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Circola semiclandestino come un samizdat in pochissimi uffici delle Ferrovie a Roma, un documento che è una bomba. Ha un titolo anodino: “Elementi di revisione del piano ferroviario 2007-2011”, ma il contenuto è clamoroso. In quelle pagine l’amministratore Fs, Mauro Moretti, mette implicitamente il bollo aziendale su ciò che molti avevano intuito alla luce delle prime settimane di esercizio dell’Alta velocità da Torino a Salerno. E cioè che la grande e importante opera ferroviaria costata la bellezza di 40 miliardi di euro non è, come era stato promesso e come ragionevolmente avrebbe potuto e dovuto essere, il primo passo di una nuova stagione dei treni all’insegna dell’ampliamento e del rafforzamento di tutti i servizi, dalla lunga percorrenza fino ai regionali.

È proprio l’esatto contrario: uno strumento formidabile che, quando funziona a dovere, facilita e rende più veloci le relazioni sull’asse Milano-Roma-Napoli, ma solo per 74 convogli al giorno e una fetta molto ristretta di clienti, assai inferiore all’1 per cento, e a discapito della maggioranza di viaggiatori. Il calo preventivato dal documento interno Fs riguarda tutta la rete, dai convogli regionali alle medie e lunghe percorrenze, dai collegamenti internazionali al trasporto merci.

LE CIFRE DEL CALO. Ecco le cifre dell’azienda. Trasporto regionale: riduzione dei passeggeri chilometro dai 28.615 milioni previsti originariamente a 23.410 nel 2011, cioè meno 22 per cento o, detto in altro modo, un passeggero ogni cinque dato per perso. I treni chilometro scendono dai 229 milioni precedenti a 193, 20 per cento in meno. I volumi del servizio universale si riducono del 13 per cento rispetto agli anni passati e del 15 per cento nei confronti delle previsioni contenute nella prima stesura del piano 2007-2011. Drastico arretramento anche per i convogli a media e lunga percorrenza: 23.332 milioni di passeggeri chilometro rispetto ai 25.241 del 2006 e ai quasi 29 mila del piano precedente. Per il traffico internazionale, poi, si prepara un vero e proprio tonfo: meno 40 per cento.

In assenza di una decisione formale del Parlamento, nell’indifferenza del governo e mentre la politica ha la testa da un’altra parte, sui binari si sta attuando un ribaltone, una specie di silenzioso colpo di mano ferroviario strisciante. Con l’Alta velocità in versione Moretti, insomma, diventa di giorno in giorno più concreto il rischio che le ferrovie si trasformino in una cosa diversa da ciò che furono e che fino a prova contraria dovrebbero continuare ad essere, possibilmente migliorando, considerato che sono di proprietà del Tesoro e sussidiate in larga misura dallo Stato, cioè dai contribuenticon le tasse. Somigliano sempre meno ad un’azienda con il compito di offrire a tutti e a prezzi ragionevoli un servizio sociale o universale sui 16 mila chilometri di binari. E sempre di più ad una società concentrata su poche tratte redditizie, a cominciare dalla più redditizia di tutte, l’Alta velocità Roma-Milano-Napoli. I clienti maltrattati, alcune associazioni di consumatori e qualche volta, ma non sempre, i sindacati cominciano a rendersi conto sulla loro pelle di ciò che sta succedendo e cercano di opporsi.

Le Fs a doppia andatura, alla ricerca di risultati sfavillanti e sprint su poche tratte, ma sempre più povere sul resto dei binari, non sono affatto lo sbocco inevitabile dell’Alta velocità, ma il punto d’arrivo di una scelta perseguita dall’attuale dirigenza dei treni. Al netto degli sprechi e delle costose opere di compensazione costruite per tacitare le opposizioni degli enti locali, l’Alta velocità in Italia è costata molto più che altrove perché progettata proprio come elemento di un sistema più ampio, a cominciare dalle pendenze dei tracciati appenninici studiate in modo che potessero essere percorse anche da convogli normali.

I primi a mettere le mani sul documento ferroviario riservato sono stati i redattori della Voce dei ferrovieri, mensile di categoria Cisl. Conferma il segretario, Giovanni Luciano: “Gli unici segni positivi di quel piano sembra siano quelli dei ricavi ottenuti con l’aumento dei servizi a mercato e delle tariffe e con la diminuzione dei costi operativi perseguita soprattutto con un taglio di 10.500 unità”. Lo sfoltimento degli organici ferroviari in realtà sta procedendo a ritmi serrati. Nel 2000 i dipendenti erano 109 mila, 4 anni dopo furono prepensionati o invitati ad uscire 4 mila persone; nel 2006 l’organico per la prima volta fu portato sotto la soglia delle 100 mila unità e il ritmo dei tagli è aumentato con l’arrivo di Moretti alla guida dell’azienda: nel 2007 discesa a 90 mila unità, l’anno successivo vengono espulsi di nuovo 5 mila ferrovieri e nel 2009 altri 4 mila. Ora sono 81 mila. Il fatto che il ridimensionamento sia stato attuato da Moretti, manager con un passato di comunista e dirigente dei ferrovieri Cgil, non ha favorito i rapporti con i sindacati. Per la verità i rappresentanti dei lavoratori all’inizio guardavano con un occhio di riguardo il nuovo capo dell’azienda, riconoscendogli se non altro una competenza in materia che altri amministratori prima di lui non avevano affatto.

STRATEGIE. Con il passare del tempo, però, i sindacati o almeno una parte di essi, hanno cominciato a temere che i tagli all’organico non siano solo una faccenda dolorosa, ma forse inevitabile, di risparmi e razionalizzazioni, ma il primo passo di un progetto di stravolgimento della natura dell’azienda. Attacca con estrema durezza il segretario dei ferrovieri Cisl: “Tagliare servizi, chiudere impianti, portare all’esterno il lavoro dei ferrovieri e ridurre la ferrovia alla piccola Alta velocità forse da quotare in Borsa per poi provare a combattere i francesi sul Milano-Parigi, forse potrà piacere a qualcuno. A noi no. Prima di Moretti, Giancarlo Cimoli è passato da un’operazione straordinaria all’altra e quando se n’è andato, abbiamo dovuto raccogliere le macerie. Non vorremmo succedesse di nuovo”.

La via considerata più efficace da politici e cittadini per la riduzione della congestione e dell’inquinamento delle città è rappresentata dai grandi investimenti in infrastrutture di trasporto collettivo. Molte città italiane ed europee spendono ingenti risorse pubbliche per dotarsi di reti di metropolitane e tram in sostituzione dei sistemi di autobus esistenti, ritenuti inefficaci. Nelle grandi città europee reti più o meno estese di trasporto pubblico di massa servono oggi una quota significativa della domanda: nell’area metropolitana di Milano, ad esempio, all’incirca il 20 per cento dei 4,8 milioni di spostamenti giornalieri viene effettuato in metro.

METRO ANCHE NELLE PICCOLE CITTÀ

Negli ultimi anni anche molte città di piccola e media dimensione hanno voluto imitare le grandi aree urbane, progettando linee metropolitane di dubbia utilità. Ultima è la dichiarazione del sindaco di Aosta, 35mila abitanti, che vede con favore l’idea di una metropolitana. (1)

Per quanto, in linea generale, gli investimenti infrastrutturali in ambito urbano siano da ritenersi preferibili a quelli che interessano i collegamenti in aree più disperse, quasi sempre la decisione di realizzare un’opera ha carattere esclusivamente “politico”, spesso celato sotto la parola “strategico”, e non è fondata su rigorose analisi trasportistiche. In molti casi le nuove infrastrutture, i cui costi graveranno in misura significativa sui bilanci comunali (e statali), verranno utilizzate per una frazione della capacità disponibile. I benefici in termini di viaggio porta a porta interesseranno quasi esclusivamente coloro che si spostano lungo il corridoio scelto, mentre per gli altri abitanti non cambierà nulla. Per una parte degli utenti, addirittura, l’aggravio di tempo dovuto alla necessità di raggiungere la fermata annulla o riduce il beneficio conseguente alla maggiore velocità commerciale dell’impianto fisso (recenti i casi dei tram di Bergamo e Padova). Gli impatti sulla mobilità complessiva sono modesti come dimostrano, tra gli altri, i dati recentemente pubblicati relativi a due opere aperte da qualche anno: la metropolitana automatica di Torino, aperta in due fasi tra il febbraio 2006 e l’ottobre 2007, e il minimetrò di Perugia in esercizio dal gennaio 2008.

I CASI DI TORINO E PERUGIA

Nell’ area metropolitana torinesevengono effettuati all’incirca due milioni di viaggi in auto al giorno. Il numero di utenti della metropolitana, a oltre due anni dall’apertura, si attesta invece intorno alle 90mila unità.(2)Tuttavia, la maggioranza di costoro utilizzava in precedenza i mezzi pubblici di superficie, mentre solo una parte è stata effettivamente “creata” dalla nuova infrastruttura. Sulla base di casi analoghi, si può stimare che gli spostamenti sottratti al trasporto individuale sono intorno alle 25mila unità. Il traffico privato complessivo è quindi stato ridotto di poco più dell’1 per cento. Un risultato analogo è stato conseguito a Tolosa con l’entrata in servizio, nel 1993, di una linea di metropolitana simile a quella torinese.

Il sistema di Perugia, invece, è una sorta di ascensore orizzontale, costituito da piccoli treni trainati da una fune. La capacità del sistema è ovviamente inferiore a quello di una metropolitana, ma il costo è stato comunque ragguardevole: 71 milioni di euro secondo il progetto del 2002 per meno di 4 km di linea. (3) Il canone pagato dal comune per costruzione ed esercizio è di ben 10 milioni all’anno. La domanda prevista era di 12mila passeggeri al giorno, ma a due anni dall’apertura si registrano 9-10mila passeggeri. (4) Il tutto, “nonostante la rete di bus sia stata riorganizzata per portare utenti al minimetrò”, cioè siano stati forzati gli interscambi. Per cercare di interpretare anche questi dati, proviamo a fare un rapido conto. Ipotizzando che per tutti i giorni lavorativi dell’anno vi sia la domanda massima rilevata (10mila), si ottiene un valore di circa 3 milioni di viaggiatori annui. Questo significa che il canone che il comune paga per un singolo viaggio sul minimetrò è di almeno 3,3 euro per soli 4 km di percorso. A questi vanno aggiunti poi i costi dei bus che sono necessari a portare utenza al sistema. Non abbiamo altri dati, ma ci pare che la riorganizzazione abbia aumentato di molto i costi complessivi. (5)Bisogna poi tenere presente che il sistema perugino non ha dato risposta a un problema di capacità, essendo i flussi di progetto perfettamente compatibili con quelli tipici di linee di autobus. (6)

I due casi, insieme a quello della metropolitana di Parma, sembrano indicare come, pur in presenza di investimenti significativi, le “grandi opere” urbane recentemente realizzate o in progetto comportino ricadute piuttosto modeste in termini di modifica della domanda complessiva di mobilità e della ripartizione modale fra trasporto individuale e collettivo. Inoltre, le stime di costo e di domanda utilizzate in fase di decisione sono spesso errate: quasi sempre sottostimate le prime e sovrastimate le seconde. (7) E, mentre i costi gravano sull’intera collettività, i benefici sono per la maggior parte goduti solo da coloro che hanno la fortuna di abitare o lavorare in zone limitrofe all’infrastruttura. Sembra quindi del tutto inappropriato dare un giudizio positivo a priori sulla loro realizzazione. Per evitare un cattivo utilizzo delle risorse, sarebbe preferibile un approccio meno “dogmatico”, e la decisione sull’opportunità o meno di realizzare l’opera dovrebbe derivare da una quantificazione analitica e realistica dei costi e delle ricadute di ciascun intervento.

postilla

Quanto i due autori (presumo solo per circoscrivere meglio l’ambito del loro intervento) non toccano, è che evidentemente la mancata invasione delle masse a questi costosi trasporti di massa deve avere qualche ragione piuttosto seria. E che poco probabilmente si tratta di oscuro senso dell’umorismo collettivo. La ragione per cui la potenziale utenza non diventa utenza reale, è che le nuove infrastrutture non rispondono alla sua domanda di mobilità, o quantomeno danno una risposta perdente rispetto all’alternativa, evidentemente più pratica nonostante tutto, dell’automobile privata. E perché? Perché gli insediamenti, e i modelli di vita, consumo, lavoro indotti, sono da lustri pensati in sola funzione auto-oriented. E finché non si comincerà a pensare in modo coordinato a tutte le facce del problema, si farà una figuraccia come quella di Veltroni che voleva investire miliardi per portare la gente in metropolitana al più grande centro commerciale d’Europa, dimostrando di non aver mai visto in vita sua un carrello della spesa, che come sanno gli umani privi di Dna politico Doc, è impossibile caricare su un vagone. Esempio che con poche varianti si applica al resto o quasi della maggioranze delle esistenze quotidiane (f.b.)

(1) Per la metropolitana ad Aosta si veda la notizia Ansa del 13 gennaio 2010.

(2)www.cityrailways.it

(3)www.minimetrospa.it

(4)www.cityrailways.it

(5) Il minimetrò ha una capacità per veicolo pari circa a quella di un autobus, quindi non c’è stata una riduzione dei km percorsi e il costo di un posto-km su un autobus è al massimo di poche decine di centesimi contro quasi 1 euro per il minimetrò.

(6) Una singola linea esercita con autobus normali può servire flussi di 3mila persone/ora su due direzioni (frequenza di tre minuti nella punta e 75 posti a mezzo). A Perugia questi flussi sono stati ottenuti concentrando più linee originariamente provenienti da diverse direzioni con frequenze singolarmente inferiori.

(7) Si veda, ad esempio, Flyvbjerg B., Bruzelius N., Rothengatter W. (2003), Megaprojects and Risk: An anatomy of Ambition, Cambridge University Press.

Non abbiamo messo le mani in tasca agli italiani, è il mantra che ripete continuamente il ministro dell'Economia. Non è proprio vero, come noto, ma è sicuramente verissimo che il centrodestra ha messo le mani sulle città. Ha già svenduto per quattro soldi il patrimonio abitativo pubblico e ora si accinge a regalare ai soliti noti caserme, edifici pubblici e perfino le spiagge. È poi verissimo che il governo ha messo le mani sull'ambiente. Con l'impegno personale profuso dallo stesso Berlusconi (sette giorni di personale campagna elettorale) per sconfiggere Renato Soru nelle recenti elezioni sarde: la posta in palio era la cancellazione del piano paesistico e quanto resta delle meravigliose coste sarde fin qui scampate dal cemento. Hanno infine messo le mani sui servizi pubblici. È di ieri la protesta dei presidi delle scuole romane che non hanno i soldi per far funzionare gli istituti e nel Veneto molte scuole sono pulite dai genitori. La sanità, come noto, è sistematicamente smantellata e affidata alle mani amiche degli Angelucci o don Verzè.

Ora la proposta di riaprire, per la quarta volta, un condono edilizio, è la più scandalosa conferma del superamento di ogni limite di legalità e decenza.

L'emendamento presentato ieri nella commissione Affari costituzionali del Senato dai due deputati campani del Pdl Vincenzo Nespoli e Carlo Sarro (e incautamente firmato dalla senatrice Incostante del Pd, che ha poi ritirato la firma) è molto chiaro, cristallino. Questo paese ha già pagato il prezzo di tre condoni. Il primo, nel 1985, ad opera dell'ormai agonizzante pentapartito, utilizzato per rendere legittimi milioni di edifici in particolare nel sud d'Italia. Il secondo nel 1994 - tempestivo biglietto da visita del primo governo Berlusconi - ha sdoganato quanto non era rientrato nei limiti temporali del primo. Il terzo, nel 2003, è servito per perpetuare il cambio di destinazione d'uso di moltissime attività commerciali nate illegalmente all'interno di capannoni industriali.

Quest'ultimo condono aveva due soli argini, sia nel limite temporale che nell'impossibilità di condonare edifici nati in spregio dei vincoli paesaggistici tutelati - come noto a tutti meno che ai due eroici senatori - dalla stessa Costituzione. L'emendamento demolisce i due argini. Si potrà condonare tutto anche nelle aree vincolate. E non è casuale che proprio ieri si sia svolto ad Ischia un corteo di abusivi per richiedere proprio di consentire il condono nelle aree vincolate. Per i voti della vandea si distrugge il paesaggio italiano.

Quello compiuto ieri è dunque l'ultimo atto contro la legalità e contro un civile modo di vivere: le città si costruiscono con le regole, non con la legge dei furbi. Il fatto che i due senatori in questione siano il primo il sindaco di Afragola e il secondo eletto nella circoscrizione di Salerno gettano infine un'ombra sinistra sulla questione. Il rischio concreto di consegnare - ieri con lo scudo fiscale e oggi con l'ennesimo condono edilizio - le chiavi del futuro del paese alla criminalità organizzata.

Sarebbe grottesco, se non fosse un dramma. Immaginate un presidente di Regione, il sindaco della capitale di quella regione, il presidente della Provincia, tutti i media locali e nazionali (inclusa la Repubblica, all’opposizione di Berlusconi su tutto ma non su questo), tutti i partiti salvo minime eccezioni (domenica si farà una manifestazione «bipartisan», Pd e Pdl insieme), e poi un plenipotenziario «tecnico» che, ormai lasciato nudo dall’opposizione della Comunità montana, manda in giro camper per spiegare la cosa alla gente ma in realtà trivelle scortate da plotoni di poliziotti in assetto da combattimento per fare buchi a caso. Se non si fosse inteso, si parla di Alta velocità ferroviaria in Val di Susa, e dell’ipotesi di tracciato che l’Italia deve depositare a Bruxelles entro fine gennaio per non perdere certi finanziamenti. Il tracciato lo si improvvisa con quei metodi, fingendo di fare sondaggi e carotaggi allo scopo di accertare se qui o là si potrà scavare per costruire il famoso tunnel da 50 chilometri o giù di lì. Il tutto accompagnato dall’isteria dello «sviluppo» che deve procedere a tutti i costi, anche passando sui corpi dei valsusini, sui loro paesi, sul loro paesaggio già invaso da un paio di statali, una linea ferroviaria e un’autostrada. Cittadini che infatti reagiscono, come fanno da quindici anni, in modo civile e irremovibile: organizzando dibattiti e cortei (il più grande sarà sabato prossimo, chi può ci vada), creando presidi nei luoghi minacciati di carotaggio (uno dei quali è stato nottetempo incendiato da ignoti), occupando l’autostrada, se occorre, o una stazione (e le ferrovie bloccano tutti i treni).

