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A quasi otto mesi dal terremoto, a me pare che l’argomento sul quale si dovrebbe maggiormente riflettere sia quello dell’informazione. Gli approfondimenti critici, salvo rare eccezioni, sono pochissimi, prevale l’ottimismo ufficiale, dominano le immagini festose di Silvio Berlusconi che inaugura nuovi alloggi. Anche la stampa e le reti televisive non favorevoli al governo riconoscono in genere che la ricostruzione del capoluogo abruzzese è stata avviata positivamente, e la accreditano come un successo del presidente del consiglio e della protezione civile.

Invece non è così, all’Aquila la cose vanno molto male, e sarà difficile rimediare agli errori commessi. La ricostruzione è stata impostata come problema esclusivamente edilizio, accantonando la dimensione territoriale, senza un progetto di città. Non era mai successo prima. Mi riferisco soprattutto alla decisione, assunta pochi giorni dopo il terremoto, di costruire nuovi insediamenti abitativi permanenti – abusivamente definiti new town – con l’obiettivo di passare immediatamente dalla tenda alla casa, evitando le sistemazioni in alloggi provvisori, come si fece, per esempio, dopo i terremoti del Friuli e dell’Umbria, dove la ricostruzione è stata tempestiva e soddisfacente.

I dati riportati nelle pagine seguenti dimostrano che i nuovi alloggi in costruzione non bastano (ospiteranno circa 15 mila abitanti, un terzo degli sfollati che stanno negli alberghi sulla costa, in altre sistemazioni precarie, alcuni ancora in tenda) e costano più del doppio delle tradizionali casette provvisorie. Ma qui interessa soprattutto porre in evidenza che l’operazione new town determina lo stravolgimento dell’assetto tradizionale dell’Aquila. Già prima del terremoto la città contava più di 30 frazioni, ma la costellazione urbana era tenuta insieme dalla forza centripeta di un centro storico di grande qualità estetica e funzionale, che agiva come formidabile contrappeso alla dispersione. Nel centro erano concentrate tutte le funzioni pregiate, le istituzioni, circa 800 attività commerciali, lì risiedevano almeno 6 mila studenti. Il terremoto proprio nel centro storico ha prodotto i danni più gravi, determinando il suo totale svuotamento. E dal 6 aprile non si è fatto nulla per riportalo in vita. La maggioranza degli edifici, anche molti monumenti, sono senza protezione, destinati a un degrado irreparabile. Tutta l’energia organizzativa e finanziaria è stata concentrata nella realizzazione delle micro new town (una ventina), disseminate in ogni direzione.

Il modello impresso alla ricostruzione accentua la già netta propensione allo sparpagliamento e a un insensato consumo del suolo. Se prima del terremoto un terzo della popolazione dell’Aquila viveva nelle zone esterne e il resto nelle aree centrali, è inevitabile l’inversione del rapporto, e la stragrande maggioranza dei cittadini vivrà in una sterminata periferia, senza forma e senza memoria. La città non sarà più la stessa, sarà irresistibile la spinta all’esodo, e all’Aquila non si potrà dire, com’è stato in altre circostanze, che il terremoto ha fornito l’occasione per dare slancio a una nuova vitalità culturale, economica e sociale, ma si dirà che ha accelerato fenomeni di declino già manifesti.

Che fare per impedire, o almeno smorzare una tendenza così disastrosa? Intanto, subito, si dovrebbe avviare il recupero del centro storico, mettendo a punto un adeguato progetto di restauro – gli esempi non mancano –, concentrando su di esso ogni risorsa disponibile.

(14 novembre 2009)

Chiarissimo Direttore, la Regione Campania ha finalmente approvato il Piano Casa. Ci sono voluti mesi per trovare un accordo che portasse alla sua approvazione. Eddyburg ha più volte lanciato l'allarme sul rischio devastazione. Ma i centri storici sono esclusi ed erano esclusi anche le aree C dei parchi e C e D dei nazionali.

Ma i vostri eroi - i consiglieri del Gruppo de La Sinistra, hanno compiuto il miracolo. Dapprima hanno dato il loro voto determinante ad un emendamento che permette l'applicazione nelle zone C dei parchi nazionali, poi, per tutelare contadini e vacche, hanno proposto assieme al capogruppo del PDL un emendamento che consente l'ampliamento delle aziende zootecniche in nome della tutela del Provolone del Monaco.

Forse i provoloni siamo noi!

Lei dice “finalmente”, io dico “purtroppo”. Quella legge è una vergogna. Tale era all’inizio, tale è rimasta. É merito (da quanto so) del consigliere regionale Gerardo Rosania se si è potuto sperare a lungo che quell’infamia non venisse approvata. Lei invece mi sembra gioire dell’approvazione. Questo mi sembra il punto. Che poi alcuni consiglieri della sinistra abbiano commesso in aula errori evidenti mi sembra marginale. L'appoggio del capogruppo Scala all'emendamento sulle stalle in area PUT è ingiustificabile. Ma senza la ferma presa di posizione della Sinistra nel suo complesso, il disegno di legge della giunta sarebbe stato approvato all'inizio di agosto, nella sua originaria formulazione, che è comunque, a nostro parere, di gran lunga peggiore di quella votata alla fine dal consiglio. Le insufficienze della Sinistra non mutano di una virgola il giudizio politico complessivo rispetto all'asse di ferro PD-PDL che ha rappresentato sin dall'inizio l'elemento portante di tutte le fasi di questa triste vicenda.

Sorelle e fratelli friulani che tanto vi siete dannati a ricostruire pietra su pietra Venzone e il suo Duomo dopo il terremoto, sappiate che vi siete illusi, “il Duomo di Venzone è una cartolina, una immagine virtuale”. Parola del futuro segretario generale del Ministero, arch. Roberto Cecchi, oggi direttore generale per una sfilza di beni fra cui quelli architettonici. Sorelle e fratelli che tanto vi angosciate per l’Aquila, sappiate che siete degli illusi: restaurare significa “tornare indietro, il restauro è quasi il contrario della tutela”.

Parole dello stesso Cecchi scandite come granitiche certezze davanti a persone che nel restauro e recupero dei centri storici stanno spendendo una vita: Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, lo storico dell’arte aquilano Ferdinando Bologna, lo stesso Roberto De Marco già direttore del servizio sismico, relatori al bel convegno dell’Associazione Bianchi Bandinelli.

Tesi di Cecchi: non bisogna illudersi coi restauri (cosa ci fa lo strutturista Giorgio Croci, salvatore di San Francesco ad Assisi, sulle volte di Collemaggio? Ma chi vuole illudere?), occorre fare prevenzione. Ora, che la prevenzione sia sacrosanta, non c’era bisogno di raccontarlo a quella platea. Ma, di fronte alle macerie dell’Aquila non ancora selezionate, che si deve fare? Un predicozzo sulla mancata prevenzione?

“La direzione generale – aveva esordito Cecchi - non ha avuto nessun ruolo nella vicenda dell’Aquila”. Pensavamo, ingenui: adesso polemizza con l’emarginazione secca delle Soprintendenze a favore di Bertolaso. Invece no, se l’è presa coi restauri. Se questa è l’alba della ricostruzione dell’Aquila vista dal Ministero, è notte fonda.

Era stata, si ricorderà, una invenzione estemporanea del presidente del consiglio che aveva annunciato il piano casa come l’iniziativa del Governo capace di rilanciare l’economia attraverso la rianimazione della stanca edilizia. Un annuncio che tenne campo in una non breve stagione politica e attrasse la generale attenzione. Berlusconi espose un progetto definito minutamente nelle ipotesi di concesso aumento quantitativo delle costruzioni esistenti e ne fece anche oggetto di uno schema di decreto legge, diffuso dal suo ufficio stampa. Un premio di cubatura a favore di chi la casa già ce l’ha, l’edilizia insomma contro l’urbanistica, perché i concessi incrementi quantitativi si impongono sulle diverse previsioni dei piani regolatori. Una libera uscita, guidata e a termine, da regole opprimenti. Un condono preventivo di minori (così considerati) abusi edilizi.

Ma la cultura urbanistica e istituzionale di Berlusconi (e dei suoi consiglieri) non aveva messo in conto che edilizia ed urbanistica, il governo del territorio secondo il lessico del rinnovato titolo V della Costituzione, fanno materia di potestà legislativa concorrente, limitata, quella dello Stato, alla determinazione dei principi fondamentali. E certo non poteva passare per principio fondamentale la previsione legislativa di specifiche ipotesi, minutamente disciplinate, di sospensione temporanea della applicazione dei piani regolatori.

Se ne accorsero con qualche ritardo, dapprima perplesse, le Regioni, che non contestarono il merito della iniziativa governativa, ma fecero quadrato a difesa dalla indebita invasione di campo. La eccezione istituzionale aveva la forza di far irrimediabilmente cadere l’annunciato piano casa. Ma le Regioni si diedero disposte a riceverlo in successione, anzi a farlo proprio, e nella intesa raggiunta nella conferenza unificata Stato – Regioni siglarono l’ impegno a metterlo entro tempi certi nelle loro leggi. Non lo fecero, si intende, senza corrispettivo, perché pretesero dal Governo che rapidamente, entro dieci giorni con decreto legge, semplificasse la disciplina dei procedimenti per il rilascio dei concorrenti titoli abilitativi degli interventi edilizi nelle materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato, dunque innanzitutto per il rilascio di autorizzazioni paesaggistiche e le verifiche preventive sulla osservanza delle misure antisismiche. A quell’intesa seguì di pochi giorni il disastroso sisma d’Abruzzo, di quel decreto legge non si fece nulla e le Regioni si guardarono bene dal pretendere dal Governo l’osservanza del suo impegno (ad attenuare il rigore dei controlli preventivi in funzione antisismica?). Certo è che del decreto legge, con i previsti contenuti, le Regioni non avevano bisogno per far le loro leggi – piano casa.

Non dunque per questa ragione (perché manca il decreto legge) le leggi regionali già approvate e prossime ad essere approvate in adempimento dell’impegno assunto nella conferenza unificata si espongono a rilievi di legittimità costituzionale. Perché tutte non toccano la disciplina del Codice dei beni culturali e del paesaggio (i modi della autorizzazione paesaggistica) e neppure certo la disciplina antisismica.

Non interessa qui affrontare la valutazione comparativa delle leggi regionali – piano casa approvate e prossime all’approvazione. Rimandiamo alle accurate analisi critiche che più centri studio hanno compiuto, mettendo in evidenza le diverse applicazioni dei criteri definiti nell’intesa con il governo, talune perfino estensive, altre più giudiziosamente restrittive come quelle delle leggi di Toscana ed Emilia Romagna, che hanno tentato di ridurre a margini decenti gli inevitabili contrasti con le vigenti discipline di piano regolatore (e hanno per altro riconosciuto ai Comuni la facoltà di escludere l’efficacia del piano casa da speciali definiti ambiti del loro territorio). Perché è chiaro a tutti che si tratta di una misura eccezionale con efficacia a tempo determinato (diciotto o ventiquattro mesi) che esonera in previste e regolate ipotesi edilizie dalla applicazione della vigente e più restrittiva disciplina di piano. Che alla data scadenza riprenderà il suo pieno vigore e dunque vieterà per l’avvenire quegli incrementi edilizi temporaneamente legittimati. Per il principio di non contraddizione neppure le leggi più virtuose possono essere riuscite a far rientrare le nuove misure nella vigente generale pianificazione, perché sarebbe venuto meno il fine stesso dello speciale intervento legislativo, non ne sarebbe concettualmente concepibile la limitata efficacia nel tempo.

Non si è però riflettuto che simili leggi regionali che esonerano temporaneamente dalla osservanza della vigente disciplina urbanistico-edilizia contrastano per certo con i principi fondamentali che orientano la legislazione (concorrente) nella materia del governo del territorio. E se è vero che ancora il parlamento non ne ha formalizzato in un unico testo legislativo i principi fondamentali (la cui determinazione, in materia di potestà legislativa concorrente, è riservata allo Stato), quei principi ben possono e debbono essere riconosciuti operanti nella vigente legislazione statale nella stessa materia. Non sembra allora contestabile che a muovere dalla legge “ponte” del 1967 ancora in gran parte vigente, il sistema legislativo del governo delle trasformazioni urbane e territoriali si è consolidato sull’essenziale principio per cui tutte le trasformazioni anche edilizie debbono essere previste in strumenti generali di pianificazione che ne valutino la rispondenza agli interessi generali degli insediamenti. E contro questo principio, il principio fondamentale del governo del territorio (in difetto del quale il governo stesso si nega), si sono per certo poste tutte le leggi regionali - piano casa, che hanno sospeso a tempo l’applicazione dei piani regolatori, consentendo interventi di trasformazione edilizia non previsti quindi vietati nei vigenti strumenti urbanistici e nella relativa disciplina attuativa. Non sarà certo il Governo, che con l’intesa ha impegnato le Regioni a legiferare contro i principi fondamentali, a sollevare il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. E sembra difficile che l’applicazione delle leggi regionali così fatte diano motivo a contenziosi giudiziari nei quali la questione di legittimità costituzionale possa essere sollevata incidentalmente. E tuttavia non vogliamo piegarci a constatare inerti il grave caso di sofferenza istituzionale.

Ho voluto intitolare la mia riflessione sul post-terremoto “L’informazione intermittente” perché mi sembra che questa sia stata l’attenzione del mondo dell’informazione ai complessi e delicati problemi posti drammaticamente dal terremoto abruzzese dell’aprile scorso.

Intermittente perché soltanto pochi organi nazionali d’informazione se ne sono occupati con la dovuta continuità delegandola in sostanza agli organi regionali e locali.

Intermittente perché, mentre è stata fin dall’inizio molto forte, aggressiva e costante la linea politico-propagandistica scelta dal presidente del Consiglio, con tutti i gravi limiti di una risposta soltanto “edilizia”, incostante e intermittente è stata l’informazione e ancor di più il commento riservato dagli organi nazionali (carta stampata e televisione) alla realtà vera del post-terremoto, al di là cioè del “tutto va nel migliore dei modi” governativo.

Sul primo dato (pochi organi di informazione nazionale se ne sono occupati con continuità) mi pare che non possano esservi obiezioni rilevanti: dei giornali più venduti il solo a dedicare – passata l’ondata emotiva delle prime settimane - servizi estesi e approfonditi è stata “La Repubblica”, insieme all’”Unità” e a pochi altri fra i quali “Il Manifesto”. Anche in sede di commento, ad esempio con la rubrica – molto seguita e apprezzata – di Mario Pirani, il lunedì, nella quale uno dei commentatori più stimati ha posto subito in rilievo l’insufficienza dei finanziamenti e il loro assurdo dilazionamento all’orizzonte 2032.

Giornali importanti come “Il Messaggero” che pure si rivolge, anche nel bacino romano, a numerosi immigrati abruzzesi, hanno delegato soprattutto alle cronache quotidiane locali il compito di informare i lettori (della sola regione però, o a quanti navigano sul web). Compito svolto in modo, occorre sottolinearlo, piuttosto ricco e non poche volte coraggiosamente critico. Un compito, quest’ultimo, che ha svolto con puntualità anche il quotidiano regionale del gruppo L’Espresso, cioè “Il Centro”, la cui redazione ha seguito passo passo le vicende aquilane e abruzzesi.

Mi pare che discorsi analoghi sulla “intermittenza” si possano fare anche per i telegiornali più importanti (a parte, in una certa misura, il TG3 e l’intera RaiTre con trasmissioni quali “Ambiente Italia” e “Report”). Va aggiunto tuttavia che talune trasmissioni televisive hanno invece messo a nudo problemi e punti dolenti del post-terremoto. Mi corre l’obbligo di segnalare fra queste la trasmissione “Terra!” curata da Toni Capuozzo per Canale 5. Dove, nonostante l’appartenenza del canale al gruppo di famiglia Fininvest, in essa si sono dette, o fatte dire, critiche anche di fondo alla linea seguita dal governo nel post-terremoto, mettendo in risalto, per es., il ritardo nella partenza della ricostruzione aquilana, che ha provocato la frustrazione dei piccoli proprietari di alloggi lesionati, i quali hanno preferito – cito l’inchiesta – cominciare a vendere o a svendere a Fintecna.

Colleghi abruzzesi che so obiettivi mi dicono che i giornalisti del TGR Abruzzo hanno sposato, in particolare Daniela Senepa, la causa della ricostruzione aquilana compensando in parte la latitanza di Tg1 e Tg2 e l’intonazione essenzialmente propagandistica delle tv private, tese a spacciare per “ricostruzione” il progetto c.a.s.e.

Non ho visto molto la “Stampa” di questi mesi, dopo le prime settimane. Vedo quotidianamente il “Corriere della Sera” che, a parte alcune vicende di cronaca “nera” (primi scandali, arresti, la vicenda della Casa dello Studente), si è praticamente occupato assai poco dell’Aquila. Nulla di paragonabile comunque rispetto all’attenzione dedicata da “Repubblica” e, nonostante i mezzi molto minori, dall’”Unità”. Nulla di paragonabile all’attenzione dedicata al post-terremoto del 1997 in Umbria e Marche o ai più lontani terremoti del Friuli e dell’Irpinia.

Certo, quel sisma umbro-marchigiano di dodici anni or sono, con assai meno morti (anche perché le scosse erano avvenute a metà giornata) e però con un’area infinitamente più vasta (soltanto nelle Marche le chiese lesionate più o meno gravemente furono 1500 circa), ebbe una risonanza nazionale e internazionale assai più ampia e profonda perché aveva colpito, facendovi le sue uniche vittime, di fatto, un monumento di valore assoluto come la Basilica Superiore di Francesco in Assisi, attorno alla quale – minacciata di crollo totale – si mobilitò un’attenzione anzitutto televisiva di lunga, drammatica evidenza e durata.

Nel terremoto aquilano lo stesso risalto non si è riusciti a darlo, sul piano della comunicazione, alla Basilica di Collemaggio pur così preziosa, né si è riusciti a conferirlo al magnifico centro storico dell’Aquila ben più terribilmente colpito del centro storico di Assisi dove soprattutto talune chiese importanti erano state ferite.

Qui ha giocato probabilmente un ruolo la debolezza con la quale il tema strategico della ricostruzione del centro storico è stato posto in varie sedi risultando così decisamente perdente rispetto alla linea del governo e del suo presidente tutta giocata sull’efficienza edilizia, sul dare un tetto a tutti entro Natale, evitando i container ed eliminando le tendopoli. Tutti sappiamo che i programmi, pur “militari”, della protezione Civile hanno scontato invece seri ritardi, che decine di migliaia di persone sono state disperse negli alberghi e nelle pensioni della costa adriatica o presso case di parenti e amici.

Sappiamo quindi che le comunità locali – rispetto alle soluzioni post-terremoto adottate in Friuli o in Umbria e Marche (io ricorderei anche la bellissima medioevale Tuscania che ebbe, oltre trent’anni fa, più di 30 morti e distruzioni rilevanti, sanate tuttavia con perizia) – si sono notevolmente impoverite. Ma le proteste, gli allarmi, le denunce dei sindaci e ancor più, mi pare, dei parroci e della Caritas non hanno trovato voce nazionale di sorta, o quasi. La loro eco è rimasta insomma provinciale o regionale, al massimo. Quando hanno manifestato inquietudine i vescovi abruzzesi ai quali erano state fatte promesse di gran peso, il Vaticano li ha subito tacitati mandando in poche ore all’Aquila un vescovo ausiliare. Fatto inusitato che ha tuttavia suscitato pochi anche se accesi commenti (cito per tutti l’articolo di fuoco dedicato sull’”Unità” da Filippo Di Giacomo, un sacerdote). Come rari interventi ha provocato la decisione di un Ministero – quello dei Beni Culturali – autoeliminatosi peraltro dall’intera vicenda, di assegnare direttamente alle Diocesi i fondi per le riparazioni più urgenti delle chiese.

Pochi giornali e giornalisti si sono preoccupati di compiere inchieste serie, approfondite “sul campo” e di instaurare raffronti puntuali con le precedenti esperienze di soccorso, di assistenza, di ricostruzione. Operazione interessante e importante dal momento che governo e protezione civile hanno operato stavolta – ecco un altro elemento fondamentale, anche sul piano mediatico – come se non ci fossero mai state in passato quelle esperienze, come se partissero da zero, col fine preciso di dimostrare che si sarebbe fatto prima e meglio. Sul piano di una risposta, lo ripeto, limitata invece all’edilizia, al dare un tetto. Senza occuparsi quasi per nulla di centri storici, grandi e piccoli, di beni culturali e ambientali, e senza pianificare (parola uscita dal vocabolario politico governativo, praticamente) servizi e territorio.

Per fare tutto ciò, si è dato, come è risaputo, alla Protezione civile un potere sostanzialmente esclusivo, il monopolio degli interventi. Operazione resa possibile dalla ritirata politica totale del Ministero per i beni e le attività culturali, nel ’97 presente in forze e dotato di mezzi finanziari copiosi, e dalla debolezza politica e probabilmente anche tecnica della Regione Abruzzo. Operazione che, rovesciando completamente l’impostazione data al posto-terremoto in Friuli e in Umbria-Marche, ha escluso, non soltanto le comunità locali, ridotte sostanzialmente a spettatrici dolenti, ma anzitutto le Soprintendenze (quella regionale e le altre territoriali e settoriali), evitando l’impiego, in altre situazioni invece essenziale, di tecnici del più alto livello, evitando l’afflusso di specialisti che in passato hanno funzionato anche da formidabile cassa di risonanza mediatica, da elemento moltiplicatore e sollecitatore di altri apporti e pure di articoli, interviste, inchieste giornalistiche, ecc.

Tutto ciò perché dovevano in sostanza essere due, soprattutto, i protagonisti del post-terremoto sul piano mediatico: il presidente del Consiglio e il vice-ministro alla Protezione civile. Il fatto che in sede regionale e locale – ma pure nella maggioranza dei grandi giornali – non si siano levate subito voci critiche, in modo pacato quanto netto, per questa esclusione in partenza degli organismi tecnico-scientifici, degli esperti dei vari rami, da apporti decisionali, o comunque importanti, ha concorso a produrre quel deficit informativo che registriamo a livello nazionale e internazionale. E che sarà, temo, ben difficile colmare, dal quale sarà ben difficile risalire.

