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«Non permettiamo a nessuno di dire che siamo strumentalizzati». Conferenza stampa a Roma dei comitati cittadini aquilani: «La nostra città sta morendo e questo vale per tutti, a destra, a sinistra, al centro».

Nei filmati si vedono i sindaci, il sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, altri sindaci con la fascia tricolore, i vigili urbani con i gonfaloni, schiacciati, strattonati. Si vedono persone anziane, in particolare uno, con la paglietta sulla testa, che batte le mani ironicamente. Si vedono tanti ragazzi e ragazze giovanissimi con gli zainetti sulle spalle. Tutti a viso scoperto, tutti con le mani nude alzate. Poi la sorpresa, quando arrivano le manganellate: «Che c.. fate?». Si vedono i due ragazzi inermi a cui le manganellate hanno spaccato la testa e i giornalisti a cui viene impedito di lavorare. Sono centinaia i filmati prodotti dai comitati, da giornalisti e dalla Digos. Nessuno dei manifestanti del 7 luglio a Roma ha compiuto atti aggressivi. È una cosa dimostrata indirettamente dai nomi degli stessi denunciati: un romano, reo di aver prestato ai manifestanti aquilani il furgoncino su cui sono stati piazzati i megafoni, un aquilano che è quello che ha firmato la richiesta di autorizzazione.

Nella sala del mappamondo della Camera dei Deutati sono tre donne, dalle storie diverse, a raccontare ai giornalisti e ai deputati presenti, da Bruno Tabacci a Paola Concia, da Giovanni Lolli a Mantini, la «verità dei fatti». Sara Vegni, portavoce del centro sociale 3 e 32, Anna Lucia Bonanni, insegnante, Giusi Pitari, prorettore dell’università dell’Aquila.

SCORTATI

«I nostri 43 pullman, a cui si sono aggiunti gli aquilani in macchina e quelli che hanno utilizzato i mezzi pubblici, sono stati scortati dai mezzi della Questura de l’Aquila fino alla barriera di Roma est. A quel punto siamo stati accompagnati dai mezzi della questura di Roma, facendo un itinerario lunghissimo. Così siamo approdati a Roma, a piazza Venezia, dove abbiamo trovato polizia e carabinieri in assetto antisommossa». Comincia così il racconto collettivo che prosegue: «I non aquilani che sono venuti alla manifestazione sono persone che conosciamo, che sono stati con noi, per solidarietà, fin dal 6 aprile 2009. Non permettiamo a nessuno di dire che siamo stati strumentalizzati». Strumentale è, invece, fare di tutto per oscurare le nostre ragioni: «Il miracolo a l’Aquila non c’è stato. L’unico miracolo aquilano siamo noi che resistiamo in una città che non c’è più. Non c’è più nella zona rossa del centro storico ma non c’è più nemmeno nelle periferie, dove i pochi che resistono vivono senza servizi e senza negozi».

Una città che non esiste più né «per la destra, né per il centro, né per la sinistra», è per questo «che il nostro corteo voleva raggiungere il Senato e palazzo Chigi». I palazzi del potere, non la «residenza privata di palazzo Grazioli. Via del Plebiscito era per noi, in un corteo dove c’erano anziani, la via più breve per raggiungere il Senato».

Sono ancora poche le possibilità di lavoro in agricoltura per chi deve partire da zero e la politica dovrebbe farsi carico di agevolare il ritorno alla terra, ora che la ricerca di nuovi stili di vita inverte i flussi migratori fra le città e le campagne. Dovendo raccontarvi il mio percorso culturale e professionale devo premettere che mi ritrovo in una fase della vita in cui credo di avere messo in discussione tante certezze, aprendomi a delle scelte un po’ incerte ma senz’altro molto stimolanti. Non è facile riassumere in poco tempo il percorso di una vita, ma cercherò di farlo in poche parole, soprattutto per lasciare spazio ad altri interventi.

Mi occupo da quasi trenta anni dell’allevamento della vacca da latte e ho trascorso parecchio tempo in un mondo prevalentemente maschile, questo mi ha aiutato a pormi degli obiettivi cercando di migliorare le caratteristiche genetiche e produttive della mia mandria, ma ha anche contribuito ad accettare dei criteri di produzione e allevamento che negli ultimi anni mi mettevano a disagio e mi lasciavano insoddisfatta. D’altronde con tre figli, un marito, i nonni da seguire, l’orto, la stalla, un po’ d’impegno sociale e di attenzione alla politica del quotidiano, grossi spazi di tempo per ripensare o meditare sulla mia professionalità non ne rimanevano.