Ci sono due cose sorprendenti, in questa vicenda. La prima è l’ottusa ostinazione con cui tutta la politica e tutte le istituzioni (e, spiace dirlo, la Cgil al completo salvo la Fiom) insistono sulla necessità dell’orrendo tunnel, che distruggerebbe la valle e non serve a nulla. E’ la stessa sordità a soluzioni alternative che spinge a fare un tunnel sotto Firenze, con costi enormi, pericoli altrettanto grandi e tempi lunghissimi, sempre per far correre la Tav. O che ha devastato l’Appennino tra Firenze e Bologna. Come se anche l’ultimo viaggiatore natalizio, o pendolare, non avesse capito benissimo, avendolo sperimentato, quanto il gigantesco spreco dell’Alta velocità abbia ammazzato le ferrovie di prossimità, quelle più utili alla vita di tutti, come la stessa Regione Piemonte dice con un certo furore alle Ferrovie. Ma che ci volete fare? L’idiozia ufficiale è tale che per abbassare le emissioni di CO2, dopo aver «incentivato» le automobili e rotto le scatole a un mucchio di gente con centrali fossili e rigassificatori, ora si ri-scopre il nucleare. Da cosa dipende questa ottusità? Da un misto di affarismo sfacciato e di ideologia paleo-industriale, con il corollario della convinzione che i media creino la realtà, alla quale i politici debbono poi adeguarsi, rafforzando così la convinzione dei media, e così via, in un circolo vizioso infinito. Questa è la storia dei «clandestini», per esempio.

L’altra cosa sorprendente sono la fermezza e l’intelligenza con la quale i valsusini riescono a opporsi, a manovrare quando occorre, a rafforzare i loro legami interni ed esterni. Si vedrà con ogni probabilità nella manifestazione di sabato quanti «chilometro zero» (nel senso dell’economia e nel senso della democrazia) arriveranno da tutto il paese, dalle città minacciate da basi militari, Ponti, autostrade e discariche. Eppure, non sono previsti, letteralmente non esistono nel vocabolario dei politici e nel panorama nazionale dipinto dai giornali. Che rabbia, per la signora Bresso o per l’ingegner Virano (il famoso «tecnico») vedere che tutte le loro tattiche, dall’assorbire i sindaci al fare irruzione all’alba, falliscono sempre, checché ne scriva La Stampa, perché altri sindaci e presidenti di Comunità montana vengono eletti, e centinaia di persone appaiono magicamente davanti a trivelle e poliziotti. Non c’è dubbio che la Valle di Susa è la nostra Cochabamba. Nella città boliviana, dieci anni fa, un grande movimento di popolo strappò l’acqua dalle unghie di una multinazionale, dando inizio al movimento mondiale per l’acqua bene comune. In Val di Susa, rifiutando l’Alta velocità, si propone un’altra economia, una altro modo di vivere, una democrazia reale.

SASSARI. Prima al mattino a lezione con gli studenti, poi al pomeriggio durante il dibattito organizzato dal Centro di studi urbani. Vezio De Lucia non usa mezzi termini: per lui il «Piano casa» approvato dalla giunta Cappellacci è «un fatto eversivo». Esito, cioè, di una visione complessiva della politica e della società che smonta i codici di valore costituzionali per sostituirli con il prevalere dell’immediato tornaconto personale sugli interessi collettivi. In sintonia con De Lucia, studioso di vaglia e segretario dell’Istituto nazionale di urbanistica [all'inizio degli anni 70 – ndr] , tutti gli altri partecipanti alla tavola rotonda che ieri pomeriggio ha riunito, nell’aula rossa della Facoltà di Scienze politiche, i sociologi Antonietta Mazzette e Camillo Tidore, il giurista Giovanni Meloni, il giornalista Giacomo Mameli, il sindaco di Ollolai Efisio Arbau e il sindaco di Palau Piero Cuccu. Tema: «Dalle regole al fai da te del Piano casa. A che serve l’urbanistica?». Dando per scontato che le regole sono quelle del Piano paesaggistico, ma non solo. Perché ciò a cui il «Piano casa» si contrappone come un esatto contrario è in realtà, per tutti i relatori, la cultura della pianificazione territoriale e della tutela dell’ambiente e del paesaggio inscritta nella carta costituzionale ma anche nelle leggi ordinarie della Repubblica, dal Codice Urbani alle norme che riconoscono alle amministrazioni locali un ruolo preminente in materia urbanistica. E’ contro tutto che, secondo De Lucia, gioca la sua funzione eversiva, di totale ribaltamento di ogni paradigma (politico, etico, giuridico), il «fai da te» incentivato dalla giunta Cappellacci. «Un sentire comune - ha detto Antonietta Mazzette - che nella società ha conquistato spazi crescenti».

Sull’effrazione dei princìpi costituzionali e della legislazione ordinaria che il «Piano casa» comporta ha insistito in particolare Giovanni Meloni. Aggiungendo che le norme approvate dalla maggioranza di centrodestra non hanno neppure la copertura di una legge nazionale; sono soltanto il risultato di un accordo stipulato in una conferenza tra Stato e Regioni. Come i Comuni siano stati messi fuori gioco dal «Piano casa» lo hanno spiegato i due sindaci. Quello di Palau, paese sul fronte caldo della speculazione edilizia e immobiliare, non ha nascosto il timore che si riparta alla grande con le lottizzazioni stile anni Settanta e con la devastazione delle aree agricole adiacenti alle coste. «C’è il rischio - ha detto Piero Cuccu - che il lavoro che da dieci anni stiamo facendo per rimediare agli errori del passato sia di colpo vanificato, annullato».

Regole allora? Ma come, se le elezioni si vincono dichiarandole inutili e dannose, le regole? Per Camillo Tidore e per Giovanni Meloni è urgente riavviare al livello più basso, quello delle singole comunità, processi di partecipazione democratica che consentano di contrastare una deriva che è, insieme, politica e culturale. Chi li possa riavviare, quei processi, resta un interrogativo aperto, dal momento che i valori e le opzioni politiche che imperversano a destra hanno fatto ampia breccia anche nel campo opposto. Non si vince senza autonomia politica e non c’è autonomia politica se non c’è autonomia culturale.

Forse è la consapevolezza di questo dato che porta Vezio De Lucia a un pessimismo radicale sulle sorti della programmazione urbanistica in Italia. «Guardate - ha detto - cosa accadde all’Aquila dopo il terremoto: prima viene l’edilizia, costruire case e neanche per tutti, non importa come; a nessuno interessa il recupero di un tessuto urbano straordinario, che ha una sua storia e una sua originalità. E tutta la stampa, compresa quella progressista, applaude».

Resta l’elenco delle brutture ambientali sarde sciorinato, con la maestria del cronista consumato, da Giacomo Mameli. Alla fine, ciascuno ha ciò che si merita.

Postilla

Confrontarsi con la realtà, guardare tra le pieghe dei dati per spiegarne il senso, significa nel caso del cosiddetto “piano-casa” denunciare apertamente e nel merito le storture di un provvedimento contro la pianificazione oltre ogni attesa. Non sarà tanto il complesso delle multiformi brutture, quanto l' offensiva contro le regole a pesare nel futuro del Paese. Per questo il lavoro di Antonietta Mazzette che si occupa da anni di politiche urbanistiche nella facoltà di Scienze politiche di Sassari, la passione civile degli studenti del corso, sono di grande utilità per capire e fare capire. Se in tutte le facoltà, (ognuna con le competenze disciplinari proprie) si esaminasse con cura (e coraggio) questo provvedimento, si offrirebbe un grande servizio di informazione auspicabile nelle diverse realtà regionali. Se le tante facoltà che si occupano di pianificazione dicessero che brutto colpo proviene da questo “piano” (un titolo decisamente improprio!) alla credibilità del progetto urbanistico, sarebbe una grande cosa. Per questo il dibattito di ieri -come ha notato Vezio De Lucia -merita una segnalazione con tante sottolineature. (s.r.)

Lunedì scorso sono cominciati i sondaggi geognostici in Valsusa in vista del progetto preliminare della linea Av–Ac (Alta velocità e Alta capacità) Torino–Lione. C’è tempo soltanto fino al 31 gennaio per completare questa fase dei lavori, altrimenti si perderanno 670 milioni di euro di fondi europei. Ne parliamo con Marco Ponti, docente di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano.

I media parlano di “opera finalmente al via”. E’ così?

Si tratta di un progetto estremamente controverso e costoso, per cui non è affatto chiaro se vi saranno le risorse con tempi certi. Il rischio maggiore è la partenza del cantiere a singhiozzo, per fini elettorali o industriali, e un’opera mai finita, con costi altissimi per la collettività: basta vedere cosa è successo per altre tratte Av, o per la Salerno–Reggio Calabria.

I NoTav vengono spesso dipinti come antimodernisti nemici del progresso ma spesso si limitano a contestare l’utilità dell’opera.

Certo, la scarsa utilità dell’opera accentua giustificatamente le resistenze locali, e i No Tav si dimostrano anche tecnicamente preparati, al contrario di altri gruppi di protesta con più forti componenti opportunistiche.

In Valsusa esiste già una linea ferroviaria su cui, peraltro, transitano i treni veloci francesi. Perché l’Opzione Zero (l’ammodernamento della linea già esistente) non è mai stata considerata?

L’ammodernamento è già avvenuto e la linea attuale è in grado di soddisfare la domanda merci, che comunque non è interessata alla velocità, per moltissimi anni futuri. La domanda passeggeri stimata ufficialmente è esigua.

Secondo Ltf (la società che costruisce la Torino-Lione) il traffico merci aumenterà fino a 45 milioni di tonnellate all’anno, dunque la linea è necessaria.

Si tratta di numeri del tutto privi di fondamento scientifico: attualmente la domanda è intorno ai sei milioni di tonnellate, e non cresce da un decennio. D’altronde, è una valutazione certo non neutrale, e che nessuno è interessato a verificare, né oggi né domani. Tanto pagheranno i contribuenti.

È vero che in Francia sono già avanti coi lavori e nessuno si oppone?

Quando arrivano fiumi di denaro dal centro è difficile opporsi, se non in modo strumentale. Però mi risulta che in Francia hanno speso comunque una quota piccolissima dei costi totali, tra l’altro difficilmente conoscibili.

Qualche punto a favore della Torino-Lione?

Certo: è una spesa pubblica molto più sensata di quella in armamenti.

È il miglior passaggio possibile, quello della Val di Susa?

Mi risulta il peggiore possibile, perché aumenta i costi di un’opera di molto dubbia utilità di circa due miliardi, dalle ultime informazioni in mio possesso.

Cosa succederà adesso?

Credo che i lavori partiranno. Poi si proseguirà a singhiozzo in funzione dei soldi (nostri) disponibili. Se l’opera verrà mai finita, tra vent’anni si constaterà che sono soldi buttati. Ma chi sarà chiamato a rispondere?

Trattati come prostitute, in esposizione nello squallido scenario di Pianura vecchia, il quartiere a più alto indice di abusivismo edilizio d’Italia. Scelti come un tempo i proprietari terrieri sceglievano gli schiavi più robusti da impiegare nei campi di cotone dell’Alabama. I negrieri di oggi non ne controllano la dentatura, forse, ma osservano con cura la corporatura, la forza delle spalle e delle braccia. Sono gli immigrati clandestini destinati ai lavori forzati nei cantieri fuorilegge, a impastare cemento, ad alzare muri di mattoni, a morire – magari – nel silenzio e nell’indifferenza generale perché precipitati da una impalcatura, e abbandonati in strada, come carogne agonizzanti. Sono gli immigrati clandestini destinati a lavorare per un padrone che non ha faccia, perché nascosto nel cono d’ombra che protegge il sottobosco imprenditoriale locale, che fa affari con la camorra e con il peggio del peggio della politica napoletana. È questa la nuova frontiera del traffico di uomini a Napoli su cui la magistratura sta indagando.

L’inchiesta, affidata al pm Antonello Ardituro, tra i più preparati magistrati dell’Antimafia partenopea, prende le mosse dalla battaglia del gennaio 2008 contro l’apertura della discarica di Contrada Pisani. Una rivolta che vede, sullo stesso lato della barricata, gente perbene, studenti, associazioni e criminalità organizzata, interessata a prolungare lo stato d’assedio per salvaguardare i propri investimenti immobiliari nel quartiere.

Racconta il pentito Giovanni Gilardi, ex affiliato alla potente famiglia malavitosa dei Lago: «Ci sono dei costruttori che sono specializzati nella costruzione di immobili abusivi a Pianura, collegati comunque ai clan e in particolare al nostro gruppo… questi imprenditori prima di iniziare costruzioni abusive a Pianura, in particolare le “masserie”, devono chiedere il permesso al clan al quale versano, prima e durante i lavori, delle quote estorsive che variano a seconda dell’immobile abusivo da costruire».

Ma perché la camorra non vuole la riapertura della discarica? È sempre Gilardi a rispondere: «In realtà noi come clan non avevamo organizzato gli scontri, ma ne stavamo beneficiando, poiché le forze dell’ordine erano tutte impegnate per tali eventi e non c’erano molti posti di blocco. Inoltre, il fatto che gli scontri durassero a lungo, consentiva di terminare le costruzioni abusive che si stavano realizzando nella zona della Contrada “Pisani”, vicina all’area dove si voleva realizzare la discarica. Tali scontri, in quel periodo, consentivano di lavorare tranquillamente in quanto erano più difficili i controlli da parte dei vigili dell’antiabusivismo edilizio». Il business del «cemento selvaggio» vale venti milioni di euro all’anno (i prezzi per un appartamento di tre vani, a Pianura, sono in media due volte inferiori a quelli di mercato) e offre uno sbocco sicuro per i capitali illeciti accumulati dalle organizzazioni criminali con il traffico di droga. Il collaboratore di giustizia aggiunge, ancora, che il gruppo criminale sovvenzionò con 10mila euro la frangia dei Niss, una frangia di tifosi organizzati impegnati negli scontri con le forze dell’ordine, grazie alla mediazione del consigliere comunale di Alleanza nazionale Marco Nonno (attualmente sotto processo, ma che ha sempre contestato la ri- costruzione del pentito sul punto, dichiarandosi estraneo a rapporti con il mondo camorristico) per garantirsi la futura possibilità di continuare a invadere con il calcestruzzo l’area circostante la discarica. Nel solo 2009, infatti, sono stati cento i nuovi fabbricati fuorilegge scoperti nel quartiere di Pianura dalle forze dell’ordine e segnalati alla sezione «Ambiente» della Procura della Repubblica di Napoli, guidata dall’aggiunto Aldo De Chiara. Cento nuovi manufatti edificati dalle ditte delle cosche che dovranno essere rasi al suolo.

È sempre il pentito a raccontare che il patto di collaborazione tra malavita e imprenditoria, nel settore edilizio, è ad ampio spettro: dal procacciamento delle materie prime al controllo del territorio, dalla gestione delle emergenze (perquisizioni, sequestri) all’arruolamento delle maestranze. Per lo più giovani immigrati, provenienti da Togo, Ghana e Costa d’Avorio, in fitto per un biglietto da venti euro al giorno, all’incrocio tra via Montagna Spaccata, via Sartania e via Padula (vedi immagini in alto, ndr). Non vendono il loro corpo, ma ciò che il loro corpo può fare: scavare, arrampicarsi, demolire, costruire, rischiare. «Questa nuova forma di caporalato », dichiara il pm Ardituro, «consente ai palazzinari di contare su un bacino di manodopera potenzialmente inesauribile, proveniente da Castelvolturno ». Trentadue imprenditori sono già stati denunciati per sfruttamento dell’immigrazione clandestina. «È un fenomeno che assomiglia in maniera inquietante al mondo della prostituzione: gli immigrati si mettono in mostra, in strada, e prelevati, in auto, dopo la contrattazione del prezzo».

Uno sparatraffico che sputazza macchine sopra e sotto, come una fontana dai mille zampilli. Eccolo il tunnel Expo-Linate: sarebbe piaciuto da pazzi ai futuristi del primo Novecento. Marinetti ci avrebbe composto un´ode per l´ardimento del progetto e la sfida al "mondo dei lenti e dei molli", quelli che un secolo fa si ostinavano pateticamente a opporsi all´avvento dell´era delle macchine.

Eccolo, il tunnel Expo-Linate: una "grande opera" buona per sistemare il portafoglio commesse di qualche grande impresa di costruzione, il portafoglio crediti di qualche grande banca, i conti di grandi cooperative e di consorzi o consessi come la Compagnia delle Opere. Un buco lungo 14 chilometri e mezzo, l´ennesimo, nel groviera del sottosuolo milanese, dal modico costo di 2,5 miliardi, per far attraversare da Est a Ovest la città da un fiume di auto. Quelle stesse auto che da almeno un quarto di secolo quella stessa città cerca, senza successo, di respingere ai limiti dei suoi confini. Per non morire soffocata.