La stessa richiesta ai Paesi del G8 di “adottare” un monumento da restaurare all’Aquila – a parte la vecchiezza in sé, “ideologica”, della proposta (che a me è parsa, essendo da tempo l’Italia Paese fra i più sviluppati al mondo, una sorta di “mendicità di Stato”) - ha registrato un limitato successo probabilmente per non aver voluto in campo, ben visibili, gli alti dirigenti del Ministero, gli storici dell’arte, gli strutturisti e restauratori con solide relazioni in tutto il mondo, per non aver voluto quella mobilitazione di competenze tecnico-scientifiche e di passioni civili che si verificò invece per Assisi e che suscitò tanta impressione e quindi tanta eco nazionale e internazionale (e, alla fine, tanto consenso).

Né si è voluta, e quindi avuta, come dicevo dianzi, la intensa, decisiva partecipazione delle comunità locali, certo più forti e attrezzate laddove la civiltà e gli orgogli municipali e regionali sono storicamente più forti, in Friuli, in Umbria, nelle Marche. Nello stesso caso del post-terremoto irpino, fra Campania e Basilicata, su noi giornalisti più attenti a tali problemi la creazione a Napoli della Soprintendenza speciale creata e retta da Giuseppe Proietti e il cospicuo finanziamento affidato alle mani esperte e sagge di Mario De Cunzo avevano dato modo di fare informazione in maniera più ampia e adeguata.

In estrema sintesi: c’è stato, c’è e perdura un indubbio deficit di attenzione e di voglia di approfondire da parte dell’informazione a livello nazionale, ma ciò è avvenuto anche per l’impostazione straordinariamente accentrata, tutta politica e, alla fine, esclusivamente “edilizia” data dal presidente del Consiglio data alla gestione del post-terremoto e conseguentemente all’informazione su di essa. Grazie anche ad atteggiamenti certamente deboli, esitanti o subalterni, sul piano propagandistico, del mondo medesimo dell’informazione.

Il quale, a livello di canali televisivi (5 sui 6 complessivi di Rai e Mediaset, più ora i canali del digitale terrestre), sta come sappiamo, cioè fortemente omogeneizzato al potere del premier, e a livello di carta stampata risulta fortemente condizionato, con poche eccezioni, da proprietà saldamente in mano, o molto vicine, alla stessa famiglia del premier (Giornale, Libero, Panorama) o da proprietà le quali coincidono ormai con immobiliaristi/costruttori, in tutto, e cioè Messaggero, Mattino, Gazzettino, Corriere Adriatico (Caltagirone), o in parte, vale a dire Corriere della Sera (Ligresti) e altri giornali, per esempio il gruppo Rieffeser (Carlino, Nazione e Giorno) che pure ha corposi interessi fondiari. Una filosofia proprietaria che confligge frontalmente con una buona, seria, autonoma (soprattutto) informazione quando vi sono di mezzo questioni urbanistiche, architettoniche e territoriali.

Un ruolo molto significativo hanno così assunto i Blog e i Social Network molto tempestivi sempre nel dare voce alle varie componenti, pure a quelle minoritarie, della classe dirigente locale e alle diverse categorie di terremotati (gli abitanti delle tendopoli, poi quelli delle casette, i pendolari, gli ospiti degli alberghi, i cassaintegrati, i commercianti, i professionisti, quelli delle case b-c-e e della “zona rossa”). Un vero e proprio tam-tam che ha consentito di sventare tempestivamente alcune trappole celate nei decreti governativi (per es. sui rimborsi al 100 per cento), di sveltire varie scadenze fiscali, ecc. Da segnalare anche la vivacità dell’editoria abruzzese che sta sfornando numerose pubblicazioni (spesso di inchiesta) sul post-terremoto, fra queste i “Quaderni aquilani” con interventi importanti come quello di Giorgio Piccinato.

Una inequivocabile cartina di tornasole dell’intermittente e quindi insufficiente attenzione dedicata dai media nostrani al post-terremoto abruzzese è rappresentata dalla flebile eco incontrata da una iniziativa invece encomiabile come l’appello promosso dall’ex ministro per i Beni e le Attività culturali Giovanna Melandri per una “tassa di scopo” o comunque per un finanziamento straordinario da assegnare alla ricostruzione del centro storico aquilano. Appello sottoscritto da tutti gli ex ministri a partire da Alberto Ronchey, passando per Fisichella, Paolucci, Veltroni, la stessa Melandri, Urbani e Buttiglione. Con l’autoesclusione di Rutelli contrario a nuove tasse.

Fra i quotidiani nazionali – sto alla rassegna stampa fornitami dall’ufficio della stessa on. Melandri promotrice dell’appello - soltanto Il “Messaggero” (che ha l’Abruzzo fra le regioni di maggior diffusione) e l’”Unità” hanno dedicato un ampio servizio firmato all’iniziativa, certamente apprezzabile in tanto silenzio politico. La “Repubblica” le ha dedicato una corposa notizia e la “Stampa” una “breve”. Il “Corriere della Sera” – a quanto risulta dalla rassegna stampa citata – nemmeno una riga, un telegramma. Per rintracciare un altro ampio servizio firmato, dobbiamo infatti rifarci al quotidiano abruzzese del gruppo L’Espresso, “Il Centro”. Ed è tutto per la carta stampata. Tutto e davvero poco come eco nazionale. Intermittente e, concludo, decisamente insufficiente.

In calce il testo del Progetto di legge n. 3921, Azioni straordinarie per lo sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico della Lombardia.

Alla volontà sovranamente espressa dal Primo ministro di affrontare le difficoltà indotte dalla crisi economico-produttiva mondiale promuovendo in Italia un incremento dell’attività edificatoria minuta attraverso la sospensione in via eccezionale dei limiti posti dalle regole urbanistiche in tema di rapporto tra quantità edificatorie e dotazioni di attrezzature pubbliche normalmente vigenti, e alla conseguente minaccia di procedere autocraticamente nel determinare i contenuti e la durata di tale “periodo eccezionale”, la Conferenza unificata delle Regioni del 1 aprile scorso (ironia delle date!) ha approvato un’Intesa che propone di adeguarsi “spontaneamente” all’espressa volontà sovrana, rivendicando almeno margini di autonomia decisionale nel come farlo.

In questo, tuttavia, la Regione Lombardia avrebbe più di un argomento per sostenere, rispetto ad altre Regioni, di avere da tempo autonomamente, preventivamente e a tempo indeterminato già più che ottemperato a quell’auspicio, sia con il principio del cosiddetto “standard qualitativo” nei PII (cioè, cessione di minori aree pubbliche rispetto a quelle prescritte dagli strumenti urbanistici vigenti a fronte di oneri urbanizzativi per opere pubbliche in qualche misura superiori a quelli normalmente vigenti), sia con la possibilità di trasformare ad uso abitativo tanto i sottotetti preesistenti che quelli delle nuove edificazioni che via via si vanno realizzando ex-novo (questi ultimi, ora, solo dopo un periodo di “invecchiamento” di cinque anni dalla avvenuta realizzazione dell’immobile cui pertengono).

La Giunta regionale della Lombardia il 3 giugno scorso ha, invece, approvato un disegno di legge regionale, che dà seguito a quell’Intesa, che consentirebbe – si dice in via straordinaria e temporaneamente per diciotto mesi, ma poi si vedrà – , al di fuori dei centri storici e in deroga a ogni norma vigente, di aumentare l’edificato proporzionalmente ai volumi preesistenti (20-30-35% in più, a seconda dell’impiego di criteri di risparmio energetico e di schermature arboree) con incrementi volumetrici da 300 a600 metri cubi per gli edifici mono e bifamiliari e sino a 1000 metri cubi per quelli plurifamiliari (in pratica da uno a tre nuovi alloggi in più) e sino al 40% in più (senza limiti volumetrici complessivi e anche con la costruzione di nuovi edifici) per gli insediamenti di edilizia economica popolare.

Anche nei centri storici (e salvo il parere discrezionale di una commissione ad hoc), la demolizione e ricostruzione di edifici di più recente costruzione verrebbe premiata con un incremento volumetrico del 30%, a fronte dell’utilizzo di tecniche costruttive a risparmio energetico, che tuttavia ne aggraverebbe la dissonanza dal contesto insediativo.

Si tratta di incrementi che si concentreranno in particolare nelle zone urbane più fittamente utilizzate, soprattutto in ambito metropolitano: basti pensare alle cosiddette “coree” costituitesi nelle grandi periferie urbane del triangolo industriale negli anni Cinquanta (cioè, nel periodo coevo al logorante e interminabile conflitto Stati Uniti- Corea, che – ironia della sorte – rischia oggi di tornare d’attualità)) con la vendita di mini-lotti di 400-500 mq ai primi immigrati veneti e meridionali e da questi progressivamente edificati in autocostruzione (prima abitando la cantina, poi il primo e, infine, il secondo piano), con l’unico limite della distanza prescritta dal codice civile di 1,5 metri dal confine - per una distanza totale di 3 metri tra gli edifici - e strade di poco più di 5 metri di larghezza, senza marciapiedi.

Non sono scomparse, sono solo state inglobate nella successiva e più massiccia espansione metropolitana.

Se la loro densità edificatoria fondiaria è relativamente non elevatissima (si tratta, appunto di edifici per lo più di due piani fuori terra, pur con superficie quasi totalmente coperta), lo è invece quella territoriale, per la pressoché totale assenza di adeguata rete viaria e spazi pubblici.

Ma è proprio questo l’obiettivo dell’intervento legislativo caldeggiato dal Primo Ministro: far intendere anche ai piccoli e piccolissimi proprietari immobiliari che potranno godere anche loro (nel loro piccolo, si intende) dei benefici di quel liberismo privo di regole di cui hanno sinora usufruito le grandi e medie proprietà immobiliari con gli strumenti di deregolazione di piani attuativi e spazi condominiali.

La speranza, per limitare i danni di questa illusoria libertà individuale, è che si inneschi un meccanismo di autodifesa da parte di coloro che si vedrebbero sorgere nuove parti edificate a distanze minori dei dieci metri garantiti dal DM n. 1444/68, che – come è già accaduto nel caso della trasformazione ad uso abitativo dei sottotetti – è stato sentenziato dal TAR Lombardia essere inderogabile da parte di provvedimenti legislativi regionali e comunali, senza una sua esplicita abrogazione a livello nazionale.

Anche nelle zone di edilizia economica popolare, che tradizionalmente hanno utilizzato indici edificatori più elevati proprio in considerazione delle più ridotte capacità economiche dell’utenza, un incremento percentuale del 40% della volumetria presenterà non pochi problemi di vivibilità urbana.

In questo caso l’obiettivo è ricavare ulteriori quote di edificabilità da destinare al crescente mercato dell’housing sociale, alla cui gestione ambiscono poter accedere le tradizionali centrali cooperative, ma anche e in modo ormai preminente quelle cielline di Compagnia delle Opere, senza penalizzare le quote di edificabilità dell’immobiliarismo privato.

Infine, il DDL della Giunta lombarda consentirebbe di trasformare le parti inutilizzate di edifici esistenti in zone agricole in destinazioni ricettive non alberghiere, uffici e attività di servizio non meglio specificate e addirittura nelle aree dei parchi regionali gli edifici esistenti potrebbero avere un incremento volumetrico dal 13 al 21% (cioè lo stesso che in zone urbane, diminuito di un terzo).

Si tratta, nel complesso, di una tendenza – precocemente praticata dalla Lombardia, ma poi generalizzatasi a livello di legislazioni nazionali e regionali - che alimenta una sostanziale sfiducia negli esiti prodotti dall’applicazione delle norme sui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici, faticosamente conquistate fra il 1967-’68 (Legge Ponte e DM sugli standard) e il 1977 (prime leggi regionali di Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria, Toscana e, infine, Legge Bucalossi sul regime dei suoli), anche se paradossalmente gli esempi che spesso vengono portati a sostegno degli insoddisfacenti risultati prodotti in termini di immagine urbana sono proprio quelli causati dal periodo delle “libere” contrattazioni senza Piano Regolatore degli Anni Cinquanta/Sessanta.

Vi è, in questo, una perversa convergenza tra tendenze neoliberiste nell’uso di città e territorio e accresciute sensibilità ambientaliste (risparmio di suolo, risparmio energetico, patrimonio arboreo) che propugna in materia urbanistica un ritorno alle sole norme ottocentesche di superficie coperta ed altezza (quest’ultima, tuttavia, spesso liberalizzata in nome di una preteso minor consumo di suolo e modernità funzionale e di immagine degli edifici in altezza) abbandonando come obsolete quelle novecentesche basate su indici di densità e dotazioni di spazi pubblici, a fronte dell’avvento dei criteri di sostenibilità nell’uso delle risorse non rinnovabili (risorse idriche, inquinamento da traffico e riscaldamento, smaltimento rifiuti).

Anche se è vero che, coi soli limiti di densità e di standard pubblici, si sarebbe potuto procedere ad un’urbanizzazione dell’intero territorio, senza alcuna valutazione di sostenibilità ambientale di lungo periodo (e il sovradimensionamento dell’estensione urbanizzativa di molti PRG ne è la testimonianza), tuttavia non è concentrando un accresciuto peso insediativo in ambiti più ristretti che si affronta correttamente il problema.

In tal modo, infatti, ad un incremento dello spazio alberato o scoperto (ma per lo più si tratta di spazi privati e non pubblici, quando non si tratta addirittura del bizzarro “verde verticale”, cioè della piantumazione – non si sa quanto durevole – di terrazze private pensili) corrisponde un incremento più che proporzionale della densità insediativa, con una riduzione dello spazio pubblico per abitante (realmente “inedificato”, cioè non pertinenziale ad un edificio), che si risolve in un’accresciuta pressione antropica.

Anche i vantaggi in termini di risparmio energetico e di miglioramento della qualità edilizia appaiono come uno scambio ineguale, se ottenuti - nel ciclo di lungo periodo – al prezzo di un peggioramento della qualità insediativa dell’assetto urbano.

Certo l’urbanistica, dopo essere stata al centro di grandi aspettative e rivendicazioni sociali negli anni Sessanta-Ottanta, negli ultimi decenni non gode ormai più di buona fama e il suo posto nell’immaginario sociale collettivo dell’aspettativa di un futuro migliore è stato preso dall’ambientalismo ecologista.

Eppure il rischio è che anche questo si riveli alla fine un obiettivo illusorio e succube del neoliberismo economico, oggi prevalente, che ritiene un lusso insostenibile mantenere le regole di un progetto pubblico di territorio e città, socialmente individuato e condiviso.

Accettarne la progressiva demolizione a fronte della promessa di edifici “intelligenti”, “verdi”, “energeticamente autosufficienti”, in uno scambio ineguale tra libertinaggio pubblico e virtù privata, credo sarebbe la resa ad un “pensiero unico” di privatismo (tanto il territorio ha “spalle grosse”, non c’è più sensibilità diffusa a volerlo proteggere, non è reato abusarne) cui è colpevole rassegnarsi.

Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

Anche la Campania ha il suo piano casa. Il consiglio regionale, dopo quasi quattro mesi di discussione, nella tarda serata di ieri ha dato il via libera alla legge, ma la maggioranza di centrosinistra è andata in frantumi, con il PD che ha votato con le destre, la Sinistra che si è divisa tra astensione e voto contrario, e il no dell’Italia dei Valori. Un brutto spettacolo in vista delle elezioni regionali di primavera.

Il testo approvato è diverso da quello adottato nella scorsa primavera dalla giunta. La Sinistra è riuscita dopo un estenuante braccio di ferro ad imporre modifiche significative, relative alle aree di esclusione (piani paesistici, aree a rischio idrogeologico,vulcanico e sismico, centri storici, aree agricole); alla possibilità per i sindaci di individuare ulteriori ambiti di non applicazione della legge; all’impegno della Regione di finanziare interventi di edilizia sociale.

Ma il risultato resta insoddisfacente. Troppo inadeguato il disegno di legge di partenza, senz’altro il peggiore nel panorama nazionale. Troppo forti gli appetiti della maggioranza trasversale PD-PDL, che ha usato l’accordo stato-regioni come pretesto per una specie di “decreto mille proroghe” in materia di governo del territorio. Dentro c’è di tutto: dal cambiamento di destinazione d’uso delle case rurali, all’abitabilità dei sottotetti, fino al recupero delle stalle abusive sui Monti Lattari, in piena area PUT. E poi ancora, la possibilità di conversione residenziale di lotti produttivi dismessi fino a 15.000 mq (due terzi di piazza del Plebiscito), in deroga ai piani vigenti, con un semplice permesso a costruire. Per il verde, gli standard e la coerenza con il disegno urbano si vedrà.

Nella foga, i promotori della legge non hanno risparmiato nemmeno le zone C dei parchi nazionali, inserendo nella legge un evidente vulnus di incostituzionalità.

Com’era da aspettarsi, gli incrementi del 20 e 35% sono consentiti anche sugli immobili abusivi condonati o in attesa di regolarizzazione, purché prima abitazione, e così la legge ripropone il triste concetto di “abuso di necessità”, in una regione che ospita il 20% del patrimonio abusivo italiano, e nella quale risultano ancora inevase più dell’80% delle domande di condono.

Il voto di ieri è l’epilogo triste di un ciclo politico durato quindici anni: i contenuti della legge, e le modalità della sua approvazione, con il PD pronto a mollare i suoi alleati per correre all’abbraccio con le destre, proiettano lunghe ombre sul panorama che si aprirà in Campania dopo le elezioni di marzo.

Tra le proposte di legge regionali sul famigerato “piano casa”, quella della Regione Campania è davvero la più strampalata e perniciosa, se stamane anche gli ordini professionali di ingegneri e architetti, di solito non pregiudizialmente ostili al “pianificar facendo”, prendono pubblicamente le distanze, denunciando sulle pagine napoletane di Repubblica che “… sulla Campania incombe il rischio di speculazioni e di deregulation nella pianificazione edilizia”, reclamando per bocca del presidente degli ingegneri di Salerno Armando Zambrano la restituzione ai comuni “del ruolo di programmazione territoriale, per mediare tra l’interesse pubblico e quello privato”, per mettere la Campania “ al sicuro da una nuova ondata di speculazioni edilizie”.

A scatenare tanta apprensione è soprattutto l’articolo 5 del disegno di legge che, al comma 4, liberalizza di fatto la riconversione abitativa di edifici non residenziali, svincolandola da ogni atto di pianificazione e programmazione.

Il risultato immediato, secondo la denuncia degli ordini, è che “il valore di mercato delle aree dismesse è immediatamente triplicato”.

In effetti, nell’attuale formulazione, il disegno di legge si presenta non già come un incentivo alla riconversione di aree dismesse, quanto piuttosto alla cessazione anticipata delle attività manifatturiere in essere. Questo perchè gli imprenditori sono perfettamente in grado di valutare i vantaggi della rendita edilizia che un simile provvedimento artificialmente crea, rispetto ad un reddito d’impresa mai come di questi tempi incerto.

Davvero un buon risultato per un provvedimento il cui impegnativo titolo è quello di “Misure urgenti per il rilancio economico e la riqualificazione del patrimonio esistente”!

Resta da capire, pensando ai nuovi carichi insediativi che in questo modo atterreranno liberamente e dovunque su un territorio già sofferente e congestionato, chi provvederà agli standard, agli spazi e attrezzature pubbliche, alle misure di inserimento ambientale dei nuovi quartieri che nasceranno, agli indispensabili interventi di riqualificazione dei contesti. Ma è vano sperare che simili preoccupazioni possano aver presa su un centrosinistra locale tutto impegnato nella difficile riconquista del consenso malamente dilapidato.

Eppure, una strada decente ci sarebbe per attuare una politica efficace di riconversione delle aree dismesse, e sarebbe quella di impiegare gli strumenti già previsti dal Piano territoriale regionale approvato con legge nel 2008, che lega questo tipo di interventi alla predisposizione di piani attuativi e di accordi di pianificazione di iniziativa pubblica, garantendone soprattutto la coerenza con i carichi insediativi programmati a scala regionale e provinciale.

Ma sembra essere una irresistibile inclinazione del centrosinistra, specie quello campano, quella di non riuscire a mettere in atto e valorizzare nemmeno la parte buona di un lavoro amministrativo che pure è stato fatto.

Sandra Amurri Noi aquilani in attesa dell’abitazione promessa

C’è qualcuno che testimonia le bugie e qualcuno che raccoglie le denincie, ai margini dell’informazione. Il Fatto Quotidiano”, 9 dicembre 2009

Le persone che a L’Aquila potranno trascorrere il Natale nelle nuove case, quelle presentate all’Italia in diretta dal presidente del Consiglio a “Porta a Porta” saranno poco più di 5 mila. Ventimila sono ancora ospiti degli alberghi sulla costa e delle caserme. 18 mila hanno optato per case in affitto. All’appello, per arrivare a 70 mila cittadini, ne mancano 27 mila che non fanno parte del censimento e verosimilmente hanno trovato ospitalità da parenti e amici. Il governo non ha finora dato una sola lira agli albergatori, che giustamente reclamano di essere pagati. Non ha finanziato il comune che a sua volta, da 8 mesi non versa più ai cittadini che hanno scelto l’autonoma sistemazione, l’incentivo di 200 euro a testa per ogni persona del nucleo familiare con canoni d’affitto che sono quadruplicati.

Le scuole hanno riaperto ma nessuno dice che i bambini delle famiglie alloggiate negli alberghi sulla costa, circa 14 mila, ogni giorno si fanno dai 150 ai 200 km per andare a lezione. Il governo non ha elargito alcun incentivo alle attività produttive e commerciali, risultato: chi ha potuto affittare locali per ricominciare lo ha fatto. Gli altri, circa il 60% da nove mesi sono senza lavoro. E se la promessa arrivata in extremis da Bertolaso di un decreto per ripristinare la proroga per il pagamento delle tasse resterà vana i cittadini che giovedì manifesteranno davanti Palazzo Chigi inizieranno lo sciopero fiscale.

Mancano soldi per rimuovere le macerie dal centro storico che risulta ancora sommerso e il puntellamento degli edifici colpiti dal sisma è stato sospeso. Guido Bertolaso che, come si sa, il 31 dicembre andrà in pensione ha già fatto il passaggio delle consegne al presidente della regione Chiodi del Pdl che ricoprirà il ruolo di commissario e vicecommissario per la ricostruzione, mentre il sindaco della città, Cialente sarà commissario per il solo centro storico. Sul terreno restano molti interrogativi inquietanti. Come l’assegnazione delle case costruite prima del sisma, rimaste invendute, che i comitati dei cittadini chiedevano che venissero requisite dal comune mentre sono state acquistate a buon prezzo dalle banche che le ha poi affittate alla Protezione civile. Si tratta di villette su tre piani.

