimbalza sull’acqua. Un ragazzo abbronzato con un braccialetto rosa al polso si tuffa per prenderlo, schizzando le persone a bordo piscina. Tutti portano lo stesso braccialetto di plastica. Indica che hanno il permesso di stare qui.
Il complesso residenziale Cosmopolis |
Cosmopolis è uno dei più grandi complessi residenziali della zona di Bucarest, premiato perfino a livello internazionale. Qualche anno fa qui c’erano solo terreni abbandonati lungo le rive del lago Creţuleasca. Oggi c’è un quartiere che appartiene al comune di Ştefăneştii de Jos. L’ingresso ricorda una frontiera: muri, cancelli e guardie. Uno dei vigilanti, con occhiali da sole, maglietta azzurra e pancia d’ordinanza, fa la stessa domanda a tutti gli sconosciuti: dove va? Qui possono entrare solo i residenti, altrimenti bisogna essere annunciati con una telefonata in portineria.
La crisi è passata, gli stipendi crescono, e sempre di più gli abitanti di Bucarest vogliono comprare casa in uno degli oltre cento complessi residenziali costruiti alla periferia della città. Queste strutture hanno servizi di vigilanza, parchi e piscine, e le case non costano più dei vecchi appartamenti del centro. Molti hanno fretta di comprare perché temono che i prezzi tornino a salire e raggiungano i livelli precedenti alla crisi. I dati di Eurostat mostrano che la Romania è il paese dell’Unione europea con la più alta percentuale di proprietari di casa. L’affitto è considerato una soluzione transitoria, che sul lungo periodo serve solo a buttar via soldi. Per questo abbiamo cercato di capire perché i romeni sono così legati alla proprietà della casa, e soprattutto che vantaggi e che svantaggi hanno a vivere in quartieri periferici chiusi e mal collegati alla città. Abbiamo viaggiato tra passato e futuro, tra campagna e città, tra comunità reali e virtuali. E abbiamo capito che il modo in cui abitiamo dice molto su chi siamo e su chi vogliamo diventare.
Alice e Răzvan. È domenica prima dell’ora del pranzo e via Europa, nel complesso Cosmopolis, è deserta. Qualche alberello spunta dal cemento. Siamo a venti chilometri dal centro di Bucarest, fuori dal raccordo. Davanti al cancello c’è la fermata del minibus che porta in città; se non c’è traffico in mezz’ora si arriva alla prima fermata della metropolitana. La sala d’attesa ha le pareti gialle. Sotto un grande specchio è disegnato un divano azzurro, e dal soffitto pende un candelabro di finto bronzo. In fondo alla strada principale, in una casetta circondata da una palizzata bianca, abitano Alice e Răzvan Petrescu insieme alla loro figlia. Prima di lasciare la città sono stati in affitto a Cosmopolis per un periodo di prova. Quando Alice è rimasta incinta si sono decisi: hanno venduto l’appartamento di Bucarest e hanno comprato qui. In giardino hanno il barbecue, le sdraio, alberi da frutta e lillà. Alice ha piantato le erbe aromatiche che le ha dato la nonna. “Quando sei cresciuta in città e improvvisamente hai un pezzo di terra ti sembra una magia”, dice. Al piano di sopra ci sono le camere da letto, mentre al piano terra la cucina e il salotto, che si è trasformato in un parco giochi per la bambina. È stato il suo arrivo, raccontano, a convincerli a prendere una decisione radicale e a cercare un quartiere simile a quelli che avevano visto in Europa occidentale.
Alcune palazzine di Cosmopolis |
A differenza che in città, qui Alice può andare tranquillamente in giro con il passeggino e non deve preoccuparsi per quello che può succedere alla bambina. Quando era piccola, Alice voleva diventare ginnasta, come Nadia Comaneci. “Solo che esercitandomi una volta ho battuto la testa sull’asfalto. Qui c’è l’erba”. I coniugi Petrescu hanno entrambi tatuaggi del gruppo musicale tedesco Rammstein sulle braccia e durante le vacanze vanno in giro per festival e concerti. La scorsa estate sono stati a un festival a Cluj, l’Electric castle, e a vedere i Depeche Mode, sempre con la figlia. Alice ha 37 anni, indossa una salopette a fiori e ha i capelli neri e lunghi, legati in una coda. Ha lavorato per otto anni e mezzo come consulente legale per una multinazionale, senza riuscire a occuparsi delle sue passioni: l’astronomia, la musica e l’arte. Alla fine ha deciso di mettersi a studiare pianoforte e di lasciare il lavoro. Insieme alla sua migliore amica ha aperto una scuola d’arte, Artskul, che aiuta le persone a sviluppare il proprio talento. Ed è soddisfatta. Con la nascita della figlia si è presa una pausa, e ora si prende cura della bambina, va in piscina e cucina.
A volte non esce dal complesso per settimane, perché qui ha tutto quello che le serve: supermercato, campi sportivi, bar, negozi. Perfino il dentista. Anche Răzvan è laureato in giurisprudenza. Indossa pantaloncini corti e una maglietta beige su cui è disegnato un topolino. Nella stanza da letto ha un diorama di Star Wars che si è costruito da solo con i mattoncini del Lego. Răzvan e Alice raccontano di essere scappati da Bucarest perché era troppo caotica e perché ai loro vicini non importava della pulizia e dell’ambiente. C’era chi gettava gli avanzi nelle condutture per la raccolta comune della spazzatura, chi gli scrollava la tovaglia sul balconcino. Loro si sforzavano di fare la raccolta differenziata, gli altri non capivano. “E quelli strani eravamo sempre noi”, spiega Alice. Le discussioni con i vicini erano quotidiane. A Cosmopolis, invece, tutti sono aperti alle novità, s’interessano di ecologia e stanno attenti a non disturbare. “Voglio vivere in una comunità di persone come me. La differenza di età comporta anche una differenza in materia di istruzione. La nostra generazione è molto più responsabile”, dice la donna.
Una vera comunità
Sempre a Cosmopolis, a pochi passi da Alice e Răzvan, in un appartamento di tre camere con terrazzo vivono Ramona e Cătălin Ivan, insieme a Puiu, il loro gatto, che hanno raccolto per strada. Dopo aver abitato per dieci anni in una casa in affitto, volevano avere un posto tutto loro. Ramona insegna inglese in una scuola privata di Greenield, un altro complesso residenziale che si trova al nord della capitale, e Cătălin lavora in un’azienda di comunicazioni al centro della città. Vivono qui da due anni e mezzo. Hanno deciso di trasferirsi perché passando in autostrada vedevano le casette del quartiere, con i loro tetti turchesi, e sognavano di viverci. “Quando siamo entrati per la prima volta nell’appartamento, abbiamo capito subito che era quello che volevamo”, dice Ramona. Consigliano anche ai loro amici di venire a vivere qui, perché Cosmopolis “è un posto più civile di Bucarest”. “Un autista della scuola dove lavoro mi ha raccontato che una volta è venuto a prendere un bambino a Cosmopolis”, racconta Ramona. “Appena ha passato l’ingresso, un altro bambino che era sul bus gli ha chiesto: ‘Signore, in che paese siamo qui?’”.
La persona che li ha convinti a trasferirsi a Cosmopolis è Gabriel Voicu, che dirige l’ufficio vendite del complesso. Porta la giacca, ma non la cravatta, e guarda continuamente l’orologio. Il suo telefono non smette di squillare, ma lui non risponde. Dice che l’85 per cento degli abitanti del complesso sono giovani, alcuni con bambini piccoli. Anche lui prima viveva a Bucarest, poi si è trasferito con la moglie e il figlio. “Il primo shock l’ho avuto quando è nato il bambino”, racconta. “Per arrivare al parco più vicino, quello di Herăstrău, mia moglie doveva camminare venti minuti in mezzo alle macchine. Allora ho capito che non avevo nessun motivo per restare in città. Ricordo il frastuono dei tram e delle macchine che passavano di notte a tutta velocità. Non riesco a credere di non sentire più quel rumore”. Voicu è cresciuto in un quartiere operaio a Costanza. Dice che somigliava a Cosmopolis perché “era una vera comunità”: gente della stessa età, con lo stesso status sociale e gli stessi ideali. Oggi è convinto che quasi tutti quelli che vivono a Cosmopolis siano felici della scelta fatta, tranne poche persone che si lamentano su Facebook per la qualità delle rifiniture, la polvere che entra dalle finestre e gli insetti.
Mille nuovi muri
Cosmopolis, Greenield, Militari Residence, Confort City e gli oltre cento complessi residenziali chiusi di Bucarest e dintorni, nel distretto di Ilfov, devono il loro successo ai romeni della classe media, spesso dipendenti di multinazionali. In alcuni casi questi inquilini hanno cercato di applicare allo spazio in cui vivono le regole del loro lavoro. In un complesso nel quartiere di Titan, per esempio, c’è chi ha proposto di introdurre un sistema per definire i problemi da risolvere e poi stabilire le priorità. Per entrare nel complesso Area Residence bisogna invece sostenere un colloquio. “Se non gli piaci, non ti vendono casa”, ci racconta al telefono compiaciuto un rappresentante degli inquilini. Quasi tutti i complessi residenziali hanno un ingresso sorvegliato, sono circondati da recinzioni o laghi e sembrano separati dalla città. All’interno le persone raccontano di sentirsi sicure, parte di una comunità in cui lo stato e altri fattori esterni intervengono il meno possibile.
Gli antropologi chiamano questi complessi residenziali gated communities. La loro diffusione si spiega con la mancanza di fiducia dei cittadini nelle autorità. Più precisamente, secondo gli studiosi europei e statunitensi, chi vive in queste strutture non crede che lo stato possa offrire servizi di qualità. Qui gli abitanti si gestiscono da soli. Come spiega l’urbanista statunitense Peter Marcuse nel suo saggio Walls of fear and walls of support (muri di paura e muri di sostegno) queste cittadelle offrono servizi di vigilanza, piscine, campi da tennis e da golf, aree gioco, ristoranti e palestre di cui gli inquilini usufruiscono in comune.
“Siamo passati dal controllo assoluto dello stato sull’edilizia abitativa degli anni del comunismo all’anarchia totale”, spiega l’architetto Ştefan Ghenciulescu, docente all’università di architettura e urbanistica Ion Mincu di Bucarest e direttore della rivista Zeppelin. Ghenciulescu è nato e cresciuto a Bucarest e da sempre osserva lo sviluppo della città. Negli anni novanta – racconta – i romeni odiavano la vita nei condomini, rifiutavano tutto quello che gli ricordava una dimensione collettiva. “Ognuno voleva la casa di proprietà. Con il giardino”, ricorda Ghenciulescu. Poi spiega che chi si sposta nei nuovi palazzi in periferia cerca di tenere insieme i vantaggi della vita di città con quelli della campagna. Ma alla fine non ha né gli uni né gli altri: “ Sei isolato dalla città e dai suoi benefici, ma non godi neanche della natura e del silenzio, perché in questi posti la densità abitativa è elevatissima. Si è costruito tantissimo, non ci sono veri spazi verdi né intimità”. Il motivo è che questi comprensori sono stati realizzati senza un vero progetto, senza pianificazione o infrastrutture. “In un sistema che funziona a volte è il comune che costruisce le infrastrutture”, dice Ghenciulescu, “altre volte è il costruttore stesso, che poi le cede alla città, altre volte ancora il pubblico e il privato collaborano. Da noi non succede nulla di tutto questo”. Dopo la rivoluzione del 1989 a Bucarest sono stati costruiti molti palazzi di oltre dieci piani. Parchi e spazi verdi sono stati restituiti ai vecchi proprietari, che li hanno usati per farci soldi e hanno cementificato tutto. Il risultato è che oggi gli spazi verdi sono pochi, meno di quelli previsti dagli standard dell’Unione europea. Inoltre, secondo i dati del produttore di dispositivi GPS TomTom, Bucarest è la quinta città più trafficata del mondo.
I complessi residenziali ai margini della capitale sono una conseguenza di questi problemi, “a prescindere dal fatto che le persone se ne rendano conto o meno”, dice Ghenciulescu. Molti li scelgono per sfuggire ai fastidi della città e per vivere in maniera più sostenibile. Ma non si rendono conto che, anche facendo scelte ecologiche, alla fine consumano più risorse lì che in città. I palazzi, infatti, occupano meno spazio delle case, sono più facili da riscaldare e consumano meno energia.
Un altro motivo che spinge i romeni a trasferirsi nelle gated communities è la presenza di guardie e sistemi di vigilanza. Tuttavia, contrariamente alla percezione generale, secondo i dati Eurostat sui furti denunciati, la Romania è uno dei paesi più sicuri d’Europa, allo stesso livello del Lussemburgo e meno pericolosa di Spagna e Francia. Ma non è l’unica nazione dell’Europa orientale in cui le strutture abitative protette da cancelli e recinti sono sempre più numerose. Sonia Hirt, preside della facoltà di architettura dell’Università del Maryland, negli Stati Uniti, ha studiato le gated communities di Soia, in Bulgaria. Dopo il crollo del muro di Berlino, racconta, i paesi dell’ex blocco sovietico hanno cominciato a erigere nuovi piccoli muri. Costruite intorno a case e palazzi, queste barriere sono di fatto la conseguenza di “forti tensioni sociali. E la quantità di ferro, cemento, mattoni e malta usati per costruirle è infinitamente maggiore di quella usata per tirare su il muro di Berlino”.