Soprattutto non ricevevo stimoli, ero uscita dall’università avendo appreso che la vacca da latte è una macchina eccezionale per trasformare erba e foraggi in latte e formaggi, ma le tendenze moderne mi spingevano a produrre grosse quantità di trinciato di mais, e a produrlo con i mezzi più moderni.

Apportando concimazioni chimiche al terreno, e lottando contro le malerbe con l’uso dei diserbanti chimici. Così ho incominciato a ripensare agli anni di studio, alla tesi di gruppo che avevo svolto in Val di Scalve, e mi sono accorta che i risultati del mio lavoro erano già stati superati dopo qualche anno di pratica agricola. Avevo con i miei compagni avviato la bellissima esperienza di gestire per pochi mesi una piccola stalla in cui svezzare con un sistema precoce le vitelle che, degli allevatori esageratamente fiduciosi, ci avevano affidato e alcuni anni dopo, nella mia stalla, ritornavo io stessa a usare il latte di vacca nello svezzamento e abbandonavo il latte artificiale.

La situazione del mercato, le quote, avevano ribaltato in poco tempo i risultati economici della mia tesi. Nonostante un dubbio avesse incominciato a farsi strada nella mia testa, ho continuato a rincorrere indici genetici, morfologici, produttivi, a compiacermi dei risultati ottenuti, però tanto più le mie vacche diventavano produttive più aumentava il divario tra il prezzo del latte e i costi sostenuti per produrlo. Avviata la stalla nel 1980 con una ventina di ettari siamo riusciti negli anni a raddoppiare la superficie coltivata passando dall’agricoltura convenzionale all’integrata, producendo la base foraggera della razione ma dovendo comprare all’esterno una grossa quota di mangimi.

Con la costante ascesa del prezzo dei mangimi, causato in parte dagli effetti climatici e dalle estati siccitose (problemi di aflatossine nel mais) e dalle speculazioni finanziarie nell’anno in cui il petrolio superò i cento dollari a barile, la gestione economica della stalla è diventata sempre più problematica. In questa situazione molti allevatori hanno continuato a credere nella crescita infinita, ad aumentare i capi, altri a chiudere, qualcuno a cercare altre vie. Io cercavo fiduciosa di resistere, un po’ perché ogni tanto guardavo la foto della stalla di brune dei miei nonni che durante i tempi della guerra erano riusciti a far studiare cinque figli mantenendoli al collegio, e un po’ perché ho sempre creduto che la piccola azienda zootecnica costituisca una forma di presidio e di difesa del territorio.

Fu la scelta di mio marito di trasformarci in azienda agrituristica a innescare il primo cambiamento, e a qualificare la nostra attività avviando dei contatti molti positivi con altre aziende.

Come spesso succede l’aprirsi a nuove idee e a contatti con l’esterno arricchisce enormemente il proprio bagaglio culturale e così mentre lui creava un Consorzio Agrituristico e incominciava una collaborazione nel comitato agricolo del Parco Sud, io decidevo di dedicare del tempo all’associazione Donne in Campo e alla creazione di un distretto equo solidale del Sud Milano (DES).

L’incontro con il DES, che ha come sostenitori molti gruppi di acquisto solidali, consumatori che prediligono il biologico, e la mia partecipazione a un seminario di Terra Madre sui cambiamenti climatici e l’agricoltura ecocompatibile, ha poi indirizzato la scelta più recente, e cioè la conversione all’agricoltura biologica.

Questa scelta comporterà da una parte una riduzione del numero di capi per ridimensionare il peso del carico animale sulla superficie coltivata, e dall’altra la ricerca di un diverso sbocco del latte prodotto che in parte verrà probabilmente caseificato e consumato all’interno del distretto. Ma comporterà anche la riduzione della coltivazione del mais, e l’avvicendamento di nuove colture con cui aumentare le produzioni proteiche riducendo drasticamente l’acquisto dei mangimi. Ce la faranno le mie vacche così selezionate negli anni?