Dunque Letizia Moratti e la sua giunta insistono. E non importa un fico secco che anche il più disinformato degli osservatori si renda conto dell´assurdità di un progetto che dovrebbe collegare un aeroporto in forte ridimensionamento (o dismissione) con il quartiere fieristico dall´altra parte della metropoli; della follia di un tracciato che si sovrappone a una nuova linea del metrò e al passante ferroviario; dell´insostenibilità dei cantieri di un´opera simile in contemporanea a quelli di tre nuove linee del metrò; dell´incertissima sostenibilità economica dell´impresa, che si dovrebbe ripagare con pedaggi da 13 euro per vettura e che, non raccontiamo fandonie, può reggersi soltanto mungendo ingenti risorse pubbliche.

«Il tunnel si deve fare, altrimenti non voto il Pgt», tuona il vecchio consigliere comunale Alberto Garocchio, ex democristiano, decano dell´aula di Palazzo Marino e, soprattutto uomo da sempre vicino alla Compagnia delle Opere e a Comunione e liberazione. Garocchio, almeno, ha il pregio di dire le cose come stanno. Ora sarebbe bene mettere le cose in chiaro, sempre che si consideri prioritario l´interesse generale e che la guerra al traffico, allo smog e alle polveri sottili non sia una buffonata: questo tunnel è nemico di qualsiasi progetto di risanamento dell´aria di Milano perché porta nuovo traffico in città, anziché limitarlo. E insieme al traffico porta nuovo inquinamento.

Chi si ostina a sostenere il contrario, e fra questi anche il presidente uscente della Regione Roberto Formigoni, dà prova di scarsa o nulla sensibilità ambientale. O di smodata sensibilità elettoral - clientelare, dati i tempi: vedete voi. Del resto lo dicono i numeri forniti dagli stessi promotori della "grande opera": il tunnel avrebbe una capacità di transito di 100mila veicoli al giorno mentre il punto di pareggio, oltre il quale il gestore comincerebbe a guadagnare, è al di sopra dei 50mila utenti-giorno. Veicoli in gran parte provenienti da fuori città, che, invece, l´amministratore previdente e preoccupato della salute pubblica dovrebbe assolutamente evitare di portare all´interno. Anche in considerazione dell´evoluzione dell´Ecopass in congestion charge, ovvero in un ticket d´ingresso esteso a tutti i veicoli. A meno che non si scambi, ancora una volta, una misura antismog come un pretesto per far cassa.

1. Dire la verità su chi paga, chi riceve, e chi inquina. Il pubblico, e spesso anche i media, ignorano alcune cose ovvie ed essenziali: quanti sussidi vengono erogati con i nostri soldi, e a chi vanno, quanto pagano i viaggiatori e quanto i contribuenti, quanto inquinano i trasporti. Alcuni esempi banali: versiamo alle ferrovie e ai trasporti locali circa 10 miliardi di euro all’anno, e ricaviamo dai trasporti stradali per via fiscale e tramite pedaggi circa 50 miliardi. Nulla di male, se questa fosse una scelta informata e trasparente. Ma certo così oggi non è. I trasporti stradali generano circa il 25 per cento del CO2, ma se si mettessero tasse analoghe a quelle sulla benzina sugli altri inquinatori, si sentirebbero (e si sono sentiti da Confindustria), strilli fino al cielo.

2. Chiamare i pendolari con il loro nome, e aiutarli. I pendolari ferroviari sono meno del 10 per cento del totale, poi vengono quelli che vanno in autobus, e la grande maggioranza deve andare in macchina (pagando tantissimo), e non per scelta, ma perché l’assetto del territorio e del mercato del lavoro non consentono tecnicamente altre soluzioni. Occorre aiutare tutti i pendolari, distribuendo le risorse pubbliche secondo queste proporzioni, e secondo il reale livello di disagio dei diversi modi di trasporto (ritardi dei treni, ma anche ritardi da code infinite…).

3. Smetterla di buttare i soldi pubblici per i ricchi o per immagine (nuove Alta velocità). Fare conti trasparenti e pubblici, non trovare trucchi di “finanza creativa”. L’Alta velocità Milano-Napoli è costata il triplo del dovuto, ma almeno servirà molto traffico, si spera: è la spina dorsale del paese. Nessuno però ha risposto dei costi, generati da appalti fatti tra amici, senza gare. Ma “perseverare diabolicum”: altre linee avranno molto meno traffico (alcune pochissimo), e questo governo continua a non voler fare gare. Escogitare finte partecipazioni di privati ipergarantiti (cioè senza rischi) è solo un modo per mascherare spesa pubblica aggiuntiva, e di far regali ad amici.

4. Smetterla di favorire i concessionari monopolisti (autostrade, aeroporti, ferrovie, TPL). Regolarli con un’Autorità indipendente. Se non c’è un forte difensore degli utenti che possa resistere alle non virtuose pressioni politiche, non c’è speranza né di equità né di efficienza nel settore dei trasporti. Si guardi la vicenda delle tariffe autostradali (galline dalle uova d’oro), o i costi del sistema ferroviario, o la scarsa concorrenza nel trasporto locale, o l’aumento arbitrario, pagato dagli utenti, per gli aeroporti, o la sistematica persecuzione delle compagnie low cost (e i folli sussidi all’Alitalia).

5. Per la crisi, concentrarsi sui progetti infrastrutturali che occupano gente e servono subito. La crisi economica non è affatto finita. La spesa pubblica è essenziale per il rilancio occupazionale, e proprio per questo occorre che sia con effetti rapidi, e con alta intensità di lavoro, non di capitale. Cioè tutto il contrario della logica delle “grandi opere”, mentre occorrono manutenzione e “piccole opere” (che tra l’altro sono anche di utilità molto più certa). Lo ha scritto persino il ministro Renato Brunetta!

6. Aiutare chi spinge ad abbassare le tariffe (Ryanair, Montezemolo, la regione Piemonte), non chi le alza (Alitalia). Inefficienze nel caso di soggetti pubblici, o rendite nel caso di soggetti privati non esposti a pressioni concorrenziali, sono tra i mali che affliggono i trasporti italiani. L’attuale governo sembra muoversi in direzione opposta: il ministro Matteoli ha addirittura dichiarato che “auspica che la regione Piemonte (di centrosinistra) rinunci alle gare per i servizi locali, in favore di Fs”. La regione Lombardia (di centrodestra) ha addirittura fuso le ferrovie Nord, di sua proprietà, con Fs. Il governatore del Lazio (di centrosinistra) aveva auspicato l’allontanamento da Roma di Ryanair.

7. A livello urbano, smetterla di far gare per finta per il TPL.Il vero veleno della recente riforma finto-liberale è che i giudici (i comuni) sono anche di solito i concorrenti, con le loro imprese, e si trovano così in un lieve conflitto di interessi, cui però, coerentementecol quadro nazionale, nessuno fa caso. La nuova legge incoraggia poi non tanto la concorrenza, quanto la privatizzazione. I privati senza concorrenza di solito fanno peggio delle aziende pubbliche.

8. Per l’ambiente, fare i conti su dove costa meno abbattere e distinguere i tre temi: effetto serra, danni alla salute, congestione. Difendere l’ambiente è sacrosanto, ma nei trasporti costa molto caro, per ragioni tecniche. Poi i problemi ambientali sono molto diversi tra loro, e richiedono politiche specifiche. Oggi in nome dell’ambiente si giustificano politiche prive di senso: si pensi ai sussidi alle ferrovie contemporanei agli sconti su tasse e pedaggi dei camionisti… o all’Alta velocità dove non c’è domanda.

9. Fare i conti sui gruppi sociali che guadagnano e che perdono con le diverse politiche. È perfettamente possibile valutare gli impatti sociali di politiche alternative, ma questi conti non si fanno mai. Per esempio, la “fuga dalla rendita” spiega gran parte della dispersione urbana, aspramente condannata dagli urbanisti. Ma si pensi anche alle filiere industriali che potrebbero essere avvantaggiate da sistemi logistici più efficienti e concorrenziali, non certo da opere di impatto mediatico.

10. Per concludere: più tecnologia, più mercato, e meno cemento (come dimostreranno i conti, se mai si faranno…). I conti si limiterebbero a confermare il buon senso, e consentirebbero decisioni più condivise e trasparenti, come si usa in alcuni paesi sviluppati.

La Finanziaria reintroduce la possibilità di finanziare lotti costruttivi e non più solo lotti funzionali delle infrastrutture previste dalla Legge obiettivo. Si potranno così aprire molti nuovi cantieri. Ma è anche possibile che si moltiplichino i casi di puro spreco delle risorse pubbliche. In particolare nelle ferrovie, dove più gravi sono i problemi tecnici di raccordo tra parti nuove e rete esistente: basta pensare al cambio di tensione tra alta velocità e linee ordinarie. Ricordando che oltretutto gli "stop and go" costano molto cari.

Con due commi, il 228 e il 229, del consueto maxi-emendamento che ha chiuso la vicenda dell’ultima Legge finanziaria, è stata reintrodotta nella normativa italiana la possibilità per il Cipe di finanziare le opere pubbliche – e segnatamente quelle comprese nella Legge obiettivo – per “lotti costruttivi” e non più solo per “lotti funzionali”. La scelta è stata giustificata in nome del “sano pragmatismo”: procedendo per lotti costruttivi, è possibile aprire molti più cantieri che procedendo per lotti funzionali. Ma è anche possibile che si moltiplichino i casi di puro spreco delle risorse pubbliche e che rallenti ulteriormente la realizzazione delle opere.

IN LODE DEL LOTTO FUNZIONALE (IN MANCANZA DI MEGLIO)

Ma cosa significa “lotto funzionale”? Significa una parte di una infrastruttura che può essere utilizzata (funzionare, appunto) anche se l’opera non è completa: per esempio, una tratta ferroviaria da stazione a stazione, o una tratta autostradale da casello a casello. Già così ci sono problemi di sprechi, se l’opera non è poi terminata in tempi brevi: per esempio, un’autostrada prevista a quattro corsie per il traffico tra due grandi città, risulterà molto sovradimensionata se collega solo una grande città con una cittadina vicina. L’ideale sarebbe che non fossero ammesse al finanziamento opere che sono ben lontane dall’essere giunte a un sufficiente grado di avanzamento progettuale e dall’aver ricevuto l’accordo degli enti territoriali che accampano svariati diritti di veto, perché i costi stimati in base a progetti di massima e che ancora non hanno subito le varianti necessarie a ottenere il consenso sul territorio sono inevitabilmente di molto inferiori a quelli che si rivelano a progettazione ultimata. (1)

In secondo luogo, non dovrebbe essere consentito aprire un cantiere senza avere certezze dei fondi (e dei tempi di erogazione) fino al compimento dell’intera opera. In questo senso sono più volte andate le raccomandazioni della Corte dei conti. Si noti che i problemi dei lotti non funzionali sono molto più gravi per le ferrovie, soprattutto per le linee alta velocità, che non per le autostrade, per una ragione molto semplice: il trasporto ferroviario presenta “rotture di carico” che lo rendono molto più funzionale alle lunghe distanze, e presenta problemi tecnici di raccordo con la rete esistente molto maggiori (si pensi per esempio al cambio di tensione tra AV e linee ordinarie). Un pezzo di autostrada, invece, è facilmente raccordabile con la viabilità ordinaria, come mostrano i diversi esempi di quelle non finite ma che comunque svolgono un ruolo di velocizzazione del traffico, per esempio configurandosi come by-pass di attraversamenti urbani. Se potessero essere ammessi al finanziamento solo “lotti funzionali”, si eviterebbero le infrastrutture che finiscono nel nulla e quelle raccordate “temporaneamente” per molti anni: delle une e delle altre ci sono molti esempi, al Nord come al Sud, eredità della vecchia prassi dei lotti non funzionali.

LE CONSEGUENZE DEGLI “STOP AND GO”

Con l’ultima Finanziaria si ritorna proprio a quella vecchia prassi. Con i “lotti costruttivi” si ri-apre la strada al moltiplicarsi degli “stop and go”. I quali costano molto cari: spesso, quando i cantieri sono bloccati, non risulta possibile licenziare la mano d’opera occupata o dismettere i macchinari noleggiati con contratti a lungo termine. Inoltre, lo stesso prolungamento dei tempi di costruzione, anche se non vi fosse alcuno spreco, né inflazione, genera un altro costo sociale, dovuto al fatto che il capitale pubblico investito non genera benefici per molto tempo. Per fare un banale esempio numerico, a parità di ogni altro costo, un’opera che richiede il doppio del tempo fisiologico a essere terminata, costa alla collettività dal 9 per cento in più (se si usa un saggio di sconto del 3 per cento) al 21 per cento in più (se si usa un saggio di sconto del 5 per cento).

Inoltre, i progetti che il ripristino dei lotti “non funzionali” consente di sbloccare sono tra i meno convincenti di quelli sul tavolo: la linea AV Milano-Genova - giudicata “inutile” dallo stesso vertice di Fs, e dal costo record previsto (nel 2007) di 62 milioni al km; il completamento della nuova linea Pontremolese Parma-La Spezia (vicina e parallela alla precedente); e infine l’avvio dei lavori sulla linea AV Torino-Lione. Tutte linee concepite essenzialmente per il traffico merci, il quale soffre non certo per mancanza di binari o per bassa velocità, ma per la debolezza strutturale della domanda e per l’inadeguata gestione logistica. Guarda caso, si tratta solo di progetti ferroviari - per lo più ad alta velocità - cioè quelli per i quali i costi del lotto non funzionale sono maggiori.

PROMESSE SENZA RENDICONTI

Ma perché i politici sembrano sempre desiderosi di aprire più cantieri possibile e altrettanto disinteressati ai risultati delle spese effettuate? L’apertura di un cantiere è vissuta come la realizzazione di una promessa (elettorale), come prova della loro capacità di compiere fatti concreti e non soltanto di parlare. (2) D’altra parte, i politici non possono ignorare il fatto che molte infrastrutture di trasporto e la maggioranza delle “grandi opere” presentino sovra-costi imponenti, e altrettanto imponente scarsità di traffico. (3)

È quindi comprensibile il desiderio di non dover dichiarare pubblicamente di aver sprecato i denari dei contribuenti. La lunghezza dei tempi di realizzazione, in questo senso, aiuta: quasi tutti dimenticano gli “ispiratori politici” di un’opera decisa e avviata decenni prima e la responsabilità per i risultati deludenti (o il vero e proprio spreco di denaro pubblico) è ripartita tra molti governi, spesso di diversa colorazione politica, ma che hanno un atteggiamento perfettamente collusivo nel volersi scordare ‘o passato, perché tutti hanno un passato poco commendevole da far dimenticare. I contribuenti, che pagano per le opere incautamente decise e avviate, non vengono consultati prima che i loro soldi siano spesi e non ricevono mai un rendiconto, fidando sulla loro memoria corta oltre che sulla loro scarsa o nulla “vocalità”. E così, chi ha dato, ha dato, ha dato e chi ha avuto, ha avuto, ha avuto.

(1) L’osservazione si trova in “La revisione della spesa pubblica – Rapporto 2008”, della Commissione tecnica per la finanza pubblica (soppressa subito dopo l’insediamento del nuovo governo), ma è contenuto anche nell’“Allegato infrastrutture” al Dpef 2009-2011, prodotto dal governo in carica.

(2) Berta G., Manghi B. (2006), “Una Tav per partito preso”, Il Mulino, LV, n. 423, pp. 92-101.

(3) Bruzelius N., Flyvbjerg B., Rothengatter W. (2003), Megaprojects and Risk: An Anatomy of Ambition, Cambridge, CambridgeUniversity Press.

Doppia galleria per il maxi-tunnel

di Teresa Monestiroli



Cambia il progetto per il tunnel dall´area Expo di Rho-Pero a Linate: le gallerie scavate 40 metri di profondità saranno due (una per ogni senso di marcia) anziché una sola. Ma aumenta anche il pedaggio previsto: se i privati (Torno e Condotte) garantiranno la copertura dell´intero ammontare dell´investimento, circa 2,5 miliardi di euro, il piano di ammortamento prevederà la copertura dei costi con tariffe intorno a un euro per chilometro, per un totale di circa 13 euro per l´intera lunghezza del tunnel.

Non ci saranno contributi pubblici, dunque il pedaggio del tunnel che collegherà l´aeroporto di Linate con l´Expo a Rho-Pero costerà caro: quasi un euro a chilometro, per un totale di 13 per percorrerlo tutto. La prima ipotesi presentata ai tempi di Albertini (7 euro) quasi raddoppia nello studio di fattibilità presentato dalla società Condotte che, insieme alla Torno, si è fatta promotrice della mastodontica opera infrastrutturale che potrebbe rivoluzionare la mobilità in città e dintorni. Così come raddoppiano le gallerie: non più una a doppio senso di marcia come era all´inizio, ma due separate per i due sensi, con vie di fuga tra loro per garantire la sicurezza.

Il progetto definitivo della maxigalleria di 14,6 chilometri che correrà a quaranta metri di profondità e interrerà 50mila auto al giorno, è stato consegnato al Comune a metà dicembre. Ora Palazzo Marino ha tempo fino a marzo per deciderne le sorti. Per questo è stata nominata una commissione tecnica ad hoc che, nelle prossime settimane, dovrà studiare se il conto economico del tunnel sta in piedi e se il progetto è effettivamente realizzabile. Due mesi di tempo, dunque, per prendere una decisione: o dare il via alle gare d´appalto per i lavori (che partirebbero nel 2011) oppure accantonare il progetto.

«Abbiamo presentato uno studio dettagliato - spiega Luciano Berarducci, responsabile dei progetti speciali di Condotte - . Ora aspettiamo che il Comune lo valuti. L´ipotesi formulata credo risponda alle necessità espresse dall´amministrazione». Il progetto definitivo prevede la costruzione di due gallerie parallele, una per senso di marcia, ognuna composta da due carreggiate che viaggiano quaranta metri sotto la superficie del suolo, «sufficientemente in basso per evitare di intralciare sia le linee della metropolitana che i sottoservizi cittadini - continua Berarducci - . Questo ci permette anche di calcolare più precisamente sia i tempi che i costi: a quella profondità non dovrebbero esserci sorprese che rallentino i lavori».

