128 milioni di spostamenti al giorno: nonostante la crisi l'Italia l'anno scorso si è mossa. Ed è cresciuto un po' l'uso dei mezzi pubblici. Merito del caro-benzina, forse. Invece di guardare solo al risiko dei big delle autovetture, perché non studiare il modo di fare di necessità virtù?
L'anno appena trascorso ha visto un aumento dell’uso dei mezzi pubblici e la riduzione se pur ancora lieve dell’auto privata. Nei mesi del caro-benzina e della crisi economico-finanziaria abbiamo raggiunto in Italia i 128 milioni di spostamenti al giorno. L'economia è ferma, le persone no: ma come si muovono, con quali mezzi e in quali direzioni? Molti indizi vengono fuori dal VI Rapporto sulla Mobilità Urbana elaborato da Isfort, AssTra ed Hermes, presentato alla Conferenza Annuale di AssTra, le aziende di trasporto pubblico locale. Il direttore dell'Isfort Carlo Carminucci ha precisato di quale tipo sono quei 128 milioni di spostamenti: cresce di più la mobilità urbana delle medie e lunghe percorrenze, e dentro le città aumentano di più i percorsi tra 10-50 km, che sono evidentemente il risultato delle politiche insediative ormai diffuse sul territorio che aumentano i fenomeni di pendolarismo.
Il trasporto pubblico nel 2008 è cresciuto in modo significativo sia in termini di offerta, di uso da parte dei cittadini ed anche di soddisfazione del servizio. Nell’ultimo biennio 2006-2008 l’uso del mezzo pubblico sul totale degli spostamenti motorizzati è cresciuto dal 10 al 12,6%, erodendo una piccola quota al monopolio dell’auto che scende al 79,5%. L’avanzata del trasporto pubblico interessa soprattutto le grandi città usato da ben il 29,7% dei cittadini nel 2008 mentre nel 2006 questa percentuale era del 27,7%. Preoccupanti invece i primi dati del trimestre 2009 dove i numeri tornano negativi: evidentemente il perdurare della crisi ed il prezzo del petrolio tornato ai minimi storici nonchè gli incentivi all’automobile, hanno già prodotto la loro influenza.
Cambiano anche le motivazioni degli spostamenti: calano in percentuale i motivi legati al lavoro che si attestano al 24% nel 2008 mentre nel 2002 erano al 32%, allo stesso modo calano gli spostamenti per lo studio mentre crescono quelli legati alla gestione famigliare (37% nel 2009 rispetto al 30,8% del 2002) e del tempo libero ( al 34,8% nel 2008 rispetto al 31,3 del 2002).
La riflessione su questi dati avviata dal Presidente di AssTra Marcello Panettoni ha cercato di mettere a fuoco la risposta alla domanda fondamentale: la crescita è stata congiunturale e legata alla crisi ed all’aumento del prezzo della benzina, o siamo in presenza di una vera e propria inversione di tendenza, di una rivoluzioni culturale positiva ed irreversibile da parte dei cittadini?
Nei molti dibattiti e confronti è stato sottolineato che almeno dieci anni di impegno per il rilancio del trasporto pubblico, con gli investimenti per l’ammodernamento delle reti e del parco mezzi (adesso l’età media degli autobus è di 8 anni mentre nel 2002 era di 11 anni), l’applicazione ( assai incompleta) della legge 422/97 ed una gestione più efficiente delle aziende, ha prodotto i suoi risultati. Aumentano i km di trasporto pubblico offerto con un più 4% del 2008 rispetto al 2002, ed aumentano i passeggeri trasportati nello stesso periodo del 4,8%.
Preoccupante invece la dinamica dei costi aziendali cresciuti in questi anni in particolare per il costo del gasolio e del GPL, mentre le compensazioni regionali nello stesso periodo sono cresciute del 7,5% senza riuscire a compensare i costi crescenti. In difficoltà le aziende nell’ aumentare l’efficienza di gestione ed aumentare i ricavi, che si attestano intorno al 30% dei costi, mentre giova ricordare che la legge 422/97 indicava nel 35% l’obiettivo minimo da raggiungere nel rapporto ricavi/costi.
Resta dunque ancora molto da fare, siamo sempre sul filo del rasoio tra rilancio del servizio e crisi del sistema, anche a causa dei costi del servizio che continuano a crescere ed i contributi pubblici che non riescono a pareggiare i conti.
Ma anche dentro la media nazionale dei dati positivi vi sono comunque forti disparità che meritano di essere sottolineati anche per trarne qualche lezione: mentre il trasporto pubblico locale cresce nelle grandi città continua a perdere nei centri minori dove è praticamente dimezzato dal 2000. Allo stesso modo in Italia al Nord il mezzo pubblico è maggiormente utilizzato, al Centro ha ancora delle buone opportunità, mentre cala ulteriormente al Sud, che comunque vede città come Napoli raggiungere con ben il 42% di utilizzo del mezzo collettivo, ottime prestazioni di livello europeo.
Ma anche al Nord la realtà non è omogenea: al Nordovest il mezzo pubblico nel 2008 ha trasportato il 22,9% dei cittadini mentre il 71% usa l’automobile, mentre al Nordest solo il 10,7% usa il trasporto collettivo e ben l’84% usa l’automobile per i propri spostamenti.
Dalla stessa indagine emerge chiaramente l’interesse dei cittadini, assai favorevoli a soluzioni di mobilità collettiva, purchè frequenti e confortevoli. Migliora leggermente secondo le indagini la soddisfazione dei cittadini che danni i voti al mezzi pubblico: piace la metropolitana ( voto 7,3) mentre autobus, tram e treno locale superano di poco la sufficienza.
Interessante anche il peso della mobilità non motorizzata nel 2008 dove crescono un poco sia gli spostamenti a piedi (raggiungono il 27,6%) e l’uso della bicicletta (5,2%).
L’indagine approfondisce anche l’opinione dei cittadini sulle politiche di regolazione del traffico motorizzato privato dove il pagamento della sosta, l’estensione delle corsie riservate ed il road pricing calano nel gradimento rispetto al 2006: una preoccupazione in più per le amministrazioni locali che devo applicare misure impopolari ma necessarie per far funzionare e rendere efficienti i trasporti collettivi.
Quello che manca e che si è avvertito anche nella tre giorni di Asstra è l’assenza del decisore politico, siano amministrazioni locali che non controllano in modo deciso il traffico motorizzato, o il governo da cui mancano certezze sui finanziamenti per il servizio e sugli investimenti nelle reti e per nuovi veicoli di trasporto. Anche se il trasporto pubblico locale trasporta 15 milioni di passeggeri ogni giorno, ha oltre 116.000 addetti ed un giro d’affari di oltre 8 miliardi l’anno, non pare avere molta influenza sulle decisioni politiche.
Rispetto a dieci anni fa abbiamo fatto passi in avanti e questo dimostra che quando si agisce i risultati si vedono, ma solo se aumenterà l’impegno finanziario e sistematico per la mobilità sostenibile nelle città, potrà arrivare la svolta per i cittadini e per l’ambiente.
ROMA - «Non abbiamo discusso del piano casa perché avevamo assunto l´impegno di trovare l´accordo con le Regioni». Berlusconi chiarisce al Consiglio dei ministri perché il provvedimento è stato cancellato dall´ordine del giorno. Sull´ennesimo rinvio del varo del decreto legge sulla semplificazione edilizia e le nuove norme anti-sisma precisa: «Non è stato trovato l´accordo su un punto, ma le Regioni stanno procedendo con le leggi regionali per cui non ci saranno ritardi».
A loro spetta il compito di scrivere le leggi che permettano l´aumento di cubatura delle abitazioni private, le demolizioni e le ricostruzioni. La discussione sul dl del governo invece, che deve essere concordato con le autonomie locali, si allunga oltre le previsioni. Così se Toscana e Veneto sono avanti sul "piano casa bis", gli altri stanno temporeggiando. E l´entrata in vigore delle leggi potrebbe slittare in avanti. Berlusconi vuole stringere e detta i tempi: «Entro luglio sono convinto si darà attuazione al provvedimento così il piano sarà operativo dal primo agosto».
Il governo fa pressing per raggiungere un´intesa sul testo, il presidente della Conferenza delle Regioni Errani chiede garanzie e aspetta risposte. Dopo l´ennesimo stop, il leader del Pd, Franceschini, lancia l´affondo al piano casa del governo «che cambia continuamente» e puntualizza: «So che tutte le Regioni, al di là del colore, stanno difendendo bene le loro competenze e vogliono proposte concrete e non soltanto effetti immagine da lanciare prima delle elezioni». È polemica la deputata radicale del Pd e componente della Commissione ambiente, Zamparutti: «Lo slittamento all´estate del piano casa non sia l´alibi per l´ennesima proroga delle norme antisismiche che attendono di entrare in vigore dal 2005 e si provveda a renderle operative subito nel decreto sul terremoto in Abruzzo».
Oltre ai costruttori, anche gli architetti mettono fretta: «Questa ulteriore dilazione dei tempi del decreto governativo e, di conseguenza, delle leggi regionali che da questo dipendono, incrementa, invece che risolvere, il forte disagio del settore edilizio», si legge in una nota del consiglio nazionale.
Le richieste delle Regioni finora accolte sono l´eliminazione dell´autocertificazione per il mutamento di destinazione d´uso e la semplificazione sulla Vas (valutazione ambientale strategica). I nodi riguardano gli sgravi Irpef del 55% per gli interventi sulla messa in sicurezza, ampliamenti compresi, degli edifici privati in zone «a media e alta sismicità» e la possibilità di fare le verifiche necessarie con personale da assumere ad hoc con un piano a lungo termine sugli edifici pubblici.
Il confronto riparte la prossima settimana: il "piano casa bis" potrebbe tornare nell´agenda della Conferenza dei presidenti e all´Unificata di giovedì. Ma già martedì ci potrebbe essere un incontro tecnico per avvicinare le posizioni. Il ministro dei Rapporti con le Regioni, Fitto, è ottimista sulla possibilità di trovare un´intesa sul testo: «Stiamo lavorando per definire degli elementi nuovi» sui quali «dopo il terremoto in Abruzzo, le Regioni hanno posto l´attenzione del governo» e tiene bassi i toni della discussione («non mi sembra che ci siano punti di divergenza notevoli»). Dalla settimana scorsa «alcune questioni sono state superate», precisa, «resto fiducioso»
Non ci sono risposte alle osservazioni delle Regioni e delle autonomie locali per il decreto legge di semplificazione che dovrebbe accompagnare l’accordo per il rilancio dell’edilizia e quindi “fumata nera” dopo oltre due ore di vertice al ministero per i Rapporti con le Regioni, per sciogliere i nodi posti. La prevista conferenza unificata che avrebbe dovuto dare il via libera al provvedimento, necessario per portarlo al Consiglio dei Ministri di domani, è saltata: “"il testo - ha spiegato il ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto - sarebbe andato in Consiglio dei Ministri solo a condizione del raggiungimento dell'intesa con le Regioni e le altre autonomie locali. Lo porteremo - dice - quando ci sara' l'accordo". Per il presidente della Conferenza Regioni, Vasco Errani,” le regioni, unitariamente, attendono precise risposte a richieste fondamentali che il Governo ancora non ci ha dato".
Eppure l‘intesa sul “piano per il rilancio dell’edilizia” sembrava possibile, pur restando nel pomeriggio ancora nodi da sciogliere quando cioè si è dovuto registrare prima lo slittamento alle 18.30 poi il definitivo rinvio della Conferenza Unificata straordinaria sul piano per il rilancio dell’edilizia (inizialmente convocata per le 16.00 nella sede del Dipartimento per gli affari regionali.) La riunione avrebbe potuto riaprirsi se l’incontro politico tra il ministro per gli affari regionali Raffaele Fitto, per la semplificazione Roberto Calderoli, il sottosegretario agli interni Michelino Davico e per le regioni il Presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani, oltre ad alcuni tecnici in rappresentanza di comuni e province avesse avuto un esito positivo. Così non è stato. La sospensione si era resa, del resto, necessaria per cercare di giungere ad un accordo sui punti ancora non chiariti; tra questi la semplificazione della procedura per la Valutazione ambientale strategica (Vas). Quindi l'accordo che molti davano quasi per raggiunto in vista del consiglio dei ministri di domani, sembra nuovamente allontanarsi. I tempi restano strettissimi, ma il provvedimento calendarizzato per il Consiglio dei ministri del 15 maggio subisce l’ennesimo slittamento Tra le misure che servirebbero per completare il quadro del provvedimento, dopo le osservazioni delle Regioni, l'inserimento degli sgravi irpef del 55 per cento per tutti i lavori di ristrutturazione degli immobili privati e una deroga agli enti locali per l'assunzione del personale tecnico per la gestione dell'attuazione delle norme antisismiche.
“Noi – ha spiegato (al termine della Conferenza delle Regioni svoltasi in mattinata) il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani - siamo pronti e vogliamo fare sul serio. Ora occorre verificare se ci sono i presupposti per raggiungere l'intesa perché - prosegue – si tratterebbe anche di innescare un'importante misura anticiclica capace, da una parte di rilanciare il settore dell'edilizia, e dall'altra, di fare arrivare nuove entrate per lo Stato". Tra gli altri punti su cui le regioni insistono, rispetto al piano casa, c'e' ''una conseguenza delle giuste scelte sulle norme antisismiche - ha aggiunto Errani - e cioè la necessità di una deroga per quanto riguarda le assunzioni di personale per poter garantire controlli''. In sostanza, sintetizza Errani, servono ''gli strumenti per far funzionare le norme antisismiche'' ed è necessaria una ''azione coerente con gli obiettivi che abbiamo proposto''. Solo così secondo Errani, si potrà garantire un'''iniziativa anti ciclica'' capace di ''portare nuove entrate allo Stato e di avviare una azione coerente per la messa in sicurezza delle abitazioni''.
Anche l’Anci, spiega Sergio Chiamparino,”attende di verificare, in Conferenza Unificata, come siano stati chiariti i due punti critici ancora irrisolti: quello della auspicabile deroga agli enti locali per la assunzione di personale tecnico per la gestione della attuazione delle norme antisismiche e quello della altrettanto auspicabile semplificazione della procedura per la valutazione ambientale strategica (Vas), prevedendo nella sostanza che essa sia necessaria solamente per gli strumenti generali di pianificazione che abbiano effetti significativi sull'ambiente''. Sergio Chiamparino, Presidente dell’Anci, ha ricordato che '''in sede tecnica sono state accolte le proposte Anci relative alla reintroduzione del rispetto '''degli strumenti urbanistici comunali'' in materia di attività edilizia libera (art.1), al rafforzamento delle '''misure urgenti in materia antisismica e di sicurezza delle costruzioni'' (art. 2), all'equa distribuzione dei benefici e degli oneri derivanti dagli interventi di trasformazione sempre nel rispetto del piano urbanistico ed al '''fondo per l'accesso al credito per l'acquisto della prima casa'' (art. 7)”.
''Siamo ancora in attesa che il governo ci dia delle risposte sulle richieste di modifica al testo del decreto legge sulle misure urgenti in materia di edilizia, urbanistica ed opere pubbliche'', ha detto il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, al termine del confronto politico al Dipartimento degli affari regionali sul decreto legge che dovrebbe fra da corollario al piano per il rilancio dell’edilizia. Un incontro conclusosi senza che sia stato raggiunto un accordo. Errani ha ribadito le richieste delle regioni necessarie per approvare il decreto. In particolare -ha ricordato- chiediamo che l'articolo 11, relativo al non utilizzo di immobili pubblici a rischio sismico (per i quali entro 6 mesi dalle verifiche della protezione civile e dei comuni, non siano stati avviati lavori di messa in sicurezza), preveda un piano di interventi quarantennale con l'individuazione delle relative coperture necessarie per reperire i fondi e per le assunzioni del personale tecnico da impiegare nelle verifiche. Le regioni chiedono poi un'altra modifica allo stesso articolo relativa agli sgravi Irpef del 55% che dovrebbe essere recepita, secondo i Presidenti, con un emendamento ad hoc al decreto legge sull'Abruzzo. ''Questa sarebbe - ha detto Errani - una scelta fondamentale in grado di dare risorse all'erario e risposte ai cittadini''. “Cosi' stanno le cose - ha concluso Errani, rispondendo sempre alle dichiarazioni di Berlusconi agli Stati generali delle costruzioni - non ci sono regioni di centrodestra e regioni di centrosinistra, la nostra posizione e' unitaria, le regioni sono un'istituzione che in questa sede cercano una reale collaborazione con il governo''.
Mentre prosegue il susseguirsi di annunci e di rinvii sul decreto legge circa la semplificazione e lo snellimento delle procedure per l’attuazione delle attività edilizie che, insieme all’aumento delle volumetrie delle ville e villette, dovrebbe, nelle intenzioni del governo, dare uno slancio all’economia, il Cipe, nella seduta dello scorso 8 maggio, ha approvato quello che viene considerato il piano casa del governo per antonomasia (di piani casa governativi se ne contano almeno quattro), cioè quello disegnato dalle norme contenute nell’articolo 11 della legge 133/2008.
È stato deliberato di assegnare a questo piano 350 milioni di euro, una cifra non proprio entusiasmante per un piano che qualcuno ha addirittura paragonato al piano Fanfani dell’immediato secondo dopoguerra del secolo scorso.
L’accostamento tra il piano casa Berlusconi ed il piano casa dell’allora ministro del lavoro Fanfani è fuori luogo e può essere solo frutto di una forzatura. A distanziare i due piani non è il tempo, ma la loro diversa finalità. Quello di Fanfani fu un piano che permise la realizzazione di un numero rilevante di abitazioni destinate a risolvere il problema della casa della popolazione più povera, dando al tempo stesso un contributo a combattere l’endemica disoccupazione post bellica. Anche ora il governo argomenta le sue scelte in materia edilizia con l’esigenza di rilanciare l’economia. Ma il piano casa che propone di realizzare “è rivolto all’incremento del patrimonio ad uso abitativo attraverso l’offerta di abitazioni di edilizia residenziale”( comma 2, articolo 11 legge 133/2008). L’intenzione è, quindi, quella di promuovere la realizzazione di un piano che incrementi l’offerta di appartamenti a prezzi di mercato, mentre in tutto l’articolato legislativo del piano vi è solo un accenno alla possibilità che si promuovano programmi di “edilizia residenziale anche sociale” (lettera e, comma 3, articolo 11, legge 133/2008).
Una parziale restituzione di una eredità inattesa
Il piano casa di questo governo manca dell’impronta sociale sia del piano Fanfani sia del successivo piano decennale promosso con la legge 457/1978. Ma esso ha addirittura cancellato un rilevante programma di edilizia residenziale pubblica, promosso dal precedente governo, il cui integrale ripristino ridarebbe al piano del governo un connotazione di socialità.
Dei 350 milioni di euro deliberati dal Cipe, 150 milioni costituiscono la dotazione di un fondo immobiliare partecipato dalla Cassa depositi e prestiti, una sorta di “fondo padre”, che promuove e partecipa a tanti altri fondi immobiliari locali. Gli altri 200 milioni di euro vengono restituiti alle regioni per realizzare una parte degli interventi compresi nel programma straordinario di edilizia residenziale pubblica finanziato con 544,5 milioni di euro dall’articolo 21 della legge 222/2007, che fu approvata per realizzare interventi urgenti nel campo dello sviluppo economico-finanziario e dell’equità sociale.
Appena poche settimane dopo essersi insediato, con il decreto legge 25 giugno 2008, n. 118 (poi convertito con la legge 133/2008), il governo sottrasse quei fondi alla loro originaria destinazione per dirottarli al nuovo piano. In questo modo interruppe la realizzazione di interventi già individuati con un decreto del 18 dicembre del 2007 dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti del precedente governo; decreto che aveva anche assegnato le risorse agli enti incaricati della gestione operativa delle iniziative.
Ad onor del vero, va detto che se i cantieri per accrescer l’offerta di alloggi di edilizia sociale finanziata con quel programma allora non furono aperti immediatamente, una qualche responsabilità ricade anche sull’allora ministro delle infrastrutture Di Pietro il quale propose, quando ormai tutto era pronto per dare inizio ai lavori, una nuova procedura di verifica degli interventi da finanziare. Non fu, quel comportamento, un esempio di buona pratica politico-amministrativa: se in alcuni casi si può giustificare che un nuovo governo cancelli i programmi del precedente è, invece, difficilmente comprensibile che un procedura amministrativa proposta da un ministro sia smentita dallo stesso poche settimane dopo. Il blocco del programma che ne seguì fu una manna per il nuovo governo, il quale considerò quei quasi 550 milioni come un’eredità senza eredi e senza vincoli, da spendere per il nuovo piano casa pensato con l’articolo 11 della legge 133/2008.