Il metodo di assegnazione è del tutto oscuro. E c’è chi è pronto a giurare che sarà un buon modo per fare dell’ottimo clientelismo affidandole ai notabili della città, ai raccomandati. “Avevo appreso che il costruttore Valentini, uno dei tanti, aveva venduto delle villette alla Cassa di Risparmio de L’Aquila che le aveva affittate alla Protezione civile. Sono andata allo sportello per i cittadini, ora sostituito da Linea Amica gestito dal call center e ho presentato domanda” racconta Anna Colasacco dell’associazione Cittadini per i Cittadini “Non ho ricevuto alcuna risposta. Sono tornata e mi sono nuovamente messa in lista chiedendo il rilascio di una ricevuta. Risposta: non diamo alcuna ricevuta. Non sono mai stata contattata e come me molte altre persone”. Lo stesso metodo è stato adottato per le case già assegnate. Nessuno sa, in assenza di una graduatoria pubblica, con quale criterio siano state scelte le famiglie. Alla domanda di spiegazione hanno risposto che non erano tenuti a farlo. In questo modo la Protezione civile ha conquistato l’approvazione di parte della città che ora risulta spaccata in due: i buoni, quelli rassegnati al volere di una ricostruzione carente di trasparenza e i cattivi quelli che rivendicano il diritto di cittadini e non sudditi. Una città che non esiste più se si escludono le 19 aree su cui hanno costruito i quartieri dormitori, due dei quali Assergi e Camarga, si trovano praticamente nel Parco Nazionale del Gran Sasso. L’emergenza ha legittimato tutto, anche l’illegalità. La legge dice che le ditte che vincono l’appalto non possono subappaltare più del 30% mentre a L’Aquila i lavori sono stati subappaltati per oltre il 50% senza alcuna approvazione dell’ente appaltante, cioè la Protezione civile, tanto che cinque ditte erano in odore di mafia. Non sarà un buon Natale per gli aquilani, al di là della propaganda a reti unificate, ma almeno Gesù nascerà anche per loro.

È considerata la più grande opera pubblica italiana dal dopoguerra. Domani si inaugura la linea ferroviaria ad alta velocità che unirà Napoli e Torino in 5 ore contro le attuali 8,20. Per la prima volta - dopo gli esperimenti di collaudo - un treno passeggeri sfreccerà a 300 chilometri orari sotto la galleria che collega Firenze a Bologna, la più lunga d'Europa: una lunga serie di trafori che complessivamente copre 73 chilometri su una linea di 78. Più o meno mezz'ora di buio. Della galleria in questione si è molto detto: che è un'opera avveniristica perché ha scavato l'Appennino, catena montuosa composta da materiali particolarmente difficili e per questo croce di ogni ingegnere. Che non esiste un'infrastruttura di eguale complessità al mondo. Molto meno si sente parlare delle polemiche sulla sua sicurezza, che pure sono state roventi e continuano a far discutere. Di fatto questa eccezionale opera ingegneristica nasce già vecchia, fuori norma rispetto agli attuali standard italiani e europei. I treni, infatti, viaggeranno per 60 chilometri dentro un'unica canna, con uscite di sicurezza che non sono facili da utilizzare per i soccorritori. In tutto il mondo le gallerie almeno bi-tubo (cioè con una canna per l'andata e una per il ritorno) sono ormai un must. La Bologna-Firenze, invece, non ha neanche una galleria parallela, fatta eccezione per gli ultimi undici chilometri (nel tratto di avvicinamento a Firenze), gli unici sui quali peraltro è stato chiesto il parere dei Vigili del fuoco. I quali, era il '98, risposero non soltanto chiedendo di cambiare alcune caratteristiche del progetto della galleria di servizio, ma rimarcando che per gli altri 60 chilometri di tratta «si nutrono seri dubbi sulla rapidità ed efficacia delle azioni di soccorso».

Uscita di sicurezza

Da allora qualcosa è cambiato, ma nulla per quanto riguarda le uscite, che sono rimaste le stesse. Quelle utilizzate dal consorzio Cavet - che ha avuto in gestione dalla Fiat (general contractor per Tav) il progetto esecutivo - per scavare la galleria. Quando si costruisce un tunnel di questa grandezza, infatti, è necessario «aggredire» la montagna da più punti. Quei punti di scavo oggi sono le finestre di uscita dalla galleria. Ma la distanza tra l'una e l'altra a volte è superiore a quanto previsto dai requisiti minimi di una legge del 2005, che pur essendo stata approvata dieci anni dopo il progetto della tratta, stabilisce anche i criteri e i tempi di adeguamento per le gallerie come questa. Una legge che, secondo alcuni, sembra «ritagliata» proprio sul progetto della Tav. D'altronde chi ha firmato quel decreto, l'allora ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, la tratta Bologna-Firenze la conosce bene. La ditta Rocksoil - tra le maggiori esperte nello scavo di tunnel - ha partecipato alla progettazione dell'opera, ed è di proprietà di alcuni famigliari dell'ex ministro.

La questione è seria. Eppure, a quanto pare, non bisogna disturbare il manovratore. Domani si prevedono festeggiamenti in pompa magna. Anche il presidente del Consiglio arriverà a Milano - luogo scelto per la celebrazione - con il treno che parte da Torino. Altre autorità viaggeranno su quello in partenza da Salerno. Si tratta del battesimo ufficiale, la linea infatti apre al pubblico il 13 dicembre. Ma sulla questione della sicurezza le bocche sono cucite. Cercare informazioni ufficiali è stato difficilissimo, anzi impossibile.

Non disturbare il manovratore

Per avere riscontri su quanto raccontiamo abbiamo inviato domande scritte a Ferrovie, che però non ha risposto in alcun modo. Abbiamo contattato i vigili del fuoco. Idem. Non risponde persino il ministero dei trasporti, dove in base al decreto del 2005 è stata istituita una Commissione incaricata di verificare che la sicurezza in galleria sia a norma. Il parere della Commissione dovrebbe essere pubblico, visto che la legge è stata promulgata in nome del popolo italiano. Invece dopo un mese di richieste per poter avere delle risposte dal presidente della commissione, tutto si è bloccato. E' tempo di festa, non di lacrime.

Chi ha raccolto pazientemente i dati e continua ancora oggi a bussare a tutte le porte per avere trasparenza è un'associazione di Firenze che si chiama Idra (anche in rete): sono loro ad avere messo insieme in quindici anni di attività un archivio ricchissimo di informazioni, che spesso hanno avuto l'effetto di costringere le istituzioni a muoversi. «Domani saremo con i comitati di Bologna in piazza della Stazione per dire che in quella galleria per il momento non ce la sentiamo di entrare - dice il presidente Girolamo Dell'Olio - perché 60 chilometri di tunnel senza la galleria di servizio, con finestre di accesso dall'alto ripide e lontane, senza neppure sapere come è organizzato il sistema di soccorso sarebbero un incubo!». Lungo tutto il percorso le «finestre» sono 15. Secondo il decreto 2005 le uscite all'interno delle galleria come questa dovrebbero essere entro i quattro chilometri. Si tratta di requisiti minimi, che vengono approvati subito dopo l'ennesimo incidente nel traforo del Frejus - avvenuto nel giugno del 2005 - che convinse l'Europa a mettere mano alla normativa. Nel 2007, infatti, l'Ue ha emanato una direttiva che prevede per le gallerie a unica canna uscite di sicurezza addirittura ogni chilometro. Il decreto dell'ottobre 2005 in qualche modo «salva» la Tav: le finestre di scavo si trovano quasi sempre a circa quattromila metri di distanza l'una dall'altra. Anche se in quattro tratti, nelle gallerie di Monte Bibele, di Vaglia e di Raticosa, le distanze sono in alcuni casi superiori ai cinque. Bisogna considerare, inoltre, che una volta l'uscita di emergenza arrivare alla luce non è semplice: le «discenderie» che collegano con l'esterno sono lunghe anche più di un chilometro, e soprattutto sono in salita. Chi per sventura dovesse mettersi in salvo attraverso la finestra Osteria, che si trova nella galleria Raticosa, dovrà percorrere 1.307 metri con una pendenza del 11,4%: significa che ogni 100 metri ne sali 11,4, cioè come tre piani di un palazzo.

La variante di sicurezza

Nel 2006 la tratta Bologna-Firenze è stata oggetto di una «variante di sicurezza» che è costata circa 600 milioni di euro. Sono stati studiati sistemi molto sofisticati per prevedere possibili rischi; sono stati innovati gli impianti; è stato inserito un sistema di gestione del traffico che, in caso di emergenza, permette di fermare i treni in 17 punti prestabiliti e attrezzati per l'esodo dei passeggeri (posti di esodo), posizionati in corrispondenza delle uscite di emergenza e in prossimità degli imbocchi. Tutte cose utili. Ma la variante prevedeva anche altri interventi tesi a facilitare quello che già nel progetto sulla sicurezza del '95 viene definito «autosoccorso»: la fuga a piedi. Ad esempio le Zer, zone ad evacuazione rapida. Piccoli cunicoli paralleli ai binari, forniti di numerose finestre di ingresso, che dovevano aiutare il deflusso dei passeggeri lungo la linea. Ma sono rimaste sulla carta. Secondo fonti non ufficiali, perché i soldi non erano sufficienti. Eppure per Ferrovie la sicurezza all'interno della galleria è massima, almeno secondo il criterio della sicurezza statistica. Illuminante una frase dell'amministratore delegato di Ferrovie, Mauro Moretti, durante una trasmissione del programma Exit del 2008 che mandò in onda un servizio molto documentato sull'argomento: «In termini statistici - spiegò Moretti - questa galleria è sicura come una centrale nucleare» (sic).

Gli ultimi ritocchi

Ma non finisce qui. Perché a quanto risulta, nonostante la variante del 2006, gli «aggiustamenti» sono continuati fino a poche settimane fa: sono stati rifatti i marciapiedi di fronte le finestre per le uscite. Si sarebbe scoperto che erano troppo distanti dalle porte del treno (come detto, si ferma «a bersaglio») e i passeggeri, cercando di mettersi in salvo, avrebbero rischiato di cadere nel «buco». La modifica sarebbe stata proposta dalle Prefetture, dove proprio in queste ultime ore si stanno concludendo i lavori dei tavoli territoriali convocati per redigere i piani di emergenza. Gli enti locali, infatti sono stati convocati soltanto questa estate per discutere della sicurezza della galleria. Anche in questo caso la domanda sorge spontanea: ma bisognava aspettare l'inaugurazione per avviare queste consultazioni? Non a caso solo di recente è emerso il grido d'allarme dell'assessore alla mobilità di Bologna Simonetta Saliera: «Noi non entriamo nel merito della sicurezza interna alla galleria - spiega l'assessore - ma di quella 'esterna': ci occupiamo, cioè, di assicurare che ci siano le condizioni per i mezzi di soccorso di raggiungere le piazzole d'emergenza che si trovano fuori dalle finestre. Per raggiungere Pianoro, dove si trova una di queste piazzole, la strada più breve è talmente stretta da impedire il passaggio dei mezzi dei vigili del fuoco. Secondo Ferrovie bisognerebbe allungare di cinque chilometri e passare per il nodo di Rastagnano che, però, è una delle zone più congestionate dal traffico». In progetto c'era una variante stradale che avrebbe dovuto essere costruita con l'impegno di Ferrovie e del ministero dei lavori pubblici. Per varie vicissitudini non se n'è fatto niente: «Ma Ferrovie - prosegue Saliera - ha accantonato 7 milioni di euro che intanto potrebbero essere utili per mettere in piedi un primo stralcio». L'assessore ha anche un'altra richiesta per Ferrovie: «Siamo in zone di montagna, che non ricada sugli enti locali la spesa per rendere agibili le strade di accesso in tutte le stagioni».

Ampliamento per circa mezzo milione di abitazioni con una media di due camere in più; demolizione e ricostruzione di 16 mila fabbricati, per lo più residenziali; investimenti complessivi di quasi 60 miliardi di euro. In attesa che il governo semplifichi le procedure (avrebbe dovuto farlo già molti mesi fa), le Regioni si sono mosse autonomamente con i loro piani-casa. Quindici di esse (più la provincia di Bolzano) hanno già approvato le relative leggi. Quattro stanno per vararle e solo la provincia di Trento ha rinunciato.

Ora l’Ance (l’Associazione nazionale costruttori edili) ha stimato l’impatto che tutti questi progetti produrranno sullo stock di case e di fabbricati non residenziali. E non è affatto poco: un milione di stanze in più. Insomma, sembra proprio che stia per ricominciare una stagione d’oro per il settore delle costruzioni abitative. Sia pure con una gran varietà di eccezioni, condizioni e paletti, le Regioni italiane hanno dato il loro via libera ad un ampliamento del 20% delle abitazioni e alla demolizione e ricostruzione di fabbricati fino al 35% in più.

Certo, ci vorrà ancora tempo: l’Ance stima che l’impatto sui livelli produttivi del settore possa avvenire solo a partire dalla seconda metà del 2010 a causa dei ritardi legislativi sia da parte del governo che delle Regioni nel concretizzare l’accordo di fine marzo. Di fronte la guazzabuglio di leggi e delibere, la Finco (la federazione industrie prodotti, impianti e servizi per le costruzioni di Confindustria) sollecita il varo del decreto legge sugli snellimenti procedurali e il varo delle normative da parte delle quattro regioni che ancora mancano all’appello. «Abbiamo assistito ad un defatigante confronto tra Stato e Regioni - commenta il direttore generale di Finco, Angelo Artale - dobbiamo riflettere se l’assetto urbanistico si presti o meno a una legislazione concorrente tra Stato e Regioni, e addirittura esclusiva per quelle a statuto speciale».

Il risultato è un grande caos di norme. Ha fatto da apripista la Toscana, limitando i premi di ampliamento ad edifici mono e bifamiliari, ma con superficie non superiore ai 350 metri quadrati. La Liguria ha invece escogitato un "bonus-spezzatino" per ingradire casa: più 60 metri cubi per edifici fino a 200 mc; più 20% per edifici fra 200 e 500 metri quadri e più 10% fra 500 e 1.000. Per poter usufruire invece del bonus volumetrico del 35%, l’intervento dovrà ridurre il rischio idrogeologico e permettere il miglioramento della qualità architettonica e l’efficienza energetica del patrimonio edilizio. Più consistenti i bonus riconosciuti dal Veneto per la ricostruzione di edifici realizzati prima del 1989 che potranno arrivare fino al 40% della volumetria esistente per il residenziale a condizione che si utilizzino fonti energetiche rinnovabili e tecniche di bioedilizia.

La regione Lombardia condiziona il bonus del 30% per la ricostruzione alla diminuzione del fabbisogno annuo di energia per la climatizzazione invernale. La regione Lazio concede un bonus volumetrico del 40% nel caso in cui l’intervento sia realizzato in base a un progetto vincitore di concorso di progettazione architettonica. La ricostruzione deve essere realizzata nel rispetto della normativa antisismica e permettere una riduzione dei consumi energetici. Anche la regione Basilicata riconosce un bonus volumetrico del 30% a condizione che siano rispettate le norme sismiche e sia migliorata la prestazione energetica dell’edificio. Il premio di cubatura può arrivare al 40% se si utilizzano tecniche costruttive di bioedilizia, impianti fotovoltaici e se la dotazione di verde privato viene aumentata.

Per i beni artistici di Marche e Umbria l’allora ministro Walter Veltroni, d’intesa con Prodi, nominò commissario lo stesso direttore generale del Ministero per i beni e le attività culturali, Mario Serio, che a sua volta scelse dei vice di alto profilo e si coordinò senza problemi con i due presidenti regionali, con le soprintendenze e con la Protezione civile, utilizzando anche universitari di vasta competenza specifica (Bruno Toscano per l’Umbria e Marisa Dalai per le Marche). Tutto nel modo più rapido e sicuro, e con fondi adeguati. I risultati si sono visti, a partire dalla Basilica superiore di San Francesco minacciata di crollo totale e riconsegnata in meno di due anni, restaurata e messa in sicurezza.

Anche all’interno della contestata ricostruzione irpina il lavoro svolto dalla Soprintendenza speciale guidata da Giuseppe Proietti a Napoli e da Mario De Cunzo «sul campo » fu l’unico concreto e apprezzato da tutti. Per non parlare del Friuli. In Abruzzo è successo l’esatto contrario. Hanno voluto fare tutto Berlusconi e Bertolaso - lo conferma l’inchiesta puntuale di Luca Del Frà (da pagina 4 s pagina 7) - escludendo il devoto ministro Sandro Bondi, in ginocchio, i soprintendenti e altri esperti. Sette mesi dopo il risultato è il rovescio di quelli di Assisi e delle altre città terremotate, da Foligno fino ad Urbino: chiese ancora scoperchiate, palazzi esposti alle intemperie, arredi - a cominciare dai preziosi organi musicali antichi - lasciati a lungo sotto le macerie oppure tirati via maldestramente da volontari inesperti e mal guidati.

E soprattutto il grande, complesso, disastrato centro storico dell’Aquila ancora alle prese con le macerie, con i piccoli proprietari che non vedono ripartire nulla e, disperati, vendono, anzi svendono. A chi? A Fintecna? Con quale destinazione? Un bel business immobiliare e/o turistico, sulla pelle dei residenti che lì non torneranno mai più. Aquila, addio.

In Abruzzo, diciamolo forte, c’è pure stata, presto, tanta rassegnazione di fronte alla pur aggressiva sbrigatività «militare» dell’operazione Berlusconi-Bertolaso. Lo stesso appello per il recupero di fondi adeguati per la ricostruzione da parte di tutti gli ex ministri dei Beni Culturali più recenti (Rutelli escluso) promosso da Giovanna Melandri, non ha avuto eco.

Né gli enti regionali e locali abruzzesi hanno saputo farne - che a merisulti - una loro bandiera. Bondi ha detto di sì (ma non gli duole il collo a forza di chinarlo?) anche alla attribuzione diretta dei fondi alle Diocesi per restauri e messe in sicurezza. Chi vigilerà su progetti, appalti, lavori? Il vescovo ausiliare mandato dal papa non appena i vescovi abruzzesi si sono mostrati troppo irrequieti verso un uomo pio come Silvio? E la beffa dei monumenti «adottati» dai Paesi del G8, poi dileguatisi? Giusta punizione per una sorta di «accattonaggio» di Stato promosso dal miliardario Berlusconi. Del resto, chi avrebbe approntato per loro studi, ricerche, progetti tecnici credibili? Bertolaso forse?

ORISTANO. Il Piano Casa sull’orlo del baratro. Un precipizio che potrebbe chiamarsi «incostituzionalità» e dal quale difficilmente uscirebbe. I dubbi sulla sua legittimità costituzionale li avanza, pur con tutte le cautele del caso, il procuratore Andrea Padalino Morichini. Esperto in materie urbanistiche ha formulato le sue perplessità in una missiva, che per ora è stata inviata agli organi di polizia giudiziaria che operano per la procura oristanese, ai comandi di polizia municipali, alle forze dell’ordine preposte al controllo del territorio e agli uffici tecnici.

A giorni prenderà il volo verso ben altre realtà, assai più complesse di un capoluogo di provincia con poco più di trentamila abitanti. Verrà recapitata sui tavoli che contano della magistratura nazionale e sulle scrivanie di tutte le procure, affinché ne prendano visione e considerino i dubbi che vi sono indicati.

Insomma, le cinque pagine di stampato potrebbero avere l’effetto deflagrante di una bomba, che fa saltare per aria uno dei più discussi e allo stesso tempo attesi strumenti in materia edilizia. Prova ne sia che le Regioni hanno fatto la corsa per approvarlo il più in fretta possibile.

Il nocciolo giuridico della questione starebbe nella conflittualità delle normative locali appena approvate, rispetto a quella prevalente che è la legislazione nazionale. E questo vale sia per le Regioni a statuto ordinario, sia per le Regioni a statuto speciale quale la Sardegna è, dove peraltro si è deciso di agire «In deroga alle disposizioni normative regionali».

Sono numerosi le leggi, gli articoli e le sentenze richiamati dal procuratore oristanese che dapprima ricorda quali siano le procedure che si devono adottare per ottenere il via libera all’ampliamento di edifici preesistenti e agli interventi di demolizione e ricostruzione di fabbricati, ovvero le due peculiarità del Piano Casa. Per poter avviare i lavori, infatti, ci sono procedure semplificate: basta una semplice denuncia all’Ufficio tecnico del Comune competente.

Al di là di aspetti tecnici e giuridici assai complessi, sono due i punti contestati. Andrea Padalino Morichini li chiarisce, facendo riferimento al Codice dei beni culturali e del paesaggio che regola la normativa nazionale. È questa quella prevalente «Pertanto le leggi regionali sul Piano Casa non avrebbero mai potuto derogare o modificare le disposizioni richiamate e contenute nel decreto legislativo numero 42 del 2004». La colpa per il magistrato è del Governo che «Ha largamente disatteso le indicazioni contenute nell’intesa fra Stato, Regioni ed enti locali». Entro dieci giorni infatti avrebbe dovuto provvedere ad emanare un decreto legge «Con l’obiettivo precipuo di semplificare alcune procedure di competenza esclusiva dello Stato». Ma il governo non l’ha fatto, per cui «Le leggi regionali sono state promulgate in assenza di una normativa nazionale».

C’è poi un secondo «Ed ancor più inequivocabile profilo di illegittimità costituzionale, perché nello stabilire deroghe, le leggi regionali escludono la punibilità di condotte che il legislatore ha invece previsto come fattispecie penalmente sanzionabile». Materia ostica, ma l’avvertimento appare chiaro. E il fatto che la missiva sia stata spedita anche agli uffici tecnici suona come avviso: il procedimento penale potrebbe essere dietro l’angolo, in attesa che la questione di legittimità venga sollevata davanti al giudice competente.