Le società contano di concludere l´opera in 3-4 anni, quindi in tempo per l´Expo del 2015. La previsione di spesa è di 2 miliardi e mezzo di euro, circa la metà di quello che ci vuole per costruire il ponte di Messina. Soldi che, assicurano i promotori, verranno messi interamente dai privati attraverso lo strumento del project financing e che saranno recuperati con il pedaggio pagato dagli automobilisti in 60 anni di concessione. Ticket che potrebbe arrivare fino a 13 euro (0,90 centesimi al chilometro) nel caso non arrivi nessun finanziamento pubblico, come prevedono gli operatori. Se invece lo Stato, la Regione o altri enti dovessero contribuire alle spese, il pedaggio potrebbe scendere anche a 8 euro, pari a 0,50 centesimi al chilometro. Di certo dalle casse del Comune non uscirà un euro, anche se lo stesso sindaco ha dichiarato che «è un progetto molto importante, per questo l´abbiamo inserito nel Piano di governo del territorio». A sostenerlo sono anche gli assessori all´Urbanistica Masseroli e ai Lavori pubblici Simini, mentre per il centrosinistra è un´opera sbagliata che andrebbe cancellata dal Piano di governo del territorio, da domani in discussione in consiglio comunale.

«L´opera si ripagherà grazie a una concessione di 60 anni - continua Berarducci - . Abbiamo calcolato un passaggio di 50mila veicoli al giorno. Il tunnel metterà in connessione anche la Pedemontana con la Brebemi, facilitando così il collegamento per gli automobilisti e alleggerendo il traffico in città». Le previsioni parlano di un utilizzo principale di attraversamento, soprattutto nel caso dei mezzi pesanti, ma la maxigalleria avrà anche sette uscite intermedie tra Linate e Cascina Merlata: Forlanini, piazza della Repubblica, porta Venezia, Garibaldi, Bovisa, Monte Ceneri e Rho-Pero.

L´esperto: bisogna puntare sui metrò

solo così caleranno traffico e smog

intervistadi Stefano Rossi

Michele Giugliano è un esperto di emissioni in atmosfera e di inquinamento dell´aria e insegna al Politecnico. Professore, parlare di smog significa parlare anche di traffico. A Milano ci sono progetti di nuove strade, come il tunnel dalla Fiera di Rho a Linate, appoggiato dal sindaco Letizia Moratti.

«C´è un problema di distribuzione delle risorse. Se la costruzione del tunnel da Rho a Linate dovesse togliere soldi allo sviluppo delle metropolitane, troverei la scelta inopportuna. Addirittura terrificante se i tempi per la realizzazione fossero simili a quelli per lo scavo del Passante. Ci sono priorità».

Vale a dire?

«C´è una necessità estrema di nuove metropolitane, molto di più che di nuove tangenziali. L´obiettivo dev´essere ridurre le emissioni e la congestione da traffico».

La Tem, Tangenziale est esterna di Milano, raddoppierebbe la tangenziale Est. Non riuscirebbe ad alleggerire il traffico e a diluire le emissioni in un´area più vasta?

«L´idea della diluizione non è sostenibile per le polveri sottili, inquinanti secondari che si formano anche abbastanza distanti dal punto di emissione, tanto che si trovano concentrazioni elevate anche in campagna. Ha più senso creare parcheggi di interscambio sempre più lontani dalla città man mano che si allarga la rete delle metropolitane. L´obiettivo è ridurre il numero dei chilometri percorsi in area urbana».

Tunnel e tangenziale sarebbero pronti non prima di qualche anno. Nel frattempo il traffico come cambierà?

«Tutti i parametri dell´inquinamento atmosferico sono diminuiti in modo importante dal 1993, malgrado l´impennata del numero dei veicoli in circolazione. L´introduzione delle marmitte catalitiche ha avuto una portata epocale. Utile anche il rinnovo del parco mezzi, che si è un po´ attenuato. Il ciclo dei diesel puliti è alla fine, ma dopo una crisi ha ripreso slancio il motore elettrico. Stiamo andando in questa direzione e verso i motori ibridi. Oggi la percentuale di motori elettrici è irrilevante ma ci sono segnali che i tempi per la sostituzione dei motori convenzionali siano più brevi del previsto. Perciò avremo un futuro di congestione, più che di smog in senso stretto».

Congestione in che senso?

«Se non incrementiamo i mezzi pubblici, le tangenziali, già oggi gravate di traffico, saranno sempre più intasate».

Che cosa si può fare subito contro l´inquinamento?

«Puntare sul teleriscaldamento, i cui impianti centralizzati consentono un miglior controllo delle emissioni. E potenziare il trasporto pubblico. Ad esempio, l´Ecopass ha una funzione culturale perché abitua a fare a meno dell´auto privata. Ma è necessaria una migliore offerta di mezzi pubblici».

Una bretella Boffalora-Malpensa con un fiume di auto elettriche giustificherebbe l´invasione del parco del Ticino?

«Si porrebbe un problema non di inquinamento ma di uso del territorio e di cementificazione. Si dovrebbe fare un´analisi costi-benefici ma d´altra parte un parco naturale va protetto per definizione, altrimenti che parco è?».

I fondi? Utilizzare quelli stanziati per il ponte di Messina «opera faraonica e inutile». E' questa la proposta dell'associazione Italia Nostra. La proposta è stata illustrata dalla presidente dell'associazione, Alessandra Mottola Molfino, e dal segretario Antonello Alici che ieri hanno prima visitato il centro storico dell'Aquila e poi nella sede dell'Archivio di Stato a Bazzano hanno incontrato i giornalisti. Secondo Italia Nostra la legge speciale per L'Aquila deve «facilitare il coordinamento degli sforzi di enti pubblici e privati tra i quali soggetti come la Chiesa cattolica e le fondazioni bancarie per la gestione della ricostruzione del post sisma. Non è accettabile un intervento limitato a una banale ricomposizione delle facciate, un rifacimento meramente scenografico del paesaggio urbano con il sacrificio dell'autentica identità urbana».

TUTTO ANCORA FERMO. Per Alessandra Mottola Molfino la vera ricostruzione della città non è stata ancora avviata; la maggioranza degli edifici e monumenti è senza protezione e sono destinati a un degrado irreparabile. Più del 70% dei beni storico-artistici delle chiese sono ancora sotto le macerie e con l'inverno saranno persi irrimediabilmente. C'è poi il rischio di una ennesima speculazione edilizia aggravata dalla prospettiva di ricostruire una città nuova , seppellendo uno dei centri storici pi belli del nostro Paese. Per non parlare poi delle infiltrazioni della malavita organizzata». «Nel centro storico dell'Aquila» dice Italia Nostra «erano concentrate tutte le funzioni pregiate, le istituzioni, circa 800 attività commerciali, lì risiedevano almeno 6 mila studenti. Il terremoto ha prodotto i danni più gravi, determinando il suo totale svuotamento. E dal 6 aprile non si è fatto nulla per riportarlo in vita. Oggi sul centro storico dell'Aquila si lavora nel generale scoordinamento di iniziative e di poteri. Le istituzioni non collaborano tra loro. La parcellizzazione dei molti cantieri privati e pubblici concomitanti ma non coordinati e perfino i lavori di messa in sicurezza possono mettere a rischio altri edifici vicini; inoltre l'entità così estesa e pervasiva dei crolli e dei dissesti può indurre a interventi ulteriormente lesivi dell'identità storica e neppure risolutivi per la sicurezza. Inoltre la fuga verso le New Town fa pagare al centro storico dell'Aquila un prezzo altissimo: la disgregazione della comunità e dei suoi valori immateriali di convivenza secolare».

BANCHE DATI. Per Italia Nostra «le banche dati sui beni artistici dello Stato, della Regione, della Conferenza Episcopale Italiana, delle Università avrebbero dovuto essere condivise da subito, ma così non è stato e così non si è ancora in grado di operare». Una legge speciale è necessaria per «costruire uno strumento normativo che faciliti il coordinamento degli sforzi di enti pubblici e privati, per proporre un accostamento delle competenze legislative e regolamentari proprie di differenti livelli di governo, nazionale e locale. Servirà subito a rimettere in dialogo il Ministero per i beni culturali e il commissario, ma anche gli uffici urbanistica del Comune e della Regione. Una legge speciale può anche proporre condizioni speciali per coloro che sceglieranno di ritornare a vivere e lavorare nel centro storico: incentivi ai giovani e alle istituzioni di ricerca, ai commercianti e ai professionisti, alle aziende capaci di fare dell'Aquila una città dell'innovazione».

Nei comuni più piccoli i grandi lavori

Silvio Rezzonico, Giovanni Tucci

In Lombardia si perdono ogni anno oltre 4.400 ettari di terreni agricoli, in Emilia Romagna più 7.700. Di questi, quasi 3.800 sono urbanizzati in Lombardia e quasi 3.000 in Emilia Romagna.

Insomma, è come se da un anno all'altro venisse costruito dal nulla un nuovo capoluogo di provincia di medio calibro.

Nelle tre regioni considerate nel primo rapporto 2009 redatto dall' Osservatorio sui consumi di suolo, la provincia con più aree trasformate per ospitare l'uomo è quella di Milano, che vede urbanizzato quasi metà del proprio territorio, seguita da quelle di Trieste, di Varese e di Rimini.

Sempre Milano, Brescia e Bergamo (in Lombardia), Bologna, Modena e Reggio (in Emilia Romagna), e Udine (in Friuli Venezia Giulia) sono in testa alla classifica degli ettari edificati ogni giorno. Tuttavia, se si guarda ai metri quadrati costruiti ogni anno in rapporto agli abitanti, si nota un cambiamento rilevante: in questo caso, sono le province agricole a registrare le trasformazioni maggiori (Mantova, Lodi, Reggio Emilia, Parma, Pordenone).

Nelle classifiche contenute nel rapporto si notano anche interessanti andamenti in controtendenza: per esempio l'incremento delle superfici a bosco, frutto dell'abbandono delle zone montane a favore delle pianure e delle colline pedemontane. «I dati aggregati non possono raccontare a fondo il meccanismo delle trasformazioni», spiega Paolo Pileri, docente di pianificazione territoriale presso il Politecnico di Milano e coautore del rapporto. Ad esempio, prosegue, «bisogna tenere conto che la nuova urbanizzazione cresce quanto più ci si allontana dal centro delle metropolio delle città, ed è proporzionalmente più intensa nei comuni più piccoli, come quelli sotto i 15mila abitanti, che in quelli più grandi. Questo sembrerebbe il banale effetto della disponibilità di spazi agricoli o naturali pùi ampi. Ma non è solo così.

Probabilmente incide anche l'incapacità delle piccole amministrazioni comunali di resistere alle pressioni degli interessi privati, tenuto conto del fatto che nei piccoli municipi le relazioni parentali e amicali sono molto strette, e condizionano di più l'elezione dei rappresentanti. E poi c'è la scarsa preparazione culturale e ambientale delle giunte più piccole».

Insomma, è il trionfo della città-arcipelago, che alterna le villette uni e bifamiliari, i piccoli condomìni, i capannoni delle piccole e medie imprese e i grandi contenitori del commercio e dell'intrattenimento (cinema multisala, discoteche, palestre): una città che spesso implica un'elevata mobilità dei cittadini, con le prevedibili conseguenze in termini di consumi energetici.

Con questo modello urbano, infatti, oltre il consumo del suolo, si incrementa anche quello di carburante: con l'aumento di percorrenza di un chilometro in auto, per ogni mille abitanti ci sono 700km in più da fare, cioè l'immissione in aria di 8o-100 ku di anidride carbonica (29-36 tonnellate in un anno).

In futuro uno sviluppo equilibrato non è garantito, anche perché non sempre i provvedimenti statali e locali sembrano agevolare questa tendenza. Si pensi per esempio ai piani casa regionali che premiamo gli incrementi di volumetria soprattutto per villette uni e bifamiliari e le piccole strutture produttive.

Oppure alla devolution in atto che prevede che i comuni si assumano in carico anche la gestione delle autorizzazioni ambientali oltre che della programmazione urbanistica. Il tutto con il rischio che la tentazione di incassare maggiori entrate dagli oneri di urbanizzazione e avere più consensi elettorali finisca per mandare in secondo piano l'attenzione al paesaggio.

Anche in Italia conquista terreno la «città diffusa»

Cristiano Dell'Oste

Chiunque abbia viaggiato in aereo tra Milano e Roma sa come si presentano gli Appennini. Montagne, boschi, qualche paesino, ogni tanto una città. Difficile guardando dal finestrino pensare all'Italia come a un territorio cementificato. Eppure, basta poco per cambiare prospettiva. Basta percorrere una delle tante strade provinciali che attraversano la pianura padana, costeggiate da capannoni, ville, palazzine e centri commerciali. Per la maggior parte costruiti negli ultimi dieci o vent'anni.

Dove sta, allora, la verità? La città diffusa, con le periferie che formano reti urbanizzate a bassa densità, occupa troppo territorio agricolo e naturale? Oppure, al di fuori delle pianure, sono i boschi ad avanzare? L'Osservatorio nazionale sui consumi di suolo istituito dal Dipartimento architettura e pianificazione del Politecnico di Milano, dall'Istituto nazionale di urbanistica e da Legambiente nei mesi scorsi ha condotto una prima ricognizione. I dati dicono che le aree occupate da edifici, strade e infrastrutture negli ultimi anni sono cresciute di 10 ettari al giorno in Lombardia tanto quanto 14 campi da calcio di 8 ettari in Emilia Romagna e di poco meno di un ettaro (8mila metri quadrati) in Friuli Venezia Giulia. Se queste tre regioni fossero rappresentative della media nazionale, vorrebbe dire che ogni giorno in Italia vengono occupati 100 ettari, cioè un chilometro quadrato.

Rappresentative, però, non sono, in quanto si tratta di aree tra le più urbanizzate. E manca all'appello tutto il Centro-Sud. Il problema, infatti, è che non esiste una mappatura completa, perché gli enti locali, salvo limitate eccezioni, non l'hanno mai considerata una priorità. Ad oggi le rilevazioni - escluse quelle in pagina e per la provincia di Torino - non sono comparabili, ad esempio perché chiamano in modo diverso cose uguali (un campo può essere definito «agricolo» in una regione e «seminativo» in un'altra) oppure perché le cartografie sono riferite a una data sola, e non consentono di cogliere i cambiamenti. Al disinteresse degli amministratori, peraltro, si contrappone la disponibilità dei costruttori a usare in modo più razionale il suolo. «Condividiamo l'obiettivo di un consumo intelligente, e quando possibile minore, di territorio. In questo senso, è fondamentale sapere dove e come si costruisce, sia in modo legale che illegale», afferma Paolo Buzzetti, presidente nazionale dell'Ance. «L'Italia è l'unico paese avanzato in cui non si riesce ad abbattere i vecchi edifici che non hanno caratteristiche di pregio prosegue -. Londra è un esempio eclatante di come si possa ripensare e ricostruire la città».

L'esperienza insegna, d'altra parte, che anche le migliori intenzioni spesso soccombono di fronte alla complessità e ai tempi lunghi delle procedure necessarie ad approvare i piani di riqualificazione. Proprio per questo, molti hanno guardato con interesse al piano casa.

«Abbiamo insistito molto sulla norma che consente di demolire e ricostruire», ricorda Buzzetti. E l'importanza di questa disposizione è stata sottolineata anche da Finco, la federazione delle imprese attive della filiera edilizia, che aveva chiesto (per ora invano) di rendere permanenti le misure sulla sostituzione edilizia.

La lezione che arriva dal rapporto, dunque, è doppia. Innanzitutto, bisognerebbe individuare le politiche pubbliche virtuose, in grado di contenere il consumo di suolo entro i limiti strettamente necessari e favorire uno sviluppo razionale delle città. Dopodiché, bisognerebbe completare al più presto la ricognizione del territorio in base a criteri omogenei, così da offrire ai comuni una base-dati accurata per programmare il governo del territorio.

Anche perché, come hanno denunciato i responsabili dell'Osservatorio davanti alla commissione Ambiente della Camera, da un punto di vista scientifico oggi nessuno può dire con certezza quale sia la percentuale di suolo italiano urbanizzato. Di fatto, con le conoscenze attuali, è difficile andare oltre le impressioni del comune viaggiatore che osserva il paesaggio fuori dal finestrino. Tutto questo mentre in altri paesi come Germania, Olanda e Svizzera vengono effettuate rilevazioni annuali poi utilizzate pr elaborare la pianificazione urbanistica.

In Cina lo «sport dei ricchi» sta «inghiottendo la terra dei poveri». A leggere l’attacco del Quotidiano del popolo, l’ufficialissima voce del Partito comunista, contro il golf, riecheggia nella mente il perentorio «È uno sport borghese» con il quale il presidente venezuelano Hugo Chavez ha motivato la chiusura di due campi da golf lo scorso agosto. Oggi è la Cina a dichiarare guerra agli amanti delle 18 buche. La nuova battaglia di Pechino, però, difficilmente potrà essere bollata come una scelta ideologica, ma al contrario mira al rispetto della legge. Il giro di vite deciso dal governo cinese contro i green colpirà infatti solo i campi “illegali”, ossia costruiti senza autorizzazione dopo la moratoria imposta dal governo nel 2004.