Oltre la metà della meta
Sull’utilizzo di quei fondi si è assistito ad un braccio di ferro tra il governo e le regioni: finora sembra aver portato ad un pareggio. Dando seguito ad un accordo, sottoscritto agli inizi dello scorso aprile tra il governo e le regioni, a queste ultime la delibera Cipe restituisce subito 200 milioni di euro, la cui ripartizione tra di esse avverrà a seguito di una nuova istruttoria dei progetti presentati; quell’accordo promette loro che in futuro torneranno in possesso anche dei restanti 344,5 milioni di euro. Questa cifra resta, per ora, a disposizione del governo per il suo piano casa fatto di fondi immobiliari e di interventi di edilizia residenziale a scarsa propensione sociale.
Prima che il piano del governo decolli, trascorrerà altro tempo inutilmente, con risorse finanziarie pubbliche immobilizzate e un peggioramento della condizione di disagio abitativo di un numero rilevante di famiglie.
Se riuscirà a trovare le altre risorse necessarie, con il suo piano casa il governo vuole incrementare, riporta la stampa, di 20.000 unità il numero di alloggi destinati alle famiglie a più basso reddito. Non è un obiettivo particolarmente ambizioso. Ma soprattutto, se l’obiettivo è effettivamente quello, nel giro di pochi mesi si potrebbe percorrere la metà del cammino che porta a quel traguardo, se solo si trasferissero subito alle regioni tutti i 545 milioni per realizzare gli interventi già finanziati.
Un sostegno alle piccole imprese edili
Gli interventi che le regioni sono pronte a realizzare, da ormai quasi un anno e mezzo, consentono di accrescere di 11.922 unità l’offerta di alloggi da assegnare in affitto a canoni contenuti[1]. Un numero non trascurabile, ma verosimilmente inferiore alla sua consistenza reale, poiché molte regioni hanno attinto ai loro bilanci per ampliare i programmi finanziati dallo stato. In ogni caso anche considerando i soli fondi statali, non sarebbero certo trascurabili gli effetti positivi di un loro rapido trasferimento alle regioni o agli enti incaricati di realizzare gli interventi.
Le regioni hanno previsto di realizzare interventi o di promuovere iniziative di immediata fattibilità, con la conseguenza che le risorse sarebbero subito spese per sostenere la domanda di beni e servizi impiegati in edilizia. A livello macro economico questo sostegno, anche se non trascurabile, potrebbe anche non essere considerato determinante. Ma a livello territoriale può rivelarsi incisivo, soprattutto a sostegno delle piccole imprese e delle attività artigianali.
Dei circa 545 milioni di euro complessivi, poco meno di 265 finanzierebbero le spese di recupero e di ristrutturazione di 7.366 case popolari ora vuote per mancanza delle risorse necessarie per riattarle, metterle a norma e assegnarle in locazione. Nella gran parte dei casi si tratta di interventi diffusi sul territorio e sparsi in tutto il patrimonio di alloggi pubblici, con un investimento medio di 36 mila euro per alloggio. La realizzazione dei lavori può, quindi, essere affidata, con procedure di evidenza pubblica molto semplificate, a tante piccole imprese o lavoratori autonomi, per i quali anche cifre relativamente modeste possono salvare il fatturato. Si trasformano in possibilità di lavoro per le imprese anche i 160 milioni programmati dalle regioni per costruire circa 1.500 nuovi alloggi; in alcune aree l’impatto sulla domanda di attività edilizia può essere rilevante.
Viene fatto, da parte delle regioni, anche un tentativo di fronteggiare il fabbisogno di case a basso prezzo ricorrendo al mercato, affittando, attraverso agenzie ed altri strumenti di intervento degli enti locali, circa 2.200 appartamenti da proprietari privati per assegnarli a famiglie sfrattate o in attesa di una casa popolare. È un tentativo di sfuggire ad una prassi assistenziale che di fatto assegna a vita le case pubbliche, ma può contribuire anche a stimolare il mercato dell’affitto.
Un aiuto al mercato può darlo anche il proposito di utilizzare quasi 100 milioni per acquistare circa 850 appartamenti già costruiti, e che la crisi immobiliare lascia invenduti. Ma è anche un aiuto ad incrementare l’offerta di alloggi di edilizia residenziale sociale. Essi accresceranno il patrimonio di “case popolari” dei comuni e degli Iacp, da affittare a canone sociale o comunque più basso di quello di mercato. Anche i prezzi ai quali gli alloggi sarebbero acquistati sono inferiori a quelli di mercato. In media ci si colloca al di sotto dei 120 mila euro per appartamento. È la fase di stanca del mercato immobiliare, con il rilevante stock di alloggi invenduti e l’allungamento dei tempi di vendita, che consiglia o costringe le imprese che ne sono proprietarie ad accettare prezzi da edilizia convenzionata, notevolmente più bassi di quelli di libero mercato.
[1] I dati che seguono sono il risultato delle elaborazioni condotte sulla lista degli interventi proposti dalla regioni e contenuta nell’allegato 2 al decreto del ministero delle infrastrutture del 28 dicembre 2007, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17 gennaio 2008, n. 14.
Probabile la riapertura del confronto sul Piano Casa. È stata convocata per domani alle 16 la Conferenza Unificata per l’esame dello schema di decreto leggerecante misure urgenti in materia di edilizia, urbanistica e opere pubbliche. Gli Enti Locali, che dopo la presentazione dei possibili emendamenti attendono le nuove proposte del Governo, continuano il percorso parallelo della legislazione regionale.
Nel Lazio si fa avanti un percorso condiviso grazie alla collaborazione di costruttori e istituzioni. Al convegno dell’Acer, Associazione costruttori edili di Roma, è emersa la volontà di costruire alloggi a canone sociale e convenzionato. Non si tratterà di case popolari, ma di un’edilizia residenziale con canoni di locazione inferiori a quelli del libero mercato. Le stime sulla richiesta abitativa mostrano una carenza di 50 mila alloggi.
L’housing sociale si coniugherà anche con la densificazione delle aree già edificate, come gli aumenti volumetrici del piano governativo. Oltre agli ampliamenti del 20% sarà incentivata la demolizione e successiva ricostruzione degli edifici anni ’70. A causa delle crescenti difficoltà di edificazione si prevedono bandi di gara, cambi di destinazione d’uso e la riqualificazione di 13 mila casali agricoli.
Non recepirà totalmente il DL del Governo la Sardegna. Lo ha annunciato l’Assessore all’Urbanistica Gabriele Asunis, impegnato insieme al Governatore e agli altri vertici regionali nella rivisitazione del Piano Paesaggistico. Il 18 maggio inizierà un percorso per la tutela di centri storici, sistema costiero e fasce marine. Alla base il principio della valorizzazione dell’intero patrimonio edilizio, che andrà di pari passo con il rilancio delle costruzioni.
Tutti gli interventi dovranno rispettare il divieto di costruire a una distanza inferiore di 300 metri dal mare. La norma regionale conterrà inoltre incentivi e premi volumetrici per i proprietari che abbatteranno la propria abitazione per ricostruirla a una distanza maggiore dalla costa. Il percorso di scelte condivise sarà anche utile a risolvere le criticità presenti nella pianificazione comunale, a causa delle quali l’edilizia ha subito un blocco.
Non sono solo le Regioni ad attendere la ripresa del Confronto sul Piano Casa. Dopo le dichiarazioni rilasciate da Finco, anche Giuseppe Moretti, Segretario generale di Feneal-Uil esprime disapprovazione sui continui ritardi del Governo, dovuti anche all’emergenza Abruzzo. Gli effetti del terremoto hanno portato all’inserimento nel DL di misure antisismiche cui tutti gli interventi dovranno conformarsi. Gli adeguamenti potranno essere effettuati da soggetti abilitati.
I costi, indicati orientativamente nell’Ordinanza 3362/2004, possono essere stimati in 3 euro per metro cubo per la valutazione di vulnerabilità negli immobili di piccole dimensioni e in 0,50 euro a metro cubo per quelli più grandi. L’adeguamento si può invece aggirare sui 150 euro a metro cubo, ma il valore preciso dipende dalla vicinanza alla zona sismica di riferimento e dalla sua tipologia.
Il rischio è che l’housing sociale diventi un ulteriore alibi per rendere edificabili e private aree che non lo sono. Immaginate il seguente colloquio tra il comune e l’immobiliarista di turno:
Comune : Mi servono appartamenti a canoni inferiori a quelli di mercato, da assegnare a determinate categorie di utenti.
Immobiliarista : Benissimo, ghe pensi mi. Dammi le aree.
Com : E dove le trovo?
Imm : Intanto me ne dai un po’ di quelle vincolate (che brutta parola!) a standard.
Com : E se non bastano?
Imm : Ti aiuto io. Ne ho quanto ne vuoi. Basta che togli il vincolo (ancora questa parola!) a verde agricolo, e io invece dei fagiolini ci costruisco le case che ti servono e le affitto a chi vuoi a prezzi concordati.
Com : Benissimo. Per quando tempo?
Imm : Ma quanto vuoi, anche 10 o 15 anni!
Com : Perfetto!
Morale della favola: se va così, l’immobiliarista ha “valorizzato” (così come piace a lui) il suo terreno, prima inedificabile o addirittura soggetto a esproprio, il comune ha aggravato un po’ il consumo di suolo, il livello della rendita fondiaria e il carico sui servizi pubblici. Uno contento, e l’altro (cioè noi) cojonato.
Riusciranno regioni e comuni, che discutono con Berlusconi la mitigazione del suo “piano casa”, a evitare quest’ultimo trasferimento dal pubblico al privato, dalla ricchezza comune a quella privata? Vedremo alla prossima puntata.
Intanto, in Sardegna minacciano di distruggere il piano paesistico e di riaprire il saccheggio delle coste.
I PROVVEDIMENTI
Con il decreto del luglio 2008 dedicato alla prima manovra economico finanziaria, il nuovo governo ha resuscitato le concessioni ai general contractors per le tratte non ancora avviate dell’alta velocità ferroviaria: Milano-Genova, Milano-Verona e Verona-Padova. Le concessioni, affidate a suo tempo senza alcuna procedura competitiva, erano state già revocate dai governi di centrosinistra nella XIII e XV legislatura e riportate alla luce dal centrodestra nella XIV legislatura.
In uno dei primissimi provvedimenti approvati dal governo (il Dl 59/2008) è stata inserita una disposizione che rinnova automaticamente e senza gare le convenzioni tra Anas e le concessionarie autostradali. In autunno, il ministro Tremonti ha avuto parole dure nei confronti dei concessionari autostradali, rei di non aver eseguito gli investimenti nei tempi previsti e aver nel frattempo intascato pedaggi giustificati proprio con la necessità di finanziare quegli investimenti. Da tanta severità è però emerso solo un rinvio degli aumenti tariffari in programma (ormai scattati) e una forma semplificata per gli adeguamenti tariffari futuri, con una nuova regola valida per 10 anni, e non più 5, che stravolge sostanzialmente il metodo del price cap. Tanto, per come lo si era applicato per i 10 anni precedenti…
Il cosiddetto “Collegato infrastrutture” al Dpef, sempre del luglio 2008, metteva bene in chiaro che il nuovo governo avrebbe puntato molto, almeno a parole, sulle grandi opere infrastrutturali. Viene rilanciato alla grande il ponte sullo Stretto di Messina. Altrettanto bene chiariva come del faraonico elenco di opere inserite nella Legge obiettivo del 2003 si era realizzato relativamente poco. Ma soprattutto si ammetteva come molte delle opere non avessero ancora trovato finanziamento, come il coinvolgimento dei privati fosse rimasto molto al di sotto di quanto a suo tempo sperato e come quindi assai più consistente avrebbe dovuto essere l’esborso di denaro pubblico in futuro. Al tempo stesso, si prevedeva un’ulteriore riduzione delle risorse destinate a investimenti pubblici (-11,5 per cento), al fine di risanare la finanza pubblica.
Il Dl 152 dell’11 settembre 2008 corregge, per la terza volta, il Codice dei contratti pubblici dando nuovo rilievo, per il project financing, alla gara “bifasica” con diritto di prelazione. Essa prevede che, nella prima fase, si competa sulla qualità del progetto e nella seconda sul prezzo. Il progetto del “promotore” che si è aggiudicato la prima fase viene posto a gara nella seconda, in cui, tuttavia il promotore stesso gode di un diritto di prelazione che gli attribuisce uno straordinario vantaggio e quindi può scoraggiare la partecipazione alla seconda fase della gara. Dato che è nella seconda fase che si fa il prezzo sarebbe proprio qui che si vorrebbe una partecipazione ampia e, dunque, una concorrenza accanita.
Con l’inasprirsi della crisi economica, alle grandi opere vengono attribuite taumaturgiche virtù anticongiunturali e si annuncia un massiccio finanziamento. Il primo “rifinanziamento” della Legge obiettivo, con il decreto anticrisi, è però modesto: 2,3 miliardi. Il 6 marzo 2009, finalmente, il Cipe stanzia altri fondi, peraltro ancora una volta in misura cospicua prelevati dal Fondo aree sottoutilizzate (Fas). Tale fondo ha un vincolo di destinazione: l’85 per cento al Sud e il 15 per cento al Centro-Nord. In gran parte sono fondi necessari a completare opere già cantierate da tempo e sulla via di battere nuovi record in materia di lentezza della realizzazione. 1,3 miliardi sono destinati al ponte sullo Stretto, mentre si ammette che l’opera non potrà essere avviata prima di 12-18 mesi. Le risorse destinate all’edilizia scolastica – che negli ultimi anni non solo ha mostrato le crepe ma ha fatto dei morti – sono briciole.
GLI EFFETTI
Non è semplice valutare gli effetti macroeconomici immediati delle misure adottate. È certo però che gli annunci, da soli, hanno scarsi effetti e i fondi “freschi” stanziati, e non semplicemente spostati da qualche altra destinazione, sono di dimensione assai ridotta. Sul piano metodologico, va rilevato che, ancora una volta, il Cipe, per approvare un maggior numero di progetti, ricorre allo stratagemma del “finanziamento parziale”, che permette forse di aprire più cantieri, ma non di completare le opere fino alla loro piena funzionalità. Come ha rilevato la Corte dei conti nel 2007, questa abitudine ha spinto alla frammentazione di progetti per lotti, spesso assai poco “funzionali”, al fine di massimizzare la probabilità di ottenere fondi dal Cipe, pregiudicando però la programmazione generale e finendo per accrescere i costi delle opere complessive, oltre che per allungarne i tempi di realizzazione.
Il governo ha inserito all’articolo 20 del decreto anticrisi norme per velocizzare le procedure esecutive dei progetti del quadro strategico nazionale e per modificare il relativo regime di contenzioso amministrativo. Non è ancora dato di sapere se tali misure abbiano già avuto qualche effetto positivo e, naturalmente, se l’avranno in futuro. Resta tuttavia il dubbio che tale “velocizzazione” non riesca a incidere sui lunghissimi tempi per la progettazione, le conferenze dei servizi, ecc. che caratterizzano la gestazione delle grandi opere italiane.
Il giudizio sul ripristino dei vecchi contratti per l’alta velocità lo affidiamo alle parole pronunciate da Mauro Moretti, amministratore delegato di Fs, nel corso di un’audizione al Senato della Repubblica, in cui cercava di spiegare il fatto che un chilometro di Av in Italia costa circa il triplo che in Francia. “I contratti sottoscritti in Italia per la realizzazione della direttrice To-Mi-Na fanno riferimento alla convenzione Tav-Gc del 1991, che prevede la negoziazione diretta tra committente e general contractor nell’ambito di un affidamento sostanzialmente già effettuato. In tale caso, la congruità del prezzo che viene esperita prima dell’affidamento dal soggetto tecnico che supporta la committenza deve necessariamente tenere conto, oltre che dei costi di costruzione diretti, anche degli oneri organizzativi e finanziari, degli attrezzaggi e delle prestazioni previsti dall’affidatario in termini ed entità difficilmente contestabili. In un affidamento mediante gara, invece, tali oneri incidono generalmente di meno, poiché gli stessi concorrenti, per poter aggiudicarsi l’affidamento,operano nel proprio ambito imprenditoriale specifiche ottimizzazioni organizzative e gestionali, tenendo conto di capacità, risorse, attrezzature già di loro proprietà, sinergie operative ed economiche realizzabili nell’esecuzione delle opere. Il ricorso ad una gara ad evidenza pubblica avrebbe sicuramente comportato una riduzione dell’ordine del 14 ÷ 20 per cento”.
Infine, dai provvedimenti presi, la concorrenza non emerge come una delle principali preoccupazioni dell’esecutivo e anzi sembra essere vista, col plauso del quotidiano della Confindustria, come un ostacolo al “fare”. Chi cerca di difenderla è additato come un paladino del “non fare”. Eppure è ampiamente riconosciuto che la concorrenza costituisce un potente antidoto alla corruzione, che è notoriamente molto diffusa, e non solo in Italia, proprio nel settore dei lavori pubblici: l’evidenza empirica sul punto è ampia e univoca. Ed è altrettanto noto che la corruzione è non solo nemica del fare, ma anche nemica del fare bene e a costi ragionevoli.
A Dharavi, cuore della circoscrizione Mumbai sud-centro, la questione che più muove gli elettori è un controverso progetto di «riqualificazione» urbana. La parola stessa, redevelopment, evoca speculazione edilizia, e si capisce bene perché: questo slum esteso su 175 ettari, circa un milione di abitanti, una città nella città, si trova ormai in una zona centralissima di Mumbai - in un triangolo formato dalle due grandi linee ferroviarie metropolitane, a vista dei grattacieli di appartamenti chic che stanno ridisegnando la skyline della città. Più che un singolo slum è una serie di insediamenti contigui, cresciuti in modo disordinato e «spontaneo» dai primi del '900 senza precisa pianificazione ai bordi di quella che allora era la città, una stratificazione umana che rispecchia le ondate migratorie che hanno costruito la metropoli e le sue fortune economiche.
Nel bastione del Congress
Col tempo parte delle baracche sono divenute case di muratura, le botteghe artigiane sono diventate fabbrichette. Più tardi la municipalità ha aperto due grandi viali che tagliano lo slum, anche se nella parte centrale resta l'ammasso di baracche e vicoli di terra. Perché di «risviluppare» Dharavi si parla da tempo: il primo progetto fu voluto da Rajiv Gandhi nel 1991, e sono comparsi allora i primi edifici di parecchi piani (oltre alle prime opere idriche e fognature) nelle zone periferiche dello slum: case popolari ad affitti bloccati ma pur sempre più cari delle casupole precedenti, così che a ogni «riqualificazione» qualcuno resta fuori e lo slum si perpetua. Ora il governo municipale progetta di abbattere altre 100mila vecchie baracche e costruirvi al posto nuovi complessi di case popolari, un progetto da 150 miliardi di rupie, oltre 2 miliardi di euro.
Questa dunque è diventata la principale preoccupazione per gli elettori, che qui hanno votato ben più numerosi che in molte zone borghesi della città: la municipalità ha propagandato il suo piano offrendo nuovi alloggi di 21 metriquadri per famiglia, ma gran parte delle vecchie case sono più spaziose, anche perché spesso sono pure il luogo di lavoro: dalle botteghe dei vasari nella zona chiamata potter's colony, alle officine di meccanici, alle mini-fabbriche di dolci e snacks che poi sono venduti nei negozietti lungo le arterie principali dello slum oppure in città: Dharavi sopravvive e prospera perché ha un'alta concentrazione di «self made» imprenditori. Di fronte alle opposizioni, il governo municipale (del Congress) ha rivisto i piani, dice che i nuovi alloggi saranno di 28 mq per famiglia. Il candidato sfidante, del partito fascistoide Shiv Sena, offre 37mq.
Dharavi è da sempre un bastione elettorale del Congress, che qui ha ricandidato Eknath Gaikwad, deputato uscente di questo stesso collegio: è un dalit (fuoricasta, una volta chiamati intoccabili) come molti abitanti di qui, l'unico dalit tra i deputati del Congress eletti a Bombay. «E' una persona stimata, uno che è rimasto avvicinabile anche quando è andato in parlamento, risponde agli elettori», dice Kalpana Sharma, giornalista e autrice del miglior libro su questo famoso slum (Rediscovering Dharavi, Penguin India, 2000). Il voto di Dharavi è essenziale: oltre il 60% degli elettori del collegio Mumbai sud-centro vivono in slum, e oltre la metà sono qui. Lo slum è misto, quanto a gruppi sociali: ci sono i tamil (dell'India meridionale), i nuovi arrivati dal Bihar o dal Bengala occidentale, gente di tutta l'India; ci sono alcune moschee, una chiesa cristiana e parecchi templi dedicati a numerose divinità hindu (diverse comunità hanno diversi dèi). «Dharavi ha conosciuto un solo momento di scontro intercomunitario, nel 1992-93, ed è stato istigato da bande del Shiv Sena venute da fuori lo slum», spiega Sharma. Quelle violenze sono ricordate semplicemente come «i riots» di Bombay, quando intere zone popolari sono state teatro di un pogrom contro i musulmani con centinaia di morti.
