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Autostrade oggi e ieri. Oggi si parla molto di unità e disunità d’Italia ma ho l’impressione che la vera unità d’Italia fu proclamata cent’anni dopo la data ufficiale, intorno alla prima metà degli Anni Sessanta, quando il governo democristiano inaugurò l’Autostradadel sole.Prima si viaggiava meno, e sulle strade a due corsie si correva meno, si beveva meno, e si moriva meno. Se l’Autostrada del sole ha semplificato un itinerario che prima era spezzettato e tortuoso, questa semplificazione ha portato per il guidatore monotonia, un nastro d’asfalto sempre uguale davanti agli occhi, tendenza a premere sull’acceleratore e dunque pericolo maggiore.

Contrappunto 1 – Il motivo principale per cui si viaggiava meno, nei cosiddetti bei tempi andati, è che eravamo tutti più poveri, e ci si spostava solo per seri e gravi motivi. L’equazione appare semplicissima: meno persone per strada, meno incidenti, ecc. ecc. Anche il mitico film “Il Sorpasso” racconta una vicenda del tutto elitaria: il modello di Lancia Flaminia guidato da Gassman era meno diffuso ai tempi di quanto non lo siano ai nostri giorni le Ferrari. Dunque qualsiasi paragone è improprio, ivi compresa la faccenda del “bere meno”, che sarebbe una vera e propria sciocchezza se non ci fosse la licenza poetica.

L’incidente sull’autostrada è assurdo e più devastante della morte in una guerra perché questa almeno è nell’ordine delle cose prevedibili ed è riservata al singolo combattente, mentre quella sull’autostrada colpisce imprevedibilmente e a tradimento un’intera famigliola che se ne sta andando spensieratamente in vacanza. Quando per andare da Napoli a Milano si percorreva la Domiziana, e poi la Cassia con la curva di Radicofani, e dopo Firenze, la Futa, il viaggio era lungo e tortuoso, c’erano più svolte e risvolte, più dislivelli, solo due corsie, ma più attenzione, più paesaggi in vista, menoincidenti. Non voglio fare l’elogio del bel tempo che fu perché è certo che oggi si fa più presto, c’è più comodità e le distanze non creano problemi, ma tutto si paga.

Contrappunto 2 – La Capria prova giustamente a precisare di non voler “fare l’elogio del bel tempo che fu” ma in qualche modo ci ricasca, nel quando si stava peggio si stava meglio. Da Napoli a Milano in macchina, passando per la Domiziana, la Cassia ecc. era prima delle autostrade un viaggio a malapena reso meno arduo dalla sparizione dei briganti con cappellaccio e trombone, ivi compreso il mitico Ghino di Tacco da Radicofani.

Indiscutibile, certo, che una maggiore integrazione delle autostrade col territorio saprebbe recuperare e valorizzare molto di quanto pur bizzarramente sostenuto. Lo diceva un ex presidente della Società, Mario Virano, puntualmente inghiottito da qualche rettifilo ipnotizzante …



Oggi il numero delle automobili è aumentato in modo eccessivo e anche la qualità. Una volta superare i cento chilometri orari era considerato un azzardo, oggi i centoquaranta sono sconsigliabili ma piuttosto abituali. Ho letto in un racconto di Faulkner che un personaggio andava «alla folle velocità di settanta chilometri all’ora ». Eravamo negli Anni Venti. Oggi quei settanta all’ora fanno ridere. La percezione della velocità è cambiata, e rispetto a quei settanta si può direche è raddoppiata. Il sorpasso al l’epoca delle due corsie era «una manovra », ci si «preparava» al sorpasso. Oggi il sorpasso è premere un po’ più il piede sull’acceleratore.

Contrappunto 3 - Continua imperterrito il “come si stava meglio …”, in questo caso prendendosela ad esempio coi poveri operai della Fiat che sono riusciti un centesimo alla volta a comprarsi, una generazione più tardi, almeno una imitazione del bolide di Gassman. Macché: tutta colpa loro questo “aumento eccessivo”, che tornassero su quei bei treni del sole, con la folkloristica valigia di cartone e la damigiana a carico con venti litri di olio genuino del paese …

La jalopee (termine slang usato durante la Depressione per definire le vecchie carrette mangia olio) di Faulkner con tutta probabilità caracollava pericolosamente tra le buche della via del tabacco, mica sotto i pini dell’Aurelia. I risultati di questa epoca d’oro li potete vedere anche online nel film-documentario The City ,curato da Lewis Mumford (Parte 2, ci si arriva dal link Città Visibili in alto a destra su Mall), dove i morti in incidenti stradali abbondano. Anche perché (forse) i “70 all’ora” erano espressi in miglia. O no?



E poi i tir, gli enormi mostruosi schiaccianti tir stracarichi, col guidatore che per rispettare i tempi è costretto a viaggiare per ore fino allo sfinimento, quei tir in fila interminabile e minacciosa, una volta non c’erano, non erano un incubo. Oggi sì, la fila interminabile, senza soluzione di continuità si allunga minacciosa di lato al la tua corsia. Sembra a volte che l’autostrada l’abbiano costruita per loro, per questi tir, privilegiando il trasporto su ruote a quello ferroviario. E non parliamo di quello che i tir portano, chissà quali sorprese ci riserverebbe. Infine quello che è accaduto in questi giorni sulla forcella di Mestre non avrebbe potuto accadere.

Contrappunto 4 – Una nota personale. Ho abitato per i primissimi anni della mia vita, più o meno fino alle elementari, in una villetta affacciata su una importantissima statale che collegava la città principale al suburbio industriale. In quell’epoca d’oro, oltre alle autostrade non erano neppure tanto di moda, salvo che in pochi capoluoghi, le circonvallazioni. Così tutto il traffico (succede ancora adesso, nei regni di generazioni di sindaci omissivi o sfigati) attraversava l’abitato, strusciando le fiancate su siepi e tende dei negozi. Posso assicurare che, con l’aggiunta di musi rostrati, cofano bivalve ed eruzioni di fumo da Krakatoa, i camion c’erano anche allora, tanti, tantissimi, e chissà cosa portavano, a partire ad esempio dai lastroni di eternit, già individuato come sicuramente cancerogeno sin dall’epoca d’oro degli anni Venti ….

Una volta erano rari l’ingorgo e la coda, non c’eran tante automobili tutte dirette in una sola direzione in montagna o al mare, non c’era la coda per il solito incidente che bloccava tutto anche quando la causa era irrilevante. Si, è vero, oggi l’Italia è diventata più corta, la lunghezza dello stivale non è più un così notevole svantaggio rispetto alla forma geografica del le altre nazioni europee, questo svantaggio, anche economico è diminuito. Ma come ho detto in molti modi lo abbiamo dovuto pagare.

Contrappunto finale – La nota personale qui diventa addirittura doppia. Si andava in vacanza, quando si andava, pochi giorni dalla nonna in campagna. La stessa idea di vacanza nell’Italia ancora in maggioranza contadina era qualcosa di simile alle tette in barca di oggi: se ne legge parecchio nell’anticamera del dottore o del parrucchiere, ma poi sono in pochi a sventolarle. Per la coda, ricordo quelle infinite della domenica pomeriggio, con la mamma che mi spiegava “sono i milanesi che tornano dopo aver mangiato il gelato sul lago”. Anche loro la pagavano, e anche noi, costretti prima a respirare quei fumi di potente benzina italiana (piacentina all’1%) al piombo, e poi a scoprire che invece stavamo benissimo, come ci spiegano certi nostalgici articoli.

Il che non toglie che chi pianifica, progetta e costruisce autostrade, nonché chi prende le decisioni strategiche sulla mobilità e l’insediamento nel nostro paese, potrebbe fare infinitamente di meglio: su questo non c’è dubbio. (f.b.)

Galan e Tondo contro l’Anas che dispone l’ispezione: «Patetica sceneggiata». Radicali e Pd contro il centrodestra: «Blocco prevedibile». Ancora Galan contro i media e la commissione Via, che rilancia.

Continuano le polemiche, nel day-after del maxi ingorgo nel quale sabato sono finiti imbottigliati centinaia di migliaia di automobilisti.

«Non colgo il senso dell’inchiesta disposta dal presidente dell’Anas Pietro Ciucci - osserva Renzo Tondo, presidente del Friuli Venezia Giulia e commissario per la terza corsia della A4 - Le code sono l’ovvia conseguenza del fatto che il Passante è a cinque corsie, e l’A4 Venezia-Trieste è a due». Rincara la dose il collega veneto. «L’Anas faccia pure quello che ritiene di dover fare - osserva Giancarlo Galan - Ma quello che l’Anas considera un atto dovuto a me ricorda una patetica sceneggiata. Restiamo in attesa invece di tutti quei sostegni finanziari e di quelle scelte politiche capaci di risolvere i problemi infrastrutturali: Pedemontana veneta, nuova Romea da Mestre sino a Civitavecchia e l’alta velocità e capacità ferroviaria». E il «suo» assessore Renato Chisso «richiama l’attenzione e le responsabilità su chi negli anni 2006-2008 si è opposto fermamente alla nomina del commissario per far partire i lavori della terza corsia».

Galan ne ha anche per i media. «Un amico incappato in un blocco stradale a Francoforte dopo ore di attesa non ha visto nè Protezione civile nè inviati di qualche giornale in cerca di lamentele e bestemmie. Qui da noi, invece, servizi, paginate, articoli, interviste. Chissà perchè?». E addebita agli «ambientalisti ministeriali e locali» la mancanza di aree di ristoro lungo i 32 chilometri. Pronta la replica di Andreina Zitelli, componente della commissione Via. «Ricordo che la commissione che nel 2003 assogettò il Passante a procedura speciale di valutazione d’impatto ambientale era nominata dal ministro Matteoli, governo Berlusconi - ribatte Zitelli - Quanto alle aree di ristoro venne bocciata un’area di sosta prevista vicino a una villa di Mirano, tutelata dai Beni culturali. Nulla vietava che se ne prevedessero altre. Se per la fretta non si è fatto non è colpa della commissione Via».

Per la senatrice del Pd Franca Donaggio, quello che è successo sabato sul Passante di Mestre era «facilmente prevedibile». «Il fatto che si siano attivati per la terza corsia sulla Venezia-Trieste solo dopo l’ennesimo incidente con dimensioni catastrofiche dello scorso anno - attacca Donaggio - dimostra che non hanno poi quella lungimiranza politica decantata fin troppo spesso». Critico anche Michele Bortoluzzi (Radicali). «Il Passante è un’opera non terminata, non ancora pronto a svolgere il suo lavoro - conclude - La sua inaugurazione pre-elettorale, salutata dal peana di troppi, è stata solo un effetto ottico».

Postilla

Anche sulla stampa la verità comincia ad emergere. Tentano di indicare i colpevoli negli ambientalisti: quelli “ministeriali” e quelli “locali”, come li classifica Galan.

Per i “ministeriali” risponde Andreina Zitelli, che ricorda come quel progetto fosse stato bocciato (da una commissione VIA istituita dal ministro Matteoli del governo Berlusconi) perché era previsto in un’area protetta. Perché non hanno presentato un progetto diverso? La fretta: velocizziamo, e freghiamocene del resto.

Per i “locali” hanno risposto ieri, sueddyburg, Mariarosa Vittadini e Carlo Giacomini. Avevano da tempo criticato gli errori del Passante, li trovate puntualmente elencati, e qualcuno comincia ad emergere nei giornali. Non ha senso rafforzare un segmento di una rete indipendentemente dalle condizioni della rete. É sbagliato privilegiare gli interessi aziendali rispetto a quelli generali. É sbagliato irrigidire le soluzioni adottando sistemi chiusi invece di sistemi aperti al territorio, più flessibili in caso di emergenze temporanee. É sbagliato saltare i controlli e tagliare le procedure istituendo commissari dotati di pieni poteri.

Infine, qualcuno comincerà a domandarsi perché la costruzione della terza corsia della tratta Mestre – Trieste, prescritta dalla concessione prorogata trent’anni fa, non è stata realizzata? Giacomini, su eddyburg, ha dato le risposte. Qualcuno verificherà gli atti della concessione?

eddyburg.it

Una storia esemplare

di Mariarosa Vittadini

L'entusiasmo per la rimozione del collo di bottiglia è durato poco. 30 chilometri di coda sul passante di Mestre nuovo di zecca nel grande esodo di agosto stanno lì a dimostrare l'inanità della rincorsa infrastrutturale a problemi che non possono avere una risposta solo infrastrutturale. Quanti successivi colli di bottiglia? dove finisce la bottiglia? 10 chilometri di coda alla barriera del Lisert, sulla stessa direttrice, ma altrettanti chilometri verso la Svizzera a Como e, c'è da giurarlo, sulla Salerno-Reggio Calabria o alle uscite verso le spiaggie romagnole.

I manuali americani (che stanno base della cultura ingegneristica italiana) dicono che occorre dimensionare le infrastrutture per far fronte alla "trentesima ora di punta" ovvero quella quantità di traffico che non viene superata per più di trenta volte l'anno. Andare oltre significa costruire capacità inutile, sprecare denari e ambiente. Dunque, con buona grazia del coro (ampio per la verità) che trae occasione dall'accaduto per rivendicare nuove autostrade, nuove pedemontane, nuove corsie, aumentare la capacità stradale per l'esodo d'agosto è una eminente sciocchezza.

Ciò non significa che occorra rassegnarsi all'incivile spettacolo di ieri.

Escluso il potenziamento infrastrutturale cosa si poteva e si doveva fare?

Innanzi tutto informare. Nell'epoca delle conclamate "strade intelligenti", nell'epoca delle tecnologie dell'informazione nessun messaggio orientativo è stato dato agli ignari automobilisti per evitare di imbottigliarsi. Bella differenza con le strategie e le tecniche di ramp metering con le quali in paesi più civili del nostro si dosano le entrate in autostrada sul presupposto di dover garantire al "cliente" ragionevoli livelli di servizio. Taluni giornali riferiscono persino che la vecchia tangenziale manteneva amplissimi margini di capacità non utilizzata. Ma tant'è: avvertire di non entrare o di uscire quando si è ancora a tempo significa, per le concessionarie, perdere entrate da pedaggio. E dunque non si fa, anche quando ci sarebbero i mezzi tecnici per farlo.

In secondo luogo occorre ammodernare radicalmente la rete autostradale introducendo ultramature tecnologie di riconoscimento telematico dei veicoli e di esazione automatica del pedaggio, che consentono di moltiplicare le connessioni con la rete ordinaria, di evitare caselli e rallentamenti. Con l'avvertenza che per funzionar bene la capacità autostradale deve essere coerente con la capacità della rete ordinaria; le strade ordinarie devono essere in grado di ricevere i flussi in uscita e anche di far fronte alle emergenze come quella di ieri.

Per l'emergenza occorre predisporre piani capaci di mettere d'accordo enti locali, concessionarie, aziende di trasporto al fine di predisporre le misure per utilizzare l'intera capacità (autostrade più viabilità ordinaria) con i minori inconvenienti possibili (pericolosità, inquinamento, ecc,). Piani difficili dunque dal punto di vista politico e istituzionale, ma resi ancor più difficili dalle caratteristiche di una rete autostradale pensata per massimizzare il pedaggio.

Le misure per l'emergenza, ma anche quelle per il razionale utilizzo quotidiano delle reti, confliggono oggettivamente con la struttura di uscite rade e lontane tra loro e con l'assenza di intermedie vie di fuga di sicurezza. E confliggono con problemi della viabilità ordinaria nella gran parte dei casi sovraccarica di domanda locale consegnata alla strada anche dall'enorme ritardo delle città italiane in materia di trasporto pubblico locale.

Occorrerebbe un governo unitario della rete stradale, di tutta la rete, autostrade, strade statali e strade regionali comprese, come era stato proposto dal compianto Piano generale dei trasporti rapidamente affossato dalla Legge obiettivo e dalla bulimia infrastrutturale (promessa) che ne è conseguita. Un governo che manca così come manca un credibile governo del sistema dei trasporti, oggi frammentato in potentati settoriali tra loro concorrenti e conflittuali. Come stupirsi dunque della endemica inefficienza del sistema, della scarsa coerenza tra i pur costosi interventi infrastrutturali, dell'uso inefficace delle risorse e della resistenza corporativa ad introdurre una buona volta tariffe di efficienza in sostituzione delle tariffe di (improbabile) finanziamento della infrastruttura? La completa assenza di diagnosi sulla reale natura dei problemi non lascia ben sperare per un futuro meno assurdamente difficile della giornata trascorsa ieri sul Passante di Mestre.

eddyburg.it

Errori di sistema ed errori di progetto

intervista a Carlo Giacomini

Carlo Giacomini è un esperto in infrastrutture del traffico e ha lavorato molto sul sistema della mobilità, in particolare nel Veneto. Ha collaborato con puntuali relazioni alla critica dei piani provinciali e regionali, in particolare al piano regionale dei trasporti e al recente Ptrc del Veneto. Chiediamo il suo parere sullo scandalo del giorno: la crisi del nuovissimo Passante di Mestre, inaugurato da Silvio Berlusconi e Giancarlo Galan pochi mesi or sono. Secondo la stampa il passante è entrato in crisi perché si è creata una strozzatura quando il traffico dal nuovo Passante (3 corsie) e la vecchia tangenziale (2 corsie) si è immesso nella A4 in direzione Trieste (2 corsie).

Giacomini, ma è possibile che qualcuno abbia potuto progettare un sistema nel quale la sezione si riduce istantaneamente da cinque corsie a due corsie?

“La questione principale non è questa. Bisogna fare una premessa: non si possono progettare le autostrade rincorrendo la domanda dei giorni e delle ore di punta. É l’errore si è fatto per il Passante di Mestre e che si è fatto e si sta facendo per qualunque altra infrastruttura dal Ponte sullo Stretto alle autostrade che si stanno progettando (per esempio quelle dolomitiche) ai raccordi autostradali (per esempio quello di Mestre)

Come si fa allora a risolvere il problema del maggior traffico nei periodi di punta?

“Bisogna intervenire sulla domanda, bisogna regolare la domanda di traffico limitando quello che si prevede siano i picchi, sia del traffico veicolare sia ambientali. Le moderne tecnologie consentono di farlo in molti modi. Già oggi, per esempio con la tariffazione differenziata: se nei momenti di cui sono previste punte di traffico la tariffa è triplicata, l’automobilista lo sa e quindi si regola. In prospettiva ravvicinata si può ricorrere anche alla prenotazioni via internet (come avviene per le ferrovie) ed ad altri strumenti analoghi. Altrimenti le autostrade non basteranno mai: ogni crisi anche momentanea provocherà un aumento della sezione, ogni allargamento in un punto giustificherà l’allargamento di altri pezzi della rete”.

Veniamo al Passante di Mestre. Oggi, vista la strozzature che si è manifestata, la richiesta è di portare a tre corsie l’autostrada A4 verso Trieste.

“Questo è un vero scandalo. La costruzione della terza corsia era prescritta fin dal rinnovo della concessione negli anni 80. Perché non è stata realizzata? Perché nessuno ha contestato alla società concessionaria questa vistosa inadempienza?”.

Ci sarà stata l’opposizione degli ambientalisti…

“Chi lo dicesse direbbe una balla. Ho seguito la cosa fin dall’inizio, e non c’è mai stata la minima critica da parte di nessuno. Ma è comodo attribuire la colpa agli ambientalisti. La verità è che queste inadempienze delle società concessionarie derivano da mere speculazioni, calcoli basati sull’interesse aziendale , spesso in contrasto con l’interesse pubblico. Rinviare di decennio in decennio la terza corsia consente alla concessionaria di rinegoziare l’ulteriore proroga, e nel frattempo di non adeguarsi alle normative per la sicurezza: sulla Mestre-Trieste non hanno adeguato i guardrail e questo continua a provocare incidenti e morti. Dare le opere in concessione è una scelta delicatissima, che può provocare problemi anche gravi”.

Eddyburg ha spesso criticato il trasferimento di competenze dal pubblico al privato, soprattutto dove ci sono o si creano posizioni di monopolio: questo ce l’avevano insegnato economisti liberali, come Luigi Einaudi. Soprattutto dove lo Stato è debole e la pubblica amministrazione è considerata la cenerentola anzichè lo strumento essenziale dell’interesse pubblico. Ma il pensiero comune spera almeno che gli interessi aziendali privilegino la qualificazione tecnica degli interventi. Qui, invece, sembra che siano stati commessi pesanti errori di impostazione e tecnici.

“C’è un errore di fondo, ed è aver privilegiato un segmento (il tratto a cavallo di Mestre) sull’insieme della rete e del suo equilibrio, e di aver privilegiato una esigenza (velocizzare il traffico di lunga percorrenza) sulle esigenze complessive del traffico. Lo stesso dimensionamento del Passanta è stato fatto in relazione a una previsione di traffico che ci sarà solo in una prospettiva molto lontana nel tempo, che richiederebbe un potenziamento complessivo della rete. E chiaro che finchè questa condizione non si realizzerà e si rafforzerà solo un segmento il complesso della rete andrà in crisi”.

Oltre a questo errori di fondo ci sono anche degli errori tecnici?

“Certamente, e anche questi li avevamo argomentatamente contestati in un’osservazione che avevamo presentato al progeto del Passante come Ecoistituto Alexander Lange. É sbagliata, per esempio, la progettazione dei nodi tra il Passante e il resto della rete. Ma c’è un altro errore, un’altra critica di cui ciò che è successo ha dimostrato la giustezza: è stato un errore di progettare i 30 km del passante come un’autostrada con il sistema chiuso, e non un’arteria a sistema aperto, sempre a pedaggio ma con un sistema diverso e con più possibilità d’entrata e d’uscita: come la stessa provincia aveva chiesto, come è adoperato nella Vecchia tangenziale di Mestre e in quella di Milano, Torino a altri segmenti”.

Già. In effetti i tecnici dell’autostrada hanno invitato gli automobilisti a scegliere la Tangenziale come alternativa al Passante.

“Un’autostrada a pedaggio aperta al territorio, oltre tutto, è molto più utile ai cittadini e offre a tutti maggiori garanzie di sicurezza: puoi uscirne più facilmente, puoi reagire meglio ai momenti di crisi o di difficoltà. Più utile e più sicura per le persone, anche se forse pone qualche maggiore difficoltà di gestione (e quindi torniamo al contrasto d’interessi tra pubblico e concessionaria). A proposito di persone vorrei fare un’altra osservazione. Il blocco del Passante ha provocato danni molto consistenti ai numerosissimi abitanti delle aree attraversate: c’è stato un forte aggravamento dell’inquinamento atmosferico e di quello acustico”.

Non si era fatta la valutazione d’impatto ambientale (VIA) sul progetto dell’autostrada?