Disuguaglianze e traslochi
Cosmopolis e gli altri complessi del genere sono spazi impersonali, che offrono l’illusione dell’indipendenza. Chi ci abita non vuole avere i fastidi legati alla vita nei condomìni, con le regole imposte dai vicini e dagli amministratori, spiega Bogdan Iancu. Si fugge dalla città per sentirsi parte di una comunità con un livello di sviluppo più elevato. Iancu insegna antropologia visuale e sociologia della vita quotidiana e s’interessa alle modalità abitative della classe media e alle comunità recintate. È cresciuto in un palazzo nella città di Râmnicu Vâlcea e oggi vive in un appartamento di due camere in una zona semicentrale di Bucarest. Davanti ha i grandi edifici costruiti per gli operai ai tempi del comunismo e dietro le ville borghesi di inizio novecento. Iancu racconta che i complessi residenziali chiusi non si trovano solo a Bucarest, ma anche, seppure in numero minore, in altre grandi città del paese. Gli abitanti di Cluj-Napoca, tuttavia, sembrano preoccupati più per la chiusura degli spazi pubblici, che per la tutela di quelli privati.
Qualche anno fa l’associazione dei condomini di un palazzo ha fatto erigere una grande porta per limitare l’ingresso a uno dei punti più pittoreschi della città, lungo il canale del mulino, dove i bambini vanno da sempre a vedere le anatre. Adrian Dohotaru, un attivista poi eletto deputato con il partito Unione salvate la Romania, è stato tra quelli che si sono battuti per eliminare la porta. “Alla fine, dopo l’intervento del comune, la barriera è stata demolita, in quanto illegale. I muri non incoraggiano la mescolanza sociale”, dice Dohotaru, che ricorda come in Romania il problema delle disuguaglianze sia particolarmante serio. Per questo è convinto che le autorità dovrebbero cercare di limitare il fenomeno delle gated communities. “Il proliferare di queste strutture indebolisce la città.
Una democrazia efficace ha bisogno di spazi pubblici, non di luoghi chiusi in cui le persone si isolano sempre di più”. Più di altri centri romeni, oggi Bucarest è un aggregato di comunità recintate, separate dalla città da cattive infrastrutture. Spesso le strade di nuova costruzione non sono state pensate per far fronte al traffico generato dai grandi palazzi sorti in periferia. Oltre a quello delle infrastrutture, alcuni abitanti dei complessi recintati hanno anche un altro problema: dopo essersi trasferiti si rendono conto che la nuova vita non fa per loro e che il silenzio li disturba. Il cambiamento dello stile di vita riguarda anche chi decide di andare a vivere nei paesi poco fuori Bucarest. Carmen Mihalache, etnologa del Museo del contadino romeno ha lasciato il suo appartamento in città per trasferirsi nel comune di Chiajna.
Subito dopo il trasloco ha cominciato a studiare la storia di questa comunità, cercando di capire come i nuovi arrivati ne stiano cambiando le abitudini. Nel centro di Chiajna ci sono le case vecchie, ognuna con il suo orto e il suo giardino; in periferia si vedono invece i muri in cemento voluti dai nuovi abitanti per recintare i loro prati. Mihalache racconta che chi arriva dalla grande città non è interessato a entrare in contatto con la gente del posto e le sue tradizioni. In questo modo il divario tra i vecchi e i nuovi abitanti si allarga. “È come se venissero i colonialisti e si sedessero accanto ai nativi”, commenta Bogdan Iancu. Alcuni “cittadini” gli hanno confessato che a volte si mettono a guardano con il binocolo cosa fanno gli abitanti più poveri, come fosse “una specie di safari umano”, aggiunge l’antropologo.
I vantaggi del proprietario
Per comprare una casa spesso gli abitanti di Bucarest accendono un mutuo. E molti si rivolgono a Dragoş Nichifor, che dirige una delle più vecchie società di intermediazione finanziaria della città. Nel 2006 Nichifor ha comprato un appartamento in un quartiere semiperiferico della città. Allora il mercato immobiliare era in rapidissima crescita, tanto che era difficile anche solo riuscire a visitare delle case in vendita. Nessuno immaginava che presto sarebbe arrivata la crisi e i prezzi sarebbero crollati. “Ho visto l’appartamento per un paio di minuti, non sono nemmeno arrivato sul balcone. E ho subito detto all’agente immobiliare che l’avrei preso”, racconta. “È assurdo. Perfino per comprare una bicicletta ci si mette di più”. L’ideale, aggiunge, sarebbe “poter passare qualche ora nell’immobile, magari affittarlo per un giorno, passarci la notte”.
Nichifor segue il mercato immobiliare da quando era adolescente. Nel 2002 a Bucarest un appartamento di due stanze costava circa 15mila euro. Sei anni dopo, all’apice della bolla immobiliare, per lo stesso appartamento potevano volerci anche 120mila euro. La crisi ha fatto crollare i prezzi di oltre il 50 per cento, ma da qualche anno il mercato ha ripreso a crescere. Nel giro di cinque anni si potrebbe tornare ai livelli pre-crisi. Nichifor è convinto che i romeni non vogliano vivere in affitto per motivi economici, ma anche per colpa della burocrazia e delle falle nella legislazione che regola i rapporti tra proprietario e locatario. “Quando il mercato è caotico e non regolamentato, con ognuno che fa come vuole, è chiaro che possedere una casa offre certezza e stabilità”. In Romania la maggior parte degli affittuari non ha contratti registrati e non conosce i propri diritti. Il risultato è che, quando ci sono problemi, di solito si risolvono a favore del proprietario.
A quanto pare, continua Nichifor, i giovani sono quelli che hanno più fretta di comprare. Ma prendere un prestito prima dei trent’anni può essere un rischio, perché a quell’età è difficile prevedere che direzione prenderà la propria vita. E con la prima casa si può rimanere in trappola, senza la possibilità di rivendere o di affittare per cinque anni. Bogdan Suditu, esperto di pianificazione territoriale, è d’accordo. Anche lui crede che i giovani dovrebbero stare in affitto per un po’ prima di diventare proprietari. Tra il 2006 e il 2013 Suditu ha guidato l’ufficio per i servizi urbanistici, lo sviluppo locale e le politiche abitative del ministero dello sviluppo economico, e ha anche lavorato alla riforma dell’Agenzia nazionale per la casa (Anl), che dovrebbe offrire soluzioni abitative ai giovani senza mezzi economici. “Chi si occupa di politiche pubbliche in questo paese non si è mai concentrato sull’affitto”, dice Suditu, convinto che in Romania manchi un dibattito serio sulle politiche abitative, “forse perché l’edilizia è uno dei settori che ‘muovono l’economia’”.
Con qualche eccezione, in Europa occidentale e negli Stati Uniti è normale vivere in affitto, almeno in dai tempi della rivoluzione industriale. I proprietari controllano interi palazzi che amministrano come vere e proprie aziende. In alcuni paesi, poi, lo stato interviene a tutela degli inquilini. In Germania, dove quasi la metà della popolazione vive in affitto, i prezzi sono regolamentati dalle autorità e i proprietari non possono aumentare il canone prima della fine del contratto. In più, se vogliono riaffittare l’appartamento ad altri, devono prima parlare con i vecchi locatari.
Domicilio instabile
“Tre traslochi equivalgono a un incendio per quanto riguarda i danni che fanno a una casa”, dice Pompiliu Sterian. A 98 anni, Sterian recita nello spettacolo di teatro documentario Domicilio instabile accanto ad altri anziani della casa di riposo della comunità ebraica Moses Rosen, a Bucarest. In scena indossa una cravatta dorata e una giacca azzurra e racconta ai giovani come si viveva in città tra le due guerre e durante il comunismo. “I proprietari aumentavano continuamente l’affitto. Se non eri d’accordo, ti buttavano fuori. E non potevi farci niente perché non avevi un contratto”. Gli altri anziani snocciolano le loro storie, sempre influenzate dalla classe sociale di appartenenza. Alcuni ricordano con piacere il periodo prima della seconda guerra mondiale, quando erano proprietari di grandi case, e si lamentano del comunismo, che li ha costretti a vivere accanto a nuovi inquilini; altri raccontano che il comunismo gli ha permesso di vivere in appartamenti in affitto. Lo spettacolo è messo in scena dal regista David Schwartz, che lavora da tempo con gli anziani della casa di riposo. È un tentativo di raccontare i modi dell’abitare a Bucarest negli ultimi ottant’anni e di capire come siano stati percepiti dai cittadini i cambiamenti dell’ultimo secolo.
Schwartz ha 32 anni, è alto, porta i capelli corti e indossa una canottiera gialla larga e dei pantaloni corti di cotone. Ci incontriamo al Macaz, un teatro-bar gestito da una cooperativa di artisti. Il regista spiega di aver cominciato a interessarsi al tema della casa nel 2006, quando molti, tornati proprietari delle case che erano state nazionalizzate, hanno cominciato a sfrattare le famiglie povere che ci abitavano in aitto. Colpito dall’ingiustizia, insieme ad alcuni compagni di università Schwartz ha realizzato uno spettacolo teatrale per raccontare la sorte degli sfrattati. Da allora non ha mai smesso di occuparsi di povertà e disuguaglianze sociali. Katia Pascariu, una delle attrici che lavorano con lui, racconta che in Domicilio instabile è stato sorprendente vedere come i racconti degli anziani non coincidessero. Ognuno credeva che la sua esperienza fosse condivisa da tutti. Lo spettacolo è quindi un tentativo di mettere insieme punti di vista opposti sul tema dell’abitare. E si chiude con Sterian in , sul palco, che recita i seguenti versi:
Che ognuno abbia una casa,
con tante prelibatezze sulla tavola.
E, perché no?
Diciamolo chiaramente:
che sia anche proprietario.
Come in vacanza
In un appartamento di due camere nel quartiere di Drumul Taberei, la madre di Răzvan, l’avvocato che abbiamo conosciuto a Cosmopolis, tira fuori da un cassetto un servizio da cafè proveniente da Kaleh, l’isola sul Danubio che fu sommersa dall’acqua nel 1970 durante la costruzione della grande diga sul fiume, all’altezza delle Porte di ferro. Mariana Petrescu conserva anche altri oggetti della casa dei genitori, a Craiova: vasi di porcellana, candelieri e vassoi d’argento. Costruita dal nonno, la casa aveva due piani e dieci camere. Ai tempi del comunismo fu demolita per far posto a dei palazzoni. “Sono cose che non si dimenticano”, dice la donna. “Ci soffro ancora”. Mariana è piccola di statura, ha i capelli neri e porta un paio di occhiali con la montatura dorata. È ingegnera e fino a pochi anni fa insegnava all’università. Prima che l’edificio fosse demolito, i comunisti le avevano messo degli inquilini in casa e sequestrato gli oggetti di valore. “Allora avevo paura di invitare i colleghi: temevo che potessero vedere quello che avevamo”, dice. “E ancora oggi vivo con questo terrore: far entrare sconosciuti in casa”. Anche il padre di Răzvan, Sorin Petrescu, veniva da una famiglia considerata borghese ai tempi del comunismo. Avevano una casa e una piccola fabbrica di prodotti chimici: fu tutto confiscato. E lui fu mandato ai lavori forzati perché non aveva consegnato una collanina d’oro.
I genitori di Răzvan si conobbero alla stazione Obor di Bucarest. Erano entrambi pendolari e si resero subito conto di avere tante cose in comune. Lui la invitò al ristorante e dopo un anno si sposarono. All’inizio andarono ad abitare in un monolocale di 18 metri quadrati ricevuto dallo stato. Tenevano aperte porte e inestre perché gli sembrava di sofocare. Dopo la nascita di Răzvan riuscirono ad avere un appartamento di due stanze. Ma erano al piano terra e d’inverno si gelava. Dal 1987 Mariana ha cresciuto Răzvan da sola. “Da quando mio marito è morto non sono nemmeno più andata in vacanza. Non sono più stata da nessuna parte. Ho solo lavorato”. Răzvan era il suo unico appoggio. “Gli ho sempre detto che eravamo noi due soli. Anche se era un bambino, parlavo con lui di tutto quello che mi preoccupava”.
