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Si è ristretto lo spazio pubblico, quello a verde, quello per i servizi della New Town di Bazzano. Con 21piastre antisismiche e 1200 appartamenti Bazzano è l’insediamento abitativo più vasta del progetto Casa, per realizzarlo sono stati espropriati terreni in gran parte agricoli. E, come gli altri del progetto Case, un dormitorio: per rendere vivibile una permanenza che non sarà breve si aspettano i servizi.Maora il decreto 3701 del capo della Protezione civile restituisce al proprietario una fetta significativa del terreno espropriato con il risultato di ridurre gli spazi per i bambini e per gli anziani, per le attività commerciali e sociali. Un decreto che modifica quello dell’agosto 2009, pare, in base ad un accordo preso in precedenza.

E che dà la misura di come il diritto, a L’Aquila, abbia confini molto labili con l’arbitrio. Dal primo febbraio scorso, infatti, Bertolaso non ha più i poteri di commissario che sono passati al presidente della Regione Gianni Chiodi.

Esempio numero due: piazza D’armi, nella parte nuova all’ingresso della città. Esiste un progetto dell’architetto Cucinella per spazi verdi, un teatro, un mercato. Ma al posto di tutto questo , su richiesta di padre Quirino Salomone, rettore di san Bernardino, è sorta una chiesa e una mensa ecclesiastica. Il sindaco Cialente dice: «Si tratta di strutture provvisorie, saranno rimosse quando il complesso di San Bernardino sarà ripristinato». Obietta una militante dei comitati cittadini, Pina Lauria: “La struttura provvisoria è costata 4 milioni, 3 sono venuti dalla Protezione civile, dalle donazioni degli italiani, uno dalla raccolta fondi del giornale il Centro. Quante case si sarebbero potute riparare con 4 milioni?”. Sono due situazioni che raccontano quello che un cittadino aquilano, Piero De Santis chiama, in assemblea: «Lo sfasamento».

“Quelli che non hanno niente da fare”, oppure gli ingrati, o ancora gli abusivi: così la destra benpensante in cerca di visibilità qualifica il popolo delle carriole. Ma sabato, il tendone dei comitati a piazza Duomo è stato teatro di un salto di qualità. Posti in piedi e presenze da grandi occasioni: ci sono il sindaco Cialente, il presidente della Regione Chiodi, il capo dell'unità di missione Gaetano Fontana. Sono lì ad ascoltare gli "ingrati" del Collettivo 99, del 3e32 , di Azzero CO2 che presentano i risultati del lavoro di uno dei "tavoli" in cui si è organizzata l'assemblea cittadina.

Il tema è la ricostruzione sostenibile: L'Aquila deve guardare al futuro: "Sarebbe un suicidio – dice Piero De Santis - costruire oggi con criteri antiquati, in deroga alle norme vigenti. Qui si fa tutto in deroga". Annalisa Taballone illustra la simulazione sulle 5400 case classificate E, quelle che hanno subito i danni maggiori. «Già adesso - spiega – gli interventi di riqualificazione energetica sono obbligatori e possono essere portati al 55% in detrazione. La nostra proposta è che quella stessa cifra sia assegnata dallo Stato a fondo perduto".Con a ricostruzione eco-compatibile "lo stato risparmierebbe11 milioni annui e i cittadini risparmierebbero sulle bollette".

Luca Santarossa, economista, spiega che puntare sulla green economy, significherebbe prendere di petto un'altra delle tragedie del terremoto: «Un piccolo distretto industriale per le energie rinnovabili darebbe un lavoro qualificato a circa mille degli 8500 disoccupati de L’Aquila».

Il confrontocon le istituzioni non è certo idilliaco ma molto civile. Ettore Di Cesare: "Chiodi ha detto a Porta a Porta ‘si procede col dovuto riserbo'. Ma quale riserbo? Abbiamo il diritto di sapere". Antonio Perrotti: «C'è un disegno dilatorio e fuorviante". Luca Santarossa: «Questi incontri lasciano il tempo che trovano. Ci vuole continuità di confronto». Dai rappresentanti istituzionali vengono alcune notizie importanti e alcune aperture. Intanto il calcolo dei costi sulla ricostruzione, per Cialente fra i 18 e i 20 miliardi per l'intero cratere. Per Fontana, solo su L'Aquila, 7miliardi e300milioni. Il 25maggio è programmato un incontro al ministero dell'economia. "Chiamate tutta la città", dice Perrotti, "facciamoci sentire". Mattia Lolli: “C’è una minaccia di sgombero per Case matte, eppure è proprio lì che i comitati elaborano le loro proposte”. Risponde il capo dell’unità di missione: “La prossima riunione facciamola a Case matte”. Per i comitati è una cosa importante ma non basta: chiedono regolamenti per lademocrazia partecipata. Sulla eco-ricostruzione Cialente, Chiodi e Fontana sembrano addirittura rilanciare: per le prime case classificate E il contributo pubblico copre tutti i costi. Ma i problemi cominciano con le seconde case, secondo Fontana “il ragionamento dovrebbe essere non sul singolo alloggio ma sulla ricostruzione della qualità urbana”. Bisogna vedere se Tremonti farà orecchie da mercante.

Un pasticcio dietro il quale può celarsi il solito maledetto imbroglio: un nuovo maxi-condono edilizio. Il terzo da quando il Cavaliere-immobiliarista è sceso in campo. Disastrosamente per il Belpaese, in ogni senso. Così si può sintetizzare l’idea del duo Berlusconi-Tremonti di immettere nella manovra straordinaria la regolarizzazione catastale delle cosiddette “case fantasma”, peraltro già in atto in forma ordinaria. Da sola essa è infatti destinata a fruttare poco più di 1,5 milioni di euro. Che balzerebbero tuttavia a 6 (sulla carta) con un nuovo condono. Un gioco di sottomano. Per il quale la spesa dei Comuni sarebbe, come si sa, più alta del ricavato, a meno di non riuscire ad esigere sull’unghia dai condonati sanatoria e oneri di urbanizzazione evasi. Operazione delle più accidentate per “fare cassa”. Delle più facili, invece, per incoraggiare altro abusivismo edilizio, sovente promosso, totalmente “in nero”, dai vari racket, con ricadute spaventose – come testimoniano le continue frane omicide – su periferie, campagne e paesaggio. Secondo i dati di Legambiente, il 45 % degli illeciti edilizi si concentra in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, al quale va aggiunto l’8,3 di Roma.

Cerchiamo di capirci qualcosa di più. Dal 2007 l’Agenzia del Territorio sta indagando su due differenti tipologie: a) le case fantasma, appunto, sconosciute al fisco, circa 2 milioni, individuate sovrapponendo alle mappe catastali (aggiornate, di fatto, soltanto nelle ex asburgiche Trieste e Gorizia) le fotografie aeree del territorio; b) i fabbricati ex rurali, circa 870.000, già nei catasti comunali e che però possono non essere più pertinenze agricole. Si sa così per certo che le case fantasma si trovano soprattutto al Centro-Sud, col record assoluto di irregolarità a Salerno, seguita da Roma e Cosenza; col primato per Kmq a Napoli e Avellino (ma fra loro c’è Varese, patria di Umberto Bossi), e con quello per densità ogni 100 abitanti ad Avellino, Viterbo e Potenza.

Gettito stimabile, 1,5 miliardi, forse qualcosa di più. Ma unicamente se i titolari di questi fabbricati fantasma (sono anche box, capannoni, laboratori, ecc.) decideranno di pagare tutto e subito in termini di Ici, Irpef e tassa rifiuti sin qui evase. Tuttavia questi edifici fantasma è probabile che siano anche abusivi. In tal caso dovrebbero essere affidati alle ruspe. Ecco allora spuntare un nuovo condono. Poderoso, vergognoso, immorale incentivo, in ogni caso, ad altre illegalità edilizie diffuse, ad altre cementificazioni dissennate e criminali. A quel punto lo Stato italiano – accentrato, decentrato, regionale o federale che si voglia – potremo considerarlo inesistente. Cioè, anch’esso, fantasma. Come 2 milioni di fabbricati che, pare incredibile, lo popolano, a sua insaputa.

la Stampa

Immobili fantasma. I Comuni aprono alla sanatoria

di Alessandro Barbera

Sarebbe il terzo condono edilizio del governo Berlusconi in sedici anni. Il primo risale al 1994, il secondo al 2003. Gli esperti del settore lo aspettano da tempo, come se si trattasse dell’inevitabile cura ad un male impossibile da debellare, l’abusivismo. Se le indiscrezioni verranno confermate, si tratterà di una delle voci più importanti della manovra da 28 miliardi che il governo dovrebbe varare la prossima settimana: sei miliardi di gettito stimato per mettere in regola più di due milioni di immobili. Fabbricati censiti dall’Agenzia del Territorio, ma in molti casi sconosciuti a catasto e al fisco. Le reazioni delle associazioni ambientaliste e dell’opposizione sono tutte negative: Legambiente, Pd, Italia dei Valori su tutti.

La questione ieri ha tenuto banco in una lunga riunione fra Giulio Tremonti, Roberto Calderoli e i vertici dell’Anci guidati da Sergio Chiamparino. «Non abbiamo discusso di questo, e comunque non siamo entrati in dettagli tecnici. L’Anci era e resterà contro i condoni indiscriminati», spiegherà il sindaco. «Però è bene chiarire una cosa: su questi temi è inutile mettere la testa nella sabbia. Quando si discute di immobili fantasma, non si parla necessariamente o solo di abusi. Quando mi capita di volare sui tetti di Torino, e mi capita spesso, non ho mai avuto la sensazione di vedere un panorama diverso da quello delle mappe catastali. Eppure quando abbiamo provveduto a rivedere gli estimi abbiamo trovato di tutto». Da immobili di lusso accatastati come rurali a diritti di cubatura realizzati e non denunciati.

Sanatoria a parte, sulla quale i Comuni attendono ragguagli, Chiamparino ha deciso di tenere aperto il dialogo con il governo. «Ci è stato chiesto di farci carico della partecipazione ad una manovra che ha un evidente interesse nazionale ed europeo. Siamo pronti a fare la nostra parte come Anci a due condizioni: che ci siano le risorse mancanti nel 2010 e una ridefinizione del patto di stabilità interno». La manovra prevede un taglio alle spese dei Comuni pari a due miliardi di euro per il 2011, altrettante per il 2012. In cambio l’Anci ha già ottenuto il sì a 500 milioni di maggiori risorse nel 2010 per coprire alcune voci di spesa, fra cui quelle legate alle prestazioni sociali, mentre è ancora oggetto di trattativa il Patto di stabilità. I Comuni sono disposti a rinunciare ad un po’ di risorse purché il governo renda più flessibile la gestione dei bilanci, e di fatto gli conceda anche più autonomia nell’imporre le tasse.

L’emersione e regolarizzazione degli immobili fantasma, secondo le stime del governo, da sola basterebbe a restituire ai Comuni ciò che la manovra gli toglierà. E’ uno dei pezzi del più complesso mosaico del federalismo fiscale al quale il governo lavora da tempo. Se sarà rispettata la tabella di marcia di Tremonti e Calderoli, nel prossimo decreto attuativo, entro l’estate, ci saranno anche le norme che dovrebbero permettere l’attribuzione ai Comuni del catasto.

Tremonti e Berlusconi

Dopo aver speso la terza sera consecutiva a discutere (e litigare) dei contenuti della manovra, ieri Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi si sono divisi i compiti. Il ministro dell’Economia, prima di incontrare l’Anci, è salito al Quirinale per mettere al corrente Giorgio Napolitano su come procede il lavoro sulla manovra.

Se tutto andrà come lui vorrebbe, quando il Capo dello Stato sarà rientrato dalla visita di Stato negli Stati Uniti, il provvedimento sarà stato approvato. Nel frattempo il premier, collegandosi via telefono con una manifestazione Pdl, ha teso a rassicurare sui contenuti. «La manovra non sarà punitiva, non colpirà la sanità, né la scuola, né l’università». Neanche una parola sulle voci di dissidi con Tremonti, il quale nel frattempo, avrà nuovamente contatti riservati con i vertici di Cisl, Uil e Confindustria.

Le misure

Tremonti resta determinato a chiudere la partita entro martedì, al massimo mercoledì. Teme ripercussioni sui mercati e le lamentele delle tante categorie chiamate a dare un contributo alla manovra. Ieri, saputo del blocco contrattuale esteso anche alle forze di polizia, sono insorte tutte le associazioni di categoria: Silp, Siulp, Sap. I medici insorgono contro la possibile reintroduzione di un ticket da 7,5-10 euro sulla specialistica, il Comune di Roma dice no all’ipotesi di introdurre un pedaggio per il grande raccordo anulare di Roma. La protesta più insidiosa per Tremonti resta però quella, invisibile al pubblico, degli alti burocrati. La manovra prevede il taglio del 10% e per due o tre anni (la prima bozza non lo specifica) della parte di retribuzione eccedente i 75mila euro l’anno. Dal taglio sono interessate pressoché tutte le categorie, tranne coloro che ricevono solo una retribuzione da contratto. Di tutte le norme volute da Tremonti, è quella che gli ha provocato più problemi nel governo e con Berlusconi.

la Repubblica

Abusi edilizi, 5 miliardi dalla sanatoria

fuori legge un milione e 300mila case

di Luisa Grion

C´è un piano già pronto ed è anche già pronta la «scusa» per farlo passare. Uno dei piatti forti della manovra del governo Berlusconi potrebbe essere ancora una volta il condono edilizio, o meglio una nuova edizione di quello già «scaduto» nel 2004.

Far emergere i due milioni di case «fantasma», non registrate al Catasto, non basterà infatti a far quadrare le misure sui conti pubblici. Dal controllo incrociato fra la mappatura fotografica realizzata dall´Agenzia del Territorio e le abitazioni effettivamente denunciate dai proprietari potrebbe derivare un gettito non superiore al miliardo e mezzo di euro. Dal settore edilizia invece il governo conta di ricavarne 6. La differenza potrebbe appunto essere colmata riaprendo i termini del vecchio condono. Tanto più che - da quanto risulta a Legambiente - in Italia sono fuorilegge 1.296.000 case.

La scusa per riprendere in mano il provvedimento scaduto è questa: c´è una regione, la Campania, che è stata esclusa dalle misure varate nel 2004; riaprire i termini - dunque - vorrebbe dire «dare a quei cittadini le opportunità di esercitare un diritto riconosciuto agli altri». E´ così infatti che sulla questione si è più volte espresso il senatore del Pdl Carlo Sarro che del «caso Campania» ha fatto una questione personale. Il vecchio condono permetteva infatti di sanare gli abusivismi effettuati fino a marzo 2003 attraverso una domanda da presentare entro il 2004. Ma l´amministrazione campana di allora (giunta Bassolino) - sostiene un gruppo di senatori Pdl capitanati da Sarno - propose una interpretazione restrittiva che ne impedì l´adesione. Stessa cosa - commentano - avvenne per parte della cittadinanza marchigiana e emiliana. Ora, visto che in seguito la Corte costituzionale dichiarò illegittimi due provvedimenti sull´abbattimento degli immobili varati dalla regione, i termini vanno riaperti. Con buona pace della difesa del territorio.

Di fatto Sarno e i colleghi campani già lo scorso febbraio avevano presentato un disegno di legge che - riferendosi sempre agli abusivismi commessi entro il 2003 - chiedeva di prorogare la sanatoria alle domande presentate entro dicembre 2010. Poche settimane prima avevano provato, senza successo, a far passare lo stesso testo nel decreto Milleproroghe. Ora siamo al terzo tentativo: c´è già un piano di condono pronto e c´è la «scusa» per farlo passare. Non solo, ad aprile il governo ha varato un decreto che blocca le demolizioni degli immobili in Campania (come promesso dal Pdl in campagna elettorale) fino al giugno 2011 per «fronteggiare la grave situazione abitativa nella regione».

La base per lanciare un nuovo condono è dunque definita, ma Legambiente è pronta a dare battaglia. «Si annuncia una sanatoria di proporzioni mai viste, la più grande mai realizzata nel paese - commenta il presidente Vittorio Cogliati Dezza - Se così sarà il territorio subirà la mazzata finale, sarà riattizzata la piaga dell´abusivismo edilizio, restituito fiato e ossigeno alla malavita organizzata che sul ciclo del cemento illegale vive e vegeta. Risanare i conti pubblici svendendo l´Italia a furbi ed ecomafiosi è una scelta che non potrà che ritorcersi contro il paese e la sua crescita». Varare condoni - sostiene Legambiente - alimenta il vizio: solo dal 2003 ad oggi sarebbero sorte altre 210 mila costruzioni abusive.

il manifesto

Il fantasma del condono

di Antonio Sciotto

Tremonti infila nella manovra l'ennesima sanatoria, quella degli immobili «fantasma» e degli altri abusi edilizi. Che dovrebbe portare al governo 6 miliardi e mezzo sui 27 previsti

Nella manovra tutta-tagli messa a punto dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti ci sarebbe anche il condono edilizio. Ieri l'opposizione e le associazioni ambientaliste sono insorte, anche perché questa volta per il paesaggio sarebbe un colpo durissimo: l'entità del «sanato» sarebbe infatti ben maggiore rispetto ai passati condoni (ben 3 dal 1985), dando l'ok praticamente a qualsiasi immobile. Anche quelli costruiti abusivamente nelle zone più vincolate per motivi storici e naturalistici. Un vero mostro.

L'allarme viene dai senatori del Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, che hanno analizzato la voce di gettito messa in bilancio da Tremonti: «Si tratta di sei miliardi - spiegano - Vuol dire il doppio del gettito atteso dall'ultimo condono, quello varato nel 2003 dal tandem Berlusconi-Matteoli, e significa che in questo caso verrebbero ammessi alla sanatoria anche gli immobili abusivi realizzati in aree vincolate e quelli frutto di grandi speculazioni che vedono spesso coinvolte le ecomafie. Davvero un bel regalo per la criminalità organizzata, e un bello schiaffo per i cittadini onesti». Netto no al condono anche da Verdi e Idv.

Quante sarebbero le costruzioni coinvolte nella sanatoria?Si tratterebbe di oltre due milioni di immobili «fantasma», sparsi in tutto il Paese, scoperti nel 2009 incrociando le mappe catastali e le immagini satellitari di Google. Come spiegava una settimana fa sul manifesto l'urbanista Paolo Berdini, «solo con un controllo limitato al 25% dell'intero territorio si è scoperto che mancavano all'appello 571 mila edifici. Oltre due milioni sull'intero territorio nazionale, costituiti per lo più da immobili che hanno deturpato i luoghi più belli del paese e il paesaggio agricolo. Sono le ville di Ischia, della costa amalfitana, dell'Appia antica, delle coste siciliane e calabresi».

Questo sarebbe già il quarto condono edilizio realizzato in Italia, dopo quello del governo guidato da Bettino Craxi (1985), e i due di Berlusconi (1994 e 2003). Senza contare, ovviamente, il recente Piano Casa, anch'esso un lasciapassare all'abusivismo, per fortuna in gran parte arenato nella sua applicazione. Ma intanto, anche solo annunciando i condoni, si invita chi vuole fare abusi a costruire, tanto poi potrà sanare.

Quest'anno ci sono già stati due tentativi di varare dei condoni, su iniziativa della maggioranza. A provarci a fine gennaio erano stati i senatori del Pdl Carlo Sarro e Vincenzo Nespoli con un emendamento al «milleproroghe». La sanatoria riguardava gli abusi edilizi commessi fino al 31 marzo 2003: tutti gli interessati avrebbero potuto presentare domanda anche nel caso in cui avessero già ricevuto in passato uno stop alla loro richiesta di condono. Venivano poi bloccati tutti i procedimenti sanzionatori avviati. L'emendamento è stato fermato dalla dichiarazione di inammissibilità da parte della Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama.