“Certo ma, come abbiamo puntualmente rilevato nell’osservazione, la VIA è stata fatta male. Intanto, il dimensionamento della sezione è fatto sulle punte di traffico, mentre le previsioni ambientali trascurano le giornate critiche. E poi non è stato considerato l’impatto sul sistema idraulico, che è gravissimo e prima o poi presenterà il suo conto. Il Passante ha un fortissimo debito ambientale, sul versante atmosferico, acustico e idraulico”.

Questo debito aumenterà ancora se saranno realizzate le previsioni del Piano territoriale regionale di coordinamento, il “Piano territoriale regionale di cementificazione”, come l’abbiamo ribattezzato.

“Come ricorderai abbiamo messo pienamente in evidenza il peggioramento che deriverà al traffico, all’inquinamento, al degrado territoriale e ambientale sulla Tangenziale (che tornerà alla drammatica situazione del passato) e sull’autostrada verso Padova, se se si realizzeranno le “nuove città” (Veneto City, Marco Polo City) e gli altri insediamenti lungo la rete autostradale previsti da quel piano”.

Un’ultima domanda. Lo snellimento del traffico su gomma attorno al nodo di Mestre e stato oggetto di numerose proposte, sulle quali si è discusso per anni. Poi è stato istituito un commissariato per tagliare il nodo gordiano e giungere rapidamente a una soluzione. A me sembra che ci sia una relazione tra questa decisione e la crisi di ieri.

“Sono pienamente d’accordo. Il commissario raggiunge l’obiettivo che gli si affida come quello primario, ma non tiene conto del complesso delle relazioni e delle condizioni. Il territorio è una realtà complessa, ogni decisione coinvolge moltissime questioni, che sono reali, non possono essere ignorate. Privilegiarne una significa sacrificare tutte le altre. E allora, per velocizzare il traffico dal punto A al punto B si sacrifica tutto quello che c’è in mezzo: dal traffico tra i punti intermedi, dall’equilibrio complessivo della rete, fino alle varie componenti dell’ambiente e alle condizioni di vita delle popolazioni. Per rendere rapidamente efficaci le decisioni si tagliano tutti i passaggi procedurali, ignorando che ciascuno di essi è garanzia di un aspetto che esiste nella realtà e, se sarà trascurato, si vendicherà. Purtroppo in questo senso la crisi del Passante è l’anticipazione di ciò che succederà in molte altre situazioni, visto che il metodo del commissariamento sempre essere quello che Brlusconi predilige, e gli altri non gli contestano. É significativo che, contestualmente alla denuncia della crisi del Passante, la stampa locale abbia dato la notizia che la Regione, per la Pedemontana e per la Caamionale dei Brenta ricorrerà al commissariamento e taglierà corto con le critiche, le opposizioni e le contestazioni di legalità.”.

Del resto lo stesso presidente del consiglio ha minacciato, pochi giorni fa, che le autostrade si faranno nonostante le proteste delle “minoranze organizzate”. E calpestare la legalità privilegiando il decisionismo rispetto alla democrazia è diventato norma nel nostro paese.

Chiunque può pubblicare questi articoli alla condizione di citare gli autore e la fonte ( http://eddyburg.it)

Il secondo scudo fiscale, e cioè il ritorno dei capitali illegalmente esportati all’estero, fu preparato dal ministro Tremonti nel 2001. Rientrarono circa 80 miliardi di euro e non furono utilizzati per investimenti produttivi. Lo disse pure un berlusconiano di ferro come Vittorio Feltri che qualche anno dopo, nel 2005, scrisse che quei soldi erano andati ad ingrassare la rendita immobiliare, grazie ai provvedimenti di abbattimento di ogni regola urbanistica.

Oggi sta per essere varato il terzo scudo fiscale. Come indirizzare questo altro fiume di soldi nella rendita immobiliare deve essere stato un rompicapo anche per i disinvolti economisti di via XX Settembre. L’Istat ha infatti certificato che dal 1995 (quando riprese il ciclo edilizio dopo Tangentopoli) al 2006 sono stati costruiti oltre 3 miliardi di metri cubi di edilizia. Il 40%, e cioè 1 miliardo e 300 milioni, di questa mostro di cemento è costituita da case: due milioni e mezzo di nuove abitazioni, mentre il numero delle famiglie italiane è cresciuto soltanto di poche decine di migliaia. Ci sono dunque tante case vuote, circa due milioni. Chi mai investirebbe in nuove edificazioni?

Ma ecco la trovata geniale. Due mesi fa, Berlusconi in persona anticipò il meccanismo con cui si sarebbe aperta una nuova fase di alimentazione della rendita fondiaria. Ogni edificio poteva aumentare la propria cubatura del 20 o del 35 %. Tutti felici? A dire il vero molti no: tutti i proprietari di case in condominio, la stragrande maggioranza delle famiglie italiane, che rimanevano esclusi dal regalo. Alcuni felici, ma moderatamente, e cioè i possessori di ville e case unifamiliari, parte consistente dell’elettorato di centro destra.

Solo i soliti pochi noti potevano brindare ad un nuovo gigantesco arricchimento sulle spalle della collettività. Le grandi proprietà immobiliari; le grandi catene dei supermercati sempre più in difficoltà; le grandi catene di alberghi; i proprietari di grandi fabbriche dismesse. Loro si, date le dimensioni degli immobili, che potevano arricchirsi enormemente. Solo un esempio. Nelle foto si vede come le Assicurazioni Generali, uno dei pilastri del capitalismo italiano, abbiano pensato bene di sperimentare il funzionamento del generoso regalo del governo. In questi giorni è stato smontato il cantiere del restauro degli uffici di via Bissolati, nel cuore del centro antico di Roma, ed è apparso un piano in più! Come se la legge fosse già in vigore e valesse anche per i centri storici. Un abuso in piena regola, ma facciamo i conti in tasca alla “classe dirigente”. Supponiamo che siano stati realizzati 300 nuovi metri quadrati con immenso terrazzo con vista su Roma. Al valore di mercato l’Ina mette all’incasso oltre 5 milioni di euro di rendita parassitaria. Viva Berlusconi, dunque! Se poi le città diventano più brutte e volgari, se il paesaggio viene calpestato, se le campagne sono cementificate, non è cosa che li riguarda.

La dimostrazione della direzione classista del governo si trova poi confermata anche nel secondo dei provvedimenti, il cosiddetto “piano casa”. La precisione con cui sono stati calcolati gli arricchimenti dei pochi grandi proprietari con il primo annuncio, diventano approssimazioni e aria fritta nella seconda legge. Sono infatti previsti 550 milioni di euro in cinque anni per risolvere l’emergenza abitativa e risolvere la crisi economica del settore edilizio. E’ stato detto che con quella somma verranno realizzate 100 mila abitazioni. Per ogni abitazione si prevede allora di spendere 5 mila e 500 euro! La cifra è così palesemente ridicola che già in sede di presentazione si è dovuto correre ai ripari. Ha affermato il ministro Matteoli che quello stanziato è soltanto il contributo pubblico. Saranno i privati a correre ad investire –ci metteranno 3 miliardi di euro- nel previsto “hausing sociale” .

Purtroppo per l’Italia l’opposizione è temporaneamente liquefatta e questa panzana non è stata ridicolizzata come si doveva. Bastava citare i molti i libri che hanno analizzato le cause della crisi immobiliare statunitense. Ad esempio, La valanga di Massimo Gaggi racconta in un paragrafo gli esiti dell’hausing sociale negli Stati Uniti: soldi pubblici che hanno gonfiato le tasche degli speculatori e hanno lasciato senza casa la povera gente. Anche in quel paese l’hausing sociale è stato abbandonato. In tutta l’Europa occidentale si è continuato a costruire alloggi pubblici. In Spagna il governo sta acquistando una parte del gigantesco stock invenduto per farne alloggi pubblici. Da noi, si vuole continuare nella commedia. L’unico modo per risolvere il problema della casa è dunque quello di saper declinare oggi un nuovo ruolo dello Stato. E’ la mano pubblica che nei momenti di crisi deve saper indicare una prospettiva di grande respiro.

Un compito di straordinaria importanza che potrebbe essere inaugurato dalle Regioni. E qui veniamo al terzo capitolo dei provvedimenti sull’edilizia, perché proprio le Regioni avevano rivendicato la podestà legislativa in materia e hanno iniziato ad approvare leggi che declinavano la volontà governativa di consentire aumenti volumetrici ai proprietari di immobili. E le regioni di centro destra si stanno scatenando, Veneto e Sardegna in prima fila. Purtroppo, anche le regioni progressiste hanno scelto la stessa filosofia berlusconiana. Nel Piemonte che approvò nel 1977 la prima rigorosa legge regionale sull’urbanistica, si consente oggi ai proprietari di fabbriche di demolire e ricostruire altrove con un premio di cubatura del 50%. Altra rendita speculativa. Nel Lazio la giunta regionale ha approvato un disegno di legge che si basa proprio su quell’housing sociale abbandonato nel mondo. Addirittura si vogliono rendere edificabili i terreni destinati a servizi pubblici e verde “quando eccedono la quota minima prevista dalla legge”.

E proprio questo è il migliore epitaffio –se non verrà cancellato- per la stagione riformista dell’urbanistica pubblica. La storica legge sugli standard del 1968 prevedeva, come noto, una quota minima di aree da destinare a servizi. Ogni amministrazione comunale poteva aumentarle perché perseguiva un legittimo obiettivo sociale. Oggi quella stagione tramonta. Su quelle aree su cui dovevano sorgere parchi o servizi, meglio costruire case. I soldi per le attrezzature pubbliche non ci sono mai, come noto. Per l’housing sociale che risolve soltanto i problemi patrimoniali dei costruttori e non quello della casa per le famiglie a basso reddito, invece i soldi si trovano. L’Italia è purtroppo diventata il paese della rendita immobiliare speculativa.

Il governo Berlusconi ha promesso di battere la crisi rilanciando il business del mattone. In realtà dietro ai piani dell'esecutivo, a cominciare da quello sulla casa, non c'è altro che un nuovo sacco edilizio. Regione per regione ecco la mappa della nuova speculazione

Più cemento per tutti. Con il cosiddetto piano casa, e con altri interventi ispirati alla stessa ideologia della deregulation edilizia, il governo Berlusconi promette di battere la crisi rilanciando il business del mattone. Ma la ripresa resta dubbia. La crisi e il crescente indebitamento delle imprese e delle famiglie compromettono le capacità di investimento dei privati. A guadagnarci sicuramente saranno pochi grandi speculatori. Mentre per la maggioranza dei cittadini il nuovo boom dei cantieri rischia di produrre danni a lungo termine molto più gravi dei benefici apparenti e immediati. Un colpo di grazia per il già moribondo territorio italiano. Un'ipoteca pesante sul futuro del turismo, dell'agricoltura di qualità e della nuova economia verde. A lanciare l'allarme,insieme a tutte le più importanti associazioni per la difesa dell'ambiente e del paesaggio, sono autorevoli studi tecnicoscientifici e perfino gli asettici rapporti dell'Istituto nazionale di statistica. A differenza dei politici, gli esperti concordano che gran parte delle regioni hanno già raggiunto un livello di «saturazione edilizia ». Una nuova ondata di cemento «in un Paese come l'Italia, in cui il territorio è da sempre molto sfruttato», avverte l'Istat, «non può essere considerata in nessun caso un fenomeno sostenibile». Ma il peggio è che il piano casa è come una scommessa al buio: l'Italia è l'unico Stato occidentale dove già ora l'edilizia è fuori controllo, perché mancano perfino le misurazioni di quanti boschi, prati e campi vengono ricoperti ogni giorno dalla crosta inquinante del cemento e dell'asfalto.

Assalto al territorio

Dagli anni Novanta i comuni italiani stanno autorizzando nuove costruzioni a ritmi vertiginosi: oltre 261 milioni di metri cubi ogni 12 mesi. Nel giro di tre lustri, dal 1991 al 2006, ai fabbricati già esistenti si sono aggiunti altri 3 miliardi e 139 milioni di metri cubi di capannoni industriali e lottizzazioni residenziali.

È come se ciascun italiano, neonati compresi, si fosse costruito 55 scatole di cemento di un metro per lato. Il record negativo è del Nordest, con oltre un miliardo di metri cubi, pari a una media di 98 scatoloni di cemento per ogni abitante. Il risultato, secondo l'Istat, è «impressionante ». Al Nord l'intera fascia pedemontana è diventata un'interminabile distesa di cemento e asfalto «quasi senza soluzioni di continuità»: città e paesi si sono fusi formando «una delle più vaste conurbazioni europee». Una megalopoli di fatto, cresciuta senza regole e senza alcuna pianificazione, che dalla Lombardia e dal Veneto arriva fino alla Romagna. Al Centro «stanno ormai saldandosi Roma e Napoli». E nel Mezzogiorno «l'urbanizzazione sta occupando gran parte delle aree costiere». L'escalation edilizia, come certifica sempre l'Istat, non ha alcuna giustificazione demografica. Tra il 1991 e i 2001, date degli ultimi censimenti, la popolazione italiana è lievitata solo del 4 per mille, immigrati compresi, mentre «le località edificate sono cresciute del 15 per cento».

Nonostante questo, dal 2001 al 2008 il consumo di territorio è aumentato ancora: in media del 7,8 per cento, con punte tra il 12 e il 15 in Basilicata, Puglia e Marche e un record del 17,8 in Molise. Fino agli anni '80 la Liguria era la regione più cementificata. Negli ultimi sette anni le capitali del mattone, come quantità assolute, sono diventate Lazio, Puglia e Veneto. Solo quest'ultima regione ha perso altri 100 chilometri quadrati di campagne. A colpi di condoni Le statistiche dell'Istat segnalano un rapporto diretto tra i nuovi fabbricati e le sanatorie dei vecchi abusi, varate sia dal primo che dal secondo governo Berlusconi. Nonostante i proclami di regolarizzazione che accompagnavano ogni condono, l'edilizia selvaggia ha continuato ad arricchire i furbi: nel 2008 l'Agenzia per il territorio ha scoperto, solo grazie alle foto aeree, oltre un milione e mezzo di immobili totalmente sconosciuti al catasto, cioè non registrati neppure come abusivi. Uno scandalo concentrato al Sud. Al Nord invece la legge Tremonti del '94, che detassava gli utili per farli reinvestire in nuovi macchinari aziendali, in realtà ha fatto esplodere la costruzione e l'ampliamento dei capannoni industriali e commerciali: oltre 156 milioni di metri cubi all'anno.

Dietro la cementificazione del territorio c'è anche un'altra ingiustizia fiscale. Damiano Di Simine, responsabile di Legambiente in Lombardia, spiega che «l'assurdità del caso italiano è che i comuni sono costretti a finanziarsi svendendo il territorio »: «Gli oneri di urbanizzazione, da contributi necessari a dotare le nuove costruzioni di verde e servizi, si sono trasformati in entrate tributarie, per cui le giunte più ricche e magari più votate sono quelle che favoriscono le speculazioni». Nei paesi europei più avanzati succede il contrario: apposite "tasse di scopo" puniscono chi consuma territorio. Mentre in Italia, come segnala l'Istat, la pressione edilizia è tanto forte da scaricare i cittadini perfino «in aree inidonee per il rischio sismico o idrogeologico ». E tra migliaia di enti inutili, non esiste neppure un ufficio pubblico che misuri l'avanzata del cemento. La distruzione del verde L'unico studio di livello scientifico è stato pubblicato all'inizio di luglio da un gruppo di ricercatori del Politecnico di Milano, dell'Istituto nazionale di urbanistica e di Legambiente. L'Istat infatti può quantificare, scontando i ritardi delle burocrazie locali, solo i «permessi di costruire», cioè le licenze legali. Alle statistiche ufficiali, dunque, sfuggono tutti gli abusi edilizi, oltre alle chilometriche colate di asfalto, dalle strade ai parcheggi, che accompagnano e spesso precedono le nuove costruzioni.

Mettendo a confronto foto aree e mappe della stessa scala, disponibili solo in tre regioni e in poche altre province, i ricercatori di questo "Osservatorio nazionale sui consumi di suolo" hanno scoperto che in Lombardia, tra il 1999 e il 2005, sono spariti 26.728 ettari di terreni agricoli. È come se in sei anni fossero nate dal nulla cinque nuove città come Brescia. La media quotidiana è spaventosa: ogni giorno il cemento e l'asfalto cancellano più di 10 ettari di campagne in Lombardia e altri 8 in Emilia, dove tra il 1976 e il 2003 (ultimo aggiornamento geografico) è come se Bologna si fosse moltiplicata per 14. Lo studio smentisce anche il luogo comune che vede nel cemento l'effetto dello sviluppo produttivo. In Friuli, tra il 1980 e il 2000, è scomparso meno di un ettaro al giorno. Mentre il Piemonte ha perso più di 68 chilometri quadrati di campagne nel decennio 1991-2001, quando il suolo urbanizzato è aumentato dell'8,7 per cento, mentre la popolazione è scesa dell'1,4. Gli urbanisti del Politecnico ammoniscono che questo modello di sfruttamento (l'Istat lo chiama «consumismo del territorio») ha ricadute pesantissime sulla vita delle famiglie. «Il fenomeno delle seconde e terze case è legato anche alla fuga dalle città sempre più invivibili», riassume il professor Arturo Lanzani: «Ma la scarsissima qualità dei nuovi progetti finisce per spostare il traffico e lo smog verso nuovi spazi congestionati ». Paolo Pileri, il docente che dirige l'Osservatorio, fa notare che «in Germania, Olanda, Gran Bretagna, Svezia e Svizzera i governi cambiano le leggi urbanistiche per limitare fino ad azzerare i consumi di suolo. Mentre in Italia non abbiamo neppure dati attendibili». Anzi, il governo punta tutto su un nuovo boom edilizio.

Le pagelle al piano casa

Per il presidente di Italia Nostra, Giovanni Losavio, la riforma berlusconiana «è peggio di un condono, perché abolisce le regole anche per il futuro: permessi e controlli diventano inutili, ora basta la parola del progettista». «Bocciatura piena » anche da Legambiente, che ha fatto l'esame delle singole leggi (o progetti) regionali di attuazione: «promosse» solo Toscana, Puglia e provincia di Bolzano, che oltre a salvare parchi e centri storici, impongono rigorose migliorie ecologiche e risparmi energetici. A meritare i voti peggiori sono i piani casa delle regioni più cementificate: in Veneto la legge Galan concede aumenti di volume perfino ai capannoni più orribili, in Sicilia la giunta progetta «bonus edilizi fino al 90 per cento acquistabili dai vicini». E in Lombardia spunta il "lodo Cielle": un premio del 40 per cento per l'edilizia sociale, ma con «possibile vendita a operatori privati». «Rimandate con debiti» tutte le altre regioni, mentre in Val d'Aosta è pronto il «piano camere»: più cubatura anche per gli alberghi. Il bilancio nazionale è «un puzzle urbanistico con regole diverse in ogni regione». E se in generale le giunte di sinistra resistono al Far West edilizio, la Campania fa eccezione. Vezio De Lucia, urbanista di Italia Nostra, e Ornella Capezzuto, presidente del Wwf Campania, sono i primi firmatari di un appello che descrive il piano casa varato dalla giunta Bassolino come «un nuovo sacco edilizio»: «Il solo annuncio della liberalizzazione delle nuove residenze nelle aree dismesse, senza neppure il limite che le fabbriche interessate siano davvero già chiuse, ha fatto triplicare in pochi giorni il valore dei capannoni». Il consigliere regionale della sinistra Gerardo Rosania, che da sindaco di Eboli fece demolire 437 villette abusive, lancia una mobilitazione antimafia: «Ci si dimentica che qui siamo in Campania. Chi può fare incetta di industrie abbandonate pagando subito è solo la camorra». (30 luglio 2009)

Una vergogna solo italiana

di Paolo Biondini

'I paesi civili frenano il cemento, qui il governo lo incentiva': colloquio con Edoardo Salzano

Edoardo Salzano è uno dei più autorevoli urbanisti italiani. Il suo sito Eddyburg.it sta diventando il primo forum di informazione e discussione democratica sullo sviluppo edilizio, l'ambiente e il paesaggio.

Che ne pensa del piano casa?

"È un'iniziativa vergognosa, che avrà effetti devastanti. È' l'ennesima conferma che la cementificazione è una scelta politica: si favorisce uno sviluppo basato solo sull'appropriazione privata della rendita fondiaria. L'ideologia della bolla immobiliare ha fatto danni in tutto il mondo, ma l'Italia è l'unico Paese che continua a incentivarla. Ci stiamo allontanando sempre di più dall'Europa".

Come si costruisce nei paesi più civili?

"Per capirlo basta sorvolare l'Europa in aereo. In paesi come Austria, Germania, Olanda e Francia c'è una pianificazione rigorosa che segna un taglio netto tra città e campagna. In Italia c'è una marmellata edilizia, chiamata 'sprawl', spalmata su quasi tutto il territorio. La grande differenza è che nei paesi avanzati si cerca da tempo di controllare e limitare la cementificazione".

Qualche buon esempio?

"La Germania ha programmato dal '98 una direttiva rigorosa per ridurre entro il 2020 il consumo di suolo, facendolo scendere da 120 a meno di 30 ettari al giorno. E ci sta riuscendo. Nel Regno Unito fin dal '99 l'obiettivo è di realizzare almeno il 60 per cento della nuova edilizia abitativa in aree già urbanizzate. Perfino negli Usa, dove le estensioni sono gigantesche, alcuni Stati come l'Oregon hanno imposto confini invalicabili allo sviluppo delle città. In Italia il problema è totalmente ignorato. Cresce solo quella che Tonino Cederna chiamava la crosta di cemento e asfalto".

Molti cittadini si mobilitano con associazioni, comitati e raccolte di firme. Il vero problema è che la lotta alla speculazione edilizia non trova un'adeguata rappresentanza politica?

"Purtroppo non è solo il centrodestra, ma anche una parte del centrosinistra a teorizzare la cosiddetta urbanistica contrattata, le grandi opere in deroga a tutto e magari gli accordi sottobanco con i furbetti del quartierino e gli immobiliaristi d'avventura. C'è un pensiero unico che va combattuto con una svolta culturale: il suolo libero è una risorsa scarsa che va conservata. E per farlo serve una pianificazione più seria e più vasta di quella comunale". (30 luglio 2009)

Nello scontro istituzionale con il Governo, bloccando la proposta del “piano casa” avanzata dal Presidente Berlusconi, sembra che le Regioni si siano accorte di avere un potere che non esercitavano. Ecco così che tutte le Regioni hanno normato, o stanno normando, propri piani casa (o sedicenti tali) che consentono aumenti di cubature. Il WWF lancia un allarme poiché la sommatoria di tutti questi piani rischia di essere peggiore di quella (improponibile) inizialmente ipotizzata dal Governo: infatti molte Regioni non si sono limitata alle case, ma hanno consentito interventi anche sulle strutture edilizie artigianali ed industriali. E’ il caso del Piemonte e della Lombardia, dove il premio di cubatura viene consentito anche ai capannoni. In Lombardia poi viene autorizzato il recupero e riutilizzo a scopo residenziale delle volumetrie abbandonate anche se con diversa destinazione di uso. Ma a preoccupare il WWF oggi sono i territori di Sardegna e Campania a rischio cemento.