I soldi bastavano a malapena per arrivare alla fine del mese. Dopo il 1989 Mariana ha comprato dallo stato l’appartamento di due camere in cui abitava, prendendo un prestito alla Cassa di mutuo soccorso, alimentata dai contributi dei lavoratori. Lo stesso hanno fatto anche molti altri romeni, approfittando della misura che permetteva a tutti i cittadini di comprare dallo stato l’appartamento in cui abitavano (in quegli anni sono stati venduti più di 1,8 milioni di appartamenti, ciascuno per un prezzo equivalente a qualche stipendio mensile). Dal suo appartamento di Bucarest Mariana Petrescu pensa spesso al figlio che vive a Cosmopolis. Ricorda che in da piccolo Răzvan sognava una casa con giardino. Quando va a trovarli le sembra di “stare in vacanza”, anche se la loro casa non è “nemmeno un quarto di quella che avevano i miei genitori a Craiova”. All’ora di pranzo di una domenica qualsiasi la strada principale di Cosmopolis è deserta. Al cancello i vigilanti fermano le macchine che non riconoscono. Alice e Răzvan raccontano che a Cosmopolis speravano di trovare maggiore sicurezza per la figlia.
Una delle piscine di Cosmopolis |
E per un certo periodo hanno creduto di aver fatto la scelta giusta. Ma le grandi manifestazioni contro la corruzione organizzate a Bucarest all’inizio del 2017 gli hanno fatto cambiare idea. A febbraio sono scesi in piazza anche loro e si sono resi conto che, per quanto cerchino di tenersi lontani dall’incompetenza delle autorità, vivere isolati non è possibile. Neanche dietro le barriere del loro complesso residenziale. Oggi pensano di lasciare il paese, magari per trasferirsi in Portogallo. “Quando penso che a un certo punto nostra figlia dovrà andare a scuola mi vengono i brividi”, dice Alice. Anche l’inefficienza della sanità pubblica le fa paura. Verso sera arriva la nonna per giocare con la nipotina. Sta con loro in giardino, all’aria aperta. Dice che Răzvan ha tutto quello che ha sempre desiderato: sicurezza, una famiglia, una casa. Lei l’ha aiutato come ha potuto e gli ha dato i soldi ricavati dalla vendita di alcuni terreni recuperati dopo il 1989. “Non importa quello che ho passato io. Questa è la mia ricompensa”.
Tutte le immagini sono prese dal sito: https://blog.cosmopolis.ro/
comune-info.net, 22 novembre 2017. «Esiste un altro modo di intendere il “possesso” in forma collettiva, condivisa, solidale, partecipata». (p.d.)
L'Espresso, 14 Novembre 2017. Dopo avere spacciato il turismo come un'irrinunciabile risorsa economica e lasciato a divorare le nostre città, le proteste di cittadini e il degrado forse faranno cambiare tattica, con Barcellona che ci prova (i.b).
Da Brescia arriva una sentenza che può esser rivoluzionaria. Qualche giorno fa il comune è stato condannato a pagare 50.000 euro a due cittadini che l’avevano denunciato per non aver controllato gli schiamazzi della movida del centro. Fiorita nel linguaggio (si appella al “rumore antropico per gli schiamazzi di avventori di alcuni locali che stazionano nei pressi dei plateatici o dei locali su suolo pubblico”), la sentenza dà finalmente ragione ai cittadini angariati dal fracasso. Se dovesse fare giurisprudenza, avrebbero di che tremare i comuni di mezza Italia, anzi di mezza Europa.
Da tempo, da città diverse e lontane (dalla Liguria a Barcellona, da Venezia a Firenze, dalle Cinque Terre al Salento, da Roma come dal lago di Garda) arrivano ruggiti di protesta nei confronti delle invasioni di turisti, di vacanzieri e di frequentatori di festival: folle incontrollabili, danni a monumenti e spazi pubblici, fracasso, indisciplina e molestie, risentimento e ira dei residenti.
A Barcellona, i residenti e le autorità si sono coalizzati e per la prima volta in luglio si sono avute manifestazioni di piazza contro l’orda turistica: «vogliamo i rifugiati, non i turisti», dicevano i cartelloni, che si son visti in giro almeno fino a che il terribile attentato di metà agosto non ha spostato l’attenzione. Nel contempo, a Venezia, Firenze e Roma si segnalano numerosi i casi di danneggiamenti e esibizioni hot prodotti da visitatori fuori controllo. Venezia perde a vista d’occhio residenti e converte le abitazioni in stanze da affittare. In alcune città di mare si studiano regole per limitare gli accessi alle spiagge pubbliche. Proteste dello stesso tipo si levano da più parti a proposito dell’occupazione notturna delle città, ormai soffocate da festival, musiche, gente sbronza e code di automobili. Perfino in montagna si segnalano folle di scalatori improvvisati, che danneggiano l’ambiente e si cacciano in situazioni spesso fatali.
Questi fatti minuti rivelano una metamorfosi profonda di alcuni aspetti del vivere nella modernità. Siamo stati abituati per decenni a considerare turismo e entertainment come risorse economiche e forme importanti di socialità e cultura. Ora scopriamo che stanno cambiando natura e diventando intrusivi e distruttivi. Invece di servire alla cura e alla protezione dell’ambiente in cui si hanno luogo, lo lasciano degradato e danneggiato.
Come si spiega questa svolta? Alle spalle di tutto sta la metamorfosi dell’idea diffusa di tempo libero e di divertimento, che è cominciata negli anni Ottanta e continua ancora. Fino a tre generazioni fa, il tempo libero era un intervallo, di durata variabile, ricavato tra due fasi del lavoro. Serviva soprattutto per riposarsi, cioè non far niente e ritrovare così le forze e la voglia di ricominciare. Grandiosa conquista delle democrazie occidentali con la spinta del socialismo umanitario, il tempo libero si deve alle lunghe lotte sindacali sviluppate tra Otto e Novecento per assicurare ai lavoratori dei giorni di riposo a paga intera. Inevitabilmente, anche nell’uso del tempo libero si riflettevano le differenze di classe: gli umili lo passavano nello stesso posto in cui abitavano, magari mandando i figli da uno zio o da una nonna; i benestanti andavano in vacanza o (come si diceva allora) in villeggiatura cambiando sede e ambiente.
Come in altri ambiti, anche qui la modernità ha cambiato le carte in tavola. Anzitutto, una cospirazione di fattori ha trasformato il tempo libero in tempo-sempre-occupato. Al non far niente s’è sostituito il divertimento. «Sentire la vita, divertirsi» precisa Kant nella sua “Antropologia pragmatica” «non è altro che sentirsi continuamente spinto a uscire dalla condizione presente (la quale deve quindi essere un dolore che spesso ritorna)». Sarà per il bisogno di uscire da questo “dolore” che il riposo è stato sostituito dalla spinta a partire a ogni costo e in ogni momento, cioè, in fondo, a stancarsi sotto altra forma? La villeggiatura (prima di sparire anche come termine) si è trasformata in viaggio, experience e quasi diritto politico; le plaghe più impervie e remote del pianeta sono diventate improvvisamente desiderabili per effetto delle culture alternative.
Negli anni Settanta giovani alternativi, figli dei fiori, rasta o new age hanno inventato la cultura del viaggio estremo, aprendo piste verso paesi del tutto ignoti fin allora. A loro si sono poi aggregati anche i borghesi, medi e piccoli, e perfino piccolissimi, incoraggiati dalla nascita delle compagnie low cost. A quel punto (siamo agli anni Novanta del secolo scorso) il viaggio, il movimento, lo spostamento nei minimi intervalli di tempo è diventato un fenomeno frenetico, travolgente, inarrestabile, che coinvolge tutti e tutto. Inoltre, se il viaggio di un tempo si concludeva con un ritorno (alla maniera di Ulisse: come racconta Eric J. Leed nel suo bellissimo “La mente del viaggiatore”, il Mulino), ora sfocia in un altro viaggio. I paesi che non hanno risorse adatte, se le creano. Si inventano dal nulla ambienti fake con la neve in pieno deserto o isole artificiali per costruirci grattacieli (come ad Abu Dhabi).
La rete ha esaltato questo schema oltre misura: fornisce all’istante informazioni su paesi sconosciuti, offre sistemazioni di ogni tipo, confronta prezzi e favorisce amicizie per scambi di case e magari di coppie. In sostanza, erode il senso del reale, del distante e del diverso, banalizza la storia e la geografia, rende il pianeta ovvio e fake, fa sembrare tutto facile e elimina l’elemento di ignoto e di pericolo che il viaggio ha sempre contenuto. Oggi “si fa” (il termine tecnico è questo) la Thailandia o il Nepal con la stessa scioltezza con cui una volta si andava da Roma a Ostia; si sverna a Cuba o in Costa Rica; si fanno viaggi di nozze nelle foreste del Belize; si approfitta di ogni ponte per “fare (o farsi)” una riviera corallina australe o pernottare in mezzo al deserto. La funzione di scoperta è estinta: tolta forse la foresta pluviale e il centro del Congo, si parte sapendo già tutto. Naturalmente, quando il remoto e l’arduo diventano prossimo e banale, ci si arriva con la stessa sciatta incoscienza con cui si frequenta ciò che è prossimo e usuale, anche se Rangoon o il Nepal non sembrerebbero poter essere affrontati con lo stesso spirito, le stesse aspettative e lo stesso piglio con cui si va a Riccione o a Genzano.
A quest’impetuoso trend si sono accodate le amministrazioni pubbliche, che, sviluppando con malagrazia un’idea geniale di Renato Nicolini (Roma, anni Settanta), hanno deciso di trasformare le città in scenari di eventi di ogni tipo, preferibilmente fragorosi. Alcune città (come Gallipoli in Italia, Magalluf a Mallorca, Santorini in Grecia e tante altre) si sono immolate deliberatamente, proclamandosi luoghi di movida h24. A Parigi, la sindaca Anne Hidalgo ha creato perfino un “delegato alla notte”, anche se la cittadinanza comincia a non poterne più delle feste continue.
È la completa carnevalizzazione del mondo: ogni luogo, momento, monumento, risorsa, paesaggio è fatto per divertirsi. Il divertimento è ininterrotto, anche se dovesse produrre rovine, oltre che mostri. Sarà forse per il motivo che suggeriva l’acuto Kant (che non era mai stato in vacanza in vita sua), cioè per evitare «il vuoto di sensazioni in sé», che «desta orrore (horror vacui) e quasi il presentimento di una lunga morte»? Blaise Pascal sosteneva che «tutte le infelicità dell’uomo derivano da una sola cosa, cioè dal non saper restare in riposo in una stanza». Di certo esagerava. Ma con uguale certezza esagerano i milioni di turisti e movidari che, con la complicità di molti amministratori, trattano il resto del mondo come la loro stanza (a volte come la loro latrina) e non si curano neanche di lasciarla in ordine quando escono.
la Nuova Venezia, 21 novembre 2017. «Aumentati in centro storico, esplosi in terraferma. Murray Cox: “Servono regole o la città diventa solo scenario”». (m.p.r.)
Decuplicati. In due anni, gli appartamenti a uso turistico offerti sulla piattaforma Airbnb non sono solo cresciuti a Venezia (passando dai 2.672 del 2015 ai quasi 4 mila di oggi), sono più che raddoppiati nelle isole (da 147 a 391) e addirittura moltiplicati per dieci volte a Mestre e Marghera, dove erano solo 309 due anni fa e oggi sono oltre 3 mila: il che significa, che l'espulsione dei residenti per mancanza di case in affitto è un fenomeno che da Venezia si sta allargando, ammorbando anche la terraferma.
il Fatto quotidiano, 17 novembre 2017. Una iniziativa esemplare di utilizzazione comune di un bene comune, abbandonato dalle istituzioni e restituito alla produzione di beni per la vita quotidiana
“Quando vivi in un piccolo paese – spiega Matteo, uno degli occupanti di Mondeggi Bene Comune – e vedi per anni migliaia di ulivi abbandonati, puoi fare una sola cosa: prendertene cura”. Bagno a Ripoli e Capannuccia sono Comuni dell’area fiorentina. Mondeggi è una tenuta agricola di proprietà della Provincia di Firenze: 200 ettari tra bosco, oliveto, vigneto, seminativi, casolari e una villa di età medicea. Nel 1538 la tenuta fu acquistata dai Conti della Gherardesca. Nel 1964 la proprietà passa alla Provincia che gestisce il fondo tramite l’Azienda Agraria Mondeggi Lappeggi Srl. Nel 2009 l’azienda finisce in liquidazione per un debito di circa 1,5 milioni, i terreni vengono abbandonati.
Nel 2012 la Provincia mette all’asta la tenuta per ripianare il debito. Ma gli abitanti si oppongono. Partono campagne di sensibilizzazione, centinaia di cartoline arrivano al governatore della Toscana, Enrico Rossi, con la richiesta di non alienare i terreni. Nel 2013 nasce il comitato “Mondeggi Bene Comune”. L’asta va deserta, tranne che per alcuni lotti. Gli ulivi sono soffocati da piante infestanti, il terreno incolto. È questo a spezzare il cuore agli abitanti. “L’iniziativa di occupare la terra non è partita dai giovani o dagli studenti – racconta ancora Matteo – ma dagli anziani. Loro hanno spinto i giovani a organizzarsi e a prendersi cura di Mondeggi”.