La speculazione minaccia i ruderi storici dell’Aquila

Non riesce a darsi pace. Armando Carideo guarda le foto del somiere dell’organo storico di Santa Maria di Collemaggio de L’Aquila ed è incredulo: «Si è imbarcato - spiega -, e così piegato non serve a niente, al massimo potranno metterlo in un museo». Il somiere è il cuore di uno strumento musicale antico e nobile come l’organo. «È rimasto sepolto per mesi sotto le macerie, spuntava dai calcinacci ma nessuno se n’era accorto. Appena mi hanno fatto entrare nella basilica l’ho subito riconosciuto, e in pochi giorni lo hanno tirato fuori». Ma oramai era agosto: «Non è possibile sapere in che condizione fosse ad aprile dopo il crollo, ma certo questo tipo di danni più che dall’urto sono dovuti all’abbandono e alle intemperie, pioggia, sole, umido, caldo... ». Dal 1990 Carideo ha diretto un progetto per il recupero degli organi storici abruzzesi, un ricchissimo patrimonio accumulato attraverso i secoli. Durato oltre15anni è statoun lavoro all’avanguardia per metodologie, precisione e risultati, preso a esempio da paesi come la Germania e gli Stati Uniti.

Subito dopo il sisma che ha colpito l’Abruzzo il 6 aprile, Carideo si è offerto volontario per salvare quegli organi, che conosce uno a uno come fossero vecchi amici: ha scritto al Ministero, al commissario straordinario Bertolaso, alle sovrintendenze. Non gli hanno neppure risposto. E lui non riesce a darsi pace, mentre unpatrimonio organario tra i più ricchi d’Italia giace nell’incuria o rischia di essere danneggiato per sempre da interventi di mani inesperte. Come per gli organi, lo stesso vale per tutto il patrimonio artistico aquilano: i palazzi storici giacciono lì e in otto mesi non si è riusciti neppure a puntellarli tutti. Una situazione paradossale, ma sempre quando s’incrociano disorganizzazione, incuria, dilettantismo, sullo sfondo si profila l’ombra di una speculazione.

SOLO MANCANZA DI FONDI?

«Se arriva la neve li squaglia quei palazzi» si è lasciato sfuggire il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente parlando del centro storico. E ha ragione: di fronte ai ritardi dal ministero dei Beni Culturali alzano le mani. Tutto dipende dal super commissario Bertolaso e dal suo vice Luciano Marchetti che si occupa dei beni culturali e che lamenta l’assenza di fondi e dice «devo lavorare a credito... ». Al contrario delle tante promesse, il governo di soldi ne ha stanziati pochini per la messa in sicurezza dei beni culturali: appena 20 milioni, ancora non a disposizione, ma che dovrebbero, forse, arrivare fino a 50. Non a caso sette ex ministri della Cultura - Buttiglione, Fisichella, Melandri, Paolucci, Ronchey, Urbani, Veltroni - hanno proposto al governo di istituire una tassa di scopo per la salvaguardia e il restauro dei beni abruzzesi. Resta però inspiegabile come mai una parte del patrimonio mobile - quadri, sculture, mobilio e via dicendo - sia ancora all’interno di edifici inagibili, alcuni non puntellati.

La mancanza di fondi rischia di diventare una mezza verità, che nasconde unamezza bugia: «Il problema è completamente diverso – spiega Giuseppe Basile, storico dell’arte dell’Istituto nazionale del restauro oggi in pensione e tra i protagonisti del salvataggio e del restauro della Basilica di SanFrancesco ad Assisi, durato appena due anni - dopo il terremoto dell’Umbria e delle Marche, la competenza sui beni culturali delle zone colpite dal sisma venne affidata a Mario Serio, che era il direttore generale del ministero che si occupava di quei beni anche nella normalità. Per lui fu facile e immediato intervenire: sapeva chi chiamare, dove e come mandarlo. Oggi invece è tutto sotto gli auspici della protezione civile, che si comporta in modo militare e fa lavorare, anche come volontari, solo suoi affiliati o quelli di associazioni da lei riconosciute, come Legambiente e le Misericordie. Mi sono offerto come volontario, ho detto che mi sarei pagato l’assicurazione sulla vita per non essere di peso, ma alla fine ho capito che comunque non mi avrebbero chiamato».

LA DENUNCIA

I restauratori sono in agitazione a livello nazionale: per il terremoto dell’Umbria e delle Marche vennero mobilitati i migliori, stavolta il timore diffuso è che per gli organi musicali e per tutto il resto si facciano avanti, con spinte politiche, personaggi poco affidabili. Intanto ai danni del terremoto si stanno aggiungendo quelli dei volontari non specializzati e, colpevolmente, non seguiti da occhi esperti. È quanto ha denunciato Gianfranco Cerasoli, funzionario del ministero e segretario generale della Uil alla riunione del Consiglio superiore per i beni e le attività culturali del 12 ottobre. «Il ministro Bondi - ha ricordato Cerasoli - ha voluto che si attrezzasse una struttura distaccata dell’Istituto Superiore del restauro presso Celano, che dovrà urgentemente intervenire non sugli effetti del terremoto, bensì su quelli dell’incuria di quanti hanno e avevano responsabilità dei Beni culturali». Altro che solo mancanza di fondi, la questione è scottante, la disorganizzazione notevole, la sovrapposizione di enti esecutori all’ordine del giorno tra Comune e Vigili del fuoco. È il caso della Chiesa di Santa Maria di Paganica che, «mentre il quartiere è stato messo in sicurezza (...), è ancora scoperta e soggetta agli agenti atmosferici», come tutte le chiese del centro storico a eccezione di Collemaggio. E proprio le intense precipitazioni hanno procurato ulteriori danni a questi edifici storici, con i loro affreschi, mosaici e ornamentazioni. A Onna, città simbolo del sisma, l’organo della chiesa si era salvato appeso a l’unico muro restato in piedi e pericolante: smontato dai pompieri non è dato sapere dove sia finito. Gira oramai il motto: quello che non fece il terremoto, terminarono Bertolaso e compagnia. E dal primo gennaio per i Beni culturali sarà anche peggio, commissario diventerà il presidente della regione Abruzzo Giovanni Chiodi, affiancato nella ricostruzione dal Genio Civile, abituato a lavorare per viadotti e ponti con il cemento armato: una mano santa per gli antichi palazzi. Amen.

CUI PRODEST?

Tutto avviene in uno sconcertante silenzio, o meglio in un fragore di trionfanti proclami mediatici che non corrispondono a verità. La popolazione è stizzita perché ancora non è stato avviato il restauro degli edifici classificati «A», vale a dire poco danneggiati. Lecito chiedersi se dietro tanto caos non ci siano o stiano nascendo progetti diversi. E, di fronte all’immobilità dello Stato e all’inerzia della ricostruzione, molti cominciano a vendere le proprie abitazioni. A poco, naturalmente, spaventati che ai danni del terremoto si aggiunga il colpo di grazia di un ritardo che renderà gli edifici irrecuperabili. Giovedì 19 novembre, durante una puntata di Terra (Canale5), Toni Capuozzo parlò di un serio rischio di speculazione sul centro storico de L’Aquila. Il puzzle si chiarisce: parte attiva nella ricostruzione dell’Umbria dopo il terremoto, Marchetti quando lavorava al ministero autorizzò il progetto degli ascensori sul Vittoriano di Roma definito uno scempio da molti esperti, e ora punta a restare in carica dopo il primo gennaio con il nuovo commissario Chiodi; a capo della Struttura tecnica di missione per sovrintendere la ricostruzione de L’Aquila è stato nominato Gaetano Fontana, inventore dei “piani di riqualificazione urbana”, dei “Prusst” e delle varianti urbanistiche in deroga ai piani regolatori e dal 2008 direttore generale dell’Associazione nazionale costruttori edili. Così mentre interi quartieri de L’Aquila sono lasciati a marcire nell’incuria, qualcuno sente già girare le betoniere del cemento armato...

Spesa raddoppiata per il Conservatorio e l’Auditorium

All’indomani del terremoto Bruno Carioti, direttore del conservatorio «Alfredo Casella», si precipita all’ambasciata giapponese chiedendo contatti con architetti esperti in costruzioni antisismiche. La diplomazia nipponica contatta Shigeru Ban, celeberrimo architetto, che in poco tempo offre in regalo un progetto per una sede di emergenza, che oltre al Conservatorio avrebbe ospitato un Auditorium. C’è di più: per realizzare il progetto (costo totale di 5 milioni di euro) il Giappone mette a disposizione 500mila euro e Ban in prima battuta ne porta altri 500mila da sponsor, promettendo di trovare altri soldi e ditte disposte a lavorare gratis. Solidarietà ed efficienza. I lavori sarebbero dovuti iniziare i primi d’agosto e la consegna della sede per settembre: entusiasmo generale e pacche sulle spalle tra il premier nipponico Taro Aso e Berlusconi al G8 aquilano. Ai primid’agosto però il cantiere non parte. Secondo alcune voci il progetto non garba al commissario straordinario e al governo. Poi si scopre che è stata espropriata un’area e che sarà bandito un concorso: ma in realtà le specifiche dalla gara escludono a priori il progetto di Ban, che è troppo grande. A Carioti arriva una telefonata: «Che accidenti succede lì a L’Aquila?». Glielo chiede Renzo Piano, che si trova nello studio di Ban a New York, di fronte all’architetto nipponico incredulo e innervosito e che certo non vuole rimettere mano al suo progetto.

Ma il direttore del Conservatorio non ha risposte, è stato scavalcato. Si rischia l’incidente diplomatico mentre il milione dei privati e del governo giapponese svanisce. Il concorso viene vinto da una ditta con un costo di circa 6 milioni, i lavori - iniziati a ottobre - dovrebbero terminare il primo dicembre. Riassumendo: la spesa viva per Conservatorio e Auditorium del progetto di Ban era di 4 milioni di euro (in totale erano 5ma almeno un milione arrivava dal Giappone e dai privati). Ora invece si spenderanno circa 6 milioni di euro solo per il Conservatorio, cui aggiungerne almeno altri 2,5 per l’eventuale Auditorium: totale oltre 8 milioni di euro, esattamente il doppio. Il commissario per la ricostruzione in mancanza di fondi agisce con la strategia del pago due prendo uno.

Foto numero 1: centro storico de L'Aquila; Palazzo Margherita, sede del comune, in piena zona rossa. L'orologio che ogni sera segnava i 99 rintocchi è fermo ormai, ma l'ingresso è di nuovo aperto e brulica di operai intenti da fine luglio a puntellare l'intero edificio. Con barre d'acciaio, legno e tiranti hanno già messo in sicurezza l'accesso, il portico e il cortile interno, le scale fino al primo piano, e una parte dei corridoi e delle stanze che prima del 6 aprile ospitavano la vita politica e amministrativa della città. Per chi in quelle stanze ha vissuto, entrarvi di nuovo, per la prima volta da allora, è un'emozione intensa. Palpabile e contagiosa, come se si varcasse la soglia di un sacrario. L'intera ala che ospitava il gabinetto del sindaco è sepolta sotto le macerie del solaio mentre la sala consiliare è congelata da una coltre di detriti. Quegli operai però non le toccheranno: a loro spetta solo il puntellamento.

Foto numero 2: Roio Piano, borgo da 600 abitanti, interamente zona rossa. Ma potrebbe essere Colle di Sassa, Santa Rufina, Camarda, Pesco Maggiore, una qualunque delle sessanta frazioni dell'Aquila. Qui, sotto le macerie rimaste esattamente dov'erano sette mesi fa sembra sia stato seppellito anche il tempo. Nessun brulicare di operai, solo qualche residente che non si dà per vinto e cerca testardamente di farsi strada fino alla propria casa, incurante del pericolo. Molte sono abitabili, altre avrebbero bisogno di piccole ristrutturazioni, ma sono irraggiungibili perché le strade sono intasate dai crolli, o magari solo da un'automobile sepolta dai detriti che nessuno ha portato via.

Colpa di una legge punitiva inventata dal governo Berlusconi che parifica le macerie a rifiuti solidi urbani, rallentandone lo smaltimento e impedendo ai cittadini perfino di spostarle. Ma il vero mistero, qui, sono i puntellamenti: malgrado siano pochi, perché il pericolo delle rovine incombe anche sugli operai addetti ai lavori, il più delle volte mettono inspiegabilmente in sicurezza muri da abbattere o case semidistrutte anche prima del terremoto che andrebbero invece solo demolite. E come se non bastasse, le impalcature dei puntellamenti invadono le strette sedi stradali, bloccando l'intero paese che già assomiglia ai tanti borghi abruzzesi abbandonati dopo il sisma del 1915. Sul muro a fianco di un portone qualcuno ha scritto col giallo: «Ok, me ne vado».

Li chiamano lavori provvisionali: dopo la rimozione delle macerie (poco è cambiato da quanto riportato sul manifesto del 23 ottobre scorso), puntellare e demolire sono opere propedeutiche alla ricostruzione, una fase peraltro ancora al di là dell'orizzonte di cui si intravede al momento solo la nomina del governatore Gianni Chiodi a commissario straordinario - con vice il sindaco aquilano Massimo Cialente - e l'istituzione di una «Struttura tecnica di missione» con a capo un alto dirigente del ministero delle Infrastrutture, Gaetano Fontana. Ma se demolire - operazione veloce e che costa poco - non è nelle corde di chi oggi decide e che ha scelto una filosofia conservatrice a tutti i costi, l'opera di puntellamento invece potrebbe risultare un ottimo business grazie ad una procedura applicata per la prima volta in Italia, e forse non solo. Gli appalti, infatti, non vengono assegnati tramite gara ma su chiamata nominale delle ditte (un centinaio) presenti in un elenco stilato dalle associazioni di imprese artigianali locali (Ance, Api, Confartigianato) e vagliato dal prefetto per il controllo moralità e antimafia.

La scelta e la distribuzione dei lavori, però, è tutta nelle mani dell'assessorato ai lavori pubblici dell'Aquila, settore emergenza sisma. Spetta all'assessore Ermanno Lisi e al dirigente tecnico, l'ingegner Mario Di Gregorio, (sui quali nessuno ha sollevato dubbi di onestà, ma non è questo il punto) decidere, per esempio, a chi assegnare il puntellamento di Palazzo Margherita, che vale sui 400-500 mila euro, e a chi invece quello da 5 mila euro di un edificio qualsiasi o di una piccola frazione. Non solo: il pagamento delle imprese per il lavoro svolto avviene a consuntivo e non a preventivo.

A sollevare per primo il problema in consiglio comunale è stato il capogruppo di Rifondazione comunista, Enrico Perilli: «Nelle frazioni stiamo assistendo ad una sorta di accanimento terapeutico sui ruderi - spiega - : si puntella tutto con grande spesa (circa il triplo, e con tempi enormemente più lunghi, ndr), inutilmente, e in più bloccando l'accesso a intere zone, abbandonate così dagli abitanti che via via si stabiliranno sempre più definitivamente altrove».

Proprio su richiesta di Perilli, qualche giorno fa l'assemblea consiliare ha chiesto lumi all'ufficio tecnico dell'assessorato competente sulla inedita modalità di appalto e di pagamento dei puntellamenti: «Quando mi sono accorto di quale responsabilità avessi con questa procedura adottata dalla protezione civile per snellire la burocrazia e procedere più rapidamente, prima che l'inverno faccia altrettanti danni che il terremoto, - spiega l'ingegnere Di Gregorio -, preoccupato e intimorito, ho chiesto l'intervento del prefetto che, nella veste di vicecommissario vicario, il 16 giugno scorso ha stipulato un'intesa con gli altri tre vice commissari, con le associazioni di categoria e il comune per controllare di volta in volta l'assegnazione dei lavori e l'equilibrio nella distribuzione degli appalti».

Certo, spiega l'ingegnere, il problema del puntellamento di un immobile è che «non può essere progettato se non in corso d'opera perché si procede man mano che si entra nell'edificio e se ne scopre la condizione di stabilità. Impossibile quindi prevederne il costo». L'Aquila e le sue frazioni sono state divise in comparti, aggiunge Di Gregorio, «ciascuno dei quali viene affidato ad una ditta adeguata, scelta a seconda della classificazione Soa» (fatturato, maestranze, curriculum). Tanto per fare un esempio, la ditta Fiordigigli di Paganica che si è aggiudicata Palazzo Margherita (per la ricostruzione del quale la Federcasse ha donato qualche giorno fa 5 milioni di euro) «è classificata al quarto di otto gradi e quindi può accedere ad appalti fino a 3 milioni di euro». Ma siccome «al momento dell'assegnazione il costo dell'opera ancora non si conosce, è possibile che la ditta prescelta debba costituire assieme ad altri un'associazione temporanea d'impresa per aumentare la classificazione e poter così portare a termine il lavoro».

Per evitare la speculazione, racconta l'ingegnere, «abbiamo adottato un metodo: man mano che si procede la ditta presenta gli stati d'avanzamento che vengono via via controllati anche in riferimento alla coerenza tecnica degli interventi realizzati, e liquidati. Il pagamento, in questo modo, non è del tutto a consuntivo». Finora, assicura Di Gregorio, «quasi tutte le ditte dell'elenco lavorano e con profitti che più o meno si equivalgono».

Eppure il grande dilemma resta: demolire o puntellare? Come ridurre le zone rosse e riportare all'agibilità totale le abitazioni non lesionate ma sotto incombente pericolo esterno? «Noi ci affidiamo alle schede Gts (Gruppi tecnici di sostegno, composti da vigili del fuoco, protezione civile, sovrintendenza e comune o, nel caso di demolizioni, allargati fino a 11 figure, ndr), ma non sempre la prima decisione adottata è quella giusta. Teniamo presente che si tratta di "danni vivi", che si trasformano di giorno in giorno». Per Di Gregorio, però, l'attenzione, anche politica, dovrebbe essere puntata ancora sulle macerie: «Qualche giorno fa un giovane operaio è rimasto ferito durante una rimozione e a volte le stesse imprese si rifiutano di lavorare ai puntellamenti in presenza di rovine pericolanti».

E può accadere che, dopo un abbattimento, arrivi la squadra Ucv (Unità di controllo veloce) della protezione civile e bocci l'operato del comune: «Demolizione eseguita, macerie sul posto, dunque pericolo ancora presente», hanno scritto. Tutto inutile, insomma. E allora, meglio puntellare nel frattempo? «Secondo il settore finanze del comune - ribatte Enrico Perilli - il costo dei puntellamenti di qui a dicembre sarà di 50 milioni di euro, di cui solo 15 in cassa». Di questo passo, L'Aquila non starà più nemmeno in piedi, figuriamoci volare.

Il Comune di Udine ha deciso di provocare un caso politico e apre una battaglia contro la legge 11 novembre 2009, n. 19 “Codice dell'edilizia regionale”.

In un convegno tenuto il 20 novembre il sindaco Furio Honsell e l’assessore comunale alla pianificazione territoriale Mariagrazia Santoro hanno lanciato una sfida alla maggioranza di destra al comando della Regione sostenendo l’incostituzionalità della legge regionale nelle parti in cui costituisce l’interpretazione dell'intesa del 31 marzo 2009 tra Governo, Regioni e alcuni rappresentanti degli Enti locali, ormai nota come "piano casa".

Al convegno sono intervenuti anche Andrea Baldanza magistrato della Corte dei Conti Sez. Abruzzo e componente del Comitato scientifico dell’Istituto per la Finanza e l'Economia Locale; Paola Di Biagi, ordinario di Urbanistica all’Università di Trieste; Fabio Refrigeri, Vice coordinatore nazionale dell’ANCI e Sindaco di Poggio Mirteto (Ri); Roberto Tricarico, assessore all’ambiente, alle politiche per la casa e al verde del Comune di Torino.

La legge regionale è strutturata in due parti. Una è quella che dà il nome alla stessa e costituisce - nelle originarie intenzioni del legislatore regionale - la cornice ordinamentale unitaria e organica a cui fare riferimento per la disciplina dell'attività edilizia. L’altra parte è il "piano casa" del Friuli Venezia Giulia, pacchetto che si è aggiunto nel corso dell’iter della legge che ha mosso i primi passi sul finire del 2008.

Il Comune di Udine concentra il fuoco dell’attenzione su alcuni aspetti della legge regionale, in particolare verso il Capo VII, articoli 57, 58, 59 e 60, che detta “Disposizioni straordinarie per la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente”.

Le disposizioni di legge prevedono espresse deroghe agli strumenti urbanistici vincolanti per i comuni, i quali si vedono sottratti qualsivoglia valutazione di congruità urbanistica, edilizia, paesaggistica e ambientale.

Un primo rilievo sollevato sta nel fatto che la legge estromettendo il comune nella gestione del territorio, gli nega la garanzia del principio di sussidiarietà sancito dagli articoli 114 e 118 della Costituzione.

Altro appunto viene mosso partendo dalla considerazione che l’intesa sancisce che le leggi regionali devono “… c) introdurre forme semplificate e celeri per l'attuazione degli interventi edilizi di cui alla lettera a) e b) in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale”. La legge regionale, invece, non tiene pressoché conto della pianificazione comunale dato che da essa deroga, discostandosi così dall’intesa.

Ulteriore rilievo che il Comune muove in ordine all’espropriazione di competenze in capo ai comuni, sta nella stessa legge urbanistica regionale 5/2007, il cui art. 3 espressamente riconosce che “La funzione della pianificazione territoriale è del Comune che la esercita nel rispetto dei principi di adeguatezza, interesse regionale e sussidiarietà…”.

La stessa legge 19/2009, nella parte ordinamentale costituente il codice dell’edilizia, riconosce al comune l’ente preposto al governo del territorio e al rilascio dei titoli abilitativi in conformità agli strumenti urbanistici.

Secondo il Comune di Udine, dunque, esiste nel corpo legislativo regionale un nucleo consolidato di competenze in materia di edilizia e urbanistica in capo ai comuni che costituisce un limite alla discrezionalità del legislatore regionale nelle materie individuate dall’art. 4 dello Statuto Regionale (legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1).

Inoltre secondo il Comune di Udine le attribuzioni riconosciute statutariamente alla regione trovano il proprio limite nell’art. 5 della Costituzione che garantisce il principio di autonomia degli enti locali ed il cui rispetto investe anche quelle a statuto speciale.

Alla luce di queste valutazioni il Comune di Udine chiede alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di promuovere giudizio di legittimità costituzionale contro il Capo VII, articoli 57, 58, 59 e 60, della LR n. 19/2009, per violazione dell’art. 4 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 e degli articoli 3 e 5 della Costituzione.