“L’effetto domino che si sta verificando sta portando le regioni ben oltre il concetto di “piano casa” e a breve assisteremo ad un significativo aumento non solo delle costruzioni, ma anche della densità abitativa di alcune zone delle nostre città senza che in via preventiva ci si sia preoccupati di adeguare standard urbanistici quali verde pubblico e servizi e senza che si sia provveduto ad un potenziamento mirato dei servizi di trasporto pubblico” – ha dichiarato Gaetano Benedetto, co-direttore del WWF Italia - Tra le Regioni che si apprestano ad approvare nuove norme in questo settore, quelle che ci preoccupano maggiormente sono due. La Campania, dove è forte il rischio di speculazioni e deregulation nella pianificazione edilizia in conseguenza del piano casa in discussione in questi giorni in Consiglio regionale, si presta così a versare nuovo cemento sul proprio territorio già martoriato .

Anche la Sardegna apre una nuova stagione edilizia e viene da chiedersi se gli incendi di questi giorni, nell’ignoranza della norma che vieta per 10 anni ogni costruzione sui terreni percorsi dal fuoco, non abbiano a che fare con questa aria che si respira. Il tutto sta avvenendo senza coordinamento alcuno da parte dello Stato che sembra, aver rinunciato ancora una volta al proprio ruolo di coordinamento e di indirizzo. Vale la pena ricordare che il ‘governo del territorio’ e con esso l’urbanistica non è materia esclusiva delle Regioni, ma “concorrente”. La competenza dunque non esclude lo Stato che, se c’è, farebbe bene a battere un colpo”.

CASO SARDEGNA:

ARRIVA L’ABUSO ‘FAI DA TE’

In Sardegnail cosiddetto piano casa si inserisce in una proposta complessiva di revisione del Piano Paesaggistico Regionaleche impediva di edificare entro i 2.000 metri dal mare. La legge è molto articolata, anche per diverse categorie (residenze, strutture turistico alberghiere, strutture agricole ecc), ma con poche eccezioni (centri storici e case sparse entro i 300 mt dal mare) consente un aumento del 20% dell’esistente che, nel caso si strutture uni o bi familiari può essere realizzato non solo sopraelevando, ma anche costruendo corpi separati.

Gli edifici entro i 300 metri dal mare possono avere un aumento solo del 10%. Si può arrivare al 30% di aumento se si garantisce un risparmio energetico del 15% rispetto alle prescrizioni regionali, oppure se se gli edifici vengono abbattuti e ricostruiti.

Se si abbattono edifici entro i 300 metri dal mare e se si ricostruiscono all’interno è previsto un premio di cubatura del 40% che arriva al 45% se si garantisce un risparmio energetico del 20%. Ma quello che preoccupa è la semplificazione delle procedure. La maggior parte degli interventi potrà essere fatta con autocertificazione con una semplice Dichiarazione Inizio Attività , ma molte sono le opere che necessitano solo di una comunicazione senza rilascio di alcun permesso: movimenti di terra per attività agricole e zootecniche, serre stagionali senza muratura, opere temporanee sino a 90gg, pavimentazione degli spazi esterni anche per aree sosta, impianti funzionali all’efficienza energetica.

CASO CAMPANIA:

PIANIFICAZIONE URBANISTICA ADDIO

Peggiori, se possibile, le previste norme in Campania che vorrebbero introdurre nella normativa regionale una totale deregolamentazione alle leggi vigenti in materia di urbanistica: giovedì ci sarà il voto in aula regionale.

Il valore delle aree industriali dismesse è triplicato in pochi giorni, a riprova che gli speculatori si stanno già muovendo. Il disegno di legge infatti, superando di slancio i già discutibili contenuti dell’accordo Stato-Regioni, introduce una vera e propria liberalizzazione a tempo indeterminato delle destinazioni d’uso, consentendo tout court la trasformazione in abitazioni delle strutture produttive anche se funzionanti. Questo costituisce pertanto un allettante invito alla cessazione anticipata delle poche manifatture ancora attive, alla faccia del “rilancio economico”.

Tutto questo in deroga alla pianificazione comunale, dando per intero l’iniziativa ai privati, lasciando i Sindaci, cui pure la Costituzione e le leggi conferiscono il potere di disciplinare l’uso del suolo, spettatori impotenti. Il piano inoltre premierebbe chi ha compiuto abusi. Gli abusivi che hanno condonato quanto costruito, ampliano considerando anche le superfici abusive; e quelli che non hanno condonato ancora finiscono per avere una doppia premialità : corsia preferenziale per il condono e superficie condonata considerata ai fini dell’ampliamento.

E come aggravante tutto questo anche nella zona rossa del Vesuvio e nelle aree tutelate dai piani paesaggistici.

La prima vittima illustre della deregulation sarebbe il piano regolatore di Napoli che ha il merito di aver affidato saldamente alla mano pubblica la regia del recupero delle aree industriali dismesse, risparmiando per ora alla città un nuovo sacco edilizio.

Unica nota positiva prevista è che sia per gli interventi di ampliamento che per gli interventi di sostituzione edilizia il disegno di legge prevede che essi potranno essere effettuati a condizione che si usino tecniche costruttive che garantiscano prestazioni energetico- ambientali

Resta da capire per i nuovi carichi insediativi in un territorio già sofferente e congestionato, chi provvederà agli standard, al verde, agli spazi e attrezzature pubbliche. Su tutti questi aspetti il discusso provvedimento campano tace, lasciando questi oneri in capo alle generazioni che verranno.

Punto primo: il suolo è un bene comune. Punto secondo: si edifica solo su aree dismesse. Punto terzo: ogni nuova costruzione su suolo libero dovrà essere compensata con una superficie doppia destinata a parco. Questa, in sintesi, è la proposta di legge presentata in consiglio regionale da Legambiente Lombardia.

Negli ultimi sei mesi l’associazione ambientalista ha raccolto le firme di oltre 12.000 cittadini lombardi intenzionati a mettere il freno alla colata di cemento che si abbatte ogni giorno nella nostra campagna. L’avanzata di strade, case, centri commerciali, capannoni, spesso desolatamente sfitti, non lascia indifferenti i lombardi consapevoli che sui suoli regionali si giocherà il futuro dei propri figli e nipoti, perché una aggressione così massiccia al territorio è già una seria ipoteca per le future generazioni. Il ritmo con cui spariscono i terreni, inghiottiti da asfalto e cemento, è infatti serrato e preoccupante: 103.000 metri quadri in meno ogni giorno, come dire che ogni tre ore sparisce una superficie di Lombardia pari a quella occupata dal Duomo di Milano. Per di più si costruisce senza produrre alcuna ricchezza e senza rispondere a vere esigenze sociali, ma solo per aggiungere volumi dove il suolo costa meno: in campagna.

Non potrà mai esistere un’edilizia virtuosa fino a quando risulterà conveniente occupare nuovi suoli agricoli piuttosto che recuperare spazi sottoutilizzati. Dobbiamo ripensare il modo in cui si costruisce nella nostra regione: non ha senso costruire quartieri a zero emissioni in posti dove si è costretti a percorrere ogni giorno 100 km in auto per andare al lavoro.

Deve essere fermata l’emorragia dei suoli agrari che è, oggi, il male più grave di cui soffra la nostra regione e l’intero paese. La terra è un bene comune limitato e non rigenerabile, senza il quale non è possibile nutrire il pianeta.

Per questo l’obiettivo principale dell’associazione del cigno, dichiarato ai consiglieri regionali, è ottenere un riconoscimento giuridico per il suolo, che ancora manca nella legislazione del nostro paese. Non abbiamo molto tempo per invertire la rotta, deve passare il principio che il suolo è un bene di tutti, ogni consumo o danneggiamento di questa risorsa rappresenta un vero e proprio danno nei confronti della comunità. Legambiente e i cittadini che hanno sottoscritto la proposta di legge chiedono a gran voce al legislatore regionale di intervenire prima che il danno all’agricoltura e al paesaggio lombardo sia irreversibile.

Sulla proposta di Legambiente vedi anche, su eddyburg, la critica di Gianni Beltrame, la risposta di Damiano Di Simine e la replica di Beltrame

“Contraddittorio, incompleto, dannoso, arretrato. Solo tre le regioni promosse, tutte le altre bocciate o rimandate in attesa di nuove regole” - La pagella di Legambiente sull’operato di Governo e Regioni relativo al provvedimento che doveva rilanciare l’edilizia in Italia.

“Tanto rumore per nulla. O quasi. Doveva servire a ridare slancio in tutta Italia al settore edilizio in crisi. Doveva servire ad ammodernare e migliorare qualitativamente il patrimonio edilizio esistente e quello futuro. Se questi erano gli obiettivi il risultato è un sostanziale fallimento”. Questa l’opinione di Legambiente sul cosiddetto Piano Casa, il provvedimento annunciato come panacea per il paese in crisi e che invece, a quattro mesi dal suo risonante annuncio, ancora fatica a decollare.

“Il quadro che emerge nel Paese– ha dichiarato Edoardo Zanchini, responsabile energia e urbanistica di Legambiente - offre un'unica certezza: avremo un sistema di regole diverso in ogni Regione italiana. Come in un puzzle dove spiccano da un lato la Toscana, la Provincia di Bolzano e la Puglia, che hanno praticamente bloccato l'attuazione del provvedimento o posto seri vincoli, e dall’altro Veneto e Sicilia, che da subito si sono fatte paladine di una applicazione "generosa" con premi in cubatura dispensabili praticamente a qualsiasi tipo di edificio dovunque e comunque fosse collocato”. Legambiente mette in evidenza l’aspetto positivo che in metà delle Regioni italiane varranno almeno gli standard energetici obbligatori come riferimento per gli interventi che permetteranno di migliorare la prestazione degli edifici. Purtroppo nell’altra metà si potrà continuare a costruire male e a danno di chi in quegli edifici andrà a vivere, oltre che dell’ambiente. Ma ancora più grave risulta la contraddittorietà del messaggio che viene lanciato ai cittadini e alle imprese: nei prossimi 18-24 mesi si potranno realizzare interventi edilizi con una procedura semplificata, in deroga ai Piani regolatori. Il tutto con qualche attenzione ambientale e energetica la cui entità dipende da dove si trova l’abitazione da ampliare o da demolire e ricostruire.

“Si è persa l’occasione per dare un chiaro messaggio di innovazione al settore delle costruzioni – ha dichiarato Edoardo Zanchini, responsabile energia e urbanistica –, perché ancora una volta si è cercata la via più breve per risollevare le sorti del mercato edilizio. Siamo di fronte a una crisi del settore che non è congiunturale, veniamo da 10 anni di espansione edilizia e nonostante ciò nel Paese si vive una drammatica situazione sociale, con centinaia di migliaia di persone sotto sfratto e di famiglie che non riescono a pagare le rate del muto e dell’affitto”. Per Legambiente la strada da seguire è un'altra: se si vuole dare un futuro al settore edilizio bisogna dare risposte all’emergenza abitativa e legarla a un vasto programma di riqualificazione energetica di case, quartieri, periferie. L'edilizia è oggi, a tutti gli effetti, uno dei più interessanti cantieri della Green economy ma per affrontarla in modo utile bisogna indicare da subito la strada del futuro: introducendo la certificazione energetica di tutti gli edifici, prevedendo uno standard obbligatorio di Classe A con un contributo minimo delle fonti rinnovabili (solare termico, fotovoltaico, ecc.) in tutti gli interventi edilizi. E accompagnare questo processo con regole chiare, adeguata fornitura di servizi e incentivi - a partire dalle detrazioni del 55% a regime - che aiutino la messa in sicurezza statica degli edifici anche attraverso interventi di demolizione e ricostruzione. E poi basta premiare le seconde case e gli investimenti di privati e fondi speculativi nel mattone, con lo sviluppo di un mercato che ha reso le case inaccessibili proprio a chi ne avrebbe bisogno: nuove famiglie, immigrati, giovani. I fondi che il Governo ha stanziato per il “vero piano casa” permetteranno di realizzare solo 5mila alloggi di edilizia residenziale pubblica il prossimo anno. Una cifra ridicola, che non è possibile nemmeno confrontare con quel che succedeva nel 1984, quando il settore pubblico realizzava direttamente attraverso l’edilizia sovvenzionata 34mila abitazioni e promuoveva attraverso l’edilizia agevolata o convenzionata 56mila abitazioni. Questi provvedimenti non risolveranno i problemi, anzi. Chi oggi non è proprietario dell’immobile in cui vive ed ha problemi di morosità e sfratto continuerà ad averli, mentre dilagheranno interventi diffusi di ampliamento che riguarderanno soprattutto le seconde case.

Legambiente ha voluto quindi ricostruire il quadro delle norme e delle scelte regionaliper elaborare una sorta di pagella, una classifica dei provvedimenti che hanno determinato il giudizio dell’associazione, sulla base di domande relative al rispetto degli standard di efficienza energetica e uso di fonti rinnovabili, ai permessi per gli interventi di allargamento, innalzamento, superfetazione di volumi, alla possibilità di allargamenti in aree delicate o protette, alle demolizioni e nuove cubature eventualmente consentite.

Dall’indagine emergono tre soli promossi : Regione Toscana, che incardina gli interventi possibili all’interno di quanto previsto dal Prg comunale, la Provincia di Bolzano che prevede alti standard energetici con la certificazione CasaClima C, nonché la Regione Puglia,anche se andrà tenuta sotto controllo la deroga ai piani regolatori concessa ai Comuni.

Tutte le altre Regioni invece si barcamenano in modo diverso tra i vari criteri.

Energia. Sono previsti obblighi in Toscana, Puglia, Piemonte, Emilia Romagna, Basilicata, Lazio, Lombardia, Marche, Umbria e in Provincia di Bolzano. Nessuna indicazione se non di tipo generico in Veneto, Sicilia, Friuli Venezia Giulia, Campania e Molise. In alcune di queste Regioni c’è un bonus opzionale, ma quello che è importante sottolineare è la differenza tra chi punta a migliorare le prestazioni energetiche degli edifici e chi vuole spingere semplicemente gli interventi.

Tutela del territorio. Per quanto riguarda le aree escluse sono da bocciare la Sicilia, la Lombardia e il Friuli Venezia Giulia che non esplicitano nessuna area (almeno fino al testo attualmente in discussione) in cui è vietato realizzare gli interventi. Ma anche in Veneto solo i centri storici sono esclusi, mentre in aree parco e vincolate si possono realizzare gli interventi. Tranne la Toscana dove prevale il Prg, in tutte le altre Regioni sono i Comuni a decidere se gli interventi sono possibili definendo criteri e limitazioni. Solo la Toscana, la Liguria e parzialmente la Puglia, escludono gli edifici abusivi anche se condonati.

Bonus edilizi. Per quanto riguarda i premi in cubatura, la Regione più generosa è la Sicilia, dove sommando le diverse possibilità (anche quelle dei vicini) si può arrivare al 45% per l’ampliamento e al 90% per la demolizione e ricostruzione. Per l’ampliamento i bonus maggiori sono anche in Friuli, Emilia Romagna e Lombardia con +35%, in Liguria si arriva a +50%. Per la demolizione e ricostruzione il massimo si può ottenere nel Lazio con +60% nel caso si preveda la delocalizzazione, in Emilia Romagna, Molise, Liguria e Campania con+50%; in Basilicata, Marche e Veneto con +40%.

“Bisogna affrontare con urgenza e competenza l’emergenza abitativa legandola ad un vasto programma di riqualificazione energetica di case, quartieri e periferie – ha aggiunto il presidente nazionale di LegambienteVittorio Cogliati Dezza-. Per questo bisogna investire in interventi che puntino a coniugare sicurezza statica e efficienza energetica, allargando questo obiettivo anche a tutti gli edifici non residenziali sfruttando l’opportunità di lavorare sul patrimonio esistente invece di occupare nuovi ettari di suoli agricoli. L’errore di base nel dibattito di questi mesi è stato proprio il non dare risposte a questi problemi e nel non affrontare la sfida dell’innovazione che potrebbe consentire la nascita di nuove competenze, lavoro e opportunità”.

“Un tema così delicato avrebbe bisogno di un indirizzo chiaro da parte del Governo e di collaborazione con le competenze di Regioni e Comuni. Migliorare la qualità edilizia e energetica attraverso la demolizione e ricostruzione di edifici e parti di città è una sfida non più procrastinabile, delicata e complessa – ha aggiunto il presidente dell’associazione - perché significa cambiare regole e abitudini, mettere mano a leggi e pertinenze, nelle quali occorre coinvolgere tutti in un processo trasparente. Finora invece, il comportamento del Governo è stato a senso unico: nessuna riflessione, nessun passo indietro rispetto alla proposta iniziale di un programma di premi in cubatura senza regole per qualsiasi tipo di edificio. Neanche lo stop avuto dalle Regioni ha portato a cambiare l’atteggiamento di totale chiusura rispetto a qualsiasi proposta qualitativa che introducesse criteri per selezionare gli interventi o spingesse l’innovazione energetica o magari (come dovrebbe essere obbligatorio secondo le Direttive Europee), vincolasse gli interventi alla certificazione energetica degli edifici. Solo la tragedia del terremoto in Abruzzo – conclude Cogliati Dezza - ha spinto dopo mesi di rimpalli di responsabilità a introdurre finalmente una normativa sulla sicurezza statica negli edifici che era nei cassetto ferma da tantissimo tempo”.

Segue classifica, vedi file allegato

La questione abitativa, torniamo a chiamarla così, sconta oggi l’inadeguatezza dell’azione dei governi e l’illusione che essa potesse essere risolta dal ”mercato”, per giunta da una mercato gonfiato dalla speculazione finanziaria.

Una quota di cittadini italiani, una quota intorno alla metà dei cittadini che non abitano in case di proprietà, mostra significative difficoltà sul fronte abitativo. In particolare non si trova nella possibilità di pagare gli affitti richiesti (che in non pochi casi assorbirebbero più della meta del reddito), vivono in situazione di sovra affollamento, in case molto spesso degradate e bisognose di rilevanti azioni di manutenzione. Non si tratta di qualche sparuto gruppo di marginali ma di una quota significativa delle famiglie italiane. Per non parlare di un’altra rilevante quota di famiglie oberate da rate di mutui oggi diventate insopportabili nonostante i provvedimenti, spesso contraddittori, presi in proposito. Va detto, a scanso di equivoci, che non si tratta dell’effetto della crisi economica, ma di una situazione strutturale che può essere sintetizzata nell’ovvia considerazione che il mercato liberalizzato non è in grado di dare risposte a queste situazioni.

Una situazione questa che a gran voce reclama una “politica per la casa” che garantisca a tutte le famiglie una condizione abitativa civile in una città anch’essa non degradata. Di questa politica non si vedono neanche i primi segni, ma piuttosto provvedimenti, spesso cervellotici, buoni per attività di propaganda, ma privi di un senso compiuto.

Il governo, in questo settore, ha promosso due iniziative, non per caso chiamate “piano casa”, il primo che promuoveva attraverso, di fatto, l’eliminazione di ogni norma di governo del territorio, un incremento volumetrico degli edifici esistenti; quello più recente a favore dell’housing sociale. Del primo si è già parlato a lungo, ma si vorrebbe sottolineare che esso non ha niente a che fare con il problema della casa come delineato prima. Non si riferisce a chi la casa non la possiede e quindi non interviene sul problema, non è casuale che alla fine la sottolineatura governativa è stata sul rilancio dell’economia,millantando quantità di investimenti inverosimili. Il provvedimento, si ricorda, permetteva aumenti volumetrici dal 20 al 40%, è stato di fatto ormai assegnato alle competenze delle regioni, con spesso dei peggioramenti rispetto a quanto previsto dal governo. Comunque avranno effetti modesti e questi stessi saranno negativi per il territorio (si chiuderanno balconi e terrazze; si costruirà qualche box per la macchina, ecc.) peggiorando l‘aspetto delle nostre città. Avrà qualche applicazione più estesa nelle seconde case che si affittano, perché una stanza in più può essere redditiva, e negli edifici non abitativi (non c’è bisogno di sottolineare gli aspetti negativi di queste interventi). L’unico aspetto positivo, ma sarà modesto per ovvi motivi, sarà quello relativo alla demolizione e ricostruzione di edifici fatiscenti o fortemente degradati.

Del provvedimento in via di approvazione e riferito a quella che una volta si chiamava edilizia economica e popolare, intanto, va detto, che si tratta di provvedimento che sblocca dei fondi destinati a questo settore dal governo Prodi (ministro di Pietro) e che erano stati bloccati dall’attuale governo. Ma anche in questo caso il provvedimento non può essere contrabbandato per una politica della casa. Intanto perché dopo aver sostenuto le “dismissioni” (su questa strada sono stati anche i governi di centrosinistra; ah! L’amore per il mercato) si rimettono nuovamente sulla stessa strada. E poi perché le cifre messe a disposizione sono ridicole rispetto ai roboanti annunzi. Si può prendere per buono che la situazione economica non permette di fare di più, ma non si po’ dire di fare 100 quando al massimo si potrà fare 10.

Le cifre fino a questo momento sono incerte, pare che l’emendamento che sarà presentato oggi abbassi ancora la disponibilità per questa voce, per adesso si fa riferimento a quanto noto che vale ancora di più se le cifre si riducessero. 550.000.000 di euro per 100.000 abitazioni annunziate, fanno 5.500 euro per abitazione. Ridicolo. Il governa stanzia il 5% circa del costo di costruzione, e il resto?

Intanto il governo adesso mette a disposizione 350 milioni di euro, così divisi: 200 milioni alle Regioni che serviranno per interventi, nelle situazioni di crisi abitativa, con progetti immediatamente canteriabili. Ammesso che le regioni riescano a contribuire con un 100% rispetto al fondo assegnato dal governo, mettendo a disposizione altri 200 milioni di euro, e ammesso che i comuni interessati riescano ad aggiungere 100 milioni di euro (tutte previsioni ottimistiche), avremo 500 milioni di euro con i quali si potranno costruire 5.000 abitazioni (anche qui cifra ottimistica). Una goccia; mancano all’appello ancora 95.000 abitazioni.