I musulmani svantaggiati
Mumbai ha conosciuto altre esplosioni di violenza dopo quei riots, dalle bombe alla Borsa nel 1993 (la «vendetta» di gruppi estremisti musulmani indiani legati al sottobosco della mafia della città, si disse), alle esplosioni sui treni metropolitani nel luglio del 2006: eventi sempre in qualche modo legati a dinamiche politiche interne all'India (a differenza dell'attacco subìto dalla città il 26 novembre scorso). Dharavi però non ha visto ripetersi gli scontri «comunalisti» del '92-'93, anche grazie al lavoro di dialogo condotto da alcune leader delle comunità che vi abitano. Tanto che anche un partito sciovinista come il Shiv Sena, riconosciuto come il principale istigatore di quei riots (e di altre violenze), qui ha schierato un candidato noto per moderazione, che ha fatto grandi sforzi per corteggiare gli elettori musulmani.
Già, i musulmani. Sono la minoranza più consistente di questa nazione multiculturale, multietnica e multireligiosa: quasi il 14% degli indiani al censimento del 2001, circa 140 milioni di persone. A Mumbai città superano il 36%. E i musulmani sono una minoranza «svantaggiata» dal punto di vista sociale ed economico, ha documentato una commissione d'indagine voluta dal governo centrale, nota come Commissione Sachar: nel rapporto presentato al parlamento indiano nel 2006 ha mostrato che gli indiani musulmani sono meno alfabetizzati della media nazionale, sono sottorappresentati negli impieghi pubblici, ricevono meno welfare e hanno meno accesso al credito, possiedono meno terra, mentre sono sovra rappresentati nelle statistiche sulla povertà.
Le violenze comunaliste
Rappresentano un bel numero di voti, però: così in questi giorni molti candidati qui a Mumbai come in tutta l'India promettono di applicare le raccomandazioni della Commissione Sachar. Il Nationalist Congress Party, partito del Mahrashtra alleato del Congresso a livello nazionale, ha promesso di riservare quote negli impieghi pubblici ai più poveri delle comunità svantaggiate, inclusi i musulmani (il Congresso «nazionalista» è nato una decina di anni dalla scissione di un boss regionale del Congresso, il potente Sharad Pawar, che rifiutava la «straniera» Sonia Gandhi come leader del partito).
Ma queste promesse potrebbero non bastare: «I musulmani sono stufi di essere usati come "banca di voti"», mi dice Meena Menon, giornalista della redazione di Mumbai del quotidiano The Hindu: «E hanno la memoria lunga. Le violenze comunaliste, e l'insabbiamento del rapporto Srikrishna sui riots del 1992-93, hanno lasciato il segno». Sì, perché dopo quei pogrom anti-musulmani lo stato centrale aveva affidato a una commissione d'inchiesta presieduta da un magistrato, Srikrishna, il compito di accertare fatti e responsabilità. Il suo rapporto era un forte atto d'accusa verso il Shiv Sena e verso le forze dell'ordine, che avevano chiuso entrambi gli occhi limitandosi a intervenire spesso solo a incendi e uccisioni avvenute. Ma a Mumbai il Shiv Sena era al governo, il rapporto Srikrishna finì in un cassetto, la commissione sciolta. Solo in anni recenti il governo del Maharashtra (ora guidato dal Congress) ha istituito tribunali per giudicare quei fatti, e ancora nessun caso è arrivato a una sentenza - 16 anni dopo.
«Il Congress si è sempre presentato come il partito inclusivo che rappresenta le minoranze», dice Meena Menon: «Ma l'offerta elettorale si è ampliata, altri partiti hanno schierato candidati musulmani sperando di intercettare il loro voto». Così si divide il voto della Mumbai popolare, tra slum come Dharavi e quartieri operai insidiati dalla speculazione edilizia: guardando un po' alle appartenenze («qui si vota per casta e per religione», ci aveva detto un simpatizzante del Shiv Sena davanti a un seggio elettorale), un po' alle questioni di «pane e burro»: la casa, il lavoro, i piani di risanamento, i palazzinari in agguato.
Il rifugio nell’edilizia denuncia l’insolubile incapacità del centrodestra di pensare una politica industriale. Da il manifesto , 11 aprile 2009 (m.p.g.)
Antonio Peduzzi
Il destino aleatorio dell'Aquila ha allineato, con il senso dell'inevitabile, la devastazione degli apparati produttivi, la scomparsa delle condizioni di produzione del ceto politico e, ora, la cancellazione urbanistica della città capoluogo. Chi discetta di new town dovrebbe avere anzitutto il concetto comprensivo dello stato di cose presente, punto di catastrofe di un processo irreversibile. Disporre di questo concetto è compito della politica, ma essa non ha finora parlato. Non si può scambiare per politica il cicaleccio quotidiano del presidente del consiglio dei ministri.
Di più e meglio.
L'insistenza sulla new town dovrebbe essere già un indicatore eloquente del disegno vagheggiato dal centrodestra. La new town non è la politica: è l'appello ai ceti dei rentiers, che sono quelli che hanno dato un contributo rilevante all'azione di disfacimento della città. Sono le consorterie e le logge che hanno sempre prosperato a L'Aquila in affari coperti, non a caso target di riferimento del centrodestra. La stupida nozione secondo cui l'edilizia sarebbe il volano dell'economia, ripetuta fino alla nausea, non significa quel che sembra. Il centrodestra ha in mente la costruzione di uno stato di cose la cui egemonia stia nelle mani del comparto più rozzo dell'industria. Mai e poi mai verrebbe in mente al presidente del consiglio che il problema non è soltanto quello di costruire una specie di Milano 2 in Abruzzo, ma di restituire dignità a donne e uomini che dovrebbero avere il diritto a un reddito e a una dislocazione nella scala sociale.
Mai e poi mai il presidente del consiglio direbbe che la catastrofe va combattuta tentando di fare della città uno spazio in cui idee e tecnica aprano scenari di una ripresa dello sviluppo. E si capisce: il segmento di classe cui Berlusconi guarda non è quello degli imprenditori in senso stretto, ma quello maleolente dei signori del mattone e del cemento (gestito, ovviamente, con parsimonia) - i quali avessero, almeno, dimostrato di saper fare qualcosa di serio e di decente a L'Aquila in questi decenni. Il presidente del consiglio è come Luigi Filippo di Orléans: il massimo che è capace di pensare è mettere in sella la frazione putrefatta della classe borghese, quella dei rentiers. Se avesse coraggio e serietà, il presidente del consiglio riunirebbe l'Unione degli industriali e l'Unione dei costruttori, per guardare negli occhi coloro che ne compongono gli organi dirigenti e informarsi su che cosa sappiano fare.
Poiché comunque il cicaleccio salottiero sulla new town è irrefrenabile, è necessario cogliere in esso una sfumatura. La spinta edificatoria è il solo comparto in cui si può andare esenti dall'accusa di condurre una politica economica o una politica industriale. Non per scrupolo: il centrodestra è organicamente incapace di pensare una politica industriale, che pure sarebbe legittima di fronte alla catastrofe che ha disfatto L'Aquila. Così come è incapace di pensare una politica universitaria che non sia fatta di finzione e di propaganda.
La new town è la proposta di uno sviluppo arretrante, tipica della rozzezza intellettuale del centrodestra. Su questa linea si costruiranno forse case e casette, ma non sarà ricostruito il legame sociale, cioè l'essere città della città, che si è ormai liquefatto. Il centrodestra non capisce che il problema è convincere la gente che esiste qualche buona ragione per abitare, lavorare e studiare a L'Aquila: ma per produrre queste convinzioni non basta la new town, idea inadeguata a fronteggiare la desertificazione sociale in atto da decenni.
Via libera al piano casa della Toscana, entro un mese. Nella corsa all’approvazione del provvedimento che darà la possibilità ai proprietari di ampliare del 20% i propri immobili, demolirli e ricostruirli, la Regione ha deciso di bruciare i tempi fissati dal governo (90 giorni) e portare prima possibile la sua proposta in consiglio. Con qualche sorpresa: l’assessore regionale all’urbanistica Riccardo Conti apre infatti all’ipotesi di includere nel piano casa anche i centri storici della città toscane. «Daremo dei criteri di grande elasticità, ma decideranno i Comuni», dice Conti. La Regione firmerà un patto con gli enti locali, il primo incontro tra le parti si terrà il 14 aprile: «Questo percorso ci consentirà di non avere intoppi e incertezze istituzionali. La giunta si impegna a portare in discussione la proposta di legge a metà maggio, perché tiene in considerazione e preoccupazione le condizioni di crisi economica, sociale ed occupazionale», ha affermato ieri l’assessore durante la seduta del consiglio.
Il governo ha escluso i centri storici dal piano casa.Ma anche lasciato alle Regioni la facoltà di valutare l’estensione delle misure. Secondo Conti «c’è la possibilità di reintrodurre nel piano casa i centri storici, se i Comuni sono d’accordo. Certo si tratterà di eccezioni». Poi una mezza frenata: «A Firenze non credo sarà possibile», aggiunge. La Toscana punterà a regolare i nuovi interventi mantenendo le norme di tutela vigenti, la proposta di legge sarà presentata in consiglio insieme all’adozione del Piano di indirizzo territoriale (Pit). La Regione punterà poi alla semplificazione burocratica, l’idea è quella di estendere la Dia (dichiarazione di inizio attività), in via sperimentale, agli interventi previsti dal piano casa.
Ma non tutti sono d’accordo con l’ipotesi Conti. «Invece di contrastare la crisi — afferma Monica Sgherri, capogruppo del Prc — si rischia di tutelare la rendita dei ceti medio alti: i disoccupati difficilmente potranno usufruire del piano casa». «Manca ancora un vero piano casa che offra risposte all’edilizia sociale», dice la consigliere Bruna Giovannini (Sd). Soddisfatto il centrodestra: «Chiediamo alla Regione di fare presto e bene, per non tradire lo spirito dei provvedimenti di emergenza del governo», dice Alberto Magnolfi (Fi-Pdl).
Se il dichiarato fine del così detto “piano casa” è quello di rianimare l’attività edilizia (che si dice mortificata dalla generale crisi), non v’è dubbio che la ricostruzione di L’Aquila e dei minori insediamenti della sua corona offra una occasione, e insieme una responsabilità, di dimensioni straordinarie. Il restauro dei monumenti e il sistematico recupero degli insediamenti storici, messi in doverosa sicurezza sismica, dovranno attivare, e certamente per tempi non brevi, una vasta imprenditorialità, di elevata qualità e ad alto tasso di occupazione.
Se si considera poi la imponente entità dei danni al patrimonio edilizio, anche pubblico, dell’Abruzzo, si deve constatare che neppure i fabbricati più recenti (che avrebbero dovuto adeguarsi alle cautele antisismiche), come scuole e ospedali, hanno saputo opporre resistenza al sisma. E allora non è certo arbitrario risalire a una allarmante condizione generale e alla dimensione nazionale di una responsabilità e di un compito che non possono essere elusi. Sicché si impone una strategia fondata su un ordine di incontestabile priorità, in un paese interamente esposto, pur se in misura differenziata, alla vulnerabilità sismica. Converrà dunque orientare la “ripresa delle attività imprenditoriali edili”, non già alla sopraelevazione della casa di chi già ne dispone, ma alla priorità assoluta della messa in sicurezza dei luoghi nei quali Stato, Regioni, Province, Comuni adempiono ai servizi essenziali alla vita comunitaria, come innanzitutto scuole e ospedali. Un programma nazionale di dimensioni colossali, immediatamente attivabile, cui debbono essere destinate le necessarie risorse (anche distolte da meno urgenti impieghi) e che impegnerà per ben oltre un decennio la qualificata imprenditorialità dell’edilizia.
Una conclusiva considerazione. La bozza (ora in discussione negli uffici ministeriali) del decreto legge che il Governo, nell’accordo con le Regioni sul “piano casa”, si è riservato di adottare per “semplificare alcune procedure di esclusiva competenza dello Stato al fine di rendere più rapida ed efficace l’azione amministrativa di disciplina dell’attività edilizia”, non arresta la semplificazione neppure di fronte alla “materia antisismica” e consente alle Regioni di escludere al riguardo la prevista autorizzazione preventiva, per rimettere ogni controllo in via successiva “anche con metodi a campione”. La drammatica lezione del sisma di Abruzzo avrà convinto della irresponsabilità di una simile previsione.
Sono crollati ospedali, edifici pubblici e scuole costruiti di recente. Dovevano rispettare rigorose norme antisismiche, ma il terremoto ha tragicamente svelato una realtà che viene sistematicamente occultata: siamo il paese delle regole scritte con solennità e violate con estrema facilità. Siamo il paese in cui le funzioni pubbliche di controllo sono state cancellate o messe nella condizione di non nuocere. Di fronte a questa realtà, il "piano casa" della Presidenza del Consiglio liberalizzava ulteriormente ogni intervento edilizio che poteva iniziare attraverso una semplice denuncia di inizio attività, e cioè in modo che la pubblica amministrazione perdesse per sempre ogni residua possibilità di controllo. Dappertutto, in zona sismica o in zona di rischio idrogeologico.
Sono poi crollate in ogni parte anche le case private. Antiche, della prima o della seconda metà del novecento. Segno evidente che anche esse sono state costruite senza gli accorgimenti che ogni paese civile richiede. Invece di avviare questo processo, il piano casa del governo autorizzava aumenti automatici di cubatura (fino al 20%) senza contemporaneamente costringere i proprietari a rendere più efficienti le strutture. Chiunque chiude un balcone o una veranda, pur aumentando i pesi che le case devono sopportare, non interviene sulle fondazioni o sulle strutture principali. E’ noto che questa anarchia e disorganicità è alla base di molti crolli e di molte vittime.
La tragedia dell’Abruzzo mostra dunque di quale cinismo e arretratezza culturale fosse stato costruito il provvedimento tanto reclamizzato da Berlusconi. Cinismo perché faceva balenare in ciascuno la possibilità di incrementare la proprietà senza tener conto dell’esistenza di equilibri più complessivi, senza cioè dover rispettare i beni comuni per eccellenza: le città.
Arretratezza culturale perché il terremoto ha dimostrato ancora una volta che il vero problema del nostro paese è quello di avere i piedi di argilla. In un paese ad alto e diffuso rischio sismico, infrastrutture, servizi e abitazioni non sono in grado di resistere ai terremoti. Invece di agevolare la sistematica messa in sicurezza del territorio e del patrimonio edilizio, questo governo ha in mente una sola cultura: "aggiungere". Nuove grandi opere, ad iniziare dal ponte sullo stretto e dalle centrali nucleari, nuove espansioni edilizie. Invece di consolidare l’enorme patrimonio edilizio esistente e rendere sicura la vita degli italiani, si continua con lo scellerato meccanismo della rendita speculativa.
Stavolta la colpa non è di esclusiva responsabilità politica. E’ evidente in ogni settore un consenso esplicito ed entusiasta della Confindustria e della cosiddetta "classe dirigente". Quella, per intenderci, di cui fa parte Claudio De Albertis, per molti anni presidente dei costruttori italiani e oggi presidente di quelli milanesi. In un recentissimo dibattito nella rete televisiva di La Repubblica ha avuto il coraggio di dire che in Italia mancano case popolari perché vengono costruite con troppa lungimiranza e durano troppo nel tempo. Ci dobbiamo abituare, ha aggiunto, a programmarne la vita in venti anni per poi rottamarle. Mentre tutti i paesi ad economia avanzata si interrogano su come ricostruire su basi solide un futuro possibile dopo la crisi, da noi governo e imprenditori del mattone pensano esclusivamente a nuovi affari senza farsi carico degli interessi generali.
Sono così miopi da non vedere che c’è invece un altro modo per rilanciare la macchina dell’edilizia. Basterebbero tre mosse. Prendere atto che il nostro patrimonio abitativo è fatiscente e lo Stato ha il dovere di favorirne la messa in sicurezza, attraverso norme e finanziamenti. E se ci fosse qualcuno che afferma che in questo modo si spendono soldi pubblici, si potrebbe rispondere che stiamo spendendoli per acquistare i fondi tossici delle banche. Perché non potrebbero essere utilizzati anche per non veder morire intere famiglie? Eppoi, gli interventi dentro una nuova concezione dell’edilizia favorirebbero la nascita di nuove industrie in grado di realizzare e gestire sistemi di risparmio energetico. In pochi anni i benefici complessivi supererebbero le spese di investimento iniziale: basta soltanto dare il colpo di grazia alla rendita immobiliare, come fanno in Europa.
Secondo. Prendere atto che nell’ultimo decennio si è costruito troppo e che è venuto il momento di dire basta ad ogni ulteriore consumo di suolo agricolo. Da qualche mese è nata su iniziativa del sindaco di Cassinetta di Lugagnano la rete "stop al consumo di territorio" e sono molti i primi cittadini che vogliono voltare pagina. La popolazione italiana non cresce più ed è economicamente molto più conveniente riqualificare l’esistente.
Terzo. La definizione di un grande (stavolta sì) programma di messa in sicurezza degli edifici pubblici. Il volto dello stato si vede da come si presentano le scuole dell’obbligo. L’ottanta per cento di esse è fatiscente o non rispetta le norme di sicurezza. Stesso discorso vale per gli ospedali e per gli altri servizi. Una grande opera di ricostruzione del volto dei luoghi pubblici e delle città, che sono gli elementi portanti della convivenza civile di ogni paese civile. E se qualcuno obiettasse spudoratamente che in questo modo si spendono soldi pubblici, basterebbe mostrargli i volti dei giovani che in Abruzzo hanno perso la vita soltanto perché l’ideologia liberista ha imposto in questi anni la distruzione di ogni funzione pubblica.
Mercoledì il Tirreno ha dato ampio spazio al cosiddetto "piano casa" intervistando amministratori e politici, che spesso hanno mostrato molto interesse al piano riformulato dopo la concertazione "stato-regioni".
Sembrava si fosse avviata una competizione a chi faceva prima a dare corso ad una cosa che ancora non c’è.
Fermo restando che la competenza legislativa in materia di urbanistica è regionale e che a mio parere non è neppure legittimo ipotizzare che se entro novanta giorni le regioni non legiferano si possa addivenire ad una sorta di commissariamento governativo di queste, è certo che il piano casa non c’è e si ipotizza un incentivo immobiliare per sperare in una ripresa nel settore dell’edilizia nel campo degli interventi di piccola dimensione.
Il governo farebbe bene a trovare risorse per l’edilizia economica e popolare, edilizia per l’affitto e edilizia convenzionata, i tanto vituperati Peep che rimangono però quanto di più avanzato e riformista abbia prodotto la cultura urbanistica italiana a partire dal 1962, magari scartando le ultime esperienze in termini temporali, che spesso sono apparse come lottizzazioni private mascherate e non sempre di buona qualità urbanistica (la Rosa tanto per rimanere a Livorno è meglio della Leccia e della Scopaia, e la Leccia è meglio anche di qualche quartiere in costruzione).
Il dibattito di questi giorni lascia l’amaro in bocca perché è apparso molto superficiale, slegato da una valutazione del reale stato delle nostre città, delle esperienze urbanistiche dell’ultimo decennio che sostanzialmente hanno premiato la rendita. Eppure è evidente che senza una nuova stagione urbanistica fatta di recupero e ristrutturazione - compresa la demolizione e ricostruzione di vaste aree edificate, di rinuncia all’espansione e direi anche di contrazione della rete delle urbanizzazioni, che è vero vengono realizzate a scomputo oneri, ma poi debbono essere mantenute da tutta la collettività, si finirà solo per rischiare il crack ambientale.
Infine mi sia permessa una annotazione personale, il piano casa, o meglio l’ampliamento - densificazione dell’esistente, senza enfasi si fa e da molto nei piani regolatori più saggi, perché non si urbanizzano nuove aree, si può godere spesso della vicinanza di servizi urbani o commerciali già esistenti, si pagano oneri di urbanizzazione che non vengono scomputati e possono essere realmente finalizzati ad investimenti aggiuntivi di qualità alla città esistente.
Non c’è necessità di andare lontano per trovare esempi validi: si può ricordare il Prg - Insolera di Livorno con le zone B13, dove era appunto possibile rialzare edifici esistenti mono o bifamiliari e realizzare nuove unità immobiliari,oppure recentemente il Regolamento Urbanistico di Portoferraio, secondo logica urbanistica in alcune aree ove era possibile, contabilizzando gli incrementi per non sforare i limiti di edificabilità imposti dal piano strutturale, anzi stabilendo di consumare in un quinquennio neppure il 50% delle potenzialità edificatorie dello stesso Piano Strutturale.