Per adesso almeno le asciutte si godono il pascolo e hanno imparato a mangiare l’erba… Il resto sarà una sfida perché se un tempo pensavo che potessero essere biologiche le aziende che territorialmente erano favorite dall’essere isolate dai grandi centri urbani, ora ritengo che il cercare di produrre alimenti biologici all’interno delle fasce perturbane diventi una forma di presidio agricolo di fronte all’eccessiva urbanizzazione e al devastante consumo di suolo. E’ ormai fondamentale creare sinergie con i cittadini più attenti e sensibili alla difesa dei beni comuni prima che” la città cancelli la campagna “, come ha recentemente scritto in una sua relazione l’urbanista Edoardo Salzano. Certamente, l’ho capito in questi ultimi mesi andando a visitare aziende biologiche, questa è una scelta che ancora oggi pochi allevatori possono capire, ma certamente molto si potrebbe fare per cercare di diminuire l’uso delle sostanze chimiche in agricoltura, concimi, diserbanti, insetticidi, pesticidi, erbicidi, razionalizzando l’uso dei farmaci e dei presidi sanitari, ma soprattutto molto si deve fare per ridurre l’impatto dei combustibili fossili usati in agricoltura.

L’agricoltura industrializzata, basata sulla chimica, sui combustibili fossili, sui sistemi alimentari globalizzati, che si fondano a loro volta sui trasporti ad alta intensità energetica e a lunga distanza, ha un impatto negativo sul clima. I sistemi agricoli multifunzionali e biodiversi e i sistemi alimentari localizzati sono essenziali per garantire la sicurezza alimentare in un’era di cambiamento climatico. Le battaglie di Vandana Shiva per difendere i diritti dei contadini indiani nel continuare a prodursi le loro sementi, nel rifiutare le colture OGM e nel richiedere l’accesso all’acqua, non sono poi così lontane dalle nostre realtà, perché tutti i difetti delle monocolture industriali si stanno evidenziando ormai sempre di più. Il diffondersi della diabrotica da una parte, e la moria delle api dall’altra sono segnali preoccupanti di uno squilibrio creato dalla diffusione del seme conciato con prodotti dannosi all’ambiente e il cui uso, è dimostrato, è assolutamente inutile adottando tecniche agronomiche appropriate e il ripristino delle rotazioni colturali.

La direttiva nitrati, che in Italia come sempre si cerca di rimandare, ci impone delle riflessioni profonde sui metodi di allevamento, e sulle scelte programmatiche che hanno teso ad accorpare e a ingrandire le aziende agricole dimenticando nozioni fondamentali che impongono il rispetto degli equilibri tra la fertilità della terra, il suo sfruttamento e la densità di animali allevati. Ripensando agli anni dell’Università ricordo alcuni insegnamenti fondamentali ma l’esperienza più significativa è stata senz’altro quella delle tesi di gruppo. Ci insegnò a lavorare insieme, a progettare il piano di sviluppo della Comunità Montana, a rapportarci con gli allevatori, a far uscire dalla facoltà i docenti più disponibili e portarli sul territorio, a misurare le nostre nozioni sulle consuetudini delle pratiche agricole tradizionali, un’esperienza unica che non credo sia paragonabile al tirocinio che venne poi proposto agli studenti prima di laurearsi.

Se dovessi dare un consiglio ai ragazzi che studiano oggi agricoltura, li inviterei a rendersi più partecipi per difendere i beni comuni che l’amministrazione pubblica e la politica governativa continua a sacrificare in nome di un progresso e uno sviluppo che emargina i più deboli e arricchisce sempre gli stessi. Aria, terra, acqua, elementi fondamentali per garantire il vostro futuro sono sempre più mercificati.

L’aria sempre più inquinata, la terra consumata, l’acqua privatizzata, non scordiamoci che l’agricoltura, con le attività forestali, è indispensabile alla sopravvivenza umana, occorre garantire nuovi spazi e con coraggio avvicinarsi alle attività agricole.

Vorrei concludere con un commento di Carlin Petrini che proprio all’inaugurazione dell’edizione di Terra Madre del 2008 più o meno disse: “Se l’economia mondiale è messa in crisi da meccanismi che hanno premiato virtuosismi finanziari e accentuato i problemi della carenza di cibo e il dramma di intere popolazioni, è attraverso una nuova rivoluzione industriale che si potranno dare nuove risposte alla crisi dei modelli di sviluppo fin qui proposti, ma questa rivoluzione sarà fatta dai contadini di tutto il mondo che produrranno beni non effimeri riportando la terra e le sue risorse al centro dell’attenzione.”.