Gli altri 150 milioni (il governo parla di una prima tranche) dovrebbero “covare”, milioni e milioni di euro: fondazioni bancarie, cassa depositi e prestiti, le assicurazioni ecc. con la costituzione di fondi immobiliari di lunga durata. Per la costruzione dei rimanenti 95.000 abitazioni sarebbe necessario raccogliere una diecina e forse più di miliardi; probabile? sembra difficile. Anche perché queste case saranno affittate per 25 anni a canone convenzionato e dopo vendute (torniamo alle dismissioni) agli stessi inquilini o ai comuni o immessi nel mercato. Ritorniamo al mercato, mentre il rendimento di questi fondi sarà, tenuto conto dell’inflazione, della manutenzione, ecc., vicino allo zero.

Una politica della casa che affrontasse seriamente la questione abitativa, avrebbe dovuto, prima di tutto liberare il patrimonio pubblico dai non aventi diritto (condizioni di diritto da modificare in relazione all’evoluzione della società), in un paese nel quale il lavoro dipendente è quello che denunzia i redditi più alti (nei confronti di gioiellieri, commercianti, ecc.) è chiaro che molti occupanti non hanno le condizioni di reddito (effettivo) adeguato. Non si tratta di una persecuzione ma di un giusto criterio di redistribuzione.

In secondo luogo lo stato, le regioni e i comuni (se no che federalismo è?) dovrebbero costituire degli adeguati stock di abitazione da dare in affitto e da gestire con criteri di efficienza economica. I canoni d’affitto dovrebbero essere commisurati al mantenimento del patrimonio (manutenzione, ricostituzione, gestione ecc.), mentre le famiglie che non riuscissero, temporaneamente o per lungo periodo, a sopportare il canone così definito dovrebbero ricevere un “sussidio casa” in modo da raggiungere tra sussidio casa e propria disponibilità il canone fissato. Questa del sussidio dovrebbe essere gestita da una sezione specifica dell’ente di gestione attraverso personale specializzato. Questo meccanismo avrebbe il vantaggio di non scaricare sull’ente di gestione del patrimonio le morosità, con conseguente abbandono della manutenzione, litigiosità,ecc. e alla fine degrado del patrimonio e suo abbandono.

L’edilizia economica e popolare non può essere considerata la cenerentola del settore, abbandonata, localizzata nei posti peggiori della città,priva di una progettazione adeguata e moderna, lasciata al degrado, ecc. così facendo, infatti,si contribuisce al degrado urbanistico ed edilizio ma anche,ed è ancora più grave, a quello sociale. Modificare atteggiamenti, modificare modi operanti, immettere nel tessuto degradato delle nostre città germi positivi dovrebbe essere il compito dei governi a tutti i livelli, ma,come diceva mia nonna,il pesce puzza dalla testa.

Qui il sito di Sinistra democratica

Spenti i riflettori sul G8, smontato il circo di Coppito, L'Aquila vive a due tempi. Quelli frenetici di undici villaggi in costruzione e quelli morti delle tendopoli: nei cantieri del progetto C.a.s.e. si lavora senza respiro per inaugurarne un paio entro settembre; sotto le tende si muore di caldo, si litiga, si attende. Una doppia vita sotto l'impero di Bertolaso, profeta dei due tempi: le C.a.s.e. arriveranno presto, la ricostruzione aspetterà a lungo.

Millecinquecento operai costruiscono, violando regole infortunistiche e contrattuali, le abitazioni che permetteranno a Berlusconi di passare alla storia come l'uomo che in pochi mesi ha «dato una casa arredata ai terremotati». Ventimila sfollati aspettano accampati, depressi e alienati, di partecipare alla gara d'assegnazione, sapendo che almeno la metà di loro non troverà posto nei New Village voluti da Bertolaso. Tra cantieri e tendopoli si muovono altre migliaia di persone vincolate a un tempo indefinito e schizofrenico, perché serve un gran muoversi per conquistarsi la vita quotidiana: ogni giorno fanno la spola tra gli alloggi trovati sulla costa o nei paraggi per lavorare, subire la cassa integrazione di industrie in difficoltà già prima del 6 aprile, spendere ore per ottenere il più banale dei permessi da una burocrazia sparpagliata in decine di container, mangiare un panino o un piatto freddo tra tavole calde, bar e chioschi i cui abusi edilizi sono prolificati insieme agli affari di chi il 7 aprile si è fatto spazio. Viale della Croce Rossa è il nuovo asse centrale di una città sempre più simile a una periferia rumena. Solo i palloncini volanti del McDonald appena riaperto la rende un po' americana, ma di quell'America profonda - povera e frantumata - delle cittadine minerarie dismisse.

Cantieri fuori controllo

Cese di Petruro, Bazzano, Sassa: qui i New Village sono a buon punto. Entro la fine di settembre vi abiteranno 3/4.000 persone, il numero dipenderà dalla classifica che scaturirà dai criteri d'assegnazione, da quanto la corsa al tetto spingerà i nuclei familiari ad allargarsi a dismisura. Fino al sovraffollamento, perché vincerà chi avrà più punti e i punti saranno attribuiti secondo criteri anagrafici (i bambini valgono molto, i vecchi molto meno). Dal primo agosto sarà pronto il «bando comunale», a settembre la consegna delle prime chiavi: con l'inverno incombente e i posti insufficienti, sarà naturale coptare parenti di secondo o terzo grado, pur di fare punti. Il guaio è che gli alloggi più grandi avranno una superficie di 70 mq e lì bisognerà vivere per un bel po' d'anni, anche uno sull'altro. Oppure bisognerà andarsene, prendere il contributo di 400 euro per un affitto nei paraggi, visto che il centro storico e un bel po' delle case popolari costruite tra gli anni 60 e 70 resteranno inagibili a lungo, mentre i puntellamenti - edifici storici a parte - se li fa per conto proprio solo chi ha i soldi per pagare «interventi privati».

Ma, intanto, gli occhi sono puntati sugli undici cantieri in attività, la cui frenesia fa quasi dimenticare che sarà ben difficile raggiungere l'obiettivo dei 14/15.000 posti prima della fine dell'anno, mentre entro ottobre le tendopoli - causa freddo - dovrebbero essere smantellate; così bisognerà trovare soluzione d'emergenza per un bel po' di persone. Ma in quest'estate d'attesa i giornali locali si scaldano con i tetti quasi pronti di Bazzano e Cese, con il gran lavoro dei 1.500 operai. Le ditte che appaltatrici esultano: pagamenti a 60 giorni, dei 700 milioni di spesa prevista 450 sono già stati assegnati, mano libera sulla forza-lavoro. Un paradiso per aziende - come la Taddei, dal metalmeccanico alle costruzioni - che rivendicano orgogliosamente l'inesistenza del sindacato in casa loro. E' così che fioccano i subappalti, ingaggiando lavoratori che vivono in apnea (il sud è un pozzo senza fondo) senza quasi sapere dove si trovano di preciso e disponibili a lavorare a qualunque costo. Anche su tre turni giornalieri («giorno e notte», incita Berlusconi) in un settore in cui è vietato senza una deroga sindacale, quando piove (anche questo sarebbe vietato), nascondendo gli infortuni che invece fioccano: ce ne sono stati almeno due gravi, prontamente celati. Molti di questi lavoratori dormono e mangiano in cantiere per non perdere tempo - a Sessa c'è un dormitorio che accoglie anche quelli di Bazzano -, senza badare alle regole anti-infortunistiche. Nel nome della fretta e dell'emergenza si passa sopra a tutto, si lavora nell'illegalità e sempre: «Al primo giorno d'assenza sei fuori», racconta un edile che non ha potuto partecipare alla comunione della figlia, qualche domenica fa. «E tutto questo per un'operazione di propaganda di un uomo solo al comando», commenta Rita Innocenzi, segretaria della Fillea-Cgil, nella lacerante contraddizione di una terremotata che si occupa del lavoro edile e che considera il progetto C.a.s.e. «una truffa mediatica che distruggerà la città e dilazionenà all'infinito la ricostruzione». In teoria la sindacalista dovrebbe essere contenta di vivere in quello che per il premier sarà «il più grande cantiere d'Europa». Non è così. «Qui a L'Aquila - dice - si sperimenta un modello che vale per tutto il paese: zero partecipazione, persino zero concertazione». Anche Rita ha la casa inagibile, fa la pendolare dalla costa al capoluogo e non sa dove andrà a vivere tra qualche settimana. Problema condiviso da tanti, ma separatamente.

Abbandonati in tenda

Nell'area del «cratere» - da qualche giorno allargato ad altri otto comuni - la tendenza è a cavarsela con le «casette». Molte sono «autoprodotte» da singoli che non si affidano al progetto C.a.s.e., molte arrivano dal Trentino, spesso sono offerte e costruite proprio dalle autorità di quella regione: a Onna, San Demetrio, Villa Sant'Angelo batteranno sul tempo l'inaugurazione dei primi New Village di Bertolaso. Più o meno la stessa scelta è stata fatta per le scuole (prefabbricati), mentre per l'Università dell'Aquila - la «principale azienda» della città - il punto non sono le sedi di facoltà, rimediate qua e là tra ex caserme e palazzi pubblici, quanto gli studenti. Prima del terremoto la metà degli iscritti erano fuorisede, ora dovranno alloggiare tra Avezzano e Sulmona, perché i loro antichi «tetti» sono quasi tutti inagibili: vivevano nelle «seconde case» del centro storico, quelle per cui non sono previsti rimborsi e che - semmai - finiranno nelle braccia di Fintecna. Così si prospetta un nuovo pendolarismo e molti credono che ciò determinerà il declino dell'Ateneo aquilano. Il cui sviluppo aveva portato con sé un «indotto» di socialità che il terremoto ha spazzato via con la chiusura del centro storico. Adesso, la sera, i giovani rimasti in città si danno appuntamento all'Aquilone, centro commerciale Conad-Leclerc.

Non ci vanno in molti, perché non è il massimo della vita e perché nessuno viene più a passare le serate all'Aquila dai paesi del circondario. Non ci va soprattutto il popolo delle tendopoli, composto in gran parte da anziani, non-italiani, poveri. Quelli che non hanno dove andare. Quelli che passano le loro giornate in un'alienante far nulla. Il trauma del terremoto è stato progressivamente sostituito da una situazione di «sospensione», in cui si alternano depressione e ira. Si litiga per un telo parasole, ci si dispera per quei black out elettrici che fanno saltare l'aria condizionata e trasformano le tende in forni a 40 gradi e passa.

Ma c'è anche di peggio: qualcuno ha osservato uno strano aumento dei necrologi sulla stampa locale, negli uffici comunali osservano che la mortalità degli ultrasessantenni negli ultimi tre mesi è aumentata del 15-20% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Non è un dato scientifico, le statistiche si possono fare solo sul lungo periodo, ma queste cifre sembrano in perfetta sintonia con l'espressione dei volti che popolano le tendopoli. Che del G8 non si sono nemmeno accorti, che non hanno ricevuto la visita di nessun «grande» del mondo, che apprendono dai giornali della vacanza estiva che il Presidente del Consiglio farà a L'Aquila - una settimana nella caserma di Coppito - ogni tanto visitando i cantieri C.a.s.e. Con le forbici già pronte in mano per il nastro da tagliare di fronte alle telecamere. Nell'attesa, magari la sera lo ritroveremo all'Aquilone. Perfetto, per lui.

Palazzinari. Palazzo Chigi dà il via libera allo spot casa: un piano di centomila alloggi in cinque anni da realizzare con 550 milioni di euro. Finanziamenti già stanziati da Prodi che Berlusconi aveva cancellato con la finanziaria del 2008. I costruttori esultano. I sindacati degli inquilini: «Misure inutili, per le fasce popolari occorre abbassare i prezzi degli affitti».

Cinquecentocinquanta milioni di euro in cinque anni per risolvere l'emergenza abitativa e la crisi economica del settore. E' quanto ha affermato il presidente del Consiglio dei ministri: con il "piano casa" si darà un'abitazione ai nuclei familiari e giovani coppie a basso reddito, agli anziani in condizioni svantaggiate, agli studenti fuori sede, agli sfrattati, agli immigrati regolari. Un numero impressionante di famiglie troveranno casa con solo 550 milioni! Tanto per dare una dimensione, per la costruzione del palazzo del nuoto di Roma, che doveva rappresentare l'ottava meraviglia del mondo, ne servivano 600. Oltretutto un impianto sportivo che non verrà terminato.

Siamo di fronte all'ennesima manovra diversiva per sviare l'attenzione dell'opinione pubblica. Ma se cerchiamo nelle motivazioni del provvedimento, troviamo anche un'implicita ammissione del fallimento delle politiche del ventennio liberista. Poche settimane fa, l'Istat ha certificato che dal 1995 al 2006 sono stati costruiti oltre 3 miliardi di metri cubi di cemento. Il 40% di questa mostruosa quantità edilizia è costituita da case: sono state dunque costruite 2 milioni e mezzo di nuove abitazioni, mentre il numero delle famiglie è cresciuto soltanto di poche decine di migliaia. Qualunque governo dotato di un minimo di serietà sarebbe dovuto partire da questa gigantesca contraddizione: un mare di cemento e l'emergenza abitativa per una consistente fetta di popolazione.

La risposta sta nelle caratteristiche della fase economica che ha trionfato. Si è costruito per il "mercato" e basta, per i fondi immobiliari internazionali. I finanziamenti per le case popolari sono stati pressoché azzerati, mentre in tutta l'Europa occidentale si è invece continuato a costruire alloggi pubblici.

Mancando una cultura di opposizione, anche questo finto piano casa continuerà a mantenere in piedi la commedia degli equivoci che la potente lobby dei costruttori ha saputo costruire in questi anni. Il provvedimento governativo privilegia ancora il cosiddetto hausing sociale, una loro "denominazione d'origine controllata" che originava dall'obiettivo di cancellare l'intervento pubblico per lasciar fare ai privati. Ma sono proprio i dati dell'Istat a dimostrare che questa ipotesi è fallita.

L'unico modo per risolvere il problema della casa è declinare oggi un nuovo ruolo dello Stato. E' la mano pubblica che nei momenti di crisi deve saper indicare una prospettiva di grande respiro. Se le regioni progressiste smettessero di partecipare alla gara al ribasso con la cultura berlusconiana (vedi le brutte leggi del Piemonte, della Campania e del Lazio) e provassero a cimentarsi con questa sfida, potrebbero disegnare un futuro che affidi al recupero del paesaggio e dell'ambiente e alla riqualificazione delle città, i settori su cui fondare uno sviluppo nuovo.

L’autore di questa nota, oggi consigliere regionale de La Sinistra, è stato l’eccellente sindaco di Eboli, cui si deve un ottimo piano per la salvaguardia del territorio e l’iniziativa della demolizione di alcune centinaia di costruzioni abusive nella pineta litoranea, organizzata con le autorità civili e militari del Salernitano. Inserire "eboli" nel Cerca di eddyburg per saperne di più

La Giunta Regionale ha presentato un disegno di legge avendo ad oggetto : “ Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione del rischio sismico, per la semplificazione amministrativa.”, più comunemente ribattezzato “Piano case”.

Ci permettiamo, con grande serenità, di non accelerare i tempi sull’approvazione di questa legge. Probabilmente la costituzione di una sub-commissione politica che riscrivi la legge e la porti in approvazione in Consiglio regionale, sarebbe la scelta più saggia.

Perché proponiamo questo?

- Non c’è nessuna fretta legata ad ipotesi di commissariamento, come si è voluto far credere in un primo momento. In realtà il disegno di legge della Giunta è frutto dell’intesa Stato/regioni del 31/03/2009. Cui non ha fatto seguito provvedimento legislativo per cui il commissariamento è una cosa che non esiste. L’unica urgenza può essere individuata nella necessità di mettere in campo provvedimenti per fronteggiare la crisi economica.

- L’accordo Stato- Regione nasce, esclusivamente, per individuare misure per “contrastare la crisi economica”! Tutto ciò che riguarda urbanistica, governo del territorio, manomissioni di leggi come la L.R. n. 16/2004, non solo sono inopportune ma, palesemente, al di fuori dell’oggetto dell’accordo.

- Le Leggi Regionali stando all’accordo Stato – Regioni dovrebbero mettere in campo interventi che si realizzano attraverso” Piano/programmi definiti fra Regioni e comuni”. Nel Disegno di >legge della Giunta i comuni “ scompaiono”! Sono soltanto soggetti passivi di scelte regionali!

- La legislazione regionale dovrebbe introdurre norme in “coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale. Il disegno di legge della Giunta assume tutto in deroga ai pani regolatori.

- Gli interventi, dice l’accordo, “non possono riferirsi ed edifici abusivi”, il disegno di legge promuove addirittura gli abusivi. Gli abusivi che hanno condonato, ampliano considerando anche le superfici abusive; e quelli che non hanno condonato finiscono per avere una doppia premialità : corsia preferenziale per il condono e superficie condonata considerata ai fini del calcolo dell’ampliamento!

- Nessun riferimento viene fatto alla “zona rossa” [l’area del Vesuvio ad alto rischio, che dovrebbe essere abbandonata dalla popolazione al primo segnale di eruzione – ndr]. Per cui alla fine si potrebbe ampliare in zone che dovrebbero essere svuotate.

- Labili sembrano le difese dei centri antichi e delle zone paesaggistiche e dei parchi

- Infine il fantastico articolo 5 ove tranquillamente si consente il cambiamento di destinazione d’uso delle strutture industriali. Nessun paletto temporale viene “ sistemato. Per cui un industriale che ha dubbi sul futuro della sua azienda, potrebbe trovare più conveniente, e sicuramente lo sarebbe, chiudere e trasformare l’industria in fabbricato per civili abitazioni. Nessun paletto temporale, inoltre, per la proprietà di strutture industriali, che possono essere riconvertite.

Ci si dimentica che noi siamo in Campania. E quale sarebbe la sorpresa se si scoprisse che già in questi giorni, avuto sentore della proposta di legge, c’è chi sta girando il territorio facendo incetta di strutture industriali abbandonate. Semmai pagando in contanti e, anche, oltre il prezzo di mercato, sapendo che nel giro di un paio d’anni quell’investimento decuplicherà? C’ è un solo problema. In Campania il potere economico che è capace di mettere subito, sul tavolo, un tale mole di liquidità è uno solo e si chiama : camorra!

Allora, in definitiva, riteniamo che sarebbe bene approfondire in sede politica la portata di questo disegno di legge, limitandolo all’obiettivo dell’accordo Stato - Regioni : immettere un po’ di dinamismo nell’edilizia per cercare di fronteggiare la crisi economica. Giusta o sbagliata che sia come strategia di risposte alla crisi economica, e noi riteniamo sbagliata, discutiamo di questo e non di altri aspetti collaterali, e pericolosi, che il disegno di legge come presentato pone , invece , sul tavolo e che sono inerenti al governo del territorio.

Una domanda preliminare

Perché il Presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, a proposito della legge approvata in Giunta regionale (il cosiddetto Piano casa) ha dichiarato? “Gli obiettivi sono quelli di riqualificare il territorio". A legge approvata, infatti, "sarà possibile abbattere e ricostruire; abbiamo pensato agli agricoltori, alle coste, senza avere paura di dire checi potranno essere compensazioni di cubatura anche quantitativamente consistenti, ma in una città che possa essere moderna, con bioedilizia e attenzione al territorio".

Oggi che il testo della proposta è disponibile nella sua versione definitiva - così come è stata votata dagli assessori- cerchiamo di capire i motivi di tanto entusiasmo.

Che dice quel testo?

Con il titolo “misure straordinarie per il settore edilizio e interventi per l’edilizia residenziale sociale” la Giunta Regionale del Lazio, all’unanimità e con 22 articoli, risponde al Piano Casa del Governo. Il testo che, ricordiamo, dovrà ora essere portato al dibattito dell’aula consiliare per la sua traduzione in legge, con il proposito di offrire politiche di sostegno per il rilancio del settore edilizio, “affronta” quattro punti: rinnovare il patrimonio edilizio esistente; aumentare l’offerta di edilizia pubblica; operare con programmi integrati per promuovere contestualmente nuove quantità di edilizia pubblica e le necessarie operazioni di ripristino ambientale; snellire le procedure urbanistiche (articolo 1).

Fin qui gli obiettivi che hanno il merito, almeno, di rispondere in modo apparentemente organico al disordinato “rompete le righe” in materia urbanistica e edilizia lanciato con il decreto legislativo predisposto in aprile dal governo (G.U. n.98 28 aprile 2009). Il secondo capo del dispositivo regionale chiamato “misure straordinarie per il settore edilizio” stabilisce le modalità operative per realizzarle.

Gli edifici da trasformare dovranno (art.2) essere terminati alla data di approvazione della legge. Non potranno essere localizzati: nelle zone A o negli insediamenti urbani storici, così come individuati dal piano territoriale paesaggistico regionale; nelle aree naturali protette, nelle fasce di rispetto delle coste; nelle zone a rischio individuate dalle norme per la difesa del suolo, nelle are destinate a funzioni urbanistiche strategiche (per esempio quelle dove è prevista la localizzazione dei servizi pubblici generali). Per le zone agricole ecco però una prima smagliatura. Si concede un aumento di cubatura o della superficie lorda dell’unità edilizia del 20% (art.2 comma 2) che, stimato non poter eccedere i 200 metri cubi, “pesa”, pur sempre, quanto una nuova unità edilizia di tre stanze e servizi assecondando così l’incipit di Berlusconi sulla casa in più per il proprio figlio.

La Regione comunque, e questo è apprezzabile, “apre” alle sensibilità dei singoli comuni che (art.2 comma 3) potranno individuare autonomamente, modificandoli dunque, limiti e soglie particolari entro cui incardinare ogni possibile trasformazione.

La legge fissa nei prossimi tre anni (36 mesi a partire dal giorno della sua approvazione) la propria validità operativa. Si potrà così, oltre il già detto incremento del 20% per gli agricoltori, aumentare sempre del più 20% quella di residenze uni e plurifamiliari al disotto dei mille metri cubi. La proposta sembra parlare direttamente a quella melassa residenziale conosciuta con il nome (e i disastri) di “Villettopoli”. Si potranno inoltre aumentare del 10% edifici artigianali e industriali ovvero i cosiddetti capannoni che punteggiano indisturbati intere porzioni territoriali in forma sia organizzata che isolata.

Si potrà fare questo gonfiaggio di cubatura solo per adesione e addizione muraria. Niente sopraelevazione e la legge, va onestamente riconosciuto, sembra “sanare”, per fortuna, una pesante disattenzione tecnica prevista nella recente disposizione normativa in materia di recupero dei sottotetti che pur prevedendo la possibilità di modificare, baypassandolo, il rispetto del limite (35%) della pendenza delle falde di un tetto fissa l’ampliamento della superficie ottenibile ad un massimo del 20% secondo un principio che potremmo chiamare di riduzione di un danno.