Gli stessi senatori Pdl avevano poi presentato a metà febbraio un ddl: prevedeva la riapertura dei termini del condono scaduto a fine 2004 fino al 31 dicembre 2010 e dava la possibilità di estendere la sanatoria anche alle violazioni commesse nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico e ambientale. Il ddl non è poi andato avanti. Infine è di aprile lo stop alle ruspe che stavano abbattendo le case abusive in Campania: un decreto ha deciso, «al fine di fronteggiare la grave situazione abitativa nella regione», di sospendere fino al 30 giugno 2011 le demolizioni di immobili destinati esclusivamente a prima abitazione purchê riguardanti immobili occupati da famiglie sfornite di altra abitazione.

Ermete Realacci (Pd) lancia l'allarme sull'«effetto annuncio», pericoloso ancor prima del varo della legge: «Il solo effetto annuncio delle precedenti sanatorie Berlusconi, nel 2003 generò 40 mila nuove case illegali, con un incremento della produzione abusiva superiore al 41% tra 2003 e 2001. Lo stesso nel 1994: durante i mesi di discussione del provvedimento furono costruite 83 mila case fuorilegge».

Annuncia battaglia Vittorio Dezza, presidente di Legambiente: «Le costruzioni illegali, il cemento selvaggio e impoverito, l'assenza o il mancato rispetto di piani regolatori e paesaggistici - dice - in un paese ad altissimo rischio di dissesto idrogeologico portano danni non solo all'ambiente, ma come hanno dimostrato le cronache, anche in termini di vite umane».

CAGLIARI. Berlusconi l’aveva detto: il piano casa darà alle famiglie la possibilità di realizzare una cameretta in più per i bambini. Difficile pensare che il premier possa sentirsi stretto nelle sei ville galluresi in cui trascorre vacanze dorate con amici e stuoli di fanciulle.

Eppure è certo che una dalle sue società, la Idra Immobiliare spa, ha chiesto alla commissione paesaggistica regionale il pronunciamento di compatibilità per un progetto di ampliamento che riguarda la Certosa, prima residenza estiva del premier, teatro di festini e ricevimenti popolati di leader politici e veline: si tratta di un numero imprecisato di bungalow, strutture probabilmente abitabili piuttosto lontane dal corpo centrale della villa, che forse il capo del governo intende destinare agli ospiti. La richiesta è legata al primo piano casa, a quell’insieme di norme un po’ confuse varate dalla giunta Cappellacci all’alba della legislatura secondo le indicazioni del governo nazionale. Il piano paesaggistico regionale elaborato dall’amministrazione Soru impedirebbe qualsiasi aumento di volumetria nella sterminata area che circonda la residenza, ma grazie al piano casa regionale - ispirato dallo stesso Berlusconi - la Idra Immobiliare non dovrebbe avere alcuna difficoltà ad ottenere il nullaosta della commissione, malgrado alcuni componenti dell’organismo di valutazione abbiano manifestato perplessità: il terreno disponibile è vasto ma i bungalow, simili a tucul di disegno africano, provocherebbero un impatto visivo sgradevole. A confermare l’esistenza del progetto e dell’istanza di ampliamento è stato il presidente della commissione, l’artista Pinuccio Sciola: «Abbiamo fatto in tempo soltanto a dargli un’occhiata - ha spiegato il celebre scultore di San Sperate - ma il procedimento è in corso, la pratica risale a circa una settimana fa». Berlusconi, attraverso la Idra, già nel 2006 aveva realizzato pesanti interventi edilizi a villa Certosa e sulla spiaggia, imponendo il segreto di Stato. Dopo l’intervento degli ambientalisti e poi della Procura l’amministratore della società Giuseppe Spinelli era finito sotto processo a Tempio: tredici capi d’imputazione contestati dall’allora procuratore capo Valerio Cicalò, tutti riferiti ad abusi edilizi e violazioni delle norme ambientali. Spinelli però era stato assolto dal giudice Vincenzo Cristiano perchè una parte dei lavori era autorizzata e il resto risultava condonato in tempi diversi. Il nuovo progetto edilizio di Berlusconi sembra scorrere sui binari della piena legalità e sulla scia di atti pubblici: per ottenere il via libera dalla Regione la società immobiliare si è agganciata saldamente alle norme del piano casa, una corsia preferenziale disegnata dagli uffici dell’assessore all’urbanistica Gabriele Asunis per chi non si accontenta di quanto è già costruito. Così la blasonata e chiacchieratissima villa Certosa è finita nel calderone dei progetti di ampliamento piovuti sulla commissione del paesaggio, costituita poche settimane fa: fino ad oggi le richieste sono ventidue, quasi tutte riguardano aumenti di volumetria in superfici vicinissime al mare, alcune nella fascia dei trecento metri. Ci sono hotel, villaggi turistici e lussuose ville private: nessuna traccia di case familiari, nessuno sembra guidato dall’impellente necessità di realizzare uno spazio vitale per bimbi in arrivo. Alcuni progetti sarebbero di qualità imbarazzante: «È presto per dare giudizi - taglia corto Sciola - abbiamo appena avviato il lavoro, vedremo nei prossimi giorni».

La Forestale esamina tutti i progetti

Nuove cubature anche nei villaggi di Ligresti e di Mazzella

Il piano casa ha lanciato una nuova corsa al cemento e la procura della Repubblica ha deciso di verificare se le richieste avanzate da operatori turistici e privati, pronti ad allargarsi verso il mare, siano in linea con le norme del piano paesaggistico regionale e del codice Urbani. Non c’è ancora un’inchiesta: il nucleo investigativo del Corpo forestale è impegnato da giorni in uno screening dei progetti e degli atti conseguenti depositati nei comuni e negli uffici regionali. L’assalto alle coste è in corso: in provincia di Cagliari risultano istanze di accesso al piano casa presentate dal Tanka Village del gruppo Ligresti e dal Pullman-ex Timi Ama di Giorgio Mazzella, due strutture enormi che aspirano a occupare nuovi spazi sulla costa di Villasimius. Fra le residenze private candidate alla crescita spicca quella del leader dei Riformatori Massimo Fantola, a Santa Margherita di Pula: è sotto verifica da parte del Corpo forestale. Ma il numero delle istanze è destinato ad aumentare soprattutto grazie all’approvazione il 12 maggio del disegno di legge che precisa le competenze del Suap, lo sportello unico per le attività produttive creato dall’amministrazione Soru il 5 marzo 2008: doveva servire ad accelerare, fino a ridurli a venti giorni, i tempi delle pratiche autorizzative per l’avvio di un’iniziativa imprenditoriale. Una sorta di autocertificazione, utile per scavalcare le lungaggini burocratiche. Quella norma prevedeva una procedura semplificata anche per le autorizzazioni edilizie, ma non specificava se il riferimento fosse per gli edifici legati all’impresa: era scontato che lo fosse. Ma se la giunta Soru pensava solo a capannoni, fabbriche e uffici necessari per lavorare l’esecutivo guidato da Ugo Cappellacci ha fornito con il ddl un’interpretazione estensiva della norma, una rilettura esplicativa proposta dagli assessori all’urbanistica Gabriele Asunis e all’industria Sandro Angioni: la giunta ha chiarito che all’interno delle attività economiche e produttive per beni e servizi che hanno diritto alla procedura Suap sono comprese anche quelle edilizie ad uso residenziale. Come dire che una legge elaborata per agevolare l’impresa ha finito per aiutare i privati. La via da seguire è molto semplice: chi progetta di costruire un hotel, ma anche una villa, può rivolgersi a una ditta, che a sua volta presenta l’elaborato al Suap con le autocertificazioni e gli atti indicati dalle norme. In venti giorni la pratica si considera espletata. Insomma: si può aprire il cantiere. Una via breve graditissima alle imprese immobiliari, che potranno far girare le betoniere senza attendere l’esito dei procedimenti di autorizzazione. È chiaro che questa procedura non salva dal rischio legato ai controlli: Comuni, Regione e polizia giudiziaria potranno verificare la regolarità degli atti e la conformità alle norme paesaggistiche e ambientali. Ed è quello che sta facendo il nucleo investigativo del Corpo forestale, un lavoro di controllo su quello che ormai si delinea come un passaggio storico per la Sardegna: dal rigore ecologista del piano paesaggistico targato Soru all’opportunità per chiunque abbia denaro da spendere di portare nuovo cemento in siti delicatissimi, dove ormai nessuno pensava si potesse più mettere su un solo mattone. (m.l)

I lettori ricorderanno che il governo Berlusconi aveva emanato due documenti, entrambi denominati “piano casa”. Il primo (cui si riferiscono la sentenza della Corte costituzionale e l’articolo di Lungarella che la commenta) era sostanzialmente la ripresentazione di un provvedimento già varato dal governo Prodi e poi bloccato, che prevedeva qualche modesto intervento di edilizia abitativa pubblica. Il secondo, che non è mai diventato atto normativo statale, è quello che ha sollecitato più attenzione, ed era volto a premiare i proprietari immobiliari piccoli e grandi sollecitandoli ad ampliare gli edifici esistenti in deroga ai piani e ai vincoli. Questo secondo provvedimento è diventato efficace solo attraverso le leggi che i “governatori” regionali, minchioni alcuni complici altri, si sono affrettati a predisporre.

Ora la Corte costituzionale ci rivela che anche il primo provvedimento nascondeva il tentativo di adoperare la parola “sociale” per affidare ai privati le competenze, rigorosamente pubbliche, di provvedere a rendere accessibile l’alloggio a chi non può rivolgersi al mercato. Lo emenda con argomentazioni che hanno una portata più ampia del tentativo di furto sventato (e.s.)

Accolte dalla Corte costituzionale alcune delle eccezioni di legittimità costituzionale mosse dalle regioni al cosiddetto piano casa promosso dal governo con la legge 133/2008 (di conversione del D. L. 112/2008). Le regioni avevano eccepito sulla costituzionalità dell’articolo 13 della legge (relativo all’alienazione degli alloggi di proprietà pubblica) e di tutti i commi dell’articolo 11 (piano casa), ad eccezione dei commi 7, 10 e 13 (quest’ultimo limita la possibilità per gli immigrati di accedere al fondo per l’erogazione di contributi per il pagamento dei canoni).

Con la sentenza n. 121 del 26 marzo 2010, il giudizio della corte favorevole, totalmente o parzialmente, alle regioni ha riguardato tre tematiche: a) il contenuto del piano; b) le sue modalità di attuazione; c) il destino del patrimonio di alloggi pubblici. Ognuna di esse ha grande importanza. Ma la prima, per quanto si vedrà, è quella sulla quale gli effetti della pronuncia possono essere più dirompenti.

Un “anche” che vale un piano

La corte ha ritenuto parzialmente fondata la questione di legittimità posta dalle regioni relativamente al comma 3 dell’articolo 11, che elenca gli interventi attraverso cui può essere attuato il piano nazionale di edilizia abitativa. Le regioni contestavano la legittimità costituzionale della norma ritenendo che con essa lo stato non si limita a fissare obiettivi e indirizzi di carattere generale ma dettaglia la tipologia degli interventi e definisce le procedure di attuazione dei programmi regionali. I giudici l’hanno pensata differentemente e, senza mettere in discussione la lista degli strumenti e delle modalità tecniche per l’attuazione del piano, hanno appuntano la loro attenzione solo su un anche contenuto nella descrizione dell’intervento catalogato alla lettera e): “realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia residenziale anche sociale”.

La contestazione delle regioni che la corte ritiene legittimamente fondata sembra riguardare un aspetto marginale della questione. Ma, ad una più attenta riflessione, ciò che viene posto in discussione non è l’esclusione dal piano dei programmi integrati non finalizzati esclusivamente all’edilizia sociale, bensì la finalità stessa del piano casa, riconducendo la sua ragione d’essere esclusivamente alla promozione di interventi edilizi per le fasce deboli della popolazione; il che implica ribaltare totalmente l’obiettivo del piano.

Un piano di edilizia abitativa senza aggettivi

Le iniziative che è possibile promuovere attuando le norme dell’articolo 11 della legge 133/2008 hanno, come finalità principale, il sostegno all’economia in una fase negativa del ciclo congiunturale, stimolando la domanda delle attività edilizie tramite “un piano nazionale di edilizia abitativa” (comma 1) “rivolto all'incremento del patrimonio immobiliare ad uso abitativo attraverso l'offerta di abitazioni di edilizia residenziale” (comma 2). Ciò che il piano si propone di promuovere è la costruzione di abitazioni con una netta preponderanza di quelle da offrire a prezzi di mercato. Che questa sia la finalità del piano è il lessico stesso a rilevarlo, o meglio le carenze lessicali che in esso si riscontrano. In tutto il testo dell’articolo l’espressione edilizia residenziale sociale o alloggio sociale ricorre solo tre volte. Per due volte essa è evocata in forma neutra con il richiamo ad un decreto interministeriale di definizione di quell’espressione. La sola volta in cui il richiamo è di “sostanza”, è proprio quella della lettera e) del terzo comma, dove l’inserimento della parola anche tra edilizia e sociale, diventa un inciso quasi posto ad evidenziare che la realizzazione di interventi costruttivi finalizzati ad incrementare l’offerta di alloggi a condizioni meno onerose di quelle di mercato costituisce un’eccezione in un contesto generale il cui obiettivo è la produzione di abitazioni i cui canoni e prezzi di vendita sono definiti esclusivamente dall’incontro della domanda e dell’offerta.

Un sociale che diventa norma

La sentenza della corte trasforma in norma quella che doveva essere l’eccezione, con l’escamotage di dare per acquisito ciò che non lo era affatto, e cioè che il piano per l’edilizia abitativa fosse esclusivamente un piano di edilizia residenziale sociale in tutti suoi strumenti e iniziative e non poteva essere parzialmente sociale con riferimento ai soli programmi integrati.

Le motivazioni con cui i giudici considerano fondata l’eccezione di legittimità costituzionale relativa alla particolare norma in questione dà, infatti, per acquisito che tutte le altre norme dell’articolo 11 sono “orientate alla finalità generale dell’incremento dell’offerta abitativa per i ceti economicamente deboli” e che la formulazione del comma 3 lettera e) “deve ritenersi costituzionalmente illegittima, in quanto consente l’introduzione di finalità diverse da quelle che presiedono all’intera normativa avente ad oggetto il piano nazionale di edilizia residenziale pubblica”. Se si deborda dal settore dell’edilizia residenziale pubblica, argomentano i giudici, il piano nazionale perde il suo carattere sociale. Ma la corte esclude “che la potestà legislativa dello stato possa essere utilizzata per altre finalità, non precisate e non preventivamente inquadrabili nel riparto di competenze tra Stato e Regioni”. Se il piano non dovesse essere esclusivamente indirizzato all’edilizia sociale, ma comprendesse anche interventi di edilizia abitativa di mercato, si introdurrebbe un “corpo estraneo in un complesso normativo statale, il quale trae la sua legittimità dal fine unitario dell’incremento del patrimonio di edilizia residenziale pubblica”. La previsione che con i programmi integrati possano essere realizzati interventi di edilizia residenziale non aventi carattere sociale è in contraddizione “ con le premesse che legittimano l’intera costruzione. Infatti, la potestà legislativa, che lo Stato esercita per assicurare il quadro generale dell’edilizia abitativa, potrebbe essere indirizzata in favore di soggetti non aventi i requisiti ritenuti dalla stessa legge essenziali per beneficiare degli interventi. L’eventuale diversa destinazione dei programmi dovrebbe essere valutata in un contesto differente, allo scopo di valutare a quale titolo lo stato detti tale norma”.

L’edilizia sociale costa soldi pubblici

La dichiarazione di illegittimità costituzionale di quell’“inserimento extrasistematico […], in un complesso di norme, tutte orientate alla finalità generale dell’incremento dell’offerta abitativa per i ceti economicamente deboli”, della congiunzione anche tra residenziale e sociale nella lettera e) del terzo comma dell’articolo 11, rende di immediata evidenza la labilità dell’impronta sociale dell’intera architettura del piano casa e la conseguente accentuazione dell’esiguità delle risorse di finanza pubblica che si riteneva di destinarvi. La cifra a cavallo dei 700 milioni di euro con la quale è stato finanziato finora il piano casa, e che non pare possa crescere, almeno nel periodo breve-medio (si può ipotizzare fino alla fine della legislatura), avrebbe prodotto un effetto limitato anche nell’ipotesi in cui la realizzazione di alloggi di edilizia residenziale sociale fosse stato un obiettivo parziale e secondario. L’ipotesi di impiegare risorse statali tanto limitate se poteva trovare una qualche motivazione per un piano di edilizia abitativa a prevalenza di mercato, perde ogni plausibilità se il piano, come afferma la corte, deve avere l’esclusivo obiettivo di incrementare l’offerta di edilizia residenziale sociale.

Senza intesa niente accordi

La corte ha ritenuto parzialmente censurabile di illegittimità costituzionale anche il comma 4. Questa norma prevede che il piano casa venga attuato attraverso accordi di programma promossi dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti e approvati con decreto del presidente del consiglio dei ministri previa delibera del Cipe e d’intesa con la conferenza unificata. Gli accordi di programma hanno il compito di massimizzare l’efficacia delle iniziative che vengono intraprese rendendole consone alla dimensione del fabbisogno abitativo da soddisfare nei diversi contesti. Il loro contenuto è pertanto fondamentale e non può che essere definito a livello regionale, là dove si può avere una buona conoscenza delle caratteristiche della domanda economicamente debole di servizi abitativi. Se non ché la norma in questione consentirebbe al presidente del consiglio di approvare comunque gli accordi di programma qualora, su di essi, non si raggiungesse l’intesa entro 90 giorni dalla loro presentazione. I giudici hanno ritenuto costituzionalmente non legittima l’attribuzione, con questa norma, di un ruolo di predominio dello stato sugli altri soggetti che devono concorrere all’accordo di programma. L’approvazione unilaterale dell’accordo di programma renderebbe inutile l’intesa che la stessa norma prevede, violando il principio della leale collaborazione tra lo stato e le regioni.

La velocità non deve soffocare le competenze

La violazione di questo principio è anche alla base della decisione di ritenere fondata la questione di legittimità costituzionale relativa al contenuto del comma 9. Questa norma prevede che il piano possa essere attuato con le procedure previste per la realizzazione dei lavori relativi alla infrastrutture strategiche e gli insediamenti produttivi disegnate dal codice degli appalti. Le procedure di approvazione di tali lavori rendono, di fatto, marginale il ruolo delle regioni ed espropriano i comuni delle loro competenze in materia di pianificazione urbanistica.

Il ricorso a tali procedure è giustificato dalla volontà di rendere più celeri i tempi di realizzazione delle opere. Il rispetto di questa esigenza deve, però, salvaguardare gli ambiti di competenza dei diversi livelli istituzionali coinvolti. Il contrasto tra questi due propositi risulta evidente, suggerisce la corte, quando l’estensione agli interventi di edilizia abitativa delle procedure di accelerazione ipotizzate per le infrastrutture strategiche vengono poste, come fa il comma 9, in alternativa al ricorso agli accordi di programma quale strumento tipico per l’attuazione del piano casa, come esplicitamente previsto dal comma 4 dell’articolo 11.

Dichiarando l’illegittimità costituzionale del comma 9, la corte ha ritenuto, perciò, di dovere affermare la prevalenza della tutela delle competenze delle regioni in materia di edilizia residenziale pubblica sulle pure ragionevoli esigenze di speditezza nelle procedure di approvazione e realizzazione delle iniziative.