Cioè seriamente si può fare molto, il resto appare scorciatoia di una politica ridotta a spot destinato a durare poco nel tempo.
Ma tant’è perché di città e di urbanistica si parla sempre molto per polemica, poco con impegno, cognizione di causa, disponibilità di spazio e culturale al confronto.
Ai turisti scesi in Italia per Pasqua dite pure: “Guardateli bene questi paesaggi perché fra qualche anno non saranno più così belli”. Il disegno di legge e/o il decreto legge che Berlusconi sottoporrà domani alle Regioni e giovedì al Consiglio dei ministri preparano una “Pasqua di sangue” per il Belpaese. Già col gonfiamento di un 20 % delle cubature di Villettopoli il suo imbruttimento è garantito. Tuttavia il peggio arriva adesso.
Lo schema di decreto legge (che in parte potrà divenire disegno di legge in forza dell’allarme lanciato dal presidente Napolitano) prevede infatti che “senza alcun titolo abilitativo”, cioè senza licenza e neppure denuncia di inizio attività, si potranno realizzare: lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, movimenti di terra in zone agricole o silvo-pastorali, depositi temporanei “di merci e materiali a cielo aperto, ad esclusione dei rifiuti” (ma chi controllerà?), mutamenti di destinazione d’uso “attuati senza esecuzione di opere edilizie” (ma chi vigilerà?). Un’autostrada per i capitali sporchi e per il racket. Diventa generale il criterio, sciagurato, della compensazione di diritti edificatorii, un grimaldello che scassa anche il miglior piano urbanistico.
I colpi più micidiali Berlusconi li infligge – era prevedibile- alle Soprintendenze e ai loro poteri tecnici. Se un’opera è “sottoposta anche ad autorizzazione paesaggistica, il soprintendente si esprime in sede di conferenza dei servizi, in via definitiva”. Cioè senza riflettere, né verificare. La sua eventuale assenza equivale ad un “sì”. Ma pure su progetti riguardanti immobili già soggetti a vincolo paesaggistico (compresi i parchi o i siti archeologici?) il parere delle Soprintendenze non è più vincolante e dev’essere espresso in soli 60 giorni. Gli autori di questo testo sanno bene che la cronica carenza di personale carica già oggi ogni tecnico delle Soprintendenze di svariate pratiche al giorno, figuriamoci dopo i tagli ai fondi. Quindi, il diktat dei 60 giorni equivale ad un silenzio/assenso. Se, con sforzi enormi, i tecnici riusciranno a fornire un parere, “ove sia negativo, l’Amministrazione può procedere ugualmente al rilascio bela (sic!) autorizzazione motivando specificamente sul dissenso”. Italiano a parte, una beffa atroce. Il nostro interesse generale ad avere paesaggi belli o addirittura splendidi sin qui era tutelato. Da domani non lo sarà più. In nome del rilancio “comunque” dell’edilizia, in nome di mille e mille interessi delle corporazioni o, peggio, dei clan.
Nelle aree a bassa sismicità – Alpi e Sardegna - non ci vorrà autorizzazione specifica. In quelle ad alta e media sismicità (quasi tutte) l’autorizzazione preventiva dovrà essere rilasciata entro 60 giorni. Non ci vorrà però se le Regioni hanno previsto “con legge modalità di controllo successivo anche a campione”. Da rabbrividire. Come per la Valutazione Ambientale Strategica esclusa per gli strumenti di attuazione dei piani urbanistici. In poche pagine si spazzano via norme e regole in vigore da un secolo, anche sotto il fascismo. Siamo alla barbarie. Per giunta suicida.
VENEZIA. Il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, lo chiama un piano per trasformare gli inquilini da sudditi in «cittadini liberi» e «proprietari capitalisti». Con gli altri provvedimenti, secondo il ministro, finirà per essere «il più grande piano casa varato dal dopoguerra, il più importante d’Europa». In realtà, più prosaicamente, si tratta di una gigantesca vendita di case popolari a chi le abita, a qualsiasi titolo le possegga o ci sia dentro, e a qualsiasi costo per fargliele comprare pur di disfarsi di un patrimonio immobilizzato che lo Stato non sa gestire. E in questo il Veneto, più virtuoso di altri in quanto a gestione di case popolari, farà da apripista: entro il 31 ottobre tutto il patrimonio pubblico delle case ex Ater sarà venduto «facendo diventare proprietari 41mila inquilini che oggi lo occupano». Ricavo previsto 7-800 milioni di euro, che verranno reinvestiti per costruire nuove case per giovani, coppie e così via.
L’annuncio è stato dato ieri dal presidente della Regione Giancarlo Galan, dal ministro Brunetta teorizzatore della vendita a livello nazionale, e dall’assessore Massimo Giorgetti in una conferenza stampa a Palazzo Balbi. In realtà per scendere dagli annunci salvifici, che fanno risalire il piano casa a quello adottato da Lula per le favelas, alla realtà bisognerà aspettare ottobre, quando saranno note le norme con le quali la Regione intende procedere alla vendita delle case. Molti sono, infatti, gli interrogativi: a quali prezzi, con quali norme dispositive, con quali obblighi e così via. E poi c’è da valutare il ruolo che dovranno assumere le banche, che, ovviamente, dovrebbero fornire i mutui agli inquilini, che comunque avranno prezzi di gran favore.
Per lo Stato, oltre che per gli inquilini, si dovrebbe trattare di un affare, visto che i prezzi medi che le Ater riscuotono dagli affitti non bastano neanche a pagare il costo medio della manutenzione degli appartamenti che, in Veneto, secondo le statistiche fornite dalla Regione sono per oltre il 50% di prima del 1969. Del resto l’Ater ha già avviato in Veneto un programma di vendite immobiliari, anche se per adesso, non ha avuto grande successo: ma i prezzi sono a valori scontati rispetto al mercato.
Da quel che si è capito ieri, in mezzo agli annunci di rivoluzione, il piano dovrebbe seguire alcune linee:
1) gli alloggi verranno venduti agli inquilini che li occupano perché ne hanno diritto o perché di fatto sono lì ormai da molti anni. L’abusivismo in Veneto è modesto ma in alcune Regioni d’Italia è alto. Comunque i prezzi saranno tali da trasformare il canone di locazione nella rata di un mutuo. Il prezzo medio, a quanto stima Giorgetti, sarà circa sui 20.000 euro ad abitazione, comunque dipenderà dalle fasce di reddito. A fornire i mutui dovrebbero essere le banche, ma in che modo e in che forme è ancora tutto da decidere;
2) lo scopo è di vendere quel che c’è senza troppe esitazioni e di riuscire a chiudere entro fine ottobre. Quindi ci dovrebbe essere la possibilità di rivendere gli alloggi, la possibilità che chi non vuole aderire venda la nuda proprietà e così via. Lo scopo è anche di fare sì che alcuni immobili vengano acquisiti per essere abbattuti e poi ricostruiti;
3) Il ricavato dell’operazione dovrebbe essere, di 750 milioni che, dicono gli sponsor del progetto veneto, costituirebbero il volano di una fase due degli investimenti in edilizia popolare. I fondi potrebbero essere anche utilizzati per acquistare l’invenduto sul mercato in modo da avere disponibilità di nuovi alloggi.
4) Con questa gigantesca sanatoria lo Stato si libera di un patrimonio morto che costa molto più di quanto rende (basta pensare l’assurdità che le Ater pagano anche l’Ici sugli immobili che rendono a volte 15 o 20 euro al mese) sorvolando sul fatto che in molti casi si premiano gli abusivi.
Si spera che con la nuova fase si riesca a superare uno dei problemi storici del paese e cioè quello dell’assenza di un mercato dell’affitto e di un’edilizia popolare che premi davvero le fasce più deboli della popolazione. Ma dopo anni di condoni e di sanatorie, sarà difficile imporre e fare rispettare regole. Comunque fine ottobre è vicino: basta aspettare come sarà la legge che verrà predisposta.
Regalano a pochi le case costruite (a differenza di quelle nelle favelas) con i soldi di tutti i lavoratori. Spacciano questo per un “piano casa”. Rinunciano a un patrimonio pubblico di case in affitto, prezioso tanto più che è aumentata la mobilità territoriale. Non viene loro in mente che una moderna ed efficace politica della casa deve poter incidere su tutti i segmenti dello stock abitativo, e che non può essere affidata al mercato.
Ma in realtà non sono ignorati (almeno, non tutti). Sono pervasi dall’ideologia per la quale è cittadino solo chi è proprietario. Non avrebbero firmato l’articolo 42 della Costituzione, là dove stabilisce che devono essere posti alla proprietà “i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. Per loro, l’unica funzione sociale utile è quella che assicura il loro potere: più italiani diventano proprietari più noi possiamo illuderli che i loro interessi coincidono con i nostri. É una politica vecchia per l’Italia; praticata dalla vecchia DC, ha contribuito adl allontanare l’Italia del resto dell’Europa riducendo al lumicino il mercato dell’affitto, facendo lievitare i prezzi delle case, costituendo l’alibi per sempre nuove espansioni edilizia, diruttannto risorse dal profitto e dal salario verso la rendita, e infine distruggendo il bel paese e la speranza di un vero “diritto alla casa” – per chi ha bisogno di un tetto a un canone equo e non a chi vuole diventare ricco a spese degli altri.
Qualcuno protesterà per la politica dei Galan e dei Brunetta, e del loro padrone?
Ascoltando Raffaele Fitto, ministro per i rapporti con la regione, ho pensato “che burlone, ci vuole fare un pesce d’aprile”, non era credibile, infatti, che avesse trovato l’accordo sul “piano casa” con le regioni. Eppure era la verità, altro che pesce d’aprile, le regioni avevano limato il piano del cavaliere Berlusconi, ma sostanzialmente né accettavano la filosofia. E va bene che tra i “governatori” regionali ce ne fossero alcuni che amando il “capo”, condividevano il piano casa (la Regione Veneta ha in discussione un progetto di legge che ricalca alla perfezione il contenuto del primo annunzio del cavaliere), ma il centro sinistra dove stava? Forse si è spaventato di frenare la ripresa economica bloccando l’iniziativa edilizia? Forse si è fatto irretire dalle previsioni (tutte da verificare) di centinaia di migliaia di famiglie pronte per cogliere l’occasione di un ampliamento della loro casa? Misteri.
Quello che non è misterioso, invece, è la fragilità delle parole al vento. Da quando è scoppiata la crisi economica non si ascoltano che affermazioni del tipo “niente sarà come prima”, “il capitalismo uscirà diverso”, “chi governa ha capito”, e via di questo passo. Ora mi pare che almeno in Italia la ripresa è affidata al più tradizionale degli strumenti: l’accelerazione della produzione edilizia, con gli addentellati della speculazione, della corruzione, del lavoro nero, ecc. Non importa se poi questo piano, come credo, avrà effetti inferiori al previsto, quello che interessa è che a destra come a sinistra il “niente come prima” si declina con gli strumenti più banali dello sviluppo precedente (e una delle cause della crisi). Che non si tratti di una personale illazione è verificabile dal testo dell’accordo tra Conferenza delle regioni e il governo, che infatti recita “rilevata l’esigenza … di misure che contrastino la crisi … visto l’accordo … di fronteggiare la crisi mediante un riavvio dell’attività edilizia…”.
Prescindendo da questo aspetto, certo non marginale, l’accordo presenta una serie di equivoci che facendosi forte dell’autonomia della regione e dei poteri delegati a queste (“premia” il federalismo) fornisce indicazioni di massima (il famoso 20%), mentre si afferma che le “regioni possono promuovere ulteriore forme di incentivazione volumetrica”; ai disastri non c’è mai un limite. Mi immagino che la giustificazione per eventuali forme di ulteriore “incentivazione volumetrica” è presto trovata: l’occupazione. Tale incremento riguarda le case unifamiliari o bifamiliari (ma qualcuno parla anche di “case a schiera”, il che sarebbe una bella differenza). Sarebbero esclusi i condomini, che, tuttavia potranno essere reintrodotte dalle singole regioni.
Incrementi fino al 35% sono ammessi per edifici a destinazione residenziale che venissero demoliti e ricostruiti con finalità “di miglioramento della qualità architettonica, dell’efficienza energetica ed utilizzo di fonti energetiche rinnovabili”. Qui non è chiaro che i tre criteri sono necessariamente concorrenti o se ne basti uno. Ma forse, come si dice sempre, il testo diffuso non è preciso. La demolizione pone problemi di inquinamento non modesti ma a questi non si fa riferimento, ne sul riciclo dei materiali o loro smaltimento.
Così come formulato l’accordo , sembra escludere, e tutti respiriamo, l’edilizia non residenziale, ma attenzione, sempre in virtù del federalismo e dell’autonomia regionale, “ferma restando l’autonomia legislativa regionale ad altre tipologie di intervento”.
Tali interventi non possono riferirsi ad “edifici abusivi, ai centri storici o in aree di inedificabilità assoluta”. Come già segnalato in altre occasioni il riferimento agli edifici abusivi appare equivoco, in una versione precedente si diceva con “ordine di demolizione” ora l’universo sembra allargarsi, ma resta il problema degli edifici condonati, questi edifici costruiti regolarmente, sanati, con poche lire, a fini di cassa, ora godono anche di un premio? Sembra di si, la qual cosa non sembra un tratto di giustizia sociale ancorché legittima.
Giusto lo shock da produrre nella crisi si è introdotto un lasso temporale di validità della legge regionale che promuoverà l’attività edilizia suddetta: 18 mesi (“salvo diversa determinazione delle singole regioni”). Questo termine, ovviamente, spinge le famiglie ad “approfittare” e quindi la legge potrebbe incentivare l’attività edilizia. Su questa attesa delle famiglie, nonostante i pararei di illustri istituti di ricerca si possono avanzare delle perplessità. Ma tralasciamo la questione.
Poi segue la parte “normativa” che apparentemente ha lo scopo di “snellire” (cosa saggia) ma che in realtà si presenta come fuga da ogni formazione con l’estensione massima del “silenzio assenso”, principio quanto mai perverso. Infine si coglie una sorta di “comando” affinchè le regioni introducano nelle legislazioni regionali, qualora non l’avessero già fatto, la “perequazione e compensazione urbanistica”, che costituisce un falso principio di eguaglianza tra i proprietari fondiari e un marchingegno non necessario per ottenere aree per le opere e i servizi pubblici. Ma è di moda, e tanto basta.
Per capire cosa significa il costante rimando all’”autonomia regionale” basta gettare un’occhiata al progetto di legge n. 398, di iniziativa della Giunta, della Regione Veneta. Un progetto snello (8 articoli) che permette l’ampliamento fino al 20% sia degli edifici residenziali che quelli destinati ad usi diversi. Per gli edifici composti da più unità immobiliari, “compatibilmente con le leggi che disciplinano il condominio degli edifici” (non le norme urbanistiche né i regolamenti edilizi), è possibili realizzare l’ampliamento separatamente per ogni unità (la cosa è misteriosa, a meno di non pensare alla chiusura di terrazzi, balconi e simili e di costruzioni aggettanti, e viva il miglioramento estetico). La Regione Veneto allarga tale possibilità anche agli usi diversi; questa si che è appetitosa e grave.
E’ prevista la demolizione degli edifici realizzati prima del 1989 con incremento del 30% o il 35% se si usano tecniche costruttivi di bioedilizia ed energia rinnovabile. Anche in questo caso l’ampliamento ammesso è previsto sia per le abitazioni che per gli altri usi.
Sono i Comuni, entro il termine perentorio di 60 giorni dall’entrata in vigore della legge, che “possono escludere l’applicabilità delle norme a specifici immobili o zone del proprio territorio, sulla base di specifiche valutazioni o ragioni di carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico”. Questo significa che norme e piani esistenti non contano niente, i Comuni si dovranno esprimere ex-nuovo, le regole di governo precedente sono azzerate. Questo è l’oggetto vero del provvedimento: la de regolazione, la fine di una programmazione dello sviluppo urbano e territoriale. È chiaro, infatti, che questo sistema una volta applicato per 18 mesi (24 nella proposta della regione Veneto) non potrà che costituire la guida futura per il Paese lungo i percorsi dei suoi disastri urbanistici ed edilizi.
L’autonomia regionale, il tanto atteso dì federalismo, trova una sua prima applicazione deteriore. La Conferenza delle regioni ha provato a mediare e non a bloccare un piano dissennato, ma avere accettato che le Regione, nella loro autonomia, potranno proporre “ulteriori forme di incentivazione” e “diverse tipologie di intervento” non fa altro che spostare altrove il problema (la regione Veneto è un esempio). E non può essere di consolazione pensare che le popolazioni hanno i governati che si meritano, sia perchè ad approfittare è una quota modesta della popolazione sia perché chi governa non dovrebbe accettare un disastro annunziato.
Il cavaliere Berlusconi, tuttavia, non è soddisfatto, e, dal suo punto di vista ha ragione, non perché il suo piano sia stato ridimensionato, ma perché il merito di quello che si farà (si distruggerà) sarà non tanto suo ma dei Governatori. Non è un caso che già rilancia il “piano famiglia” con la costruzione di edilizia per le giovani coppie (i singoli non hanno diritto?), a basso costo, e annunzia, anche, la costruzione di nuove città. Ma di questo non ci occuperemo fino a quando (giusto l’impegno preso con i lettori) non sarà materia ufficializzata e non pensiero dal senno sfuggita.
Detto tutto questo va precisato che in questa nota si è tenuto conto dell’ “intesa governo regioni”, ma niente si sa ancora del decreto legge che il governo emetterà; questo, si può supporre, si occuperà soprattutto della semplificazione, cioè dell’azzeramento di ogni forma di governo del territorio.
Alla formazione di questo governo avevo paventato il fatto che il cavaliere avendo meno bisogno di tempo per “occuparsi dei fatti suoi” si sarebbe occupato “dei fatti nostri”. Ecco il risultato.
A giustificazione (pretesto) del «piano casa», governanti e governatori hanno posto la crisi del settore delle costruzioni. Vero, la crisi c’è, gravissima, ma è una crisi inevitabile dovuta al raggiungimento di un eccesso di offerta sul mercato. Il numero di nuove costruzioni è aumentato, tra il 2000 e il 2007, del 70 per cento. La percentuale di nuove abitazioni sull’intera offerta immobiliare passa dal 27,9 per cento nel 2000 al 40,9 per cento nel 2007, al 46,7 per cento nel 2008. Tra il 2008 e il 2010 saranno ultimate altre 840 mila abitazioni già cantierate o autorizzate (dati Cresme). Peccato che le nuove famiglie, dal 2002, stiano scendendo gradualmente e che solo l’1 per cento dichiara l’intenzione di voler comprare una casa. Come scrive Paola Bonora (su Eddyburg del 29.03.09) nell’ultimo decennio in gran parte dei paesi occidentali vi è stata una «frenesia edilizia» (le aziende edilizie crescono del 31,6 per cento, quelle immobiliari del 59,2 per cento, la quota del valore aggiunto assicurata dal settore cresce del 24 per cento, più del doppio della media nazionale, venti volte più di quella dell’industria) del tutto in simbiosi con la finanziarizzazione dell’economia. Più precisamente la immobiliarizzazione dei capitali è stata il mezzo di transito con cui l’economia degli speculatori è riuscita a realizzare rendimenti (interessi) sempre maggiori.
Il territorio nazionale è stato messo a disposizione della rendita urbana fondiaria (con i piani dei sindaci, con le leggi regionali che hanno seppellito la pianificazione urbanistica e, infine, con la legislazione emergenziale di Berlusconi), cioè del meccanismo che consente il rigonfiamento dei valori immobiliari, quindi l’ipervalutazione degli edifici. Ma – come è accaduto negli Stati uniti, nel Regno unito, in Spagna, ecc. – la bolla presto o tardi scoppia, il mercato si accorge che non ci sono compratori, crolla il castello dei finanziamenti facili (ancora lo scorso anno le banche finanziavano i costruttori fino al 100 per cento del costo di costruzione dell’immobile), esplode l’insolvenza, le banche vanno in rosso. Si deve sapere che il boom edilizio dell’ultimo decennio, la ondata di cemento e asfalto che ha lastricato una fetta impressionante di terreno agricolo, è stato governato dai fondi di investimento immobiliare, che rastrellano i risparmi familiari, ma servono anche a tesaurizzare («pietrificare» in questo caso) i fondi pensione e assicurativi a cui basta iscrivere a bilancio rendimenti del tutto fantasiosi (in attesa che qualcuno si accorga del trucco) e persino i «fondi sovrani» degli sceicchi del petrolio che hanno un problema inverso al nostro: un eccesso di liquidità.