Da Cascina Isola Maria.

Silenzio-assenso per chi vuole costruire

Azzerate le autorizzazioni ambientali

di Valentina Conte

Case, alberghi, ipermercati e infrastrutture: passa la norma fai-da-te - Pd e Legambiente: "Effetti devastanti per il territorio, via al banditismo urbanistico" - I Verdi: "Favoriti i grandi speculatori già beneficiati dal federalismo demaniale"

ROMA - Costruire, mai stato così facile. Da oggi non occorre più alcun permesso. Basta una banale segnalazione di inizio attività, certificata da un "tecnico abilitato", la Scia, e il gioco è fatto. Unico requisito: essere un´impresa. D´un colpo, spariscono dunque tutte le altre "carte": autorizzazioni, licenze, concessioni, nulla osta. E con loro anche le procedure e i controlli essenziali per la tutela del territorio e la lotta all´abusivismo. Sparisce così la Dia, applicata finora a ristrutturazioni e manutenzioni, sostituita e ampliata dalla Scia. Con il rischio che tirare su case, alberghi, ipermercati, persino infrastrutture alla fine diventi un´attività fai-da-te, facile e insicura.

Le nuove norme sono frutto dell´ultima opera di ritocco all´articolo 49 della manovra di Tremonti, martedì all´esordio in aula. Tema generale: la semplificazione. In base al principio "un´impresa in un giorno", si potranno inaugurare ristoranti, internet point, ma anche armerie e depositi di carburante con una semplice autocertificazione, senza controlli preventivi, senza chiedere permessi, neanche alla questura. In campo edilizio, la procedura è ancora più veloce. Si apre un cantiere, dove si vuole, segnalando l´intenzione a costruire e facendola certificare da un tecnico. Trascorsi trenta giorni senza che l´amministrazione abbia contestato quell´intenzione per carenza dei requisiti, il gioco è fatto, in attesa di eventuali controlli ex post.

Non solo. Le autorizzazioni paesaggistiche (rilasciate ora da sovrintendenze o regioni) vengono fatte rientrare nell´ambito della conferenza dei servizi e sottoposte dunque al principio del silenzio-assenso: se il parere non arriva entro i termini, è considerato positivo. Infine, anche ottenere la Via (valutazione di impatto ambientale) sarà più facile, perché rilasciata non più solo da ministero dell´Ambiente e Regione, ma "appaltata" a università ed enti pubblici.

«Così salta tutta la normativa di tutela ambientale e il regime delle autorizzazioni in vigore da sempre in Italia, cancellando con un colpo di spugna l´articolo 9 della Costituzione e il Codice dei beni culturali, varato proprio dal governo Berlusconi», sbotta Salvatore Settis, archeologo e direttore della Normale di Pisa. «E poi come può l´università rilasciare la Via, se non ha alcun compito di tutela?», prosegue. «Eliminare la burocrazia e garantire tempi certi non può tradursi in un "tana libera tutti"», aggiunge Ermete Realacci, deputato Pd e presidente onorario di Legambiente. «Si introduce il far west urbanistico e si dà il via al banditismo edilizio», attacca il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli. «Questa norma continuerà ad arricchire i grandi speculatori edilizi a cui il governo ha già incartato un regalo enorme con il federalismo demaniale che svende beni e terreni dei cittadini italiani per dare il via alla più grande speculazione edilizia della storia della Repubblica» prosegue Bonelli. «A fare le spese di questa politica sciagurata saranno ovviamente i cittadini onesti che hanno seguito le regole per costruirsi una casa, ma anche l´ambiente e il territorio italiano su cui insistono quasi 500 mila frane e che è letteralmente a pezzi, come dimostrano i disastri degli ultimi anni».

Si dice preoccupato anche Roberto Della Seta, capogruppo Pd in commissione ambiente del Senato: «Con questa norma, in pratica viene abolito il permesso a costruire e si introduce una sorta di condono preventivo. E non solo per le imprese. Anche i privati interessati possono fare una società e tirare su un villino. Così si rischia una nuova Punta Perotti». «E di vanificare anche le norme antisismiche, rafforzate dopo il terremoto dell´Aquila», gli fa eco Francesco Ferrante, senatore Pd, che insiste: «L´errore è pensare di risolvere la burocrazia con l´abolizione dei controlli».