Le case le vendono i padroni

La corte costituzionale con la sentenza sul piano casa ha riaffermato l’esclusiva competenza delle regioni in fatto di alloggi pubblici. I primi tre commi dell’articolo 13 della legge 133/2008 regolamentano gli interventi per la “valorizzazione del patrimonio residenziale pubblico”, un modo eufemistico per dire piani di alienazione. I giudici hanno ritenuto fondati i rilievi di costituzionalità formulati dalle regioni sul secondo e sul terzo comma. Il primo si è salvato dalla censura della corte perché ritenuto sostanzialmente innocuo, limitandosi esso a prevedere la conclusione, in sede di conferenza unificata, di accordi tra i ministeri delle infrastrutture e dei trasporti e per i rapporti con le regioni, da un lato, e regioni e enti locali dall’altro, per semplificare le procedure di vendita. Non è necessario bocciare la norma, afferma in sostanza la corte, perché mentre già con precedenti sentenze si era sancito “che la gestione del patrimonio immobiliare degli Iacp rientra nella competenza residuale delle regioni, [si] deve rilevare come la norma censurata nel presente giudizio non attribuisca allo stato alcuna possibilità di ingerenza in tale gestione”. Il tentativo fatto dalla stato, con la legge finanziaria per il 2006, di imporre la vendita degli alloggi pubblici, fu tacciato di incostituzionalità.

Se lo stato non può imporre alle regioni la sottoscrizione degli accordi per la vendita degli alloggi, la corte non poteva non ritenere fondata la questione di legittimità posta relativamente alla norma (comma 2) che pretendeva di dettare i contenuti degli accordi stessi. Stabilire in partenza che gli accordi devono determinare il prezzo di vendita degli alloggi in proporzione al canone di locazione, riconoscere il diritto di opzione all'acquisto all'assegnatario, destinare i ricavi delle alienazioni a interventi per alleviare il disagio abitativo, costituisce un’ingerenza dello stato che limita la discrezionalità di scelta delle regioni e pone un ostacolo alla loro piena autonomia in una materia sulla quale la corte si è più volte espressa.

Per la stessa esigenza di evitare, con l’attribuzione di una facoltà che esse già detengono, “un’intromissione dello stato in una materia che non gli appartiene”, la corte ha bocciato anche il comma 3 dell’articolo 13, il quale attribuisce alle amministrazioni regionali e locali la facoltà di stipulare convenzioni con società di settore per lo svolgimento delle attività strumentali alla vendita dei singoli beni immobili. Inoltre non è consentito allo stato di attribuire agli enti locali la possibilità di stipulare tali convenzioni, i cui contenuti potrebbero essere in conflitto con le normative emanate dalle regioni, alle quali solo compete di regolamentare la materia della gestione degli alloggi pubblici.

La crisi riduce gli spostamenti ma non l'uso dell'auto. Due persone su tre si muovono su quattro ruote, quasi sempre da sole. I numeri dell'Isfort consentono di tracciare il bilancio della mobilità insostenibile. E rivelano: oltre il 70% della mobilità è sulle tratte sotto i dieci chilometri. Proprio quelle per cui il governo non spende niente

Leggera discesa del numero di passeggeri per chilometro, aumento dell'uso dell'auto (che interessa il 65,3% delle persone che si spostano), nuove motivazioni e antiche richieste. L’istituto di formazione e ricerca per i trasporti (Isfort), ha presentato i risultati dell’Osservatorio Audimob sulle dinamiche della mobilità degli italiani negli ultimi dieci anni, dal 2000 ad oggi. Si tratta di un’indagine seria sulla mobilità degli italiani nei giorni feriali, con 15.000 interviste all'anno su di un campione rappresentativo della popolazione, che vengono svolte da dieci anni. Nella presentazione è stato sottolineato anche il limite dell’indagine e cioè che utilizzando il telefono fisso per l’intervista esclude quanti possiedono soltanto il cellulare come immigrati, giovani e nuove famiglie, di certo fasce in aumento e che in futuro sarà opportuno monitorare.

Secondo i risultati dell’indagine gli italiani si muovono di più, ma in modo diverso rispetto al passato. Si allungano i km percorsi ogni giorno e di conseguenza anche il tempo dedicato al trasporto aumenta, cresce anche l’uso dell’automobile, nonostante i tanti proclami per la mobilità sostenibile, ma cambiano anche le motivazioni degli spostamenti ed il loro carattere sistematico.

In dieci anni aumentano del 17,8% i passeggeri/km ma non in modo uniforme: fino al 2004 calano drasticamente, poi vi è una fase di autentica espansione, infine dal 2008 comincia di nuovo il declino a conferma che la domanda di mobilità è strettamente legata all’andamento economico del paese. Nel decennio Il numero medio degli spostamenti pro capite è rimasto stabile ed è pari a tre al giorno, mentre cresce del 3,2% il tempo medio impiegato per muoversi (da 59,6 a 62,8 minuti) e soprattutto crescono del 4,9% le distanze medie percorse da ogni cittadino ogni giorno passando da 30 km a 34,9 km.

Davvero interessante analizzare la distribuzione degli spostamenti sulla base della lunghezza chilometrica. Gli spostamenti fino a 2 km passano dal 2000 al 2009 dal 37,7% al 31,1%, quelli di corto raggio tra 2 e 10 km restano stabili intorno al 42%, crescono invece in maniera decisa quelli di media distanza tra 10-50 km che passano dal 18,1% al 24%. Infine quelli oltre 50 km hanno un peso molto limitato, il 2,1% nel 2000 diventato il 2,8% nel 2009.

Questi numeri inducono due riflessioni immediate: il 73,3% dei cittadini che si spostano non fa più di 10 km ma la spesa per gli investimenti per soddisfare questa domanda di mobilità urbana non supera il 6% degli investimenti della legge obiettivo, perché vengono privilegiate nuove autostrade che incrementano il traffico motorizzato e nuove tratte ad alta velocità ferroviaria che collegano comuni capoluogo di regione. Scelte ponderate alla domanda effettiva degli spostamenti dovrebbe invece privilegiare investimenti sui nodi per ferrovie urbane, metropolitane e tramvie, il cui funzionamento interessa più dei due terzi delle persone che si muovono.

La seconda riguarda la crescita della domanda di mobilità tra 10 e 50 km che è evidentemente correlata alla crescita insediativa nei comuni della prima, seconda ed anche terza cintura metropolitana, con il relativo spopolamento delle grandi città, nonché nuovi poli commerciali e di servizi localizzati fuori dalle città. E’ l’effetto dello sprawl urbano a bassa densità che sta consumando territorio prezioso, informe e senza un disegno, che non essendo servito da reti di trasporto collettivo induce una domanda crescente e basata sull’uso dell’auto.

Anche le motivazioni degli spostamenti stanno cambiano secondo l’indagine Isfort: nel 2009 il 31,2% si sposta per lavoro (nel 2000 erano il 34,6%), lo studio assorbe il 4,8% (nel 2000 erano il 5,1), la gestione familiare cresce al 31% (nel 2000 era il 26,3%), la gestione del tempo libero si attesta sul 32,9% (mentre era il 34% nel 2000). Interessante anche vedere il dato intermedio del 2005 dove non era arrivata ancora la crisi economica che ha aumentato la disoccupazione, dove gli spostamenti per il lavoro erano attestati al 37,3% (nel 2000 erano il 34,6%) mentre gestione familiare e tempo libero erano entrambi sotto il 30%.

In modo analogo crescono gli spostamenti occasionali e rari (+3,6% e +4,6%) e diminuiscono quelli sistematici e regolari (-8,3%).

Si tratta di fenomeni ben connessi alle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro (flessibilità/precarietà/lavoro a distanza), dei comportamenti delle persone che vedono crescere gli spostamenti per la gestione della famiglia e dei servizi, la spesa, il centro commerciale, l’ospedale, posizionati sempre più a distanza dalla propria abitazione, quindi il risultato anche delle politiche insediative ed urbanistiche degli ultimi 20 anni.

In auto da soli

Lo studio Isfort passa poi ad analizzare i mezzi utilizzati per gli spostamenti che confermano un crescente dominio dell’automobile, la diminuzione percentuale di chi usa bus e tram e metropolitano e di quelli che si spostano a piedi ed in bicicletta. Infatti l’auto passa dal 59, 3% degli spostamenti nel 2000 al 65,3% del 2009 e di questi ben il 57,7 viaggia solo. Nello stesso periodo chi si sposta a piedi passa dal 21,4% degli spostamenti al 17,3%, chi usa la bicicletta dal 3,8% al 3,7%, chi usa bus/tram/metropolitane passa dal 5,3% al 4% degli spostamenti così come è diminuito chi usa il treno, ma cresce la quota di spostamenti con più mezzi in combinazione, dall’1,8% al 3,6%. E’ chiaro dai dati che c’è stato negli anni un “travaso” di viaggi dalle singole modalità di trasporto, per la gran parte collettivi, alle combinazioni di mezzi, la cui spina dorsale è rappresentata da un vettore pubblico, e questo è l’unico dato positivo delle tendenze in atto.

Nello studio sono anche visibili significative differenze tra piccole e grandi città, dove l’auto prevale in modo deciso nelle prime, mentre la congestione delle seconde induce un uso maggiore del trasporto pubblico.

L’automobile consolida la sua posizione ed anche i dati delle emissioni nei trasporti di C02, nonostante l’efficienza dei veicoli sia migliorata, è cresciuta al 28% mentre nel 1990, anno della sottoscrizione del protocollo di Kyoto, era il 23%, quindi è di tutta evidenza il fallimento delle politiche italiane nel contenimento delle emissioni nei trasporti.

L’anno 2009 è stato un anno di forte crisi anche nei trasporti e mobilità, gli spostamenti calano del 2,3%, ed i passeggeri/km dell’8% e per la prima volta da un decennio gli spostamenti si accorciano. Secondo Carlo Carminucci, direttore dell'Isfort ed ideatore dell’indagine, ancora non ci sono dati sufficienti per capire se si tratta solo di una frenata transitoria legata alla crisi o dell’inizio di un nuovo ciclo che inverte la tendenza di questo decennio.

Assai utile anche la parte dello studio che indaga sulle ragioni delle scelte da parte dei cittadini ad esempio del perché si utilizza poco il mezzo pubblico: il 17% perché non ha un servizio vicino a casa, mentre per l’82,9% il servizio esiste ma non è comodo ed accessibile (70%), impiega troppo tempo (42%), gli piace guidare (8%), il trasporto pubblico è di scarsa qualità (4,8%) e solo per l’1,8% costa troppo.

Quindi è la scarsa capillarità ed accessibilità, la frequenza e gli orari inadeguati, l’interscambio inefficiente e scomodo, il tempo troppo elevato, che inducono la maggioranza dei cittadini ad usare l’auto privata in modo crescente. Ma anche il nodo della scarsa informazione emerge con evidenza dall’indagine. Ben il 33,7% non conosce orari e percorsi, ed un altro 17% solo i percorsi ma non gli orari: in pratica la metà di chi si sposta non sa nulla del trasporto pubblico.

Vorrei ma non posso

Quindi sono stati dieci anni dove è cresciuta la mobilità insostenibile, e questo deve indurre una riflessione spietata. Secondo la mia opinione diversamente che dagli anni 90, le città non sono più state protagoniste di politiche attive, di Piani urbani della mobilità di area vasta improntati alla sostenibilità, perché si sono fatte tante chiacchiere e pochi fatti, perché il ritornello di questo decennio sono tornate le grandi opere mentre gli investimenti per le reti ed i veicoli per la mobilità urbana sono scomparsi dall’agenda del governo.

A questi si aggiunga l’arretratezza delle aziende di trasporto incapaci di offrire servizi adeguati, a costi efficienti, con piani di informazione mirati all’utenza reale e potenziale, nonché gli effetti dello sprawl urbano sulla mobilità dei cittadini tutta basata sull’automobile, è evidente che il risultato era quasi scontato.

Del resto lo stesso studio Isfort ha indagato sulla propensione al cambiamento tra i cittadini, che vorrebbero diminuire per il 27% l’uso dell’auto ed aumentare per il 34% l’utilizzo dei mezzi pubblici. E’ un chiaro segnale di disponibilità e di speranza che non può essere buttato a mare ma raccolto e soddisfatto. Perché non è vero che “è stato tutto inutile” quello che si è fatto in questi dieci anni, ma è stato troppo poco e non è bastato per invertire la tendenza verso la mobilità sostenibile.

Per saperne di più: Dieci anni di Osservatorio Audimob. Rapporto ISFORT su “Stili e comportamenti degli italiani”. Sintesi del rapporto e presentazioni su www.isfort.it

Le strade deserte del centro storico, le case puntellate ma sventrate dove parlano nel silenzio i segni impolverati della vita e della morte. «L’Aquila è una città fantasma, presidiata dall’esercito. Manca la cosa fondamentale: il lavoro, le imprese non possono ripartire perché mancano i soldi», denuncia il sindaco Massimo Cialente. Ci sono i due miliardi stanziati dal governo, ma «non stanno arrivando i fondi dello Sviluppo Economico», il ministero di Claudio Scajola. «44 milioni di euro per i commercianti, 250 milioni per il rilancio economico e produttivo. Li aspettiamo da mesi ma non arrivano», spiega il sindaco. Linfa indispensabile per riattivare il cuore de l’Aquila, là dove è possibile riaprire negozi e servizi. Per la ricostruzione si devono aspettare i tempi dei progettisti, ma le richieste di finanziamento per le case del centro non possono ancora essere fatte. I mutui, però «abbiamo dovuto ricominciare a pagarli», racconta una donna e almeno gli interessi le banche li pretendono. E presto gli aquilani dovranno pagare le tasse per case che non hanno più.

«Abbiamo ricostruito una città temporanea con tante sigle: il progetto C.a.s.e. di Berlusconi, i Map, moduli temporanei, i Musp per i ragazzi, riaperti 64 centri commerciali» nel territorio, riassume Cialente, ma l’Aquila centro è una «città morta». L’effetto G8 non è durato, ammettono anche i funzionari comunali. Subito fuori dalla «zona rossa» una yougurteria ha appena riaperto e la domenica è piena. «Sono stata fortunata», spiega la gestrice, pugliese-aquilana. È potuta tornare a casa perché la Banca d’Italia ha risistemato le abitazioni danneggiate. Ma nel centro chiuso al transito regnano solo silenzio, vigili del fuoco, pochi operai e le macerie, se pur meno di prima grazie al «popolo delle carriole». Turisti si aggirano in tour organizzati. «Meglio così - dice il sindaco - almeno non cala l’attenzione». Tornare «ci fa bene, ci rimette in contatto con la città», commenta Milena, vigilessa aquilana che ci accompagna nella zona off limits.

«Qui tutto è rimasto come un anno fa», Suor Nazzarena, missionaria della Dottrina cristiana che qui gestisce una scuola, scuote la testa e pensa che non basteranno dieci anni per ricostruire il centro. Poche le promesse mantenute: «I tedeschi per riscattare l’eccidio si sono dati da fare a Onna, e i francesi grazie a Carla Bruni contribuiscono al restauro della Chiesa delle Anime sante, s’è attivato il Kazakistan, ma da Obama ancora niente…».

Il sindaco continuerà a chiedere la «tassa di scopo», ma per Berlusconi sarebbe un danno d’immagine. La gente è stanca, si divide fra chi apprezza le «casette» di Silvio e chi ne denuncia le pecche. «A Balzano 2 ci sono le fogne a cielo aperto», dice un ragazzo del comitato 3.32, che contrappone il passaparola del «cittadino giornalista» all’informazione «incompleta quando non falsa». Come quando un tg spacciò come «festa per un bar riaperto la riunione del consiglio comunale per chiedere il blocco delle tasse».

Nei giorni del terremoto, ci avevo creduto anch'io che il governo stesse reagendo bene all'emergenza. Tenevo a bada il mio antiberlusconismo, e mi ripetevo: chissà, stavolta, forse...".

Poi, però, è partita per l'Aquila Sabina Guzzanti. Partita, come dice nel suo film, dopo i grandi della Terra, le suore, i boy scout, gli studenti e George Clooney. Partita in luglio a vedere quel terremoto che si era trasformato in evento mediatico e in gigantesca occasione di propaganda per un Berlusconi che, grazie alla tragedia, risaliva lentamente nei sondaggi.

Così, era partita la Guzzanti, senza un gran progetto, con una vaga idea di film, una troupe fatta di tre donne e una camera digitale, nessuna particolare aspettativa. Certo non quella di rimanerci impigliata quasi un anno, di accumulare 700 ore di girato, di vivere un'esperienza che lascia il segno e infine di conquistare un posto d'onore (special screening) al Festival di Cannes.

Ed ecco 'Draquila': un film che non fa ridere nonostante la nota e feroce capacità di satira della regista e il titolo apparentemente ironico. Un film che non fa piangere nonostante il tema e il sottotitolo 'L'Italia che trema'. Un film sul potere e non sul dolore. Un film duro, a volte sarcastico, ma strettamente logico che porta avanti come un treno la sua tesi. Ovvero: l'Aquila è un laboratorio; un test che dimostra come si possano cambiare i patti sociali, alterare i principi costituzionali e di fatto sparare allo Stato col silenziatore, in modo che i cittadini non se ne accorgano. Il tutto spiegato stavolta senza urli faziosi, ma con raggelata pacatezza. Ed è piaciuto ai selezionatori di Cannes questo linguaggio secco a ciglio asciutto, con una punta acida, da sana scuola Michael Moore: stessa voce fuori campo, stesse domande tanto pertinenti da diventare impertinenti, stessi siparietti grafici con fatti e numeri, stesso montaggio serrato di testimonianze, opinioni e facce diverse, ma tutte travolte dal soffio della storia.

Uomini e donne in tendopoli militarizzate costretti a seguire la dieta dell''attendato' (no alcol, né caffè, né Coca-Cola); i senzatetto con nuova casa assegnata dal premier innamorati persi di Berlusconi; il vecchio professore che fa resistenza barricandosi nel suo appartamento: "Se quelli ti pigliano sei finito"; l'urbanista, teorico delle newtown, che spiega come un centro commerciale è molto meglio di un centro storico e una feroce sequenza sulla tenda del Pd vuota di uomini ma con molta spazzatura e avanzo marcito di panino con frittata.

Niente sinistra, Protezione civile militarizzata e un premier che spopola. Cominciamo dalla solitudine del panino?

"Troppo splatter, tutto verde e muffo. Questo è un film rigoroso, il panino non l'abbiamo inquadrato".

Rigoroso e spietato. J'accuse di 93 minuti che va ben oltre L'Aquila...

"Questa è l'intenzione. L'Aquila è una cartina di tornasole del malessere del Paese intero. Ho visto tutti gli ingredienti della nostra crisi: l'assenza di un'opposizione; il dilagare della propaganda; la speculazione; la criminalità organizzata; l'indifferenza della gente; l'impotenza di chi cerca di far qualcosa e resta solo; lo Stato parallelo che nasce mentre quello vero neanche se ne rende conto. È un film su come si costruisce una dittatura".

Anche 'Viva Zapatero' era un film sull'arroganza del potere. Cosa cambia qui?

"Noi: popolo italiano. In cinque anni siamo cambiati molto. Non si vede più una capacità di reazione, si è affievolito il ricordo della vita democratica, se ne è persa finanche la nostalgia. Si reagisce all'indignazione adattandosi, ci si costruisce una vita parallela, piccole strategie di resistenza. È così che se all'Aquila ti dicono 'questo lo decide il capocampo', non ti viene da rispondere: 'Ma chi è il capocampo? Chi lo ha nominato? Che rappresenta? In base a cosa è pubblico ufficiale?'. Si obbedisce come se fossimo finiti tutti nel club di Topolino".

Che cosa le fa più paura in Berlusconi?

"A me non fa nessuna paura Berlusconi. Penso che sia uno squalo che come tale mangia tutto ciò che trova intorno. Non ho niente contro gli squali, sono creature come le altre, basta che stiano al loro posto in fondo all'Oceano. Se invece uno squalo passeggia in via del Corso, mi preoccupo".