La crisi del settore delle costruzioni in Italia e in ogni stato dove si sia lasciata mano libera a banchieri e immobiliaristi («capitani coraggiosi», venivano chiamati con ammirazione) è dovuta ad un inevitabile crollo del mercato: un decremento delle compravendite stimato tra il 13 e il 16 per cento, con cali massimi al Nord (-18 per cento) e nei centri urbani provinciali. Un enorme stock di invenduto (non solo case, ma anche capannoni industriali e commerciali) è sparpagliato sul territorio a perenne segno dell’insipienza, della voracità, del malgoverno.
Se la crisi è questa (strutturale, finanziaria, di strategia programmatica), il «piano casa» varato da governo e regioni assomiglia all’ultimo boccale di birra concesso all’ubriaco, quello che lo farà crollare sul marciapiede. Non c’è un piano di riorientamento del settore delle costruzioni («consumo zero» di suolo, ristrutturazione edilizia e riqualificazione urbanistica, obbligo alla certificazione energetica, modifica dei modelli insediativi, ecc.), non c’è un piano per sostenere davvero la domanda debole che non raggiunge il mercato (migranti, innanzitutto, giovani, ecc.), c’è solo disperazione e furbizia: costruite dove volete, mettete mano ai vostri risparmi, spendeteli nel modo peggiore possibile, rovinando quelle poche aree di pertinenza dell’abitazione, degradando quel che rimane del paesaggio agricolo, svalorizzando ancora di più la qualità dei vostri immobili e soprattutto della vostra vita quotidiana.
Ma che c’entra questo con l’emergenza del settore delle costruzioni?
Tags assegnati a questo articolo:ambiente, ecologia
Per ora si tratta di un piano-famiglia, ha precisato ieri Silvio Berlusconi. Il piano-casa, quello vero, verrà poi, magari con la costruzione di tante new towns (città nuove) quanti sono i centri principali. Ha ben ragione dunque il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (garante dell’art. 9 della Costituzione che “tutela il paesaggio”) a preoccuparsi e a denunciare che nel rilancio “comunque” dell’attività edilizia “si celano anche molte insidie non trascurabili proprio per la salvaguardia del nostro patrimonio culturale, artistico e paesaggistico, valori che la Costituzione tutela e di cui impone il rispetto”. Impeccabile.
Guardiamo ai dati reali. La popolazione italiana aumenta molto lentamente, in forza soprattutto dell’immigrazione, mentre siamo già sui 100 milioni di stanze costruite (escluse le seconde case). La produzione edilizia degli ultimi sette anni è stata ingente, ma, non essendo quasi per nulla di natura sociale, non ha scalfito l’emergenza-casa. Pensare ad ulteriori incrementi della sola edilizia privata, significa cementificare e asfaltare altro paesaggi agricoli e forestali senza dare casa a quanti ne hanno realmente bisogno. L’attuale intesa Governo-Regioni riguarda soltanto i proprietari di case e di ville mono o bi-famigliari e consente loro di aumentare del 20 % i volumi esistenti, sino a 200 mc (incluse le villette a schiera, esclusi invece i centri storici, i condominii e i capannoni).
Temo che un imbruttimento della attuale, tanto deprecata Villettopoli sarà inesorabile. In caso di demolizione/ricostruzione l’ampliamento potrà arrivare al 35 %. Secondo le stime del presidente del Consiglio tali facilitazioni potrebbero mettere in circolo addirittura 60-70 miliardi di euro di investimenti, cioè 4-6 punti del PIL. Non dice che quella stessa cifra sarebbe contemporaneamente sottratta a consumi magari primari e ad altri investimenti più produttivi. Di più: l’aumento delle volumetrie si sommerà al già cospicuo invenduto ora sul mercato riducendo i valori e i prezzi dell’edilizia. Tant’è che vi sono economisti i quali stimano che l’impatto sul PIL risulterà assai limitato nel tempo e nella quantità, comprimendo la domanda di altri beni e servizi.
Ci sono poi parecchie perplessità (bisognerà vedere il testo definitivo) sulla semplificazione delle procedure: in alcuni snodi strategici (permessi relativi alla situazione idrogeologica, sismica e paesaggistica, alla stessa Valutazione Ambientale Strategica) prevedere “tempi certi” per il rilascio dei permessi equivale ad instaurare forme di silenzio/assenso, quindi di non-controllo di merito. Pericolosissime in una Paese quasi tutto mediamente o altamente sismico, flagellato da frane e smottamenti, con ambienti e paesaggi già molto a rischio. Di qui il giusto monito del presidente Napolitano. Nell’intesa si dice che le leggi regionali “possono” individuare i casi nei quali beni culturali e ambientali impediscono di costruire.
Perché “possono” e non invece devono? La tutela non è un optional. Nello stesso testo ci si riferisce – per la tanto criticata “compensazione” – a “norme già presenti nei disegni di legge all’esame del Parlamento”. A quale di essi se sono fra loro così diversi? E poi, quando mai ci si rifà a leggi non ancora approvate? Delusione piena, infine, per l’edilizia pubblica e sociale: soltanto un formale tavolo di confronto. Tanto sono in arrivo le “new towns”. Non quelle dei laburisti inglesi di 30-40 anni fa, bensì le clonazioni di Milano 2.
Qui il testo dell’accordo, e qui il commento di eddyburg
Via libera questa mattina dal governo e dalla conferenza delle regioni al cosiddetto “piano casa”. Nel piano saranno sbloccate le procedure per ampliamenti degli immobili, che però saranno possibili «entro il limite del 20% della volumetria esistente», per immobili che non superino i 1.000 metri cubi e fino a un massimo di incremento di 200 metri cubi. Il tutto secondo le norme regionali, che potranno escludere aree «con particolare riferimento ai beni culturali» e aree «di pregio ambientale e paesaggistico». E' quanto si legge nell'intesa raggiunta tra governo e regioni.
Il limite di ampliamento sale al 35% nel caso di demolizioni, «con finalità di miglioramento della qualità architettonica, dell'efficienza energetica e secondo criteri di sostenibilità ambientale». Le regioni, prevede l'intesa, «si impegnano ad approvare entro e non oltre 90 giorni proprie leggi ispirate preferibilmente» agli obiettivi dell'accordo stesso. La validità delle leggi regionali non sarà superiore a 18 mesi. Mentre «entro dieci giorni dalla sottoscrizione dell'accordo il governo emanerà un decreto-legge i cui contenuti saranno concordati con le regioni e il sistema delle autonomie».
L'obiettivo, si legge, è quello «di semplificare alcune norme di competenza esclusiva dello Stato, al fine di rendere più rapida ed efficace l'azione amministrativa di disciplina dell'attività edilizia» e «introdurre forme semplificate e celeri per l'attuazione degli interventi edilizi», sempre «in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale».
Il governo e le regioni, infine, «ribadiscono la necessità assoluta del pieno rispetto della vigente disciplina in materia di rapporto di lavoro, anche per gli aspetti previdenziali e assistenziali e di sicurezza dei cantieri».
«Si tratta di un risultato molto importante al quale abbiamo lavorato intensamente - ha commentato il ministro Raffaele Fitto - abbiamo raggiunto un'intesa condivisa dall'intero governo».
Il presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani, oltre alla soddisfazione, ha sottolineato che l'intesa «è un risultato importante per noi e per il Paese, confermiamo pienamente l'impostazione di quando avevamo detto che il decreto era inaccettabile». Con gli accordi raggiunti oggi «non ci sono scelte che possono compromettere il sistema di governo e la tenuta urbanistica del territorio. Ora però bisogna occuparsi della vera emergenza che è quella di trovare risorse per le famiglie in difficoltà che non riescono a pagare l'affitto, abbiamo 550 milioni di euro, bisogna trovare altre risorse pubbliche e private». Soddisfazione è stata espressa da Errani anche perché nella bozza dell'accordo «non c'è più la vendibilità del 20% e non c'è più il cambiamento della destinazione d'uso».
Errani ha poi sottolineato che i lavori del piano casa saranno svolti nel rispetto delle norme sulla sicurezza e con lavoro regolare e forme di rendicontazione che mettano in chiaro tutti i lavori che verranno fatti. Le Regioni avranno 90 giorni di tempo per emanare, ciascuna, le norme per consentire l'attuazione del piano casa. In extremis si è raggiunto l'accordo per il varo di un tavolo che metta a punto uno studio di fattibilità per verificare quali misure adottare per l'edilizia pubblica. Dall'accordo, infatti, sono sparite «le risorse aggiuntive» che lo Stato avrebbe dovuto apportare, seppure in quantità non determinata.
Al termine del consiglio dei ministri anche Berlusconi ha commentato l'intesa: «Sono soddisfatto per l'accordo raggiunto, un'altra intesa importante dopo quella sugli ammortizzatori sociali. Ringrazio le Regioni per la collaborazione istituzionale, ora ci avviamo a studiare l'altro grande piano per la casa. E' intenzione dell'esecutivo - ha spiegato Berlusconi - dare il via alla costruzione di 'new town' in ogni capoluogo di provincia per mettere a disposizione nuove case, in particolare per i giovani».
Il testo del «piano casa»
(da l'Unità online, 1 aprile 2009)
Ecco il testo dell'accordo sul piano casa siglato la notte scorsa al tavolo tecnico dal governo e dalla conferenza delle regioni, recepito questa mattina dalla conferenza unificata a Palazzo Chigi.
«Rilevata l'esigenza, da parte del governo, delle regioni e degli enti locali di individuare misure che contrastino la crisi economica in materie di legislazione concorrente con le regioni, quale quella relativa al governo del territorio;
visto l'accordo delle regioni e degli enti locali in ordine alle esigenze di fronteggiare la crisi mediante un riavvio dell'attività edilizia favorendo altresì lavori di modifica del patrimonio edilizio esistente nonché prevedendo forme di semplificazione dei relativi adempimenti secondo modalità utili ad esplicare effetti in tempi brevi nell'ambito della garanzia del governo del territorio;
rilevata l'esigenza di predisporre misure legislative coordinate tra stato e regioni nell'ambito delle rispettive competenze;
governo, regioni ed enti locali convengono la seguente intesa:
per favorire iniziative volte al rilancio dell'economia, rispondere anche ai bisogni abitativi delle famiglie e per introdurre incisive misure di semplificazione procedurali dell'attività edilizia, lo stato, le regioni e le autonomie locali definiscono il seguente accordo.
Le regioni si impegnano ad approvare entro e non oltre 90 giorni proprie leggi ispirate preferibilmente ai seguenti obiettivi:
a) regolamentare interventi - che possono realizzarsi attraverso piani/programmi definiti tra regioni e comuni - al fine di migliorare anche la qualità architettonica e/o energetica degli edifici entro il limite del 20% della volumetria esistente di edifici residenziali uni-bifamiliari o comunque di volumetria non superiore ai 1000 metri cubi, per un incremento complessivo massimo di 200 metri cubi, fatte salve diverse determinazioni regionali che possono promuovere ulteriori forme di incentivazione volumetrica;
b) disciplinare interventi straordinari di demolizione e ricostruzione con ampliamento per edifici a destinazione residenziale entro il limite del 35% della volumetria esistente, con finalità di miglioramento della qualità architettonica, dell'efficienza energetica ed utilizzo di fonti energetiche rinnovabili e secondo criteri di sostenibilità ambientale, ferma restando l'autonomia legislativa regionale in riferimento ad altre tipologie di intervento;
c) introdurre forme semplificate e celeri per l'attuazione degli interventi edilizi di cui alla leggera a) e b) in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale. Tali interventi edilizi non possono riferirsi ad edifici abusivi o nei centri storici o in aree di inedificabilità assoluta.
Le leggi regionali possono individuare gli ambiti nei quali gli interventi di cui alle lettere a) e b) sono esclusi o limitati, con particolare riferimento ai beni culturali e alle aree di pregio ambientale e paesaggistico, nonché gli ambiti nei quali i medesimi interventi sono favoriti con opportune incentivazioni e premialità finalizzate alla riqualificazione di aree urbane degradate.
La disciplina introdotta dalle suddette leggi regionali avrà validità temporalmente definita, comunque non superiore ai 18 mesi dalla loro entrata in vigore, salvo diverse determinazioni delle singole regioni.
In caso di mancata approvazione delle leggi regionali nel termine stabilito, il governo e il presidente della giunta regionale interessata, congiuntamente, determinano le modalità procedurali idonee ad attuare compiutamente l'accordo, anche ai sensi dell'art. 8, comma 1, della legge n. 131/2003.
Entro dieci giorni dalla sottoscrizione del presente accordo, il governo emanerà un decreto-legge i cui contenuti saranno concordati con le regioni e il sistema delle autonomie con l'obiettivo precipuo di semplificare alcune procedure di competenza esclusiva dello stato, al fine di rendere più rapida ed efficace l'azione amministrativa di disciplina dell'attività edilizia.
Il governo e le regioni ribadiscono la necessità assoluta del pieno rispetto della vigente disciplina in materia di rapporto di lavoro, anche per gli aspetti previdenziali e assistenziali e di sicurezza nei cantieri e la necessità di mettere a punto una procedura che garantisca trasparenza come, per esempio, quella utilizzata per lo sgravio Irpef del 36%.
Il governo si impegna, inoltre, confermando integralmente gli impegni assunti con l'accordo sottoscritto con le regioni in merito al sostegno all'edilizia residenziale pubblica, ad avviare congiuntamente con le regioni e le autonomie locali uno studio di fattibilità per un nuovo piano casa che individui, in aggiunta alle risorse dell'accordo sopra indicato, e compatibilmente con le condizioni di finanza pubblica, risorse pubbliche e private per soddisfare il fabbisogno abitativo delle famiglie o particolari categorie, che si trovano nella condizione di più alto disagio sociale e che hanno difficoltà ad accedere al libero mercato della locazione.
Viene fatta salva ogni prerogativa costituzionale delle regioni a statuto speciale e delle province autonome».
(AGI) - Roma, 31 mar. - Ecco la bozza d'intesa sul Piano Casa che, secondo quanto si apprende, le Regioni sottoporranno al governo dopo averla votata questa mattina all'unanimità. Il documento "impegna le regioni ad approvare entro e non oltre 90 giorni proprie leggi ispirate ai seguenti obiettivi: a) regolamentare interventi - anche attraverso piani/programmi definiti tra Regioni e Comuni - per migliorare la qualità architettonica e/o energetica degli edifici entro il limite del 20% della volumetria esistente di edifici residenziali uni-bifamiliari o comunque di volumetria non superiore ai 1.000 metri cubi, per un incremento complessivo massimo di 200 metri cubi, fatte salve diverse determinazioni regionali; b) disciplinare interventi straordinari di demolizione e ricostruzione con ampliamento di edifici residenziali entro il limite del 35% della volumetria esistente, con finalità di miglioramento della qualità architettonica, di sensibile riduzione dei consumi energetici ed utilizzo di fonti energetiche rinnovabili e secondo criteri di sostenibilità ambientale; c) introdurre forme semplificate e celeri per l'autorizzazione degli interventi edilizi di cui alla lettera a) e b) in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale.
Le leggi regionali possono individuare gli ambiti nei quali gli interventi di cui alle lettera a) e b) sono esclusi o limitati, con particolare riferimento ai beni culturali e alle aree di pregio ambientale e paesaggistico, nonché gli ambiti nei quali i medesimi interventi sono favoriti con opportune incentivazioni e premialità finalizzate alla riqualificazione di aree urbane degradate.
La disciplina introdotta dalle suddette leggi regionali avrà validità temporalmente definita, comunque non superiore a 12 mesi dalla loro entrata in vigore. In caso di mancata approvazione delle leggi regionali nel termine stabilito, il Governo e il Presidente della Giunta regionale interessata, congiuntamente, determinano le modalità procedurali idonee ad attuare compiutamente l'accordo, anche ai sensi dell'art. 8, comma 1, della legge n. 131/2003.
Contestualmente alla sottoscrizione del presente Accordo - si legge nella bozza d'intesa - il Governo emana un decreto-legge i cui contenuti sono concordati con le Regioni e il sistema delle autonomie con l'obiettivo precipuo di semplificare alcune procedure di competenza esclusiva dello Stato, al fine di rendere più rapida ed efficace l'azione amministrativa di disciplina dell'attività edilizia".
"In particolare - prosegue la bozza di intesa sul piano casa - le misure di semplificazione devono riguardare: a) la previsione di un termine certo per il rilascio delle autorizzazioni, permessi o altri atti di assenso comunque denominati, di competenza delle amministrazioni e organismi statali preposti, tra l’altro, alla tutela della sicurezza (es. prevenzione antincendi), del paesaggio, del demanio idrico e al sistema delle infrastrutture nazionali; b) la ridisciplina del procedimento di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, con l'applicazione, in via permanente, delle procedure previste dall'art. 159 del D.Lgs. n. 42/2004 e successive modifiche e integrazioni e con l'obiettivo di rafforzare gli strumenti di collaborazione tra le Regioni e gli organismi periferici del Ministero per i beni e le attività culturali; b 1) la previsione del potere di annullamento, di cui all'art. 159, comma 3, dell'autorizzazione illegittima solo per contrasto con le prescrizioni del Codice; b 2) la precisazione del solo riferimento al costo delle opere, quale modalità di calcolo della sanzione amministrativa da applicarsi in caso di interventi realizzati in assenza di autorizzazione paesaggistica e di cui sia stata accertata la compatibilità paesaggistica, a norma dell'art. 167, comma 5, del Codice ; c) la semplificazione delle procedure di valutazione ambientale strategica (VAS), nel rispetto dell'ordinamento comunitario e delle competenze legislative regionali in materia urbanistica, con l'obiettivo di evitare la duplicazione delle procedure di valutazione di piani e programmi; d) la previsione che le nuove norme tecniche per le costruzioni non trovino applicazione agli interventi edilizi già iniziati, e alle opere pubbliche i cui lavori siano stati appaltati o i cui progetti siano stati approvati, alla data di entrata in vigore delle suddette norme tecniche; e) la fissazione dei principi fondamentali in materia di misure di perequazione e compensazione urbanistica, all'interno dei piani urbanistici, sulla base delle norme già presenti nei disegni di legge attualmente all'esame del Parlamento.
Il Governo e le Regioni ribadiscono la priorità assoluta del pieno rispetto della vigente disciplina in materia di rapporto di lavoro, anche per gli aspetti previdenziali e assistenziali e di sicurezza nei cantieri.
Il Governo fissa, altresì, principi per la legislazione regionale atti a consentire l'ampliamento delle tipologie degli interventi non soggetti a titolo di abilitazione preventiva.
Il Governo si impegna, inoltre - sempre secondo la bozza delle Regioni - confermando integralmente gli impegni assunti con gli Accordi sottoscritti dal Governo con le Regioni in merito al sostegno dell'edilizia residenziale pubblica, ad aprire un tavolo di confronto con le Regioni e le Autonomie locali per la definizione di un nuovo Piano Casa che individui, in termini strutturali e con risorse aggiuntive, le modalità per soddisfare il fabbisogno abitativo delle famiglie o particolari categorie, che si trovano nella condizione di più alto disagio sociale e a destinare a favore di Regioni e Comuni il maggior gettito IVA derivante dagli interventi previsti dal presente accordo, da reinvestire in programmi di edilizia sociale e che hanno difficoltà ad accedere al libero mercato della locazione".
A caldo, alcune perle.
"[…] regolamentare interventi - anche attraverso piani/programmi definiti tra Regioni e Comuni - per migliorare la qualità architettonica e/o energetica degli edifici entro il limite del 20% della volumetria esistente". Per quello che eccede il 20% non si migliora la qualità?
"[…] introdurre forme semplificate e celeri per l'autorizzazione degli interventi edilizi di cui alla lettera a) e b) in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale". Che significa "in coerenza"? chi la stabilisce? perchè non "nel pieno rispetto"?
"Le leggi regionali possono individuare gli ambiti nei quali gli interventi di cui alle lettera a) e b) sono esclusi o limitati, con particolare riferimento ai beni culturali e alle aree di pregio ambientale e paesaggistico […]". "Possono individuare": la tutela dei beni culturali ecc. è un optional?
"In caso di mancata approvazione delle leggi regionali nel termine stabilito, il Governo e il Presidente della Giunta regionale interessata, congiuntamente, determinano le modalità procedurali idonee ad attuare compiutamente l'accordo […]". Cosi come si esautora il Parlamento, così si esautorano i consigli regionali, all’unanimità dei presidenti.
"[…] la previsione di un termine certo per il rilascio delle autorizzazioni, permessi o altri atti di assenso comunque denominati, di competenza delle amministrazioni e organismi statali". Dimenticano che stabilire "termini certi" (cioè il silenzio-assenso) è ragionevole unicamente se si rafforzano le strutture che devono rilasciare le autorizzazioni; altrimenti, significa eludere i controlli di merito.