Se queste sono le ragioni di natura giuridica sulle quali il Comune di Udine ha impostato la propria battaglia, ricercando alleati nel mondo delle autonomie locali della regione, ulteriori sono poi le ragioni urbanistiche che preoccupano seriamente il Comune.

Anche se il Comune di Udine non muove una critica radicale all’intesa nazionale, per quanto l’assessore comunale abbia sottolineato che il rilancio dell’economia non passa necessariamente solo ed esclusivamente attraverso l’assorbimento di risorse nel settore delle costruzioni, sono però forti le critiche che rivolge all’impostazione della legge regionale.

Innanzitutto per quanto riguarda l’enorme durata: le deroghe ai piani urbanistici trovano applicazione per gli interventi edilizi che abbiano inizio entro cinque anni dall’entrata in vigore della legge, tempo ben maggiore rispetto ai 18 mesi contenuti nell’intesa e pure nella stragrande parte delle altre leggi regionali.

Altro punto sostanziale è che la legge regionale, a differenza di molte altre (Toscana, Veneto, Lombardia, Puglia, ecc.), esclude i comuni dal determinare se e in quali situazioni, in quali parti della città e del territorio, sulla base di valutazioni di sostenibilità urbanistica, paesaggistica e ambientale, le deroghe non possono trovare applicazione applicazione.

Per il Comune questo lede alle fondamenta il principio della pianificazione, fa diventare del tutto aleatoria e velleitaria ogni qualsivoglia volontà di pianificare la città e il territorio ed è tale da depotenziare il piano regolatore. Non a caso il Comune di Udine si chiede, retoricamente, se la legge regionale non abbia come obiettivo reale quello di eliminare la pianificazione urbana e territoriale.

Secondo il Comune questa impostazione scardina la politica urbanistica dei comuni, lasciandoli in una situazione di perenne balia e indeterminatezza programmatica. L’effetto sulla città, poi, sarà quello di privarla della qualità insediativa che non si misura solamente sulle quantità degli standard urbanistici o sull’azzonamento.

Il Comune ha inoltre stigmatizzato altri aspetti negativi che caratterizzano l’impostazione politica, culturale e progettuale del “piano casa” regionale.

La legge regionale produrrà effetti dirompenti sulla qualità delle parti della città esistente al di fuori dal nucleo storico centrale, ma anche nelle realtà urbane minori dove pure i piccoli incrementi volumetrici possono determinare effetti rilevanti sulla qualità, sulla riconoscibilità dei luoghi, spesso esprimenti una propria peculiarità e singolarità.

Il taglio della legge risponde anche ad una visione della città obsoleta separata in parti divise nella zonizzazione funzionale, laddove le zone A e simili costituiscono quelle e solo quelle meritevoli di una qualche attenzione, tali da essere escluse dall’applicazione delle norme in deroga dal piano regolatore.

Al di fuori di questa parte “nobile” della città, secondo il “piano casa” regionale, c’è il resto, il “brodo primordiale urbano” dove tutto è ammissibile, senza alcuna regola e governo pubblico. E sono proprio queste parti dell’organismo urbano, dove la legge esprime la sua banale e semplicistica indifferenza alla qualità spaziale, edilizia ed insediativa, nelle quali gli spazi vuoti possono essere sempre e comunque riempiti dai metri cubi dove non esiste alcuna idea di riqualificazione urbana.

In quest’ottica lo spazio pubblico è del tutto residuale e ininfluente a determinare la qualità della città (l’art. 58, 2° comma, lett. b) della legge costituisce una perla di rara anarchia incivile, del tutto ingovernabile) ed è trattato come mero standard quantitativo con uan visione ragionieristica.

Neppure lontanamente sfiora l’idea del legislatore che la vita delle persone in una città non avviene sulla base dell’azzonamento funzionale, ma della mixitè delle attività, delle relazioni fisiche, sociali, spaziali, dei rapporti morfologici e tipologici del costruito e no, di tutto ciò che è esterno all’abitazione. Togliendo al comune la potestà di pianificare il “brodo primordiale urbano” nell’interesse pubblico e generale, gli stessi beni comuni (la città dei cittadini, degli interessi comuni) vengono disconosciuti. Il modello è quello di una città sommatoria di individui chiusi nella propria casa.

Della bellezza, dell’accoglienza e dell’attrazione dello spazio urbano non c’è proprio traccia, né poteva esserci quando una legge è centrata esclusivamente sulle quantità edificabili e non sulla qualità urbana e insediativa, determinante per elevare la qualità dell’abitare e del vivere.

E non vale, è stato sottolineato, l’ipotesi di interpretare la legge come un tentativo di densificare il tessuto urbano consolidato, per contrastare la diffusione insediativa.

L’impronta ideologica della legge è molto forte ed è tutta incentrata sull’interesse piccolo e individuale del singolo. Ogni visione complessa della società e della città è totalmente assente, ridotta a semplificazione che denota anche una grande assenza di conoscenza.

Il Comune ha sottolineato che la legge esprime una forte povertà culturale e progettuale, del tutto estranea alla cultura urbanistica.

Caro eddyburg, so che seguite con attenzione le vicende del dopo-terremoto e quindi vorrei esporre ai vostri frequentatori una mia preoccupazione. Non mi stupisce che si respiri un clima di consenso bipartisan intorno alla nomina dell'architetto Gaetano Fontana a capo della Struttura tecnica di missione che ha l’obiettivo di sovrintendere la ricostruzione dell’Aquila. Dopotutto la deregulation urbanistica, cioè la mano libera alla speculazione, è stata bipartisan in Abruzzo come in tutta Italia.

Che Fontana entusiasmi Chiodi come ieri Del Turco e D'Alfonso è la dimostrazione di quanto poco alternativi tra di loro siano PD e PDL e di quanto siano trasversali i poteri reali in questo paese.

Mi capiterà per l'ennesima volta di essere la voce fuori dal coro, ma che venga scelto per coordinare la ricostruzione il direttore generale dell’Associazione nazionale dei costruttori mi sembra scelta assai discutibile, segno inequivocabile della subalternità della politica agli interessi non certo collettivi dei signori del mattone. Non conosco personalmente Fontana e non ne metto in dubbio le competenze tecniche che saranno sicuramente eccellenti vista la lunga carriera nel ministero dei lavori pubblici, poi ribattezzato delle infrastrutture.

Negli anni ‘90 Fontana diventa segretario della Dicoter (direzione del coordinamento territoriale). In questo periodo inventa il grimaldello che ha distrutto l’urbanistica in Italia. In primo luogo sostituisce ai piani urbanistici i "progetti di intervento". C’è un evidente cambio di scala tra le vecchie categorie di intervento e quelle da lui inventate (programmi di recupero urbano, programmi di riqualificazione, Prusst): esse sono infatti ritagliate sull’iniziativa dei proprietari e non piè sulla dimensione urbana piè´ coerente. Ma il suo capolavoro è la parte procedurale. Alla variante urbanistica che consentiva comunque di poter intervenire ai consigli comunali viene sostituito l’istituto dell’accordo di programma con cui, una volta approvato il progetto edilizio, si va automaticamente in variante di piano. L’accordo di programma è sottoscritto tra il sindaco e la proprietà immobiliare: il consiglio comunale viene chiamato soltanto a ratificarlo (senza dunque poter intervenire nel merito) soltanto dopo la sottoscrizione. La democrazia cancellata e l’urbanistica abolita, dunque. Proprio per questi meriti conseguiti sul campo, nel 2008 lascia la pubblica amministrazione per andare a ricoprire il ruolo di direttore generale dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance). Dal pubblico al privato come nelle porte girevoli degli alberghi. Ora l'inventore degli accordi di programma e della deregulation urbanistica viene chiamato a supervisionare la ricostruzione. E' surreale che venga chiamato a vigilare sulla torta della ricostruzione il direttore generale dell'associazione nazionale costruttori? Capisco che in Italia il conflitto d'interessi non sia di casa, ma non era meglio individuare un urbanista specializzato in centri storici?

Condivido in pieno le perplessità, con una sola precisazione. L’istituto dell’accordo di programma fu introdotto come norma generale da Franco Bassanini, e Fointana si è “limitato” a estenderlo ampiamente a tutta l’area dell’urbanistica. Per il resto, ciò che a me sembra la cosa più grave è che su entrambi i fronti dello schieramento politico si sia perso il senso della distinzione tra pubblico e privato, e ci si accodi così tranquillamente sugli interessi economici. E proprio su quegli interessi che hanno condotto, e conducono ancora, alla devastazione del territorio.

La fretta del “ghe pensi mi”, la gran voglia di spettacolo, la supponenza dell’immobiliarista, la megalomania di essere il più grande statista italiano stanno regalando – come nei proverbi contadini (ce ne sono almeno dieci sulla fretta “cattiva consigliera”) – pessimi risultati all’Abruzzo terremotato. Le persone sistemate, senza servizi, nelle famose “new town” berlusconiane risultano appena 4.764 più 1.217 a Coppito e altre 480 nelle casette dei Map. Contro le 13.224 sparse negli alberghi e altre ancora in case private. Mentre le comunità locali si disgregano, nello scontento crescente di sindaci e parroci, e 671 “resistono” nelle Tendopoli.

Berlusconi e Bertolaso hanno agito lungo queste linee-guida: ignorare sprezzantemente le migliori esperienze passate (Friuli e Umbria-Marche); accentrare e commissariare tutto l’accentrabile e il commissariabile (anche in loco, con l’ingegner Luciano Marchetti che non ascolta nessuno); tagliar fuori le Soprintendenze; passare sopra la testa delle istituzioni locali, deboli (i Comuni) o evanescenti (la Regione); spacciare per risposta globale ai problemi una risposta unicamente “edilizia”, per giunta insufficiente, senza curarsi dello sradicamento di migliaia di residenti. L’esatto contrario di ciò che si fece in Friuli (quasi mille morti e intere città distrutte), in Umbria-Marche (pochi morti e però migliaia di edifici religiosi colpiti, 1500 nelle sole Marche), nella stessa Campania dove Giuseppe Proietti guidò con perizia la Soprintendenza speciale e Mario De Cunzo seppe tradurre in tempestivi restauri di chiese e palazzi 300 miliardi di lire dell’80.

Qui tutto è passato, ossessivamente, per la Protezione Civile. Non si sono volute mobilitare energie culturali, competenze tecnico-scientifiche, apporti di alto profilo attorno alla stessa città storica dell’Aquila (siamo ancora al problema delle macerie), ai centri storici minori, alle chiese d’Abruzzo. Non a caso si è nominato il segretario dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili (ANCE) a capo dell’autorità tecnica (tutta da avviare). Nulla di paragonabile a quanto avvenne, positivamente, a Venzone o a Gemona per il Duomo, ad Assisi per la Basilica Superiore di San Francesco, riconsegnata in meno di due anni, e in tanti centri feriti. Berlusconi ha giocato al super-premier. Bertolaso è stato il super-ministro. Nella totale acquiescenza del super- liquidatore Bondi.

Ora emerge il profondo scontento dei parroci nel constatare che per le chiese, anche per quelle meno lesionate, la Protezione Civile non sa in realtà cosa fare. Non ha strumenti tecnici né culturali. E allora si dànno un po’ di euro direttamente alle Diocesi, trasformate (idea mirabolante) in stazioni appaltanti, senza trasparenza. E si paracaduta qua, direttamente dal Vaticano, un vescovo ausiliare senza alcuna esperienza specifica, venuto a “commissariare” (anche lui) i confratelli. E’ sempre più arduo comprendere come e perché certi grandi giornali, le tv non berlusconizzate continuino a tacere o ad avallare sul dramma-Abruzzo versioni da Minculpop o da Istituto Luce anni ’30-‘40.

Le tavole sono consultabili nel file allegato in calce al testo.

1. Stop al consumo di suolo

Contro la dissennata cementificazione del territorio e la distruzione del paesaggio è da tempo in atto una vasta offensiva sociale e culturale. L’associazione Stop al consumo di suolo è da tempo una realtà in crescita e l’adesione all’appello conta un sempre maggiore numero di contatti[1]. All’associazione partecipano Eddyburg, AltritAsti, Gruppo P.E.A.C.E. Pace, Economie Alternative, Consumi Etici, Movimento per la Decrescita Felice, AltrItalialtroMondo, Comitato per la Bellezza, Associazione dei Comuni Virtuosi. Insieme a questa rete di amministrazioni pubbliche e comitati, anche le grandi associazioni ambientaliste e culturali sono impegnate nel contrastare la distruzione dei beni naturali e la riduzione della biodiversità. WWF, Fai, Italia Nostra e Legambiente sono concretamente impegnate nel contenere la dilagante espansione urbana.

Questo vasto movimento non ha finora potuto fare affidamento su dati certi sulla quantità di suoli agricoli che ogni anno viene urbanizzato e sottratto agli usi naturali. Gli unici indicatori di riferimento sono, come noto, la quantità di ettari sottratti all’agricoltura calcolati dall’Istat (3,5 milioni di ettari nel periodo 1990–2005) e il dato del consumo di suolo misurato dall’Agenzia Ambientale Europea tra il 1991 e il 2001 che aveva stimato in circa 8.400 ettari/anno la quantità di suolo sacrificata per l’urbanizzazione[2]. Il primo dato non rappresenta il reale consumo di suolo, poiché indica soltanto gli ettari sottratti all’agricoltura e dunque non necessariamente urbanizzati. Si tratta di aziende agricole che chiudono il ciclo produttivo o di aree coltivate che vengono abbandonate. Il secondo dato, al di là delle metodologie di interpretazione[3], si riferisce anche ad un periodo in cui l’attività edilizia è stata bassa in conseguenza dell’inchiesta Mani pulite[4].

Recentemente l’Istat ha fornito i dati sulle volumetrie realizzate in Italia nel periodo di tempo che va dal 1995 al 2006, proprio a partire da quel 1995 in cui inizia a verificarsi un attenuarsi degli effetti di Tangentopoli e l’attività edilizia -anche in relazione della congiuntura mondiale- inizia un’ascesa inizialmente lenta e successivamente sempre più impetuosa. Attraverso l’interpretazione di questi dati si è stimata con ragionevole approssimazione il valore del consumo di suolo in atto nel nostro paese, anche se si deve sottolineare preliminarmente che le informazioni Istat sono sicuramente sottostimate rispetto alla realtà. Esse, come noto, si basano sull’invio dei dati relativi al rilascio delle concessioni edilizie da parte delle amministrazioni comunali. E’ noto che questo invio non è sistematico: le informazioni fornite dall’istituto centrale sono conseguentemente sottostimate rispetto alla realtà. Inoltre, il fenomeno abusivo, quantitativamente importante in molte regioni italiane, sfugge per definizione alla rilevazione.

Pur con questi limiti i dati riescono a fornire un quadro attendibile e –soprattutto- verificabile attraverso le letture della crescita dell’urbanizzazione del territorio che iniziano ad essere prodotte alla scala locale.

2. Si è costruito per “il mercato”

Iniziamo dai dati sulle costruzioni residenziali. Sono state costruite quasi 9 milioni di stanze per abitazione (8.897.959 corrispondenti a 1.122.043.692 metri cubi realizzati) (tav.1 file pdf).

Alle stanze di nuova costruzione vanno aggiunte quelle realizzate attraverso ampliamento di edifici esistenti, pari a oltre un milione (1.043 mila, vedi tav. 5). Si arriva in totale a circa 10 milioni di stanze. Questa enorme offerta non ha alcuna relazione con l’aumento della domanda. La popolazione italiana dopo una sostanziale stasi in tutto il decennio 1990-2000 ha iniziato a crescere con tassi molto modesti soltanto per l’apporto della popolazione straniera, la cui presenza è emersa in particolare con i due provvedimenti di regolarizzazione del 2002 (tav.2 file pdf)[5].

Il milione 900 mila abitanti di incremento demografico registrato dal 1995 al 2006 è rappresentati quasi esclusivamente dagli immigrati, persone che, salvo eccezioni, non hanno la minima possibilità di accesso alle abitazioni costruite nel quindicennio. Soltanto l’1% di queste, infatti, è costituito da alloggi pubblici: tutto il resto sono abitazioni private. Tant’è vero che in tutte le più grandi città italiane esiste una diffusa emergenza abitativa: ci sono fasce sempre più ampie di popolazione che a causa del fenomeno dell’impoverimento del ceto medio, della precarizzazione del lavoro e dell’impennata dei prezzi delle abitazioni, soffre di gravi disagi abitativi. Risulta dunque evidente che l’enorme mole di costruzioni realizzate non ha alcuna corrispondenza con la domanda, ma è evidentemente legata ad altri fattori. E’, come noto, un fenomeno comune a molti altri paesi: si è costruito molto perché il fiume di denaro virtuale creato dell’economia finanziaria doveva trovare luoghi in cui materializzarsi: le città e il territorio.

3. Il consumo di suolo del segmento residenziale

Vediamo ora di calcolare il valore del consumo di suolo prodotto dal segmento abitativo. Sono stati costruiti 562.885 edifici: incrociandoli con la volumetria totale (un miliardo e 122 mila metri cubi) si vede che il volume medio dei fabbricati e di circa 2.000 metri cubi (1.993, per la precisione). La tavola seguente ci dice che dimensione media dei piani delle abitazioni realizzate è compresa tra 2 e 3 piani. In particolare risulta che le abitazioni fino a due piani rappresentano percentualmente il 52,1% dell’intera produzione edilizia, a dimostrazione del fenomeno di diffusione residenziale che caratterizza il territorio italiano (tav. 3 file pdf)[6]. L’impronta a terra dell’edificio medio di 2.000 metri cubi è pari a circa 290 metri quadrati[7].

Per calcolare la dimensione del lotto impegnato dall’edificio medio si è assunto il valore del rapporto tra superficie coperta e superficie fondiaria contenuto nel decreto ministeriale sugli Standard urbanistici che per le zone consolidate “B” stabilisce un parametro pari a 1/8 tra impronta dell’edificio e superficie fondiaria[8]. Il lotto tipo ha dunque una misura di circa 2.320 metri quadrati. Il territorio fondiario consumato dai 562.885 edifici è dunque pari a circa 130.600 ettari. Se si considera che la volumetria realizzata è pari a 1 miliardo e 122 di metri cubi, si ottiene un indice di fabbricabilità fondiaria risulta pari a circa 0,9 metro cubo per metro quadrato (0,86 mc/mq), indice del tutto congruente con le caratteristiche prevalenti dell’urbanizzazione diffusa.

Per tener conto delle urbanizzazioni primarie, dei servizi e dei parcheggi, considerando che per le zone a bassa densità il rapporto tra superficie fondiaria e quella territoriale è generalmente di 4 a 6, si devono aggiungere 196 mila ettari. Si arriva così a 326 mila ettari di territorio consumato. L’indice di fabbricabilità territoriale scende a poco meno di 0,4 mc/mq, valore anche in questo caso coerente con le caratteristiche delle trasformazioni diffuse.

Si deve infine aggiungere al dato stimato una percentuale relativa all’abusivismo. Il peso dell’abusivismo è sistematicamente stimato da Ecomafia, pubblicazione annuale curata dall’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente che stima intorno al 20% la percentuale dell’abusivismo sulla quota legale[9]. Ai precedenti 326 mila ettari vanno pertanto aggiunti ulteriori 65.000 ettari.

In conclusione, la quantità di territorio consumata nel periodo 1995 – 2006 dal comparto residenziale è pari a 390 mila ettari.

4. Il “piano casa” è già stato realizzato

L’Istat pubblica anche la quantità di volumetrie residenziali realizzate attraverso gli ampliamenti degli edifici esistenti. Si tratta di 146.267.196 metri cubi, per un totale di 287.996 abitazioni e 1.043.467 stanze (tav. 4 file pdf). E’ evidente che questo tipo di attività, a parte trascurabili eccezioni, non produce aumento di consumo di suolo.

Il motivo per cui pubblichiamo la tavola degli ampliamenti è relativo ad un'altra questione, e cioè il rapporto delle quantità realizzate con il cosiddetto piano casa annunciato dal Governo nazionale nel mese di marzo 2009 e i successivi provvedimenti regionali. Dal dato Istat di vede infatti che il mercato edilizio aveva già diffusamente utilizzato le possibilità regolamentari per gli ampliamenti degli edifici esistenti. Il primo atto di ogni buon governo dovrebbe essere quello della conoscenza sistematica delle questioni affrontate. In questo come in molti altri casi, il legislatore si è invece affidato alla sorte. Oggi dal mondo della Confindustria si levano alte grida contro “la burocrazia che blocca i piani casa”[10]. In realtà il motivo vero del fallimento è che si erano già realizzate molte costruzioni ampliando gli edifici esistenti.

Anche un’altra serie di informazioni fornite dall’Istat, pur esulando dallo specifico obiettivo della presente ricerca, è di grande utilità per comprendere gli effetti della valorizzazione immobiliare di questi anni. Le informazioni statistiche riportano la distribuzione dimensionale dell’edilizia residenziale realizzata. Il vertiginoso aumento dei valori immobiliari di questi anni ha causato una riduzione delle superfici alloggiative. Oltre al fenomeno della diffusione residenziale, siamo dunque in presenza di un evidente fenomeno di diminuzione dello standard abitativo. Il decennio del liberismo trionfante ha intaccato il diritto alla città perché ha esteso l’urbanizzato oltre ogni limite e costretto le famiglie meno abbienti a trasferirsi sempre più lontano dalle città e nello stesso tempo ha eroso il diritto ad una casa adeguata alle esigenze del nucleo familiare (tav. 5 file pdf). Si vive sempre più lontano e e in case sempre più modeste.

Ulteriore passo della restaurazione privatistica delle città, come nota Paola Bonora, sarà quello di abbassare la durevolezza delle abitazioni, costruendo alloggi da rottamare in tempi brevi (20 anni al massimo) così da alimentare un mercato drogato di demolizioni e ricostruzioni[11].

5. Il consumo di suolo del segmento produttivo

Oltre al comparto residenziale, l’Istat certifica che sono stati realizzati 246.451.984 metri quadrati di manufatti produttivi (tav. 6 file pdf). Soltanto con la realizzazione dei capannoni sono stati dunque consumati 24.645 ettari di terreno.