Nel giugno del 2014, si occupa il primo casolare, i volontari e gli abitanti dei paesi limitrofi iniziano a ripulire le aree. “Le istituzioni – dice Stefano, pensionato – ci vedono come ladri di olive, ma gli ulivi stavano morendo, soffocati dai rovi e dall’edera, ma noi però ne abbiamo salvati circa 7 mila e tanti pensionati come me hanno ritrovato il senso del vivere in comune”.
Partono i primi progetti: oliveto, vigna, orti, birrificazione. Ciascuno si prende cura di una particella, di circa una trentina di ulivi, il fabbisogno annuo di olio per una famiglia. Nelle aree a seminativo si coltivano grani antichi, trasformandoli in pane. Da poche decine i volontari diventano trecento. Nasce una Scuola contadina, formata da agricoltori, giovani agronomi, docenti e ricercatori universitari. I corsi sono aperti a tutti: apicoltura, orticoltura, viticoltura.
Ci si interroga sul modello giuridico da adottare, ispirandosi all’uso civico e collettivo sperimentato all’Ex Asilo Filangieri di Napoli. Anche Mondeggi si dota di una dichiarazione di uso civico, citando la nozione di “utilità sociale” (articoli 41, 42 e 43 della Costituzione), il principio di sussidiarietà (articolo 118) e la nozione di “bene comune” elaborata nel 2007 dalla Commissione Rodotà. Nascono collaborazioni con associazioni e con progetti internazionali.
La Città metropolitana, che ha sostituito la Provincia, dichiara guerra: non riconosce la comunità come interlocutore, diffida le associazioni locali dallo svolgere le proprie attività nell’area auto-gestita da Mondeggi Bene Comune, “invita” a eliminare dai propri programmi qualsiasi riferimento alla realtà sociale.
Eppure, negli anni, dalla parte di Mondeggi sono scesi in campo giuristi come Paolo Maddalena. “Se l’ente proprietario – spiega l’ex vicepresidente della Corte costituzionale – pubblico o privato che sia, abbandona i beni, essi tornano nella disponibilità del popolo che è l’originario proprietario collettivo a titolo di sovranità. Questo implica il pari uso del bene da parte del popolo e la conservazione del bene stesso, la vendita è esclusa”. L’asta continua, così come la resistenza degli abitanti di Mondeggi
La città invisibile, 13 novembre 2016. Analisi, a partire di Firenze, del turismo d'oggi come nuova forma di economia di saccheggio delle risorse operato dalle aziende globalizate nei deserti creaati dallo "sviluppo"
L’industria del turismo prolifera nella città storica, vuota di residenti stabili. È un’economia di rapina che saccheggia le città monumentali. Il turismo cava denaro da un patrimonio monumentale di dimensione finita e non è in grado di riprodurne. Assume caratteri simili a quanto, nel Sud del mondo, è stato definito “estrattivismo”: economia di saccheggio delle risorse e loro esportazione, attuata spesso con metodi violenti contro il volere delle popolazioni insediate.
Questa nuova forma di colonialismo operato non più dagli stati-nazione ma dalle multinazionali globalizzate, prospera – sub specie turistica – nei deserti urbani, nella città dei recinti, delle zone rosse, dei limiti invalicabili (che nascono e si moltiplicano nel clima determinato dagli attentati terroristici, indirizzati proprio verso le città d’arte). Nella città dei recinti, la cittadinanza è espropriata dei luoghi centrali di vita urbana, quando non fisicamente espulsa dai “centri storici” cui, negli anni Settanta, fu attribuito un forte ruolo sociale, aggregativo, civilmente costitutivo e oggi interamente soppiantato dal loro potenziale economico.
Ma come avviene l’espropriazione degli spazi urbani pubblici, monumentali, degli spazi comuni e di relazione? Quali sono le politiche di gestione e i meccanismi amministrativi che determinano l’espulsione fisica dei residenti e degli abitanti?- Cominciamo dagli spazi pubblici e dagli immobili di uso collettivo. Negli ultimi tre decenni, nelle città d’arte italiane, abbiamo assistit– all’allontanamento delle funzioni dal centro (operazione che un tempo andava sotto la voce “decentramento”). Sia delle funzioni rare (università, tribunali, teatri etc.) sia dei servizi al cittadino, diffusi nel tessuto centrale (uffici postali, anagrafe, poliambulatori, asili etc.);– alla compulsiva messa in vendita degli edifici pubblici, in posizione centrale, rimasti vuoti o appositamente svuotati di usi collettivi: caserme, tribunali, corte d’assise, etc., ma anche immobili destinati a residenza popolare (ERP);– alla trasformazione dei grandi immobili in disuso, sia quelli privati che quelli pubblici alienati di fresco, in strutture esclusive, rivolte al consumo di lusso, al di fuori ogni programmazione o comunque in deroga alla pianificazione;– alla pedonalizzazione di vaste aree centrali non compensata da un organico piano del servizio del trasporto pubblico: a Firenze, l’esclusione del transito dei mezzi pubblici da piazza del Duomo non affiancata da un’organica riorganizzazione della rete del trasporto pubblico medesimo ha sottratto l’accesso al Quadrilatero romano – piazze del Duomo, della Signoria e della Repubblica – a una fetta consistente della popolazione. La privatizzazione dell’ATAF (Azienda trasporti area fiorentina) ha fatto il resto;– alla metamorfosi dei monumenti e musei in cash machines (da fine anni Ottanta, nelle città storiche peninsulari le principali chiese sono trasformate in musei e, a causa del biglietto d’entrata, sostanzialmente chiuse ai residenti);
– alla mercantilizzazione delle piazze, dei ponti, delle strade e degli ambienti monumentali (musei, biblioteche etc.) tramite affitto temporaneo, finalizzato ad ospitare attività lucrative;
– alla liberalizzazione del commercio dovuta al decreto 114/1998, detto “Bersani” – che ha oliato il processo di propagazione dei centri commerciali suburbani, in voga negli anni ‘90 e duemila – e alla conseguente trasformazione delle botteghe artigiane e di vendita al dettaglio in luoghi del foodismo: l’assenza di piani del commercio che possano effettivamente definirsi tali asseconda il moltiplicarsi e il continuo ricambio di locali di ristorazione, settore di primario interesse della malavita organizzata (cfr. Rapporto Agromafie 2017).
L’espulsione della popolazione residente dal centro urbano monumentale è stata graduale, ma numericamente significativa. A dimostrazione del contrario – ma scambiando artatamente la residenza con il transito – il sindaco di Firenze ha gioito pubblicamente a seguito della pubblicazione di uno studio di mobile analytics che stima il passaggio giornaliero dal centro cittadino (in una città in cui il traffico privato e pubblico, su gomma e su ferro, è sostanzialmente centripeto e nella quale il polo fieristico è situato sul circuito delle mura trecentesche) in decine di migliaia di fiorentini e “city-users”.
Tale espulsione ha riguardato le fasce sociali basse e medie (che nel frattempo col turismo fanno i loro affari affittando appartamenti a breve termine), ma sta togliendo il respiro ai diseredati, agli ultimi, che si accalcano nei “bassi” e negli appartamenti più sfortunati delle aree ancora non appetibili, sulle quali tuttavia gli appetiti progressivamente si estendono. Diseredati e ultimi che pure costituiscono l’esercito dei manovalanti, sfruttati e malpagati, dell’industria turistica.
Verso gli ultimi, la guerra è in atto, su vari livelli. Sul fronte del diritto alla casa, innanzitutto: l’eclissi dell’edilizia residenziale pubblica e il ricorso diffuso e insistente a sfratti esecutivi hanno creato una pletora di famiglie in disagio abitativo legato alla mancanza di lavoro sicuro e tutelato.
L’altro livello di espulsione è fondato sul securitarismo, ed ha vari gradi di incisività: arredo urbano a carattere disciplinare (panche prive di schienale, dissuasori di sedute, catene e catenelle etc.); cancellate a chiusura dei portici di città, da secoli luoghi di pronta accoglienza per erranti; diffusione di illuminazioni in stile carcerario delle strade “calde” e la loro parziale militarizzazione. Infine, ultimo solo cronologicamente, il Daspo urbano: atto di «una guerra senza quartiere ai marginali d’ogni risma» che estende all’intera città le misure vigenti negli stadi, in nome della sicurezza e del decoro urbano.
Ciò che sconcerta è che il Daspo incide proprio sulle aree turistiche: mendicanti, poveri, diseredati, rom, “clandestini”, venditori “abusivi”, antagonisti, punkabbestia, dissidenti, graffitari, lavavetri, saltimbanchi e cantastorie rischiano infatti un «provvedimento di allontanamento» per condotta non consona al decoro delle aree urbane su cui insistono – eccoci al turismo – «musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici» (art. 5, comma 2, lett. c, del decreto Minniti del febbraio 2017).
È stato scritto che con il Daspo «Lo Stato Sociale si trasforma in Stato Penale»: l’attribuzione in capo ai sindaci della potestà di istituire un recinto turistico, un divieto ad personam di accesso alla città, corrisponde infatti all’abbandono della lotta alle diseguaglianze sociali dando l’avvio a una nuova battaglia, di stampo liberista, in favore dei privilegi proprietari.
Quali strumenti mettere in atto per confermare la tradizione di inclusività delle città storiche? Come restituirle alla cittadinanza espulsa? Come liberarsi dalla monocoltura turistica?
All’ostinato servilismo degli amministratori nei confronti delle multinazionali del turismo, alla gestione urbanistica ridotta a mera ragioneria, alla coincidenza tra città storica e Mercato, l’alternativa – almeno dal punto di vista urbanistico – risiede innanzitutto nella messa a fuoco del progetto comune sullo spazio comune (che ha interesse culturale globale), nell’assunzione di una visione organica delle trasformazioni, degli usi e delle disponibilità sociali degli spazi urbani centrali. Per colmare l’assenza di programmazione e di progettualità, e interrompere quel procedere per singole operazioni legate alle opportunità offerte dal Mercato a Comuni in balìa degli investitori esteri, è necessario far ricorso – e individuarne una possibile evoluzione – ai piani per la città storica messi in atto a partire da Bologna (1969). E, in primis, come nell’esempio appena richiamato, è urgente che l’edilizia residenziale pubblica torni nel cuore città storica.
Se è certamente necessaria una visione programmatoria del commercio al dettaglio e dei pubblici esercizi, ancor più lo è per un utilizzo sapiente e coerente dei grandi immobili pubblici dismessi, affinché caserme, ex conventi, case di mendicità, stabilimenti di manifatture etc. – trasformati in sedi di residenza collettiva, provvisoria e popolare, luoghi di lavoro e di elaborazione culturale – diventino, nei rioni, nuclei, fuochi di urbanità.
Abbandonato il ruolo di servizio alla rendita, le politiche urbane possono finalmente orientarsi verso pratiche di accudimento della città esistente (il centro quanto le periferie), di cura e di recupero, anche in senso sociale. Attraverso l’ascolto della cittadinanza – di quella più avvertita, più critica, e del fermento che agisce nelle città e nei territori dove si elaborano collettivamente forme di resistenza ed esistenza socialmente soddisfacenti e desiderabili – possono essere messe in atto pratiche di ricostruzione dei legami sociali e relazionali in senso ecologico.
Il distacco dal paradigma economicista-finanziario – fondato sul mito della produttività, dell’efficacia, della competizione – costituisce la premessa inaggirabile per questo rivoluzionario “balzo” verso un modello di riproduzione, di cura dell’esistente, di costruzione di sapienti relazioni col vivente tutto.
Il presente testo è la trascrizione del contributo dell’autrice all’incontro “Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo”, con Marco D’Eramo, Franca Falletti, Ornella De Zordo e Clash City Workers. L’incontro, tenutosi a Firenze il 21 ottobre 2017, è il primo appuntamento del ciclo “La fabbrica del turismo nelle città d’arte: il caso Firenze” organizzato dal laboratorio politico perUnaltracittà e CCW.
officinedeisaperi.it online, 12 novembre 2017. Nei drammi della periferia romana la testimonianza di ciò che accade quando le politiche dei decisori perde ogni contatto con la quotidianità delle vite vissute dalle persone.