Dovrà essere inoltre ottemperato a quanto alla normativa vigente in materia di distanze tra fabbricati e quanto previsto in materia di adeguamento sismico. Obbligatorio, inoltre, adeguare ogni edificio “gonfiato” a quanto ai dispositivi attuativi della Direttiva CEE per il risparmio energetico. Il nuovo edificio, così come modificato, dovrà essere dotato del proprio Fascicolo del fabbricato, (il documento che raccoglie la propria storia tecnica) e potrà essere realizzato solo in presenza del reale adeguamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Le addizioni, residenziali e non, produrranno, infatti, una modifica degli esistenti carichi urbanistici.

Tutto bene dunque? (si fa per dire). Non proprio. Con l’articolo 4 iniziano le sorprese. E che sorprese! Il comma 1 è perentorio: in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici edilizi comunali vigenti, ad esclusione delle zone C di Piano Regolatore (con questa lettera si indicano le zone di espansione), si potranno demolire edifici residenziali (anche quelli che abbiano almeno per il loro 85% questa destinazione d’uso) e ricostruirli ingrassati fino a un massimo del 35%. Sempre con riferimento alla sostenibilità energetica, all’adeguamento sismico e al reperimento degli standard previsti per soddisfare il nuovo carico urbanistico. Nei comuni dove si registra una “sofferenza abitativa” aumentando il numero delle unità immobiliari presenti nel progetto originario, un quarto, di queste, dovrà essere destinato all’affitto. Solo quando gli interventi di demolizione interesseranno edifici di oltre 3000 metri cubi (più o meno alloggi;una palazzina di 10 alloggi per intenderci) sarà necessario il Permesso di Costruire. Per tutto il resto basterà una semplice DIA.(articolo 5).

Fermiamoci un momento prima d’andare avanti con la lettura riprendendo le considerazioni del governatore Marrazzo sulla “città moderna, con bioedilizia e attenzione al territorio”.

Colpisce, per esempio che quelli che dovrebbero essere atti dovuti - per tutti il rispetto alla normativa CEE in materia di contenimento energetico recepita (finalmente) nel nostro paese - debbano essere invece che magari incentivati con manovre fiscali, premiati con…altro volume. La legge parla di trasformazioni e recupero urbanistico Perché non si è voluto praticare la strada del recupero edilizio? Sommare mattoni tra loro, aggiungere, attaccare muri gli uni agli altri lascia libero ognuno di sentirsi padrone a casa propria. Ovviamente parliamo di chi la casa ce l’ha. Che vuol dire legare la possibilità del nuovo all’affitto solo in presenza di ulteriore aumento del numero delle unità immobiliari. Se resteranno identiche nel numero, ma diverse nel mix dei tagli, anche questa piccola conquista decadrà? Recuperare il molto patrimonio edilizio pubblico dismesso a fini abitativi è davvero impossibile? Si può solo abbattere per ricostruire (di più)? Non si può tentare la strada di costruire nel costruito? Marrazzo dice che lui non “ha paura di dire che ci potranno essere compensazioni di cubatura anche quantitativamente consistenti”.

Ha mai pensato al piacere (e l’orgoglio) che potrebbe provare dicendo che recuperare il tanto inutilizzato potrebbe essere il primo passo, per cominciare a mitigare la sudditanza verso gli interessi della proprietà fondiaria. Non è solo una questione di gusti. Solo che Marrazzo non lo può dire perché se nei primi articoli del dispositivo è descritta l’architettura della legge, l’ingegnerizzazione del prodotto è contenuta nei titoli di coda del Capo secondo. Travi e pilastri del suo costruire sono davvero pesanti.

Attenzioni territoriali compaiono all’articolo 6 dove viene indicato il riferimento operativo: la legge regionale 22 del 1977. La legge che fissa le norme d’intervento in materia di programmazione integrata per le riqualificazioni urbanistiche, edilizie e ambientali. Con il termine programma integrato si scrive la procedura studiata per favorire l’integrazione tra soggetti pubblici e privati negli interventi di riqualificazione urbana e ambientale di ambiti specifici. Con il termine programma integrato si legge, non solo nel Lazio, la totale abdicazione da parte del pubblico alla programmazione degli interventi, alle scelte. Marrazzo, conosce bene cosa è successo a Roma per esempio e il suo piano che come ricordava Vezio DeLucia, ( l’Altro 17 luglio 2009) ha “sepolto l’agro romano sotto 15 mila ettari di nuova espansione e sotto 70 milioni di metri cubi di nuova edificazione (che la nuova amministrazione sta incrementando) Se di attenzioni si tratta si tratta di attenzioni particolari. Quelle che nascono con la proposta del privato acquisita dall’Amministrazione, l’approvazione del progetto e la sua, più o meno, immediata realizzazione attraverso Conferenze di servizi e Accordi di Programma.

Con i programmi integrati e il loro paradigma propositivo si mettono i lupi a guardia delle greggi.

Cosa succederà?

Le comunità, dopo essere state magari offese per anni da edifici che sono stati costretti a tollerare in porzioni di alto valore ambientale dovranno pure vedere quegli stessi proprietari continuare il proprio esercizio di rendita trasferendo tali cubature in altre aree ricevendo quale ulteriore premio la possibilità (art.6 comma 2 lettera b) di ricorrere anche al cambio di destinazione d’uso rispetto gli edifici demoliti, alla modifica delle destinazioni urbanistiche vigenti e all’aumento della capacità edificatoria.

Scegliendo, inoltre, con le nuove destinazioni d’uso cosa fare che, si potrà scommettere, sarà quello che il mercato vorrà fare o potrà offrire. Non resterà che prendere e accettare con annesso incremento. Fissato anche nel più 50% che per edifici da arretrare dal “litorale marino”arriva al 60% purché si costruiscano alberghi….

I privati faranno i programmi. Ai Comuni, così come già sperimentato con il Piano di Roma, il compito di registrare i cambiamenti. Niente di nuovo. Il solito (brutto) film.

All’articolo 7 si aggiunge, poi, che, comunque, i programmi potranno prevedere sostituzioni d’uso di aree e immobili fino a un incremento del 40% e prevedere una quota che non viene definita di edilizia residenziale sociale. Oggetto delle localizzazioni sono le zone B. I privati presentano i progetti che se, come ovviamente accadrà, saranno presentati in variante urbanistica dovranno essere approvati dal Comune stesso entro tre mesi. Ma è l’Articolo 9 che in un piccolo dettaglio spiega tutto. Siccome i progetti non basta pensarli, ma occorre realizzarli non sarà più la comunità a fare le proposte secondo desideri e, perché no, richieste di risarcimento per quanto fin qui subito. Ogni intervento sarà presentato da soggetti pubblici o privati che, è testuale nell’articolato , dovranno essere “associati con soggetti in possesso di capacità tecnica, organizzativa e economica adeguata all’importo dei lavori oggetto della proposta.

Ovvero la programmazione urbanistica affidata alle singole possibilità economiche di spesa e conseguenti previsioni di rendita dei singoli operatori.

Nessuna possibilità ad ascoltare esperienze di “progettazione partecipata”; a recepire saperi e pratiche sociali che quotidianamente si formano nella vita quotidiana e nella lotta nei territori.

Senza partner economico nessun progetto.

É scomparsa la casa?

Niente paura, Nel terzo capo (articoli da 10 a 19) la proposta legislativa affronta il tema dell’edilizia residenziale pubblica e sociale. Si introduce il concetto di housing sociale per la realizzazione di alloggi destinati all’affitto sostenibile (?) o a riscatto. La legge introduce in questa categoria anche una nuova tipologia: quella dell’ albergo sociale quale alloggio temporaneo, servizi e spazi comuni. Requisiti di accesso al servizio e determinazione del canone vengono rimandati a un futuro regolamento regionale. La gestione di questi pacchetti residenziali è già decisa ed è affidata a “gestori”(pubblici e privati); mentre la regia d’intervento è (art.10 comma 5) compito delle ATER. Commissioni comunali (art.11) sono chiamate a curare “il passaggio da casa a casa” di particolari categorie sociali che però, in queste commissioni non vengono rappresentate, visto che è prevista la sola presenza dei sindacati “concertativi” e dei rappresentanti della proprietà edilizia. L’articolo 12 sembra confermare che è la stessa legge a non credere più di tanto ad una possibile politica dell’affitto e/o a una robusta iniezione di edilizia sovvenzionata, promuovendo un sostegno all’acquisto dell’immobile.

Per la soglia dell’individuazione dei requisiti di reddito viene assunto l’I.S.E. ovvero l’autodichiarazione. L’articolo 13 parla di programmazione. Solo che al posto di un reale studio del fabbisogno (dove e come operare) e una sua prima necessaria valutazione rispetto per esempio la possibilità di recuperare il tanto patrimonio inutilizzato, la Regione metterà in campo: interventi di edilizia sovvenzionata (ma pare di capire che si tratti di attualizzare programmi fermi); interventi di housing sociale di cui, ricordiamo, ancora non si conosce la valutazione del canone che potrebbe risultare totalmente inaccessibile per molte famiglie attanagliate dalla crisi economica in atto; sostegno all’acquisto e possibilità della casa a riscatto che, se non esercitato, verrà girato all’ATER competente territorialmente.

Insomma, non un impegno per la realizzazione/formazione di un forte patrimonio pubblico con funzione di calmiere degli affitti e a permettere il passaggio da una casa all’altro secondo esigenze e disponibilità dell’utenza, ma esattamente il contrario promuovendo, nei fatti, una sorta di edilizia “agevolata” più o meno generalizzata che non potrà, certo, servire a intervenire sul mercato degli affitti né sulla”mobilità abitativa” cittadina.

Anche l’ATER che (art. 14) potrà operare, ovviamente in deroga a ogni strumento urbanistico e edilizio vigente, accede al premio di cubatura sia attraverso interventi di ampliamento (+20% della cubatura esistente) che di demolizione e ricostruzione (+35% della cubatura esistente) nonché potrà trasformare in unità abitative, negozi e altri locali. Con buona pace della qualità dell’abitare, Oltre che in negozi e magazzini si potrà vivere, in alloggi ritagliati all’interno di quelli esistenti di… 38 metri quadri.

L’articolo 15 fissa le coordinate della “densificazione edilizia” che i comuni potranno realizzare in: aree già destinate a edilizia pubblica; su aree a standard in eccesso da trasformare in edilizia residenziale sociale; attraverso varianti e programmi integrati. In presenza di edilizia destinata a studenti e/o anziani i comuni possono variare le destinazioni del proprio strumento urbanistico vigente, aumentando di un 10%in più le destinazioni stesse.

Con l’articolo 16 viene introdotto lo Standard per l’edilizia residenziale sociale. Viene, comma 1, fissato che: negli strumenti urbanistici generali, nei piani attuativi quale standard aggiuntivo venga introdotta l’acquisizione di aree e/o immobili da destinare al’edilizia residenziale sociale. La legge indica per gli interventi di nuova urbanizzazione una soglia minima del 20% di cessione gratuita da parte dei proprietari dell’area fondiaria edificabile che sale al 50% “ limitatamente all’edificabilità aggiunta generata dallo strumento urbanistico generato rispetto le previgenti previsioni”. É ammesso l’aumento, a discrezione di comuni, di volumetria premiale pari alla capacità edificatoria delle aree fondiarie cedute da destinare a edilizia residenziale libera destinata affitto a canone concordato. Ogni intervento che usufruirà di finanziamento pubblico dovrà curare la redazione dell’apposito “ fascicolo del fabbricato”e viene, articolo 19, introdotto lo standard sociale nella determinazione dei Piani Comunali così come nei dispositivi della legge 38/99 che viene a questo adeguata.

Troppo o troppo poco?

É una domanda legittima visto che questa legge poco parla di numeri e nulla della “spesa”necessaria a quanto programmato. Neppure per quel poco di pubblico di edilizia sovvenzionata qui e lì accennata. Per il troppo ovviamente il riferimento è all’articolo 9 e a quanto potranno fare i … privati. Si continua a navigare a vista, a rincorrere l’emergenza. A chiedere aiuto a chi la crisi ha prodotto e che, ora, si candida a come risolverla. A confondere il problema con la soluzione.

Ancora una volta Marrazzo con i suoi “pards” sceglie la morbosa attenzione territoriale rappresentata dal pensare al costruire prima che all’abitare. Mattoni, cemento, addizioni, più sempre qualche cosa. Come se il diritto alla casa, assolutamente in deficit nella nostra regione, non fosse tutt’uno con il diritto al reddito, al muoversi, alla tutela ambientale, alle forme di indirizzo pubblico del territorio, alla costruzione anche di significativi “vuoti”. La parola d’ordine sembra essere riempire tutto, annegando in un mare di cemento anche la proposta condivisibile di standard per l’edilizia sociale. Quale è l’immagine della città e del territorio che sta dietro questa proposta? Ritagliare cubature all’interno delle zone B, per esempio a Roma, vuol dire intervenire (cfr. art.107 norme del P.R.G. classificazione delle Zone territoriali omogenee) in Ambiti di valorizzazione della città storica, nelle componenti della città consolidata, oltre che in quelle della città da ristrutturare.

Zone in cui, per esempio, il patrimonio pubblico, rappresentato dalle proprietà ex IACP, sono parte significativa della storia e della vita della città. Edifici “individui edilizi” riconosciuti che appartengono, ormai, alla forma fisica della città. Un patrimonio che se è sopravvissuto alla svendita, ora si potrà demolire e/o ritagliare facendo uno spezzatino di mini alloggi. Dove la piaga dei “ residence” - Marrazzo conosce quello di Valcannuta? Marrazzo è mai stato nei loculi realizzati a campo Farnia?- è destinata continuare imbellettando quelle celle con il nome di Albergo sociale. Dove i privati potranno ricostruire, e vendere, a pochi, case a regola d’arte con riferimenti alla bioedilizia e a norma sismica e molti saranno destinati ad abitare (forse), così come pensa Di Carlo, l’assessore alla casa, in ex negozi e altri spazi “ trasformabili”o in 38 metri quadri .

Nulla viene detto sul tanto abbandonato (pubblico e privato) presente da molto tempo in questa regione. Che sarebbe facile acquisire e destinare a edilizia residenziale pubblica. Nulla sul patrimonio in dismissione dalle forze armate e sulla tragedia delle cartolarizzazioni e sulla dismissione immobiliare degli enti. Non viene indicata nessuna quota di quanta sovvenzionata sarebbe necessaria; né messe in campo le condizioni per almeno conoscere i numeri reali dell’emergenza; né tanto meno lo stato generale dei servizi presenti nei vari territori. Marrazzo sembra scordarsi del dettato costituzionale che impone di promuovere iniziative per rimuovere ogni ostacolo di ordine morale e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Abitare vuol dire partire da questo.

Il capo IV entra nel merito della velocizzazione procedurale prevedendo, di fatto, tutta una serie di nuove possibilità operative senza dover più ricorrere, come oggi, all’approvazione regionale. Si potranno cosi modificare tracciati della viabilità primaria nei comprensori; sforare, nel recupero dei nuclei edilizi abusivi, i confini fissati e trovare fuori di essa aree per verde, servizi e parcheggi; modificare perimetri delle aree di recupero, catturando nuovi edifici; modificare la forma plano volumetrica degli edifici; modificare, entro un massimo del 30%, la destinazione d’uso originaria. Sarà chiamato a decidere solo il comune, mentre, alla regione, resterà solo il compito di eventualmente proporre “osservazioni”.

Si potranno inoltre, senza passare per la Regione - quindi senza dover conoscere che cosa per esempio sta facendo il comune vicino- mutare per finalità pubbliche spazi originariamente destinati a verde pubblico e servizi; introdurre spazi per attrezzature pubbliche generali (che magari esistono poco distanti); variare l’altezza degli edifici, modificare il numero delle unità abitative, introdurre modifiche di limitata entità al perimetro del programma urbanistico.

Non è poco e soprattutto tutto lasciato alla volontà ( alle aspettative di rendita) dei proponenti.

In termini procedurali, rispetto la proposta governativa, la Regione Lazio respinge solo la possibilità di autorizzazione edilizia senza alcun titolo prevista dal decreto Berlusconi all’articolo 1 del proprio decreto. Lo fa conquistando la hit della classifica delle Regioni portando la possibilità di ricostruzioni con quantità premiali di cubatura fino a un più 60% ( per le opere provenienti dal litorale marino), allarga il tempo di operatività dell’intervento (36 mesi rispetto i più contenuti 18/24 mesi previsti negli altri dispositivi regionali) ottenendo così in questa speciale specifica a chi più è aderente al decreto del Presidente Berlusconi un significativo pic power; amplia le possibilità di intervento anche ad edifici non residenziali (cosa esclusa in molte altre Regioni) e, soprattutto introduce, attraverso questa proposta, direttamente per tutto il territorio regionale, l’attività della compensazione eleggendola, di fatto, a bussola della pianificazione regionale.

Alla domanda di Berlusconi, Marrazzo potrebbe rispondere “fatto”.

C’è ancora tempo o tutto è perso?

Anche se nessuno li ha invitati i movimenti, le associazioni e i cittadini, che hanno proposto con la Carovana del Bene Comune la legge d’iniziativa popolare sul diritto al’abitare, partecipano a questa sfida .

Il lavoro degli elettori (sempre più ex) per aiutare quello degli eletti. Appare molto più necessaria oggi che ci troviamo di fronte ad una proposta che, se non sarà modificata nella discussione in aula, continua a non risolver il problema. Troppo simile, come visto, rispetto al Piano Casa del governo Berlusconi rischia di far naufragare anche la questione (introdotta nel testo regionale) dello Standard per l’edilizia sociale come puro “accessorio” e non come momento essenziale della costruzione del reale diritto alla casa e all’abitare.

La legge d’iniziativa popolare indica, al posto del consumo di territorio presente nella proposta Marrazzo, nel recupero edilizio “lo strumento essenziale principale della pianificazione”. Un grande possibile progetto di restauro territoriale capace di mettere in sicurezza l’intero patrimonio edilizio (esistente e eventualmente da realizzare), anche attraverso operazioni di demolizione e ricostruzione da autorizzare su “edifici esclusivamente adibiti a uso abitativo o da impegnare al soddisfacimento esclusivo di edilizia residenziale pubblica con un ampliamento della Superficie utile lorda non superiore al 25 per cento e, solo, nei casi in cui lo prevedano gli strumenti urbanistici dei comuni interessati” (articolo 9 della proposta di legge d’iniziativa popolare depositata alla Regione Lazio). Ma soprattutto (comma 3 del medesimo articolo) “i programmi dovranno essere discussi, secondo le modalità stabiliti dai singoli comuni, ed accettate esplicitamente dalle comunità locali interessate dalle trasformazioni urbanistiche, secondo procedure di partecipazione pubblica che prevedano l’espressione di un parere sulle opere e i tempi di realizzazione”.

Siamo solo all’inizio della discussione in aula. Ci sarebbe (c’è) tutto il tempo possibile per fermarsi e trasformare il timbro “fatto”, richiesto e ottenuto da Berlusconi, in costruzione della possibile alternativa: sottrarre territorio alla speculazione e disegnare lo spazio dell’abitare a partire dal riconoscimento del diritto alla casa.

Citare un riferimento culturale per poi fare l’esatto contrario, è una delle consuetudini più diffuse nella storia. La legge sul piano casa delle Regione Piemonte (n.20 del 14 luglio 2009 “Snellimento delle procedure in materia edilizia e urbanistica”) non fa eccezione. Ci sono due esplicite citazioni della rigorosa legge urbanistica regionale n. 56 del 1977 “Tutela e uso del suolo”, la “legge Astengo”; la prima ad essere approvata dalle neonate regioni e una delle ultime, in ordine di tempo, della grande stagione delle riforme degli anni 60-70. La legge Astengo viene richiamata nel nuovo testo per limitare le possibilità di ampliamento degli immobili che possono beneficiare dei previsti aumenti di cubatura (gli ormai consueti 20% e 35%): si ammette l’ampliamento volumetrico ma si lascia inalterato il controllo dei tessuti insediati attraverso il parametro della densità fondiaria massima previsto nella legge urbanistica piemontese.

I riferimenti alla legge Astengo sembravano dunque alludere ad una interpretazione rigorosa delle sciagurata sollecitazioni berlusconiane. E questa impressione era anche confermata dall’articolo 6 che consente ai comuni di non applicare la legge su tutto o parte del territorio regionale, negando i previsti aumenti di cubatura per le tipologie edilizie private.

Ma già una prima avvisaglia arriva dal successivo articolo 7, “Interventi in deroga per l’edilizia produttiva”. Vengono previsti aumenti del 30% della superficie esistente attraverso soppalcatura se il lotto è già completamente edificato. Nel caso in cui sia possibile l’ampliamento, il regalo è pari al 20% della superficie utile lorda. Nell’uno e nell’altro caso “se gli standard urbanistici non sono reperibili”, si prevede la possibilità di monetizzazione. Uno dei pilastri dell’urbanistica lombarda viene così applicato nell’area piemontese.

Ma è soprattutto alla luce di quanto previsto dal capo III della legge che il riferimento alla legge 56 appare dettato con tutta evidenza dal dover tacitare le coscienze di una sempre più distratta opinione pubblica. Si mantiene in vigore una norma tutto sommato marginale della legge (quella del limite di densità urbanistica) perché si indebolisce fortemente la possibilità di governo pubblico delle trasformazioni urbane. Un modo come un altro per tentare di nascondere il grave arretramento che la legge introduce nell’urbanistica piemontese.

Nel citato capo III, “Interventi per il recupero e la riqualificazione del patrimonio esistente”, si ricorre infatti al peggior armamentario dell’urbanistica neoliberista. Afferma l’articolo 14 che “i comuni individuano ambiti di territorio su cui promuovere programmi di rigenerazione urbana, sociale e architettonica” finalizzati esclusivamente ad individuare edifici ritenuti incongrui, per dimensioni o tipologie, con il contesto edilizio circostante, per i quali gli strumenti urbanistici “possono” prevedere interventi di demolizione e ricostruzione.

La regione Piemonte, dunque, non elabora organici indirizzi sorretti da adeguati finanziamenti pubblici per favorire la redazione di organici strumenti urbanistici comunali volti alla ristrutturazione urbanistica o al riuso degli immobili produttivi dismessi o in via di dismissione. Costruisce una norma calibrata “sugli edifici”, e cioè su misura della proprietà fondiaria.

E qui viene la parte più grave. Afferma il comma 3 che la ricostruzione può avvenire sullo stesso sedime solo nel rispetto delle caratteristiche tipologiche del contesto, mentre la cubatura eccedente già esistente, sommata all’ulteriore “regalo” del 35 % (calcolato rispetto alla cubatura, si badi bene, non sulla superficie e trattandosi di immobili produttivi si può immaginare quale regalo alla rendita fondiaria venga previsto) “può essere ricostruita in altre aree, individuate dal comune, anche attraverso sistemi perequativi”.