Spiegazione della metafora?

"Berlusconi non è arrivato al potere con strumenti democratici, perché in democrazia non si può fare il premier controllando tv e giornali e gestendo in prima persona la propaganda. La cosa che più mi ha colpito all'Aquila è quanto la televisione sia stata più forte del terremoto. La gente non distingue più tra realtà e finzione, anzi la realtà televisiva è spesso più forte di quel che vedono e sentono. Donne raccontavano di aver imparato dai loro nonni a fuggire alla prima scossa, ma il 6 aprile sono rimaste nelle loro case, solo perché il telegiornale le aveva rassicurate. Un uomo ha perso due figli perché quella notte li ha rimessi nei loro lettini, convinto dai media che non ci fosse alcun pericolo. Terribile dirlo, ma la propaganda all'Aquila è stata più forte degli antenati e persino dell'istinto di sopravvivenza. Quando sono le gambe prima ancora del pensiero a farti scappare se la terra trema. È chiaro adesso di che potere sto parlando?".

Chiaro. Ma allora come mai nel film ha fatto parlare tanti berlusconiani pazzi del premier che mostravano la meraviglia della casa assegnata con tanto di pentole e spumante in frigo?

"Perché non sono faziosa come si dice. E volevo capire e ascoltare. Capire come si possa rinunciare a una bellissima città, fatta di persone e monumenti, di vita e memoria per sostituirla con diciannove quartieri senz'anima, spuntati dal nulla, ai bordi di una strada statale, lontani fra loro che aspettano solo un centro commerciale. Un tempo mi era impossibile anche pensare di parlare con uno che vota Berlusconi. L'Aquila mi ha cambiato, voglio parlare con tutti. E tutti avevano una gran voglia di parlare. Nessuna intervista è durata meno di un'ora. Spesso si dilungavano fino a tre, quattro ore. Ancor più spesso me ne andavo io, se no si faceva notte. È così che sono arrivata a 700 ore di girato".

Ma non la riconoscevano? Non la identificavano come un nemico?

"Non mi riconosceva quasi nessuno. Non apparendo su Canale 5, ho questo vantaggio. Mi chiedevano solo: 'Lei di che televisione è?'. Io rispondevo: 'Nessuna, stiamo facendo cinema'. E loro: 'Brava! E quando va in onda?'. Non c'era verso. Persino ai posti di blocco i militari insistevano: 'Va bene cinema, ma cinema di che rete?'".

Nelle note di regia però lei ha scritto: "Ho scoperto di amare questo Paese". Perché?

"Perché come l'Aquila questo Paese lo stiamo distruggendo. E come spesso accade, ti accorgi di quanto ami qualcuno e di quanto sia prezioso, solo quando lo stai perdendo. Oddio, non sarò mica diventata patriottica!".

Fiumicino, 10 miliardi con danno ambientale

di Alessandro Ferrucci

Tre nuove piste per il Leonardo da Vinci, un’opera più costosa del Ponte di Messina, al centro la famiglia Benetton. Ma nessuno ne parla

TERRA. ARIA. ACQUA.

Manca il fuoco, per completare i quattro elementi. Ma ci sono i soldi. Tanti, tantissimi, forse come non se ne sono mai visti prima. Anche oltre i 6,3 miliardi stanziati per il “Ponte di Messina”. No, quelli non bastano per raddoppiare l’Aeroporto di Fiumicino. Ce ne vorranno almeno 10. Eppure nessuno ne parla. Silenzio. Dagli imprenditori coinvolti, agli organi di Stato, fino a gran parte della politica. Zitti tutti. Gli unici pronti ad alzare la voce sono uno sparuto gruppo di cittadini di Maccarese e Fregene, frazioni di Fiumicino, alle porte di Roma. Sono loro a gridare “aiuto, vogliono cementificare le nostre vite”.

Quindi ecco la terra: per realizzare l’opera sono necessari 1.300 ettari; aria: la motivazione data da Aeroporti di Roma è che il traffico aereo sulla Capitale raggiungerà, da qui al 2044, i 100 milioni di passeggeri, rispetto agli attuali 36. Acqua: la zona prescelta è a un chilometro, in linea d’aria, dal litorale, zona bonificata negli anni ’20 da contadini veneti e ora dedita ad agricoltura.

LA “MACCARESE SPA”E GLI IMPRENDITORIDI TREVISO

Agricoltura specializzata. In mano, per oltre il 98 per cento, alla “Maccarese spa”, società nata negli anni ’30, di proprietà prima della “Banca Commerciale” e poi del gruppo “Iri”, ma nel 1998 acquistata dalla famiglia Benetton per circa 93 miliardi “con l’impegno di mantenere la destinazione agricola e l’unitarietà del fondo”, come recita l’accordo. Già, a meno di un esproprio. “Se l’Enac (il braccio operativo del ministero dei Trasporti, ndr) dovesse decidere che quella zona è necessaria per realizzare un’opera fondamentale per la collettività, allora verrebbero avviate le pratiche per ottenere le terre”, spiega una fonte di AdR. Tecnicismi, che nascondono ben altro. Proviamo l’equazione: la “Maccarese spa” è di Benetton. Gemina possiede il 95 per cento di Adr. Gemina è di Benetton. Cai, quindi la nuova Alitalia, sta concentrando sulla Capitale quasi tutto il suo traffico aereo nazionale e internazionale. I Benetton, dopo Air France, il gruppo Riva e Banca Intesa, sono i quarti azionisti di Cai con l’8 e 85 per cento. Insomma gli “united colors” rivenderebbero allo Stato, quello che dallo Stato hanno acquistato, per poi ottenere i finanziamenti utili a realizzare un qualcosa da loro gestito e sul quale lavoreranno direttamente quanto indirettamente. “Questione di lobby, di business sulla testa delle persone – spiega Enzo Foschi, consigliere regionale del Lazio per il Pd –. Perché vede, non c’è alcuna necessità di raddoppiare, nessuna. Basterebbe organizzare meglio l’aeroporto e nell’attuale sedime. Anche così il ‘Leonardo da Vinci’ sarebbe in grado di sopportare il raddoppio di passeggeri”. Invece “si uccideranno le prospettive di un territorio – continua Foschi – vocato all’agricoltura, al turismo e all’archeologia, per le necessità di pochi, di pochissimi. È una vergogna”. Una vergogna “silenziosa”. Come detto, il Fatto ha più volte contattato gran parte della politica laziale per avere delle risposte. Dai big, come il neopresidente Renata Polverini, il sindaco di Roma Gianni Alemanno e il presidente della Provincia Nicola Zingaretti, fino a consiglieri e assessori. Niente da fare. O al massimo un “sì, leggiamo e vedremo se intervenire. Grazie”. “Sono mesi che poniamo interrogativi, sempre inevasi – spiega Marco Mattuzzo del ‘Comitato fuoripista’ –. Siamo choccati da tanto silenzio, ci sentiamo soli e inermi. Abbiamo interpellato tutti, compreso l’Enac per capire. Risultato? Non volevano darci neanche le informazioni di cui abbiamo diritto”. Almeno per capire dove e quando.

Tutto nasce nell’ottobre del 2009. Conferenza stampa convocata da AdR. Toni pacati, sorrisi grandi. Pacche sulle spalle e l’atteggiamento di chi dice: siamo alla svolta, chi non lo capisce è fuori dal mercato. È fuori tempo. L’occasione è presentare a governo ed Enac il piano di sviluppo. Il presidente di AdR, Fabrizio Palenzona, spiega: “Sono previsti investimenti per 3,6 miliardi di euro fino al 2020, nell’ottica di un progetto che punta a una capacità di 55 milioni di passeggeri nel 2020 e di 100 milioni nel 2040”. Attenzione alle cifre: i 3, 6 miliardi sono solo per arrivare ai 55 milioni; per toccare quota 100 c’è chi osa sparare quel numero iperbolico: 10 miliardi (“Basta moltiplicare il costo per il numero di passeggeri” ci spiega la nostra fonte in Adr). E per questo è necessario “un grande patto tra investitori e istituzioni – continua Palenzona – attraverso un quadro certo di regole e tariffe per consentire un così ingente piano di investimenti privati: un piano che ha il sostegno di imprenditori che rischiano, mettono soldi nel mercato, ma hanno bisogno di certezze”.

“Tariffe”, la parola magica. Come conferma Gilberto Benetton: “Il tutto è vincolato nella prima fase all’ottenimento di un aggiornamento delle tariffe, nella seconda fase a una nuova convenzione che preveda anche un ritorno sugli investimenti futuri”. Dichiarazione rilasciata sempre a ottobre, poco prima di un incontro ufficiale a Villa Madama, Roma. Presente anche il responsabile divisione corporate e investment banking di Intesa Sanpaolo, Gaetano Miccichè. Guarda caso “Intesa” è il terzo socio di maggioranza in Cai.

LA PREOCCUPAZIONE DELLE BANCHE E LE CONDIZIONI

I soldi ci sono. Eccoli. Loro chiedono un adeguamento. L’adeguamento c’è. Dalla legge finanziaria presentata il 23 dicembre del 2009, si legge: “È autorizzata, a decorrere dall’anno 2010, e antecedentemente al solo periodo contrattuale, un’anticipazione tariffaria dei diritti aeroportuali per l’imbarco di passeggeri in voli all’interno e all’esterno del territorio dell’Unione europea, nel limite massimo di 3 euro per passeggero, vincolata all’effettuazione di un autofinanziamento di nuovi investimenti infrastrutturali urgenti”. Più urgenti di un raddoppio? C’è un “però”: AdR ha ottenuto un incremento di imbarco pari all’inflazione programmata del 2009 (l’1,5 per cento, quindi da 5,17 euro a 7,57). Ma secondo quanto riportato il 6 aprile da il Sole 24 Ore a firma Laura Serafini, AdR non ritiene di essere in grado di finanziare l’opera con le norme attualmente vigenti sulle tariffe. “Lo potrà fare solo con un nuovo sistema, tutto da negoziare con l’Enac entro la fine del 2010, che secondo quanto già dichiarato dai vertici di AdR dovrebbe riconoscere allo scalo la stessa convenzione data ad Autostrade, che dunque garantirebbe aumenti per i prossimi 34 anni (la concessione AdR scade infatti nel 2044)”. Da qui lo scoglio: manca la garanzia che il ministero dell’Economia, chiamato ad approvare quel contratto assieme al ministero dei Trasporti dia il via libera a questo tipo di contratto. E le banche non vogliono rischiare. Vogliono vedere “nero su bianco”. Per questo AdR pretende che il calcolo dell’inflazione parta dal 2001. “Quindi il raddoppio lo paghiamo noi cittadini – interviene Marco Mattuzzo –.Eppoi c’è qualcuno che vuole venderci la storia che conviene a tutti avere un aeroporto del genere. Anche a chi vedrà la propria casa rasa al suolo. Lo sa una cosa? Ora nessuno comprerebbe una casa ‘condannata’. A meno che non sappia niente del piano. Quindi il danno lo subiamo già ora”. Non solo case, anche aziende. Nella zona interessata (nella pagina accanto c’è la piantina) vivono duecento famiglie e operano venti aziende, alcune delle quali affittuarie della “Maccarese Spa”. Gente che da anni lavora la terra, investe, cresce, offre primizie al mercato romano. Percorrere le tante stradine che costeggiano i campi è come fare un viaggio nelle “quattro stagioni”: da una parte i prodotti dell’inverno, poi ecco i primi frutti della primavera. E così via. “Noi siamo qui dal 1987 – interviene il signor Caramadre, dell’omonima cooperativa –, e ci occupiamo di orticoltura biologica. Se sono disposto ad andarmene? Ma lei si rende conto quanto tempo ci vuole per mettere in piedi un’azienda del genere? Cosa vuol dire piantare e aspettare i frutti? Non siamo mica una fabbrica che compra i componenti e li mette in funzione. Per noi i periodi diventano anni, dai dieci ai quindici”. Quindi di vendere non se ne parla “anche perché non ci darebbero mai la cifra necessaria per aprire una nuova attività – continua –. Così siamo all’interno di una forma ricattatoria: o cedi alla cifra che decidiamo, o vai in giudizio civile. Quindi 7-8 anni per arrivare a sentenza. E nel frattempo mi hanno raso tutto al suolo”.

WWF, VASCHE,NATURA E INQUINAMENTO

Secondo il master plan presentato a ottobre da AdR simile se non identico a quello studiato dall’Iri negli anni ’60, dei 1300 ettari, l’8,2 per cento verrebbe destinato a hotel, centri commerciali, uffici, congressi e ancora. Ben 106,6 ettari, “1.066.000 metri cubi di nuove costruzioni” come denunciano dal comitato. E non importa se nella zona esistono due riserve del Wwf, un Parco Romano, se sotto alcune “zolle” sono stati ritrovati degli importanti reperti archeologici. Non importa se non lontano, in linea d’aria, incide una delle discariche più grandi d’Europa, quella di Malagrotta. Non importa se già adesso la qualità della vita è complicata per gli abitanti della zona, investiti da alti livelli di inquinamento acustico, elettromagnetico, oltre che ambientale. Secondo uno studio realizzato dalla dottoressa Antonella Litta, referente per la provincia di Viterbo dell’Associazione italiana medici per l’ambiente, “esistono evidenze sempre più consistenti, legate al traffico aereo, di come numerosi inquinanti, introdotti nel corpo umano, inducano processi infiammatori cronici che determinano uno stress cellulare progressivo a carico di organi e tessuti, aprendo la strada a patologie gravi come aterosclerosi e cancro”. Sarà un caso, le due persone che ci hanno guidato tra i campi di Maccarese, sono sotto chemioterapia. E la Asl competente non ha ancora realizzato uno screening specifico per valutare la situazione della zona. Interpellati i responsabili, ci hanno spiegato che esistono solo dei dati ricavabili da altri studi, quelli di routine.

“Sì, è tutto molto sconcertante – afferma Filiberto Zaratti, ex assessore all’Ambiente della giunta precedente –. Emerge con chiarezza il classico investimento immobiliare, nel quale potranno intervenire i soliti ‘paperoni’. A prescindere dalla reale utilità, che non c’è. Inoltre parlano di aumento dell’occupazione. Ma siamo seri, prenda quanti sono attualmente impiegati al Leonardo da Vinci e li rapporti al traffico passeggeri. Poi veda”. Bene, ecco qui: “A 36 milioni di traffico, corrispondono 2623 dipendenti, di cui circa 635 a tempo determinato – spiegano da Fuoripista. Quindi 80 occupanti ogni milione di passeggeri. Al contrario AdR parla di mille addetti ogni milione. Al 2044 sarebbero 100 mila posti di lavoro diretti”. Il Fatto ha cercato di sentire tutte le parti. Ha chiamato Gemina, ha interpellato l’Enac. Per capire. Anche con loro, niente da fare. L’Ente nazionale ha risposto che i “tecnici stanno ancora valutando, quindi è presto”. Gli uomini di Benetton si sono chiusi dietro un inespressivo no comment. E chi lavora con loro ci ha parlato a voce bassa e sotto una promessa: “Mi raccomando, io non vi ho detto niente. Non fate mai il mio nome altrimenti mi licenziano”. Già, l’importante è tenere la voce bassa. Anche se in ballo ci sono 10 miliardi di euro.

Il primo volo, Andreotti e il Vaticano Montanelli: “Una rapina”

di Luca De Carolis

IL RITRATTO di questo scandalo fatto di miliardi sprecati e intrecci oscuri lo dipinse Indro Montanelli sul Corriere della Sera: “Il caso dell’aeroporto di Fiumicino è molto peggio di un furto, di una rapina a mano armata o di un’incursione di briganti”. Era il 27 dicembre 1961, oltre un anno dopo l’inaugurazione dello scalo romano: tardiva. Fiumicino doveva essere pronto per il 1950, l’anno del Giubileo. E invece venne inaugurato nell’agosto 1960, per entrare davvero in funzione nel gennaio 1961. Erano trascorsi 14 anni di lavori, per una spesa complessiva attorno agli 80 miliardi di lire: quasi 50 miliardi in più di quanto preventivato. Un fiume di denaro persosi nei mille rivoli del sottopotere democristiano. La vicenda inizia nel 1947, quando il ministro dell’Aeronautica, Mario Cingolani, istituisce un comitato per la costruzione del nuovo aeroporto di Roma. I tecnici vogliono realizzarlo nell’area di Casal Palocco, vicino Ostia. Ma il comitato, presieduto dal generale Matricardi, dirotta la scelta su un’area paludosa a Fiumicino, porto della Capitale. I terreni appartengono ai Torlonia, ma a gestirli è un ex gerarca fascista, Nannini, in ottimi rapporti con l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti. Poco tempo prima, un privato aveva comprato un appezzamento attiguo per 60.000 lire all’ettaro. Il comitato Matricardi paga ogni ettaro 754.000 lire. Finisce il 1950, l’Anno Santo: prima scadenza non rispettata. A dirigere l’ufficio progetti per l’aeroporto arriva il colonnello Giuseppe Amici: sodale di Nannini, con eccellenti entrature in Vaticano. In sette anni, Amici spende oltre venti miliardi per Fiumicino, ma sui terreni non compare neppure un muro. “Chi fa osservazioni gravi contro Amici non è tra le persone oneste” tuona Andreotti. Nel 1957, Giuseppe Togni diventa ministro dei Lavori pubblici, con l’incarico di occuparsi di Fiumicino. Per gli appalti è battaglia, con minacce incrociate. Nel febbraio 1959 il presidente della commissione tecnica per Fiumicino, il generale Fernando Silvestri, si spara un colpo di pistola alla tempia. Andreotti è serafico: “Caso ereditario, suo padre si uccise alla stessa età”. Si annuncia che l’aeroporto sarà pronto per le Olimpiadi del 1960, ma i lavori vanno a rilento. Per salvare la faccia, il 20 agosto del ’60 Togni e il ministro della Difesa Andreotti inaugurano Fiumicino. Ma lo scalo diventa operativo solo la notte tra il 14 e il 15 gennaio 1961. Tre mesi dopo, la pista numero uno sprofonda. Il fondo in calcestruzzo e cemento ha ceduto di schianto. Sull’onda dello scandalo, si forma una commissione d’inchiesta parlamentare. Socialisti e comunisti chiedono le dimissioni di Andreotti, senza esito. La commissione non prende provvedimenti, mentre Amici viene promosso generale. Nel 1963, la Procura di Roma archivia tutto. “Chissà quanti altri Fiumicino ci aspettano” commenta Montanelli: profetico