La pianificazione si occupa ormai dei luoghi del consumo; della produttività; del commercio; dell’arte, nella misura in cui è funzionale al mercato; dello sport, laddove è conforme alla possibilità di essere mercificato. I luoghi destinati alla vita di relazione, allo scambio di emozioni e di esperienze, in altre parole la città pubblica, è scomparsa dalle visioni della politica e delle amministrazioni fantasma nelle quali si traduce. I bisogni immateriali degli esseri umani sono schiacciati prepotentemente su una qualsiasi delle chiavi sopra indicate, invitati a trovare la loro falsa realizzazione in uno dei modi attraverso i quali possono essere messi a profitto. Le città non somigliano più neppure lontanamente a quanto ancora la parola “città” prova ad evocare semanticamente in noi. Sono simulacri privi di una qualsiasi forma di vita indipendente dalle leggi della vendita e della compera. Si dice che dal medioevo a oggi ci sia stato un progresso democratico. Qualsiasi centro medievale attesta il contrario. In qualsiasi centro medievale è certamente più ingombrante il potere, ma vi si scorge chiaramente l’attenzione per il luogo della vita comunitaria. Si sente ancora il respiro del luogo ed è facile riscontare l’armonia con il territorio. Nel moderno medioevo delle nostre città, dei nostri quartieri, invece, il potere è certamente meno visibile e ingombrante, ma la sua apparente assenza è compensata da un’assoluta mancanza di senso. Si tratta di luoghi anonimi, che hanno perso il rapporto con i territori che li circondano e sembrano disabitati anche e soprattutto quando sono pieni di gente.
Oggi abitiamo luoghi progettati per non essere vissuti. Ostia è un esempio illuminante in questo senso. È forse l’unico posto di mare al mondo dove non c’è più neppure un pescatore, vale a dire nessun uomo che viva della specificità del suo territorio e questo qualcosa ci dice. È un luogo che ha perso ogni rapporto vitale con il mare che gli vive accanto, svilendone le tradizioni e consumandolo villanamente alla prima parvenza d’estate. Una piccola cittadina che ci ostiniamo a chiamare quartiere, votata a dissolvere la meraviglia in cui potrebbe vivere facilmente se solo lo volesse, o tornasse a volerlo. A Ostia l’insoddisfazione è l’unico sentimento ad avere qualche possibilità di futuro, ma in quanto sentimento, è anch’esso destinato ad essere messo a profitto. Le diverse organizzazioni in odore e in metodo di malavita, non fanno altro che provare a organizzare le uniche relazioni contrastive del vuoto progettuale cui altrimenti quei luoghi sarebbero destinati, da politiche cieche e sovra-determinate. In questo senso non solo vanno comprese, ma persino rivalutate.
In un luogo dove si ha l’abitudine di lasciare carcasse di animali morti lungo la strada, non ce la si può prendere con gli avvoltoi. È normale e persino un bene che ci siano. A Ostia, come ovunque nell’epoca moderna, le istituzioni che hanno determinato il deserto umano che ci circonda a partire dal piano urbanistico che lo rende visibile, non possono avere né l’autorevolezza, né la moralità necessarie, per contrastare l’orrore e promuovere il riscatto.
Sono le istituzioni e le politiche dei “minima moralia” e della “triste scienza” ad aver offeso la vita a Ostia come altrove. Il riscatto è possibile solo con un cambio generale di paradigma, con la restituzione al quotidiano e al territorio della morale universale del profitto. Sembra un passaggio difficilissimo, ma in realtà oltre ad essere l’unico possibile, è anche ampiamente nel novero delle nostre possibilità. È, o potrebbe essere, la semplicità che è difficile a farsi, la soluzione dietro l’angolo. Come il mare a Ostia.
cittaconquistatrice.it, 8 novembre 2017. Articolo del 1938 che già usava la parola sprawl per indicare la dispersione suburbana, individuandone abbastanza chiaramente i rischi: ambientali, socioeconomici, di sviluppo locale. (f.b.)
The Guardian, 31 marzo e 31 ottobre 2017. Mentre si sta completando un grande progetto di rinnovamento di spazi pubblici, avanza la demolizione in massa di case economiche che sfratterà circa un milione di abitanti. (i.b)
Il centro della città di Mosca si sta rinnovando attraverso un grande progetto di riqualificazione urbana denominato “Moja Ulitsa” che significa “La mia via”. Lanciato nel 2014 dall’amministrazione comunale sta completando la realizzazione di 50 nuovi parchi, la risistemazione di 50 km di strade e piazza, 12 lungofiumi, e il restauro di moltissime facciate storiche, con progetti del Design Strelka e alcune star dell’architettura mondiale.
Uno dei lungofiumi riqualificati dal programma "La mia via" Fonte: Russia Beyond |
Una delle strade rinnovate dal programma "La mia via" Fonte: Russia Beyond |
In primo piano i "khrushchevka" da essere demoliti, sullo sfondo i nuovi edifici Fonte: The Guardian |
Il sistema prefabbricato di un edifico costruito nel 1961. Fonte: The Guardian (Getty Images) |
All’approvazione della demolizione i residenti hanno 90 giorni di tempo per evacuare e trovarsi un altro alloggio. Sono circa un milione le persone coinvolte nel programma di demolizione dei palazzi sparsi in diverse zone della città.
Con il sostegno del presidente Vladimir Putin, il sindaco di Mosca Sergei Sobyanin ha dichiarato il programma una "necessità assoluta" per poter sostituire le vecchie abitazioni. Mentre per molti abitanti questa è un operazione di pura speculazione, in cui i soldi hanno il sopravvento su qualsiasi altra cosa. I residenti sostengono che, pur non essendo perfetti e avendo bisogno di essere ristrutturati, sono solidi. Inoltre non solo rappresentano un pezzo di storia ma danno un senso di appartenenza a comunità di quartier consolidate nel tempo. Non vogliono trasferirsi in nuovi grattacieli costruiti in zone a loro estranee. Perchè nonostante le promesse dell’amministrazione sarà difficile che gli abitanti potranno rimanere in zona.
Uno dei "khrushchevka" in procinto di essere demolito Fonre: The Guardian |
Gli articoli del Guardian, qui sotto ripresi, documentano questo processo.
La seconda operazione riguarda la completa riqualificazione dei cortili residenziali. L'ufficio del sindaco sostiene che questi spazi, situati all’interno di grandi complessi, non dovrebbero essere dei passaggi pubblici aperti di collegamento, ma devono diventare degli spazi privati.
L’amministrazione è in procinto di adottare entro la fine dell’anno nuove norme regionali di pianificazione urbana che dividono per la prima volta i quartieri residenziali in aree private e pubbliche. Gli accessi al piano terra ai negozi e attività aperte al pubblico avverrà solo dalla strada per consentire che le corti di diventare degli spazi di “comfort” con accesso riservato e solo pedonale. Qui il link a un articolo del Russian Reader . (i.b.)
MOSCOW'S BIG MOVE: IS THIS THE BIGGEST URBAN DEMOLITION PROJECT EVER?
di Alec Luhn
Finally his turn came, and he and his wife were given a two-room flat at 16 Grimau Street. Built in 1957, the four-storey, 64-flat building is considered the first “Khrushchevka”, a kind of prefabricated, low-rise flat block that was erected in the tens of thousands across the USSR and came to be called after then-Soviet leader Nikita Khrushchev (The colloquial term has come to apply to almost any late Soviet five-storey residential building.)
Now 16 Grimau Street, along with up to 7,900 other Soviet flat blocks in Moscow, are to be torn down, in what will be one of the largest urban resettlement programmes in history. With the backing of the president, Vladimir Putin, Moscow mayor Sergei Sobyanin has declared the programme an “absolute necessity” to replace ageing housing. He promised the replacement flats would be 20% larger on average.
To Rudakov, however, it is just another example of profit taking precedent over heritage. “This is the first housing block that Khrushchev built. They don’t have any regard for this now,” he said of his home. “Money comes before anything else.” He added that he didn’t “know why Putin said” to tear such flat blocks down. “The building is good, the walls are thick.”
Yevgeny Rudakov, che vive in quello che è considerato il primo "krushchevka", costruito nel 1957. Fonte: Alec Luhn /The Guardian |
Furthermore, the federal legislation to give the Moscow city government power to knock down entire neighbourhoods has worrying implications for the rights of residents and small-business owners. Residents who do not sign an agreement to transfer ownership of their flat within two months will be taken to court. “They are forcing people out, like under Stalin,” said activist Lena Bogushch.
Opposition activist and former MP Dmitry Gudkov noted that the legislation would allow the government to tear down not just Soviet prefabricated flat blocks, but also nearby “analogous” buildings. When asked about how the fate of nearby buildings would be decided, the author of the law, MP Mikhail Degtyaryov, recently told TV Rain that a city commission would simply “take a neighbourhood and circle” the whole thing for demolition.
“The law allows the programme to be realised not in the interests of residents, but in the interests of the construction lobby,” Gudkov said.
Since Sobyanin came to power in 2010, Moscow has tackled several huge urban development projects. It has refurbished Gorky Park, opened the Moscow Ring Railroad, and started a 120bn-rouble (£1.4bn) renovation of one million sq metres of streets. It has encouraged the demolition and redevelopment of gigantic Soviet industrial areas.
But the programme to renovate five-storey buildings, as the city euphemistically calls it, will be by far the largest undertaking yet. Although the city has yet to list the buildings that will be demolished, Sobyanin has promised that 25 million sq metres of residential real estate – more than 10% of the city’s housing stock – will be torn down. An estimated 1.6 million people will be resettled. The city says it will spend at least 300bn roubles, and independent experts have estimated the actual investment will be 3tn roubles.
It’s not clear what kind of buildings will replace the Soviet housing. Moscow’s chief architect declined to comment, and the mayor’s office asked for written questions but failed to answer them.
Il Soviet costruì circa 200 milioni di metri quadrati di appartamenti tra il 1933 e il 1970. Fonte: The Guardian (skyNext/Getty Images/iStockphoto) |
Thus began a three-decade housing drive that was unprecedented in human history. It ushered in a new, industrial approach to construction: several different designs for prefabricated flat blocks were tried out in the Cheryomushki neighbourhood, where Rudakov lives, as was a residential district layout – minimising through-traffic and maximising green space – that would be repeated throughout the country.
Working mostly with concrete panels and other factory-produced components, brigades of labourers competed to see who could put together the huge flat blocks the fastest. One team managed it in 11 days. According to the Russian state statistics service, the amount of housing built by the state jumped from 26.9 million sq metres during the second five-year plan (1933-37), to 152.2 million sq metres in 1956-60 and 227.6 million sq metres in 1966-1970. Between 1955 and 1964, a quarter of the Soviet population, or 54 million people, received their own flats. By 1975, the state had built 1.3bn sq metres of housing, and it continued to build in huge amounts up until the Soviet breakup.
For the first time, large numbers of people had private housing in the city. This huge resettlement marked a boost in quality of life, a change in living habits, and a cultural shift that was commemorated in works including Dmitry Shostakovich’s operetta Cheryomushki, named after the neighbourhood where the first Khrushchev flats were built. “Look the hallway is ours, look the coat rack is ours! The whole flat is ours, ours! The kitchen too is ours, ours!” sang the main characters in a 1962 film based on the operetta.
According to Olga Kazakova, an art history PhD student and director of the Institute of Modernism, one theory is that along with Khrushchev’s de-Stalinisation policies, the privacy allowed by Khrushchevka flats contributed to the rise of dissident activity, such as samizdat (the copying and passing of banned literature by hand), in the 1960s.
In addition, the new housing was fairly low-density, and its common areas and green space facilitated socialising among neighbours, according to Nikolai Yerofeyev, a philosophy student at Oxford who is writing his dissertation on postwar Soviet housing. He also owns a flat in a Khrushchevka that will probably be torn down.
Of course, such mass-produced housing had drawbacks. The height of functionalism, Khrushchevka were architecturally monotonous: rectangular, five-storey boxes with evenly spaced windows, balconies and staircases. The ceilings were low and single-room flats were typically only 30-33 sq metres, while two rooms were 33-45 sq metres. Lifts and trash chutes were shunned as a costly extravagance. There were complaints about sound isolation and heating in the wintertime. Some included strange innovations, such as a small niche beneath the kitchen window, separated from the outside by only a few centimetres, meant to function as a refrigerator in the cold months.
The five-storey buildings were designed to last about 25 years. Most have served longer, with mixed results. Retired dentist Sofa Shkolnik, who lives with her husband, Felix, in a five-storey flat block built in 1962, said she is warm in the winter and can barely hear the neighbours. The building, which is surrounded by green space with apple, cherry and pear trees and several playgrounds, is on a tentative list of blocks to be torn down. Shkolnik fears they will be resettled to a high-rise building or moved far away from their daughter, granddaughter and great granddaughter, who all live nearby (the city has promised to resettle residents within their districts, but some of these cover large, incongruous areas).
La famiglia Shkolnik nel loro soggiorno Fonte: The Guardian (Alec Luhn) |
But Felix said the sewage drainage system had not been replaced and had burst a pipe twice in the past decade. “We’re on a state of alert in case it breaks in another place, because the utilities are old,” he said, adding that he had recently drilled into the concrete panel wall to find it was disintegrating.
Sobyanin argued that the five-storey buildings are too difficult to renovate, since the pipes for plumbing and central steam heating are built into the wall. “Even if we do some sort of renovations in these buildings, in 10 to 20 years they will nonetheless turn into hazardous housing,” he told Komsomolskaya Pravda newspaper.