Mille foto sugli scempi edilizi gli italiani rispondono all´appello

di Maurizio Bologni

SUVERETO - Il palazzo rosa che devasta lo sky line della Torre di Pisa e i silos che deturpano tanta campagna italiana, il campanile che Oliviero Toscani chiama rampa di lancio per missili e una pala eolica tra le vigne, tetre villette ed ecomostri, squallidi capannoni e mesti condomini "adornati" di antenne satellitari e bandiere dell´Italia. Dalla Toscana a Napoli, dalla Sicilia alla Brianza, tutto il brutto del paesaggio in mille foto scattate dagli italiani. E inviate a Oliviero Toscani e Salvatore Settis, animatori del progetto Nuovo Paesaggio Italiano. "Fate delazione, denunciate lo scempio" è l´appello. Primo step dell´iniziativa, ieri sera a Suvereto nella campagna toscana della Val di Cornia, dove Toscani, Settis e i loro tanti amici hanno srotolato davanti alla cantina Petra una striscia in vetroresina e legno, lunga cento metri e larga quasi due, che in double-face riproduce 500 immagini dello scempio italiano. Il rotolo è adesso un tunnel che rimarrà in mostra fino al 30 ottobre, completato da altre immagini e testimonianze di intellettuali all´ingresso dell´avveniristica cantina. «Quello che fu il Bel Paese - spiega Settis - è invaso dalle armate nemiche: ecomostri grandi e piccoli si insediano in valli, colline, dune, scenari naturali di grande bellezza, e li devastano irreparabilmente. Di fronte a questa peste, istituzioni, politici d´ogni colore, quasi sempre tacciono, complici del brutto che avanza». Il direttore della scuola normale di Pisa ha denunciato il caos e il vuoto normativo: «Ieri in Commissione Bilancio al Senato è stato votato un emendamento che cancella tutte le norme». E ha puntato il dito sul caso Sardegna: «Ci sono decine di villaggi abbandonati a pochi metri dal mare e intanto ne costruiscono di nuovi sulla spiaggia. Recuperino piuttosto quelli già esistenti».

Il brutto del paesaggio è dunque adesso una esposizione ma anche un cantiere aperto: arriveranno altre foto, si faranno altre mostre in tutta Italia dopo questa ospitata qui a Petra dall´imprenditore Vittorio Moretti.

L’Aquila, un day after di rabbia

«Madri, padri... Quali infiltrati?»

di Jolanda Bufalini

Dopo la manifestazione di Roma la città è ancora incredula per le cariche delle forze dell’ordine e le manganellate. E non soddisfa la “mancia” del governo sull’esenzione delle tasse e sui tempi di pagamento.

Marco De Nuntis è un ragazzo che non ha mai fatto politica, è di Valle Pretara , un quartiere devastato dal terremoto, quasi tutto da abbattere. Vincenzo Benedetti l’ha conosciuto in ambulanza, il 7 luglio, a Roma, mentre tutti e due si facevano medicare i tagli da manganello. Vincenzo è un ragazzo del sud, viene da Bari e vive a L’Aquila dal 2008. Si definisce anarchico e a Parma ha fatto le lotte per la casa, ma «ho sempre lavorato, come mi hanno insegnato i miei genitori e mio nonno antifascista». Non si erano mai visti prima i due ragazzi che, secondo certe versioni, dovrebbero passare per “infiltrati” nella manifestazione degli aquilani a Roma.

A due giorni dal corteo che ha visto arrivare 45 pullman e 5000 aquilani a Roma non si placa la rabbia di chi ha visto e partecipato alla protesta nella Capitale. Nella città terremotata, abbacinata da un sole estivo che batte sulle rovine, si prepara l’assemblea cittadina di oggi, si discute on line una lettera da inviare al ministro degli Interni Marroni, dice: «Non infiltrati ma noi, madri padri, figli, figlie...». Figli e figlie che iniziano ad andare via: nella scuola di Pettino, il quartiere delle case popolari che ora sono da abbattere, le cinque prime elementari si sono ridotte a tre, i genitori chiedono il nulla osta per il trasferimento, diminuiscono in modo significativo le iscrizioni ai licei classico e scientifico.