Sempre con il comma 3 si prevede che anche la totale ricostruzione, compresa di ogni premialità, possa avvenire in altre aree, formalmente individuate dai comuni. E’ questa una questione decisiva che non deve essere sfuggita al legislatore regionale. Va benissimo che la legge preveda che sia il comune ad individuare le aree di arrivo della delocalizzazione produttiva, ma è del tutto evidente che questo è soltanto un passaggio formale. Nella sostanza, nella generale assenza di aree pubbliche e proprio sulla base dei sistemi perequativi previsti, sarà lo stesso proprietario ad indicare l’area di arrivo delle cubature da rilocalizzare..

Non è soltanto la fallimentare esperienza dell’urbanistica perequativa di Roma a far prevedere analoghi comportamenti in Piemonte, ma sono anche due ulteriori norme contenute nella legge a confermare questo rischio. Sempre nell’articolo 14, infatti, si afferma che le modalità operative per la ristrutturazione o la rilocalizzazione degli edifici possono essere preventivamente definite da una convenzione stipulata tra i comuni e gli operatori interessati. Resta evidente che saranno gli operatori privati a imporre il proprio punto di vista, volta per volta, senza alcun disegno complessivo.

La seconda norma introdotta riguarda invece l’abrogazione di una precisa disposizione della legge Astengo che nel caso il rilascio di concessioni relative alla realizzazione di impianti industriali di notevoli dimensioni prevedeva la preventiva autorizzazione della Regione, in conformità alle direttive del piano di sviluppo regionale e del Piano Territoriale. Una classica –per l’epoca- norma di tutela di una corretta pianificazione del territorio. Questa norma viene cancellata dall’articolo e il proprietario dell’immobile da rilocalizzare non resterà che scegliere a piacere l’area su cui ricostruire il nuovo edificio.

Come si vede, la regione della storica legge n. 56, volta pagina e si adegua alla moda della cancellazione dell’urbanistica. Che lo faccia proprio ora, quando nel mondo stanno arrivando le conseguenze del trionfo della cancellazione delle regole in ogni settore della società, getta un ombra molto pesante sulla capacità del sistema politico regionale di ragionare su uno sviluppo slegato dalla rendita speculativa immobiliare.

Nel fare questo, poi, utilizza strumenti moltiplicatori delle volumetrie edificabili come i cosiddetti ”sistemi perequativi” che nel famoso caso di Tormarancia a Roma hanno portato le volumetrie inizialmente previste ( un milione e ottocento mila metri cubi) a diventare cinque milioni e duecento mila, e cioè quasi tre volte di più! Oggi, mentre a livello nazionale si è finalmente aperta la questione del risparmio dell’uso del suolo, la regione Piemonte vara una legge che incrementerà non soltanto le cubature ma anche il consumo di suolo agricolo.

Ritengo importante diffondere l’informazione su una legge indecente approvata il 14 Luglio dal Consiglio regionale della Lombardia, contro la cui promulgazione Sinistra - Unaltralombardia ha condotto in aula una battaglia articolo per articolo, emendamento per emendamento. Un confronto puntiglioso, senza sconti, reso vano però dal contingentamento dei tempi e dall’impermeabilità a qualsiasi modifica del testo imposti dalla maggioranza Lega-PDL.

La lettura del testo esposto qui di seguito convincerà sulla necessità di mobilitarsi contro lo scempio di territorio e di bene pubblico perpetrato in Lombardia purtroppo con scarsissima opposizione sociale e una disattenzione colpevole dell’opinione pubblica

La genesi del “piano casa”

Alla volontà espressa da Berlusconi di affrontare le difficoltà indotte dalla crisi economico-produttiva mondiale promuovendo in Italia un incremento dell’attività edificatoria minuta attraverso la sospensione in via eccezionale dei limiti posti dalle regole urbanistiche in tema di rapporto tra quantità edificatorie e dotazioni di attrezzature pubbliche, la Conferenza Unificata delle Regioni ha risposto approvando un’Intesa che, mentre propone di adeguarsi, rivendica almeno margini di autonomia decisionale nel come farlo.

La Giunta Formigoni è andata oltre l’adeguamento, allargando le maglie di sfondamento delle regole. Ha di conseguenza formulato il “piano casa” (PdL 392) qui sotto riassunto e ne ha imposto l’approvazione, con il proposito “di un rilancio dell’economia e di una risposta ai bisogni abitativi delle famiglie”

Eppure, la Regione Lombardia aveva già da tempo autonomamente ottemperato ad una pesante deregolamentazione a tempo indeterminato, sia con la cessione di minori aree pubbliche rispetto a quelle prescritte dagli strumenti urbanistici, sia con la possibilità di trasformare ad uso abitativo tanto i sottotetti preesistenti che quelli delle nuove edificazioni.

Evidentemente, con l’approvazione della nuova legge la strada della messa a profitto del suolo pubblico continua ad essere la via maestra per questa Giunta

I contenuti del colpo di mano

Il “piano casa” della Lombardia, che per un anno e mezzo consentirà di aumentare di un quinto le volumetrie degli edifici costruiti, è passato con un colpo di mano dell’assessore al Territorio, il leghista Davide Boni, che ha presentato in aula una ventina di emendamenti al testo uscito dalla Commissione. Mossa tattica, per far decadere gli oltre 200 emendamentì presentati dall’opposizione e riuscita solo in parte, perché un centinaio sono stati ri-presentati come subemendamenti alle modifiche introdotte dall’assessore.

Da oggi, a conclusione della votazione in Consiglio, anche nei parchi si potrà demolire e ricostruire in deroga ai piani di coordinamento degli stessi Anche nei centri storici, come pressocchè ovunque nel territorio lombardo, si potrà ampliare e ricostruire (+20% o 30% di volumetria) sostituendo gli edifici esistenti che non si adattano al contesto storico e architettonico. Fuori dai centri storici si potrà incrementare la volumetria esistente perfino del 3O%, se si useranno tecniche e materiali in grado diminuire di un terzo i consumi per il riscaldamento. Ma l’interessato che costruisce in più dovrà solo «dotarsi» della certificazione energetica, non sarà più obbligato a presentarla in Comune.

Ancora, in caso di «congruo equipaggiamento arboreo» pari almeno a un quarto del lotto interessato, I’incremento di volumetria ammesso sarà del 35%. Si potranno convertire in residen­za i capannoni industriali e artigianali - non commerciali e terziari - per una quota pari alle volumetrie definite dagli indici residenziali del luogo.

Infine, i quartieri di edilizia pubblica. Qui l’incremento mas­simo arriva al 40%. Potrà riguardare un complesso di edifici e non uno solo e potrà concretizzarsi in un palazzo nuovo di zecca. La volumetria potrà essere ceduta a operatori privati e la durata di applicazione della legge sarà di 24 mesi.

Ma difficilmente si finirà lì: l’assessore Boni, infatti, già anticipa la possibilità di una nuova legge dicendo che «potremmo essere interessati a far diventare fissa la norma sui centri storici perché, purtroppo, ci troviamo davanti a delle situazioni legate agli anni Cinquanta e Sessanta che non hanno nulla a che vedere con l’uniformità dei centri storici».

Il commento

Questa legge viene propagandata come la risposta lombarda alla crisi e alla domanda abitativa. Ma il suo contenuto nulla ha a che vedere con questi obiettivi.

Si tratta infatti di un provvedimento che non fa i conti coi problemi strutturali del settore e che non si pone il problema dell’utilizzo del patrimonio immobiliare già esistente ed inutilizzato, a partire dall’enorme numero di case sfitte.

Per di più, si tratta di una legge che non riguarda la difficile situazione di quanti vivono sulla loro pelle la crisi: quelli che fanno già fatica ad arrivare a fine mese, pagare l’affitto o il mutuo e che, molto probabilmente, non sono nelle condizioni di accedere ai benefici di questa legge.

Essere proprietari di immobile è la prima condizione, avere disponibilità economiche sufficienti è la seconda. Ma proprio in questa crisi inedita occorre ricordare che la bolla finanziaria è nata dall’eccesso di consumi individuali sostenuto dall’indebitamento a cui le banche hanno spinto i cittadini. Ebbene, è quanto spinge a fare la legge in discussione, frutto di un accordo instabile Lega-PDL (difficile punto di equilibrio di poteri e poltrone dentro cui finiscono in questi giorni le stesse nomine della sanità), che distrugge il concetto di casa come bene sociale e ne fa l’ennesima fonte di rendita, in particolare per quegli interessi immobiliari che si getteranno alla caccia dell’affare esteso a tutte le tipologie costruttive possibili ed immaginabili.

Fino all’edilizia residenziale pubblica, contemplata nel provvedimento forse per ingraziarsi il favore delle cooperative di ogni colore.

Dietro la risposta alla crisi e al fabbisogno abitativo si nasconde (malamente) l’ennesimo favore alla rendita e ai costruttori e l’attacco al territorio e all’ambiente.

Un attacco che non ha precedenti e che cancella, anche se per “soli” 24 mesi, le prerogative di comuni, province, parchi e comunità montane e che fa tabula rasa di tutti gli strumenti urbanistici.

Siamo abituati all’uso delle leggi in Lombardia per andare fuori legge…

Come se l’aumento del 20% o del 30%, a seconda dei casi, non avvenisse sottraendo altrettanto volume agli spazi comuni, caricando gli acquedotti, le fogne, i servizi comunali oltre misura, rompendo l’armonia di agglomerati frutto di una convivenza e di una storia comune. E’ il trionfo del “fai da te”, della prevalenza del privato sul pubblico, dell’uniformità dell’interesse economico usurante, che distrugge le diversità delle comunità.

I Comuni sono messi fuori gioco: verrebbe da ridere, se non ci fosse invece da piangere, di fronte al termine perentorio del 15 Ottobre prossimo posto agli enti locali per individuare e comunicare le zone nelle quali la legge non andrà applicata, per la presenza di eccezionali vincoli storici, ambientali, culturali. Senza contare sul danno erariale che deriverà con la riduzione del 30% degli oneri di urbanizazzione con cui verranno premiati i costruttori.

Si tratta di incrementi volumetrici che si concentreranno in particolare nelle zone urbane più fittamente utilizzate, soprattutto in ambito metropolitano: basti pensare alle cosiddette “coree” costituitesi nelle grandi periferie urbane del triangolo industriale negli anni Cinquanta inglobate nella successiva e più massiccia espansione metropolitana.

Si tratta, nel complesso, di una tendenza - precocemente praticata dalla Lombardia, ma poi generalizzatasi a livello di legislazioni nazionali e regionali - che alimenta una sostanziale sfiducia negli esiti prodotti dall’applicazione delle norme sui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici.

Lariduzione dello spazio pubblico per abitante (realmente “inedificato”, cioè non pertinenziale ad un edificio), si risolve in un’accresciuta pressione antropica, che peggiora la qualità della vita, anche se aumenta la rendita monetaria dei proprietari.

In conclusione, una vera cuccagna per chi vuole costruire in barba ai piani regolatori: una vera disgrazia per quanti il diritto alla casa non l’hanno visto mai!

Qui il sito di Mario Agostinelli

E infine, dopo settimane di annunci, smentite, commissioni sconvocate e sedute rinviate, martedì sera il Consiglio regionale ha approvato, con il voto contrario di tutte le opposizioni, il «piano casa» della Lombardia, in una versione persino peggiorata rispetto al testo originario. In tanti speravano invece in un esito diverso, visti i numerosi dissidi nella maggioranza,ma poi è successo l’esatto contrario, cioè il centrodestra si è improvvisamente ricompattato attorno agli interessi e alle spinte provenienti dai gruppi di potere immobiliare che ormai costituiscono il vero governo del territorio a Milano e dintorni. Certo, la ragione che ha portato di nuovo pace – e che aveva motivato la guerra? - nel centrodestra c’entra poco con l’urbanistica, ma così vanno le cose nel regno di Roberto Formigoni. Infatti, mentre il Consiglio dibatteva, in un’altra stanza il «governatore» ha formalizzato le nomine dei nuovi presidenti e direttori generali degli Irccs, cioè della cosiddetta «eccellenza» della sanità lombarda.

E a parte il fatto che Comunione e Liberazione ha ribadito il suo strapotere, compresa l’inquietante nomina al vertice della Fondazione Policlinico-Mangiagalli-Regina Elena dell’antiabortista e leader ciellino Giancarlo Cesana, la novità consiste proprio nei posti concessi alla Lega, che si aggiudica il presidente dell’Istituto Tumori e il direttore generale del Besta. Insomma, una poltrona vale ben un po’ di mattoni. Comunque sia, il prezzo di questo baratto di potere alla fine lo paga il territorio lombardo con una brutta legge, priva di progetto e consistente in una maxi-deroga alle norme urbanistiche ed edilizie e in bonus volumetrici generalizzati, per la durata di 18 mesi, che metterà a dura prova quei comuni che volessero garantire un minimo di controllo e governo della situazione, che aggiunge ulteriore confusione a un quadro normativo sempre più intricato e incoerente e che comporterà densificazione abitativa e consumo del territorio incontrollati. E tutto questo senza nemmeno rispettare i vincoli indicati dall’Accordo Governo-Regioni del 1° aprile scorso, che la stessa Lombardia aveva sottoscritto.

Per dare un’idea di che cosa stiamo parlando, ma senza perderci nei tecnicismi, basti ricordare che queste deroghe consentiranno di ampliare del 20% gli edifici residenziali della dimensione fino a 1200 metri cubi. In caso di sostituzione, cioè di demolizione e ricostruzione, il bonus volumetrico arriva invece al 30% (al 35% se ci metti anche qualche albero) e questo sarà possibile anche con edifici non residenziali, con tutte le annesse preoccupazioni circa la salvaguardia delle attività produttive. Nel caso dei quartieri popolari, cioè di edilizia residenziale pubblica, il bonus arriva fino al 40%, viene calcolato sulla base della volumetria complessiva esistente nel quartiere e può concretizzarsi anche in nuove costruzioni. E come se non bastasse, la volumetria aggiuntiva generata dall’edilizia pubblica può essere ceduta dalle Aler e dai Comuni a dei soggetti privati. Certo, c’è il vincolo della destinazione ad alloggi Erp, ma questo concetto significa ormai di tutto e di più. Anzi, nel caso in esame, significa tanta edilizia convenzionata e poca o nulla edilizia sociale. Va poi rammentato che tutte le deroghe e i bonus, sebbene con qualche vincolo in più, valgono anche nei centri storici e nei parchi. Infine, tra i peggioramenti introdotti dal Consiglio regionale di martedì va segnalata l’abolizione dell’obbligo di «produrre al comune» l’attestato di certificazione energetica ad intervento edilizio terminato. Sarà poca cosa in mezzo a tanto mattone libero, ma considerato che la presunta bontà di questa legge veniva giustificata con l’incentivo al risparmio energetico, forse questo particolare spiega molto più di tante parole.

L’autore Luciano Muhlbauer è consigliere regionale della Lombardia, Prc

Il piano casa in discussione in Consiglio regionale della Campania rappresenta una gravissima minaccia per il paesaggio, i centri storici e per l'assetto del territorio.

In spregio ai valori del paesaggio campano universalmente riconosciuti, la proposta della giunta consente ampliamenti e sostituzioni dei volumi esistenti anche in zone soggette al vincolo paesaggistico.

I poteri di pianificazione urbanistica dei comuni sono completamente esautorati. La Regione Campania peggiora persino l'intesa Stato/Regioni del 31 marzo 2009 che prevede la regolamentazione degli interventi "attraverso piani/programmi definiti tra regioni e comuni". Il disegno di legge in questione fa purtroppo piovere sui comuni deroghe ai loro piani urbanistici decise direttamente dalla proprietà fondiaria.

Ancora più scandalosa è poi la possibilità di sostituire volumetrie anche modificandone la destinazione d’uso, senza escludere con chiarezza i centri storici, compromettendo scelte urbanistiche fondamentali di competenza dei comuni. In particolare, l’assetto urbanistico della regione Campania, ma soprattutto quello della città di Napoli, verrebbe sconvolto da radicali trasformazioni in base a semplici istanze di privati cittadini (si pensi a cosa accadrebbe nella zona industriale di Napoli est).

Assisteremo così alla stravolgimento del territorio campano, già compromesso dalla speculazione e da anni di abusivismo edilizio.

Ci appelliamo pertanto al Capo dello Stato affinché richiami la Regione Campania al rispetto dell’art. 9 della Costituzione repubblicana, oltre che delle prerogative dei Comuni, scongiurando un irreparabile attentato al territorio e al suo intangibile patrimonio culturale e paesaggistico.

Inviare le adesioni a
carloiannello1@virgilio.it

Salvatore Settis, Direttore Scuola Normale Superiore di Pisa,

Lidia Croce,

Silvia Croce,

Alberto Asor Rosa, professore emerito di letteratura italiana,

Piero Craveri, preside della Facoltà di Lettere dell’Università Suor Orsola Benincasa,

Vezio De Lucia, urbanista,

Vittorio Emiliani, Comitato per la bellezza,

Marta Herling, segretario generale Istituto italiano per gli studi storici,

Luigi Labruna, professore di storia del diritto romano, Federico II

Giovanni Losavio, presidente nazionale di Italia Nostra,

Aldo Masullo, professore emerito di filosofia morale,

Gerardo Marotta, presidente Istituto Italiano per gli Studi Filosofici,

Giovanni Pugliese Carratelli, accademico dei Lincei,

Fulco Pratesi, presidente onorario WWF,

Edo Ronchi, presidente della fondazione per lo sviluppo sostenibile, già ministro dell’ambiente,

Edoardo Salzano, urbanista,

Antonello Alici, segretario generale di Italia Nostra

Gianfranco Amendola, magistrato,

Mirella Barracco, presidente della fondazione Napoli 99

Giovanna Aronne, docente facoltà di agraria portici

Maria Carmela Caiola, architetto

Francesco Canestrini, architetto, Italia Nostra Caserta,

Giuseppe Cantillo, professore di filosofia morale, Federico II

Ornella Capezzone, WWF Campania

Alfonso Cecere, professore di diritto amministrativo,

Antonino De Angelis, Italia Nostra penisola sorrentina

Alessandro Dal Piaz, professore di urbanistica, Federico II,

Luigi De Falco, segretario del consiglio regionale di Italia Nostra,

Mario De Cunzo, architetto, già soprintendente ai beni ambientali e architettonici,

Raffaella Di Leo, presidente del consiglio regionale della Campania di Italia Nostra,

Guido Donatone, presidente della sezione di Napoli di Italia Nostra,

Paola Gargiulo, architetto,

Alberto Gentile, direttore WWF salerno,

Andrea Fienga, WWF penisola sorrentina,

Maria Rosaria Iacono, Italia nostra Caserta,

Carlo Iannello, professore di diritto dell’ambiente, SUN,

Alberto Lucarelli, professore di Istituzioni di Diritto Pubblico, Federico II,

Sergio Marotta, professore di sociologia giuridica, Suor Orsola Benincasa,

Massimo Maresca, Italia nostra penisola sorrentina,

Luca Palladino, architetto,

Giulio Pane, professore di Storia dell’architettura, Federico II,

Luigi Rispoli, avvocato,

Massimo Rossano, Associazione Parco Sebeto,

Ulderico Pomarici, professore di filosofia del diritto, SUN,

Francesco Santoro, architetto, Italia nostra Cava de’Tirreni,

Valeria Santurelli, architetto, Italia nostra Napoli,

Francesco Saverio Lauro, avvocato marittimista, già presidente dell’autorità,

Eleonora Scirè, architetto, Italia nostra Salerno,

Sauro Turroni, architetto, già Senatore della Repubblica

Il piano casa, approvato in via definitiva il 1 luglio 2009 dal consiglio regionale, pur corretto in alcuni punti grazie all’insistenza di alcuni consiglieri dell’opposizione, rimane una brutta legge che apre la strada ad un nuova massiccia densificazione del territorio e che, a fronte di benefici assai modesti sotto il profilo ambientale, avrà gravi conseguenze sulla forma e sull’immagine delle città venete.

Gli aspetti migliorativi introdotti riguardano: l’esclusione dei centri storici dal disordinato aumento di volumetria indotto dalla legge, l’obbligo della compatibilità urbanistica dell’area per poter ricostruire ed ampliare gli edifici non residenziali e la soppressione del “silenzio assenso” nel caso in cui i comuni non decidessero nei termini quali aree tutelare dall’applicazione della legge. Restano però troppi aspetti negativi che inducono a confermare decisamente la bocciatura della legge.

Non si è tenuto in alcun conto l’accordo Stato-Regioni sottoscritto il 31 marzo 2009. Il Consiglio regionale ha voluto eccellere nella “deregolazione”, consentendo l’ampliamento per tutte le tipologie di edifici, residenziali e no, indipendentemente dal volume esistente e senza alcun limite massimo di volumetria. Anche i condomini potranno essere ampliati, purché sia unicamente rispettato il regolamento interno. Ognuno può immaginare quale effetto sulla qualità dell’ambiente urbano delle periferie comporterà questa attività edilizia senza regole.

L’aspetto peggiore della legge riguarda però la possibilità di ampliare gli edifici non residenziali.

Tutti i documenti di analisi, allegati ai piani urbanistici comunali e sovracomunali, hanno denunciato la dispersione insediativa che ha caratterizzato lo sviluppo del territorio, sia per quanto riguarda il sistema residenziale che quello produttivo. Logica vorrebbe che la Regione prescrivesse che all’interno dei Piani di Assetto del Territorio comunali (PAT) ed intercomunali (PATI), che i comuni stanno elaborando, fosse prevista la razionalizzazione degli insediamenti attraverso l’accorpamento delle aree produttive. Invece, la possibilità di demolire ed ampliare fino al 50% del volume esistente tutti edifici produttivi, anche quelli incongrui, di fatto vanifica qualsiasi intento di riordino del territorio e di riqualificazione delle aree cementificate disperse e atomizzate.