The quality and condition of five-storey buildings varies widely. While many were built with concrete, others were built with bricks, which are typically sturdier and more heat-efficient. The most dilapidated Khrushchevka buildings in Moscow have already been torn down, according to Yerofeyev. He called the programme an attack on “low population density, [which] apparently is too big a luxury in Moscow now”.
“The argument that they are in bad condition structurally is not convincing, especially since there are massive projects to reconstruct Khrushchyovka buildings in eastern Europe,” he said. “There are many methods of how to deal with (ageing prefabricated housing), and of course tearing it down and building a new tower is not the best one.”
n one notable example, Stefan Forster architects in Leinefelde, Germany, knocked down the top floors of eight Soviet flat blocks from the 1970s, stripped them down to their concrete structure and outfitted them with new windows and balconies and ground-floor gardens as part of an urban regeneration project.
Forster said renovation costs depend largely on how much is rebuilt to modern construction standards, such as better sound isolation requirements. “In principle, prefab flat blocks are suitable for conversion to affordable housing,” he said.
But Moscow is reportedly not up to the difficulty and cost of such a task. Earlier this month, the respected business newspaper Vedomosti quoted an unnamed official as saying the city had decided that building new housing would be cheaper than renovating. According to official statistics, half of the residential buildings in Moscow are in need of major structural repairs, and only a few dozen have been redone.
Another reason may be political, as Sobyanin and Putin are both likely to run for reelection in 2018. Political analyst Dmitry Orlov estimated that as long as residents aren’t moved too far away and small business owners are fairly compensated, the new programme could boost electoral support in Moscow by 15% for the mayor and 7% for the president. He based this on how a smaller resettlement programme under previous mayor Yury Luzhkov had “changed public opinion (and) allowed him to preserve a high level of trust over the years”, he said.
Activists’ main complaint is that the programme is mostly about money, and both developers and the city stand to make a handy profit. They point to a recent example of a partially completed programme started in 1999 to replace 1,722 five-storey buildings. For that scheme, the city contracted private developers, who built new tower blocks, set aside 30% of the apartments to resettle residents of the old buildings, and sold the rest. Vedomosti quoted a source in the mayor’s office as saying the new programme will free up a large number of land plots that will be sold to investors at auction.
The devil will be in the detail, and specifically in what kind of housing is built and where; new residential towers in Moscow are often as tall as 25 storeys, leading to less personable neighbourhoods and more traffic congestion. Already, Moscow traffic jams are among the worst in the world. Housing density will almost certainly increase, given that that five-storey buildings now occupy 8,000-10,000 sq metres per hectare, while city norms allow for up to 25,000 sq metres per hectare.
“They haven’t told us what technologies will be used in the new buildings, how they will look, and the quality of modern construction in Russia is not that high,” Kazakova said.
According to Maxim Trudolyubov, editor-at-large of Vedomosti, the programme’s results will depend largely on whether private firms or a state construction company build the new housing. “Private companies will need to sharply increase the amount of square metres that exist in Moscow, “which will choke the city for good with torrents of people and transport,” he wrote in a recent column.
For now, residents face an uncertain future. “Where will they put the people?” asked the Shkolniks’ daughter, Anna. “That makes us uneasy.”
31 ottobre 2017
THE WRECKING BALL SWINGS AT MOSCOW
A PHOTO ESSAY
di Chris Leslie and Jonathan Charley
In June this year, the Moscow Duma unanimously approved the demolition of more than 4,000 apartment blocks in various sites across the sprawling city, home to nearly 2 million people. Most of this housing is privately owned, the consequence of the privatisation of state housing after the collapse of the Soviet Union. It has been a highly controversial decision, bringing thousands of Muscovites into the streets in protest.
Al centro la serie di edifici "khrushchev" nel quartiere Butirsky che saranno demoliti Fonte: The Guardian |
The prototype
The Fedosovas’ estate is well-connected to the city centre. Essential services – kindergarten, schools, a health centre, transport links – are easily accessible on foot, and their flat looks down on to apple trees, flowers and a children’s play park. It is tranquil, the air is fresh and the development is planned at a human scale. Both Fedosova and her father grew up there; several generations of her family live in nearby flats.
Under the June law, if two-thirds of residents in a block vote yes to the so-called “renovation programme”, the block will be demolished. Fedosova voted no: for her, the demolitions won’t just destroy buildings, but also a sense of history, home and belonging.
Enough yes votes were cast, however, to slate the building for demolition. Once she receives the official notice, Fedosova will be required to leave her home in 90 days, or face forced eviction. She will be given no option of where to live, likely moved to a newly built tower block. The authorities have promised that residents will be rehoused in the same district, but many fear their longstanding networks of families and friends won’t survive the move. Above all, Fedosova fears being exiled in “New Moscow”, the hastily erected towers on the city’s periphery, many of which remain unsold. .
“The attitude towards people is bestial,” she says. “How is it possible to take people and move them to where the authorities want, in high-rise pens with just a patch of greenery in the middle? You cannot treat Moscow and its inhabitants like this. We are not here for the short-term. The city should be built for the comfort of its residents and not developed for the sake of maximising profits at all costs. I’m afraid of the new areas, they are creepy.”
The fix
To counteract the rumours that the renovation programme is really all about profiting from real estate the mayor of Moscow, Sergey Sobyanin, is working overtime to persuade residents that there is no alternative to demolition. His team are busily constructing show flats kitted out with state-of-the-art furnishings. Sobyanin insists that the Khrushchevka flats are beyond redemption: the kitchens are too small, there are no lifts or waste disposal system and the roofs often leak.
Yet many residents maintain nothing is wrong with their flats that standard repairs couldn’t fix. Anastasia Yanchikova is one of numerous residents left exasperated and confused by these explanations.
“I feel safe here. I can see my children in the yard,” she says. “We leave our bikes at the bottom the stairs. I have a right to stay in my neighbourhood. I want to choose myself where to live, in what kind of building, place and so on.
“I feel deceived. Two years ago politicians obliged me to pay into a capital repair fund for the overhaul of our housing that was scheduled to be completed by 2030. They told us that the houses are strong. And then this year the same politicians tell us that our homes are in an emergency condition and need to be demolished?”
Tatjana Goreleva, a lawyer, and her husband say they have invested more than 1m rubles in their apartment, in a five-storey block of robust brick in the Nishegorodsky district. Like Yanchikova’s, her house was also scheduled for major repairs in 2016 that were never carried out. Her anger mixes with suspicion.
“It is as if this has been done deliberately to bring the house into an emergency condition, and to finish off the opponents of demolition and renovation – morally and physically.”
There are undoubtedly problems with some of the older flats; the build quality is variable. Some architects and engineers argue, however, that the faults can be remedied without prohibitive expense. Professors at the prestigious Moscow Academy of Architecture such as Yuri Pavlovich Volchok and architect Evgeny Asse have said that with intelligent design many of the blocks can be given a new lease of life; structural engineer Sofia Pechorskaya notes that the planning process, which she calls “technically illiterate”, has been carried out without proper research and professional consultation.
Vladimir Komarov, a retired government worker, lives in a veritable theatre set of Russian history. His flat is lined with antique green wallpaper, the floors are original hardwood, and he is surrounded by family portraits and clocks made by his horologist grandfather. Three generations have lived here; his grandmother is buried in the cemetery next door. When he received his eviction notice, Komarov had a stroke that put him in hospital for two months. He says he has been loyal to the state all his life, and feels betrayed.
His friend, Vera Voronina, boasts a brand new bathroom, kitchen and living room in her apartment. Over a six-year period, she and her husband saved everything they could and renovated the flat themselves. Though it is nearly complete, the majority of residents in her block voted for demolition, so they will be thrown out.
The residents of their building say their neighbourhood has its own special ecology: it boasts a district heating system and is well served by hospitals, clinics, schools, shops and transport links. Speculation swirls that this is why their apartments face the wrecking ball while other blocks that, they say, are more clearly in need of repairs but more isolated, are left standing.
One option for homeowners is monetary compensation based on what the authorities reckon the flat is worth. But many residents doubt they will receive a fair price. “Since May of this year we have lived as if on top of a powder keg,” says Goreleva. “We do not agree with the renovation program, but to challenge the new laws is not an easy thing to do,” Goreleva adds. “We are law-abiding citizens, and if the state has established the rules on renovation, we are compelled to obey them. But in respect of our home, there has been a clear violation of laws and regulations.”
One of the consequences of the privatisation of the Russian housing sector was that homeowners became responsible for the upkeep and maintenance of their properties. For many people on low incomes who couldn’t afford to invest in repairs and renovations, this became an impossible burden. Vast numbers have voted for demolition having been lured by the prospect of a new apartment. Not surprisingly, the vote has caused considerable friction between friends and neighbours on opposing sides of the debate.
Olga and Vassily Leskova met at school. They have lived in their beautifully appointed apartment for 50 years, and seen their children and grandchildren grow up here. They are distraught at the news of their eviction.. Vassily sums it up in one phrase: “Pure deception.”
For the Leskovas, the vote has meant the breakup of the social foundations on which people have built their lives. The peace and harmony of their block has disintegrated. Arguments and shouting matches have broken out. The atmosphere has become hostile. The required meeting of all the residents to decide on the fate of their block never happened; instead, people voted individually and in secret.
One person who has seen both sides of the story is Tatyana Buyanova, an architect and town planner who lives a 10-minute walk away from the Leskovas with her son. Her picturesque two-storey cottage sits on prime land. A former employee of one of the development companies, Buyanova was involved in the selection of potential sites for new housing in the earmarked “renovation zones”.
Buyanova began to suspect that the urban restructuring programme was more about real estate speculation than any social commitment to improving people’s lives. Some journalists, lawyers and engineers say that building codes – including for light, height and proximity of buildings – are being relaxed, and construction permits expedited. When her own home – which she maintains was in good condition – was included on the demolition list Buyanova resigned and joined the protest movement.
“I can not understand how something that in principle is a good idea turned into a horror and a nightmare,” she says. “My neighbours voted for the demolition. I was against it, but it didn’t change anything. The city will not talk to me. One of the deputies even said, ‘Dissenters must submit!’ My apartment is everything that I hold dear – and now I’m losing it.”
Pavel Novikov, an engineer, lives in the former industrial district of Metrogorodok. His flat is not included in the programme, which he suspects is because the building site is too narrow to be of interest to developers. The blocks either side are coming down.
A member of the Muscovites Against Demolition protest group, he is typical of the activists who are resisting the demolitions. Most are ordinary folk: pensioners, single parents, newcomers to political action. Notably, a majority are women.
“One of the strange things about the protest movement,” Novikov says, “is that it has awakened in Muscovites a sense of having civil rights, and of their ability to oppose the state’s interference into their private lives.”
Certainly the sense of illegal dispossession is palpable, and in the early days of the protests banners were emblazoned with the word “deportation”. Nikolai Kanchov, who ran in the recent municipal elections for the Yabloko opposition party, argues that the forced evictions violate the Russian constitution, which guarantees the right to private property.
“In a nutshell, the demolition program has deprived me of my right to a home,” he says. “It has made me worried and uncertain about the future. I can’t be sure that my family and I won’t be forced out of our home tomorrow by the will of some tricky bureaucrat, greedy for money. I’m forced to study the legislation and collect testimony, write petitions, claims and appeals, gather signatures, all in order to protect my home. Instead of working and earning my living.”
As well as standing for local government, lobbying deputies, and holding street demonstrations and social media campaigns, dissidence has taken other forms. Artem Loskutov and Lucia Stein came to the attention of residents who noticed a new addition to the graffiti in the Basmanny district: plaster casts of a woman’s breasts, glued to five apartment blocks scheduled for demolition, accompanied by the slogan: “I will protect your home with my breasts.”
It made Stein a minor celebrity, and at just 21 years old she has just been elected as an independent deputy for the Moscow municipal government.
The demolition
Photographer Vivian del Rio can stare down, from her current flat, on the partially demolished neighbourhood where she once lived. She still remembers the chaos of moving out: people were still packing their bags as the wrecking crews moved in. Reluctantly, she has accepted a new flat in multi-storey tower.
“The view from up here is good, but I miss the birds and fruit trees, the high ceilings, and the neighbourliness. Also, this flat is poorly built. They wallpapered over cracks in the concrete. The doors were replaced within two months and they cheated me by including my balcony in the overall area of the flat.”
Anche il cottage di Tatiana Buyanova sarà demolito Fonte: The Guardian |
A kilometre down the road house lies a neighbourhood that will be completely razed. According to the Moscow Development Department’s interactive map, which shows all the properties scheduled for demolition, 80 apartment blocks will be removed in just this one locale. The website also shows the locations of the new replacement tower blocks – and the large area of land that will then become available for sale. Tellingly, it is close to the city centre, and only two stops from fashionable Gorky Park and the Tretyakov gallery. The land will be sold into the private sector; several luxury towers featuring penthouse flats have been built; there is speculation that other plots may be handed directly to banks by struggling construction companies to repay loans.