Assumendo un indice di occupazione medio dei lotti pari al 30% si raggiunge un valore fondiario dei lotti edificati pari a 82.150 ettari. Per tenere conto delle strade di allacciamento e di distribuzione e dei parcheggi si è raddoppiata la precedente quantità. In complesso il consumo territoriale di suolo delle nuove costruzioni è di 164.300 ettari.

L’Istat fornisce ancora i dati quantitativi sugli ampliamenti degli edifici produttivi esistenti, 45.974.441 metri quadrati (tav. 7 file pdf). A differenza del comparto residenziale, in questo caso gli ampliamenti produttivi producono aumenti del consumo di suolo. Vengono infatti utilizzati nuovi suoli non urbanizzati per aumentare le linee di produzione o per ampliare le aree di stoccaggio. Tenendo conto dell’incremento per le urbanizzazioni primarie (anche in questo caso si è utilizzato un parametro di aumento del 100%) si raggiunge il valore di 10.000 ettari (9.194).

Alla somma dei due precedenti valori (173.500 ettari) si deve ancora aggiungere una percentuale del 20% per tener conto dell’abusivismo, e cioè altri 34.700 ettari.

Il consumo di suolo per il comparto produttivo è complessivamente pari a circa 210 mila ettari.

6. Il consumo di suolo per la realizzazione delle infrastrutture

Il calcolo del consumo di suolo causato dalla realizzazione delle grandi opere infrastrutturali realizzate negli undici anni considerati non può fare affidamento su alcun dato statistico. Per stimarlo si è operato sui valori della larghezza standard degli impalcati infrastrutturali per le tipologie ferroviarie e per quelle autostradali o stradali. Il parametro lunghezza è stato calcolato sulle opere realizzate in questi anni: la tratta di alta velocità ferroviaria tra Napoli e Torino, la terze corsie autostradali (Roma-Orte, tratta Adriatica, etc); le nuove tratte (variante di valico appenninico, etc.); l‘adeguamento del grande raccordo anulare a Roma e la Salerno-Reggio Calabria.

Se si pensa che soltanto per l’alta velocità ferroviaria si può valutare il consumo di suolo in circa 25 mila ettari, una stima prudenziale ci fa arrivare al valore complessivo di 150 mila ettari di terreno consumato.

Il consumo di suolo per la realizzazione delle infrastrutture arriva a 150 mila ettari.

7. La coerenza dei dati stimati con gli studi esistenti

La somma del consumo di suolo residenziale, di quello produttivo e di quello infrastrutturale porta ad un valore di 750 mila ettari. Questo risultato è stato verificato con quelli desunti da concrete indagini di campo.

La provincia di Milano ha pubblicato nel 2009 il Quaderno n. 28 del Piano territoriale dedicato al consumo di suolo. La ricerca “Consumo di suolo. Atlante della provincia di Milano” è stata redatta in collaborazione con il Centro studi Pim e riporta il dato sintetico del consumo di suolo calcolato nel periodo 1999 – 2004 in5,5 metri quadrati di suolo per abitante/anno.

Il dato calcolato all’interno della ricerca (750 mila ettari) porta ad un dato sensibilmente più alto, e cioè 11,6 metri quadrati/abitante/anno. In realtà il dato è comparabile con quello calcolato dalla Provincia di Milano per due motivi. Il primo di natura legale: nel milanese la percentuale dell’attività abusiva è pressoché vicina allo zero e il valore dell’11,6 deve subire una decurtazione pari al 20%, diventando pari a 9,3 mq/ab/anno. Il secondo motivo è invece legato ai valori di densità edilizia che nel caso delle aree metropolitane è molto superiore al dato utilizzato per il calcolo del consumo di suolo medio.

L’Istat fornisce i dati relativi alla distribuzione del numero di piani degli edifici residenziali disaggregati rispetto alla dimensione degli organismi urbani, in particolare fornisce quelli relativi alle città italiane con oltre 500 mila abitanti[12]. Dalla tavola 8 si vede che se la percentuale delle abitazioni realizzate su tre piani è identica al dato nazionale (33,6), ben diverso è invece il peso degli edifici di 5 e 6 piani. Nei grandi centri urbani gli edifici ad alta densità assumono un peso notevolmente maggiore: gli edifici di cinque piani rappresentano l’8,8% nelle grandi città mentre il dato nazionale era del 2,4% (tav. 3 file pdf). Gli edifici con 6 e più piani di abitazione raggiungono nelle grandi città la percentuale del 17,2% rispetto alla media nazionale dell’1,5%[13].

Se si tiene conto dei due fenomeni (assenza di abusivismo e maggiori densità urbane) il valore calcolato su scala nazionale dell’11,6 scende nel caso della provincia di Milano a circa 7,0, molto vicino a quello di 5,5 mq/ab/anno misurato dagli uffici tecnici provinciali.

8. In undici anni è sparita l’Umbria. In un anno Ravenna

Come accennavamo, i tre addendi del consumo di suolo raggiungono in totale 750 mila ettari nel periodo della rilevazione 1995-2006, e cioè oltre 68.200 mila ettari/anno.

Ciò vuol dire che, se si tolgono le aree già urbanizzate, in undici anni è stata coperta dal cemento e dall’asfalto una regione grande quanto l’Umbria e che ogni anno sparisce per lo stesso motivo l’intero comune di Ravenna[14]. Un dato che può certo far piacere agli idolatri dell’urbanistica contrattata-perequativo-compensativa. Un dato spaventoso per coloro che hanno a cuore la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali italiane.

Per la verità, passata -anche se non del tutto- l’ubriacatura neoliberista gli urbanisti che si immolano sempre e comunque all’urbanistica promozionale e ai mercatini dell’urbanpromo sono in rapido declino e senza grandi argomenti. Aumenta invece il numero delle persone che denunciano questo intollerabile stato di cose. Non soltanto i soggetti che elencavamo in premessa, ma anche grandi intellettuali come Barbara Spinelli che di recente ha scritto “Inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni: la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d'omissione che mescola vizi antichi e nuovi. È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe[15].

Non ci sono parole migliori per tentare di fermare per sempre il “grande sacco dell’Italia” e il consumo di suolo.

[1] Al 10 novembre gli iscritti all’associazione sono 13.092, di cui almeno 200 comitati e associazioni di cittadini. Il sito è www.stopalconsumoditerritorio.it

[2] I dati sono riportati nella ricerca effettuata dal WWF e dall’Università di L’Aquila. Vedi “2009, l’anno del cemento”. Dossier sul consumo di suolo in Italia, a cura del WWF Italia, 2009.

[3] E’ stato utilizzato il sistema Corinne Land Cover che non apprezza le urbanizzazioni sotto una soglia dimensionale elevata.

[4] La produzione edilizia del decennio 1991 – 2001 si attesta su una media di 200 mila alloggi /anno. Raggiunge i 300 mila alloggi negli anni 2004-2005.

[5] In numero dei permessi di soggiorno al 1 gennaio 2008 sono 2.063.127. Nel 2002 erano 1.448.392.

[6] Si veda in particolare No Sprawl, a cura di Maria Cristina Gibelli e Edoardo Salzano. Alinea editrice, 2006.

[7] Si è assunto un valore medio tra due piani (6,00 ml) e tre piani (9,00 ml), e cioè 7,0 metri.

[8] Il Decreto ministeriale 1444/68 definisce le zone B di completamento urbanistico “le parti del territorio parzialmente edificate in cui la superficie coperta dagli edifici esistenti non sia inferiore al 12, 5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona”.

[9] Legambiente, Osservatorio ambiente e legalità, Ecomafia 2009. Pagg. 175 e sgg.

[10] E’ il titolo d’apertura del quotidiano della Confindustria evidenziato su quattro delle cinque colonne dell’inserto dedicato a Roma e al Lazio il 28 ottobre 2009.

[11] Paola Bonora, E’ il mercato bellezza, in Eddyburg dal 29.03.09. In corso di pubblicazione. Dall’inizio del 2009 da parte dell’Ance sono ormai numerosissime le uscite mediatiche tese a “convincere” l’opinione pubblica che realizzare

case a rapido degrado sia l’unico modo per risolvere il problema abitativo delle famiglie a basso reddito. Come prassi consolidata, interessi egoistici se non bassamente speculativi vengono spacciati per interessi generali, complice un compiacente mondo dell’informazione.

[12] Come noto, le città italiane con popolazione superiore ai 500 mila abitanti sono sei. Nell’ordine Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e Genova.

[13] Il fenomeno del aumento delle densità urbane è anche causato dalle caratteristiche dell’urbanistica contrattata che ha di fatto consegnato le città alla proprietà fondiaria. Un approfondito studio del fenomeno è contenuto in un recente volume di Sergio Brenna, La strana disfatta dell’urbanistica pubblica, Maggioli editore, 2009.

[14] La superficie territoriale dell’Umbria è pari a 8.546 chilometri quadrati. Quella del comune di Ravenna 652,89 chilometri quadrati.

[15] Barbara Spinelli, Il grande sacco dell’Italia, La Stampa, 4 ottobre 2009, consultabile su eddyburg: http://www.eddyburg.it/article/articleview/13937/1/352

Chiunque può riprendere questo articolo o sue parti alla condizione di citare l'autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

A venire allo scoperto per primo è stato ieri Maurizio Lupi, il vicepresidente della Camera da sempre "mente" del Pdl nei settori della casa e delle infrastrutture. «C'è bisogno di un provvedimento nazionale urgente per la semplificazione delle procedure del piano casa perché questa è un'emergenza nazionale ed è evidente che non bastano le leggi regionali a mettere in moto gli interventi. O con un'iniziativa del governo o con un'iniziativa del Parlamento su corsia preferenziale occorre riprendere i contenuti del testo accantonato». Lupi interveniva all'Ance alla presentazione dell'Osservatorio congiunturale. Totalmente d'accordo con il rilancio del decreto semplificazioni il presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti, che ha ribadito per le opere pubbliche finanziate dal Cipe e per il piano casa l'urgenza di passare dalla fase della carta a quella operativa. «Se il problema è accelerare interventi che altrimenti sarebbero spalmati in 24 mesi - dice Buzzetti - il governo potrebbe prevedere un incentivo fiscale per i primi sei mesi».

Questi interventi potrebbero essere registrati come materia da convegno se non ci fosse contemporaneamente una forte spinta ad accelerare l'attuazione del piano casa che arriva direttamente da Silvio Berlusconi. A più riprese, nelle settimane scorse, il presidente del Consiglio ha chiesto a ministri e uffici un'analisi per capire cosa non sta funzionando nel piano casa. Perché, in altre parole, gli interventi previsti dalle leggi regionali impiegano tanto tempo a tradursi in cantieri. Un'eco di questa preoccupazione si è vista nelle parole del premier nel consiglio dei ministri di venerdì scorso, quando ha detto di voler richiamare le tre regioni inadempienti (Campania, Calabria e Molise). L'unica azione di governo messa in cantiere per ora è infatti proprio la lettera di diffida a queste regioni, per poi arrivare al commissariamento.

Ma i ritardi del piano casa non possono essere addebitati solo alle inadempienze delle tre regioni che non hanno ancora varato la legge. Questo Berlusconi lo ha capito. Il punto è che il piano casa non funziona come stimolo anticongiunturale neanche nelle regioni che sono partite per prime: in Toscana sono qualche decina le domande presentate nonostante la legge sia di aprile. Sia chiaro: non c'è nessuna intenzione da parte di Palazzo Chigi di riaprire il contenzioso con i governatori su questo punto, come fu a marzo. Nessuno contesta oggi gli strumenti messi in campo dalle leggi regionali ed è difficile che il governo assuma iniziative presso la Consulta per contestarle (fa eccezione il fascicolo del fabbricato insetrito nella legge del Lazio). Berlusconi vuole però lanciare un segnale forte al pubblico che il piano casa c'è ed è, di fatto, operativo. In questa direzione vanno i due segnali lanciati ieri all'Ance: un incentivo fiscale ad hoc e il decreto legge di snellimento delle procedure.

A bloccare il decreto era stato l'intervento del presidente della Repubblica sulle norme per le aree vincolate, bocciate dal consiglio superiore dei beni culturali, e la richiesta delle regioni di incentivi per l'adeguamento alle norme antisismiche. Sui beni culturali c'era già stata la marcia indietro e si era trovato un punto di equilibrio. Quanto agli incentivi per l'adeguamento antisismico, Buzzetti invita le regioni a desistere per affrontare la questione in altro provvedimento.

Si andrà presto da Roma a Milano in 3 ore con l’Alta velocità. Evviva. Questa linea è la spina dorsale del paese, rende più vicino il nord al sud, e sarà ragionevolmente ben utilizzata. Però non ci saranno miracoli: per le merci non servirà a nulla, nonostante che il termine Alta Capacità, fatto aggiungere per far piacere ai verdi, alludesse a un traffico merci che non ci sarà. I trasporti-merci ferroviari in Italia di tutto hanno bisogno, esclusa nuova capacità (e velocità). Manca la domanda e l’offerta è di bassa qualità, ma non per scarsità di infrastrutture. Le merci che viaggiano in ferrovia non hanno particolare fretta, come dimostra la scelta francese (i pionieri dell’Av) di non consentirne affatto il passaggio, per risparmiare sui costi di costruzione delle nuove linee. Noi siamo riusciti a far aumentare i costi dell’Av anche per questa via.

Ma anche per i passeggeri non c’è da aspettarsi grandi numeri. L’aereo avrà una concorrenza vincente sulla Milano-Napoli, ma tutto il traffico aereo su questa tratta riempirebbe circa 6 treni al giorno, su una capacità aggiuntiva della nuova linea di 300 treni al giorno (e costi di costruzione proporzionali, tutti pagati dai contribuenti). Anche in Spagna e su diverse linee francesi i risultati sono stati quantitativamente modesti. E gli italiani che hanno molta fretta non avrebbero potuto continuare a pagarsi loro l’aereo? È un dubbio superato, ma una traccia rimane, dati anche i costi esorbitanti dell’opera rispetto al resto d’Europa. Infine, l’affermazione che l’Av gioverebbe ai pendolari liberando capacità sulle linee ordinarie, stravagante in sé, è poi risultata clamorosamente smentita dai fatti. Il vero problema è che si vogliono costruire dappertutto nuove linee che saranno ancor meno utilizzate di questa, ma avranno costi non inferiori. E due in particolare sono state citate come essenziali contemporaneamente dal ministro Matteoli, e un po’ incautamente, nell’ottima trasmissione della Gabanelli, “Report”.

Le due linee sono parallele, e vicine tra loro: sono il “terzo valico”, Av tra Milano e Genova, in gran parte in galleria, e il raddoppio, con galleria nuova, delle linea Pontremolese tra Parma e La Spezia. Ma il traffico merci ferroviario trova giustificazione funzionale solo sulle lunghe distanze (altrimenti le “rotture di carico” rendono il camion invincibile anche tenendo conto dell’ambiente). Quindi sulle distanze lunghe quelle due linee servono la stessa domanda. La linea Pontremolese è poi pesantemente sottoutilizzata, e non certo perché non è veloce, come si è detto. Stesso quadro per le due linee già esistenti da Genova alla pianura padana: sono ancor più sottoutilizzate, al punto che lo stesso ad di Fs ha dichiarato più volte pubblicamente che l’Av su quella direttrice non serve (la forma ufficiale in questi casi è “non prioritaria…”), tanto da dover essere richiamato all’ordine, con lettera pubblica al Sole 24 Ore, dal ministro Lunardi.

In “Report” inoltre si è affermato, certo con le migliori intenzioni data la qualità complessiva della trasmissione, che in Italia si è fatta una politica in favore del trasporto stradale, e ciò nel paese che da 40 anni presenta i maggiori sussidi ai trasporti pubblici, ferrovie incluse, e la maggior tassazione su quelli su gomma. Ma se si vuole conoscere di più sulla “galassia ferroviaria”, il libro appena uscito di Claudio Gatti (“Fuori orario”, edizioni Chiarelettere) è una fonte ricca e illuminante. Sei miliardi di euro pubblici all’anno, erogati da decenni, ovviamente generano interessi molto intrecciati, protezioni politiche, e appetiti, legittimi o meno, diffusi e radicati.

Che fare? La ricetta è semplice da dire, ma incontra formidabili resistenze: privatizzare i servizi (non la rete!), ma solo a patto di avere per i servizi una reale concorrenza, sussidiare quelli sociali mettendoli in gara, e creare come per l’energia e le telecomunicazioni, una autorità indipendente per tutelare utenti e contribuenti. Certo l’intreccio di interessi illustrati da Gatti reagirebbe furiosamente. L’alternativa però è continuare a pagare in silenzio.

L’autore è docente di Economia dei Trasporti al Politecnico di Milano

Non speculiamo sui morti! È quello che spesso sentiamo dire in occasione di eventi luttuosi come quello successo a Ischia. Come è capitato alcune settimane or sono in Sicilia, come è successo qualche anno fa in Costiera amalfitana e poi a Sarno, Cervinara, la frana sulla A3 in Calabria, nello scorso mese di gennaio, e prima ancora sempre a Ischia. Si potrebbe continuare scrivendo molte righe di eventi luttuosi, ormai dimenticati, connessi all’abusivismo edilizio e al dissesto del territorio.

Non speculiamo sui morti. Ma se di questi morti non si parla quando sono ancora lì, a ricordarci la nostra incapacità a governare i processi antropici e naturali che trasformano il territorio, non ne parleremo mai più. Subentreranno l’approssimazione e il fatalismo con il quale affrontiamo le tematiche di governo del territorio, contrapponendo alla devastazione dell’abusivismo ragioni economiche e sociali; come se queste non possano essere coniugate con il corretto uso del territorio. L’abusivismo edilizio è uno dei temi dove si cerca di far scontrare le libertà sociali e quelle economiche con la tutela del territorio. Il diritto alla casa e ai comfort abitativi, che il tempo che viviamo ci consentono, così come la libertà di intraprendere sono un diritto inalienabile ma non si possono affermare attraverso processi illegali. Questo è giusto che lo comprendano coloro che hanno il culto dell’abusivismo edilizio; quelli che pensano che la tutela dell’ambiente si misuri con la quantità di norme che debbono gravano sul territorio; quei magistrati, che persi nel mare delle leggi, subordinano il principio generale del diritto alla casa o alle altre libertà costituzionali alla sanzione della infrazione specifica e quindi, come è capitato proprio a Ischia, accolgono richieste di non abbattimento di opere abusive alimentando speranze che si infrangeranno contro i provvedimenti definitivi, che non potranno che sanzionare l’abuso.

Che lo comprendano i preti che organizzano marce di preghiera e veglie notturne per giustificare comportamenti illegali per i quali alcune volte si perde la vita. Perché, quando avremo dimenticato i morti, non ci ricorderemo più che di abusivismo edilizio e di mancata tutela del territorio si muore. Perché i fabbricati realizzati abusivamente non possono essere considerati sicuri dal punto di vista statico, in quanto non sono stati sottoposti alle procedure che la legge prevede per garantire la sicurezza statica e quella antisismica. Mentre, da una parte, il legislatore emana norme sempre più severe, in materia di resistenza delle strutture portanti, dall’altra si continua a ignorarle, consentendo a chi costruisce abusivamente di abitare manufatti pericolosi. Perché, o i manufatti abusivi sono pericolosi, oppure le norme in materia di statica degli edifici non servono a nulla. Delle due l’una.

Siccome le norme riguardanti la sicurezza degli edifici sono fondate e servono a salvare la vita delle persone, speculiamo sui morti, non consentendo più a nessuno di vivere in condizioni di pericolo e affrontiamo subito e risolviamo il fenomeno dell’abusivismo edilizio, come succede in alcuni Stati europei dove non solo non esiste il fenomeno ma non esiste neanche il termine linguistico.

L’abusivismo diffuso non è solo uno sfregio ambientale. È uno sfregio alla legalità. Ai cittadini onesti, che pur avendo l’esigenza della casa, in ossequio alle leggi, sono stati privati del loro diritto, consentendo ai "più furbi" l’abusivismo edilizio, usato come ammortizzatore di una necessità primaria. Il fabbisogno abitativo deve essere affrontato attraverso adeguati strumenti urbanistici, dei quali sono privi i Comuni di Ischia. L’abusivismo edilizio falsa l’economia, in quanto consente solo agli spregiudicati di accrescere le proprie strutture produttive. Seleziona una classe di imprenditori che guardano all’illegalità come modalità per accrescere il loro patrimonio. Crea il bisogno di avere una copertura amministrativa e politica perciò falsa la democrazia.

L’abusivismo edilizio, abbattiamolo!

La Repubblica

Terrore a Ischia, ancora una frana killer quindicenne travolta e uccisa dal fango

di Roberto Fuccillo

ISCHIA - L’isola si sbriciola. Sono quasi le otto e mezzo di ieri mattina quando il monte sopra Casamicciola frana a valle e riversa un fiume di fango, terra, detriti di ogni genere. La fiumana, inarrestabile, si incanala lungo uno degli assi viari del paese: piazza Bagni, uno slargo in discesa, fa quasi da collettore dei flussi provenienti da più smottamenti e poi scarica il tutto lungo una strada dal nome predestinato, via Lava. Da qui, portandosi dietro massi, tronchi divelti, decine e decine di auto accartocciate, la colata di fango piomba sul porticciolo, sfonda il parapetto che separa la strada dalla spiaggia sottostante, termina la sua corsa lungo il molo e a mare. Lungo il tragitto ha travolto anche i passanti. Alcuni si sono scansati per tempo, una quindicina verranno estratti più tardi dei vigili del fuoco. Una studentessa invece non ce l’ha fatta. Anna De Felice, 15 anni, stava andando all’alberghiero con i genitori. La macchina è stata inghiottita dalla frana, la famiglia si è ritrovata a mare, ma Anna è annegata in auto. A lungo si è temuto anche per un piccolo di 5 anni, poi trovato. A fine giornata il bilancio sarà più lieve del temuto: venti feriti medicati all’ospedale Rizzoli, di cui 11 ricoverati. Mentre il direttore sanitario Valentina Grosso nega che ci sia stato qualche ricovero a Napoli.