Sulla pelle dei viaggiatori

quella “tassa” da 3 euro

di Chiara Paolin

Per sapere cosa succede in Italia basta leggere BusinessWeek. Già lo scorso 4 febbraio la rivista economica raccontava come i Benetton stessero muovendo terra e cielo per far finalmente decollare il progetto AdR, la società Aeroporti di Roma che gestisce il nascente hub capitolino. Franco Giudice, direttore generale AdR, annunciava serafico: “Intendiamo raddoppiare utili e ricavi entro il 2019 incrementando il traffico e le concessioni commerciali”. Ma come? Finora lo scalo romano per i trevigiani è stato un affare a metà. Entrati nel 2005, si sono accollati 70 milioni di spese per il rinnovo della stazione (intonsa dagli anni ‘60) e altri 170 per nuove strutture. Hanno tentato di convincere gli altri soci di Gemina, società che controlla AdR al 96%, a una forte ricapitalizzazione. Solo qualche mese fa Luciano, gran patron della casa veneta, parlò apertamente di 500 milioni di euro da sborsare, ma Mediobanca (che ha il 13%), Silvano Toti (che vanta un 12%, in pegno però a Unicredit e Intesa) e gli altri piccoli azionisti (Premafin, Generali, Unicredit, Fassina) fecero spallucce. Così i Benetton, che non amano perder tempo né denaro (specie dopo la batosta Telecom), si sono rimboccati le maniche. La megaholding di famiglia Edizione Srl (11 miliardi di euro il fatturato), azionista di maggioranza in Gemina (31%), ha deciso di coinvolgere nuovi soci tramite la controllata Sintonia, società lussemburghese che fa da ponte tra Edizione e Gemina: è lì, nel comodo paradiso fiscale, che il fondo sovrano cinese Gic e la nota banca d’affari Goldman Sachs hanno deciso di prender parte al gioco romano dell’AdR. E vai col primo risultato: potenziare la cordata. Ma per cambiare rotta serve denaro. L’ultimo bilancio AdR segna un utile netto di 5,2 milioni di euro: un bel miglioramento sul -8,3 milioni dell’anno scorso, ma briciole per l’impero dei veneti. I quali, subito dopo aver approvato i conti 2009, hanno votato il nuovo Cda: dentro un rappresentante cinese e presidenza a Fabrizio Palenzona, che ricopre la stessa carica anche in Gemina. Perché il doppio incarico? Palenzona è l’uomo di fatica dei trevigiani: sarà lui a dover sbrogliare la questione del cosiddetto adeguamento delle tariffe, ovvero una nuova tassa da 3 euro che pagheranno tutti i passeggeri per foraggiare nuove opere a Fiumicino (e Malpensa). L’accordo dei Benetton con il governo è di investire 3,6 miliardi da qui al 2020, ma solidi introiti devono giungere dalla tassa viaggiatori, oltre che dai diritti pagati dalle compagnie aeree. A decidere l’introduzione dell’obolo sarà il Cipe: oggi il bonus varrebbe oltre 100 milioni l’anno visto che nel 2009 sono passati da Fiumicino 34 milioni di viaggiatori. I quali diventeranno però il triplo nei prossimi vent’anni (secondo AdR). Per ora, l’incarico di Palenzona è sbloccare la richiesta dei veneti. Lui il piglio sicuro ce l’ha, e dichiara: “Per l’adeguamento delle tariffe aeroportuali c’è un iter in corso. Dovrebbe essere convocato un Cipe per la seconda lettura, dopo la prima avvenuta a novembre. Poi ci sono state le elezioni e penso che al prossimo Cipe se ne parlerà”. Del resto Palenzona è un pezzo d’uomo capace di conquistarsi nel tempo cuori poco teneri come quello di Enrico Cuccia e amicizie pericolose come quella di Giampiero Fiorani, che lo accusa di aver trafficato con lui all’epoca della Banca di Lodi. Accuse rispedite al mittente e schiacciate da una fantastica ascesa al potere con conseguente accumulo di mille incarichi: da presidente della Federazione padroni e padroncini di tir, business cui venne introdotto dal suo mentore Marcellino Gavio, fino all’ingresso come consigliere in Mediobanca via Crt-Unicredit. Insomma, un mastino dei trasporti lanciato dai Benetton prima sulle autostrade e adesso sulle piste di Fiumicino. Anche perché Palenzona, studiando Economia a Pavia, fece amicizia con quel giovane assistente universitario di nome Giulio Tremonti che nemmeno sognava di diventare un giorno ministro dell’Economia (e vicepresidente del Cipe).

Doveva essere varata per la ricostruzione dopo il terremoto dell’Abruzzo. Ma passati dieci mesi il decreto non è ancora stato approvato

Congelata la norma sul bollino di garanzia anticlan per chi rifornisce i costruttori

«White list», l’avevano chiamata. «Lista bianca», ovvero l’elenco dei fornitori delle imprese di costruzione ai quali le prefetture avrebbero dovuto dare il bollino di garanzia antimafia. Da dieci mesi, quando una legge dello Stato l’ha introdotta, è scomparsa nel nulla e nessuno sa ufficialmente perché. Eppure era contenuta in un emendamento durante la discussione in Parlamento sul decreto per l’Abruzzo, varato dal governo il 28 aprile 2009. Fortissime erano state le pressioni dei costruttori, per i quali il sistema del vecchio certificato antimafia, in generale poco efficace, in questo caso è del tutto inutile.

Come hanno ormai da tempo accertato innumerevoli inchieste giudiziarie, la criminalità organizzata si infiltra nel settore edilizio prevalentemente attraverso il canale delle forniture: materiali di cava, calcestruzzo, bitume, movimenti di terra. Per non parlare dello smaltimento dei rifiuti e delle discariche. Tutte attività sostanzialmente incontrollabili con gli attuali meccanismi, perché riguardano il rapporto diretto fra il fornitore e il costruttore, il quale raramente è nelle condizioni di scegliere: il calcestruzzo e il bitume non possono essere trasportati per centinaia di chilometri, così chi li produce ha il monopolio naturale nell’area di propria competenza.

A forza di insistere, la lobby dei costruttori era riuscita a fare breccia in Parlamento, approfittando anche dell’allarme sulle possibili infiltrazioni criminali che si era sparso dopo il terremoto dell’Aquila. Nel decreto era stato quindi infilata una norma che oltre, a stabilire l’obbligo della tracciabilità finanziaria per tutti i subappalti e le forniture, prevedeva anche la «costituzione, presso il prefetto territorialmente competente, di elenchi di fornitori prestatori di servizi, non soggetti a rischio di inquinamento mafioso, cui possono rivolgersi gli esecutori dei lavori». Secondo il copione tipico di tutte le leggi italiane, l’applicazione di questa norma era stata però affidata a un successivo decreto della Presidenza del consiglio. Da emanarsi, e qui è il primo ostacolo, su proposta di ben cinque ministri: Interno, Giustizia, Economia, Sviluppo Economico, Infrastrutture. Un concerto polisinfonico con ben cinque direttori d’orchestra, che rendeva già irrealistica la previsione un mese, contenuta nella legge, per scrivere le norme di attuazione. Ma di mesi da allora ne sono passati ben nove e di quel decreto nemmeno l’ombra. Né risulta che qualcuno ci stia pensando.

Eppure la «white list» ha fatto capolino successivamente in altri due provvedimenti: la legge sui lavori per l’Expo 2015 di Milano e il piano straordinario per le carceri. E sarebbe stata estesa a tutti i lavori pubblici dal decreto anticorruzione. Peccato che quel decreto, approvato dal consiglio dei ministri in pompa magna il primo marzo, ancora non sia arrivato in Parlamento. A causa, sembra, di alcuni problemini: fra i quali ci sarebbe, appunto, quello della «white list».

C’è chi nel governo avrebbe sollevato questioni di privacy. Chi, invece, sostiene la problematica applicabilità di una norma del genere. A partire dai controlli necessari per compilare l’elenco. Anche se il numero delle imprese che operano nei settori considerati sensibili è di circa tremila, una trentina in media per ogni prefettura.

Altri puntano il dito verso la difficoltà concreta di mettere il bollino antimafia su un fornitore di calcestruzzo o bitume, oppure su una discarica di rifiuti, senza rischiare di scoprire in seguito che quel bollino era finito su una ditta controllata dalle cosche. Più facile allora compilare, anziché una «white list», una «black list»: sarebbe sufficiente scriverci sopra i nomi delle imprese i cui amministratori o azionisti fossero stati condannati. Ma questo sistema non metterebbe i costruttori al riparo delle infiltrazioni: chi potrebbe infatti garantire sulla non mafiosità delle ditte fuori dalla lista nera? Insomma, un cane che si morde la coda. Finché qualcuno non deciderà che è arrivato il momento di assumersi le proprie responsabilità.

La metro di Parma non si farà. Dopo anni di lavoro, il Cipe ha ritirato il finanziamento a un'opera priva di senso. Tutto bene, dunque. Non proprio perché nel frattempo sono stati già spesi molti soldi pubblici per progettazione, personale, acquisto o noleggio di macchinari, anticipazioni finanziarie. Altri ancora ne serviranno per l'indennizzo dell'impresa che aveva vinto l'appalto. La morale è che le amministrazioni pubbliche che gettano al vento denaro pubblico non vengono punite. Anzi, a Parma arriverà quel che resta del finanziamento statale.

La metro di Parma non si farà. Dopo anni di lavoro, il Cipe ha ritirato il finanziamento a un’opera priva di senso, e un decreto dal linguaggio mediamente oscuro ci ha messo sopra una pietra tombale. (1) Il tutto, dopo che sono stati spesi parecchi milioni di denaro pubblico – per nulla.
Non essendo una storia solo parmigiana, è giusto raccontarla e usarla per qualche riflessione.

UN PROGETTO SENZA CAPO NÉ CODA

Nel maggio del 2005 il Cipe, su spinta dell’allora ministro alle Infrastrutture Lunardi, di origini parmigiane, aveva deliberato un finanziamento di 210 milioni a fondo perduto per la metropolitana di Parma, ridente città che notoriamente si gira con ben altri mezzi. Il comune (giunta di centrodestra) aveva spinto molto per avere questi soldi, impegnandosi a metterci il resto (96 milioni, dati i preventivi di allora). La Regione (retta dal centrosinistra) ci aveva messo il timbro. Si era costituita la società Metro Parma, con amministratori e dipendenti. Erano stati fatti (e rifatti) i progetti. Si era finanche fatto l’appalto, vinto da una cordata bipartisan: l’associazione temporanea di imprese (Ati) Pizzarotti-CoopSette-Ccc.
Nel frattempo, una serie di persone aveva detto che il progetto non aveva senso, non solo perché non serviva, ma anche perché (proprio in quanto semi-inutile) non avrebbe avuto abbastanza passeggeri da coprire i costi di esercizio, figuriamoci quelli di costruzione. In una serie di incontri pubblici (a cui ha partecipato anche uno degli scriventi) si era denunciato quello che si profilava come un colossale spreco di denaro pubblico, oltre che una “pillola avvelenata”, destinata a gravare sul bilancio comunale per decenni. Ne scrivemmo anche su lavoce.info[link Boitani, Scarpa, 13.06.2005]. Nulla da fare.
Poi, alle elezioni del maggio-giugno 2007 il sindaco Ubaldi, dopo due mandati, ha ceduto il testimone a un suo braccio destro, l’attuale sindaco Vignali, eletto con un programma incentrato sulla metro; d’altronde, il suo antagonista era l’assessore regionale Peri, il quale aveva controfirmato il progetto: evidentemente, le pillole avvelenate esercitano un’attrazione bipartisan. Nel frattempo, il costo era salito a 318 milioni, cui andavano sommati 15 milioni l’anno per la gestione del metrò, e le risorse statali erano scese a 172 milioni: non veniva cioè finanziato l’acquisto del materiale rotabile (37 milioni) che doveva accollarsi il comune. Il nuovo sindaco ha cercato (non sappiamo con quanta convinzione) i finanziamenti aggiuntivi per andare avanti, senza però trovarli. Risultato: non se ne fa nulla. Tutto bene quello che finisce bene, dunque? Purtroppo no.

ANCHE NON FARE HA UN COSTO (MA, TANTO, LO PAGHIAMO NOI…)

Uno dei principi fondamentali dell’economia come “triste scienza” è che non esistono pasti gratuiti: tutto ha un costo. E i costi di questa operazione (conclusasi con un assoluto “nulla”) sono effettivamente elevati.
La società Metro Parma ha operato per alcuni anni per mettere insieme il progetto. La progettazione è stata rivista diverse volte, per soddisfare i rilievi tecnici avanzati dal Cipe e per risolvere l’interferenza con le Ferrovie dello Stato. In tutto questo, dai bilanci di Metro Parma, che il comune si guarda bene dal rendere pubblici, risultano costi complessivi di circa 12 milioni (costi di progettazione e stipendi di chi ha diretto questa impresa). L’Ati, e in particolare la sua componente più vocale, la Pizzarotti, dichiara che (tra Metro Parma e questa impresa) in realtà i costi già sostenuti ammonterebbero a circa 26 milioni, tra progettazione, assunzione di personale, acquisto e/o noleggio di macchinari, anticipazioni finanziarie e altro. A questo andrà poi aggiunto l’indennizzo che chi si è aggiudicato l’appalto intende chiedere, e a cui ai sensi di legge ha diritto, anche se in misura da determinare. Vedremo quanto sarà, ma applicando parametri normali si potrebbe giungere ad altri 30 milioni.
Chi paga? Il decreto, al comma 7, sancisce che “l’indennizzo è corrisposto a valere sulla quota parte del finanziamento non ancora erogata”. Apparentemente, dunque, con soldi dello Stato. Comunque, che i fondi siano statali o locali poco cambia. Sono soldi pubblici. Dei quali nessuno, a quanto pare, sarà chiamato a sostenere responsabilità politiche e meno ancora finanziarie; paga Pantalone, cioè – in ultima analisi – i cittadini italiani. D’altronde, anche se oggi il Pd di Parma canta vittoria, le responsabilità politiche sono piuttosto diffuse tra comune e Regione.

LEZIONI DA TRARRE

La principale lezione è una amara conferma. In questo paese non è che le responsabilità politiche siano un optional: non esistono proprio. Se provate a parlarne vi guardano in modo strano. E proprio coloro che invocano soavemente la “sovranità” della politica nei processi decisionali si adontano se osate chiedere valutazioni accurate dei costi e dei benefici delle opere pubbliche da effettuare prima che la politica scelga. Ma dove è finita la regola secondo cui la “sovranità” si deve sempre accompagnare alla “responsabilità” (politica)? Decine di milioni buttati per non fare nulla. Ma non esiste una cosa che si chiama “danno erariale”? E non esiste da qualche parte una Corte dei conti?
Le amministrazioni pubbliche che gettano al vento denaro pubblico non vengono punite. Anzi: quel che resta del finanziamento statale, dopo le varie deduzioni per indennizzo, può essere devoluto integralmente, dice il decreto al comma 8, – su richiesta del comune di Parma – ad “altri investimenti pubblici”. Una manciata di milioni a quella amministrazione resta comunque garantita. Secondo quale logica? Per quali priorità nazionali, visto che di fondi nazionali si tratta? Non è dato sapere. Sembra proprio che, in un modo o nell’altro, quei soldi a Parma dovevano finire. Chissà, forse servono a garantire l’equilibrio geopolitico nel nascente federalismo zoppo…

Vedi la corrispondenza per eddyburg di Andrea Bui del giugno 2008

Patto rispettato: la Carfagna lo aveva promesso in campagna elettorale

Ischia, i carabinieri all’alba sequestrano immobili per 4.500 metri quadrati e 11 milioni di euro, denunciando 51 persone per abusivismo edilizio. Roma, poche ore dopo: il Consiglio dei ministri approva un decreto legge che congela, in tutta la Campania, le demolizioni delle strutture abusive. Ruspe bloccate fino al 30 giugno 2011. Un decreto di pochi articoli e via: sentenze e processi, durati decenni, diventano improvvisamente carta straccia. “È il buongiorno di Stefano Caldoro”, commenta l’europarlamentare dell’Idv Luigi de Magistris. “Il presidente della Regione, con il consenso del Governo, ha dato il via libera al sacco edilizio della camorra. Uno schiaffo alla giustizia: con un gesto hanno cancellato le sentenze che consentivano le demolizioni”. E sono tantissime. Nei prossimi giorni, per esempio, a Camaldoli rischia di saltare la demolizione di una beauty farm del potente clan Polverino. Per salvarla, utilizzando il decreto, sarà sufficiente uno stratagemma: infilarci qualcuno che dichiara di non avere altra casa in cui abitare. Trentamila demolizioni previste, dalla Procura Generale, nel solo distretto di Napoli. Circa sessantamila in tutta la Campania. Quando il decreto sarà pubblicato, si potranno demolire soltanto le strutture abusive posteriori al 2003, molte delle quali, però, non sono ancora giunte all’ultimo grado di giudizio. L’ultima demolizione risale ad appena nove giorni fa.

È il 15 aprile. Sant’Antonio Abate, hotel La Sonrisa: demolita una mansarda di 400 metri quadri realizzata dalla società Ipol e poi affittata all’albergo. A difendere la Ipol, in una valanga di ricorsi e contro-ricorsi, un avvocato napoletano: Carlo Sanno. Parliamo dello stesso Sanno, parlamentare del Pdl, che ha firmato il disegno di legge, approvato ieri dal Governo, con il quale si bloccano le ruspe e si autorizza, di fatto, una nuova sanatoria. Curioso. E fu proprio in un comizio a Sant’Antonio Abate – il luogo delle ultime 5 demolizioni effettuate – che Mara Carfagna, ministro per le Pari Opportunità, promise che le ruspe, in Campania, sarebbero state fermate: a patto che Stefano Caldoro vincesse le elezioni regionali. “Studieremo una legge regionale, d’intesa con il governo, per fermare le demolizioni”. Caldoro ha vinto. E le ruspe ora rischiano la paralisi. Potremmo chiamarlo l’editto di Sant’Antonio Abate. Un’opera buona e caritatevole, ha spiegato ieri il ministro Carfagna: “Il Governo non poteva assistere impassibile al fatto che, con gli abbattimenti, molte donne con bambini, anziani, addirittura disabili, tutti senza un'altra abitazione, venissero lasciati in mezzo a una strada”. Donne, anziani, bambini e disabili senza abitazione. Vediamo un po’: il 10 dicembre, a Sant’Antimo, è stata abbattuta una villa da 800 metri quadri. Non era una stamberga per diseredati. Se non bastasse, era priva di cemento armato poiché – spuntata veloce come un fungo – era costruita con acqua sabbia e polvere. Ma il ministro ragiona così: “Questo decreto è necessario per fare chiarezza e avviare un percorso virtuoso che riporti la legalità anche nell'edilizia campana”. Il decreto – che riguarda gli “immobili stabilmente occupati” da soggetti che “non hanno altra abitazione” e “costruiti entro il 31 marzo 2003” – presenta una sola eccezione: si demolirà, comunque, se esistono “pericoli per la pubblica o privata incolumità”. Riguardo i “vincoli paesaggistici”, invece, il provvedimento apre il cancello alle interpretazioni: dispone una “ricognizione” sui “vincoli di tutela paesaggistica”. “Ricognizione”. Le strutture che violano il paesaggio, nel frattempo, “rischiano” di restare in piedi. È questo il “percorso virtuoso” che porterà “la legalità nell’edilizia campana”. E infatti: Legambiente impugnerà il decreto, perché qui, le demolizioni, rappresentano la vera sfida alla camorra e alla speculazione selvaggia. Nel 2000, quando fu demolito il Villaggio Coppola – otto torri da 12 piani, con porticciolo e chiesa annessa – il presidente della commissione d' inchiesta sui rifiuti, Massimo Scalia, dichiarò: “Il clima è cambiato: il ripristino della legalità è la condizione per uno sviluppo senza collusione con la criminalità organizzata”. Dieci anni dopo, il clima cambia per decreto, si bloccano le ruspe nella regione dove soltanto a Salerno – secondo l’Agenzia del Territorio – esistono 93mila fabbricati (o ampliamenti) non dichiarati in catasto. Non si tratta necessariamente di fabbricati abusivi, precisa l’Agenzia, ma un fatto è certo: esistono 93mila strutture “fantasma”. Soltanto a Salerno.


qui l'appello di eddyburg

Schema di decreto legge recante "Disposizioni urgenti per garantire le immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione italiana in conformità alle norme internazionali e differimento dei termini relativi alle elezioni per il rinnovo dei Comitati degli italiani all'estero e del Consiglio generale degli italiani all'estero e sospensione delle demolizioni edilizie nella provincia di Napoli"

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II Presidente della Repubblica

Visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione

Visto il regia decreto-legge 30 agosto 1925, n. 621, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 1926, n. 1263;

Vista 1a legge 23 ottobre 2003, n. 286 recante "Norme relative alla disciplina dei Comitati degli italiani all'estero";

Visto l’articolo l0, commi 1 e 2, del decreto - legge 30 dicembre 2008 n. 207 recante proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni finanziarie urgenti;

Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di prevedere la sospensione dell'efficacia dei titoli esecutivi nei confronti di Stati od Organizzazioni internazionali allorché sia pendente un giudizio dinnanzi ad un organo giudiziario internazionale diretto all'accertamento della propria immunità dalla giurisdizione italiana;

Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di provvedere a1 differimento del termine previsto dall'articolo 8 della citata legge, fissato al 31 dicembre 2010, anche al fine di consentire l'approvazione di un provvedimento di riforma degli organi di rappresentanza dei cittadini italiani all'estero e la conseguente modifica delle modalità e delle procedure previste per il rinnovo del Comitati degli italiani all’estero;

Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di sospendere le attività di demolizione di fabbricati destinati a civile abitazione nella provincia di Napoli in dipendenza sia della gravissima situazione abitativa, che ne risulterebbe ulteriormente compromessa, che degli effetti dell’applicazione della sentenza n. 199 del 2004;

Vista 1a deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del …….. sulla proposta del Presidente del Consiglio e dei Ministri degli affari esteri, della giustizia e delle infrastrutture e dei trasporti:

Emana

il seguente decreto-Iegge

………

Art. 3 (Disposizioni urgenti per il disagio abitativo nella provincia di Napoli)

1. Al fine di fronteggiare la grave situazione abitativa esistente nella provincia di Napoli e di consentire un'adeguata ed attuale ricognizione delle necessità di tutela dell'ambiente e del paesaggio, sono sospese fino al 31 dicembre 2011 le demolizioni di immobili, esclusivamente destinati a civile abitazione, disposte a seguito di condanna penale, purché riguardanti immobili occupati stabilmente da soggetti sforniti di altra abitazione.