Una misura resa necessaria per la salvaguardia delle già scarse terre destinate all’agricoltura e delle risorse idriche della Cina. «In un Paese dove il territorio agricolo è di soli 1,4 mu (circa 900 metri quadrati) per persona - commenta Dong Zuoji, direttore del dipartimento per la Pianificazione territoriale del ministero della Terra e delle risorse - è ridicolo che i campi da golf possano occupare 40 o 50 ettari». Senza contare i 3.000 metri cubi di acqua giornalieri che occorrono per innaffiare e tenere ben verde ogni campo. Uno spreco di risorse che sembra non tener conto della carenza d’acqua che affligge in maniera cronica molte zone del Paese, soprattutto nel nord, alla quale, nelle ultime settimane, si è aggiunta la terribile siccità che ha colpito la Cina meridionale e lasciato senza acqua potabile ben 2,5 milioni di persone.

Problemi ai quali il governo cinese aveva provato a porre rimedio anche con la moratoria sulla costruzione dei campi che avrebbe dovuto tutelare i terreni e che non è tuttavia riuscita a bloccare l’abusivismo. Da quando nel 1984 venne aperto il primo green del Paese, con la rapida crescita economica, anche la passione per il golf si è andata via via espandendo. Le cifre parlano di 500 campi autorizzati che potrebbero diventare 2.700 entro il 2015, e 3 milioni di golfisti che, secondo le previsioni della China golf association, nel prossimo decennio potrebbero raggiungere i 20 milioni.

Un business che solo lo scorso anno ha prodotto oltre 60 miliardi di yuan (5 miliardi di euro circa) e fa gola a molti. L’inchiesta governativa, lanciata a settembre in concomitanza con il piano da 15 miliardi di yuan per il censimento delle terre, ha già scoperto i primi casi di abusivismo. Tra i più eclatanti è da annoverare un impianto nella provincia dell’Hebei che occupava illegalmente 100 ettari destinati all’edilizia e ben 126 ettari di terreno agricolo. Ma si è solo all’inizio e i primi risultati certi si avranno solo entro il 2010. Una cosa è certa, conclude Dong, i colpevoli saranno «puniti severamente».

Ritorno all'Aquila «Il cuore della città non vada perduto»

«Lassù la vede? E' un’aperutura con distacco, il segno dell'avvenuta rotazione. Potremmo assistere al ribaltamento della facciata, determinato dalla pressione delle volte, che in condizioni dinamiche viene amplificata...» Insomma, Petracca, il palazzo sta venendo giù? «Beh, sì». L'imbarazzo sfiora il dolore fisico nel funzionario dell'Istituto per le tecnologie delle costruzioni (Cnr). Aurelio Petracca vorrebbe recuperare tutto, non solo Collemaggio, invasa dai tubi Innocenti, e le Anime Sante, con quel loro «cappellone» di metallo che incapsula la cupola (crollata) del Valadier. A chi lavora al capezzale dell'Aquila non basta neppure salvare Santa Maria di Paganica, ridotta a una scatola scoperchiata, che persino lo storico dell'arte Germano Boffi, ammette: «non mi stupirei se si decidesse di abbattere quel che non è più recuperabile».

Torniamo nella zona rossa otto mesi dopo quella notte del 6 aprile. Qui, alle 3 e 32, tutto era polvere e crepitio, dolore e paura, eppure nessuno ne parla; è il pudore dei fortunati. Sono morti in 308, più di 1.500 feriti. La scossa è partita otto chilometri sotto i pascoli tra l'Aquila e Roio, Tornimparte e Lucoll. Una frustata di magnitudo 6,3, sessantamila edifici gravemente danneggiati e 48mlla sfollati, otto mesi di lavoro duro, l'afa e il gelo delle tende, le polemiche sulla militarizzazione, quelle sul piano Case (200 edifici provvisti di isolatori antisismici) e sulle casette in legno, infine l'esasperazione per le autorizzazioni-lumaca della ricostruzione leggera, quelle delle case meno danneggiate. Tuttavia, date le proporzioni del disastro, la gestione della crisi è stata da manuale. Napolitano ha parlato di «una pagina all'attivo dell'Italia».

Non si può dire lo stesso del G8. Tante, generose e solenni le promesse dei Grandi; alla fine, però, hanno adottato un monumento colpito dal sisma solo francesi, tedeschi e russi; Zapatero deve aver pensato che dopo la bolla immobiliare non fosse il caso di investire sul Forte spagnolo e persino il governo kazako è stato più generoso di Obama... Insomma, meno male che c'è la solidarietà degli italiani con le loro collette milionarie e meno male che ci sono i vigili del fuoco che si calano dalle gru nelle absidi squarciate per salvare le madonnine di terracotta, i volontari di Legambiente e i funzionari dei beni culturali e della Protezione civile, i tecnici del' Itc-Cnr dell'Aquila, terremotati pure loro ma in campo dal 6 aprile, e quelli della diocesi. Questo «118 storico-artistico» è stato collaudato in Umbria e nelle Marche: è gente capace di progettare su due piedi un puntellamento e di velinare un affresco per portarlo via prima che il muto crolli.

All'interno di santa Maria di Paganica si lavora su tre metri di detriti: «Questo Natale è stato clemente, ma ad ogni gelata i vigili del fuoco ci fanno uscire per i crolli spiegano Massimiliano Cucchiella e Laura Zanotti di Legambiente . Bisogna fare in fretta se si vuole salvare il cuore della città'». A Collemaggio non si è arrivati in tempo e l'organo è andato perduto. Facciamo qualche passo tra i muri imbrigliati in massicce travi di ferro. Palazzo San Nicandro regge grazie alle catene inserite nella muratura dopo il terremoto del 15, mentre il palazzotto a fianco si gonfia in modo sinistro; in gergo, si chiama «spanciamento».

Non è messo bene neppure palazzo Ardinghelli, e non è solo colpa del terremoto. Petracca si raggela di fronte a San Silvestro: «quelle sono crepe nuove». Ci si affida ai tiranti in policarbonato grandi fasce gialle, grigie, blu, secondo la resistenza alla trazione ma un intervento risolutivo costerà almeno mezzo milione. Avanziamo tra macerie e pozzanghere, fino alla torre ottagonale di San Pietro, che si è sbriciolata per colpa di un solaio in calcestruzzo. Ecco i campanili binari di San Marco che hanno sfiorato il collasso. Oltrepassiamo il crocevia del danno per entrare, cautamente, nella chiesa di Santa Margherita: la Madonna dipinta da Saturnino Gatti all'inizio del 500 è ancora lì, nella cappella dove l'hanno collocata dopo il sisma del 1703, sgomberando la chiesa di San Francesco.

Un centinaio tu metri, siamo in pieno struscio aquilano, nel «corridoio» aperto su Piazza Duomo per dare un assaggio di normalità: i passanti pochi e gli sguardi scettici. È aperto solo il caffè Nurzia, gremito dagli altri commercianti, visibilmente spazientiti: «Il mio locale non ha crepe e allora perché io non posso riaprire?» protesta Elio Balestrazzi, uno dei 5 maggiorenti della città. Ai confini della zona rossa, è affollatissimo il Boss, storico locale degli universitari: tra una «tazza» e l'altra (gli abruzzesi chiamano così i bicchieri di vino) ti raccontano che non pagano le tasse ma che le aule sono distanti chilometri e che forse l'anno prossimo si iscriveranno altrove.

Proteste, dubbi ed esodi sono normali in «tempo di guerra»: questa è l'espressione con cui la Protezione civile ci ricorda a ogni piè sospinto che l'emergenza non è finita. A fine gennaio ci sarà il passaggio di consegue tra Bertolaso e il commissario straordinario, il governatore Gianni Chiodi.

Rimuovere le macerie? Può essere un business

Da sempre lo sguardo degli abbruzzesi ama riposarsi sulle dolomie del Como Grande, che dal Miocene rivaleggiano con le marne lasciate lì dall'Adriatico. I calcari del Gran Sasso, poi, quelli sono ovunque: conci bianchi e rosa decorano da secoli le facciate di chiese e palazzi spezzati dal terremoto e la stessa pietra chiara con cui è costruita la fontana delle 99 cannelle dava forma agli antichi castelli. Quanto possano costare i sassi che adesso ostruiscono i vicoli del centro storico, le schegge dei marmi. le lesene spezzate, il pietrame che cola dai muri feriti, gli aquflarii lo sanno dal 1532: con la scusa di punire una rivolta, il viceré di Napoli pretese da loro centomila ducati all'anno, tanti gliene servivano per edili care il forte spagnolo.

Se la storia dell'Aquila è scritta nella pietra, il suo futuro è liberarsene. La rimozione delle macerie dalle vie della città costituisce il presupposto di ogni progetto di ricostruzione. Ed è il business del momento. Lo sa bene Alfredo Moroni, assessore all'ambiente del Comune. Prima del 6 aprile, il suo problema era quello di spedire i rifiuti della città il più lontano possibile. Non erano molti e comunque, per uno dei soliti paradossi della politica, l'Aquila, che è circondata dalle cave, non possedeva una discarica. Ora Moroni sta cercando disperatamente dei depositi temporanei dove dividere pietre da tegole, ferro da plastica, termosifoni da frigoriferi, insomma tutto quel che è venuto giù insieme alle case. Il problema, ovviamente, non riguarda solo l'Aquila: la legge 77 impegna anche gli altri 56 comuni a smaltire analogamente i propri detriti.

Facendo grande attenzione a distinguere tutte quelle pietre che sassi non sono: il rischio che finiscano nei frantoi anche antichi stucchi e preziose terracotte è talmente alto che il Consiglio superiore dei beni culturali ha sentito il bisogno di raccomandare per iscritto «l'asporto controllato delle macerie e il vaglio dei reperti inglobati nei crolli, ricordando che essi col maltempo si compattano». La selezione prima dello smaltimento è imprescindibile perché la legge, in virtù della quale il Comune ne ha acquisito la proprietà e può rimuoverle, prevede che le pietre siano «rifiuti solidi urbani» e che debbano seguire il medesimo percorso che viene utilizzato abitualmente per il ciclo integrato dei rifiuti.

E qui ci imbattiamo nel secondo paradosso: ci sono macerie e macerie. Quelle del palazzo crollato o demolito dal Comune devono attendere che si trovi un deposito» dove «lavorarle», mentre quelle prodotte dalle attività di ristrutturazione, magari effettuate nel palazzo di fianco, rientrano tra i rifiuti speciali e possono essere smaltite tranquillamente. Certo, si deve trovare una discarica a norma e pagare il servizio, ma si tratta pur sempre di costi che lo Stato rimborserà ai proprietari di immobili terremotati e ci dovrebbe contenere il fenomeno dello smaltimento abusivo.

In realtà non è sempre così: « Troviamo ancora molte macerie abbandonate ma sono quelle dei privati che ristrutturano la casa da soli e per i quali abbiamo creato dei punti di conferimento gratuito» annuncia l'assessore, che scommette sull'efficacia dell'operazione e persino sulla sua economicità. «Oltre ad avere un valore ambientale - ci dice - il nostro sforzo va nella direzione del riuso: la normativa prevede che 1130% delle costruzioni sia realizzato con inerti di recupero». In pratica, dopo aver diviso pietre da laterizi, ferro e plastica, dovrebbe essere possibile collocare con profitto questa singolare «produzione». E a questo punto che interviene il terzo paradosso: il terremoto è capitato in una delle regioni italiane in cui il materiale da costruzione costa dimeno. L’Abruzzo è ricco di cave. Quelle dell'Aquilano, poi, sono per il 70% ex usi civici e i comuni impongono ai cavatori canoni irrisori per estrarre il carbonato di calcio, la pietra chiara con cui si costruisce di tutto.

I blocchi crollati dai palazzi dell'Aquila venivano da Poggio Picenze e da Ocre, da Pizzoli e da Montereale. La pietra aquilana, del resto, è rinomata da secoli: il Palazzaccio di Roma deve tutto alle cave di San Pio delle Camere. Ebbene, trovarsi in poche ore con cinque milioni di metri cubi, tante sarebbero le macerie da trattare, non è esattamente una fortuna: « non abbiamo alternative» obietta Moroni, escludendo«il ritombamento delle macerie in modo indiscriminato in cave dismesse». Il riferimento non è casuale: dopo secoli di estrazioni, l'Aquila è una groviera, Resta dunque l'opzione profit oriented anche se il margine di profitto non è chiaro. Un blocco di marmo antico, naturalmente, può essere venduto al 300% del prezzo della pietra vergine, perché la storia è un valore aggiunto, e anche il recupero dei metalli può essere remunerativo, anche se bisogna ricordare che in molte case dell'Aquila si trova ancora il costoso eternit...

Il punto debole dell'operazione è comunque la competitività di un metro cubo di pietra vergine: esce dalla cava aquilana intorno agli 8 euro contro i tradizionali 12 e quindi per avere un mercato, calcolando i costi del trattamento, le macerie riciclate non dovranno superare i 2. La stima è dell'Associazione regionale cavatori abruzzesi, che in questa partita rivestono il duplice molo di concorrenti nella produzione di inerti e di fornitori del servizio di lavorazione. «Malgrado le leggi, solo il 10% delle estrazioni torna sul mercato come materiale di riutilizzo» commenta il loro presidente, Francesco Giannini. Purezza, resistenza, costi, come ci sono macerie e macerie, c'è impianto e impianto; fino ad oggi, l'emergenza e stata gestita riempiendo un deposito di Bazzano, al ritmo di 600 tonnellate al giorno.

Ieri il tavolo ambientale ha deciso di raddoppiare l'impianto, portandolo a una capacità di trattamento di 1,5 milioni di meni cubi annui. Si sarebbe voluto fare di più, ma cinque dei nove siti individuati per creare la rete dei depositi temporanei sono stati sequestrati dai Carabinieri nelle scorse ore a Pizzoli. Da anni venivano usati per smaltire abusivamente i rifiuti e non se ne era accorto nessuno. Saranno pure pietre ma risvegliano interessi enormi. Pare infatti che la rimozione delle macerie di questo terremoto costerà pi di 50 milioni di euro: Quanto ai tempi necessari, basti sapere che Marche ed Umbria, dove il sisma aveva prodotto meno danni e che optarono per smaltire le macerie in discarica, impiegarono pi di dieci anni per risolvere il problema.

Non è che nel suo regno, e mondo ideale, non ci siano cantieri, s’affretta a precisare. «Abbiamo fermato il consumo di suolo - dice secco - non l’edilizia». Si recupera ciò che già esiste, e avanti così. Non un centimetro di più. È la spina nel fianco di palazzinari e imprenditori che in quel borgo inviolato ci fiutano l’affare ma che contro la sua porta a ogni tentativo vanno a sbattere. L’artefice di un piccolo mondo a impatto zero, dove anche il cimitero è "eco" e sull’ambiente si prova a pesare il meno possibile. Alle lusinghe di asfalto e mattone non cede, il sindaco anti-cemento dell’hinterland milanese. Domenico Finiguerra da quell’orecchio non ci sente. Da quando aveva trent’anni, oggi ne ha 38, è il primo cittadino di Cassinetta di Lugagnano, una ventina di chilometri a sud ovest di Milano dove 1.800 persone hanno sposato la sua filosofia di sostenibilità.

Anzitutto opponendosi alla superstrada che Regione e Anas vogliono nei due parchi, Ticino e Sud Milano, fino a Malpensa e che quest’anno, con la resistenza del loro sindaco, ha arruolato nuovi oppositori. Cassinetta oggi è un’eco-cittadina che si fa da sé e votata al risparmio energetico. Per la scuola materna della città, Gianni Rodari, inaugurata un anno fa, il Comune ha acceso un mutuo di un milione. «Sul tetto abbiamo realizzato un impianto fotovoltaico a costo zero - spiega - è realizzato con un consorzio di comuni della zona, E2sco, che sostiene i costi e si accolla i rischi. Noi cediamo il diritto di superficie, abbattendo la bolletta della scuola. Una volta ammortizzato l’impianto, rivenderemo l´energia con qualche decina di migliaia di euro di entrata». Anche al cimitero si risparmia: investiti 2mila euro, ne tornano indietro ogni anno 2.500. «Tutte le lampadine sulle lapidi da 5 watt sono state sostituite da led che di watt ne consumano solo 0,38 cioè meno del 10 per cento». Niente luminarie, poi, che consumano troppo. L’idea di fondo è ridurre le spese d’utenza.

La politica pro-paesaggio, però, ha dei costi. Nelle casse comunali se non entrano centinaia di migliaia di euro di oneri d’urbanizzazione, da cantieri e infrastrutture, in qualche modo i conti devono tornare. «Ho dovuto aumentare le tasse, vedi l’Ici sulla seconda casa, la mensa a scuola e i centri estivi. Ma ho anche azzerato le spese di rappresentanza. Niente ufficio stampa, ci si sposta a proprie spese, l’auto blu è una Panda verde. Sobrietà è la parola d’ordine di questa rivoluzione». Un prezzo da dividere un po’ per uno, per salvare casa propria. Per far cassa, al posto di nuovi palazzi, il sindaco s’è inventato i matrimoni a pagamento nelle ville della zona. «In sei mesi abbiamo racimolato 15mila euro, sposarsi sul Naviglio è molto romantico».

Nato 38 anni fa da una sarta e un muratore, entrambi lucani, il paladino del verde di Cassinetta è un ambientalista atipico. Mai militante di associazioni verdi. La sua coscienza ecologista è nata sul campo. «A 22 anni ero consigliere comunale ad Abbiategrasso con il Pds di Occhetto - racconta - mi è bastato un mandato, dal ‘94. Case su case, si andava avanti a colpi di centri commerciali. Non mi sono più ricandidato». Quattro anni più tardi è già in sella a una bicicletta a bussare a centinaia di porte come candidato sindaco, lista civica (vicina al centrosinistra) a Cassinetta, comune con cui è entrato in contatto mentre era alla guida di una casa per anziani cui la Croce azzurra cassinettese portava i pasti. Campagna elettorale a impatto zero. «Una sfida quasi impossibile, in una roccaforte del centrodestra da sempre, con Formigoni e Berlusconi al 70 per cento. Solo me stesso e le mie idee». Ma ha funzionato, anche per il secondo mandato. Oggi Finiguerra dirige la biblioteca comunale ma a Opera, i suoi assessori guadagnano 70 euro, lui 500, come sindaco però. «Così non devo rendere conto a nessuno». Se non ai cittadini, che hanno appoggiato la sua rivoluzione.