"[…] la fissazione dei principi fondamentali in materia di misure di perequazione e compensazione urbanistica, all'interno dei piani urbanistici, sulla base delle norme già presenti nei disegni di legge attualmente all'esame del Parlamento". Evidentemente scritto dopo un’abbondante e unanime libagione. Mai visto un riferimento a "disegni di legge attualmente all’esame del Parlamento": e a quale dei ddl? Al più permissivo? Al più rigoroso? A quello che esclude perequazione e compensazione?
"Il Governo fissa, altresì, principi per la legislazione regionale atti a consentire l'ampliamento delle tipologie degli interventi non soggetti a titolo di abilitazione preventiva". Avanti con il silenzio-assenso, a tutta birra.
Su questa base, il Capo può andare avanti tranquillo, cantieri si apriranno dappertutto: basta essere "coerenti" con le leggi e i piani urbanistici, territoriali e paesaggistici. La "coerenza", naturalmente, sarà stabilita in un Accordo di programma con gli immobiliaristi grandi e piccini. O forse no?
Dimenticavamo: e la "casa"? La parola magica che ha sfoderato il Capo in cerca di alibi? Quella "casa" che è il tormento di tantissimi italiani non ricchi? Per quella c’è un ottimo auspicio: "Il Governo si impegna […] in merito al sostegno dell'edilizia residenziale pubblica, ad aprire un tavolo di confronto con le Regioni e le Autonomie locali". Quando Giovanni Giolitti voleva insabbiare un problema nominava una commissione parlamentare per studiarlo; nel XXI secolo, nell’Italia berlusconata si istituisce un Tavolo.
Come uscire dalla crisi che ci attanaglia? Credo di non essere stato il solo, in quest’ansiosa stagione, a ricordare il discorso sull’austerità tenuto da Enrico Berlinguer nel 1977 al teatro Eliseo di Roma. Vivevamo allora le drammatiche conseguenze della guerra arabo-israeliana del 1973 che aveva fatto repentinamente tramontare le illusioni sulle magnifiche sorti e progressive di uno sviluppo economico illimitato basato sul petrolio a basso costo. Penso che in molti abbiamo pensato di riprendere quel discorso, rassicurati dal fatto che il più grande paese capitalistico del mondo e della storia percorre anch’esso – si parva licet componere magnis – strade inaspettate, varando misure a favore della riconversione sostenibile dell’economia, della cultura, della ricerca scientifica, dell’istruzione e della sanità pubblica.
Invece, improvvisamente, il nostro presidente del consiglio, con il suo forsennato rilancio della speculazione fondiaria come misura risolutiva per uscire dalla crisi, ci ha brutalmente ricondotti nello squallore terra-terra della nostra realtà, a distanza siderale dai ragionamenti sull’austerità e dal seducente modello disegnato da Barack Obama.
I contenuti della proposta di Berlusconi sono noti, si chiama “piano casa”, e dovrebbe riguardare stanziamenti per l’edilizia sociale, in effetti pochi soldi a sostegno di programmi già decisi dal precedente governo. Ma il piano casa è solo la cornice, è un paravento, anzi è un tranello, che spiana la strada all’autentica novità, quella che riguarda la decantata “rivoluzione” dell’edilizia privata. Quando scrivo questa nota non è ancora noto il testo definitivo varato dal governo, ma è stato anticipato che si prevede l’abolizione del permesso di costruire, sostituito da una certificazione di conformità firmata dal progettista, e la possibilità di un premio di cubatura fino al 30 per cento in caso di demolizione e ricostruzione di un edificio. Sembra addirittura che ci sia la possibilità, per chi interviene in aree vincolate, di ottenere una sorta di autorizzazione in sanatoria. Rispetto a ciò che potrebbe succedere, rischiamo di rimpiangere la Napoli degli anni Cinquanta, quando era sindaco Achille Lauro e circolava la battuta che "il piano regolatore serve a chi non si sa regolare". Basta d'altra parte ricordare che a plaudire per prima è stata la nuova amministrazione regionale della Sardegna, che di speculazione se ne intende.
Dobbiamo riconoscere che Berlusconi ha spiazzato tutti. Ci ha costretti ad accantonare ogni riflessione intorno alle inedite condizioni determinate dalla crisi, che avrebbero potuto permettere di ripensare il mercato edilizio e dei lavori pubblici, orientandoli verso modelli caratterizzati da maggiore equità sociale e da investimenti a più alta intensità di lavoro e di convenienza ambientale ed ecologica. Ci ha costretti invece a spendere ogni energia per bloccare, o almeno ridurre, i danni della sua proposta. Non dobbiamo infatti illuderci che quella proposta sia facile farla rientrare, invocando la ragione e il buon senso. Non sarà, facile perché si rifà alla linea dei “padroni in casa propria”, che solletica ed esaspera egoismi profondi e diffusi del popolo italiano, soprattutto nel Mezzogiorno. Quegli stessi egoismi che nei decenni trascorsi indussero ad affossare ogni tentativo di riforma urbanistica, che nel febbraio scorso hanno determinato la sconfitta di Renato Soru e che invece hanno portato al successo i ripetuti provvedimenti di condono (tre in diciotto anni: 1985, governo Craxi; 1994 e 2003, governo Berlusconi). Anche stavolta siamo di fronte a una sorta di condono, peggio, un condono permanente, senza oblazione, e con il sostegno del governo.
A rendere il quadro ancora più fosco concorrono le recenti misure del ministro Sandro Bondi volte a penalizzare, screditare, immiserire le soprintendenze e ogni altro ufficio del ministero dei Beni culturali. Vittorio Emiliani ha recentemente riepilogato i dati relativi al massacro. Nell’anno 2009: spese per la tutela: – 35 per cento; spese per la ricerca: – 93,97 per cento; disponibilità in tema di formazione, aggiornamento e perfezionamento pari 0,6 centesimi di euro per dipendente. Che tutela potrà perseguire un’amministrazione ridotta in questo stato? Ma di che ci meravigliamo se lo stesso Bondi, a Torino, nel luglio scorso, nell’aprire il XXIII congresso degli architetti, ha dichiarato che: “Le città d’arte furono costruite senza leggi urbanistiche, leggi che una volta introdotte hanno saputo produrre solo bruttezza e squallore nelle nostre città”.
Altro che austerità, altro che rilancio della cultura e del paesaggio. Se non ci mobilitiamo con determinazione e risolutezza, ci aspetta un futuro di immani disastri ambientali e dissennata dissipazione di risorse.
Deregolazione, sprawl, abuso di suolo, immobiliarismo di ventura: una crisi annunciata di postmoderna immoralità
[in corso di stampa]
Tante implicazioni nel titolo per suggerire l’intrico di questioni racchiuse nel generico termine "sprawl". Un fenomeno noto da decenni, su cui sono state scritte pagine e pagine di varia letteratura. Da quella accademica, alla narrativa, alla cronaca. Tutte a tentare di cogliere un processo che ha stravolto l’immagine consolidata di città e cercare nuove rappresentazioni in grado di restituire la complessità di un cambiamento che ribalta l’atavico moto centripeto verso i magneti urbani e spande nel territorio gli effetti di un’urbanità incompiuta.
La discussione sul binomio centrato/acentrato è datata. Anche la coesistenza di gerarchie e reti è consapevolezza acquisita da tempo. Poi il piano analitico si è inclinato all’ambiguo, ha colto l’occasione del molteplice per volgersi a narrazioni sfumate, in cui il ricorso al polifonico ha generato un caos semantico che vede tutto allo stesso tempo come vero/verosimile e falso/falsificabile. Un mondo di illusioni di cui la città è il castello incantato, con le sue meraviglie e i suoi orrori. Come sempre il ritratto della società che l’ha prodotta.
Ripudiato il realismo come categoria d’antan, le mani sulla città fanno scandalo, gossip, ma non suscitano progetto politico. Mani che appartengono a speculatori finanziari senza scrupoli, quando non compromessi in affari illeciti. Il destino della città affidato non a generici investitori privati, ma al capitale di rischio lanciato in azzardi societari e borsistici privi di reale copertura.
Meglio allora le suggestioni che le analisi, prendere parte al grande gioco linguistico, stupire degli involucri senza guardare dentro, sotto la superficie translucida e ingannevole. Riprodurre, quando anche in chiave critica e con metafore raffinate, lo spettacolo duale della metropoli, i suoi luccichii e i suoi buchi oscuri. Stare al gioco insomma, adeguandosi alla grammatica effervescente dell’estetica postmoderna, che esige formule ad effetto, spot, enfatizza l’opaco come paradigma e prova cinica noia quando affiora qualche lacerto di verità. Le mille etichette inventate per raccontare lo sprawl raramente infatti si sono accompagnate a seria denuncia degli effetti devastanti del consumo di suolo e a coerente proposta urbanistica e politica.
Ha prevalso un senso di disincanto malizioso e compiaciuto di tanta postmodernità, di snobistico dèjà vu, che ha seminato indifferenza. Un distacco intellettuale che ha trasformato la babele di discorsi in chiacchiericcio alla moda, liquido, polveroso e volutamente effimero. Un’accondiscendenza consapevole e compromessa, che ha portato un contagio di indifferenza e disinteresse. In campo sociale tradotto in rassegnazione e rinuncia alla partecipazione.
Nel silenzio assordante dell’urbanistica, la pianificazione è trasfigurata in metaprogetto, si è rifugiata nella retorica, per lasciare campo nella realtà ai soli giochi dei poteri economici. Mentre le voci dissonanti, tacciate di antipolitica, vengono intese come sgradito rumore di fondo, retaggio di un tempo critico preistorico. Che non c’è storia prima del post-, non c’è memoria, tutto dev’essere nuovo, o a dire meglio innovativo, formula taumaturgica del presente.
Ci siamo fatti imbambolare dalla metropoli postumana, fingendo di non accorgerci che è il campo di riconfigurazione del capitalismo postindustriale. Un dispositivo per produrre valore che gioca sulle debolezze del nostro tempo.
Ora, come abbiamo lasciato che fosse, ci penserà il mercato. Ad approfondire le differenze e divaricare la forbice delle diversità. A mostrare che le pulsioni globalitarie verso uno spazio isotropo sono inganno. Quando la crisi piomberà come una scure vendicativa sulle villette a schiera e i palazzoni delle periferie, sui cittadini indebitati e sui rumeni, albanesi, marocchini che li hanno costruiti e sono morti senza risarcimenti nei cantieri. Morderà da vicino, la crisi. Non sfogherà i suoi impulsi solo sui lontani Sud - le cartoline esotiche che suscitano tanta compassione. Anche nell’occidente il liberismo potrà finalmente dispiegare tutta la sua potenza animale, quella nefasta dopo tanto sciupio.
Lasciar fare al mercato è stata regola morale in questi anni, fede condivisa. La libera economia nella sua forma più sregolata e radicale è diventata l’oppio che ha drogato le società e i gruppi sociali, dalle classi dirigenti, accecate dal mito della concorrenza, ai cittadini, trasformati in consumatori senza diritti. La macchina del consumo è la matrigna del cemento e dell’asfalto che deturpano città e campagne. Ha frantumato coesioni e appartenenze innescando gare individuali e impari. Ha fecondato desideri e inventato soluzioni appropriate ad ogni ceto, affinché chiunque potesse autogratificarsi nell’atto dell’acquisto. Travolti solidarietà e familismi, l’individuo ha ricostituito la propria identità sugli oggetti. Sulla capacità di scialo, in competizione con quel vicino che un tempo sentiva solidale e ora gli è concorrente.
Nelle code chilometriche dello shopping, nelle resse notturne in attesa dell’uscita di novità, negli ingorghi intorno agli ipermercati, liturgie di un mondo succube delle promesse commerciali. Una società che si è atomizzata e chiusa dietro montagne di cianfrusaglie la cui rapida obsolescenza è progettata a tavolino da stuoli di consulenti. Tra cui architetti. Quegli stessi che, dopo il ripudio dell’urbanistica e del suo sguardo prospettico e regolativo, accartocciano le facciate, edificano grattacieli pencolanti e cercano in ogni modo di stupire, dare spettacolo, di innovare (ecco il mantra che torna). Il perché di questa fortuna – mediatica e mondana - dell’architettura non se lo chiede neppure La Cecla (2008), che sull’argomento ha scritto di recente un gustoso pamphlet, in cui però finisce per limitarsi a distinguere i buoni dai cattivi (architetti), senza toccare la radice del problema.
Descrizioni che non spiegano la trasposizione immobiliare del processo di valorizzazione economica (capitalistica, aggiungerebbe Harvey con ragione). La crisi sta mettendo in drammatica evidenza un processo, comune a tutti i paesi avanzati, che sugli asset immobiliari ha trasferito buona parte degli investimenti liberati dalla deindustrializzazione. Quella parte che non si è delocalizzata. Un fenomeno che sul presupposto volatile della finanziarizzazione, ha consentito l’uscita dei capitali dal fordismo e trasformato città e campagna urbanizzata in cantieri di valorizzazione. Cataste di mattoni a sostenere castelli di danaro virtuale. Crediti poggiati su fondamentali altrettanto instabili: promesse, concessioni, varianti, accordi di programma, impegni spesso carpiti attraverso corruzioni. Sulla edificabilità prima ancora che sull’edificato, com’è classico della rendita fondiaria urbana. Un processo che ha però assunto negli ultimi due decenni andamento convulso, con ricadute rovinose sul territorio e i paesaggi.
Un consumo vorace di suolo, vivibilità e bellezza.
Immobiliarismo di ventura
La simbiosi tra la più antica delle forme di accumulazione, la pietrificazione, e la più spregiudicata e ipermoderna delle modalità finanziarie ha generato uno spazio infinito di speculazione che ora stritola i malcapitati che, soggiogati da martellanti campagne su favolistiche opportunità di realizzo, fidavano di aver tesaurizzato le proprie risorse nell’uno o nell’altro campo. Un sostegno reciproco che si è tenuto in equilibrio precario finché la domanda è riuscita a coprire l’offerta e i comportamenti finanziari hanno mantenuto una pur lasca legalità, ma che ora, con la cadenza lenta ma inesorabile del domino, rischia di travolgere economie e società locali. Perché dunque scandalizzarsi, ora che il disastro è compiuto, che si è lasciato fare.
Innanzitutto per l’immorale ingordigia dell’operazione che in Italia, dall’inizio degli anni ’80, ha consumato un quinto della superficie agricola per coprirla di cemento e asfalto. Per la mancata calibratura di offerta e domanda, con gli effetti di sovraproduzione che hanno paralizzato il mercato e ora rischiano di dissestare le economie locali. Il mercato "frana", scrive il Cresme, riferendosi al secondo semestre del 2008, e sottolinea di avere anticipato già da due anni di un mercato saturo o in via di saturazione. Ma la libertà di intrapresa non ascolta avvertimenti, non accetta di darsi regole, ha in orrore l’idea di programmare. Preferisce evidentemente le catastrofi e la decimazione selettiva che ne deriva.
Ma ora la noia di un po’ di cifre (non così scontate, si vedrà).
Tra 1999 e 2007 (dati Cresme, 2008) la crescita del valore aggiunto in costruzioni è doppio (+24,0%) di quello totale dell’economia italiana (+12,2%). Un incremento molto vicino - non a caso direi - al tasso di crescita registrato nel medesimo arco di tempo dal settore delle intermediazioni monetarie e finanziarie (+20,2%). Entrambi ben lontani dall’andamento degli altri settori di attività, con agricoltura in calo del 6,5%, industria con un modestissimo +2,8%, dato che compendia annate in negativo, servizi +9,7% e commercio +14,8%. Una radiografia essenziale ma eloquente dei pesi economici e della configurazione produttiva della società italiana postindustriale.
Un quadro in cui le imprese che operano nel vasto campo immobiliare rivestono un ruolo da protagoniste: le aziende di costruzione passate da 590.000 nel 2000 a quasi 776.000 nel 2007, con un incremento del 31,6%, e quelle immobiliari da 151.000 a quasi 250.000, cresciute come funghi con un incremento del 59,2%. Cifre eccezionali rispetto a tutte le restanti tipologie di imprese che, nel medesimo lasso di tempo, sono aumentate di un risicato 1,4%. Ce ne eravamo accorti vedendo moltiplicarsi le vetrine di intermediazione immobiliare e i giornaletti di offerte, ma questi dati riescono a immiserire le percezioni.
Non a caso l’associazione delle industrie delle costruzioni vanta un contributo complessivo al prodotto interno lordo dell’11% nel 2007 (dati ANCE, 2008) e che tra 1998 e 2007 gli investimenti in costruzioni sono aumentati del 29,4%, con un andamento percentuale più che doppio rispetto al PIL.
Una situazione che accomuna l’intero occidente, in cui l’Italia, nella frenesia edilizia che ha caratterizzato l’ultimo decennio, ha tenuto comportamenti analoghi a quelli degli altri paesi, forse più moderati (la media dell’Unione Europea è dell’11,9% ). L’Irlanda, ad esempio, detiene nel rapporto tra investimenti in costruzioni e PIL il primato del 20,5%, il più alto considerando Europa e Stati Uniti. Questi ultimi si limitano –ma il 2007 per gli USA è già anno di crisi – al 10,3%. La Spagna si attesta al 18%. I paesi con gli indici più modesti sono Svezia (8,1%) e Germania (9,85).
In alcune situazioni limite dello scenario europeo la variazione degli investimenti in costruzioni nell’intero decennio è straordinaria: l’Irlanda, tra 1998 e 2007, ha incrementato gli investimenti dell’82,2%, la Spagna del 73,4%, la Grecia del 69,9%, sono gli esempi di maggiore impatto. L’incremento dell’intera Unione è stato del 25,3%, dato che compendia anche i negativi di Germania (-12,8%) e Portogallo (-11,5%). Cifre nel cui merito andrebbero sviluppati approfondimenti e confronti sui coevi andamenti economici, particolarmente brillanti di alcuni paesi, o su ritardi pregressi in campo edilizio, e che tuttavia non sembrano sufficienti per giustificare una smania edificatoria che alla fine ha prodotto un’offerta che ha superato la domanda e la capacità di assorbimento, come è manifesto nella maggior parte dei paesi più esposti.
Dopo tanta libertà d’azione, ora il mercato regola i conti chiudendo, non ne vuole più sapere di costruzioni, ce ne sono troppe, non sa che farsene, il gioco si è azzerato. Peccato avvenga a danno di cittadini che troveranno le proprie risorse immobilizzate in abitazioni svalutate e in questo momento pressoché prive di reali possibilità di scambio se non con forti perdite, di cui dovranno comunque sobbarcarsi ratei di mutuo sempre più onerosi.
Eppure le avvisaglie di una crisi imminente c’erano state, si sarebbe potuto intervenire. Se consideriamo i soli investimenti in residenze, in Irlanda nel 2007 calano vistosamente del 10,2% dopo un incremento record del 97% tra 1998 e 2006; andamenti analoghi a quelli spagnoli.
Negli Stati Uniti i valori immobiliari sono in calo già da quattro anni, i prezzi delle abitazioni sono crollati del 30-50%, con una perdita di ricchezza per i proprietari che viene stimata a fine 2008 intorno ai 4.000 miliardi di dollari e previsioni funeree per il 2009. In Irlanda, Regno Unito e Spagna la svalutazione del mercato immobiliare oscilla tra il 20 e il 30%. I listini delle società immobiliari italiane quotate in borsa sono calati fino al 90% dei valori precedenti la crisi.
Un gioco in cui i vincitori sono solo quelli che hanno già realizzato. Le grandi imprese che negli anni di espansione hanno disseminato il territorio di palazzoni raccolti in pretestuose nuove centralità prive di servizi collettivi e collegamenti.
Nell’assenza di sguardo pubblico, anzi con attiva compiacenza delle istituzioni che, in un clima di esaltata deregolazione, si sono prostituite per accaparrarsi investimenti privati. Per essere attrattive. In un intreccio sconveniente tra legale e illegale che è all’attenzione delle magistrature. Il banco insomma non era in mano pubblica, ai privati l’intera posta, alla collettività i costi economici e territoriali.
Il fenomeno non è recente. In Italia gli investimenti in nuove costruzioni, valutati a valori costanti, nel corso degli anni ’80 sono stati di 632,2 miliardi di euro, negli anni ’90 di 570,5 mld, di 659,4 mld nell’ultimo decennio (per quest’ultima fase Cresme contabilizza anche previsioni stimate in negativo per l’ultimo biennio). Come termine di paragone possiamo tenere a mente che, nel solo 2007, l’intero valore della produzione (ossia comprensivo di costruzione di nuovi edifici e manutenzione dei vecchi) nei 19 paesi europei considerati dalla conferenza Euroconstruct ammonta a 1.519 miliardi di euro (di cui il 56,9%, ossia 865 mld, nel nuovo). Il Italia, nel medesimo anno, il valore della produzione ammonta a quasi 199 mld di euro, di cui 87 investiti in nuovi edifici e i restanti in manutenzioni (Cresme 2008).