2. Si procede, in ogni caso, alla demolizione, ove dal Comune competente siano stati riscontrati pericoli per la pubblica o privata incolumità derivanti dall' edificio del quale sia stata disposta la demolizione in sede penale.

Sessantamila demolizioni. Sessantamila abitazioni abusive da abbattere. Sessantamila segnali di legalità che vanno in fumo: è tutto nelle mani del Consiglio dei ministri che, oggi, deciderà se fermare le ruspe. Qui il governatore Stefano Caldoro, e il suo Pdl, avevano puntato le urne mirando al calcestruzzo: avevano promesso una sanatoria e le promesse, si sa, vanno mantenute. Ogni promessa è debito , si dice da queste parti, dove da sempre, i clan, dominano il ciclo del cemento. Edificano selvaggiamente e, attraverso le costruzioni, controllano economia e territorio. La cittadina di Marano in qualche decennio s’è abusivamente mangiata il Vomero, per intendersi, e i clan Nuvoletta prima, e Polverino poi, si sono arricchiti di soldi e potere. Stesso discorso per i Casalesi, o per i Mallardo di Giugliano, che su 16 mila abitanti conta ben 400 edifici sequestrati.

È qui, in questo contesto devastato dal binomio camorra e cemento, che il ministro per le Pari opportunità, Mara Carfagna, ha dichiarato senza alcun imbarazzo: “Se saremo noi ad amministrare la Campania, studieremo una legge regionale, d’intesa con il governo nazionale, per fermare le demolizioni. Ne ho parlato con Gianni Letta e ho investito direttamente il governo del problema”. Caldoro ha vinto, la promessa dev’essere mantenuta, a partire da oggi, se il Consiglio dei ministri lo vorrà. Può sembrare strano, ma questa storia dello “stop” alle demolizioni, trova il suo fondamento proprio nelle Pari opportunità. L’ultimo condono edilizio risale al 2003 e leggiamo cosa scrivono – inneggiando all’articolo 3 della Costituzione e al suo principio d’eguaglianza dinanzi alla legge – i 14 senatori: “L’applicazione del condono non è risultata sempre uniforme”. Si sono “configurate disparità di trattamento tra i cittadini della Repubblica”. In altre parole, vi sarebbero state diverse modalità d’accesso al vecchio condono, nelle varie regioni italiane, e i cittadini campani sarebbero stati penalizzati.

E quindi: il disegno di legge – che “mira a evitare le discriminazioni” – prevede l’interruzione delle demolizioni, anche per le sentenze passate in giudicato, purché riguardino costruzioni antecedenti al 31 marzo 2003. Si può presentare regolare domanda entro il 31 dicembre e via alla sanatoria. Ma non è tutto: “La sanatoria si applica anche agli abusi edilizi realizzati in aree sottoposte alla disciplina del codice dei beni culturali e del paesaggio”. E quindi: anche gli abusi in aree soggette a vincoli paesaggistici sarebbero sanate. E non c’è soltanto il Pdl a tifare per il condono. C’è anche il Pd. Con il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, convinto sostenitore dello “stop” alle demolizioni. Con qualche distinguo – per esempio: sulle aree idrogeologiche a rischio – ma pur sempre favorevole. Eppure, basta guardarsi attorno, per comprendere che condonare significa incrementare lo scempio: “Un’indagine sull’abusivismo edilizio, pubblicata nel 2009 dall’Agenzia del Territorio – dice Giuseppe Ruggero di Legambiente – sostiene che la provincia di Salerno detiene la maglia nera, in Italia, in fatto di illeciti ambientali: 93 mila particelle, che al catasto risultano aree verdi, sono coperte da cemento illegale”. Altri dati forniti da Legambiente: nell’Agro sarnese-nocerino, un tempo noto per la sua terra e i suoi pomodori, negli ultimi sei anni sono stati cementificati illegalmente 300 mila metri quadrati.

E ancora: 27 mila persone denunciate, negli ultimi 20 anni, per abusi edilizi, ovvero il 10 per cento della popolazione residente. La sola Procura di Nocera inferiore, tra il 2004 e il 2008, ha indagato circa 6 mila persone per violazioni urbanistiche. Tra il novembre 2007 e il luglio 2008 i carabinieri hanno denunciato 171 persone e sequestrato 35 fabbricati rurali per un valore di 14 milioni di euro. In quest’area, a fronte di 3479 ordinanze di demolizione, emesse a partire dal 1998, fino al 2009 ne sono state eseguite soltanto 42. La Gdf di Salerno tra il 2007 e il 2008, sulla costiera amalfitana, ha denunciato 377 persone e sequestrato 127 strutture. In soli due mesi del 2009, a Napoli, ben 1.200 denunce di abusi edilizi. “L'industria illegale dell'abusivismo edilizio rappresenta uno dei principali volani dell'imprenditoria camorristica”, dice Ruggero di Legambiente. “Speculazioni e abusivismo hanno da un lato depredato il territorio e dall'altro sono serviti a riciclare una enorme quantità di soldi di frutto di attività illecite. I rilevanti interessi economici hanno portato la criminalità organizzata di fatto a “governare” in campo urbanistico molti comuni dell'hinterland partenopeo”. Oggi in Campania e in Italia governa il Pdl: erano previste 60 mila demolizioni. Le ruspe erano pronte. Ma c’è chi è pronto a fermarle.

qui l'appello di eddyburg

Condono napoletano

di Francesca Pilla

Una leggina ad hoc per rilanciare l'abusivismo, sospendere i 65 mila abbattimenti disposti dal centrosinistra e confermare la promessa elettorale del neopresidente Caldoro. Accade in Campania, la regione d'Italia con il territorio più devastato dagli scempi edilizi. La difesa del Pdl: «È una questione di bisogno e di ordine pubblico». Legambiente: «Così si ridà fiato alle ecomafie». E De Luca (Pd) si schiera con il condono

Gli hanno dato il nomignolo di "decreto anti-ruspe", ed è una leggina cucita apposta per la regione Campania, per ridare fiato all'abusivismo e confermare le promesse fatte in campagna elettorale dal neopresidente Stefano Caldoro e dal centrodestra. Obiettivo è sospendere i 65mila abbattimenti delle costruzioni illegali disposte dalla precedente giunta Bassolino e riaprire i termini del condono previsto fino al 2003. «Una follia», è la prima parola che pronuncia Michele Buonomo, presidente di Legambiente Italia: «I casi di abusivismo si contano a decine di migliaia, gli abbattimenti sulle dita di due mani, una percentuale da prefisso telefonico. La riapertura dei termini è una presa in giro per gli onesti - continua incalzando - favorisce l'iniquità, penalizza chi rispetta le leggi e premia chi le viola».

La questione è ovviamente politica. Il testo della proroga doveva essere presentato per la fine di questa settimana, ma ormai è sicuro che slitterà all'inizio della prossima. Probabilmente il decreto sarà presentato dalla stessa presidenza del consiglio per superare i veti dei tecnici dei ministeri dell'ambiente e dell'interno. Un problema particolarmente sentito, quello dei condoni, da parte dello stesso Berlusconi e di diversi parlamentari campani, tanto che già nel 2003 quando la giunta guidata dalla sinistra approvò una delibera contro la sanatoria, il governo chiese l'intervento della Corte costituzionale per conflitto tra poteri. La consulta diede ragione allo Stato e Bassolino fu costretto a far marcia indietro, ma con una nuova legge, del 2004, si riservò gli abbattimenti nelle aree vincolate. Ora torna tutto in dubbio, e si rischia di far finire in un unico calderone le case spuntate nelle zone a rischio e in quelle soggette a vincoli paesaggistici. «Ritengo che questa iniziativa non sia positiva - spiega Ugo Leone, preside dell'Ente parco Vesuvio - e fra l'altro vanifica tutti gli sforzi che stiamo facendo e che hanno portato alla firma di un protocollo d'intesa con l'assessore all'urbanistica della regione Campania per procedere alla realizzazione, in comune, di abbattimenti dichiarati abusivi nei 13 comuni del Parco». Anche perché tutta la zona rossa attorno al vulcano è un dedalo di manufatti realizzati contro le regole: «Questo sarà un premio a quei candidati - spiega Leone - che nella campagna elettorale hanno fatto della revisione dei confini della zona rossa, una battaglia elettorale per acquisire consenso».

In realtà nel centrodestra campano ne fanno una questione di "bisogno" e ordine pubblico. Le misure infatti dovrebbero riguardare solo gli abusi di "necessità", riguardanti le prime case. Eppure il primo firmatario del disegno di legge che deve riaprire i termini è il senatore del Pdl Carlo Sarro, avvocato in privato della Ipol, società che ha realizzato diversi locali abusivi, tra cui quelli dati in affitto alla Sorrisa per le location di trasmissioni Rai. Ma anche nel Pd campano gli animi sono divisi, se infatti il neocapo dell'opposizione in regione Vincenzo De Luca mercoledì si era detto favorevole al decreto: «Potrebbe essere uno strumento utile», il partito era andato dalla parte opposta. Così ieri De Luca ha corretto il tiro: «Sì alla moratoria degli abbattimenti di abitazioni abusive, purché si escludano una serie di casi gravi» e precisa che «non potranno in nessun modo esser sanate le costruzioni realizzate in aree a forte rischio ambientale, sorte in zone di rilevante interesse paesaggistico, frutto di speculazioni edilizie della malavita organizzata».

Per il presidente di Legambiente resta il fatto che il ddl sarebbe «un'autorizzazione a continuare»: «Plasticamente - spiega Buonomo - il numero di abusi è pari a una città come Caserta. Una nuova apertura ridarebbe fiato anche alle ecomafie. Ricordiamo che la maggior parte delle costruzioni illegali vengono realizzati da società in rapporto con la camorra». Quanto alla parte "popolare" del provvedimento per Legambiente la strada da seguire è quella dell'edilizia sociale: «Si faccia una seria politica in questo senso. Se non c'è riuscito il centrosinistra che ci provi il centrodestra. Il piano casa non basta, mettiamo in condizione le famiglie di avere un'abitazione, o almeno di costruirla secondo criteri di legalità».

ISCHIA

Ruspe no stop Un leninista guida la rivolta abusiva

di Adriana Pollice

Il nuovo corso in Campania, sancito dalla virata a destra decretata dall'ultima tornata elettorale, si annuncia anche con il nuovo via libera al partito del cemento. A chi è rimasto nella terra di mezzo, cioè tra gli ultimi abbattimenti e l'approdo alla camera del decreto ideato apposta dal governo per bloccare le ruspe in regione, non resta che guardare l'abitazione andare giù. Ieri è toccato a Nunziatina Mirabella, un'anziana signora di Torre del Greco, in provincia di Napoli.

La notizia non deve aver colto di sorpresa la procura partenopea, in prima linea nella lotta all'abusivismo, visto che da mesi le forze politiche, in particolare il Pdl, provavano a bloccare gli abbattimenti. «Per ora leggo solo indiscrezioni di stampa - il commento del procuratore aggiunto di Napoli, sezione reati ambientali, Aldo De Chiara - quindi preferisco aspettare di conoscere i contenuti del provvedimento per entrare nel merito. Certo, il messaggio è quello che è ma non dobbiamo alimentare l'impressione che ci siano posizioni pregiudiziali da parte nostra». Più esplicito il procuratore generale, Vincenzo Galgano: «Questo è il Paese in cui bisogna adattarsi a tutto. Molte cose che vengono fatte in spregio delle regole vengono poi protette, non è una novità. Così si demolisce il nostro lavoro». L'argomento abbattimenti era stato oggetto di uno specifico incontro con il sottosegretario Gianni Letta: «Mi limitai a rappresentare qual era la situazione e la necessità da parte nostra di dover dar corso ed eseguire le sentenze definitive - spiega ancora il procuratore Galgano - Il sottosegretario con grande cortesia prese atto delle mie parole e ci salutammo». Stesso referente anche per il neo governatore Caldoro, che pare però riuscire a portare a casa il blocco delle demolizioni, nonostante il Consiglio Superiore della Magistratura aveva annunciato di voler adottare su scala nazionale il "Protocollo Napoli", un'ipotesi che sembra adesso tramontare.

Non si è salvato neppure il Grand'Hotel La Sonrisa, il celebre albergo di Sant'Antonio Abate, location di trasmissioni di successo della Rai come Napoli prima e dopo condotto da Caterina Balivo, glorie locali e nazionali alle prese con la canzone napoletana: Marisa Laurito, Milva, Amii Stewart, Peppino Di Capri, Gloriana e Lina Sastri, Fred Bongusto, accompagnati dalla Grande Orchestra di Giuseppe Anepeta e il balletto di Toni Manin, roba da far rimpiangere le sceneggiate di Mario Merola. A guardarlo da fuori sembra il castello delle fiabe, il logo della Disney Cinema, tutto torrioni e bandierine, bianco e rosso. Stanze barocche in broccati bordeaux e piscine moresche dominate dal bianco e dall'azzurro, tripudi di fontane e statue in bronzo. Location di matrimoni da sogno, consigliato nei forum per futuri sposi che non badano a spese, a volte criticato, «un po' volgare» si legge in un post subito prima di altre lodi alla cucina della casa. La struttura è proliferata nel tempo a partire da un'antica villa settecentesca, tutto un susseguirsi di abusi poi condonati, fino agli ultimi che sono andati giù, dopo la sentenza del Consiglio di Stato. Le ruspe hanno smantellato la sopraelevazione da 400 metri quadrati, dove erano state ricavate dieci lussuose camere di albergo, una mansarda e un torrino parte della coreografia del complesso turistico.

Ieri sera a Ischia, uno degli epicentri della rivolta contro i seicento abbattimenti previsti, si organizzavano le truppe dei resistenti, tema dell'incontro esteso anche ai procidani: «Validità dei condoni e concessioni in sanatoria». Il decreto "salva cemento" era stato già annunciato prima delle elezioni da Mara Carfagna, capolista del partito del neogovernatore Stefano Caldoro, al presidente del comitato per il diritto alla casa di Ischia e Procida, che in caso contrario minacciava lo sciopero del voto. Una promessa impegnativa perché significa estendere l'applicabilità del vecchio condono del 2003 anche alle aree soggette a vincolo, come appunto l'ex isola verde. L'ultima volta le domande di sanatoria furono più di novemila, una ogni 2,5 famiglie. Dal 1981 al 2006, secondo i dati di Legambiente, sono stati costruiti 100 mila vani abusivi. Nel comune di Forio, il più grande dell'isola, vennero sequestrati nel solo mese di febbraio del 2004 ben duecento cantieri fuorilegge.

Ma gli interessi sono tanti e i sostenitori sono anche a sinistra, persino a sinistra dell'estrema sinistra: Gennaro Savio, uno dei capi della rivolta popolare contro le demolizioni, esponente del partito comunista marxista-leninista (un vero e proprio fenomeno locale, già protagonista di exploit alle urne) e figlio del segretario, Domenico Savio, li aveva portati in piazza a centinaia prima delle elezioni regionali sostenendo il diritto agli "abusi di necessità" con l'impegno categorico però a non votare.

L'AQUILA - Guido Bertolaso non diventerà cittadino onorario dell'Aquila. La proposta di conferire lo status al capo della Protezione Civile - avanzata da quattro consiglieri comunali del centrodestra-è stata bocciata. Bocciata dalla commissione statuto e regolamenti del Comune. Sedici i voti contrari, solo due i favorevoli. Due, invece, gli astenuti.

Una votazione maturata al termine di un dibattito acceso. Molti consiglieri comunali, durante la seduta che si è svolta l'altra sera, hanno preso la parola per invitare i promotori dell'iniziativa a ritirare la proposta in quanto «improponibile, e non solo per il coinvolgimento del capo della Protezione Civile in alcune inchieste giudiziarie». Al momento del voto, alcuni esponenti del centrodestra hanno abbandonato l'aula lasciando così, soli, due colleghi favorevoli. Un pasticcio «aggravato» per Luigi D'Eramo (consigliere della Destra) «anche dalla giunta Cialente che ha accompagnato la trasmissione della proposta con un parere. Una sorta di invito a rinviare tutto a un altro momento». «La figura di Bertolaso divide la città» ha commentato il presidente della Commissione Statuto e Regolamenti, Giuseppe Bernardi «ritengo che nei prossimi mesi si potrà invece valutare di riconoscere, simbolicamente, la cittadinanza onoraria a tutte le organizzazioni di volontariato, tra cui la Protezione Civile che si sono attivate per L'Aquila».

«È l'ennesima brutta figura dopo quella della contestazione del consiglio comunale nella notte della commemorazione delle vittime - è stato invece il commento del commissario delegato per la ricostruzione, Gianni Chiodi, che è anche presidente della Regione Abruzzo - su una cosa di questo genere L'Aquila rischia di avere una pessima reputazione. E se c'è una persona che deve avere la cittadinanza onoraria, è proprio Bertolaso. È stata attribuita a personaggi che hanno avuto a che fare con L'Aquila per situazioni meno importanti che non hanno segnato la storia della città, come invece avvenuto con il capo della Protezione Civile nazionale che si è occupato della emergenza causata da una tragedia epocale». Tace per il momento - su questa vicenda - il sindaco dell'Aquila, Massimo Cialente, da sempre vicino a Bertolaso.

La notizia della bocciatura è stata, invece, accolta positivamente da parte dei rappresentanti dei comitati cittadini sorti all'indomani del terremoto del 6 aprile 2009, tra tutti il «3e32». «L'assistenza alla popolazione cittadina rappresenta un diritto - ha detto Sara Vegni - e non qualcosa che più volte è passato come un 'regalo' da parte del Governo e della Protezione civile». «Bertolaso? Non ha mai incontrato i parenti delle vittime. Ed essendo note le responsabilità del suo dipartimento sugli allarmi inascoltati prima della tragedia, non mi sembra un fatto di poco conto» dice Antonietta Centofanti, del comitato vittime della Casa dello Studente.