After the 90-day eviction period, the timing of the demolition itself is not made public, but the process can be rapid: whole blocks have disappeared in a day. In the Butirsky district of north Moscow, you can see the rubble of recently demolished five-storey buildings. From the top floor of one partially evacuated block, an old lady looked out with a smile. The flats either side of hers are already empty, but she doesn’t look in any hurry to move.
In Krilatskoye, in the north-west of the city, furniture is flying out of the frameless windows. In the empty flats, children’s drawings hang from the wallpaper and family photographs lie on the floor. Clothes, shoes and a ceramic print of someone’s grandmother sit in a pile. People have left in a hurry.
On the third floor of what otherwise appeared to be an entirely deserted block, one padded front door remains locked. The inhabitants have pinned a sign to it:
“We live in this apartment. If you don’t understand, take a look at article 139 of the Russian constitution: ‘The violation of the inviolability of the home.”
Chris Leslie is a documentary photographer and film-maker. Dr Jonathan Charley is a writer and teacher at the department of architecture of the University of Strathclyde. You can read more about their Disappearing Moscow project here.
la Repubblica, 2 novembre 2017 «Una leggina siciliana ha escluso sanzioni per i funzionari che non eseguono gli abbattimenti» (c.m.c.)
All’ultimo piano della palazzina di via Giarretta, a Licata, la scorta che veglia sulla sua sicurezza sbarra l’accesso alla porta del dirigente dell’Urbanistica. Nella sua stanza, l’ingegnere Vincenzo Ortega continua a firmare ordinanze di demolizione di case abusive: sono già 111 quelle abbattute da aprile nel Comune dove, ad agosto, il sindaco Angelo Cambiano (finito anche lui sotto scorta per aver dato il via alle ruspe, e ora assessore in pectore di Giancarlo Cancelleri se il M5S dovesse vincere le elezioni regionali) è stato mandato a casa con una mozione di sfiducia da una larga maggioranza di consiglieri, alcuni dei quali proprietari di immobili fuorilegge.
Ma Ortega firma ormai quasi a malincuore. «Mi creda, non capisco più per chi sto lavorando e per che cosa. Mi hanno lasciato solo. Non mi sta più bene di essere additato come il cattivo della situazione. A mia moglie e a mio figlio che ogni giorno mi chiedono perché solo io, in Sicilia, firmo ordinanze di demolizione, non so più cosa rispondere. Ho spiegato loro che far rispettare sentenze della magistratura non è un atto nè eroico né politico ma soltanto un dovere. Ma loro mi dicono: e tutti i sindaci che si oppongono alle demolizioni e tutti i tuoi colleghi che non danno corso alle sentenze com’è che non succede nulla? La magistratura, la politica che fanno?».
La politica agisce dietro le quinte. In Sicilia, proprio nei giorni in cui la vicenda del sindaco di Licata, con grande clamore mediatico, diventava l’emblema della lotta all’abusivismo, l’Assemblea regionale ha approvato una modifica al testo unico dell’edilizia in modo tale da prevedere il commissariamento, in caso di inerzia nel rispetto delle norme, solo degli organi politici e non più dei funzionari pubblici. Insomma un “liberi tutti” della burocrazia sulla quale adesso la Regione non può più intervenire in caso di inadempienze.
Ingegnere Ortega, lei continuerà a firmare ordinanze di demolizione?
«Lo ripeto, con amarezza e senso di responsabilità. Non è una mia scelta. A Licata stiamo solo dando corso a sentenze della magistratura che, in moltissimi casi, arrivano con grande ritardo anche a 30 anni di distanza dagli abusi. Ci siamo dati come priorità di abbattere le case costruite in zona di inedificabilità assoluta, entro i 150 metri dal mare, che non possono essere oggetto di alcuna sanatoria. Io lavoro qui da vent’anni, conosco praticamente tutti i proprietari degli immobili che vengono demoliti, li incontro ogni giorno per strada, capisco il loro dolore, ma posso affermare che, su quelle case, l’abusivismo per necessità di cui molti parlano non esiste».
Si sente una mosca bianca, pensa di essere sovraesposto?
«In città si respira un’atmosfera che, se non è esplosiva come qualche mese fa, è comunque di tensione, anche se già una ventina di titolari di immobili ha demolito di propria iniziativa. Certo, vedere che in tanti altri Comuni siciliani, gravati da un abusivismo di importanti dimensioni, a cominciare dalla vicina Palma di Montechiaro, le demolizioni non vengono effettuate non aiuta né alla consapevolezza della situazione né tantomeno alla sua soluzione. Un anno fa mi hanno bruciato la macchina, io e la mia famiglia continuiamo a vivere sotto scorta. Mi chiedo: cosa succederà? Andremo avanti così e per quanto? Oppure magari tra qualche tempo ci troveremo a fare i conti con nuove norme e io passerò alla storia come il dirigente che ha privato della casa decine di persone?».
Lei intanto procede con le gare per le demolizioni?
«Sì, siamo alla terza e questo è un altro atto dolente. Perché gli abusivi non pagano e non pagheranno mai gli oneri di abbattimento che spetterebbero loro e i Comuni devono anticipare somme che non hanno. A Licata abbiamo già impegnato quasi due milioni di euro. Ecco, magari alla fine a bloccare le demolizioni sarà il fallimento di molti Comuni».
officinadeisaperi.it, 30 ottobre 2017. Negli anni del pensiero unico liberista (sia dei governi di centro-destra che di centro-sinistra) l’impetuosa avanzata della rendita fondiaria è andata di pari passo con la definitiva chiusura del welfare abitativo. Un'analisi e una proposta. Riferimenti in calce (p.d.)
La rendita immobiliare non è un concetto astratto, ma è la causa prima di un rapporto malato tra casa e territorio, come frane, alluvioni e terremoti dimostrano. Gli interessi congiunti di proprietari fondiari, imprese di costruzione e banche sono all’origine di un’espansione urbana incontrollata, di periferie degradate, di servizi inefficienti o inesistenti. Sono all’origine della carenza di alloggi pubblici, degli sfratti per morosità, delle abitazioni pignorate per l’impossibilità di onorare il pagamento del mutuo. In una parola, la rendita urbana ha, da un lato, falcidiato il reddito delle famiglie di ceto medio per il caro-casa, e dall’altro, ha generato un forte aumento del disagio e della povertà.
Il mio ragionamento, dunque, tende a escludere che si possa parlare di questione abitativa ignorando il ruolo e il peso della rendita in Italia. Vi sono studi della Banca d’Italia che spiegano come il declino industriale e produttivo dell’Italia sia andato di pari passo con la crescita impetuosa della rendita immobiliare, che solo dopo la crisi iniziata nel 2008 ha subito una relativa frenata. Basti pensare che l’ammontare complessivo annuo di stipendi e salari nel nostro paese (parliamo di cifre superiori a 400 miliardi di euro), da circa un ventennio a questa parte, è inferiore a quanto la rendita accumula ogni anno (Banca d’Italia). Ciò significa che c’è stato un colossale trasferimento di ricchezza dal lavoro alla rendita immobiliare e finanziaria. Mutui casa e canoni di locazione sono alcuni dei modi di questo trasferimento. La crescita delle diseguaglianze sociali in Italia è esattamente l’altra faccia della rendita.
Con una sostanziale continuità tra i governi di centro-destra e di centro-sinistra, negli anni del pensiero unico liberista, in Italia è stata dunque eliminata qualsiasi parvenza di welfare abitativo e si è alimentata e incentivata in tutti i modi la “casa in proprietà”. Si è creato così un forte squilibrio tra proprietà ed affitto: i proprietari che nel 1965 erano il 45% sono passati all’80% di oggi. Ciò è fonte di distorsioni nell’economia, nella società, nei consumi. L’asfittico mercato delle locazioni è quasi tutto in mano ai privati dopo la dismissione di quasi tutto il patrimonio abitativo degli enti previdenziali e di parte di quello gestito dagli ex Iacp.
Lo squilibrio tra offerta in proprietà e offerta in locazione – unito ai costi alti – è all’origine di fenomeni estesi di disagio, di precarietà e di esclusione abitativa. Le forme di lotta radicali, la radicalizzazione dei movimenti sono la conseguenza di un problema che non trova sbocchi attraverso i canali istituzionali. Ecco perché è riduttivo parlare di “emergenza abitativa”. Siamo in presenza, invece, di una “questione abitativa”, che è questione “strutturale”, con forti implicazioni sul reddito, sullo sviluppo, sull’ambiente, sulla crescita e sulla qualità urbana, sui rapporti sociali.
La chiave di volta per affrontare il disagio e le nuove domande abitative è dunque un cambio di paradigma, uno spostamento del baricentro delle politiche abitative dalla proprietà all’affitto. Riscoprendo il valore d’uso della casa. Mettendo in discussione la cosiddetta finanziarizzazione del mattone, che incorpora un’idea dell’abitare che è tutto “valore di scambio e poco o niente “valore d’uso”. Puntare oggi sull’affitto a un canone accessibile, comunque commisurato al reddito familiare, significa riscoprire il valore d’uso: l’abitazione come servizio alla famiglia. La casa a “geometria variabile”, adattabile, che cambia in base ai diversi percorsi di vita e di lavoro. Mano a mano che i componenti della famiglia aumentano o diminuiscono, vanno o tornano, studiano o lavorano (e magari capita più volte nella vita di ciascuno). Oggi, invece, rispetto a una domanda che richiede diverse tipologie di casa, anche di varia dimensione, con maggiori servizi condominiali e di quartiere, l’offerta è sempre la stessa, insufficiente, standardizzata, inadeguata. In una parola, rigida.
lacittàinvisibile, 27 ottobre 2017«Il turismo non è solo bancarelle e code ai musei. È molto di più: un’industria e un sistema di governo del territorio, che arriva a plasmare le città e il territorio circostante» (c.m.c.)
La riflessione intorno a Il selfie del mondo di Marco D’Eramo ha inaugurato il ciclo di incontri La fabbrica del turismo nelle città d’arte: il caso Firenze organizzato presso lo Spazio InKiostro.
La presenza di Marco D’Eramo, il 21 ottobre scorso davanti ad una sala strapiena, è stata utile per delineare insieme l’oggetto delle analisi e delle categorie con cui meglio cogliere le diverse articolazioni che danno forma al “turismo” contemporaneo. Si tratta infatti di una vera e propria “industria pesante”, la cui potenza può essere paragonata a quella dell’industria metalmeccanica degli anni ’60. Il turismo si intreccia, ed egemonizza, la produzione dei mezzi di trasporto (aerei, autobus), l’edilizia (costruzione di nuovi villaggi, case vacanza), la viabilità e l’accoglienza (nuove strade, nuovi aeroporti), l’urbanistica (centri storici vetrina ed espulsione dei cittadini storici), il mercato del lavoro (flessibilità e sommerso), la cultura (grandi eventi) e tanto altro ancora. Insomma il turismo come macchina del capitalismo contemporaneo, che per essere compreso deve essere posto dentro, appunto, un contesto di sistema.
La “fabbrica del turismo” va a riempire un vuoto lasciato da altri sistemi produttivi, imponendosi come monocultura industriale (come Torino o Detroit degli anni ’60 e ’70, le città dell’auto) anche a causa dei mancati o insufficienti investimenti su nuovi modelli di produzione del reddito e utilizzo delle risorse.
Nel caso di Firenze e dell’Italia il turismo va poi contestualizzato nel sistema capitalistico nazionale, che si basa comunque sul sommerso e il lavoro nero, in un paese in stasi economica dal 1991: in questo contesto il turismo emerge come unica risorsa economica per il Pil del bel paese. Ecco quindi dei buoni motivi per sostenere che le lamentele contro i “turisti” servono in realtà per spostare la critica dal capitalismo al viaggiatore in sandali e bermuda. E per sollecitare una politica, locale ma anche nazionale e internazionale, che il turismo governi e regolamenti nell’ottica della ridistribuzione delle risorse e della ricchezza.
D’Eramo ci ha offerto un’altra riflessione importante. Riguarda il disprezzo con cui spesso i turisti vengono descritti e il tentativo di differenziare, in molte discussioni, viaggiatori “buoni” versus turisti “cattivi”. Questa rappresentazione ha le proprie radici nell’800, quando la borghesia cominciò ad adottare comportamenti fino ad allora prerogativa dell’aristocrazia, che si vendicò svilendoli. Con la massificazione del turismo, e il passaggio dalle vacanze alle ferie negli anni del secondo dopoguerra, assistiamo a un acuirsi dello sprezzo con cui il “gregge di turisti” – espressione coniata, ci dice D’Eramo nel libro, a metà ‘800 da Joseph Arthur de Gobineau, tra i primi teorici del pensiero razzista moderno – viene descritto. Si tratta del classico schema per cui i ceti inferiori rincorrono le pratiche delle classi superiori, che così si svalutano; pensiamo, in altro campo, all’educazione nel momento in cui diventa “di massa”. La consapevolezza di questo fenomeno è molto utile per sgombrare il campo da stereotipi prima di iniziare un approfondimento critico.