Liberismo e ordinaria immoralità
Chi critica gli eccessi consumistici, lo spreco e le esasperazioni speculative operate sul territorio nell’ultimo ventennio viene spesso accusato di moralismo. Ecco che ritorniamo al titolo. Di sguardo troppo severo nei confronti della gioiosa macchina del profitto. Ma la morale, nell’Italia dell’iperliberismo palazzinaro, ha assunto connotazione sfuggente, relativa. Non può tarpare le ali del libero costruire. Arrestare l’innovazione.
Ma nonostante questa interpretazione molle che in campo urbanistico consente praticamente tutto, i casi di corruzione si accumulano sui tavoli dei giudici. Non è bastato dunque aggirare le regole fino a vanificarle attraverso strumenti concessori di varia natura, secondo un’accezione della legittimità anch’essa assai lasca. Pure questi ultimi fragili paletti esigono collegialità, consenso, debbono sottostare ai tempi e modi delle procedure amministrative in regime democratico. Intralci che è più agevole, rapido, superare comprandolo il consenso. Tutto ha un prezzo. La corruzione degli amministratori è entrata nei costi edificatori. Forse gli analisti che contabilizzano la crisi e rilevano per gli ultimi anni un aumento innaturale dei prezzi di vendita degli immobili, dovrebbero mettere nel computo anche questa voce di spesa.
Episodi che nella storia italiana del lungo boom edilizio non hanno avuto carattere di eccezionalità, ma ricorrono con una frequenza che spinge a ritenerli strutturali al settore, una delle fasi del ciclo produttivo. Situazioni in cui il potere amministrativo e politico, ritenendosi evidentemente coperto e (moralmente) protetto dalla generale euforia liberista e deregolativa, non si è limitato a lasciar fare, ma ha scelto le scorciatoie dell’interesse personale. Per la Liguria, una regione che detiene il primato assoluto del consumo di suolo (il 45,5% tra 1990 e 2005), un’inchiesta giornalistica documenta in maniera accurata gli intrecci tra politici di tutti gli schieramenti e immobiliaristi (Preve e Sansa, 2008). Saviano ha raccontato nel celebratissimo Gomorra il riciclaggio di danaro sporco nelle costruzioni. Berdini denuncia la città in vendita (2008). Zanfi (2008) indaga sulla città abusiva. Chartroux mette a confronto scandali immobiliari ed emergenza abitativa (2008).
Il fenomeno è dunque denunciato e noto, e tuttavia inarrestabile. Coperto e nascostamente ammirato dalla fragile etica comune come il versante astuto dell’immoralità ipermoderna che prospera dentro la cultura permissiva e affaristica del liberismo. Che ha intaccato tutti gli ambienti, anche quelli di cui un tempo si vantava il buon governo del territorio.
La domanda?
Così lo sprawl continua a dilagare nelle campagne, a ledere i paesaggi offendendoli con scatoloni ripetitivi e malformi. Per rispondere alla domanda di famiglie in fuga dalla città alla ricerca di serenità agreste, costi contenuti, aria respirabile, si diceva.
Una domanda tuttavia che raggiunto il suo apice nel 2002, negli anni successivi è in graduale calo. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio si creano numerose nuove famiglie per una serie congiunta di fattori che vanno dalla fuoruscita dalla famiglia d’origine dei baby boommer degli anni ’60, alla sanatoria per gli immigrati, all’adesione della Romania all’Unione Europea che consentono la legalizzazione di presenze straniere. Le famiglie di nuova formazione raggiungono il tetto massimo di circa 400.000 nel 2002, poi scendono gradatamente fino a meno di 200.000 nel 2006, risalgono, ma fittiziamente per solo effetto delle sanatorie, a 234.000 nel 2007.
Le imprese continuano però ad incrementare le nuove costruzioni e a partire dal 2005 la produzione di nuove costruzioni supera sempre il numero di nuove famiglie: 71.000 abitazioni costruite in più del numero di nuove famiglie nel 2005, 136.000 nel 2006, 104.000 nel 2007 (dati Cresme, 2008).
La dinamica delle famiglie non è peraltro un indicatore significativo della domanda di abitazioni nell’attuale fase di stallo demografico. In cui a crescere è solo la componente straniera, ma prevalentemente per effetto di ufficializzazioni di presenze sommerse di fatto già insediate. E’ mancata dunque l’intelligenza di tenerne conto e di valutare l’affievolirsi della domanda potenziale.
La produzione di nuove abitazioni è proseguita in maniera incessante e cieca. Il numero di nuove costruzioni, tra 2000 e 2007, è aumentato del 70%. La percentuale di nuove abitazioni sull’intera offerta immobiliare passa dal 27,9% nel 2000 al 40,9% nel 2007, al 46,7% nel 2008. Tra 2008 e 2010 saranno ultimate altre 840.000 abitazioni già cantierate o autorizzate (Cresme, 2008).
Anche le rilevazioni ISAE sulle propensioni all’acquisto avrebbero potuto costituire un utile campanello d’allarme sul potenziale di assorbimento del mercato. Mentre nel 2000 il 9% delle famiglie italiane dichiara l’intenzione di comprare casa, a partire dal 2004 tale quota si abbassa e oscilla tra il 2,5% e l’1%. Tutti segnali che sono stati ignorati. Un liberismo poco lucido e lungimirante, solo arraffone. Una crisi cercata.
Mercato del lavoro e plurietnicità
A farne le spese, oltre ai cittadini segregati nei quartieroni di periferia e nelle villettopoli, saranno soprattutto i lavoratori. Gli occupati nel comparto delle costruzioni rappresentano il 27,9% del totale degli addetti al secondario, l’8,4% dell’intera popolazione attiva (ANCE, 2008). Nel 2007 il totale degli occupati del settore costruzioni ammonta a poco meno di 2 milioni (dato ANCE), si valutano inoltre intorno ai 400.000 quelli coinvolti nell’indotto (dato Cresme).
Sappiamo bene inoltre che le piccole e piccolissime aziende edili, anch’esse vittime predestinate della crisi, celano notevoli quote di lavoro sommerso, soprattutto di stranieri immigrati illegalmente. Benché normative recenti abbiano portato ad una certa emersione – nel 2007 infatti gli addetti ufficiali aumentano – il calo di occupati è in atto già dal 2006 e si è confermato nel primo semestre del 2008. Nelle imprese di maggiori dimensioni, dove il ricorso al lavoro nero è meno frequente, la diminuzione di occupati è visibile anche nel 2007 (- 0,7%) e di tutta evidenza nel primo semestre del 2008 (-4,2% secondo Cresme).
Un settore dunque, anche sotto il profilo occupazionale, di grande rilievo economico, la cui crisi sta coinvolgendo per primi i lavoratori stranieri irregolari, che perdono il lavoro senza tutela e ammortizzatori. Un problema non piccolo nella situazione sociale odierna e nel clima xenofobo che già si respira nelle aree settentrionali, le stesse in cui si prevede saranno maggiori i contraccolpi della sovraproduzione edilizia.
Il comparto si caratterizza per una presenza particolarmente significativa di lavoratori stranieri regolari, il doppio dell’occupazione media straniera nell’insieme dei settori economici. La loro presenza, scrive ANCE, è aumentata anche quando l’occupazione totale nel settore era in calo: nel primo semestre 2008 mentre l’occupazione complessiva del settore costruzioni diminuisce, quella di stranieri continua ad aumentare del 6,4%. Complessivamente gli occupati stranieri rappresentano il 14% del totale di occupati del settore, con una ripartizione del 18,5% al Nord, 21% al Centro, 3,3% al Sud.
Il crollo del mercato
Il ciclo immobiliare positivo durato dieci anni si è concluso nel 2006. Un ciclo espansivo "eccezionale, senza eguali nella storia del nostro paese e nella storia delle costruzioni a livello mondiale", lo definisce il Cresme.
Se il 2007 ha mostrato una modesta flessione, nel 2008 la caduta delle transazioni è di tutta evidenza. L’Osservatorio del Mercato Immobiliare – che ha deciso di dare cadenza trimestrale alle proprie Note al posto delle semestrali, misura forse dettata dall’emergenza crisi - nel terzo trimestre ’08 valuta un decremento tendenziale del 13% complessivo, con una punta del 14,1% nel residenziale che conferma l’andamento del primo semestre. Cresme fornisce una valutazione addirittura più pessimista e prevede un calo tendenziale delle compravendite di abitazioni del 17,3%.
Ritornando ai dati OMI, calano le compravendite anche delle altre destinazioni d’uso: il terziario del 13,4%, il commerciale del 12,8%, il produttivo è l’ambito meno coinvolto e cala solo del 3,6%, ma non aveva mai avuto andamenti particolarmente brillanti. Il settore residenziale mostra il calo maggiore nel Nord (-16,1%), mediano nel Centro (-13,3%), più basso nel Sud (-10,3%).
Anche in questo caso va notato che già nel 2007 si era avvertito un forte rallentamento del mercato, con un calo complessivo delle compravendite del 7,1%, che seguiva un 2006 anch’esso in calo quantomeno per quanto riguarda l’immobiliare commerciale (-4,3%) e il terziario (-3,2), sostanzialmente stazionari gli altri ambiti ma con una media di un risicato +1,3% già in controtendenza rispetto agli anni precedenti. Segnali non ascoltati con dogmatica aspettativa di crescita continua e inarrestabile.
Finanziarizzazione e immobiliarizzazione
Siamo dunque arrivati alla rottura del ciclo che ha visto immobiliarizzazione e finanziarizzazione come ambiti di riconversione dei capitali che, tramontato il modello fordista, abbandonato l’investimento industriale e deflagrata la cosiddetta new economy, hanno visto vantaggioso lanciarsi in settori entrambi in fase di effervescenza e quindi in grado di offrire margini di eccezionale profitto. L’immobiliare in veste di garante ipervalutato, il finanziario nel ruolo di circolante a sostegno, a monte, di imprenditori e investitori e a valle degli acquirenti.
Investimenti che nel caso dell’immobiliare esauriscono il proprio ciclo di valorizzazione nell’atto costruttivo, di fabbricazione e immissione sul mercato e i cui realizzi devono trovare subito nuovi momenti di investimento, nuove costruzioni da edificare. Un modello economico che ha trasformato città e territori urbanizzati in cantieri del profitto. Un meccanismo che tuttavia non può ripetersi all’infinito come si trattasse di beni di facile usura e dunque da riprodurre a getto continuo. Gli edifici hanno caratteristiche di durevolezza che limitano la loro immissibilità sul mercato e li vincola alla domanda molto più di altri beni. Il cui rigonfiamento artato dalla logica consumistica ha finito comunque per scontrarsi con l’esaurirsi della capacità di indebitamento del versante debole della catena, la cui insolvibilità è stata il soffio, debole ma implacabile, sul castello di carte.
Una fase del capitalismo che è prevedibile si cercherà di sostenere accorciando il ciclo edilizio, ossia la durata dei manufatti, in modo da riedificare ciò che si demolisce. Una procedura da tempo applicata negli Stati Uniti, dove il ciclo edilizio è molto più breve che nella vecchia Europa che ha a cuore le proprie memorie, ma che sicuramente troverà spazio per esercitarsi nelle pieghe di periferie urbane abbandonate al degrado.
Nei territori della neourbanità
Questione interessante in prospettiva territoriale è l’andamento del mercato immobiliare nelle diverse tipologie di centri. La contrazione delle compravendite infatti è più accentuata nei comuni minori, dove sfiora mediamente il 16%, con cali massimi al Nord (-18%) e nel Centro (-17,3%), più contenuti al Sud (-11%), mentre nei comuni capoluogo si ferma alla soglia media del - 9,3% (con punta massima nelle città del Nord, -10,7%, di quasi otto punti superiore alla quota dei piccoli comuni).
Situazione che diventa ancor più marcata nel confronto degli andamenti tra le principali città italiane e le loro province. Benché il dato mediano tra le 10 città che OMI considera sia analogo a quello appena riportato per l’insieme dei capoluoghi italiani (-8,9% nelle città, -16,7% nel resto della provincia), in questo confronto si notano situazioni molto diversificate che meriterebbero maggiori approfondimenti di quanto in questa occasione sia opportuno produrre.
A livello di esempio, colpisce in particolare il comportamento del mercato a Bologna e nella sua provincia: in città il calo di compravendite nel terzo trimestre ‘08 è del 5,3%, uno dei più contenuti tra le città esaminate. In compenso il calo nel resto della provincia è uno stratosferico –26,8%, il più alto tra tutte le provincie metropolitane esaminate. Gli errori di pianificazione commessi nell’area vasta di Bologna, ma è più corretto dire del mancato coordinamento delle scelte edificatorie tra i comuni in cui si è riversata la popolazione bolognese, vengono al pettine. La conurbazione milanese si conferma territorio omogeneamente urbano, i differenziali nelle transazioni sono sostanzialmente conformi: -12,3% il comune centrale, - 14,4% il resto della provincia. Torino mostra andamenti pressoché identici: città –12,4%, provincia – 12,8%. Roma invece presenta una situazione analoga a quella bolognese, benché non tanto radicale: capoluogo – 9,8%, provincia –22,3%.
Prudenza vuole che non assegniamo a queste cifre sul calo delle vendite un valore consolidato o predittivo. Sono tuttavia eloquenti di un trend ormai biennale che rischia di evolvere in direzione di diversificazioni in cui le periferie tornano tali e non i bucolici paradisi propagandati dalle agenzie immobiliari. Sono consapevole dunque del valore provvisorio dei dati sul calo delle transazioni immobiliari che ho appena presentato e mi auguro che le prossime rilevazioni smentiscano i miei timori. Sta di fatto che il mondo intero vive un momento di forte preoccupazione e che la consapevolezza degli eccessi di produzione immobiliare – testimoniata dai dati di natura storica - diventa sempre più manifestamente preoccupazione per le sorti economiche dei sistemi territoriali.
Lontani dall’agglomerato
Si è dunque scoperchiato il velo di una speculazione esasperata aggravata dal lassismo delle istituzioni locali nel concedere sviluppi edilizi. Non si è saputa coniugare la crescita con coerenti politiche di governo del territorio. La polverizzazione apparentemente casuale degli insediamenti, in realtà legata alla maggiore o minore permeabilità delle classi dirigenti locali alle molte lusinghe del liberismo, ha generato territori incongrui sotto il profilo funzionale e qualitativo, disgregati da un insieme di forze opposte tendenti sia alla centralizzazione che alla dispersione. Non condivido a questo riguardo le posizioni di chi ritiene che in ogni modo i territori si siano "autorganizzati" e abbiano da sé prodotto reticoli funzionali. Quella che vediamo ogni giorno sulle strade non è, a mio modo di vedere, autorganizzazione, e men che meno espressione di "città di città" – due termini che affondano le proprie ragioni nel paradigma epistemico della scuola territorialista (Magnaghi, 2000) e sono ben lungi da significati strumentali. La definirei piuttosto funzionalizzazione coatta, coercizione.
Code obbligate, inevitabili, per raggiungere servizi che sono rimasti ancorati a un’idea di città compatta e non ricalibrati alla nuova dimensione metropolitana. Cittadini dispersi che hanno mantenuto con la città legami indissolubili, perduti in periferie non attrezzate per rispondere ai bisogni elementari delle famiglie. Obbligati all’uso dell’automobile in assenza di una qualsivoglia logica di trasportistica collettiva. Per i quali il godimento dei benefici della ruralità è fatto notturno e domenicale, ma principalmente apoteosi del transito (automobilistico) in un moto pendolare perpetuo tra casa, ufficio, scuola, centri commerciali, ecc. Prigionieri di corpuscoli insediativi dormitorio o di piccoli centri con la cui bellezza e socialità non hanno tempo di entrare in relazione, con effetti di desocializzazione che ricadono in forme devastanti sulle giovani generazioni, incapaci di interagire e comunicare.
Chiusi negli universi separati simbolizzati dai micro fazzoletti di terra delle villette a schiera circondati da muretti vicinali enormi, sproporzionati ed escludenti (Che ricordano il finage di cui si ragionava un tempo in merito alle piccole proprietà contadine preindustriali e alla loro chiusura individualistica). O ingabbiati nei palazzoni affastellati in false centralità mai compiute, cui mancano i fondamenti basilari per esser tali. Cittadini che hanno compiuto una scelta insediativa che ritenevano conveniente, non una scelta di vita e intrattengono con il mondo rurale un rapporto superficiale, distaccato, e continuano a rapportarsi alla città. Continuano a sentirsi cittadini di una metropoli che, incapace di rispondere ai loro bisogni, li ha cacciati senza neppure regolarne l’esodo.
Effetti perversi di quella diffusione della rendita fondiaria urbana auspicata dalle municipalità per mettere in valore il territorio, incrementare entrate fiscali e patrimonio. Un’interpretazione del valore territoriale che non tiene conto della qualità della vita e ha usato gli abitanti come strumento di una crescita economica priva di razionalità. E innanzitutto priva di umanità.
Non c’è umanità nella reiterazione infinita dei tipi edilizi e dei contenitori informi dei centri commerciali, enormi e tutti uguali. Alieni alle campagne. A distruggere bellezza, un bene comune dissipato in nome di un’idea di innovazione che sul consumo – di territorio, della città, di bellezza, di socialità – ha il proprio cardine. Come sono tutti uguali i villaggi finti shakespeariani degli out-let, con le stradine sinuose, le fontanelle da cui non si può bere, le casine leziose. Scenografie immutabili, come in un film che gira e rigira ma resta sempre uguale, rassicurante e asettico nella sua illusorietà.
La retorica del localismo di maniera, del vivere agreste, di identità e comunità da rinverdire si fanno marketing, colonizzano l’immaginario collettivo, come direbbe Latouche. Mentre anche i centri storici gentrificati perdono personalità per assumere quella commerciale e griffata, identica in ogni città del mondo, ossessiva. Un processo di anomizzazione che induce desocializzazione, la fuga e la ricerca (vana) di territorialità. Un circolo perverso in cui i cittadini sono le vittime sacrificali. Se (come sperabile) dovesse arrestarsi al più presto la caduta del mercato, rimarranno in ogni modo lo scempio del territorio e lo snaturamento dei paesaggi, la perdita di beni irriproducibili di proprietà comune e indivisibile. Peserà anche l’aver sottratto terreni produttivi all’agricoltura di prossimità, essenziale sotto il profilo ambientale tanto più in tempi di crisi della globalizzazione.
Spazi deterritorializzati dello sprawl
Una graduale deterritorializzazione annienta luoghi e milieux e trasforma i territori in spazi sterili. Disumanizzati da un’appropriazione mercantile straniante. Saltano senso di appartenenza e identificazione territoriale per lasciar posto alle sole relazioni commerciali, in cui lo spazio è fruito a pagamento e il cittadino ha la sola veste di consumatore. Spazi paralleli, diversificati per target di spesa, calibrati alle diverse capacità economiche. Mondi segregati per status.
In un’ambiguità insanabile tra valore d’uso e valore di scambio, spazio pubblico e spazio privato e continue erosioni dei diritti comunitari. E mentre gli spazi pubblici vanno in degrado per incuria, quelli privati assumono la fisionomia collettiva che deriva dalla frequentazione commerciale. Anche gli elementi più squisitamente istituzionali – sicurezza e sorveglianza – garantiti da società di interesse privato. Condizione che accomuna espansioni residenziali conformate a gated cities e centri polifunzionali in guisa di edge cities. Espressioni della città dilatata post-regolativa, in cui il mercato è l’unico decisore e le forze esogene che plasmano la crescita i suoi tentacoli operativi.
Spazi da consumare, fabbriche di desideri. Paesi dei balocchi, seducenti e ammiccanti nei loro abiti di scena disegnati dagli stilisti del marketing. La città dipinta a tinte forti, esasperate, esaltando le contraddizioni, la pluralità di stimoli, compreso il brivido elettrizzante della paura. La ruralità pensata invece per altri pubblici, colta nel fascino nostalgico e fané, nella grazia bucolica di un’eterna primavera cinguettante. Mondi in cui immaginario e potenza persuasiva sono componenti organiche del processo di valorizzazione. Le tante "corti dei molini", "tenute della duchessa", "magioni del granduca" e via favoleggiando, di cui le agenzie immobiliari offrono ricco campionario, ne sono populistica espressione. Esercizi di gentrification delle periferie che implodono con il fango dentro casa alla prima pioggia, le sbarre antintrusione alle finestre, la distanza dai servizi. Anche il panorama espropriato al godimento collettivo dalla schiera di villette di maggior pregio che ne impedisce la vista e ne ha fatto patrimonio privato.
Costi della polverizzazione
Se applichiamo alla città esplosa i parametri dell’analisi geografica, comprendiamo meglio la crisi del mercato immobiliare e riusciamo a vederla come conseguenza diretta del venir meno dei requisiti che avevano fatto apprezzare le localizzazioni residenziali periferiche.