Postilla

Altro che cittadinanza ufficiale! Su eddyburg abbiamo puntualmente denunciato – quando ancora da ogni parte si applaudiva al Commissario e al suo Duce per la splendida riuscita del dopo terremoto – quanto fosse criticabile l’insieme delle scelte effettuate dalla potente coppia. Esse sono consistite n’ideologia della moltiplicazione delle “Milano due”, trasformata in microlottizzazioni sparpagliate sul territorio in insediamenti posticci, nei quali l’unico elemento di socialità è la televisione a casa, e l’abbandono al degrado dell’unica realtà capace di ridare anima ai territori terremotati, la città dell’Aquila. Il libro, a cura di Georg Frisch,Non si uccide così anche una città? (Clen, Napoli, 2009, € 10) ha documentato e denunciato il delitto. Nella prossima edizione dell’iniziativa di eddyburg , “Una città, un piano”, esamineremo la vicenda del dopo terremoto in tutto il suo spessore.

Chiunque sappia quello che è successo e sta succedendo, e per colpa di chi, inorridisce al pensiero che qualcuno abbia voluto dare un premio al Commissario e, indirettamente, al suo Duce. E vede nella decisione del Consiglio comunale della città due volte colpita un gesto dovuto, consapevole e chiaro, senza se e senza ma.

Ischia e il condono salva-ville

Pronto un decreto che il governo approverà d’accordo con il governatore Caldoro: salverà dalle ruspe le ville della provincia di Napoli

Votare, gli ischitani hanno votato. Forse non tutti. Forse non i più arrabbiati, quelli che rischiavano di vedere la propria casetta abusiva travolta dalle ruspe azionate dalla procura di Napoli. Sono seicento. Molti di loro avranno certamente dato retta a Gennaro Savio, il capo della rivolta popolare contro le demolizioni, esponente del partito comunista marxista leninista, figlio del segretario di quella formazione politica Domenico Savio. Emulo di quel Paolo Monello sindaco comunista di Vittoria, in Sicilia, che a metà degli anni Ottanta si era fatto paladino dell’«abusivismo per necessità», li aveva portati in piazza a centinaia prima delle elezioni regionali con questo programma politico: «Essendo il potere politico dominante di centrodestra, di centrosinistra, di centro e i partiti e i movimenti a loro affini responsabili dell' abusivismo edilizio e dei conseguenti abbattimenti delle prime case di necessità non possono e non devono essere votati». Ragionamento senza una grinza. Da duro e puro, qual è Gennaro Savio.
Gli scontri Il 28 gennaio la polizia fronteggia gli ischitani contrari alle ruspe

Ma far fallire completamente le elezioni, in un'isola dove il Pdl aveva sfiorato alle politiche il 65% era un'utopia. Le preferenze sono comunque arrivate. E ora va onorata una promessa: fermare le ruspe per decreto. Un decreto già annunciato prima delle elezioni da Mara Carfagna, capolista del partito del neogovernatore Stefano Caldoro, al presidente del comitato per il diritto alla casa di Ischia e Procida, che in caso contrario minacciava lo sciopero del voto. Il provvedimento sarà varato dal consiglio dei ministri di venerdì e sospenderà fino al 2011 le demolizioni nell’intera provincia di Napoli in attesa che la giunta Caldoro sistemi le cose. Magari con un tocco di bacchetta magica: estendendo l'applicabilità del vecchio condono edilizio del 2003 anche alle aree soggette a vincolo, come è appunto Ischia.

Chiamiamo la cosa con il suo nome: una schifezza. Alla faccia di chi ha sempre rispettato le leggi. E perpetrata in modo ancora più sfrontato di quello che stava per passare qualche anno fa in Sicilia, quando la Regione aveva progettato una sanatoria per le abitazioni costruite senza permesso sulla costa. Al ministero dei Beni culturali hanno letteralmente i capelli dritti. Sono convinti che un decreto del genere possa rappresentare un precedente devastante, e sono pronti alle barricate. C’è solo da sperare che reggano un pochino più di quelle che aveva annunciato nel 2003, al tempo dell'ultima sanatoria, l’ex ministro dell’Ambiente Altero Matteoli, poi travolte in Parlamento. Ma è inutile illudersi: a sperare saranno in pochi. Anche nel Pd, i cui esponenti hanno sempre criticato violentemente la logica dei condoni, c’è chi si frega le mani. Se l'europarlamentare Andrea Cozzolino giudica l’iniziativa del governo «indecente», il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, che aveva conteso a Caldoro la poltrona di governatore della Campania, si è detto addirittura «favorevole» al blocco delle ruspe per decreto. Mettendoci davanti questa piccola foglia di fico: «Vanno verificati nel merito i contenuti». Per non parlare del sindaco di Forio d’Ischia, il democratico Franco Regine, che dopo aver rivelato come il suo Comune abbia chiesto con una sua delibera al governo, su proposta dell’Udc, di estendere il condono edilizio anche alle zone vincolate», ha tirato pubblicamente un sospiro di sollievo: «Sarebbe stato un disastro generale, è positivo attenuare l’impatto che deriverebbe da tante demolizioni».
Nemmeno una parola, invece, sull’impatto che l’uso scellerato del territorio ha avuto finora. A Ischia l’ultimo condono edilizio ha fatto registrare più di novemila domande di sanatoria: una ogni 2,5 famiglie.

Dal 1981 al 2006, secondo i dati di Legambiente, erano stati costruiti 100 mila vani abusivi. Nel comune di Forio, il più grande dell’isola, vennero sequestrati nel solo mese di febbraio del 2004 ben duecento cantieri fuorilegge. E il condono del 2003 non ha certamente fermato le betoniere. Negli ultimi dieci anni sono spuntate in Campania costruzioni abusive al ritmo di 16 al giorno.
Inutile dire che l’ipotesi di estendere il blocco delle demolizioni all’intera provincia di Napoli ha ingolosito sindaci e assessori del circondario. Quanto questa nuova sanatoria si possa conciliare con l’affermazione della legalità, in un territorio dove è la camorra a farla da padrona, è una spiegazione che i suoi responsabili dovranno fornire. Basti pensare che secondo il rapporto Ecomafia 2009 i due terzi dei comuni campani sciolti dal 1991 per infiltrazioni mafiose «lo sono stati proprio per abusivismo edilizio».

Qui l'appello di eddyburg. Inviate le adesioni a
mpguermandi@gmail.com

Due sono i maggiori mali dell’Italia di oggi: la rassegnazione e il fatto che, senza che ce ne rendiamo conto, ci stanno tagliando, ad uno ad uno, tutti i legami con l’Europa. Per avere un esempio del secondo fenomeno, basta prendere in considerazione la Convenzione delle Alpi, un trattato internazionale in vigore dal 1995 che unisce gli otto Paesi dell’arco alpino e l’Unione europea e che ha l’obiettivo di guidare insieme uno sviluppo sostenibile del territorio alpino, nonché la tutela degli interessi economici, sociali, culturali ed ambientali della popolazione. Tra il 1994 ed il 2000 sono stati sottoscritti otto protocolli tematici, in vigore in Germania, Austria, Liechtenstein, Slovenia e Francia. Quattro protocolli sono stati ratificati direttamente dall’Ue. I protocolli sono patti derivanti dalla Convenzione, che regolano materie specifiche. In Italia il processo di ratifica dei protocolli è stato iniziato più volte ma non è mai stato completato a causa dei cambi di legislatura.

All’inizio del 2009 l’attuale governo ha proposto la ratifica di tutti i protocolli. Il relativo disegno di legge è stato approvato dal Senato nel maggio 2009 ed è ora al vaglio della Camera. Andando contro la linea del governo, la Lega Nord, su pressione delle associazioni degli autotrasportatori, ha bloccato la ratifica del protocollo trasporti. Alla Commissione esteri della Camera ne è stato votato lo stralcio, festeggiato dal Carroccio come una grande vittoria. Ma c’è poco da festeggiare: perché, ammesso che rappresenti una vittoria degli autotrasportatori (ma vedremo che neanche questo sta in piedi), si tratta di una sconfitta del governo e soprattutto delle popolazioni alpine. Gli ostacoli sollevati dalla Lega alla Camera hanno riguardato in un primo momento la presunta incompatibilità del protocollo trasporti con il diritto comunitario. Ma la stessa Commissione Ue ha smentito l’esistenza di qualsivoglia problema.

Il protocollo prende le mosse dall’impatto ambientale del trasporto su strada, nelle Alpi particolarmente grave. La conformazione delle vallate impedisce la dispersione degli inquinanti, che si concentrano sui fondovalle, dove vive la maggior parte della popolazione. In montagna la stessa massa di inquinante è distribuita in un volume d’aria minore rispetto al terreno pianeggiante (poiché le montagne riducono il volume d’aria complessivo). L’emissione di ossidi di azoto lungo una strada con il 5% di pendenza è doppia rispetto a una strada pianeggiante. Infine, per quanto riguarda il rumore, le vallate creano un effetto «anfiteatro», impedendone la dispersione. Il protocollo dei trasporti è la risposta che i Paesi alpini hanno dato a questa emergenza, con l’obiettivo politico di perseguire, per il traffico attraverso le Alpi, «un più consistente trasferimento su rotaia dei trasporti ed in particolare del trasporto merci», mediante la creazione di strutture adeguate e di incentivi conformi al mercato, senza discriminazione sulla base della nazionalità.

Le parti si impegnano ad astenersi dalla costruzione di nuove strade di grande comunicazione per il trasporto transalpino (cioè che tocchi due o più Paesi attraversando le Alpi). I progetti stradali di grande comunicazione per il trasporto intralpino (cioè che interessano un solo Paese) possono essere, invece, liberamente realizzati ma devono rispettare delle condizioni di precauzione, sostenibilità ambientale ed economicità. La Lega, facendosi portavoce della Federazione degli autotrasportatori sostiene che, ratificando il protocollo, come hanno fatto altri Paesi, si finirebbe per subordinare delle decisioni nazionali a una regolamentazione europea. Qualcuno dovrebbe spiegare che questa è l’essenza dell’essere parte di una Comunità sovranazionale. Più in particolare, la Lega sostiene che il protocollo non permetterebbe di realizzare l’autostrada «Alemania», tra Venezia e Monaco attraverso il Cadore. Ciò è vero, ma questa autostrada non potrebbe comunque mai essere realizzata poiché Austria e Germania applicano già il protocollo.

Al contrario, il protocollo trasporti non osta affatto a che vengano realizzate infrastrutture stradali per migliorare le reti di trasporto in territorio nazionale, purché si rispettino elementari principi di buon governo. La verità è che emarginandosi dalle scelte degli altri Paesi alpini non solo il Paese Italia ma i suoi autotrasportatori verranno emarginati e danneggiati e perderanno la possibilità di misure di sostegno.

Un altro imbroglio della Lega è sostenere che la Svizzera non ratifica i protocolli della Convenzione delle Alpi e che noi dovremmo comportarci nello stesso modo. La notizia è corretta. Ma non si dice che la Svizzera non è parte della Ue e che facendo come la Svizzera ci comporteremmo, appunto, come un non membro dell’Unione. Ma, ancor più, la Svizzera non è interessata al protocollo trasporti semplicemente perché la sua legislazione in materia è già molto più rigida, tanto che nella Costituzione elvetica si stabilisce che il traffico merci transalpino attraverso la Svizzera deve avvenire per ferrovia.

La Lega sostiene anche che il Protocollo trasporti farebbe gli interessi dei Paesi a Nord delle Alpi. Si tratta di un’altra sciocchezza, come è dimostrato dalla posizione favorevole di Francia e Slovenia.

Che cosa resta dunque? Un preclaro esempio di come l’Italia stia tagliando i legami con l’Europa, e venga, di conseguenza, gradualmente ma sistematicamente emarginata senza che la gente se ne accorga. Ma resta anche un preclaro esempio della legge aurea della stupidità umana di Carlo Maria Cipolla: quella esercitata da chi danneggia gli altri senza vantaggio per se stesso. Che a questo si presti la Lega per raccattare voti dagli autotrasportatori è comprensibile ancorché ingiustificabile, soprattutto sotto il profilo dell’interesse delle popolazioni alpine. Che questo comportamento, che va contro tutte le direttive del governo italiano, sia avallato, con il silenzio, da una persona dignitosa e competente come il nostro ministro degli Esteri, è causa di profonda tristezza.

«No alla privatizzazione delle ferrovie da parte dell'Unione europea. Non vogliamo vedere aumentare gli incidenti!» «Sviluppo a lungo termine di un sistema ferroviario integrato di proprietà pubblica, responsabile verso la società e di grande qualità». Parole d'ordine che rimbalzano tra lavoratori, dalla Grecia alla Spagna, dalla Svizzera all'Italia, dall'Inghilterra alla Germania, dal Belgio all'Irlanda e, percorrendo un unico binario, si trasformano in una grande mobilitazione contro la privatizzazione dei trasporti. Martedì, alle ore 11, i ferrovieri provenienti da tutta Europa manifesteranno a Lille, in Francia, davanti all'Agenzia Ferroviaria Europea (A.F.E.) «contro la distruzione sistematica delle reti ferroviarie nazionali, dell'occupazione e degli standard di sicurezza in seguito alle liberalizzazioni del trasporto ferroviario europeo». Verranno a chiedere migliori condizioni di lavoro, garanzia dei diritti, lavoro a tempo interminato e regolamentato. «L'apertura della concorrenza, contenuta nei pacchetti ferroviari della Ue, permette alle autorità nazionali di privilegiare gli interessi della concorrenza prima della sicurezza», denunciano. Sicurezza che non deve invece essere sacrificata in nome del profitto. Promotori dell'iniziativa - aperta a tutti perché, ricordano, temi quali il lavoro, la sicurezza, i diritti non riguardano solo i ferrovieri - i sindacati britannici (Rmt, National Union of Rail Maritime & Transport Workers, il ramo trasporti delle Trade Unions) che lanciano un appello unitario europeo per la sicurezza ferroviaria. «L'Afe è nata per imporre ai lavoratori e agli utenti del trasporto ferroviario una organizzazione e criteri di funzionamento basati unicamente sul profitto per gli azionisti privati; dunque un aumento dello sfruttamento dei Lavoratori, una rimessa in discussione della sicurezza ferroviaria», scrivono i sindacati nel documento che indice l'iniziativa e spiega anche la scelta del luogo della protesta. Durante il vertice bilaterale di Parigi il nostro ministro delle infrastrutture e trasporti, Altero Matteoli, e il segretario di stato ai trasporti francese, Dominique Bussereau, hanno siglato una dichiarazione congiunta che, testualmente, «sancisce la comune volontà politica di ampliare la cooperazione tra i due Paesi, con particolare riguardo alla liberalizzazione del sistema ferroviario».

Chissà se in quella stessa dichiarazione si è affrontato in modo «congiunto» anche il tema della «sicurezza» ferroviaria. Perché la causa delle tragedie che si sono verificati fino ad ora - «non chiamiamoli incidenti», dicono - va ricercata proprio nella politica delle liberalizzazioni e privatizzazioni dell'Unione Europea; come ricordano da sempre, in tutte le lingue, i lavoratori delle ferrovie che chiedono, ancora una volta, di essere ascoltati. A dar manforte ai loro timori, intanto, c'è la sequela di incidenti che si susseguono con cadenza impressionante. L'ultimo è avvenuto a Recco (Genova). Un treno che faceva manutenzione sui binari è andato a sbattere contro una galleria e s'è incendiato. Fuoco e fumo, molta paura e cinque lavoratori impegnati nei lavori alla massicciata per conto di Rete Ferroviaria Italiana finiti in ospedale, il più grave dei quali con 60 giorni di prognosi. Le indagini sono in corso e per ora ci sono solo ipotesi sulla dinamica dell'incidente. Il sostituto procuratore - Luca Scorza Azzarà - ha rubricato il fascicolo, al momento, contro ignoti per «lesioni colpose». Contro i tagli dei treni, per il finanziamento al trasporto ferroviario delle merci, per una migliore qualità del trasporto ferroviario regionale e pendolare, sempre il 13 aprile, a Roma, ci sarà una manifestazione con presidio davanti alla sede di Ferrovie indetta da Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uil Trasporti, Fast Ferrovie, Ugl Af e Orsa Ferrovie.

Il miracolo e lo squilibrio

Giorgio Bocca

Nella primavera del ´45 si poté finalmente procedere a un esame dei danni di guerra. Si oscillò tra due cifre, lontane solo in apparenza: una era di 150 miliardi di lire del 1938 con una perdita del trenta per cento del patrimonio nazionale. Ma gli economisti, che si limitarono ai danni concreti nei settori principali dissero: 70 miliardi per l´industria e i trasporti, tre nelle abitazioni, sedici nell´agricoltura, dieci in settori vari per un totale di circa 100 miliardi che rappresentavano il venti per cento del patrimonio nazionale. Se si sta alle capacità produttive le nostre industrie e la nostra agricoltura avrebbero potuto, nel giro di pochi mesi, tornare a produrre l´ottantacinque percento dell´anteguerra.

Decisivo, nella ricostruzione, fu l´aiuto americano. Per critici che si possa essere nei riguardi della politica estera ed economica americana, sta di fatto che senza l´aiuto degli Stati Uniti la ricostruzione dell´Italia e dell´Europa occidentale non sarebbe state possibile in breve tempo. I primi segni di ripresa si ebbero nel 1946: il consumo pro capite aumenta del 50 per cento; le esportazioni superano il preventivo di ottocento miliardi in lire, e toccano i 1100 miliardi. Nel 1950 la ripresa è galoppante, si sono recuperati i consumi e le produzioni prebelliche, ora ci si avvia alla creazione di una società industriale avanzata, con livelli di incremento fra i più alti nel mondo. Vittorio Foa, un sindacalista rivoluzionario, ammette che il progresso "fu prodigioso" e che veramente si può parlare di miracolo, dato che, diceva Foa, «gli indicatori dello sviluppo furono da due a tre volte superiori a quelli dei novanta anni precedenti, i circa due volte superiori a quelli del più prospero periodo giolittiano».

Ma, osservava Foa, era proprio in quel tipo di successo economico, proprio in quella rapida e fortunata ricostruzione, che si ponevano le premesse dei disequilibri futuri: un´urbanizzazione che continuava a crescere anche se le industrie non crescevano in maniera adeguata, una fuga dalle campagne che non trovava compenso nelle grandi città, un discorso industriale tutto puntato sull´automobile, il petrolio, le strade e pochissimo sulla ricerca scientifica, sull´elettronica, sull´industria tecnologicamente più avanzata. «Il profondo squilibrio – osservò Foa – fra i consumi privati e consumi sociali era già presente nella ricostruzione postbellica».

Certo la sinistra e la borghesia progressista e riformatrice avrebbero potuto modificare in meglio la ricostruzione, ma erano troppo deboli politicamente e anche culturalmente, se si pensa che un solo industriale di quel tempo, Adriano Olivetti, aveva preoccupazioni urbanistiche e sapeva incontro a quale disastro si sarebbe andati. La scelta economica dei partiti comunista e socialista era quasi un nulla: le proposte avevano un significato propagandistico e demagogico, non si seppe neppure usare la forza – allora notevole – della classe operaia. Tale essendo la situazione, si deve ammettere che le cose non potevano andare diversamente nel bene come nel male.

Paragonare la ricostruzione postbellica a quella attuale dei danni causati dalle sciagure naturali non regge, l´Italia di oggi è un paese industriale in piena efficienza e non un paese disastrato come quello in cui ci trovammo alla fine della guerra. I nostalgici del fascismo e di Mussolini dovrebbe ricordare sempre a che prezzo dovremo pagare la politica fascista di conquista e di imperialismo straccione.