Le domande che ci siamo posti, e a cui cercheremo di rispondere nei prossimi incontri, sono secondo noi cruciali per riportare la discussione nell’alveolo della politica e della critica di sistema: chi si arricchisce con il turismo? Chi ci perde? Chi e come andrebbe governato, affinché non sia soprattutto, come spesso accade, un’economia di rapina per molti cittadini e molti luoghi toccati dal turismo di massa?
Programma
giovedì 23 novembre, 18.00
Il lavoro nel tempio del turismo di massa. Fra lustrini e precarietà
martedì 5 dicembre, 18.00
Cultura usa e getta
martedì 19 dicembre, 18.00
Turismo di massa e città: da Barcellona a Berlino cosa si muove intorno a noi
Tutti gli incontri si terranno allo Spazio InKiostro in via degli Alfani 49 a Firenze
che-fare.com 27 ottobre 2017. Annuncio di un laboratorio di quartiere «nato con l’idea che sia necessario ripartire dai luoghi e dalla comunità per produrre nuove relazioni sociali e culturali». (c.m.c.)
Come è possibile generare connessioni e trasformare la vulnerabilità in risorsa? Come è possibile far emergere la conoscenza tacita di un quartiere e mutare uno spazio in un luogo vivo che risponde a desideri e aspirazioni degli abitanti?A queste domande abbiamo provato a dare risposta durante il laboratorio “Co-progettare soluzioni per lo spazio pubblico e la comunità: una nuova biblioteca sociale all’aperto“ nel parco della “Trax Road”, quartiere 167 di Lecce nell’ambito del Festival "Conversazioni sul Futuro".
Il workshop, dedicato alla co-progettazione di idee e soluzioni nuove per una piazza all’aperto, è nato con l’idea che sia necessario ripartire dai luoghi e dalla comunità per produrre nuove relazioni sociali e culturali. Gli usi della piazza e la progettazione di una biblioteca all’aperto come modo per far interagire le persone permettono di costruire un significato nuovo del luogo e rispondere ai bisogni delle persone che lo abitano.
Cinque sono le parole chiave che ci hanno guidato nel percorso :
1. Generatività come capacità di trasformare spazi e relazioni partendo da una domanda autentica di ricerca, dove non è possibile quindi far leva sul “bisogno di” ma anche dal “desiderio di” (M. Magatti);
2. Conversazione come strumento privilegiato per “rammendare e connettere” e per innovare (P. Venturi-S. Zamagni) ciò che è stato diviso spazialmente e socialmente nel territorio;
3. Bene comune come orizzonte a cui tendere nel immaginare il valore d’uso di un bene: il passaggio dalla “comunanza” al “comune” (E. Ostrom) postula un orientamento collettivo e una comunità produttiva di saperi e di progettualità;
4. Conoscenza tacita come elemento da ricercare e far emergere affinché si possa contare una “asset class di risorse” prima dormienti (M. Polanyi), capaci di rispondere alle funzionalità e ai desideri di chi abita un luogo;
5. Felicità come aspirazione collettiva (A. Appadurai) che permette ai cittadini di sviluppare la felicità individuale e che spesso viene sostituita dall’utilità individuale.
Per dare vita alla nascita sociale di uno spazio abbandonato ma ricco di potenzialità abbiamo esplorato il territorio con gli occhi di un “everydaymaker”, di un cittadino qualunque che vuole esperire e godere di un luogo incontrandolo e generando relazioni. La passeggiata esplorativa ha permesso di incontrare abitanti e commercianti e di instaurare un dialogo sui loro bisogni; un tempo lento che ha permesso di riflettere e immaginare il “già e non ancora” che quegli spazi potevano ospitare.
Le idee prototipate dentro il laboratorio sono nate dalla valorizzazione dell’esistente e utilizzando la cultura come attivatore sociale: dalla rivalutazione dell’artigianato e dei saperi alla cura del verde pubblico; dal percorso di avvicinamento alla lettura che utilizza le facciate dei palazzi attraverso una bacheca collettiva, fino ad immaginare una call per le associazioni presenti nel territorio al fine di “mettere in mostra” la ricchezza del quartiere.
Il gruppo dei progettisti ha pensato che per valorizzare le conoscenze tacite sarebbe utile realizzare una sartoria popolare che abbia luogo prima nelle case degli abitanti e poi nella piazza e che possa produrre dei “manuali fai-da-te” a disposizione di chiunque voglia usufruire della sartoria e imparare. La musica come medium per attivare relazioni è al centro dell’idea dei 167giri Dj per un giorno che invita gli abitanti a scendere in piazza e a portare i loro vinili, cd e ad organizzare una festa di quartiere insieme a tornei di giochi giganti.
Siamo partiti dall’idea di progettare una biblioteca sociale e siamo arrivati a lavorare sul creare relazioni in un territorio, a costruire servizi di welfare soft che possano supportare le persone nella quotidianità, a progettare eventi culturali che possono arricchire la vita di chi abita uno spazio che è stato relegato a chiamarsi come la strada che lo attraversa, 167, e che è in cerca di un’identità che va svelata.
Questo spazio ha bisogno di cura: la cura di chi lo abita, di chi lo attraversa, di chi come noi lo osserva con occhi nuovi e ne vede infinite potenzialità. Una biblioteca come piazza del sapere potrebbe sollevare dall’isolamento chi abita la Trax Road.
Il processo è già in atto e richiede un supporto e un’attenzione costante da parte dalla pubblica amministrazione ma soprattutto l’individuazione di una minoranza (profetica) di abitanti che cominci a prendersi cura della ricchezza che esiste per dare al quartiere 167 una nuova identità.
La prima ministra scozzese Nicola Sturgeon ha proposto di costituire una società pubblica che si occuperà di fornire elettricità agli utenti domestici in particolare quelli a basso reddito. “L’energia, ovviamente rinnovabile, sarà comprata all’ingrosso o generata qui in Scozia e sarà venduta gli utenti finali a un prezzo più vicino possibile al costo di acquisto. Non ci saranno azionisti da accontentare. Nessun bonus da pagare agli amministratori. Daremo ai cittadini, in particolare quelli a basso reddito, la possibilità di scegliere un fornitore il cui unico obiettivo è quello di fornire elettricità al più basso prezzo possibile”.
L’annuncio è stato fatto all’annuale conferenza dello Scottish National Party, il partito di Sturgeon, che ha la maggioranza assoluta nel parlamento scozzese. Per essere realmente efficace dovrà essere seguito da provvedimenti concreti che ancora devono essere definiti. Ma si tratta di un annuncio rivoluzionario, che sembra sconfessare la retorica che per quasi trent’anni ha dominato il dibattito pubblico sulle forniture di elettricità.
La privatizzazione dei grandi monopoli pubblici (come ENEL) e la liberalizzazione dei mercati energetici è stata promossa da una direttiva europea del 1996, definita in seguito ad anni di dibattito. La direttiva fu recepita in Italia durante la stagione di governo del centrosinistra attraverso il Decreto Bersani per il mercato elettrico (1999) e il Decreto Letta per il mercato del gas (2000). I settori dell’elettricità e del gas venivano considerati settori di mercato dove la concorrenza avrebbe portato a una riduzione dei prezzi e a un miglioramento del servizio per tutti gli utenti. In particolare la liberalizzazione e la concorrenza veniva promosso nel settore della produzione e in quello della vendita. La liberalizzazione raggiunse poi anche gli utenti domestici a partire dal 2007.
Nel settore della produzione di elettricità la concorrenza è stata nel tempo compressa dalla crescente importanza della generazione da fonti rinnovabili. Se un impianto riceve sussidi, automaticamente non compete sul mercato. Questo progressivo sgretolamento del ruolo del mercato si riflette pesantemente nell’articolazione dei costi a carico dei clienti finali.
Se ad esempio prendiamo una bolletta tipo per un utente domestico italiano, circa il 60% dell’importo annuo è stabilito dall’Autorità. Sono infatti uguali per tutti gli utenti i costi della commercializzazione, quelli del trasporto, gli oneri di sistema e le tasse (accise e IVA). La competizione sul prezzo riguarda quindi solo il 40% dell’importo della bolletta, di conseguenza i margini per gli operatori sono minimi. Ciononostante, assistiamo in questi anni a una competizione feroce, spesso basata su offerte che promettono molto e mantengono poco. Per non parlare del fenomeno dei contratti non richiesti, vere e proprie truffe ai danni di inconsapevoli cittadini.
Tra le oltre ottanta offerte normalmente disponibili per un cliente del sistema elettrico, le poche che consentono realmente di risparmiare sono nei fatti attivabili solo da utenti molto esperti. L’utente medio rischia di perdersi nella giungla. Un economista direbbe che i costi di transazione sono superiori ai possibili benefici. Se per le grandi aziende consumatrici di energia la competizione ha portato qualche importante beneficio, per le famiglie italiane il risultato finale di dieci anni di liberalizzazione è riassumibile in nessun reale risparmio e in un aumento esponenziale dei rischi.
A fronte di questo quadro impietoso sorprende che non vi sia stato finora un adeguato dibattito pubblico sul tema, come invece è successo per il servizio idrico, dove una lunga battaglia portò al vittorioso referendum del 2011.È ancora troppo presto per sapere se l’annuncio di Sturgeon sarà l’inizio di una rivoluzione epocale o semplicemente una boutade a fini di consenso interno.
Ma potrebbe essere una buona occasione per analizzare criticamente i risultati concreti della liberalizzazione dei mercati energetici per i piccoli utenti, anche nel nostro Paese. Ad esempio varrebbe la pena ridiscutere della prevista abolizione del servizio di maggior tutela (prevista per luglio 2019) che finora è stato il principale strumento di garanzia per le famiglie italiane nel mercato elettrico.
il manifesto, 18 ottobre 2017. «Ddl Falanga . Rinviato in commissione, alla Camera, il testo che salva dalle ruspe l’"abusivismo di necessità"» Il mostro si nasconde nell'omra. Ma alla prima distrazione tornerà per azzannare.
A sentire gli interventi dei deputati di centrodestra che ieri in Aula hanno votato contro il rinvio in commissione del ddl Falanga, si poteva avere l’idea che la legge che conia l’«abusivismo di necessità» sia stata pensata solo e soltanto per «i cittadini campani», chiamati in ballo in continuazione nelle dichiarazioni di voto, e aizzati contro quella parte politica che, dopo quattro anni di trattativa parlamentare e a un passo dall’approvazione, ha messo su un binario quasi morto la norma che stabilisce regole di priorità negli abbattimenti degli edifici abusivi.
Quando ormai era evidente che la «legge-condono», come la chiamano tutte le associazioni ambientaliste, sarebbe stata rispedita in commissione come poi è avvenuto (con 242 voti di differenza), qualcuno di quei cittadini ha protestato talmente vivamente, dalla tribuna dove assisteva ai lavori di Montecitorio, interrompendo con urla e slogan la deputata di Sinistra italiana Serena Pellegrino, da costringere il vicepresidente Giachetti a interrompere la seduta per qualche minuto e a far sgomberare l’aula.
Il Pd però, che fino a maggio scorso era schiacciato sulle posizioni del Ncd e sosteneva la legge che porta il nome del verdiniano Ciro Falanga e che ha impiegato gli ultimi quindici giorni a superare le divisioni interne e a portare tutti i deputati dem sull’unica posizione non suicida possibile, ha abbandonato per il momento la logica di scambio e ha votato ieri insieme a Si e Mdp.
Il M5S invece rilancia e bolla l’ennesimo ritorno del testo in commissione come «una farsa», sfidando il Pd a smettere di «strizzare l’occhio all’abusivismo, che è un immenso serbatoio di voti», e a tirare fuori piuttosto l’anima ambientalista che sostiene di avere per bocciare «definitivamente il ddl Falanga».
La norma, a favore della quale si sono schierati anche molti sindaci dem del sud, soprattutto campani, stravolge le regole dell’abbattimento dei manufatti abusivi, stilando una lista di priorità in fondo alla quale vanno a finire gli edifici «abitati». Che di fatto saranno condonati, visto i risicati finanziamenti ad hoc.
Naturalmente a chiedere la bocciatura definitiva del ddl Falanga sono anche le associazioni ambientaliste che pure tirano un sospiro di sollievo, come il Wwf («ha vinto il buonsenso») e Legambiente («si pensi piuttosto ad approvare la legge contro il consumo del suolo ferma da oltre 500 giorni al Senato»).
In ogni caso sarà difficile che la legge, arrivata in quarta lettura alla Camera, una volta modificata in commissione Ambiente sui punti che perfino il presidente dem Ermete Realacci considera troppo «ambigui», possa concludere l’iter entro la fine della legislatura.