Alla base del disastro certamente le forti piogge. Dalla mezzanotte alle 15 di ieri si sono avuti oltre 69 millimetri di pioggia. Quanto basta per provocare già in nottata quattro o cinque smottamenti lungo il monte Vezzi. Poi, in mattinata, l’evento più traumatico. Almeno tre i punti di cedimento, da una altitudine di circa 200 metri. La terra si è incanalata più a valle in due valloni che sono confluiti poi in un punto preciso in paese per precipitare poi fino al mare. «E certamente un ruolo l’ha giocato la forte pendenza delle pareti, che ha accelerato il tutto», spiega Sergio Basti, direttore centrale per l’emergenza dei vigili del fuoco che sono intervenuti in forze: 30 mezzi, 2 elicotteri, 100 uomini, fra cui i nuclei Saf (specialisti in tecniche speleo-alpino-fluviali), cani e sommozzatori che hanno cercato di eventuali dispersi e carcasse di auto.

Alle vittime è giunto il dolore e il cordoglio di Giorgio Napolitano e dei presidenti delle Camere. Ma sul disastro fioriscono anche le polemiche. «La zona era già stata perimetrata e ritenuta ad alto rischio frane - dice Francesco Russo, presidente dell’Ordine dei geologi campano - eppure non sono stati effettuati i necessari lavori». E Russo punta il dito contro «l’insufficiente portata» di una canale nella zona. Difficile la giornata di Guido Bertolaso, che pure ha mandati sull’isola i suoi uomini. Prima si sfoga: «Mi fa grande rabbia. Finché non si fa manutenzione e messa in sicurezza continueremo a dover subire questo genere di situazioni». Poi si trova sotto l’attacco del sindaco di Ischia, Giuseppe Ferrandino: «Per la frana del 2006 sul Monte Vezzi (quattro morti non lontano dal luogo del disastro di ieri, ndr) l’unico competente era lui e non mosse un dito». Replica della Protezione civile: «É bene ricordare che per quella frana fu nominato commissario con pieni poteri il presidente della Regione Campania Bassolino». Il quale Bassolino, a sua volta, ha stanziato un milione e chiesto lo stato di calamità per la zona e un piano nazionale di interventi.

Sull’evento indaga la Procura. Fascicolo in mano a due pm, Ettore Della Ragione e Antonio D’Alessio. Dice Aldo De Chiara, coordinatore del pool per i reati ambientali, «in caso di condotte omissive, si potrebbero ipotizzare reati che vanno dall’omicidio al disastro colposo». A Ischia intanto ieri sera è ripreso a piovere: l’unità di crisi controlla i punti a rischio, la stato di allerta dovrebbe cessare fra stasera e domattina.

Lo shock dei sopravvissuti "Temevamo di venire sepolti vivi"

La colata si è portata via mio figlio, pensavo non ce l’avesse fatta. Invece l’hanno ritrovato un chilometro più a valle Mi sono salvato aggrappandomi al palo di un cartello stradale Pensavo che fosse finita invece sono qui

Perdere una figlia di quindici anni mentre la si accompagna a scuola. È il tragico destino di Aurora De Felice, la mamma dell’unica vittima della frana. Ha rischiato la vita anche lei, ora è ricoverata all’ospedale Rizzoli, sull’isola, e ovviamente non può darsi pace: «Anna, Anna - ripete ossessivamente - piccola mia, dove sei? Non posso pensare che non ci sei più, piccola mia. Amore mio dove sei? Cosa faccio io ora senza di te?» Accanto a lei scuote la testa il marito, Claudio, affranto dal dolore. Gli amici vicino provano a rincuorarli e raccontano: «Anna era allegra, solare». Una testimonianza che in serata si trasferirà su Facebook, dove gli amici della ragazza hanno circondato di messaggi di incredulità la foto che la ritrae abbracciata al suo fidanzato. E dove il fratello Simone, 17 anni, saluta così la sorella: «Litigavamo sempre... ma poi ci ridevamo sempre su. Vivrò perché tu non hai potuto farlo, vivrò per ricordarti, per portare sempre la tua immagine indelebile nel mio cuore. Mi dispiace averti vissuto così poco, ma Dio così ha voluto. Aveva bisogno di un altro angelo che regnasse in Paradiso. Un bacio».

Al dolore dei De Felice si aggiunge, in altre corsie dell’ospedale, il racconto drammatico di chi invece ce l’ha fatta. C’è il papà del piccolo Arnaldo Maio, 5 anni. Per qualche ora si è temuto che il bambino potesse essere la seconda vittima, il papà racconta: «Ci siamo ritrovati in una morsa di fango, ho perso mio figlio, ero sicuro di non rivederlo più. Poi mi hanno detto che lo avevano trovato giù al porto, un miracolo». E ancora Giuseppe Amalfitano, un altro degli scampati: «Tentavo inutilmente di aggrapparmi a qualcosa. Ero sicuro di morire, poi mi sono fermato a un tubo, ho visto che era un segnale stradale».

Fra quelli che hanno rischiato c’è lo stesso sindaco Vincenzo D’Ambrosio: «Sono passato pochi minuti dopo le 8 da lì, dopo aver accompagnato mio figlio a scuola, e non c’era nessun segnale di quanto sarebbe accaduto». C’è invece chi è stato avvisato in mare. «Mi ha chiamato mia madre per dirmi che a casa stavano nel fango». Così racconta Salvatore Lombardi, operatore sui traghetti. Mi sono precipitato sul luogo, in località Perrone, ci sono tre palazzine di sfollati, una quarantina di persone fuori delle loro case». Sono gli abitanti delle case Gescal. Il vialetto del loro parco, ridotto a una piscina di fango, finisce proprio a ridosso di una delle pareti di montagna venute giù: «Aspettiamo che prima o poi venga qualche pompa anche quassù». Giù al porto c’è invece un’altra sopravvissuta. É la zia delle tre ragazze morte col padre sotto un’altra frana, a qualche chilometro da qui, tre anni fa. Va in giro con le fototessera dei suoi carri, e lamenta: «Ora piove e ci dicono di andare in un palazzetto dello sport, la verità è che aspettano sempre i morti».

la Repubblica

Decenni di abusi e ventimila condoni l’assalto all’isola dai piedi d’argilla

di Stella Cervasio

CASAMICCIOLA - L’orrore è venuto dal bosco. Con quel nome turistico che le hanno dato, "isola verde", Ischia ne possiede un’alta concentrazione proprio alle spalle di uno dei suoi posti più panoramici, l’unica piazza termale d’Italia. Sotto il manto d’asfalto di piazza Bagni corrono le acque bollenti e curative del Gurgitiello (che vuol dire gorgoglio) che servirono a Garibaldi per curare le ferite riportate in battaglia sull’Aspromonte.

Da quel fondale verde cupo di castagni e pini, alle otto di ieri mattina è venuta giù a pezzi la montagna. Tonnellate di acqua con un carico di massi di tufo, alberi, panchine e masserizie raccolte sul percorso hanno invaso velocissime due stradine, via Ombrasco e via Nizzola, dove stanno appollaiati alberghi e pensioni. Da queste parti le chiamano "cupe": sono le vie naturali dell’acqua quanto piove, e proprio come una pista da sci, guai se non sono sempre libere. Un’enorme lava di fango è scesa di qua a cento all’ora, proprio come accadde tre anni fa dall’altra parte dell’isola, nel comune di Ischia. Su un’altra altura, il monte Vezzi, morirono quattro persone, e gli sfollati sono ancora nei container. Erano case abusive, quella volta: a Ischia sono previsti 500 abbattimenti e ventimila pratiche di condono sono sospese nei cassetti dei sei comuni dell’isola. Poco dopo quell’altra frana, il vescovo di Ischia lanciò un anatema contro chi voleva picconare l’edilizia illegale.

L’orrore non è nuovo su questa piazza. Poche ore dopo la tragedia, su Facebook, insieme a un’immagine dei detriti depositati sulla riva del mare sotto l’arcobaleno, girava una foto del 1910, con i palazzi di piazza Bagni mezzo sommersi dal fango di un’altra alluvione. Ogni calamità sembra accanirsi sulle pendici del monte Epomeo: terremoti come quello del 1881 (oltre cento i morti), e del 1883, in cui Benedetto Croce fu ferito e perse il padre, la madre e una sorella. «Chi ha la montagna sopra la testa, lo sa», dice l’ex sindaco Luigi Mennella, che sulla bella piazza ha un antico negozio di ceramiche. Ha dovuto lasciare la sua macchina e scappare, prima che il fiume lo travolgesse. «Il problema endemico resta l’abusivismo: diversi valloni, canali che facevano defluire l’acqua, sono stati ostruiti negli anni da abitazioni costruite senza permesso».

Non condivide l’attuale sindaco, il pediatra Vincenzo D’Ambrosio: stava portando i figli a scuola quando è arrivata la colata di fango e pietre. «È un fenomeno naturale eccezionale, si ripete il terribile evento che ha colpito la stessa zona nel 1910. In quella occasione ci furono decine di vittime. Le case non sono state per niente interessate da questo dilavamento. La frana ha avuto origine molto in alto, dove non c’era stato né disboscamento né abusivismo. Solo gole naturali dove l’acqua è esondata. È capitato a noi, purtroppo abbiamo perso una concittadina, domani sarà lutto. Spero che si possa finanziare uno studio per ridurre il rischio che da noi è sempre così alto».

Legambiente, però, se non l’aveva previsto, ci era andata vicino. «Appena dieci giorni fa nel corso della presentazione del rapporto "Ecosistema Rischio Campania" - spiega il responsabile scientifico di Legambiente Campania Giancarlo Chiavazzo - abbiamo fatto appello al buon senso e alla coscienza dei sindaci affinché colmassero i ritardi nella messa a regime dei sistemi di protezione civile locale. Una tragedia annunciata, quindi, e così purtroppo ce ne potranno essere ancora, fino a quando i sindaci dei 474 comuni a rischio idrogeologico della regione (una superficie di 2250 chilometri quadrati) non si attiveranno con piani d’emergenza». Gli ambientalisti invocano strutture locali di protezione civile collegate con quella regionale. Un sistema di allarme capillare capace di far scattare l’emergenza nei comuni indicati nei Piani di assetto idrogeologico redatti dalle Autorità di Bacino. Tradotto, significa che quando piove molto, si va via. Ma il futuro qual è, per posti come questi? «Delocalizzazione dev’essere la parola d’ordine, come per Sarno - dice Chiavazzo - metterli in sicurezza non è possibile»

la Repubblica

Il dissesto del Sud

di Giovanni Valentini

Un’altra storia di ordinario degrado ambientale, di incuria, di abbandono del territorio. E naturalmente, di abusivismo edilizio, di illegalità. Come a Messina, poco più di un mese fa.

Come nella stessa Ischia ad aprile del 2006; come già in tante altre regioni della Penisola, ma in particolare al Sud, nel nostro povero Sud. Sotto la pioggia battente di questi giorni, anche le dichiarazioni e i buoni propositi espressi all’indomani dell’ultimo disastro sono franati nel mare davanti a Casamicciola, provocando morte e rovina. La frana di Ischia è un nuovo segnale e un nuovo avvertimento contro il mancato o cattivo governo del territorio. Contro la mala-politica, a livello nazionale e locale. Contro un’amministrazione pubblica che privilegia gli interessi privati, spesso e volentieri illeciti, rispetto a quelli della collettività, in base a una gerarchia di priorità che segue i criteri di un malinteso sviluppo, del clientelismo o addirittura della corruzione.

Al tempo delle scorribande e delle invasioni, dei corsari e dei pirati, il pericolo per le popolazioni costiere arrivava dal mare. Oggi, al contrario, viene dall’interno, da un dissesto del territorio che improvvisamente trascina in acqua esseri umani, abitazioni, masserizie, automobili. La normalità della vita quotidiana è stravolta così dalla furia degli elementi, con la complicità attiva dell’ignoranza e dell’irresponsabilità. Continuiamo a subire alluvioni e frane, mentre continuiamo a vagheggiare il Ponte sullo Stretto in una sorta di dissociazione onirica e megalomane. Eppure, dopo il disastro di inizio ottobre, era stato il presidente della Repubblica a censurare pubblicamente la retorica delle «opere faraoniche» d’infausta memoria.

La verità nuda e cruda delle cifre è che in diciotto mesi - come denuncia il neo-presidente dei Verdi, Angelo Bonelli - sono stati tagliati oltre cinquecento milioni di euro destinati alla difesa del suolo. Ridotti i fondi iniziali a 270 milioni, il centrodestra ha soppresso poi quelli per il monitoraggio sismico (4,5 milioni); i finanziamenti di 151 milioni per il territorio della Sicilia e della Calabria; i 45 milioni per il ripristino del paesaggio; i 15 milioni per i piccoli Comuni. Un «risparmio» sulla prevenzione che si traduce in un danno immediato per la popolazione, per il territorio e per l’ambiente, ma anche per il turismo.

Altro che fatalità o calamità naturale. Questo è il risultato di una politica ottusa e miope. Ma è soprattutto la demolizione di un’immagine e di un’attrattiva su cui poggia la maggiore industria nazionale, regredita non a caso dal primo al quarto posto nella graduatoria mondiale. «Chist’è ò paese d’o sole, chist’è ò paese d’o mare», assicura la celebre canzone napoletana. Nella realtà, questo rischia di diventare invece il Paese dei terremoti, delle frane e delle alluvioni. Un Malpaese infido e insicuro, sempre più distante dalla sua storia civile, dalla sua tradizione artistica e culturale.

Nonostante la prova di efficienza organizzativa in Abruzzo, di cui pure bisogna dare atto al governo, le foto delle tendopoli tuttora in piedi all’Aquila, i recenti filmati di Messina e di Ischia, sono destinati purtroppo a fare il giro del mondo. E come i rifiuti nelle strade di Napoli all’epoca del centrosinistra, non alimentano certamente una campagna promozionale. In mancanza di materie prime da sfruttare, sono proprio il territorio, l’ambiente, il paesaggio, le nostre principali risorse da difendere e valorizzare.

il manifesto

Ischia: frana il condono

di Adriana Pollice

Chi avesse alzato gli occhi ieri mattina a Ischia, intorno alle otto, avrebbe visto una valanga di acqua, fango ed enormi massi travolgere il comune di Casamicciola fino a investire, come un enorme proiettile, il suo porto. Una frana in località Tresca, staccatasi in tre punti, venire giù dal Monte Epomeo trascinando via automobili, alberi e persone. Sono bastate le prime piogge autunnali e, dopo il cedimento del Monte Vezzi nel 2006, l'isola verde deve rifare la conta dei danni, rimettendo il lutto al braccio. Questa volta a morire è stata una ragazza di appena quindici anni, Anna De Felice, trascinata in mare nella vettura dei genitori in cui viaggiava, sabbia e acqua nei polmoni fino all'annegamento. Una ventina i feriti, assistiti nell'ospedale locale, il Rizzoli, i più gravi sono stati portati a Napoli in elicottero. Sommozzatori e vigili del fuoco, ricoperti di melma, a pattugliare costa e strade, quelli finiti in acqua messi in salvo su barconi attrezzati. Un ragazzino di sei anni, di cui si erano perse le tracce, ritrovato nell'auto dei genitori, una ragazzina di undici estratta dal fango ferita in modo grave ma non in pericolo di vita. In quindici tirati fuori dalla frana che li aveva sommersi. Soccorsi difficili in una Casamicciola isolata per tutta la mattinata, cielo livido e pioggia battente fino alle 12, unico accesso via mare.

Case e negozi bloccati da muri di melma. «È un miracolo che la slavina non abbia distrutto le case - commenta l'architetto Simone Verde - La marea si è immessa nell'antico alveo scivolando fino a valle. Quel costone era già franato nel 1910, si sa che è a rischio dissesto, si sarebbe dovuto mettere in sicurezza da tempo».

Risalendo le stradine dal porto verso il Monte Epomeo, sembra di trovarsi sul luogo di un attentato, piazza Bagni il centro della deflagrazione: l'edicola divelta, alberi sradicati, infissi esplosi. Terra e pietre a ricoprire cose e case, i colori dell'intonaco spariti sotto il grigio-marrone della terra. Più su e più giù una scia di autovetture sventrate, trascinate via fino al porto, in bilico sui muri di contenimento, rivoltate sulla marina in mezzo alle barche. Alcune persone bloccate a Santa Maria al Monte per una piccola frana in località Corvaro, bloccati anche i turisti dell'Hotel Michelangelo nella zona alta di Casamicciola. «Appena due giorni fa l'alveo attraverso cui l'acqua è scesa fino a via Martini - commentava incredulo il sindaco, Vincenzo D'Ambrosio - era stato oggetto di manutenzione ordinaria da parte della Sma Campania».

«Fino a una decina di anni fa una conta dei danni di queste proporzioni non sarebbe stata possibile», spiega Giuseppe Mazzara, referente di Legambiente a Ischia, «Fino agli anni settanta i costoni ripidi della montagna erano orti e frutteti a terrazza. Con il boom turistico i contadini si sono riconvertiti nel settore dei servizi e le terre sono diventate boschi selvatici. Poi è arrivato il primo condono edilizio nel 1994 e la prima colata di cemento». Oggi il comune è assediato dalle costruzioni abusive, l'amministrazione non vede o finge di non vedere, quando la procura di Napoli manda le ruspe per gli abbattimenti, almeno seicento, i sindaci si sollevano indignati: «Addirittura - prosegue Giuseppe - hanno provato a modificare il piano urbanistico provinciale per far declassare le terre da rurali a edificabili. Il tentativo non è passato e allora si sono limitati a lasciare fare, si tratta non solo di terre sottoposte a vincolo ma anche a forte rischio idrogeologico». Tre anni fa, all'alba del 30 aprile, un'altra frana provocò la morte di quattro persone tra Barano e Forio, circa in 250 rimasero senza tetto, la maggior parte delle quali è tuttora nei container sistemati nel camping di Ischia Porto, dove probabilmente finiranno anche gli sfollati della nuova frana. «Mi fa grande rabbia - dichiarava ieri Guido Bertolaso - perché tutto il lavoro che è stato fatto fino a oggi non è stato sufficiente». Ma è ancora Giuseppe che spiega: «Nel 2006 fecero degli interventi nei dintorni di Monte Vezzi, su Forio o Casamicciola nulla».

I sindaci sostengono che le case abusive vanno sanate perché situazioni di necessità. «Non si può coprire la mancanza di una politica di edilizia pubblica con l'illegalità - ribatte Michele Buonomo, presidente regionale di Legambiente - soprattutto se non si fa prevenzione e manutenzione del territorio. L'86% dei comuni campani sono a rischio idrogeologico e l'81% delle amministrazioni hanno abitazioni in aree a rischio frana». La giunta regionale ieri ha deliberato lo stato di calamità naturale per il comune di Casamicciola con un primo finanziamento di un milione di euro. Angelo Bonelli dei Verdi punta il dito contro il dicastero dell'Ambiente: «Il ministro Prestigiacomo è riuscita a farsi tagliare ben 570 milioni di euro per la difesa del suolo. Dal 1 ottobre 2009 è stata addirittura eliminata la segreteria tecnica del ministero, che aveva il compito di istruire le pratiche per la valutazione dei progetti per il rischio idrogeologico e di assegnare i fondi conseguenti».

CAMPANIA DAI PIEDI D'ARGILLA, 86% DEI COMUNI A RISCHIO

«Il territorio campano è segnato drammaticamente dalla mancanza di una seria politica di prevenzione e manutenzione. Una regione dai piedi d'argilla con l'86% dei comuni classificati a rischio idrogeologico in tutte le cinque province, con Salerno in vetta con il 99% delle amministrazioni a rischio. L'81% delle amministrazioni hanno abitazioni nelle aree golenali, negli alvei dei fiumi e nelle aree a rischio frana, il 25% delle municipalità monitorate presenta addirittura interi quartieri in zone a rischio, mentre il 44% ha edificato in tali aree strutture e fabbricati industriali». A fornire i dati è Legambiente Campania, secondo la quale «il 23% dei casi presi in esame sono presenti in zone esposte a pericolo strutture sensibili come scuole e ospedali e strutture ricettive turistiche come alberghi e campeggi». «Per troppi anni nella nostra regione dissesto idrogeologico, incendi, scarsa manutenzione, cementificazione selvaggia spesso abusiva hanno rappresentato il modello di sviluppo del territorio», spiega il presidente regionale Michele Buonomo.

Il Corriere della Sera

Ischia, frana dalla discarica abusiva Il fango uccide una ragazza

di Lorenzo Salvia

ISCHIA (Napoli) — Frigoriferi, bombole del gas, mattoni, calcinacci e altri scarti di quell’industria locale che qui, creativi, chiamano edilizia spontanea e in tutto il mondo con il suo nome, abusivismo. La diga che ha trasformato questo smottamento in un fiume di fango era proprio lì dove non doveva essere, nel mezzo della Cava Fontana. È una valle che dovrebbe funzionare da canale di scolo e dal monte Epomeo scende giù fino a Casamicciola. Il fango che scivolava a valle è stato fermato da questa discarica abusiva. «Così si è accumulato — spiega Vincenzo Stabile, comandante provinciale del Corpo forestale, appena finito il sopralluogo in elicottero — e quando la pressione è diventata insostenibile ha portato tutto giù, moltiplicando la sua forza distruttiva».

No, non si può puntare il dito contro il cielo per questa frana che si è portata via una ragazza di 15 anni, Anna De Felice, e ha fatto 20 feriti. Anche questa volta la mano dell’uomo c’entra e parecchio. «Una tragedia annunciata, avevamo chiesto di mettere in sicurezza quella zona» dice il sindaco di Casamicciola, Vincenzo D’Ambrosio. Ma i soldi sono quelli che sono: per la messa in sicurezza di tutto il territorio italiano, dice Bertolaso, servono 5 miliardi e ci sono 300 milioni di euro. E non è l’unico guaio.

In quello stesso vallone il Corpo forestale aveva sequestrato un agriturismo e il cantiere di una palazzina. Nella zona di Tresca, da dove si è staccata la frana, non c’è solo la discarica che ha fatto da sbarramento, tutte le cave abbandonate sono state riempite di rifiuti, e in tutta l’isola Legambiente stima 50 siti abusivi. Gran parte della zona è venuta su negli ultimi dieci anni al di fuori di ogni autorizzazione. C’è questo, oltre alla pioggia, dietro la colata di fango che poco dopo le otto del mattino è precipitata nel centro di Casamicciola, trascinando fino al mare una decina di auto e anche un autobus vuoto. Quindici le persone tirate fuori vive dai vigili del fuoco. E adesso nell’isola guardano tutti verso quei monti con la faccia degli scampati.