L´illusione "New town"

Pier Luigi Cervellati

Ricostruire una casa o un palazzo, anche se sono storici è abbastanza facile. Bisogna conoscere le regole e i sistemi costruttivi. Si è sempre fatto: dopo le catastrofi; quando si vuole trasformare una casa in palazzo o in un altro fabbricato più grande, più solido e una volta, si diceva, più bello. Poi sempre più spesso la ricostruzione è servita per fare maggiori guadagni. Ricostruire una città è invece molto, ma molto difficile. Quasi impossibile. Quando una città diventa macerie e rovine, ci si illude di poterla ricostruire facendone (come si è deciso di fare all´Aquila) una nuova.

Nuove saranno le case, magari bellissime, spaziose, ma la città non c´è; si è solo allargata la periferia. Periferia che disperdendosi nel territorio cancella la città, come appunto nel caso dell´Aquila dopo il terremoto dell´anno scorso. Si è fatto tanto, ma la città non è stata restituita ai suoi abitanti e chissà quando lo sarà. Una città non è fatta solo di case e di abitanti. La città rappresenta una comunità. Con i suoi "valori", la sua memoria, le sue tradizioni, la sua identità. Il suo futuro. C´è solidarietà e conflittualità. C´è "vita", come direbbe un antropologo saggio e un poco retorico.

La città è un bene comune. Appartiene alla collettività. La casa è di chi la abita. Se la città finisce di essere tale perché si pensa di migliorarla con una "new town" non c´è ricostruzione possibile. La ricostruzione di case e chiese, palazzi e monumenti, strade e piazze per restituire la città come bene comune, dev´essere prioritaria, perché la città è prima di ogni altra cosa storia e cultura, lavoro e natura di chi ci vive.

Dispersa nella campagna la città non esiste più. Non confondiamo e non solo all´Aquila, la periferia, lo "sprawl" urbano (vale a dire la dispersione delle abitazioni), per città. Neppure barattiamo le new town quale esempio di moderna ricostruzione. Prima ancora che le new town riescano a diventare città saranno vecchie e obsolete. E da demolire. Forse allora si riuscirà a restituire-ricostruire la città: ricostruire i suoi rapporti e quel senso di civile responsabilità che la dispersione periferica dell´urbanizzato ha distrutto.

Gli esempi stranieri, anche quando si riferiscono a grandi metropoli, vanno in una direzione diversa, se non opposta. Negli ultimi cinquant´anni Los Angeles, Chicago, Tokyo si sono ricostruite su sé stesse. Un identico fenomeno ha investito le grandi città cinesi. Gli abitanti sono cresciuti a dismisura, in qualche caso sono triplicati in un numero limitato di decenni. Ma, appunto, la ricostruzione è avvenuta sul già costruito e così i nuovi organismi, pur completamente cambiati, hanno mantenuto la stessa struttura. Per esempio, Tokyo è rimasta una città di città. In parte anche Los Angeles ha riprodotto il proprio sistema formativo.

Da noi è avvenuto il contrario. Dal centro della città si sono staccate le periferie, che sono rimaste corpi separati. Periferie c´erano anche a L´Aquila. E, prima delle periferie, c´era una sistema fondato su un centro molto prestigioso e su alcune decine di frazioni. Con le new town non c´è nessuna ricostruzione, ma solo la costruzione di una città fatta solo di periferie. Il resto sono macerie.

L’Aquila Aiuti mai arrivati, con chiese, palazzi, monumenti che a stento si è riusciti a puntellare per evitare ulteriori crolli. A un anno dalla notte più terribile, è ancora orfana l’arte d’Abruzzo squassata dal terremoto. Un flop la “lista di nozze” lanciata dal premier Berlusconi nei giorni del G8 per chiedere ai Grandi della Terra di adottare 45 monumenti simbolo, vuote o quasi le casse del vice commissario Luciano Marchetti. Che ora chiede sia lo Stato ad intervenire. Mentre il consiglio superiore dei beni culturali ha chiesto la fine del commissariamento con la riattribuzione le competenze alle soprintendenze e alla direzione regionale.

Il conto dei danni, nel frattempo, è cresciuto, precisato dal lavoro fatto in questi mesi dalle squadre di tecnici della soprintendenza, della Protezione civile, dei vigili del fuoco, che hanno censito 1763 monumenti, verificato, puntellato. Per riparare i guasti dei monumenti servono 3,5 miliardi di euro, conta Marchetti, che l’esperienza l’ha già fatta con la ricostruzione di Marche e Umbria. Certo non tutti subito, perchè ci sarà da lavorare per almeno dieci anni. Per il momento però sono arrivati solo 20 milioni della Protezione civile e 2 del ministero dei beni culturali (assegnati 3,2). Una cifra che non ha potuto coprire neppure tutte le necessità dei puntellamenti, tanto che il commissario ne ha chiesti altri 10 milioni al presidente della Regione Chiodi, soldi - spiega - che servono per terminare i puntellamenti.

Fatta eccezione per i progetti finanziati dall’estero o da associazioni, istituzioni pubbliche e privati italiani, insomma, il restauro vero e proprio non si può cominciare. Il discorso vale anche per la maggior parte dei 45 monumenti della lista. Per restaurarli tutti servono più o meno 450 milioni. Quelli raccolti fino ad oggi - non tutti ancora materialmente arrivati - sono meno di 50. I contributi stranieri si contano sulle dita di una mano, i più generosi sono i russi, con un contributo di 7,5 milioni offerto per riparare Palazzo Ardinghelli e la Chiesa di San Gregorio Magno. Poi ci sono i francesi (3,2 mln per le Anime Sante) e i kazakistani, (1,7 mln per San Biagio di Amiternum).

«I cittadini non possono essere esclusi. Vogliamo partecipare a un'idea di città, non solo nel centro storico, ma anche nelle periferie. Vogliamo entrare in una casa sicura ed essere d'esempio per tutti. Perché ogni 10 anni in Italia ci sarà un terremoto. E noi non vogliamo più cadere a pezzi. Punto». Un anno dopo, la richiesta è sempre la stessa. Ripetuta con il tono pacato di Giusi Pitari, prorettore delegato dell'università dell'Aquila. O urlata nelle manifestazioni dei comitati di cittadini, anche quelle - composte ma tese - che hanno attraversato la città nel primo triste anniversario del sisma.

Perché un anno dopo la scossa che ha distrutto il capoluogo d'Abruzzo, mentre gli aquilani si abituano a una nuova vita in mezzo a colline e campagne puntellate da Case (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili) e Map (Moduli abitativi provvisori), mentre le attività economiche stentano a ripartire e i villeggianti forzati sulla costa invocano un aiuto per ritornare, un primo bilancio dice che la fase dell'emergenza non è ancora finita. A dispetto di proclami e promesse. Perché «la ricostruzione è stata impostata solo in minima parte»: si è pensato ad alloggiare i cittadini, ma non a offrire loro una reale prospettiva di rinascita della città e a coinvolgerli in quest'opera. Lo denuncia l'organizzazione internazionale Action Aid, che si occupa della lotta alla povertà e interviene in occasione delle emergenze per il sostegno alle popolazioni. In una video-inchiesta dal titolo eloquente, L’Aquila a pezzi, l'organizzazione analizza innanzitutto il tanto sbandierato beneficio che lo spostamento del G8 in Abruzzo avrebbe dovuto portare alle popolazioni colpite dal sisma. «Un' occasione storica», la definivano i vertici della Protezione civile. E invece il bilancio è a dir poco deludente. «Sconfortanti» i dati citati da Anna Maria Reggiani, direttrice regionale dei Beni culturali: «Già prima tutto il sistema museale locale arrivava a l00mila visitatori l'anno, che è poco.

Ora siamo scesi a 30 mila». E «inferiori alle aspettative» anche i finanziamenti per la ricostruzione del patrimonio storico (tre miliardi di euro stimati). Chi non ricorda la famosa lista di nozze che Silvio Berlusconi aveva agitato sotto il naso dei potenti della terra? Ebbene, «la richiesta che avevamo fatto per i 45 monumenti inseriti nella lista, ammontava a circa 250 milioni di euro - dice Luciano Marchetti, vicecommissario ai Beni culturali per la Protezione civile - Arriveremo a circa 40 o 50 milioni di euro». Insomma: le tre giornate del G8, esclusi i finanziamenti per la Maddalena, sono costate 185 milioni di euro, mentre ai monumenti della provincia de L'Aquila sono arrivati al mese scorso 34 milioni per la messa in sicurezza, più 15 milioni di impegni precisi da Paesi stranieri (Francia, Germania, Russia, Kazakistan). Quanto fatto finora? «Gocce nel mare», secondo Marchetti. E poi ci sono i cittadini, le loro case, il loro lavoro. Umberto Trasatti, segretario provinciale della Cgil, denuncia una «situazione drammatica»: «Abbiamo ancora oggi 16 mila persone senza lavoro. Delle quali 8mila hanno usufruito di un trattamento di 800 euro mensili per soli tre mesi». Gli ex commercianti del centro storico dell'Aquila, si contendono locali in affitto a cifre improponibili (fino a 3000 euro al mese per 100 metri quadri). E anche le attività che non hanno subito danni diretti dal terremoto, soffrono gli effetti di un'economia ferma. Tanti si sono già spostati in altre città e il rischio è che l'esodo sia sempre più massiccio. Anche se c'è un enorme desiderio di tornare, ad esempio da parte dei 3.500 sfollati che ancora oggi sono alloggiati negli alberghi sulla costa («non proprio una vacanza», sottolinea Action Aid), al costo di circa 580 mila euro al giorno.

Ma qui viene il tasto dolente. Le abitazioni. Il governo ha deciso di saltare la fase degli alloggi provvisori e passare dalle tende direttamente alle durevoli e antisismiche Case. Ebbene, in tanti denunciano essersi trattato di una scelta sbagliata. Non solo perché le Case si sono rivelate molto costose (2.428 euro a metro quadro, contro i 1.210 euro dei Map). Ma anche perché, come sottolinea l'ex presidente della Provincia, Stefania Pezzopane, le new town pongono un enorme problema di «riorganizzazione sociale», con difficoltà di ambientamento delle persone e necessità di creare una rete di servizi. «Le new town ci hanno isolato, ci hanno diviso, abbiamo perso l'identità», dice la signora Gigina, 66 anni.

E l'urbanista Vezio De Lucia le dà ragione. «Il modello di ricostruzione de l'Aquila rappresenta una pesantissima ipoteca sul futuro della città. Si è provato a fare un salto, direttamente dalla tenda alla casa, che è un errore molto grave, perché obbliga a inventare lì per lì un modello urbano, che nella migliore delle ipotesi non può non essere affidato alla assoluta casualità. La casa - prosegue - è stata contrapposta come valore unico e assoluto a ogni altro: la casa contro la città. E sono del tutto mancate le risorse, le politiche e l'impegno per mettere mano alla ricostruzione del centro storico. Che dal punto di vista urbanistico e della vita civile è fondamentale: se non si recupera il centro storico de l'Aquila, la città è destinata a morire».

Per vedere i video su L’Aquila a pezzi (in particolare, n. 7 con l’intervista a Vezio De Lucia)

Ascolto il prefetto dell'Aquila che esorta a non contrapporre «due curve: una che dice tutto va bene e l'altra che dice tutto va male». E’ già un passo avanti rispetto alle trombe suonate a tutto spiano da Berlusconi & Bertolaso a sostegno dell'intervento più straordinario mai realizzato in una zona terremotata a livello planetario. Nell'organizzazione dei soccorsi mi sembra obiettivo osservare che la Protezione civile - grazie anche ai Vigili del Fuoco, di cui non si parla quasi mai, e dei volontari - ha operato con efficacia e solerzia. Qui mi fermo. Sul piano, infatti, dei ricoveri e ancor più dei recuperi e dei restauri, o si sono ripetuti vecchi errori, o si sono volute attuare misure «nuove» che peseranno per decenni sui centri storici, sul loro territorio e paesaggio, a partire dall'Aquila. Chi dice queste cose viene accusato dal potente Guido Bertolaso di «buttarla in politica». E l'arcivescovo dell'Aquila, Giuseppe Molinari, vede nel «popolo delle carriole» chi «vuol creare dal punto di vista politico un gruppo che abbia autorità nella ricostruzione». Berlusconi aveva progettato un suo «sogno» mediatico: l'Abruzzo come spettacolare parata governativa, nazionale e internazionale. A lungo gliel'ha consentito la rassegnazione delle popolazioni locali tramortite dalla sciagura e, ancor più, il silenzio connivente di gran parte dei media nazionali.

Lo stesso Pd doveva costituire all'Aquila un suo presidio «nazionale», come ha fatto ora l'Unità. Alla base c'è stato però il solito vizio di Berlusconi, il suo «ghe pensi mi». Di qui la scissione, in due tempi, dei soccorsi/ricoveri e della ricostruzione. Mai avvenuta prima d'ora. Con tutto il denaro, o quasi, concentrato nei MAP e soprattutto nelle cosiddette «new town», alla fine ghetti costati come case di lusso o hotel a 5 stelle. Una mentalità che ha scompaginato, agli inizi, le già disperse comunità locali e che continua a confondere la Chiesa stessa, qui assai meno protagonista, in positivo, dei vescovi friulani o umbro-marchigiani.

La logica del duo di comando ha infatti esaltato il ruolo della Protezione Civile e tagliato fuori il Ministero per i Beni Culturali e le Soprintendenze. Un rovesciamento rivelatosi disastroso. Giuseppe Basile, gran coordinatore dei restauri ad Assisi, si è presentato, fresco di pensione e di assicurazione privata, ma è stato rimandato a casa. Come gli «Amici di Cesare Brandi». Come l'esperto di organi antichi abruzzesi M° Armando Carideo. Mentre le squadre dei volontari, prive del solito esperto del MiBAC, agivano senza guida tecnica. E non si rispondeva nemmeno alle offerte di disponibilità di Dipartimenti universitari specializzati dell'Aquila e di Roma. In Umbria e Marche le operazioni di soccorso erano state accompagnate dal rapido ricovero delle opere d'arte e delle suppellettili in magazzini attrezzati, o dalla «velinatura» degli affreschi, a differenza di quelli della Cappella Branconio a San Silvestro, ancora scoperti dopo 5 mesi. Berlusconi aveva lanciato «l'adozione» di un monumento da parte dei Paesi più ricchi. Semifallita. Dalla logica sbagliata dei due tempi nasce l’anno perduto per i centri storici, Aquila in testa. La «butto in politica»: le pietre di Venzone avevano cominciato subito a numerarle, mentre qui le macerie sono state selezionate da poco o per niente. E adesso Bertolaso denuncia: «Non ci sono progetti per ricostruire».

Ma che dice Roberto Cecchi, già direttore per i beni architettonici ed ora segretario generale del Ministero? A dicembre affermava: 1) «La nostra Direzione generale non ha avuto nessun ruolo nella questione dell'Aquila»; 2) «non credo che il tema sia la ricostruzione, ma la prevenzione» (?); 3) «il Duomo di Venzone è solo una cartolina e il restauro viene evocato come possibilità di tornare taumaturgicamente indietro». Insomma, sta a vedere che la colpa è degli aquilani, degli abruzzesi, dei loro sindaci e di chi, coi badili e con le carriole, «la butta in politica».

Dieci anni per ricostruire la città (con ventimila palazzi gravemente lesionati). Cinquantaduemila aquilani ancora senza la loro casa e "a carico dello Stato". E che rimarranno a lungo in questa condizione. I primi cantieri (4.500) autorizzati da mesi, ma fermi per problemi burocratici. Ma anche diciannove new town costruite dal governo a tempo di record, in appena sei mesi. È questa la foto dell´Aquila, un anno dopo il terremoto.

Nessun colpevole, invece, per i morti di Onna, Paganica, San Demetrio, San Gregorio, Castelnuovo, Poggio Picenze, Villa Sant´Angelo e per quelli del centro storico dell´Aquila: 150 inchieste giudiziarie su 184 - avviate pochi giorni dopo la tragedia dalla Procura della Repubblica dell´Aquila - saranno archiviate. I magistrati chiederanno il processo solo per 30 palazzi (costruiti dopo gli anni 60, quando sono entrate in vigore le norme antisismiche), dove gli inquirenti hanno riscontrato «cemento annacquato e violazione di tutte le nome antisismiche». Niente da fare per gli altri 150 crolli-killer: non si può processare nessuno. La legge non lo prevede.

Gli sfollati tra alberghi e tende

Dopo il sisma del 6 aprile, di magnitudo 5,9 della scala Richter (con 308 vittime e 1600 feriti) 67.459 sono stati da subito assistiti dalla Protezione civile: 35.690 sistemati in 200 tendopoli; 31.769 in hotel o case private. Nel giro di pochi giorni all´Aquila sono arrivati 17mila volontari. Ora - un anno dopo - sono 4.300 le persone ancora negli alberghi (sulla costa o L´Aquila), più altre 622 negli appartamenti presso la caserma della Guardia di Finanza di Coppito. Per tutti gli altri la Protezione Civile è riuscita a ottenere un tetto (19 mila aquilani sono stati sistemati nelle case realizzate dal governo). Le tendopoli sono state chiuse a dicembre. Tempi record anche per le scuole distrutte dal sisma: ne sono state tirate su e riaperte 32.

Ricostruzione: cantieri al palo

Dopo 80mila sopralluoghi tra i palazzi (effettuati da 5mila tecnici, per un totale di 73.521 verifiche su edifici pubblici e privati), le strutture totalmente inagibili sono risultate il 32% di quelle private, il 2% di quelle pubbliche e ben il 53% di quelle che rientrano nel patrimonio culturale. Più della metà degli edifici privati e pubblici sono risultati invece agibili. Ad oggi però su 4.500 cantieri autorizzati, appena 100 hanno dato il via ai lavori.

Le macerie ancora per le strade

Tre milioni e mezzo di metri cubi di macerie sono ancora per le strade del centro storico, e bloccano la ricostruzione. I comitati cittadini (poi diventati il "popolo delle carriole") per cinque domeniche consecutive hanno occupato le vie del centro, e rimosso le macerie a mano. Una protesta che ha costretto il governo a sbloccare la vicenda, coinvolgendo l´esercito. «Entro quindi giorni - ha assicurato pochi giorni fa il nuovo commissario delegato alla ricostruzione, il governatore della Regione Abruzzo Gianni Chiodi (che ha preso il posto di Bertolaso) - tutti i detriti saranno rimossi».

Crolli senza colpevoli

Per sapere la verità giudiziaria si dovranno attendere, invece, solo pochi mesi. Infatti, sulle 184 indagini portate avanti in Procura da un solo magistrato (Fabio Picuti) e dal procuratore capo Alfredo Rossini, solo 30 arriveranno probabilmente a processo. O almeno questa è l´intenzione degli inquirenti. I morti nei paesini del circondario, e nel centro storico dell´Aquila, rimarranno senza colpevoli, per la giustizia penale. Le costruzioni in questione ricadono in un´epoca storica nella quale non c’erano ancora norme antisimiche.

Un filone d’indagine che promette clamorosi sviluppi, riguarda invece la tragedia inutilmente annunciata da quattrocento scosse violente (nei quattro mesi prima del sisma), senza nessuna opera di prevenzione da parte dello Stato. Un´indagine che vede nel mirino la Protezione Civile su cui pende un dossier della Polizia con l’accusa di omicidio colposo (come scritto da Repubblica domenica).

Beni artistici: il tesoro distrutto

Sono 4.950 le opere d´arte salvate e messe in sicurezza in chiese e palazzi gravemente danneggiati dal sisma. Statue, dipinti, sculture, oggetti sacri e liturgici sono stati recuperati tra le macerie dai vigili del fuoco, delle soprintendenze, delle forze dell´ordine e dei 350 volontari di Legambiente. Il Fai ha avviato la ristrutturazione della Fontana delle 99 Cannelle, simbolo della città. Manca ancora all´appello la maggior parte dei finanziamenti promessi per i restauri dai Grandi della terra in occasione del G8.

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