Aiuto, qualcuno protegga i nostri soldi da Guido Bertolaso. Ora che la Protezione civile diventa una società per azioni nessuno potrà più chiedere conto al governo su appalti ed eventuali spese allegre. Pochi giorni fa, il 17 dicembre, Gianni Letta ha fatto approvare al Consiglio dei ministri il decreto studiato e voluto dal Guido più amato dagli italiani, e da Silvio Berlusconi, in cambio del ritiro delle sue annunciate dimissioni. Un'altra mossa che toglie di mezzo il Parlamento. Il passaggio chiave è scritto in poche parole: "Il rapporto di lavoro dei dipendenti della società è disciplinato dalle norme di diritto privato".

Scende così un ulteriore velo di riservatezza su forniture, contratti, progetti per centinaia e centinaia di milioni di euro all'anno, e su assunzioni e consulenze, che non dovranno più passare sotto la lente della trasparenza pubblica. Una scorciatoia che unita alle ordinanze di urgenza e ai poteri di emergenza di cui gode la Protezione civile, trasformerà Bertolaso, 60 anni il 20 marzo prossimo, in un vicerè dalle mani d'oro a completo servizio del presidente del Consiglio di turno. Come già succede ora, ma con meno obblighi da rispettare.

La questione non riguarda soltanto la rapidità di intervento dopo terremoti, frane o alluvioni. Prendete il tentativo di Berlusconi, per adesso soltanto rinviato, di scippare il Tfr agli italiani, la liquidazione di milioni di lavoratori dipendenti. Quei soldi il governo li voleva trasferire al fondo Grandi eventi di Palazzo Chigi. Cioè la cassaforte affidata in questi anni proprio a Bertolaso per organizzare summit, party esclusivi, adunate religiose, gare sportive attraverso procedure d'urgenza e poteri straordinari. Da quando nel 2001 diventa capo e indossa la famosa maglietta blu, fior di ingegneri e tecnici vengono dirottati a occuparsi di serate di gala, piscine e trampolini (Roma, mondiali di nuoto 2009), alberghi, aiuole e parcheggi (La Maddalena e L'Aquila, vertice G8 2009), asfaltatura di strade e rotonde (Varese, mondiali di ciclismo 2008). Risorse e professionalità che così non possono essere dedicate a tempo pieno ai veri pericoli naturali che minacciano l'Italia. Negli armadi della Protezione civile in via Ulpiano e in via Vitorchiano a Roma vengono infatti tenute segrete previsioni da paura. Sono le "Proiezioni rischio sismico XXI secolo": in base a quanto è avvenuto negli ultimi 200 anni, è scritto nel rapporto riservato, nei prossimi 90 anni in Italia bisogna aspettarsi tra i 50 mila e i 200 mila morti e feriti per terremoti, con danni tra i 100 e i 200 miliardi di euro.

È fine novembre quando a Palazzo Chigi si studia come inserire nella legge finanziaria il prelievo del Tfr da destinare ai grandi eventi. Proprio in quei giorni a Rivoli, vicino a Torino, si ricorda il primo anniversario dalla morte di Vito Scafidi, 17 anni, lo studente del liceo scientifico Darwin ucciso dal crollo del soffitto della classe, collassato senza nemmeno la spintarella di una scossa sismica. I miliardi del trattamento di fine rapporto potrebbero servire a rendere più sicuri scuole e ospedali. Ma nel governo pensano a tutt'altro. Il primo dei grandi eventi che potrebbe entrare nel calendario della nuova Protezione civile spa è l'Expo 2015 a Milano: dove i ritardi, ormai sospetti, nella progettazione stanno creando le condizioni per la solita ordinanza d'urgenza. Oppure la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2020: con la possibilità di usare le procedure in deroga sugli appalti come grimaldello per scardinare il piano regolatore e, sul modello dei Mondiali di nuoto, costruire centri sportivi e villaggi residenziali nella campagna intorno alla capitale. Altri contratti potrebbero arrivare con il trasferimento del gran premio di Formula 1 a Roma, oltre agli interventi collaterali che accompagneranno le grandi opere considerate strategiche per il futuro, come il ponte sullo Stretto o le centrali nucleari.

Bertolaso ha trasformato la Protezione civile in una macchina per creare consenso. Anche tra gli imprenditori. Basta leggere i bilanci della società privata che dal 2001 in poi ha vinto tutti i principali appalti per l'organizzazione finale dei grandi eventi. È una srl con appena 35 mila euro di capitale. Si chiama Gruppo Triumph e ha sede a Monte Mario a Roma. A capo del gruppo c'è una ex interprete dell'ambasciatore Usa in Vaticano, Maria Criscuolo, 47 anni, ben addentro al potere. Dal centrodestra al centrosinistra. Da Gianni Letta a Walter Veltroni. E anche nella Santa Sede. Maria Criscuolo guadagnava bene già nel 1994, con un fatturato in lire equivalente a 632 mila euro. Spiccioli rispetto a quanto fattura ora: 28 milioni 32 mila 705 euro, secondo i bilanci 2008 delle sue società a responsabilità limitata.

Guido Bertolaso non bada a spese quando c'è da fare bella figura. Per il vertice Nato-Russia del 27 maggio 2002 a Pratica di Mare, alle porte di Roma, la Triumph di Maria Criscuolo incassa dalla Protezione civile 7 milioni 45 mila euro soltanto per le attività connesse all'organizzazione, gli allestimenti, la ristorazione, le fotocopiatrici, gli interpreti. Per preparare i due giorni di incontri, a cui partecipano Vladimir Putin e George Bush, il dipartimento di Bertolaso firma contratti per 36 milioni 284 mila euro. E nel resoconto non mancano cifre curiose. Come i 74 mila euro per il "facchinaggio da Pratica a Castelnuovo e trasporto statue": 69 chilometri al costo di 1.072 euro a chilometro. Oppure il milione di euro per il taglio di prato e siepi, i 662 mila per la "riqualificazione del circolo ufficiali", i 21 mila per la "pedana per giornalisti", i 457 mila per la "consultazione dei notiziari di agenzia", i 42 mila per gli "annunci viabilità", i 17 mila per la stampa di menù e inviti.

Nel settore Maria Criscuolo ha la stessa fama di Michael Schumacher. Continua a vincere. Sono consulenze che pagano bene. Firmano contratti con lei ministri ed ex: Roberto Maroni, Franco Frattini, Antonio Martino, Altero Matteoli, Gianni Alemanno, Rocco Buttiglione, Giuliano Urbani, oltre al presidente dell'Istituto per il commercio estero, l'ambasciatore Umberto Vattani con cui allestisce il G8 di Genova.

Il 7 dicembre 2007 un alto ufficiale delle forze armate che lavora a Palazzo Chigi scrive su due fogli e sigilla in due buste i nomi di chi vincerà l'appalto per l'organizzazione del G8 2009. È una specie di scommessa tra colleghi. Berlusconi è all'opposizione e in quel periodo il presidente del Consiglio, Romano Prodi, vuole portare il vertice alla Maddalena. Bertolaso fa propria l'idea. Anche se la sua nomina viene firmata da Berlusconi il 7 settembre 2001, la sua formazione professionale cresce nel centrosinistra come vicecommissario per il Giubileo del 2000, accanto a Francesco Rutelli, commissario e sindaco di Roma. Ma il suo padrino politico è Giulio Andreotti. Come ripete più volte ai suoi collaboratori, Bertolaso è diventato Bertolaso grazie agli insegnamenti dell'anziano leader democristiano che il capo della Protezione civile chiama pubblicamente "zio Giulio". Un rapporto nato quando Andreotti era presidente del Consiglio e Guido, laureato in medicina, un giovane assistente del suo seguito.

Tra il 2008 e il 2009 la Protezione civile indice le gare e assegna gli appalti per il G8 dell'estate scorsa. Le buste sigillate con le previsioni sui vincitori non hanno nessun valore legale. Ma l'alto ufficiale e i suoi colleghi, che chiedono l'anonimato, indovinano con mesi di anticipo. Il contratto ultramilionario e riservato per il vertice della Maddalena, poi trasferito a L'Aquila, lo vince ancora una volta la Triumph. E dal 23 settembre scorso, sul sito Internet della società già si guarda avanti: "La dottoressa Maria Criscuolo, presidente del Gruppo Triumph", è scritto, "è stata inserita da Eduardo Montefusco, vicepresidente dell'Unione industriali di Roma, nel comitato tecnico di Expo 2015".

Le scommesse a Palazzo Chigi azzeccano anche chi sarà il coordinatore del G8 per la Protezione civile. È Marcello Fiori, 50 anni il mese prossimo, promosso dirigente generale della presidenza del Consiglio con un salto in avanti di diverse posizioni. Fiori ha una laurea in lettere e nessuna esperienza con alluvioni e terremoti. Un passato di portavoce dell'Acea, l'Azienda elettrica di Roma, nel 2007 è segretario generale del ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni. Il suo nome appare il 22 marzo 1999 in una lettera di raccomandazione firmata da Francesco Rutelli, di cui allora è vice capo di gabinetto. Il sindaco-commissario per il Giubileo chiede al segretario generale della presidenza del Consiglio, Paolo De Ioanna, di affidare a Fiori l'incarico "di coordinare le attività nell'azione di lotta al degrado ambientale, ai fini della salvaguardia del decoro nella città di Roma".

Sospinto da Rutelli e Bertolaso, farà strada. Fino ai rifiuti di Napoli. Prima però Fiori diventa responsabile dell'ufficio emergenze della Protezione civile. La notte del 26 dicembre 2004 la sala operativa di via Vitorchiano lo sveglia per avvertirlo del fortissimo terremoto registrato dai sismografi di tutto il mondo e del successivo maremoto. Dove? In Indonesia, rispondono dalla sala operativa. Va bene, buona notte. Qualche ora dopo Gianni Letta, chiamato dal ministero degli Esteri, butta giù dal letto Bertolaso che ancora non sa nulla. La regola prevede che sia il capodipartimento ad informare il governo. Questa volta succede il contrario. Ci sono migliaia di turisti italiani ed europei di cui non si hanno più notizie. Bertolaso vuole fare tutto da solo. Gestisce i soccorsi e i 16 milioni e 156 mila euro raccolti dagli italiani con l'idea degli sms. Snobba perfino il ministro degli Esteri.

Il capo della Protezione civile fa decollare due Canadair del servizio antincendio, Can 23 e Can 24. Sono aerei inadatti alle operazioni di lungo raggio. Non superano i 365 chilometri orari di velocità e le 6 ore di autonomia. Quanto tempo impiegano per arrivare in Sri Lanka lo racconta una scheda sul sito della presidenza del Consiglio: "Partiti dall'Italia il 31 dicembre e arrivati a destinazione dopo quattro giorni di volo". L'aereo è progettato per scaricare acqua. Non ha spazio per trasportare materiali. Così a ogni missione vengono recapitate soltanto 6 tende. Alla fine i piloti accumulano 452 ore di volo di cui 59 ore per distribuire soltanto 250 tende. Al costo di esercizio di un Canadair: 14 mila euro l'ora.

Guido Bertolaso non parla mai più del dovuto. Quando davanti al consiglio comunale della Maddalena un rappresentante del Pdl critica i metodi di affidamento degli appalti, lui lo interrompe: "Lei è pregato di misurare le parole... Io posso anche fare direttamente degli esposti alle autorità competenti, per le affermazioni ingiuriose nei confronti di un rappresentante del governo. Sia ben chiaro". Così nemmeno in quell'occasione il capo spiega perché la Protezione civile abbia invitato alle gare per il G8 e per i mondiali di nuoto proprio la famiglia di un imprenditore, Diego Anemone, 38 anni, in società con Filippo Balducci, 30 anni, figlio di Angelo: cioè il soggetto attuatore degli appalti che dal 2003, dall'emergenza Gran Sasso, al 2008 fa coppia fissa con Bertolaso nell'applicazione delle ordinanze di urgenza.

La sua Protezione civile si occupa nel frattempo della canonizzazione di padre Pio (2002), di quella del fondatore dell'Opus Dei, Josemarìa Escrivà de Balaguer (2002), dell'incontro nazionale di Azione cattolica a Loreto con il papa (2004), dei funerali del papa (2005), della regata Vuitton Cup a Trapani (2007), dell'incontro a Loreto con il nuovo papa (2007), dei mondiali di ciclismo a Varese (2008), dei Giochi del Mediterraneo a Pescara (2009) e del 150 anniversario dell'Unità d'Italia (da celebrare fino al 2011). Tra feste e raduni, nonostante l'Abruzzo sia tra i territori più aggiornati nel censimento degli edifici pubblici a rischio sismico, il protocollo di prevenzione tra Regione e Protezione civile viene lasciato scadere (2008). E il 6 aprile a L'Aquila abbiamo visto come è andata a finire.

Meglio affidare la prevenzione delle catastrofi ai collaboratori esterni? Sembra di sì: infatti sono passati dai 113 del 2008 ai 199 di quest'anno. Quasi il doppio. Un po' per la ricostruzione a L'Aquila, un po' per le voci che prevedono un'infornata di trecento assunzioni nella nuova Protezione civile servizi spa. Ma anche loro devono dividersi. Come Flaminia Lais, messa per metà del tempo a lavorare sulle frane del 2007 in provincia di Messina e l'altra metà sui grandi eventi. Nel 2008 l'emergenza messinese può contare anche su Gilda Miele, Fabrizia Spirito e Maria Anna Tortora. Quattro donne, 24 mila euro a testa Quest'anno i collaboratori per Messina e provincia salgono a quota sette. Cinque però hanno il compito di "far fronte ai problemi del traffico". Gli altri due possono dedicarsi agli "eccezionali eventi atmosferici" del 2007: nessuno però verifica che l'allerta meteo dell'ottobre 2009 nella stessa zona sia tradotta in uno sgombero preventivo di Giampilieri, Scaletta Zanclea e Altolia. Sei mesi dopo l'allarme mancato in Abruzzo, altri trentasei morti. E questo è nulla rispetto agli scenari custoditi negli armadi del dipartimento.

Esistono modelli in grado di stabilire il numero delle vittime di un terremoto, in base al materiale e all'anno di costruzione di case, uffici, scuole e ospedali. Se oggi si ripetesse il sisma di Avezzano del 1915, i morti e i feriti sarebbero 22.448. Gli sfollati 385.784. E i danni supererebbero i 20 miliardi. Nel caso di un terremoto e un maremoto a Messina come nel 1908, ci sarebbero 112.312 morti e feriti, 399.675 senzatetto, 25 miliardi di danni. Con onde che distruggerebbero il porto ed entrerebbero nella città per 350 metri. Sulle pagine di questi rapporti riservati, una piccola nota spiega che il danno economico è stato calcolato in base a un costo di ricostruzione di 820 euro al metro quadro. Per gli alberghi del G8 mancato alla Maddalena, gli uomini di Guido Bertolaso hanno invece autorizzato costi di costruzione di 4.345 euro al metro quadro. Ecco la differenza tra una e l'altra Protezione civile.

Titolo originale: An Italian City Shaken to Its Cultural Core – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Le città impiegano secoli a crescere, ma possono morire in un batter d’occhio.

Dopo il terremoto che in aprile ha fatto centinaia di vittime e lasciato decine di migliaia di persone senza casa, dentro e attorno il nucleo medievale e barocco di questo centro un centinaio di chilometri a est di Roma, è stata straordinaria la reazione di emergenza. Soro accorsi volontari da tutta Italia in aiuto. Installati rapidamente villaggi di tende fuori dalla zona a rischio. Organizzati concerti per dare speranza e idea di continuità, e presto gli operai iniziavano a costruire decine di complessi abitativi fuori dalla città.

Ma oggi, poco prima della scadenza di gennaio in cui il governo regionale il ministero italiano delle cultura si apprestano a rilevare l’impegno della ricostruzione dall’organismo di emergenza, pare in gioco il futuro sui tempi lunghi di L’Aquila. Mancanza di fondi, volontà politica, buon senso architettonico, controllo internazionale — oltre all’inclinazione tutta italiana per un modo di pensare un po’ irrazionale — minacciano di portare a termine il lavoro iniziato dal terremoto.

Non sarebbe neppure il primo caso di una città italiana che non è riuscita a riprendersi da un terremoto. Dopo quello che ha colpito la Sicilia negli anni ‘60, I nuclei storici sono stati abbandonati, lasciando traccia solo nei nomi di fabbricati provvisori pensati come case di breve periodo, ma poi diventate permanenti a causa di negligenze e abbandono. A L’Aquila dovrebbe andare meglio. Si sta provando a salvare i circa 110.000 fra monumenti e operi d’arte che secondo il ministero sono stati colpiti complessivamente dal terremoto.

Ma I responsabili giudicano che ci vorranno 10-15 anni per far tornare alla normalità il centro storico, qualunque cosa possa significare, e tutti i lavori di ricostruzione compresi quelli per le abitazioni private dovranno ottenere il nulla osta dal ministero, un percorso difficile.