Un altro aspetto negativo si configura nel fatto che l’obiettivo di incentivare il ricorso all’edilizia ecocompatibile ed alle fonti rinnovabili di energia, risulta debole e residuale rispetto a quello, di gran lunga prevalente, di riaprire i cantieri edilizi. L’ampliamento del 20% è concesso a tutti, così come il 30% in più in caso di ricostruzione. Per le buone tecniche della bioedilizia e del risparmio energetico sono previsti solamente un bonus di volume aggiuntivo del 10% e la riduzione degli oneri di costruzione. Ci si sarebbe aspettato che una legge orientata a promuovere l’edilizia sostenibile subordinasse la possibilità di ampliare gli edifici, in deroga alle norme urbanistiche, al rispetto integrale di precisi requisiti prestazionali sia per l’utilizzo di materiali ecocompatibili che per il conseguimento del risparmio energetico. Il “Piano Casa” regionale, invece, non prescrive nessun requisito prestazionale per ottenere l’ampliamento volumetrico e si presta, pertanto, a facili furbizie (basterà un’autocertificazione che attesti di aver inserito qualche riduttore di flusso nei rubinetti o una vernice di origine naturale o un pannello solare, dai costi irrilevanti) per avere diritto ad un significativo aumento di cubatura e di plusvalore dell’immobile. L’unico parametro preciso di risparmio energetico prescritto dalle norme è quello per ottenere l’annullamento del costo di costruzione nei casi di ampliamento e di demolizione con ricostruzione. Sicuramente un dispositivo molto generoso per i costruttori, che vengono addirittura “pagati” con la riduzione degli oneri per costruire in modo ambientalmente sostenibile.

Ultimo appunto contrario al disposto regionale è quello relativo all’assenza di Valutazione Ambientale Strategica (VAS). La direttiva comunitaria 2001/42/CEE impone la VAS per i piani e programmi elaborati nel settore della pianificazione territoriale e della destinazione dei suoli che abbiano effetti significativi sull'ambiente. Non v’è dubbio che la legge regionale approvata ha un impatto assai rilevante sul territorio e produrrà, di conseguenza, effetti significativi sull’ambiente. La VAS pertanto era obbligatoria. Avere approvato la legge in sua assenza ipotizza un vizio di legittimità, che potrà essere impugnato presso il tribunale amministrativo, e che costituisce, in ogni caso, un’infrazione alle leggi comunitarie passibile di sanzioni da parte della comunità europea.

Lorenzo Cabrelle è membro del direttivo Legambiente Padova

Ampliamento del 20% (articolo 3); uni-bi familiare, volume massimo 1000 metri cubi, non più alta di 7 metri: sono questi i requisiti dell'edilizia esistente che godrà in Campania della cementizia manna governativa. Questo tipo edilizio, in Lombardia, nel Veneto, in Friuli, è assai diffuso: è la villetta dei "cumenda" brianzoli, del varesotto, della brembana, che sistematico sostegno assicurano ai partiti di maggioranza (e vanno sì premiati). Villette disegnate nei piani regolatori di quei territori come edilizia sparsa. In Campania invece è quell'edilizia che ha devastato il territorio in decenni di attività abusive, che la legge recepita talquale dalla giunta regionale la norma governativa di indirizzo premia con ulteriori possibilità edificatorie. E se del condono ancora non hanno fruito, in quanto edificate (tante, in Campania) dopo i termini previsti dalla leggi di sanatoria, ecco come legittimarle. Anche in deroga ai piani paesistici: a Ischia come a Cuma o a Massalubrense, o sulle pendici del Vesuvio o del Faito e altrove ancora.

Sostituzione edilizia con ampliamento del 35% (articolo 4). Anche in deroga ai piani paesistici: a Ischia, a Cuma, a Massalubrense, sulle pendici del Vesuvio, del Faito... stavolta la preesistenza edilizia può non avere limiti dimensionali di sorta e per tutti indistintamente il premio è del 35%. E così anche le Masserie della Piana del Sele potranno diventare, una volta demolite, bei condomini di cemento armato.

Riqualificazione aree urbane degradate (articolo 5). A definire il significato del termine aree urbane stavolta non è la Regione, ma sono incaricate le amministrazioni comunali. Esse, se vorranno intendere la norma in tal senso, potranno anche definire i centri storici come aree urbane degradate. Mentre infatti negli altri casi (articoli 3 e 4 della legge) i centri storici sono espressamente fatti salvi, l'articolo 5 rinvia in maniera assai ambigua al 4, lasciando ampi spazi di interpretazione.

Una ad una, le regioni, predisponendo le rispettive leggi, si apprestano a rinunciare al governo pubblico del territorio, accettando supinamente (o convenientemente) l'ordine del governo centrale. È la sublimazione dell'estemporaneità, dell'improvvisazione: l'esatto contrario della pianificazione. Allineata a tante altre, la Campania rinnega anni di lavoro e di discussioni democraticamente sviluppate sul territorio, che hanno portato solo qualche mese fa all'approvazione del suo primo Piano territoriale.

In sostanza, la giunta propone al Consiglio di gettare a mare il lavoro fin qui svolto, riconoscendo nel nuovo testo normativo, una più congeniale risposta ai fabbisogni.

Il Ptr, pur discutibile in quanto ancora privo di norme attuative, ancora non calibrato sulla dimensione concreta del paesaggio, ancora privo di un confronto adeguato con la seria pianificazione paesistica vigente disegnata dal ministero per i Beni culturali, merita una sintesi sui temi del disagio abitativo, del recupero delle aree industriali in dismissione, della sicurezza del patrimonio edilizio, della salvaguardia dei centri storici e delle aree rurali, mirata allo snellimento delle procedure necessarie per concretizzare tali obiettivi e alle forme di incentivi necessarie per il coinvolgimento dei privati.

La nuova disciplina regionale non contiene il paesaggio: anzi, contrasta con il decreto legislativo numero 627/08 che ha modificato il Codice dei Beni culturali prescrivendo che i piani paesistici non possano essere più redatti, modificati, né a maggior ragione derogati dalle Regioni. Recependo le indicazioni della Corte costituzionale, lo Stato da appena un anno è tornato a impossessarsi dell'obbligo costituzionale della tutela del paesaggio, rammentando che alle regioni ne è invece affidata la valorizzazione. La novità del Codice è pure che gli stessi centri storici debbano essere soggetti a tutela. Il disegno di legge regionale pecca pertanto di un gravissimo e palese vizio di incostituzionalità.

L’autore è segretario regionale di Italia Nostra Campania

Fra la popolazione gira una battuta: il primo esodo ce lo ha imposto il terremoto e il secondo, come se non bastasse, il G8. La città è un deserto. Le forze dell'ordine hanno fatto il giro degli esercizi pubblici, consigliando la chiusura. Ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono state imposte le ferie forzate. La viabilità è sconvolta, molte strade vietate alla circolazione. Per gli abitanti delle tendopoli, la vita quotidiana in questi giorni è diventata una avventura da corso di sopravvivenza. La sicurezza dei grandi è insicurezza per gli aquilani. Chi ne aveva la possibilità, se ne è andato. Il sogno di Berlusconi, che sperava di accogliere i grandi della Terra fra ali di terremotati festanti si è infranto da tempo. Gli aquilani, aldilà delle appartenenze politiche o culturali, hanno ormai chiaro in testa ciò che sta a loro accadendo.

L'aiuto umanitario, l'assistenza alle popolazioni civili nell'emergenza, come sperimentato in tante parti del mondo, non sono neutrali. Possono essere orientati alla valorizzazione delle energie locali, alla salvaguardia dello spirito comunitario, alla partecipazione cittadina. Possono essere anche però uno strumento potente per favorire passività e dipendenza, ed è questo ciò che il Governo ha scelto di fare a L'Aquila.

I piani per la ricostruzione e i progetti per l'inverno, se esistono, sono un mistero per gli aquilani e perfino per gli amministratori locali, che hanno già espresso la propria contrarietà a quel poco che si sa. Il rapporto fra gli abitanti della città e l'intervento statale è tutto impostato in una relazione fra privati, accentuando la solitudine di chi non si può permettere di intervenire, per reddito o per gravità della distruzione, sulla propria casa.

La ricostruzione poteva essere l'occasione per un processo partecipativo e democratico teso a ridisegnare la città secondo criteri che favorissero una nuova socialità, la sostenibilità ambientale, la coesione comunitaria. Si poteva insomma ricostruire l'Aquila come si dovrebbe ricostruire il mondo del dopo crisi. Sta avvenendo il contrario, in una situazione di incertezza che distrugge l'animo di chiunque ne sia coinvolto, in un clima di militarizzazione e di controllo che diventa ogni giorno più pesante, anche prima del G8.

La gente aquilana che raccoglie i propri panni e lascia la città è, con il suo silenzio, la più forte manifestazione di dissenso che si potesse immaginare, con il suo segno tragico e la sofferenza che porta con sé. E' assai probabile che i media non ce la faranno vedere ma chiunque conosca un aquilano la sa, e ognuno di noi ha il dovere di raccontarla.Quelli che a L'Aquila rimangono, trovano il modo di esprimere la propria voce, in modo dignitoso, pacifico, anche in questi giorni difficili, così come hanno fatto in tanti nella manifestazione sotto palazzo Chigi e nella intensa e forte fiaccolata alle 3,32 di domenica scorsa, a tre mesi esatti dal terremoto.

E' un periodo in cui le persone sentono una distanza abissale dalla politica e anche dalle forze progressiste, dimentiche ormai che la loro sola forza risiede nella condivisione della vita quotidiana delle comunità locali. Le rappresentazioni simboliche di conflitto agite sulla testa, o senza il consenso, delle popolazioni che si vuole difendere secondo noi non colgono nel segno. Gli aquilani vogliono affermare il loro inalienabile diritto di rappresentarsi da sé. Questa esigenza va rispettata, sostenuta, favorita, con spirito di servizio e di solidarietà, in questi giorni assurdi e in tutti quelli che verranno poi.

200mila metri quadri ogni giorni mangiati dal cemento che avanza nel bacino del Po. Questo l’inquietante risultato che emerge dal primo rapporto sui consumi di suolo presentato oggi a Milano dall'Osservatorio Nazionale sul Consumo di Suolo (ONCS), costituito da INU, Legambiente e DiAP del Politecnico di Milano. 20 ettaridi territorio che l'urbanizzazione ricopreogni giorno, in un processo inesorabile che cancella quotidianamente aree grandi come 12 piazze del Duomo di Milano o, se preferite, 28 volte Piazza Maggiore di Bologna.

Il primo rapporto sui consumi di suolo è lo strumento necessario per avviare nel nostro Paese la raccolta sistematica di dati necessari a conoscere le dimensioni di un problema ambientale, fortemente connesso al modo in cui si sviluppano le nostre città, ma fino ad oggi sostanzialmente inesplorato.

Su 20 regioni infatti, solo 6 hanno avviato la ricognizione delle trasformazioni del suolo nel tempo, e tra queste spicca la Lombardia con 288.000 ettari di superficie ormai 'sigillati' dall'urbanizzazione. In Emilia Romagna invece, su un arco temporale esteso dal 1976 al 2003, il territorio urbanizzato è quasi raddoppiato, passando dal 4,8 al 8,5% della superficie regionale, mentre ancora maggiore è stata la perdita di aree agricole: ben 198.000 ettari, l'intera superficie media di una delle 9 province emiliano-romagnole.

In Friuli Venezia Giulia, nel ventennio 1980-2000 si sono dilapidati 'solo' 6.482 ettari agricoli, ma dobbiamo tener conto che siamo in presenza di una regione di dimensioni ben più modeste e con una popolazione inferiore a 1.200.000 abitanti. Altissimo poi il dato dell'urbanizzato consolidato pro-capite: per ogni abitante residente vi sono ben 581 mq di superfici urbanizzate, contro i 456 dell'Emilia Romagna, i 310 della Lombardia e i 296 del Piemonte.

“Siamo partiti dal prendere atto di questa situazione di grave carenza informativa – dichiara Federico Oliva, Presidente nazionale INU – che costringe coloro che si confrontano con il governo delle trasformazioni, e quindi in primo luogo gli urbanisti e gli amministratori, ad essere privi di qualsiasi riscontro reale circa l'efficacia delle scelte di pianificazione: da qui la decisione di costituire un Osservatorio Nazionale sui Consumi di Suolo, che produca dati ma soprattutto pungoli le istituzioni a farlo in modo sistematico, coordinato e trasparente”. ONCS infatti può contare solo sull'impegno e sul lavoro volontario promosso dalle organizzazioni che lo compongono, ma lo sforzo di ricerca ed elaborazione necessario a raggiungere l'obiettivo, quello di produrre una rappresentazione fedele e aggiornata del consumo di suolo in tutta Italia, è davvero immane.

Tra le regioni su cui l'Osservatorio ha potuto lavorare con dati di buona qualità vi sono le tre del bacino padano (Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte): 200.000 metri quadri, ovvero 20 ettari è la superficie di territorio che l'urbanizzazione ricopre ogni giorno nel bacino del Po, tenendo conto che 20 ettari corrispondono alla dimensione di 12 Piazze del Duomo di Milano o, se preferite, a 28 volte Piazza Maggiore di Bologna.

Il lavoro dell'osservatorio non si è limitato a misurare il suolo 'consumato' dall'urbanizzazione, ma ha valutato anche le trasformazioni del suo uso: suoli agricoli che vengono abbandonati alla natura, zone umide bonificate o ripristinate, insomma una 'fotografia' delle mutazioni recenti del nostro paesaggio. Anche per quanto riguarda il fenomeno preoccupante dell'erosione delle superfici agricole il protagonista resta l'urbanizzazione, responsabile di 2/3 delle perdite di suolo agricolo, con l'aggravante che ben difficilmente i suoli 'sigillati' da cemento e asfalto potranno mai tornare ad essere produttivi: nelle regioni del Grana Padano e dei salumi 'made in Italy', Emilia Romagna e Lombardia, ogni giorno scompaiono 32 ettari di superfici agricole: le dimensioni di una media azienda cerelicola.

“Il dato ha una sua chiara e drammatica gravità, legata alla scomparsa definitiva delle terre più fertili e produttive d'Europa – rileva Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia – seguendo l'esempio della Germania della Merkel, l'Italia deve darsi un piano nazionale di lotta al consumo di suolo, per questo i dati che descrivono la gravità del fenomeno sono indispensabili, sia per averne piena consapevolezza, sia per monitorare il raggiungimento di obiettivi di riduzione. La mancanza di dati attendibili sul consumo di suolo non giova a nessuno, se non a chi intende avere le mani libere per continuare a spalmare cemento sul territorio'

Tra le maggiori difficoltà nel 'misurare' il consumo di suolo vi è quella di individuare regole comuni di riferimento, che permettano di rendere confrontabili i dati raccolti dalle diverse istituzioni: anche questa è una parte (forse la più importante) della sollecitazione che l'osservatorio intende esprimere nei confronti della comunità scientifica “Rimettere al centro delle politiche urbanistiche la ‘questione suolo’ con tutte le implicazioni sul piano ambientale e sociale che essa impone – dichiara Paolo Pileri del DIAP Politecnico di Milano - è oggi urgent, ha a che fare con la vita di tutti noi e con la qualità di questa vita nei luoghi in cui viviamo. Il suolo è un bene comune sul quale occorre una politica saggia e lungimirante che non può essere quella attuale, peraltro basata sulla quasi totale non conoscenza di quali e quanti suoli si consumano e dove: ad esempio l ’agricoltura paga un prezzo elevatissimo (-10 ettari/giorno in Lombardia, -8 in Emilia Romagna) e su questo l’università può e deve dare il suo contributo tecnico e scientifico per migliorare lo stato delle conoscenze e contribuire a dare risposte”.

Nel dettaglio, dalle aggregazioni provinciali emerge il primato della Lombardia: regione capofila, in Italia, nella produzione di valore aggiunto agrozootecnico, un settore che dipende strettamente dalla disponibilità di suolo agricolo. Ebbene, nel periodo 1999-2006 questa regione ha perso 26.778 ettari di superfici agricole, in gran parte (oltre 22.000 ettari) divenuti urbanizzati, quindi persi irreversibilmente, il resto abbandonati o perchè in aree montane o perchè ridotti a scampoli dove l'interesse a coltivare terreni è crollato. Il risultato consolidato è quello di una regione in cui 288.000 ettari di superficie sono ormai 'sigillati' dall'urbanizzazione: vuol dire che quasi il 14% dell'intera superficie regionale è urbanizzata ma, se ci riferiamo alle superfici della pianura (circa il 55% del territorio regionale), la Lombardia ha già consumato e coperto di cemento quasi un quarto dei suoi territori ad alta vocazione agricola. Perfino peggiori, se rapportati ad una regione che ha meno della metà della popolazione lombarda, sono i numeri dell'Emilia Romagna. Qui i dati sono disponibili su un arco temporale più esteso, dal 1976 al 2003, nel corso del quale il territorio urbanizzato è quasi raddoppiato, passando dal 4,8 al 8,5% della superficie regionale. Ancora maggiore è stata la perdita di aree agricole: ben 198.000 ettari, l'intera superficie media di una delle 9 province emiliano-romagnole, 'bruciati' in un solo trentennio, anche se nel caso di questa regione l'abbandono di ampie superfici coltivate nell'area appenninica ha fornito un contributo determinante alla trasformazione dei suoli. Solo apparentemente più contenuti i dati per un'altra regione settentrionale, il Friuli Venezia Giulia, che dispone di una banca dati sull'uso del suolo. Qui nel ventennio 1980-2000 si sono dilapidati 'solo' 6.482 ettari agricoli, ma dobbiamo tener conto che siamo in presenza di una regione di dimensioni ben più modeste e con una popolazione inferiore a 1.200.000 abitanti. Il dato pro-capite del suolo consumato infatti è alto anche qui: ogni anno, per ogni abitante del Friuli Venezia Giulia, vengono urbanizzati 2,5 mq di territorio. Altissimo è poi il dato dell'urbanizzato consolidato pro-capite: per ogni abitante residente in Friuli Venezia Giulia vi sono ben 581 mq di superfici urbanizzate, contro i 456 dell'Emilia Romagna, i 310 della Lombardia e i 296 del Piemonte. Dati che si spiegano almeno in parte con la presenza, in Piemonte e Lombardia, di aree metropolitane caratterizzate da una forte densità di popolazione in rapporto alla superficie urbanizzata e che danno conto anche di forti differenze tra province della stessa regione (l'urbanizzato pro-capite della Provincia di Milano, ad esempio, è pari a 221 mq/ab, mentre in una provincia a forte caratterizzazione rurale, come quella di Mantova, il dato pro-capite è pari a 684 mq/ab), una forbice destinata ad accrescersi con l'espandersi incontrollato del fenomeno dello 'sprawl' insediativo: in pratica, il consumo di suolo legato all'urbanizzazione è soprattutto a carico delle superfici coltivate, confermando una tendenza storica che, nell'arco di un intero secolo, ha visto la crescita di città e insediamenti a danno della campagna. Arrestare la crescita del consumo di suolo non è dunque solo una grande sfida per la tutela del nostro paesaggio, ma anche una garanzia di presidio delle superfici agricole che da secoli sono state destinate a 'nutrire il pianeta'.

Superficie urbanizzata nelle regioni: dato complessivo e pro-capite


Abitanti (stima '04) Superficie urbanizzata, ettari (anno di riferimento) Sup. urbanizzata pro-capite, mq/ab
Lombardia 9300000 288.000 (2006) 310
Piemonte 4400000 130275 (2001) 296
Emilia Romagna 4100000 187000 (2003) 456
Friuli Venezia Giulia 1200000 69717 (2000) 581

Postilla

Finalmente. Nel 2005 eddyburg aveva lanciato in Italia il tema del consumo di suolo, fino ad allora del tutto ignorato non solo dalla politica e dalle istituzioni, ma anche dalla cultura urbanistica, fin dai tempi della ricerca di Giovanni Astengo sulle aree metropolitane (vent'anni fa); salvo pochissime eccezioni, come il lavoro di R. Camagni, M.C. Gibelli e P. Rigamonti sul costo dell’insediamento diffuso (2002). Abbiamo dedicato al tema, quell’anno, la prima edizione dellla Scuola di eddyburg; i materiali hanno dato luogo a un libro, No Spraw, edito da Alinea nel 2006. Contemporaneamente un gruppo di amici di eddyburg ha proposto un progetto di legge centrato sul contrasto al consumo di suolo, elaborato sulla base di una proposta formulata da Luigi Scano e presentata dall’associazione Polis e da Italia nostra alla commissione parlamentare (2004). Alcuni gruppi della sinistra oggi non rappresentata al Parlamento presentava, quasi integralmente, la proposta di eddyburg.

Intanto, mentre l’Accademia taceva, l’INU era affaccendato a tentar di mediare tra la Legge Lupi per la privatizzazione dell’urbanistica e le deboli posizioni della sinistra maggioritaria. Del resto, aveva plaudito a quel piano regolatore di Roma che, appellandosi a inesistenti “diritti edificatori”, aveva avviato una gigantesca operazion e di consumo del suolo prezioso dell’Agro romano.

Si è persa così l’occasione di una maggioranza di centro-sinistra per approdare a una buona legge . Il quadro politico è peggiorato, ma per fortuna oggi non siamo più soli, sebbene l’attenzione al tema cruciale del consumo di suolo sia molto al di sotto del livello necessario. Si comincia a studiare. Questoperò è lungi dal bastare. Soprattutto se contemporaneamente si mostra cedevolezza, comprensione e perfino accordo su una politica di ulteriore incentivo al consumo di suolo, come quelle espressa dalla recenti “leggi-casa” d’aprés Berlusconi, o da piani regionali pieni di chiacchiere e poveri d’efficacia, o da grandi attenzioni verso i “promotori immobiliari” e i fan dello “sviluppo del territorio”

Alle due del pomeriggio, caldo afoso e voglia di temporale, il signor Giuseppe, 76 anni, sfrutta un refolo d’aria e prova a dormire nella prima branda della tenda 17 tendopoli dell’Acquasanta, la sua casa dal 6 aprile scorso. Alla stessa ora, cinque chilometri più in là, nella caserma della Finanza a Coppito gli artigiani falegnami finiscono di consegnare le suite per i 39 leader del mondo in arrivo per il G8. Saranno pure spartane e però i letti sembrano comodi ed eleganti, legno e tappezzeria color crema. E il pavimento di granito non compete con il fondo di gomma della tenda 17 dove Giuseppe cerca di prendere sonno. Un’ora prima, alle tredici, Carla prende posto sulla panca della sala mensa della tendopoli di piazza d’Armi, un primo di penne con qualcosa che assomiglia alla panna (con questo caldo) e una pietanza che sembra tacchino. “Da tre mesi così” dice scacciando le mosche. “Visto quante ce ne sono?”. Alla stessa ora, sempre in caserma, i maestri falegnami stanno completando l’allestimento delle sale da pranzo per i vertici della prossima settima, ambiente climatizzato, parquet in terra, tavoli rotondi di legno, pareti di vetro oppure foderate di blu e grigio, cristallerie e porcellane, tovaglie di lino.