In primo luogo i paesaggi, che una volta deturpati non hanno più la bellezza che esercitava attrattiva e conferiva valore. Un depauperamento che non è solo culturale e simbolico ma anche direttamente economico – va spiegato agli innovatori a tutti i costi.
La rendita fondiaria deriva inoltre da principi allocativi di natura funzionale che commisurano il valore del territorio al grado di attrezzaggio, in definitiva alla distanza dai servizi e ai costi per raggiungerli. Un criterio poggiato sulla distanza, non in termini metrici ma isocronici, che deprezza le aree lontane. La città infinita, immobile nel traffico, sconta diseconomie di agglomerazione e di percorrenze incommensurabili – infinite appunto. Tutto ciò si traduce in aumento dei costi a carico dalle famiglie e conseguente deprezzamento dei valori fondiari. E meraviglia ci sia ancora chi enfatizza la cosiddetta morte della distanza per motivare lo sprawl con la diffusione dei sistemi di comunicazione informatica. Nei cui spazi virtuali in effetti si sono rifugiati i cittadini metropolitani. Per supplire alle difficoltà di spostamento e incontro.
La disseminazione caotica delle residenze è avvenuta senza pianificazione logistica. Parametro che è stato invece adottato per la dislocazione dei centri commerciali, pensando però alla sola mobilità privata e a nuovi assi di scorrimento e parcheggi in loro supporto – anche in questo caso con indifferenza a territori e paesaggi, deturpati da svincoli, soprelevate, immense superfici di cemento e catrame. Un disordine distributivo che ha comportato costi di urbanizzazione particolarmente onerosi e ora pesa sulla gestione dei servizi essenziali.
Deregolazione e fallimento dell’urbanistica
Gli urbanisti, tra i principali responsabili di tanto disastro, hanno fallito il loro compito, non hanno saputo affrontare la città discontinua, la bassa densità, il salto di scala, la diversa tramatura dell’urbanità. Sono rimasti ancorati alla città compatta e non hanno saputo (voluto?) vedere gli effetti territoriali di comparti urbanistici delocalizzati al di fuori della conurbazione. Hanno progettato astratti oggetti edilizi senza contestualizzarli nei territori, riflettere sulle diversità e complessità dei sistemi locali, sui requisiti funzionali che strutturano centralità, definiscono reti connettive e sistemi relazionali. Nessuna preoccupazione neppure nei confronti dei problemi ambientali e geomorfologici che, ignorati, producono catastrofi niente affatto naturali. Il territorio trattato come spazio informe, liscio. D’altro canto che ci si può attendere da chi definisce "naturali" i paesaggi? Esecutori che hanno realizzato acriticamente le commesse delle amministrazioni e dei privati.
Ma se a questi ultimi non si può imputare la natura di operatori economici in cerca di profitto, politici, amministratori e direzioni tecniche locali portano il peso della compromissione con i peggiori istinti del liberismo. Dopo il rigetto della pianificazione come strumento di regolazione e di governo, la mistica della concorrenza, del mercato e della conduzione imprenditoriale degli enti locali hanno concesso un’espansione senza limiti e piano. A spaglio, inondando i territori come un fiume in piena, in assenza di argini normativi o anche solo di buon senso. La retorica della governance e della sussidiarietà come alibi e arma legale.
L’urbanistica frammentata a livello comunale, chiusa nel recinto dei confini amministrativi e quindi incapace di cogliere le correlazioni di area vasta di un’urbanità discontinua bisognosa di coordinamento. Una prospettiva autoreferenziale che ha convinto ogni municipio, in concorrenza con i vicini, a incentivare gli investimenti immobiliari nel proprio territorio senza che un livello istituzionale di più ampio sguardo esplicasse una qualche forma di piano e di controllo per regolare gli accrescimenti e calibrarli alle necessità reali. In un quadro di strumenti urbanistici che la deregolazione ha voluto sempre più allentati e permissivi, non a caso diversissimi per denominazione e forma giuridica. Una situazione in cui crisi finanziaria degli enti locali, Ici, oneri di urbanizzazione e scambi perequativi hanno congiurato contro scelte più oculate da parte dei comuni. Mentre le istituzioni della pianificazione si limitavano a blande raccomandazioni che nei fatti venivano disattese, in assenza di potere di controllo verticale, in forza di un principio di sussidiarietà troppo rispettoso dell’autonoma legittimità delle deroghe e disarmato a intervenire nel merito. L’urbanistica ha finito per adeguarsi alle logiche degli interessi speculativi, realizzati attraverso la stipula, di volta in volta, di accordi bilaterali in cui l’interesse collettivo è stato dimenticato. Il diritto pubblico sacrificato a favore di transazioni di natura privatistica.
La colonizzazione metropolitana
La città è cambiata, bisogna prenderne atto. Una serie di forze giustapposte e contrastanti ne ha mutato forma e natura. Il modello dell’urbanizzazione ha colonizzato il pianeta, inglobando le altre espressioni territoriali e piegandole all’omologazione. La complessità appiattita e raramente indice di urbanità ma sinonimo di nuovi e più profondi conflitti e disuguaglianze. La campagna è stata fagocitata da un moto centrifugo che, procedendo per chiazze, ha prodotto generale uniformizzazione dei luoghi, atopia. Le identità territoriali atrofizzate a favore dei simulacri finzionali di cui ci parla da tempo Augé.
Un cambio di scala che ha interrotto la continuità del tessuto, frantumato il corpo solidale della città moderna e creato lacerazioni, porosità, rotto gli insiemi territoriali. E con essi le relazioni umane che li innervavano e ne erano artefici, divenute aleatorie, anonime, di un cosmopolitismo contraddittorio e irto di conflitti.
Al punto che diventa legittimo chiedersi quale sia oggi il significato di locale e dove si sia rifugiata la capacità di topogenesi in grado di restituire anima agli spazi, come direbbe Hillman. Un problema che non appassiona i decisori, proni ai dettati mercantili, e assai poco anche il mondo intellettuale, impegnato a prodursi in fantasmagorie estetizzanti.
Un’urbanità monca di convivialità, direbbe Choay, e dunque ridotta a crosta amorfa e infertile, in cui la città non è riuscita a trasformarsi in metropoli, in città madre di luoghi, di sistemi locali territoriali capaci di coesione e solidalità. La deformazione della città come specchio, concrezione morfologica di una società polverizzata, ghettizzata dai redditi e dai consumi, dagli stili di vita e dell’abitare.
I territori vengono retrocessi a spazi uniformi all’interno di un dispositivo urbano totale e totalizzante che vede come unico protagonista il liberismo e la sua carica (paradossalmente?) liberticida di ogni espressione autonoma e dissenziente. Le relazioni umane si trasformano in conflitto o si rifugiano in isole di resistenza, in micro utopie comunitarie e reticolari il cui potenziale di riterritorializzazione è inversamente proporzionale alla visibilità. Bollate con il marchio dell’antipolitica o contaminate dalle logiche mercantili non appena escono dalla condizione marginale, allargano la sfera delle relazioni e acquisiscono consensi. Idee e pratiche percepite come sovversive dell’ordine consumistico totalitario.
Oltre lo sconfinamento verso la riterritorializzazione
Che fare dunque di fronte a un quadro disgregato in cui le forze coesive hanno lasciato mano libera all’anomia, alla deterritorializzazione? La crisi in cui siamo precipitati finalmente apre gli occhi anche agli indifferenti (e sono consapevole dell’assurdità di questo "finalmente" che mette in luce la miopia di una società che si sveglia solo di fronte alle catastrofi). Che il modello consumistico e la globalizzazione che l’ha supportato abbiano prodotto frutti avvelenati diventa consapevolezza sempre più allargata.
Ora però bisogna trovare modi per uscire dal declino che cambino alla radice le logiche che hanno governato il mondo. Non sono possibili meri rattoppi, debbono mutare le concezioni di base che guidano l’economia. Piccoli aggiustamenti all’esistente non farebbero che prolungare l’agonia e produrre nuove e più profonde disparità.
Il tema della decrescita (Latouche, 2008), sinora osteggiato e irriso, comincia a trovare consensi. Quello che veniva giudicato pensiero utopico privo di reale applicabilità si è dimostrato capace di preveggenza e credo debba diventare il punto di vista da adottare per riprogettare i territori dell’infinita disgregazione urbana.
Bisogna però prima di tutto capire la nuova natura della città e chi siano i suoi cittadini. Se sotto il profilo morfologico dobbiamo constatare dispersione e polverizzazione, che ne è dei sistemi territoriali? in che misura e quanto in profondità la frammentazione ha intaccato i reticoli delle relazioni e la coesione che un tempo ne aveva fatto dei modelli organizzativi? come possiamo rianimare percorsi di cittadinanza condannati all’afasia? come invertire la rotta e indirizzarci verso la rigenerazione dei luoghi?
La tentazione è quella di volgere lo sguardo all’indietro, di guardare con nostalgia ciò che città e campagna sono state, azzerare il tempo e ripercorrere il cammino a ritroso. Ma se in alcuni casi, quando ad esempio si tratti di salvare documenti storici del percorso di lunga durata della costruzione paesaggistica, conservare diventa prioritario, se ci sono in gioco variabili umane la salvaguardia non può essere sola conservazione. Non si può cristallizzare ciò che nel frattempo è mutato, bisogna tener conto della diacronia delle trasformazioni antropologiche ed esistenziali. Il territorio, costruzione umana per eccellenza, non può sfuggire ai propri ritmi ed è da ciò che è diventato che bisogna ripartire. Sulla sua inarrestabile processualità va innestata la prospettiva della riterritorializzazione attiva, la riconfigurazione dei luoghi a partire dai soggetti e dal vivere conviviale. Progettando territori in cui l’umanità sia al centro della metamorfosi. Se i cittadini non si identificano nella città densa, nella sua insalubrità e anomia e tuttavia desiderano non rescindere i legami con l’urbano, si dovranno trovare soluzioni rispettose del cambiamento culturale e fondare un tipo nuovo di città, che sappia armonizzare e coordinare le diverse realtà ed esigenze. L’idea di città di città può rappresentare un embrione di ragionamento.
Bibliografia
ANCE, 2008, Osservatorio congiunturale sull’industria delle costruzioni, Roma, ottobre
Bauman Z. , 2008, Consumo, dunque sono, Bari-Roma, Laterza
Berdini P. , 2008, La città in vendita, Roma, Donzelli
Boatti G., 2008, L’Italia dei sistemi urbani, Electa, Milano
Carozzi C., 1980, Rozzi R, Suolo urbano e popolazione. Il processo di urbanizzazione nelle città padane centro-orientali, Milano, Angeli
Chartroux R. , 2008, Cercasi casa disperatamente, Milano, il Saggiatore
Choay F. , 2008, Del destino della città, a cura di A. Magnaghi, Firenze, Alinea
Clementi A., Dematteis G, Palermo P.C., a cura di, 1996, Le forme del territorio italiano. Temi e immagini del mutamento, Laterza, Bari
CRESME, 2008, Il mercato delle costruzioni 2009, Roma, ottobre
Dematteis G, Governa F., a cura di, 2005, Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità: il modello SLoT, Milano, Angeli
Gibelli M.C., Salzano E., a cura di, 2006, No sprawl, Firenze, Alinea
Hillman J. , 2004, L’anima dei luoghi, Milano, Rizzoli
Ilardi M. , 2004, Nei territori del consumo totale, DeriveApprodi, Roma
Indovina F., Fregolent L., Savino M., a cura di, 2005, L’esplosione della città, Bologna, Ed Compositori
La Cecla, 2008, Contro l’architettura, Torino, Bollati Boringhieri
Lanzani A., 2003, I paesaggi italiani, Roma, Meltemi
Magnaghi A., 2000, Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri
OMI, 2008, Nota informativa terzo trimestre 2008, Roma
OMI, Rapporto immobiliare, anni vari, Roma
Preve M., Sansa F. , 2008, Il partito del cemento, Milano, Chiarelettere
S. Latouche, 2008, Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, Bollati Boringhieri
Sassen S., 2008, Territorio, autorità, diritti, Milano, Bruno Mondadori
Secchi B. , 2005, La città del ventesimo secolo, Roma-Bari, Laterza
Società Geografica Italiana, 2008, L'Italia delle città. Tra malessere e trasfigurazione. Rapporto 2008., a cura di G. Dematteis, Roma
Turco A., 2003, Abitare l’avvenire. Configurazioni territoriali e dinamiche identitarie nell’età della globalizzazione, in "Bollettino della Società Geografica Italiana", pp. 3-20
Unione Europea, 2006, Urban sprawl in Europe, EEA Report, 10
Zanfi F., 2008, Città latenti. Un progetto per l’Italia abusiva, Milano, Bruno Mondadori
E’ una buona occasione, facciamoci del male
"…la boutade di Berlusconi prendeva la forma di un provvedimento reale, rozzo e diabolicamente demagogico. (…) Poi, come sempre succede in questi casi, è arrivato l’appello dei "padri (o zii) della patria" Aulenti, Gregotti, Fuksas. Appello che io, confesso, non sono riuscito a firmare. Non perché condivida l’impostazione del provvedimento del governo (…) ma perché mi pareva una buona occasione per sollevare una discussione intorno a una serie di questioni reali (…)"
Pippo Ciorra, "il manifesto", 24 marzo
Chi e’ lo zio
Tra Aulenti, Gregotti e Fuksas, chi è lo zio?
Lotta dura senza paura
"Può essere una risposta anticiclica importante, muovere alcuni punti di pil in un momento in cui il paese rischia grosso"
Francesco Rutelli sulla prima pagina del "messaggero" (quotidiano del costruttore Francesco Gaetano Caltagirone) del 23 marzo
"Il mondo cambia e sarebbe poco intelligente e controproducente rimanere fermi sulle leggi del passato senza tenere conto dei nuovi sviluppi della società"
Mario De Carlo, assessore all’urbanistica della Regione Lazio
"Evitare irrigidimenti e posizioni pregiudiziali, su un tema che potrebbe dare delle risposte concrete."
Filippo Maria Penati, presidente della Provincia di Milano
"Se il piano casa è serio non realizza scempi, permette una riconversione energetica, può essere una cosa che modernizza il paese, interessante, che rilancia l’economia"
Pier Ferdinando Casini
Dove abita il 60% degli italiani
"Infine, l’arretratezza delle nostre leggi e della nostra cultura urbanistica (lavoriamo ancora con la legge del ’42), ferma a un’impalcatura normativa pensata per centri storici, periferie di palazzoni e zone industriali quando invece il 60% degli italiani abita in casette sparse in aree indecise tra il rurale e l’urbano. Quelli appunto che aspettano con ansia il decreto Berlusconi".
Pippo Ciorra, " il manifesto" , 24 marzo
ROMA - La trattativa per superare l´impasse sul piano per l´edilizia continua. Ora si lavora a un percorso condiviso che potrebbe approdare anche a un decreto legge concordato con le Regioni. Il mandato del tavolo tecnico-politico, riunito nella sede del ministero degli Affari regionali, «prevede misure anti-cicliche, misure per il rilancio dell´edilizia, qualità del territorio e semplificazione», spiega il ministro Fitto. La scadenza per trovare un´intesa resta martedì prossimo.
L´ipotesi di un decreto è sul tavolo, ma le Regioni hanno chiesto di ragionare insieme su un testo che contenga misure per semplificare le norme nazionali. E di questa linea avrebbero discusso in serata, il premier Berlusconi, con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Letta, il ministro delle Infrastrutture Matteoli e il responsabile del dicastero degli Affari regionali, Fitto.
Le trattative proseguono con l´obiettivo arrivare all´approvazione di un pacchetto che preveda anche misure anti-cicliche sull´ampliamento delle abitazioni. Berlusconi punta a un decreto che abbia effetti rapidi sul settore edile e serva da volano per l´economia. Con la mediazione di Fitto l´esecutivo potrebbe seguire uno schema simile a quello usato nella trattativa sugli ammortizzatori sociali. E quindi puntare a un decreto legge "light", da cui sarebbero stralciati i passaggi più controversi della bozza bocciata dalle Regioni, affiancato da un accordo vincolante con Regioni e autonomie locali che indichi i paletti per le leggi regionali.
Un´altra strada, preferita dalle Regioni, è quella di un atto di indirizzo del governo, dove dovrebbero essere inserite una serie di misure per facilitare e velocizzare l´iter per interventi di edilizia, seguito dopo due o tre mesi da leggi regionali che si adattino a quelle esistenti.
Il bilancio alla fine della prima giornata di trattative, dove non sono mancati i momenti di tensione seguiti alle dichiarazioni del premier di accelerare sul dl, è affidato a un comunicato congiunto governo-Regioni diffuso dal ministro degli Affari regionali: «Stiamo lavorando a un percorso condiviso sulla base del mandato emerso nel corso della Conferenza unificata, insieme con Errani». E prosegue: «La giornata di oggi ha indicato possibili valutazioni congiunte, che stiamo portando avanti. Rimane la data di martedì come scadenza per chiudere. Riteniamo che lavorando in questo modo si possa arrivare a una soluzione condivisa». Al tavolo tecnico politico si è discusso anche di housing sociale, le abitazioni low cost per giovani coppie e famiglie a basso reddito, cioè del "vero piano casa" del governo, su cui le Regioni vorrebbero accelerare.
Intanto ieri il Consiglio nazionale dell´Anci ha deciso che sosterrà quei comuni che si trovano in una situazione di crisi e decideranno di non rispettare i vincoli stabiliti dal patto di stabilità interno per il 2009.
Perché Berlusconi insiste ogni giorno sul suo camaleontico, pasticciato piano casa? Perché ha una testa da immobiliarista e non vede altro che il mercato privato, tante Milano 2. Perché è fermo all’800, al “bâtiment qui va”. Perché non sa come rianimare una economia in crisi profonda che lui chiama “influenza da virus americano”. E teme che si allunghi. Perché, coi due condoni precedenti, ha perfettamente capito che la maggioranza degli italiani se ne frega delle norme urbanistiche, del paesaggio, dei centri storici e vuole soltanto aggiungere stanze, coprire terrazze e balconi, alzare nuovi piani abusivi. Un popolo di “padroncini” aspiranti-padroni, a spese degli altri e dell’interesse generale. Per questo insiste sul decreto legge ed attacca il Parlamento, “irridendo il lavoro dei parlamentari” (parole di Gianfranco Fini).
Berlusconi non sa o finge di non sapere che mancano alloggi a basso prezzo o a basso canone per giovani coppie, immigrati, anziani soli (un quarto di tutti i romani), che questa è la sola domanda edilizia realmente esistente. Per essa Pd e Cgil, associazioni ambientaliste sollecitano un grande piano di recupero, restauro e riutilizzo, sotto regìa pubblica, di interi quartieri degradati, di comparti semivuoti o abbandonati, di edifici pubblici e privati. Senza consumare un metro quadrato di terreni liberi, verdi o agricoli.
Se le Camere sono inciampo, figuriamoci le Regioni. Ma qui anche il premier deve fermarsi, pur scalpitando. La competenza in materia è, da anni, regionale e le Regioni possono sbarrargli il passo ricorrendo alla Corte costituzionale. Non gradiscono per niente (come Napolitano) il decreto legge, né piace loro la legge-quadro. Sono per un semplice atto di indirizzo da tradurre poi in leggi regionali, con l’obiettivo di rendere più veloci e più semplici le pratiche. Attenzione però a non accedere all’idea berlusconiana di edificare in zone di pregio paesaggistico chiedendo alle Soprintendenze (stremate dai tagli in atto e impoverite nel personale tecnico) di dare un parere entro 30 o 60 giorni, il che equivarrebbe ad un disastroso silenzio/assenso. Attenzione a non sposare il progetto berlusconiano di abolire il permesso di costruire sostituendolo con “autocertificazioni” o con la sola dichiarazione di inizio attività (dirompente incoraggiamento ad ogni sorta di abusi).
C’è pure chi ritiene che il cosiddetto piano casa di Berlusconi sia un non senso economico. L’Italia viene da sette anni di “boom” ininterrotto e sul mercato vi sono non poche case tuttora invendute. Immettervi altre stanze o alloggi – ottenuti allargando, coprendo, gonfiando, ecc. – deprimerebbe ulteriormente prezzi e valori di mercato. L’economista Paolo Manasse, su lavoce.info ha calcolato – quando Berlusconi straparlava di incrementi di cubature, cedibili ai vicini, del 20 % - che lì per lì vi sarebbe un impatto sui 22 miliardi. Tuttavia, incrementando del 20 % circa l’offerta di case, si ridurrebbero le quotazioni del mercato. Inoltre, il nuovo drenaggio di risparmio verso il cemento rattrappirebbe i consumi delle famiglie fra i 15 e i 34 miliardi. Effetto economico, vicino allo zero. “In cambio di case brutte”, concludeva Manasse. Che tragedia per il Belpaese