Prima del terremoto erano 10.000 le persone che abitavano nel centro, e altre 60.000 fuori. Se passano dieci anni, chi risiedeva nel centro e ne è stato fatto uscire forse non potrà o non vorrà tornare a L’Aquila, e le abitazioni realizzate nelle zone industriali circostanti — sinora sono stati terminati 150 edifici di ferro, legno e cemento — potrebbero aver trasformato l’area sino a renderla irriconoscibile. Bella città medievale in precario equilibrio col barocco (e anche in precario equilibrio più in generale come ha dimostrato l’effetto del terremoto), L’Aquila era anche un nodo commerciale e culturale, centro universitario. Nel giro di pochi anni, se il centro non riprenderà a vivere, potrebbe trasformarsi in poco più di un’attrazione turistica di secondo piano circondata da un indistinto sprawl.

Qualunque tipo di ripresa, in particolare una ripresa rapida, richiede miliardi di euro (almeno una decina, secondo varie stime) che devono essere stanziati in gran parte dal Parlamento italiano. Ma neppure una piccola accisa per la ricostruzione richiesta dal sindaco di L’Aquila e sostenuta da alcuni uomini di cultura, ha avuto seguito. In un paese dove i soldi sono un problema, distratto dalle polemiche da rotocalco sul suo primo ministro, i buoni risultati della fase di emergenza paradossalmente sono riusciti a diffondere l’impressione che a L’Aquila non serve più urgentemente aiuto. Per usare le parole della collaboratrice del sindaco Massimo Cialente, Michela Santoro: “Il messaggio sui media è Va tutto bene. Il che è molto lontano dalla verità”

Cialente, per quanto lo riguarda, si dà molto da fare con giornalisti e telecamere che vanno e vengono dal suo ufficio improvvisato in una ex scuola alla periferia della città, per trasmettere il medesimo desolato messaggio.

“Se non si ricostruisce in modo adeguato” — ovvero, dal suo punto di vista, rimettendo tutto com’era prima, salvo interventi antisismici — “sarà una vergogna per l’intero paese. Avremo una seconda Pompei”.

Una lamentela caratteristica. Spesso gli italiani ritengono di dover ripristinare il passato o finirne relegati. Difficile immaginare alternative.

Roberta Pilloli lavora per il Conservatorio dell’Aquila. Dopo il terremoto aiutò a trasportare I grandi pianoforti del Conservatorio fuori dalle macerie. Gli Aquilani sono fieri della loro forza.

L’altro pomeriggio, in felpa e scarpe da ginnastica stava preparando l’apertura ufficiale, questa settimana, della nuova sede della scuola, un edificio di vetro e metallo da 8 milioni di dollari in un agglomerato oltre il centro, costruito in poco più di un mese.

“Voglio che la mia casa torni esattamente come era”, ci ha detto la signora Pilloli. Stava parlando della sua piccola villetta costruita prima della guerra nel centro città, dove la sua famiglia ha vissuto per generazioni – non un tesoro architettonico, ma non è questo il punto. “E’ la mia identità”, ha aggiunto. “Adesso L’Aquila è morta e si stanno occupando solo di chiese e monumenti, ma non delle nostre case. Ma la città nel suo complesso era un monumento.”

Riguardo ai nuovi edifici di appartamenti costruiti dal governo, che sono simili al nuovo Conservatorio, Aldo Benedetti, professore di architettura a l’Aquila, ha dichiarato: “Non hanno un contesto, nessuna idea architettonica, soltanto il senso di baraccamenti militari, buttati da qualche parte”.

Pier Luigi Cervellati, professore di urbanistica a Venezia, va oltre. Ci ha detto che la ricostruzione dovrebbe concentrarsi nel far tornare i residenti nel centro più rapidamente, non sulla costruzione di abitazioni alternative, o sulle chiese e i monumenti o i centri commerciali. “Un centro che è lasciato vuoto per anni, muore”, ci ha detto “Queste nuove case che stanno costruendo nei sobborghi sono costosissime e non restituiscono senso urbano. Sono come i terminal di un aeroporto. Non hanno anima. Il rischio è che il centro divenga un non-luogo”.

Coloro che abitano nei nuovi appartamenti, in un primo tempo grati di aver un posto qualsiasi, stanno già lamentandosi per la mancanza di spazi, negozi, campi sportivi e ogni altro luogo di aggregazione sociale.

Non ci vuol molto perchè dopo un disastro come questo la gratitudine ceda il posto all’impazienza e alla sfiducia. Voci di corruzione e tangenti stanno naturalmente ingrossandosi. Il Conservatorio è costato circa tre volte più dei previsti 3 milioni di dollari del conservatorio con sala concerti proposto da Shigeru Ban, il famoso architetto giapponese. Gli Aquilani come il professor Benedetti, si stanno chiedendo perchè.

Quale è la soluzione? Anche mentre le bombe stavano cadendo su Londra, durante il blitz del 1940, gli urbanisti inglesi immaginavano visioni di una nuova Londra postbellica. Le calamità diventano un’opportunità per sognare. In assenza di una forte guida di indirizzo, di regole urbanistiche severe o di assemblee cittadine dove i cittadini possano lottare con forza per il futuro de L’Aquila, rimane solo il senso crescente che l’opportunità si sta squagliando. Ma l’opportunità esiste ancora, forse ricollegando assieme la nuova architettura con l’antica, come si fece all’Aquila dopo il terremoto del 1703, quando la città divenne quella famosa del Barocco che ora tutti vogliono preservare come se fosse sempre stata così.

Non come città perfetta, ma reale, viva, L’Aquila potrebbe ancora diventare un modello per un nuovo tipo di centro storico del 21° secolo in Italia.

Ma il tempo sta scorrendo inesorabilmente. Recentemente, mentre visitavo la Chiesa parrocchiale di Santa Maria Paganica, in rovina, dove il tetto è crollato e una surreale montagna di macerie sta crescendo all’interno, addosso ai finestroni , mi sono imbattuto in un archeologo del ministero dei beni culturali che stava catalogando ogni frammento e che ha perso mezz’ora in mezzo al freddo polare e alla neve per discutere con Michelangelo Saporito, un vigile del fuoco che lavora per la protezione civile. Il signor Saporito, è venuto dalla Sicilia in maggio, cinque giorni dopo la nascita del suo secondo figlio: voleva aiutare. Quella mattina stava mostrando la chiesa ad un visitatore, come aveva già fatto parecchie volte quel giorno con altri visitatori, ma aveva dimenticato di portare il consueto tagliando del permesso.

La burocrazia e le priorità sbagliate hanno affondato il progresso. Sembra una metafora.

Il signor Saporito ci ha detto sospirando: “Ecco il problema”.

[alla redazione dell’articolo ha contribuito Gaia Pianigiani]

Non passa convegno italiano sul trasporto merci e sulla logistica nel quale non si esprima, da parte di un coro quasi unanime di politici, operatori e di esperti, l'orientamento e la volontà di incrementare la quota di mercato della modalità ferroviaria rispetto alla soluzione, largamente dominante, del "tutto strada".

Eppure, nonostante queste reiterate dichiarazioni di indirizzo, continua a succedere esattamente il contrario. Evidentemente, esistono ragioni strutturali che inducono a consolidare uno squilibrio modale che caratterizza, ormai da diversi decenni, il mercato del trasporto merci nel nostro Paese.

Proviamo ad individuare le principali motivazioni che stanno alla base di questo assetto del sistema di trasporto italiano. In primo piano c'è un approccio dislessico alla politica nazionale dei trasporti, in quanto, mentre si dichiara di voler perseguire l'obiettivo di un riequilibrio modale, ci si ostina a fare esattamente l'opposto:

le politiche pubbliche continuano a sostenere con incentivi statali, per importi pari ogni anno a diverse centinaia di milioni di euro (la cui quantificazione è oggetto polemica in quanto nemmeno sul valore esatto della contribuzione è facile trovare accordo tra gli osservatori), il trasporto merci su gomma, mediante provvedimenti che si ripropongono in ogni Legge Finanziaria da più di due decenni a questa parte, con svizzera puntualità che prescinde dall'orientamento politico dei Governi che si sono succeduti nel corso di questi anni; per tali provvedimenti l'Italia è stata già condannata diverse volte dinanzi alla Corte di Giustizia della Unione Europea, per impropri aiuti di Stato rispetto vigenti alle normative comunitarie; in altri Paesi europei, come l'Austria e la Svizzera, non solo non si assumono provvedimenti di incentivazione del trasporto su gomma, ma anzi vengono varate azioni restrittive per la circolazione dei mezzi pesanti;

di converso l'Italia è tra i pochi Paesi che non sostengono con incentivi pubblici l'intermodalità, con l'eccezione di alcuni provvedimenti di carattere regionale, varati dal Friuli Venezia Giulia, dalla Campania, e, più di recente dall'Emilia Romagna; si tratta però di gocce nel mare, se si considera che la sola Svizzera destinerà al finanziamento della intermodalità nel corso del 2010 157 milioni di euro.

Accanto alla palese contraddizione delle politiche pubbliche, si affianca una dislessia nelle scelte di investimento infrastrutturale, che a parole perseguono la linea di favorire la soluzione ferroviaria per il trasporto delle merci, salvo poi ad inseguire solo la retorica dell'obiettivo, mancandone completamente la sostanza.

Facciamo l'esempio del quadruplicamento delle linee ferroviarie principali del nostro Paese, realizzato secondo la formula dell'"alta capacità”, attrezzando quindi le nuove linee secondo standard adeguati anche al transito dei treni merci. In questo modo, l'opera è certamente costata molto di più rispetto alla sua realizzazione con l'esercizio per i soli treni passeggeri, avendo dovuto adottare, nella fase di progettazione e di realizzazione dell'opera, criteri adeguati anche al transito di convogli merci.

Ma, avendo per il momento fissato il pedaggio di accesso alla nuova rete per i treni merci ad un valore incompatibile con la capacità economica di questo segmento di mercato (circa 6,5 euro a treno/km per i treni merci sulla nuova rete, rispetto ai circa 2,5 euro a treno/km per la rete tradizionale), si è solo raggiunto l'obiettivo di far costare di più l'alta velocità senza dare un sostanziale vantaggio aggiuntivo per l'incremento di capacità infrastrutturale dedicato al trasporto delle merci nel nostro Paese.

Intanto, si continuano a non realizzare, o a rimandare nel tempo, quelle “piccole opere” nei nodi infrastrutturali, ed in particolare nei porti, nelle grandi aree metropolitane, nelle linee di adduzione ai grandi scali merci ed ai valichi, che potrebbero portare effettivo ed immediato vantaggio in termini di sbottigliamento delle reti e dei corridoi a maggiore vocazione per il traffico merci.

C'è poi l'approccio dislessico alla liberalizzazione ferroviaria: anche in questo caso molta retorica e poca attenzione ai fatti economici. L' incumbent (vale a dire l'operatore ex monopolista del trasporto ferroviario delle merci, Trenitalia Cargo) registra strutturalmente una forte perdita a conto economico, e quindi non c'è da ripartire tra i nuovi entranti una rendita del monopolista.

Al più, come sta accadendo, c'è da erodere qualche nicchia di maggiore attrattività economica, in un mercato come quello ferroviario nazionale, abituato piuttosto alla paradossale rendita del consumatore, soprattutto per alcuni segmenti di mercato, come quella della intermodalità terrestre nazionale.

Nonostante gli adeguamenti di prezzi adottati negli ultimi anni da Trenitalia Cargo, su questo segmento di mercato il prezzo di vendita è ancora al di sotto del costo di produzione dell'operatore più efficiente. In queste condizioni, è evidente che non esistono le condizioni perché si possa sviluppare un mercato sostenibile: andrebbero quindi adottate politiche di accompagnamento, di duplice dimensione:

da un lato trasparenti incentivi pubblici alla intermodalità, per consentire che il mercato raggiunga un prezzo sostenibile per gli operatori ferroviari in concorrenza, dall'altro politiche industriali a sostegno della ristrutturazione industriale dell'incumbent.

Se vogliamo che l'Italia disponga ancora di una rete nazionale di servizi per il trasporto delle merci, soprattutto nelle regioni meridionali del Paese, sarà indispensabile non solo favorire la liberalizzazione del mercato, applicando con rigore le regole comunitarie, ma anche incentivare comportamenti di miglioramento della produttività da parte dell'incumbent, in modo tale che la competizione si determini poi ad armi pari, in un mercato che deve crescere complessivamente, e che non si deve limitare ad erodere i pochi segmenti profittevoli oggi gestiti da Trenitalia Cargo. In caso contrario, vale da dire in mancanza di un risanamento economico e di una svolta di efficienza da parte dell'incumbent accompagnato da incentivi per rilanciare il mercato, il rischio, che si sta determinando nel corso degli ultimi due anni, è quello di un progressivo arretramento del perimetro gestito da Trenitalia Cargo, senza che intervenga un effetto di sostituzione nel trasporto ferroviario da parte di un altro operatore. L'effetto finale sarà, ancora una volta, la crescita del trasporto camionistico.

Ma, per un esercizio complesso di questa natura, bisognerebbe dismettere la retorica d'uso nei convegni, per affrontare i nodi reali e strutturali che stanno sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere le questioni per quelle che sono. Invece, di trasporto ferroviario delle merci si preferisce proprio non parlare, se non con le intenzioni di buona volontà adatte alle pubbliche occasioni, lastricate poi di pessime decisioni di politica dei trasporti.

Anche nelle discussioni di queste settimana attorno al tema dell'alta velocità, al più si sottolinea la necessità di riequilibrare il sistema per soddisfare anche la domanda di trasporto dei pendolari, soprattutto nelle grandi aree metropolitane. Le merci, che non hanno voce, continuano, ragionevolmente sempre di più, a viaggiare tranquillamente sui camion.

«Cambiamo aria. Andiamocene via, mi dice mia moglie. Io invece penso: aspettiamo, saranno i bambini a decidere per noi perché se qui non riparte nulla, loro dovranno per forza andarsene». Massimo parla e si tiene la testa che sembra scoppiare. Dalla notte del 6 aprile la sua vita va avanti allo stesso modo: sveglia alle 5 e 30, navetta, pullman Pescara-L’Aquila alle 6 e 30. La strada a quattro corsie corre, il caos comincia quando ti avvicini: scuole, zona industriale, centri commerciali, container che fungono da sede degli uffici, baracchine commerciali, tutto si concentra agli svincoli autostradali. Il paradosso è questo: L’Aquila è una città deserta, L’Aquila - o meglio, la “non città” che si distribuisce intorno al nucleo storico - è invivibile per la congestione del traffico.

Alla sera, quando Massimo si prepara per L’Aquila-Pescara, la testa scoppia. Il problema principale, però, da settembre non è più il suo ma quello dei suoi figli, due bambini di sette e tredici anni. Soprattutto il piccolo non ce la fa più: «Li abbiamo iscritti qui per non perdere il diritto alla C.A.S.A.». La casa su piattaforma antisismica avrebbero dovuto consegnarla per il 20 novembre circa, «invece sembra che non se ne parli sino alla fine di febbraio». Il terreno agricolo di Massimo è stato espropriato ma per la sua famiglia, che dovrebbe rientrare nelle graduatorie, non si è trovato posto. Chi gestisce le graduatorie? «Non si capisce, se vai alla Protezione civile ti dicono che è il comune, se vai al comune scaricano sulla Protezione civile». Però: «Bisogna ammettere che l’emergenza è stata gestita benissimo. Per me no, non è andata bene, ma per gli altri sì». Massimo ripete il mantra che ripetono in molti ma che non tiene insieme l’infelicità di ciascuno con il messaggio che passa a reti unificate: «L’emergenza è stata gestita bene» ma la depressione si taglia con il coltello: Roberto faceva il barista, la cassa integrazione è scaduta il 18 dicembre. E ora? «Mi arrangio in un altro bar, aspettando che il vecchio datore di lavoro decida se vale la pena di riaprire o se il nuovo possa assumermi senza pagare contributi per i primi due anni. Se tutto va male dovrò andare via».

LUCI SOLO PER LE TV

Sul corso Federico II brillano tristi lucine natalizie a beneficio delle sole telecamere (si registrava Porta a porta), perché nessuno vive qui e quasi nessuno viene a passeggiare lungo un percorso che a destra e a sinistra mostra ponteggi e macerie. Le famiglie si riuniscono dove sono, negli alberghi lungo la costa, ad Avezzano, a Pescasseroli. Nelle case assegnate, nelle caserme. Si avvicina il momento di ricordare chi non ce l’ha fatta, di stare vicino a chi è stato più colpito dai lutti. Davanti al cantiere di piazza Duomo ha riaperto la pasticceria delle sorelle Nurzia. Si forma una piccola, paziente fila per il rito natalizio dell’acquisto dei torroni. Tutto procede con difficoltà e lentezza ma nessuno si lamenta. Nella fila e al bancone, il dilemma si ripete: andarsene, partire, ricominciare la vita altrove. Oppure combattere, restare, sperare, nel decreto che posticipi le tasse, nella istituzione della zona franca che darebbe una spinta alla ripresa.

Intanto sono già 14mila le persone che mancano all’appello.Sono quelle che hanno accettato il contributo per la sistemazione autonoma e che, probabilmente, non torneranno più. Non poche in una città che faceva 70 mila abitanti. Nella villa comunale un gruppo di cittadini, insieme a sindacati metalmeccanici e centri giovanili come il 3.32 ha deciso di creare un albero di Natale: una delle piante secolari raccoglie i messaggi, i desideri, racconta di ciò che c’era e che non ci sarà più, che nessun Babbo Natale sarà in grado di portare: il lavoro per i 39 messi in mobilità della Cns, per esempio, che produceva componenti elettroniche e che ha deciso di chiudere perché, spiega la lettera che annuncia la messa in mobilità, «le cose vanno sempre peggio». Fra le cose che c’erano e non ci sono più c’è la fotografia della movida del giovedì sera, quando l’Aquila era la città degli studenti.