Due città nella stessa città. Due mondi lontanissimi negli stessi chilometri quadrati. Due facce di un volto solo e che, pure, non si parlano. C’è l’Aquila delle tendopoli, dei disagi, delle mosche, del caldo e della disperazione muta ma profonda di questa gente che a tre mesi esatti dal terremoto dice che «nulla è cambiato» nelle loro non-vite e che ancora non sanno quando cambierà qualcosa. E c’è l’Aquila del G8, i 48 ettari, i 70 campi di calcio, della caserma Vincenzo Giudice che in tre mesi ha visto tutto e il suo contrario, dalle trecento bare adagiate sul cemento della piazza d’Armi al comfort e al lusso declinati ai massimi livelli.

La città del G8 ha confini precisi, militarizzati da cinque mila uomini in divisa sui mezzi e a cavallo, appostati sulle montagne e dietro le batterie antimissili. Ha anche una precisa casella d’inizio, la rotonda tra via Fermi, la statale 80 e l’inizio di viale delle Fiamme Gialle che è stata allestita con un grande mosaico raffigurante un’aquila nera.

La città delle tendopoli comincia subito dopo la linea della militarizzazione e guarda all’altra con distacco, rabbia e diffidenza. Dice Carla mentre scaccia le mosche alla mensa di piazza d’Armi: «Là – e rivolge il volto verso Coppito – c’è il lusso, qui lo vede anche lei: nulla è cambiato nulla da tre mesi. Noi siamo riconoscenti a chi ci ha aiutato ma poi? Quanti soldi hanno speso per il G8? E quanti ne stanno spendendo sulla costa per dare un tetto a trentamila sfollati? Questi soldi non potevano essere subito impiegati qua?». Per esempio, insiste Carla, «io avevo una copisteria in centro, rilegavo tesi e facevo traduzioni. Da tre mesi chiedo se posso avviare l’attività altrove. Nessuna risposta». Eppure a Coppito la Protezione civile ha mostrato tutta la sua geometrica potenza ed efficienza nell’allestire la cittadella del G8. «Fanno tutto – insiste Carla – ma per loro. E per noi? Speriamo che almeno riescano a far restaurare qualche chiesa che sennò, altro che beffa ’sto G8».

È l’incertezza il male oscuro di chi vive nelle tendopoli, non avere date certe, una casella di ripartenza. Marco e sua moglie hanno quattro figli, la più piccola ha tre anni, il più grande ne ha 15. Da tre mesi condividono le tenda n.17 di Acquasanta con altre quattro persone sconosciute. Da allora cercano di avere una tenda tutta per loro. Non è stato possibile.

Ai loro occhi il G8 è solo «una provocazione»: «Noi vogliamo poter fare i lavori in casa e tornarci. Si dovevano concentrare su questo, altro che G8». Per le donazioni dei paesi stranieri «potevano organizzare una gita da Roma e avevamo risolto il problema». Duemila persone potranno andare a vivere nella caserma, nelle oltre mille stanze appena ristrutturate. «Duemila – scrolla la testa Marco – gli sfollati sono 55 mila e le casette basteranno per quindicimila?». I conti, in effetti, non tornano.

I piani di evacuazione dalla caserma scatteranno se e quando i sismografi misureranno scosse tra il 4 e il 4.5 della scala Richter. Gli psicologi volontari raccontano che in questi ultimi giorni l’augurio più diffuso tra gli sfollati è «una bella scossa sotto i piedi e sulla testa dei leader del mondo, così capiscono di cosa si parla».

A Coppito è tutto pronto, la mostra sul made in Italy e il made in Abruzzo, le mense, le tavole, le sale con i traduttori, tutto wifi e connessioni ultra veloci. Bruno ha compiuto 67 anni due giorni fa, vive nella tenda n.21 di Piazza d’Armi, gli hanno regalato un libro, La Gloria di Giuseppe Berto. Mostra fiero la dedica: «Ci vogliono tanti anni per diventare giovani». È un po’ commosso, l’inchiostro sta andando via, colpa dell’umidità delle tende.

Non idonei dal punto di vista idrogeologico A rischio cinque dei venti siti che dovrebbero ospitare gli sfollati abruzzesi. E solo in altri cinque i lavori sono effettivamente cominciati. Il «progetto c.a.s.e.» si avvia al flop. Ma Berlusconi arriva a L'Aquila e rassicura: «I lavori procedono alacremente». Alla vigilia del G8, si svela la beffa delle libertà

Cinque dei venti siti che dovrebbero - secondo gli impegni del governo - ospitare i terremotati abruzzesi a partire dall'autunno, non sono idonei dal punto di vista idrogeologico. Per quasi 2.500 persone "salta" così il tetto promesso «entro sei mesi». È ciò che veniamo a sapere nel giorno della sedicesima visita a L'Aquila di Silvio Berlusconi, svolta secondo un consueto copione: nessun bagno di folla a scanso di contestazioni, repentina convocazione dei media, rassicurazioni e promesse di fronte a telecamere che per tutta la giornata sono state trasportate da un angolo all'altro della caserma della Guardia di Finanza, in attesa della conferenza stampa finale: «I lavori stanno procedendo alacremente», ha assicurato il Cavaliere. Verissimo, per quanto riguarda il G8, con l'inaugurazione del rinnovato aeroporto di Preturo, l'ospedale da campo per i "grandi" a San Salvatore e la caserma di Coppito dove tutto è ormai pronto, compresa una nutrita presenza di servizi segreti mondiali. Molto meno aderenti alla realtà sono le previsioni del Presidente del Consiglio per quanto riguarda le case «provvisorie» che dovrebbero permettere lo smantellamento almeno di una parte delle tendopoli. Ma il premier insiste: «Vorremmo che entro la fine dell'anno tutte le persone che hanno perso un tetto possano avere una nuova casa completamente arredata». Magari gli arredi sono già in viaggio, ma per le abitazioni il premier rimarrà deluso nel sapere - se già non lo sa - che le promesse saranno disattese.

Per capirlo basterebbe fare un giro tra i venti siti predisposti a dar vita al "progetto C.a.s.e.", la scelta che ha soppiantato i tradizionali container e prefabbricati, «perché innovativa e conveniente», come avevano assicurato i vertici della Protezione civile. Solo in cinque casi i lavori sono iniziati: a Bazzano - il cantiere "di punta" - si stanno appena predisponendo le piattaforme su cui sorgeranno gli edifici, mentre nella maggioranza degli altri terreni dominano piante ed erbacce. Ai tanti che a L'Aquila si chiedevano il perché di questo stallo ieri è arrivata una prima risposta: almeno cinque di questi siti sono risultati inidonei dal punto di vista idrogeologico. I terreni espropriati a Monticchio, Pianola, Roio Piano, Assergi e Paganica non potranno essere utilizzati, non sono adatti a "sostenere" degli edifici. Tutto (o quasi) da rifare: localizzazione dei terreni, rilievi, espropri.... Ovvio che, stando così le cose, ben pochi degli attuali 60.000 sfollati (tra tendopoli ed esuli sulla costa adriatica) potranno avere un tetto per l'inverno.

La notizia non è ancora ufficiale, ma al comune dell'Aquila il flop del "progetto C.a.s.e." viene ormai considerato una dura realtà. Del resto da molti paventata quando - dopo le sparate sulle new town - Berlusconi e Bertolaso avevano presentato il progetto di questi piccoli villaggi (costo 700 milioni di euro) destinati a ospitare 9.000 persone a partire dalla fine del 2009 e poi - a ricostruzione avvenuta, dal 2020 in là recita il "decreto Abruzzo" - ipotizzati come campus universitari. Edifici "permanenti" - non smontabili, come invece ha affermato ieri Berlusconi - , con tutte le incognite del caso, prima fra tutte quella di contribuire alla delocalizzazione di città e paesi in tanti piccoli borghi, con la conseguente distruzione delle relazioni sociali già disgregate dal terremoto e il pericolo che quella loro "permanenza" finisca col ritardare sine die la ricostruzione dei centri storici, in primis quello dell'Aquila. Ora a questi dubbi e ai timori per simili danni si aggiunge la beffa dell'inidoneità dei siti scelti.

Ieri Berlusconi non ha parlato di tutto questo, anzi. Ha recitato la solita poesia dell'efficienza, delle «case giardino», del «male da cui può scaturire un bene». Ha esibito ai giornalisti gli «isolatori sismici - vanto della tecnica italiana - capaci di tenere in piedi un'abitazione anche quando un terremoto determina oscillazioni di 20 centimetri». E ha negato qualunque ritardo nel piano di costruzione delle C.a.s.e. Tutt'altro il clima che si respirava negli uffici comunali dell'Aquila: nei cinque siti a rischio avrebbero dovuto trovare un'abitazione quasi 2.500 sfollati, ma non sarà così. Lo dicono le relazioni tecniche che denunciano la fragilità dei terreni, lo confermano - seppur a mezza bocca - alla Protezione civile. Il risultato è che quasi un quarto delle 9.000 persone cui era stato fatto credere che era meglio passare qualche mese in tenda per poi avere una «casa già arredata», rimarranno invece in tenda. Con il risultato che - se non si ricorrerà ai vituperati container e prefabbricati, come era stato fatto in tutti i terremoti del passato - dovranno essere fatti i decreti di restituzione per le aree inutilmente espropriate. Si stanno già cercando terreni alternativi per i nuovi siti. Studiando come sono fatti "sotto", prima di decidere ed esibire cosa costruirci "sopra".

SE L'AFFITTO E' TUTTO NERO

Una stanza fuori città a cinquecento euro e senza contratto. È la giungla dei prezzi per gli studenti e i precari che viaggiano a mille e duecento euro al mese. Così per i giovani diventa impossibile anche fare progetti semplici: finire gli studi, trovare lavoro mettere su famiglia

Camera cercasi lavoratrice 30enne. Zona centro o semicentro. Massima serietà. No agenzie». L’annuncio viene pubblicato un venerdì qualsiasi e il telefonino inizia a squillare già dalla prima mattina. Io sono una ricercatrice precaria dell’università: 1200 euro al mese di assegno mensile, due anni di contratto e poi chissà. Loro sono i padroni di casa a cui si è liberata una stanza. Devono rimpiazzare qualcuno, fare cassa. Prendo, in poche ore, cinque appuntamenti. Li distribuisco in un sabato bollente di fine maggio. Si disegna, lentamente, un mondo.

Comincio dal sontuoso quartiere dell’Eur. Davanti al laghetto, mi tende la mano Rossella, una signora sulla cinquantina, timida e nervosa. Stringe la sua borsa firmata sotto il braccio, mi fa strada con prudenza nel suo condominio: elegante, con un grande giardino. Ci passa accanto il portiere e lei abbassa la testa. Ci metto un po’ a capire che succede. «Glie lo dico subito: io le faccio vedere una stanza, ma non potrei. Insomma, affitto a nero». Parla sottovoce, si vergogna. Saliamo una rampa di scale in un silenzio surreale, come due ladre. Poi lei entra nella porta accanto. La lascia aperta per qualche secondo. Si scorge un appartamento enorme: soggiorno a perdita d’occhio, mobili di buona fattura. Esce con in mano un mazzo di chiavi. «In pratica saremo vicine, ma lei avrà un ingresso indipendente. È importante, per la sua autonomia». Finiamo dentro una camera buia, minimale e un po’ dimessa. Un corridoio stretto, un bagno in disordine, un letto a una piazza davanti a una finestra senza balcone, un piccolo frigo marrone, un armadio. Non vedo la cucina. Chiedo spiegazioni. «Ho due figli, ci teniamo alla nostra privacy e la nostra cucina non si può usare. Però lei si può organizzare: può portare un fornelletto da campeggio, oppure un forno a microonde, o il “bimbi”. Ha presente il robot? Con quello, al giorno d’oggi, si prepara ogni ricetta». Annuisco senza convinzione. Vengo a sapere che per questo accampamento di fortuna chiede 550 euro al mese. Più spese. La metà del mio stipendio. In contanti e sottobanco. «Il contratto io non glie lo posso proprio fare. Dall’altra parte sono in affitto. Ma mi sono separata e questa casa costa. Ha visto il portiere? Lo vede il giardino? Sono tutti lussi che uno si deve poter permettere. Allora mi sono organizzata così». Scivolo via con una strana angoscia addosso. Per un momento sono dispiaciuta per lei.

La macchina sfreccia sul raccordo anulare e, senza navigatore, la casa della signora Claudia è difficile da scovare. Siamo in zona Anagnina, qualche chilometro oltre l’Ikea, a due passi dal campus della Ericsson. La signora mi aveva contattata via sms: «Affitto stanza elegante 500 euro più spese». Ora mi accoglie sulla porta in tuta da ginnastica, rincorsa da un cane che sembra un cartone animato. Sono travolta dal suo calore meridionale. Mi accorgo subito, anche qui, di violare un segreto. «Vieni, entra, passiamo dal giardino. Qui c’è l’orto, guarda. Alla tua stanza si entra di lato». La “mia stanza”, effettivamente, è un incanto. Fa parte di un bilocale che Claudia ha ricavato facendo dividere la sua casa originaria, dove lei adesso abita con il figlio ventenne. «Sono rimasta vedova una decina d’anni fa, allora dovevo trovare un modo per andare avanti. Ho diviso la casa in due e ho ricavato nell’altro spazio due stanze. In una, se vorrai, ci vai tu. Nell’altra c’è una coppia di ragazzi di 25 anni. Lavoratori, puliti». C’è un bagno, c’è una cucina, c’è addirittura il camino. Il giardino con il tavolo e l’ombrellone. C’è il posto auto: è l’unica casa che vedrò in cui la mia macchina non è un problema. Non siamo a Roma, però, ma almeno a un’ora da dove lavoro. E non ci sono mezzi pubblici prima di qualche chilometro. A parte un autobus che sembra passare a singhiozzo. Non c’è il contratto, poi. Neanche qui. «Mi sono sempre regolata così, sulla fiducia. Sullo sguardo». Anche stavolta esco turbata. Divisa tra rabbia e comprensione. Turbata dall’empatia che provo per questa donna che affitta a nero e a prezzi stellari una stanza praticamente fuori città.

Bevo un caffè, lascio la campagna e scappo a vedere altre due stanze in centro. Una è a viale Libia. Zona università e, in teoria, a 10 minuti da dove lavoro. Dovrei abitare con cinque lavoratrici, tutte donne, in un appartamento enorme e fatiscente. La padrona di casa vive al piano di sopra. Non mi conosce, ma continua a chiamarmi con un diminutivo. «Per me siete come figlie, una volta al mese siamo abituate tutte ad andare a mangiare la pizza. A questa cosa, sia chiaro, ci tengo». Niente contratto («a che serve?»), due mesi di anticipo, 450 euro più spese. L’altra camera è in zona San Pietro. Me la mostra un single 40enne: ha ereditato l’appartamento da suo nonno, lui vivrebbe con me, ma non c’è mai, perché i suoi abitano fuori Roma. Affitta la stanza per coprire le spese di gestione. Bollette in comune, più 400 euro al mese. «Il contratto non serve, me li metti in una busta», chiarisce.

Finisco il mio giro dal signor Cesare in zona Capannelle. Di fronte all’ippodromo e alla stazione dei treni. «Ora sono in pensione, ma ero un bancario e ho sempre lavorato in centro. Da qui a Termini sono 10 minuti». È lui a chiedermi la cifra più bassa: 350 euro più spese. Peccato che la stanza sia un loculo e che l’appartamento va diviso con altre tre persone, con un solo bagno in comune. Una cucina appena abitabile, un corridoio stretto, niente soggiorno. Sul contratto, fa una proposta opaca: «Si può fare una scrittura privata, ma speriamo di non doverla usare mai». La filosofia di Cesare è quella di tanti. «Vivo al piano di sopra, ho comprato questa casa per mia figlia. Se un domani si sposa, siamo vicini. Quando mi servirà la casa, io vi avviso e voi ve ne andate. Due, tre mesi ve li do. Così vi trovate un’altra sistemazione. Oppure vi arrangiate. Tanto siete giovani, no?». Esco stordita. Il telefono continua a ricevere telefonate e sms per giorni. «Cerca ancora quella stanza?». No, grazie. Non la cerco più. Meglio restare ancora qualche anno da mamma e papà.

AFFITTARE COSÌ È LA LEGGE

Quattro tipologie contrattuali: dal canone libero a quello minimo prestabilito Molti proprietari italiani affittano casa in nero. Eppure esiste una legge, la 431/98, che stabilisce le tipologie contrattuali a cui attenersi. Che sono quattro: 1) contratto libero: consente al proprietario di stabilire liberamente il canone di affitto. Ma (salvo particolari eccezioni) ha una durata inderogabile 4+4: quattro anni, più rinnovo obbligatorio dello stesso periodo. 2) contratto regolato o concertato o convenzionato: il canone minimo e massimo è stabilito da accordi territoriali delle associazioni sindacali dei proprietari e degli inquilini, di concerto con le istituzioni interessate (Ministero dei Lavori Pubblici e Comuni). La durata è 3+2: tre anni più due di rinnovo. Essendo una forma contrattuale “calmierata”, prevede specifiche agevolazioni fiscali. 3) contratto di natura transitoria: si può stipulare solo in tassativi casi di transitorietà previsti dalla legge; ha una durata di minimo un mese e massimo 18 e non è rinnovabile. 4) contratto studenti universitari: si può stipulare solo nei comuni sede di corsi universitari e nei comuni limitrofi e riguarda solo gli studenti fuorisede. Il canone è compreso entro fasce di oscillazione stabilite dagli accordi sindacali territoriali.

Per far emergere il mercato nero degli affitti, una strada allo studio è quella di ridurre la pressione fiscale sui proprietari, che ad oggi pagano le tasse in base al reddito. Da qui la proposta, nella scorsa legislatura, di una “cedolare secca” sugli affitti: un’aliquota fissa del 20% per tutti i proprietari. A sostenere il provvedimento fu soprattutto Francesco Rutelli, ma mancarono le risorse per tradurlo in una norma. Secondo le stime di Visco, infatti, la manovra sarebbe costata 4 miliardi di euro.

Il 21 maggio scorso sulla proposta è tornato il Ministro Roberto Calderoli, annunciando a margine di un’assemblea di Confindustria di voler riprendere in mano il progetto sulla cedolare secca, assicurando che «presto la misura sarà inserita in un provvedimento». Già a marzo, il Pd si era detto d’accordo al varo di un decreto legge ad hoc. Ma si aspetta ancora.

LA SCHEDA

Nel secondo semestre 2008 gli affitti sono scesi in media in Italia del 4% rispetto al semestre precedente: lo rileva uno studio della Uil secondo il quale il peso dell'affitto sul reddito netto delle famiglie è passato dal 27% del primo semestre al 26,4% del secondo. Tra le città metropolitane solo Genova e Torino hanno registrato aumenti medi dei prezzi di affitto (rispettivamente del 15,8% e del 5,5%) mentre Milano (-17,9%), Bologna (-16,9%) e Roma (-7,9%) segnano una riduzione significativa dei prezzi di locazione. Anche le quotazioni immobiliari di vendita hanno segnato una battuta d'arresto (-0,6% tra il secondo e il primo semestre). La riduzione più pesante l'hanno registrata i prezzi a Bologna con un -6,94%. La città più cara per affittare casa è Roma dove per un appartamento di 70 metri servono in media 1.656,70 euro al mese. A Venezia gli affitti sono in media di 1.470 euro mentre a Firenze ce ne vogliono 1.020. A Milano, secondo lo studio bastano 845 euro a Caltanissetta servono 227

EUROPA A MISURA DI GIOVANI

Germania e Spagna sono le meno care. Qui un neoassunto trova affitti regolari e a prezzo sostenibile. Resta il miraggio di Londra: chi lavora nella capitale inglese spesso costretto a fare il pendolare

Per capire come funziona il mercato degli affitti negli altri paesi, basta scomodare un po’ di amici all’estero. Ne abbiamo tutti molti, in fuga dall’Italia. Esportano sogni e scommesse in posti dove spesso far fiorire i progetti è più facile che qui. A mettere insieme un po’ di storie - via mail, via Facebook o con una chiacchierata su Skype - il dato che emerge è sempre lo stesso: cercare casa a prezzi sostenibili, eccezion fatta per Spagna e Germania, è una fatica anche nel resto d’Europa; ma avere un contratto fuori è la norma. Laura ha 30 anni ed è nata a Pagani, vicino Salerno. Una laurea in architettura, qualche anno tra Parma, Milano e Venezia. È approdata a Parigi tre anni fa, dove lavora in uno studio associato di architetti italiani. «La domanda è molto alta e affittare casa è una guerra. Gli appartamenti per i single sono minuscoli: dai 12 ai 16 metri quadri di media. Tutti i padroni ti offrono un contratto, ma prima di “accettarti” come inquilina devi superare una specie di selezione», spiega. «Le cose vanno più o meno così: trovi un annuncio con sopra l’ora e il giorno per le visite; ti presenti e porti con te un dossier, che contiene le tue ultime buste paga (di solito si chiede una busta paga che sia tre volte il prezzo dell’affitto), una lettera di referenze del tuo precedente proprietario e la dichiarazione dei redditi di una persona che si fa garante per te». Laura spiega che per lei è stata dura: contratto a tempo determinato, genitori-garanti all’estero: ci ha messo un po’ a farsi “scegliere” dai suoi attuali proprietari. «Oggi vivo i miei 16 mq + 4 di soppalco-letto in centro. A 650 euro al mese, tutto incluso».

Angela di anni ne ha 28. Viene da Cagliari, ha studiato a Roma, da quattro anni ha scelto l’estero: prima due anni a Dublino, poi Londra, dove oggi lavora come giornalista freelance e media analyst. «Londra è in assoluto una delle città più care d’Europa. Anche sugli affitti. IPer risparmiare ho scelto una zona residenziale, ai limiti con Peckham, che è considerato un po’ il “bronx” della città. Pago 600 pound al mese, spese comprese. Con contratto».

C’è chi, pur lavorando a Londra come Rocco, - economista 31enne, in Inghilterra prima per un dottorato e adesso per lavoro - sceglie di fare vita da pendolare, per risparmiare un po’. «Sono andato a vivere a Oxford. In molti fanno così. Con 700 sterline». Isabella, invece, è un’antropologa di 30 anni originaria di Fabriano, e lavora a York. «Qui ti fanno sempre il contratto, anche se si tratta di formule più flessibili e meno rigide che in Italia. I contratti tipici durano sei mesi. Ma spesso gli affitti vanno a settimana. Io ho una stanza singola in una specie di studentato privato, dove abitano altre 16 persone, in pieno centro storico. Pago 72 sterline a settimana. Non è molto». Anche in Spagna la situazione è decisamente migliore. Come spiega Marilù, 31 anni, attrice di Taranto. «Abito da sola, in un monolocale a Malasagna, e pago 300 euro al mese, tutto in regola. Qui in Spagna le condizioni di vita per i giovani sono ideali Sto qui da tre anni e non ho mai avuto problemi a mantenermi. Quando abitavo a Roma era tutto più difficile».

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