Aldo De Chiara, responsabile della sezione reati ambientali della Procura di Napoli, è prudente ma anche arrabbiato: «È chiaro che alla base c’è una gestione poco oculata del territorio». Dal suo ufficio sono partiti più di 600 ordini di abbattimento ma ne sono stati eseguiti poco più di una decina. Gli altri sono fermi perché i soldi li devono mettere i sindaci. E qui mettersi contro gli abusivi vuol dire perdere matematicamente le elezioni. «Due terzi delle case fatte dopo gli anni Settanta — dice Peppe Mazzara di Legambiente — erano abusive al momento della costruzione». Molte sono state condonate, ma non tutte. Solo pochi mesi fa i sindaci dei sei comuni dell’isola hanno chiesto di agganciare Ischia all’ultimo condono utile, quello del 2003. Non è stato possibile perché ora è sottoposta ad un vincolo totale. La loro richiesta era stata appoggiata anche dal vescovo, monsignor Filippo Strofaldi. «E qui — dice Salvatore Perrone, comandante dei vigili del fuoco di Napoli — l’abusivismo non è solo un problema etico ma una questione di sicurezza». E spesso di vita o di morte

La madre salva per un soffio «Le avevo urlato di uscire»

«Forse potevo fare qualcosa per salvarla. Non me lo perdonerò mai». Ospedale Rizzoli di Lacco Ameno, reparto di Medicina, piano terra. Sdraiato sul lettino, la voce solo un sussurro, Claudio De Felice si copre gli occhi con le mani e continua a rivedere la scena che gli ha cambiato per sempre la vita. È il papà di Anna, 15 anni, l’unica vittima di questa che poteva essere una strage. «Le ho detto di rimanere in macchina, pensavo fosse più sicuro». Nella stanza affianco sua moglie, Aurora De Vargas, continua a ripetere lentamente il nome della figlia: «Anna, Anna, non posso pensare che non ci sei più, piccola mia. Amore mio dove sei? Cosa faccio io senza di te?». Erano tutti e tre in macchina, stavano andando all’istituto alberghiero. Il fiume di fango è arrivato mentre stavano per attraversare piazza Bagni, proprio quando le strade di Ischia erano piene di genitori che accompagnavano i bambini a scuola. L’idea di uscire dalla macchina venuta alla mamma, «andiamo via, andiamo via», il ripensamento, il panico. Nessuno dei due, adesso, riesce a darsi pace. Simone, il fratello 17enne di Anna, le dà l’addio con un messaggio su Facebook : «Ti ho amata, ti amo e ti amerò sempre sorellina... vivrò perché tu non hai potuto farlo, per ricordarti».

Giuseppe Amalfitano, professore di inglese in pensione, ha avuto subito la prontezza di aprire lo sportello della sua Punto: «Mi sono ricordato dei servizi al Tg su Sarno. I vigili del fuoco dicevano che bisogna uscire subito dalla macchina. Sono vivo grazie a Sarno». E ad un divieto di sosta. Si è messo a correre verso l’edicola, il signor Giuseppe. «Sono scivolato, l’acqua e il fango mi trascinavano a mare. Provavo ad aggrapparmi ai rami degli alberi ma niente. Mi sono detto, è fatta, sono morto». E invece è qui, le mani coperte di graffi e una gamba fasciata. «Ad un certo punto con la mano ho sentito il palo di un cartello stradale, l’ho acchiappato come se fosse la cosa più cara al mondo ». Il vigile del fuoco che lo ha tirato fuori lo ha trovato ancora lì, aggrappato a quel divieto di sosta. Arnaldo Maio era in macchina con il figlio Nicola. Per un paio d’ore il ragazzino è stato nella lista dei dispersi. «Siamo usciti tutti e due dall’auto ma non l’ho visto più. Mi sono messo a correre verso il mare, non me ne sfotteva niente di morire, lo volevo ritrovare ». Lo hanno dovuto fermare, sarebbe morto. Nicola lo hanno trovato coperto di fango, sotto choc ma in buone condizioni. È ricoverato al piano di sopra. «E mo, scusate, vado ad abbracciarlo».

Il Corriere della Sera

Le Cinque Terre e una diga tra i 500 mila luoghi a rischio

di Paolo Conti

ROMA — Il professor Nicola Casagli, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze, ha realizzato per conto del Dipartimento della Protezione Civile, col ricercatore del suo gruppo Riccardo Fanti, uno studio sul dissesto idrogeologico in Italia. Una mappatura dettagliata che non indica re­sponsabilità politiche ma fotografa un tipo di rischio, afferma Casagli, che «assume una valenza unica in ambito europeo e mediterraneo, subordinata solo al Giappone nel contesto dei Paesi tecnologicamente avanzati». Perché Ischia fa da sfondo a tante catastrofi, professore? «Gran parte delle linee superficiali di drenaggio delle acque sono diventate strade. Se piove poco, l’acqua defluisce. Se piove tanto, le strade riescono solo a trasportare fango. In più siamo (come gran parte della Campania) in una zona di depositi piroclastici, ovvero il prodotto delle eruzioni vulcaniche, che ten­de a creare frane».

Sul territorio nazionale (dati della Protezione Civile) sono registrate 500 mila frane. Oltre 10 mila sono considerate a rischio idrogeologico «estremamente alto per l’incolumità di beni e persone». Negli ultimi cinquant’anni in Italia le frane hanno ucciso 2.500 persone e provocato decine di migliaia di senzatetto. Mentre Puglia e Sardegna sono regioni quasi prive di frane, la Lombardia da sola ne totalizza 90 mila, ma in compenso è dotata della più accurata mappatura regionale. L’Emilia Romagna è invece la regione con la più alta densità di frane. L’Italia è, insomma, «strutturalmente» a rischio ma il problema è la pessima «antropizzazione», l’intervento umano: strade, sbancamenti del territorio, edilizia più o meno regolare. Ancora Casagli: «Si è costruito su aree a rischio. Se ci fosse stata una pianificazione urbanistica in armonia con i fattori geologici di instabilità, i danni quasi non ci sarebbero. Invece si edifica dove c’è pericolo non solo di frane ma anche di eruzioni o alluvioni. Qui lo scienziato non può dire nulla, la parola passa alla politica».

La diffusione delle frane sul territorio italiano è capillare e ciò rende difficile individuare le aree a maggior rischio, sulle quali concentrare le attività di prevenzione. Si può solo procedere per «landslide hotspots», zone a maggior concentrazione di fenomeni franosi.

La Penisola racconta mille storie. Le frane nelle Langhe in Piemonte, lungo piani di scivolamento formati da rocce sedimentarie di origine marina. Certi depositi di detriti, mischiati alle acque, possono produrre torrenti di fango capaci di raggiungere i 100 chilometri di velocità. Ecco la Lombardia, con 90 mila frane mappate: la più grande è la Ruinon che continua a muoversi con i suoi 35 milioni di metri cubi. In Trentino le frane nelle vicinanze di Merano, la Val Passiria. In Veneto, a rischio, ci sono la Val Fiscalina, le Dolomiti Bellunesi e l’area di Cortina. In Friuli sono 40 i milioni di metri cubi della frana del Passo della Morte. In Liguria le montagne sono erose dalle correnti di aria calda e umida e dalle precipitazioni intense e concentrate, il fenomeno di frane con fango e detriti è frequentissimo. Nelle Cinque Terre tutti i sentieri di campagna sono a rischio frane. La frazione di Castagnola è di fatto un piccolo paese che cede e si muove su una sola frana.

In Emilia Romagna la frana di Corniglio «pesa» 150 milioni di metri cubi. In Toscana è ancora a rischio l’area di Cardoso, in Versilia (tredici anni fa una «bomba d’acqua» rovesciò due milioni di metri cubi di detriti uccidendo 13 persone). In Umbria è storica la grande frana di Orvieto, così come nelle Marche la frana di Ancona. Nel Lazio l’area del Viterbese (Civita di Bagnoregio, per esempio). In Abruzzo la zona appenninica è caratterizzata da frane velocissime e pericolose per le forti pendenze. In Campania c’è il problema dei materiali provocati dalle eruzioni passate, nell’area vesuviana e a Ischia: l’edificazione è selvaggia. Sulla costiera amalfitana sono frequenti le colate di fango.

In Basilicata molti paesi sono costruiti sul dorso delle frane, per esempio Craco. In Calabria è impressionante il numero di centri edificati su frane argillose, per esempio Cavallerizzo di Cerzeto, altro paese che «si muove». In Sicilia è a rischio frana il quartiere di Sant’Anna a Caltanissetta, la stessa cattedrale di Agrigento sorge su terreno franoso. Fenomeni simili esistono a Enna.

Infine la quieta Sardegna: l’unico pericolo è la frana sulla diga del Flumendosa. Ma rispetto ad altre frane che gravano su altre dighe (quella toscana di Vagli, in Garfagnana) rappresenta quasi una preoccupazione di routine.

L’Unità

L’isola delle frane dove grazie agli abusi si aspetta il peggio

di Pietro Greco

La collina è venuta giù all’improvviso. Gli alberi, sradicati e aggrovigliati, hanno fatto barriera, trattenendo le pietre più grosse. Ma nulla hanno potuto contro l’acqua e il fango, che sono piombati d’improvviso in cortile e sono giunti a lambire la porta di casa. La casa dove chi scrive ha abitato, fino a non molto tempo fa. Quella che sto raccontando è una delle cinque frane rilevanti che hanno ferito l’isola d’Ischia ieri mattina. Non è quella grossa e assassina, che alle8 del mattino è venuta giù pochi metri più in là e si è abbattuta sulla marina, trascinando con sé decine di auto e molte persone. Cinque frane rilevanti ci dicono quanto sia piovuto in quelle ore a Ischia. Ma ci raccontano soprattutto quanto sia fragile e a rischio il territorio sull’«isola verde».

Ma, se la fragilità è naturale – l’isola ha un’origine giovane e una forte dinamica vulcanica e sismica – il rischio a essa associato non lo è affatto. Quello ha, soprattutto, origine antropica. Ed è venuta aumentando, negli ultimi decenni, da quando l’isola a economia contadina si è trasformata in uno dei centri a più alta intensità turistica e a più alta intensità di ricchezza d’Europa. In quei 46 chilometri quadrati, per lo più ancora verdi, si concentra, infatti, una recettività alberghiera pari a quello dell’intero Friuli Venezia Giulia e a un terzo di quella dell’intera Campania. Tutto costruito, in diverse ondate, nel corso degli ultimi cinquant’anni. Ma più che i vani alberghieri sono le civili abitazioni che hanno coperto il territorio. In soli trent’anni, dal 1951 al 1981 i vani sull’isola sono aumentati di 50.000 unità, passando da 18.000 a 68.000. E dal 1981 a oggi Legambiente calcola che siano aumentati ancora di 100.000 unità. I conti non sono precisi, perché sull’isola di è prodotto uno dei più devastanti fenomeni di abusivismo edilizio dell’intera Italia.

Lo prova il fatto che giacciono inevase ben 10.000 domande di condono e che un magistrato, Aldo De Chiara, ha chiesto (inutilmente, finora) l’abbattimento di ben 600 abitazioni del tutto abusive. Non sappiamo la cause precise delle frane di ieri. Ma sappiamo che l’abusivismo diffuso moltiplica il rischio associato alla fragilità idrogeologica del territorio. Ma, probabilmente, il fattore di rischio maggiore ha una natura passiva. È la semplice l’incuria. La mancanza di cultura della prevenzione. E così sull’isola d’Ischia viene falsificato ogni giorno un teorema caro agli economisti ecologici: il teorema che prevede l’aumento lineare della domanda di qualità ambientale con il reddito. A Ischia – come in tante altre perle del turismo del Mezzogiorno d’Italia – questo teorema semplicemente non vale. Il reddito, ci dicono anche le più recenti indagini dello Svimez, continua ad aumentare più che nel resto del Sud. Ma sia la domanda di qualità ambientale sia la domanda di qualità sociale ristagnano. Così l’isola contempla il suo opulento declino.

l’Unità

La maledizione di Casamicciola

di Bruno Gravagnuolo

«È succiess Casamicciol». Oppure: «È succiess Pumpei». Ovvero in ambo i casi e con facile traduzione: «È stato uno sconquasso, un terremoto». In Campania per descrivere eventi caotici oppur calamitosi, si ricorre a queste due locuzioni, piuttosto che dire «è stato un Quarantotto ».Con Pompei più gettonata per dire caos, anche sociale, e Casamicciola con riferimento più tellurico e materiale. Pompei è metafora atavica, a datare dall'eruzione del 79 dc. E Casamicciola metafora recente, visto che si rifà a due sciagure molto più vicine: i terremoti nell’Isola di Ischia del 1881 e del 1883. Alla fine però Casamicciola battè sia Pompei che il 1848.PerchéquelliaIschia, di cui Casamicciola è comune, furono eventi celebri,che come il terremoto di Messina,commossero tutta l’Italia post-unitaria. Nel 1881, il 4 marzo, ci fu una scossa di sette secondi, che fece 124 morti. Mentre il 28 luglio di due anni dopo, la scossa fu lunghissima. Ottavo grado della scala Mercalli, con 2033mortie1784feriti.Fudurantequellascossacheil filosofo Benedetto Croce vide sparire tra pavimento e soffitto, padre, madre e sorella. E la solidarietà dell’Italia di allora raccolse la cifra astronomicadiben6milionidi lire! E oggi?Casamicciola è ancora lì, a rinverdire il suo primato. Per colpa dell’incuria idrogeologica e del taglio di fondi alla protezione civile. Dopo le frane del 2006 e la rottura di cavi del 2005, che inondò mare e falde di policromobifenili inquinanti. Perciò ieri e oggi è sempre Casamicciola. È la Campania infelix bellezza!

I geologi: in Campania 210 comuni a rischio. La procura indaga

«Forse si poteva evitare. Come al solito noi le cose le diciamo in tempi non sospetti, ma poi tutto viene disatteso. Le finanziarie degli ultimi anni invece che incrementare i fondi alla difesa del suolo li hanno dimezzati o azzerati. Il problema è uno: zero fondi per la sicurezza. E poi andiamo a fare i funerali di Stato». Così Francesco Russo, presidente dell'Ordine dei Geologi della Campania, commenta la frana che a Ischia ha provocato un morto e decine di feriti. La cattiva gestione del territorio, in condizioni ambientali già delicate, finisce ancora una volta sotto accusa ad Ischia: sono al vaglio della Procura di Napoli le circostanze che hanno provocato la frana a Casamicciola, uccidendo una ragazza e provocando il ferimento di diverse persone. Il pm Della Ragione arrivato sull'isola (l'altro è Antonio D'Alessio), parla di «cause naturali con risvolti di natura antropica che sono al vaglio della Procura». Intanto il comandante provinciale del corpo forestale dello Stato spiega: «Sull'isola si sono verificati diversi smottamenti. I più gravi e vistosi, fra sette e otto,sono confluiti nella frana di Casamicciola».

Tav, 741 milioni da pagare.

Mario Lancisi

Qualcuno ha provato a scherzarci sopra: «Ragazzi, cominciamo a fare una colletta...». Eh, sì: un brutto affare per le tasche di 52 amministratori e tecnici, tra i quali il presidente della Regione Claudio Martini e l’ex presidente Vannino Chiti. La Corte dei conti li ha infatti invitati a difendersi, in relazione alla realizzazione dell’Alta velocità ferroviaria Firenze-Bologna, prospettando guasti ambientali nel Mugello tali da comportare un danno erariale di 741 milioni. Una cifra che se venisse suddivisa equamente per 52, il numero delle persone coinvolte nell’inchiesta della procura della Corte dei conti, fa 14 milioni e spiccioli. Oltre 28 miliardi di vecchie lire, a testa. Cifre da far tremare i polsi e perdere il sonno. Chiti e Martini si sono detti «stupiti e amareggiati», ma profondamente tranquilli». Ha detto Chiti: «La tranquillità deriva dal fatto che, con le competenze e per il ruolo che la Regione aveva, abbiamo svolto i nostri compiti con serietà e con attenzione all’ambiente e alla sicurezza sul lavoro».

I danni provocati. La procura della Corte dei conti incolpa la Regione (tutti i componenti delle giunte Chiti, dal 1990 al 2000), i dirigenti regionali responsabili dell’istruttoria, i presidenti e membri delle commissioni nazionali per la valutazione di impatto ambientale, nonché i consiglieri delle commissioni ambiente del consiglio regionale di quel decennio, di aver dato il via libera al progetto dell’Alta velocità che ha provocato danni ambientali nel Mugello. Danni che, stimati da una perizia trasmessa dalla procura alla Corte dei conti, si riferiscono a quelli subiti dagli enti pubblici per la perdita della risorsa idrica in Mugello: il disseccamento o l’impoverimento di 81 corsi d’acqua, 37 sorgenti, una trentina di pozzi e cinque acquedotti.

Gli assessori di Chiti.

I nomi degli amministratori coinvolti non sono stati resi noti. Nelle due giunte Chiti c’erano, tra gli altri, Marialina Marcucci, Paolo Benesperi, lo stesso Martini (chiamato in causa come ex assessore e non come presidente), Tito Barbini, anche se il provvedimento riguarda solo quelli presenti alla seduta di giunta in cui è stato dato il via libera al progetto dell’Alta velocità (e relative varianti).

L’invito a dedurre rappresenta una prima fase dell’inchiesta: i destinatari hanno 60 giorni di tempo per presentare atti e documenti e chiedere di essere sentiti. Dopodiché la Corte dei conti deciderà se e quali posizioni archiviare e se e quali posizioni citare a giudizio.

Il processo penale.

Il processo penale di primo grado, che ha riguardato una cinquantina di imputati, fra responsabili e dipendenti del consorzio di imprese Cavet (che aveva in appalto i lavori), di ditte in subappalto, gestori di cave e di discariche, intermediatori per i rifiuti, si è concluso il 3 marzo scorso con 27 condanne da tre mesi d’arresto a 5 anni di reclusione e provvisionali per il risarcimento danni di oltre 150 milioni di euro. Alla Regione, che con il ministero per l’Ambiente e la Provincia si costituì parte civile, venne riconosciuta una provvisionale del risarcimento danni di 50 milioni di euro.

Nessun avviso ai ministri.

E quest’ultima è una delle due incongruenze evidenziate sia da Chiti che da Martini. «Come è possibile essere da una parte riconosciuti come parte lesa e dall’altra come responsabili?», si sono chiesti. L’altra incongruenza è il fatto che il progetto dell’Alta velocità appartiene al governo, mentre nessun ministro è stato chiamato in causa. Senza considerare il fatto - ha sottolineato Martini - che la Regione - unica in Italia - ha istituito un Osservatorio sui problemi ambientali dell’opera.

A chiamare in causa il governo è Marco Carraresi, capogruppo Udc in Regione, che nell’indagine della Corte dei conti, trova «conferma di quanto sempre sostenuto», mentre il capogruppo del Pdl Alberto Magnolfi è stato laconico: «I contorni della vicenda appaiono importanti e complessi».

Il ventre dell’Appennino si è ribellato ai martelli pneumatici e alle mine

Elisabetta Arrighi

Il termine tecnico è “ammalorata”. Una parola che nel corso degli ultimi dieci anni è stata ripetuta tante volte, riferita alle gallerie dove si sono aperte crepe e dove l’acqua ha bagnato pavimenti e volte.

L’associazione fiorentina di volontari Idra, che ha passato ai raggi x la costruzione della Tav nel tratto appenninico, non si è mai stancata di denunciare. Affiancata anche da associazioni ambientaliste e politici, fra cui Marco Carraresi, consigliere regionale Udc, che raccontò di quando bambino andava a pescare in Mugello. «Ma oggi - diceva a fine 2006 - non si può più fare perché i fiumi sono secchi».

Opera mastodontica e strategica la Tav toscana, che fra un mese si collegherà ai grandi corridoi europei: alta velocità per i passeggeri e alta capacità per le merci. Ma il Mugello, che dalla metà degli anni ’90 ha subito l’esplosione delle mine e il rumore dei “martelloni” con cui si perforava il ventre dell’Appennino, ha contato tanti danni: dall’intercettazione delle falde acquifere per arrivare all’essiccamento dei torrenti. Un danno anche economico se si pensa a due settori importanti come l’agricoltura e la zootecnia.

A cavallo fra il 2006 e il 2007 il problema del danno ambientale emerse in tutta la sua drammaticità. Il Carzola, uno di quei tipici fiumiciattoli che gorgogliano a mezza montagna, non aveva più un goccio d’acqua: l’alveo era diventato un acciottolato bianco che lo faceva assomigliare ad un sentiero da trekking. Di danni alle fonti idriche superficiali e sotterranee - ricordava Idra nel marzo 2007 - se ne sono contati a bizzeffe, compresi quelli a cinque acquedotti. E poi - proseguiva l’elenco - una settantina di sorgenti danneggiate; oltre 40 pozzi inservibili; una ventina i torrenti, i fiumi e i fossi prosciugati. Senza dimenticare l’impatto alle acque sotterranee di falda.

Fu in quel periodo che il presidente della Regione Claudio Martini si recò, insieme ad alcuni assessori e tecnici regionali, nei cantieri della Tav: qualche settimana prima una lettera e un programma tv avevano scatentato un putiferio politico. Il primo riferimento era alla galleria di Firenzuola, lunga 15,285 km, dove si stavano demolendo e rifacendo alcune centinaia di metri di rivestimento nel tratto compreso tra la finestra di San Giorgio e l’imbocco sud vicino all’autodromo del Mugello, nei pressi di Scarperia. Alla fine si era arrivati a circa 1500 metri di lavori-bis. Il secondo riferimento era al tunnel di Borgo Rinzelli, dove si stava rimuovendo il pavimento. Crepe e infiltrazioni, quindi, non solo alla volta delle gallerie, ma anche all’arco rovescio, cioè al calpestio delle stesse. «Problemi da ricercare - dissero Tav e Cavet (il realizzatore dell’opera) - nella composizione morfologica dell’Appennino». Ma già nel 1999, proprio a Firenzuola, si era verificata una cascata eccezionale d’acqua all’interno dello scavo: fu l’inizio degli ammaloramenti e dei danni ambientali.

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