L'ultima crepa nel cortile di Palazzo Carli s'è aperta l'altra notte. Pioggia e neve riempiono d'acqua le storiche pareti, il ghiaccio le gonfia e le fa «scoppiare». Puntelli e «fasce» tengono in piedi la sede del Rettorato universitario, ma non lo proteggono. Ed è quello che accade in tanti altri edifici storici: l'Aquila si sta sbriciolando. Vanamente un centinaio di persone - operai e vigili del fuoco - continuano ogni giorno a intrecciare legno e ferro per «legare» tra loro le pietre. Secondo l'ingegner Marchetti della Protezione civile, dal punto di vista edilizio «l'inverno farà più danni del terremoto», soprattutto sul patrimonio storico. Alla frantumazione del tessuto umano e sociale ora segue quella che va in scena tra vicoli, strade e piazze della «zona rossa».

Anche a Palazzo Margherita - sede di un consiglio comunale costretto a tenere sedute all'aperto per chiedere la proroga dell'esenzione fiscale - l'intrico di puntelli, la selva di tubi innocenti e di fasciature in legno non ferma l'opera del generale inverno. Sembra un'amara beffa l'affresco di Fulvio Muzi: fascismo, guerra, resistenza e ricostruzione - un sol dell'avvenire che spunta sullo sfondo - con stile realista guardano dalle pareti dell'aula consiliare la rovina reale del 6 aprile 2009, le macerie attorno a banchi da allora mai più toccati, con ancora le cartelle ormai impolverate, ma ciascuna al suo posto, di sindaco, assessori e consiglieri. Tutto sembra fermo, nel centro dell'Aquila. Complice la legge sullo smaltimento dei rifiuti solidi e urbani, le macerie sono ancora quasi tutte lì. E ogni tanto il maltempo ne aggiunge qualcuna.

Pompei 2010

Finora sono stati spesi 20 milioni di euro per «la messa in sicurezza» e si arriverà a quota 50. Ma sono soldi che non bastano a tenere in piedi un centro storico in cui prima del terremoto viveva un quinto dei 73.000 abitanti dell'Aquila, più qualche migliaio di studenti non censiti. Non bastano nemmeno per dare un futuro agli edifici storici, mentre si attende una ricostruzione solo annunciata. Per ora l'unica certezza - si fa per dire - sono le «linee guida» che dovrebbero essere varate in primavera: poi si potrà iniziare, per attingere - attraverso Fintecna - ai 3 miliardi scaglionati tra il 2010 e il 2033.

Per il momento i soli segni di vita - puntellanti a parte - sono il chioschetto di fronte a san Bernardino, lo storico locale «JuBoss» e il bar «Nurzia» che hanno riaperto da qualche giorno: isole di vita nel deserto, imbarazzanti nella loro ricerca di una «normalità» che dia qualche speranza al futuro, come la richiesta del capodanno in centro fatta dalla professoressa Giusi Pitari e sostenuta da 1.500 aquilani - via Facebook, ovviamente. Mentre l'Aquila di oggi sembra una moderna Pompei, triste mèta del turismo da terremoto. Mentre i tanti aiuti internazionali promessi durante il G8 tardano ad arrivare, perché i grandi del mondo a luglio hanno adottato le più belle opere d'arte e promesso milioni, ma quelle ancora aspettano che se ne ricordino. Mentre gli abitanti sopravvivono sparsi tra alberghi, caserme, new village e casette; e il 5% di loro si è già arresa, decidendo di costruire il proprio futuro altrove, lontano dalla dispersione della comunità e delle relazioni sociali imposta dal modello Bertolaso.

La spiegazione di come siano andate le cose in questi mesi ce la dà un operaio cassintegrato (18.000 sono i posti di lavoro persi o «sospesi» in questi mesi a l'Aquila tra mobilità, licenziamenti e Cig): «Io e la mia famiglia siamo costati finora allo stato 40.000 euro. La nostra casa ha danni per 28.000 euro: se ce li davano subito, avrebbero risparmiato e noi saremmo più felici». Invece tutto è rimasto fermo: non che fosse facile, ma un piano di ricostruzione poteva essere avviato subito, soprattutto per gli edifici con piccole lesioni e ne avrebbe tratto vantaggio anche il centro storico. Invece tutti gli sforzi si sono concentrati sul «piano C.a.s.e.», sui new village, perché l'obiettivo era «dalle tende alle case», perché Berlusconi e Bertolaso hanno abbandonato il «modello Friuli»: niente container o roulotte né ricostruzione «dove e come prima», perché - è stato detto - «prima dell'inverno tutti avranno una casa perfettamente arredata».

Tra C.a.s.e. e «casette»

Molto spettacolare, perfetto per le cerimonie di inaugurazione in tv, efficace come strumento di propaganda e di raccolta di consenso (l'Abruzzo e i rifiuti di Napoli sono le due «perle» del governo Berlusconi, così si dice). Peccato che non funzioni, se non molto parzialmente e che i tempi promessi non siano stati rispettati: le tendopoli sono state tutte smontate entro il 30 novembre, ma a metà dicembre, sotto la neve, solo 8.000 persone hanno trovato un tetto «nuovo» in uno dei 19 siti scelti per le «C.a.s.e», un migliaio hanno avuto una «casetta» provvisoria (in gergo Map), mentre quasi 20.000 sono sparse tra alberghi, affitti in case private e caserme; a progetto ultimato - e l'inverno sarà quasi finito - saranno poco più di 16.000 nei New village, il 50% degli aventi diritto, cioè di quelli la cui abitazione è stata valutata inagibile.

Peccato, poi, che costi molto e che il modello Berlusconi-Bertolaso abbia assorbito la gran parte dei fondi finora stanziati: un terremotato assistito - in tenda, albergo o caserma - costa circa 50 euro al giorno, la media del costo di un appartamento «C.a.s.e» è di 120.000 euro, l'intero progetto si porta via 700 milioni di euro. Il decreto Abruzzo ha previsto una spesa per il 2009 di un miliardo 152 milioni di euro, cui si dovrebbe aggiungere un'imprecisata - ma consistente - cifra derivante dalle tante sottoscrizioni fatte in Italia e nel mondo: tutto è finito nel calderone della gestione corrente a disposizione della Protezione civile. Se si fosse fatta la scelta dei container - come in Friuli, come in Umbria e nelle Marche - il costo dell'assistenza e dei primi soccorsi sarebbe stato dimezzato, a favore di una ricostruzione da avviare subito. Ma sarebbe stato molto meno spettacolare. E, probabilmente, anche molto meno lucrativo, visto che l'unica industria fiorente del post-terremoto è l'edilizia, quella stessa che - risparmiando sul cemento - ai disastri del terremoto aveva contribuito. Nel cantiere edile più grande d'Europa chiamato l'Aquila, sono arrivate imprese da ogni parte d'Italia, ma gli abruzzesi non mancano. E oltre alle «C.a.s.e», in attesa della ricostruzione modello Fintecna, un discreto affare è costituito dai Mar (moduli abitativi removibili), una sorta di casette con le ruote che stanno affiancando i Map per sopperire all'insufficienza e ai tempi sbagliati dei New village: basta avere un terreno, anche non edificabile, anche in zona alluvionale, e l'amministrazione pubblica paga 34 euro al giorno per sfollato che vi viene sistemato.

Tra affari passati e futuri, tutta l'attenzione degli sfollati è per la lotteria delle assegnazioni, per il «modello Topazio» che - attraverso un intricato incrocio di dati - stabilisce l'ordine di entrata di ciascuna famiglia nei villaggi «C.a.s.e.». Una classifica difficile da comprendere, che penalizza gli anziani e privilegia i «soggetti produttivi», che non tiene conto del reddito, ma che - alla fine - è banalmente condizionata dai tempi di consegna del complesso cui ciascuna famiglia viene assegnata. Così capita che vicini di casa con famiglie simili per età, numero di componenti e reddito finiscano ai due capi della città ed entrino nel nuovo appartamento a tre mesi di distanza. Alfredo Fegatelli e Monica Pizzetti, prima del terremoto erano vicini di casa, abitavano con le loro famiglie a Bagno piccolo in palazzine costruite in cooperativa. Ma edificate talmente male che - benché terminate nel 2001 - il terremoto ha piegato in maniera irreversibile. Ora, dopo aver vissuto in una tendopoli autogestita ai piedi delle loro vecchie abitazioni, Monica vive a Cese di Preturo dal 29 settembre, Alfredo è appena entrato in un appartamento di Sant'Elia. Quel che li tiene assieme e nutre l'amicizia delle loro famiglie - in giornate per metà perse nel traffico - è il progetto di ricostruzione di nuove palazzine al posto di quelle da buttar giù, sempre in cooperativa, sempre insieme agli altri 58 ex vicini di casa. Attualmente sistemati in appartamenti che hanno trovato pronti per l'uso, in edifici costruiti talmente in fretta da mostrare già qualche crepa. Sparsi sul territorio di una città sbriciolata, nel corpo e nell'anima.

Mercoledì 16 dicembre: parto da Bologna alle 8.47, arrivo previsto a Roma, 10.55. Tempo bello, cielo terso. L’impiegato del Club Eurostar mi consegna il biglietto con una punta di orgoglio: «Ce l’abbia mo fatta, adesso si va a Roma in due ore!». Per una pendolare fissa come me è una bella notizia.

Il treno arriva con 10 minuti di ritardo, a Firenze ne ha già accumulati altri 20. Mi siedo nel salottino vuoto perché devo fare molte telefonate e non voglio disturbare. Quando passa il controllore allungo i 10 euro di supplemento. «Da una settimana sono 20 euro» mi dice. Anche se me li rimborsa la Rai, 20 euro per un treno in ritardo non glie li do; mi alzo e torno a sedermi al mio posto sulla carrozza 3.

Arrivo a Termini con 35 minuti di ritardo. Mi infilo al Club Eurostar per chiedere il rimborso. Una signora guarda il biglietto edice: «Ripassi fra 20 giorni, perché deve essere lavorato». Lavorato?

«Si», dice «adesso c’è tutta un’altra procedura ». Imbufalita vado a prendere il taxi. Due giorni dopo sono di nuovo lì, in anticipo sulla partenza e con il tempo a disposizione per capire meglio questa storia del rimborso. Tre persone in fila e un solo sportello aperto. Dal nulla compare una mastina che sbarra la strada a quei pochi passeggeri che varcano la porta automatica del club, e gli chiede di esibire la tessera associativa. A lei domando informazioni sul bonus, ma non sa nulla, è lì solo per impedire l’ingresso agli abusivi. Quando è il mio turno l’impiegata mi dice che, dal 13 dicembre, con 35 minuti di ritardo non si ha più diritto al 50% di rimborso, «sta scritto nel regolamento europeo al quale abbiamo dovuto adeguarci» e mi allunga un malloppo di 40 pagine.

Lo sfoglio, trovo il riferimento al rimborsoin caso di ritardi, ma non ci sono indicazioni specifiche. Mi indigno, arriva un’altra impiegata, guarda anche lei, e poi scompare dentro un ufficio a consultare internet. Alla fine il mio treno parte e ne so come prima. Le carrozze sono piene, ma i salottini viaggiano vuoti.

Chiacchiero con il capotreno che mi dice «è stato fatto un gran can can per andare sui giornali e in televisione a dire che si accorciano i tempi, ma la Firenze Bologna non si riesce a fare in mezz’ora, in pratica ci vuole ancora lo stesso tempo di prima e il rimborso del 50% del biglietto te lo danno solo con 2 ore di ritardo». E in effetti quando scendo a Bologna il tempo di percorrenza è sempre di 2 ore e 40. Il capotreno mi saluta e sussurra «i 37 chilometri di tunnel, sa, sono un problema». Quel tunnel lo percorrerò tutte le settimane, penso, mentre vado verso casa con in mano un gianduiotto gentilmente offerto dal personale di bordo, è in carta argentata con scritto «frecciarossa».

Epilogo: le ferrovie spagnole rimborsano il 50% del biglietto AV per ritardi superiori ai 15 minuti e il 100% sopra i 30 minuti. Francia e Germania il 25% dai 60 ai 119 minuti, il 50% se si superano le due ore. Quindi Trenitalia si è adeguata alle condizioni dei due paesi europei noti per la puntualità dei loro treni. Poco puntuale è invece anche il sito di Trenitalia dove nell’area clienti, all’indice «bonus previsti» trovi scritto: «Se il treno AV, AV Fast, ES su cui si viaggia porta più di 25 minuti di ritardo hai diritto al 50% del prezzo pagato». Buon Natale, ingegner Moretti.

Nell’ultima settimana, le conseguenze dell’avvento del regime dell’alta velocità sui molti cittadini che ne pagano il costo senza riceverne alcun beneficio, anzi subendone spesso pesanti disagi, sono state segnalate dalla stampa. C’è, però, il forte rischio che le lagnanze si esauriscano in un mugugno rassegnato e che non si capisca che. dopo averci portato via i treni, stanno per rubarci anche le stazioni e la terra sulle quali queste insistono.

Contestualmente allo smantellamento del servizio ferroviario pubblico, infatti, trenitalia e i suoi complici, incluse le amministrazioni comunali di destra e di sinistra che ne avallano e propagandano i progetti, stanno ora dando l’assalto finale alle stazioni.

La funzione della stazione - la sua mission come dicono i manager o la sua natura ontologica come direbbero i sindaci filosofi - non è più quella di luogo dove si arriva e si parte, ma di centro commerciale nel quale può succedere di prendere un treno, un po’ come avviene al supermercato dove i bambini vengono depositati sulle giostrine mentre i genitori si dedicano allo shopping.

Gli interessi fondiari e immobiliari in gioco sono noti, ma ci sono almeno altri due aspetti che meritano di essere considerati con attenzione e che riguardano il modello di organizzazione del territorio e di organizzazione della società che viene perseguito e rafforzato attraverso tali operazioni.

Innanzitutto, sta passando inosservata la prossima attribuzione delle stazioni ai soli freccia rossa e la espulsione degli altri treni, se ne rimarranno, in luoghi a parte, che fa perfino rimpiangere la “terza classe” degli anni ’50. Rispetto alla segregazione fisica fra le diverse fasce della clientela, la terza classe, simbolo evidente delle disuguaglianze sociali e di reddito, almeno imponeva ai viaggiatori la visibilità reciproca. Inoltre, ritardi e disservizi colpivano un pò tutti. In un certo, si poteva dire di essere sullo stesso treno, perché se anche i viaggiatori non erano necessariamente animati da simpatia reciproca, i vagoni erano fisicamente solidali.

Ora, invece, la terza classe è stata sganciata, ed i suoi vagoni e viaggiatori considerati un fardello che intralcia gli affari sono costretti a spostarsi su un altro binario.

Dall’altro lato, se è stato spiegato come la speculazione sulle stazioni e sulle aree circostanti, veri e propri condensatori di rendita urbana, sia parte di un generale progetto di ristrutturazione delle città, non vengono denunziati in modo sufficientemente esplicito gli esiti perversi di un modello territoriale basato sulla retorica esaltazione della rete e dei nodi.

In un paese dove ogni città viene trasformata in parco tematico, infatti, il destino delle stazioni è di diventare “tappe” di una gigantesca disneyland a livello territoriale, nella quale torme di turisti passano da un’attrazione all’altra – da un ponte di Calatrava ad un grattacielo di Piano – che spesso coincide con la stessa stazione.

Si può parlarne?

L'icona è la locandina originale del film "The Great Train Robbery", girato nel 1903 da Edwin. S. Potter. Nel film i banditi venbgono sconfitti e il bottino recuperato. Speriamo anche noi!

La ricostruzione a L’Aquila sta prendendo una direzione che preoccupa il Consiglio superiore per i Beni culturali, il principale organo consultivo del ministero. E il motivo è molto semplice, come si può leggere in una mozione approvata all’unanimità: si sta abbandonando a se stesso il centro storico, che non è solo un luogo di memorie antiche, ma anche un cuore pulsante senza il quale l’organismo urbano rischierebbe il collasso. Se la città si svuotasse «diventerebbe una Pompei, o peggio». L’insediamento dell’Aquila era articolato in numerose frazioni, si legge nel documento, promosso dal presidente Andrea Carandini, ma dopo il terremoto «si sfilaccia ancor più, per la distruzione dei villaggi e del centro urbano aggregatore, e anche per la costruzione di venti insediamenti nuovi e stabili, che, comunque, creeranno alcuni problemi».

Il Consiglio esprime pareri non vincolanti. Ma appare molto forte la preoccupazione, spiega lo stesso Carandini, «che il territorio possa far sparire la città, che possa mancare un centro». La ricostruzione, invece, si fonda prevalentemente sui nuovi insediamenti, i villaggi che prendono forma nelle campagne intorno a L’Aquila. E ciò, si legge ancora nella mozione, produce pericoli seri: «In condizioni di questo genere e dopo lo svuotamento dell´Aquila il rischio della fine del centro storico è reale. Né la sua riduzione a quinta teatrale e a outlet del circondario può essere considerata una rinascita. Sono infatti i cittadini più che monumenti e mura a fare una città, per cui solo se gli aquilani torneranno nella città, L’Aquila sarà salva».

La mozione critica anche la carenza di fondi destinati al centro storico. Inoltre invita a selezionare bene le imprese che ricostruiranno. La via da intraprendere è quella del restauro, sulla base delle competenze acquisite nella ricostruzione del Friuli e dell’Umbria, insiste il Consiglio. Che si diffonde nel dettaglio anche sulle tecniche di intervento: «La progettazione della conservazione e del restauro dovrà mirare a recuperare e valorizzare tutte le strutture architettoniche rimaste, che rappresentano la memoria civile nello spazio e nel tempo della vita prima del terremoto».

Nei giorni scorsi di questi argomenti si è discusso in un convegno organizzato dall’Associazione Bianchi Bandinelli. È intervenuto anche il direttore generale dei Beni architettonici e paesaggistici, Roberto Cecchi, che aveva invece espresso molte riserve sull’efficacia dei restauri nel centro storico aquilano.

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