La rabbia è anche per l’oscuramento delle ragioni della protesta e della esasperazione della città. Il sindaco Massimo Cialente, che partecipa al “laboratorio per la ricostruzione” organizzato dall’Istituto nazionale di urbanistica, spiega così l’esasperazione: «I ritardi sono ormai insopportabili. Noi non riusciamo a dare i soldi per lecase A e B, le case che hanno subito pochi danni. E sono praticamente bloccate le pratiche per le case E (quelle che hanno subito danni gravissimi). Ma il paradosso è che a questo punto si vorrebbe far credere che la responsabilità è degli enti locali, ma il comune dell’Aquila non ha potuto nemmeno chiudere il bilancio». Ormai, aggiunge, per molti esponenti della maggioranza «è come se fossi io il commissario alla ricostruzione». Ma il commissario non è lui, è il presidente della Regione Gianni Chiodi, che a Roma non c’era come non c’erano i parlamentari del Pdl: «Io sono vice, sono un sub commissario e sono disposto a diventare sub-sub commissario, purché la situazione si sblocchi».

A cominciare dal dramma delle tasse che gli aquilani dovranno iniziare a pagare con gli arretrati dal 1 gennaio prossimo. In 10 anni anziché in 5, è il piccolo risultato ottenuto dopo le proteste. Giovanni Lolli (Pd) fa notare la disparità di trattamento dei terremotati abruzzesi rispetto a tutte le altre situazioni. «Dopo il terremoto di San Giuliano, nel 2003 il presidente della Regione Molise Iorio ha esteso l’emergenza praticamente a tutta la regione, noi siamo stati persone serie e non abbiamo modificato di una virgola i confini del cratere definiti dalla Protezione civile. Il risultato, però, è che i terremotati del Molise, sebbene quel sisma abbia prodotto meno danni, sono molti di più dei terremotati aquilani». La tragedia più grande dopo il terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908 paga, insomma, gli sprechi di altri: l’emergenza in Molise è durata sino a tutto il 2009. In Umbria e nelle Marche la ripresa è stata aiutata con uno sconto del 60% su tasse e tributi, ad Alessandria, dopo l’alluvione del 2009, è stato cancellato il 90 per cento delle tasse.

Sulla carta ci sono 2 miliardi della cassa depositi e prestiti ma di questi 387 sono già stati spesi e 350 andranno a rimborsare debiti già fatti, spiega Gaetano Fontana, il capo dell’Unità di missione. Dovrebbero arrivare, ma non ci sono ancora, 800 milioni di finanziamento diretto. Una cifra pari a ciò che serve per ripristinare la rete di gas, acqua e tutto ciò che in gergo è chiamato sottoservizi. Il comune de L’Aquila ha destinato a questo 12 milioni che solitamente sono assegnati ai comuni per opere più visibili come le iniziative culturali. Spera così di riportare un po’ di vita sul corso, la via simbolo dei portici e del passeggio, dove gli aquilani vanno ancora in queste sere d’estate, peni di nostalgia per una città che sta perdendo la speranza.❖

4 domande a Vincenzo Benedetti

«Mi hanno colpito alle spalle.

Per fortuna i video hanno ripreso tutto»

Vincenzo Benedetti ha una lunga garza a coprire i 12 punti provocati dalla manganellata che ha preso sulla testa. Lo incontriamo seduto davanti alla pizzeria dove lavora da quando è arrivato a L’Aquila, nel 2008. E non ha smesso nemmeno in questi giorni di impastare, nonostante il lungo sbrego sulla testa. «Per fortuna ci sono i video che mostrano tutto. Ero di spalle quando mi è arrivata la botta dai carabinieri. Fino a ieri non sapevo nemmeno chi mi avesse colpito».

Come mai sei venuto a vivere a L’Aquila? (sorride) «Avevamo scelto, con la mia ragazza, una città tranquilla». Dove vivi adesso?

«Abito in un camper che mi ha regalato il mio datore di lavoro. Anche se ho la residenza sono un aquilano di serie B. Abitavo in affitto, nel centro storico, e con Francesca pagavamo 600 euro di affitto. Oggi gli affitti sono alle stelle e io finora non ho avuto i contributi per l’autonoma sistemazione. Ma di questo non mi importa nulla, se sono andato a Roma a manifestare è perché vorrei giustizia per gli aquilani».

Qualcuno ha scritto che hai dei precedenti con la giustizia.

«Non in piazza con la polizia. Ho lavorato a Silvi Marina, dopo il terremoto, ma non mi trovavo bene e mi sono licenziato dopo un mese, il datore di lavoro non voleva pagarmi lo stipendio e mi sono preso una denuncia per minacce. Un’altra denuncia riguarda il fumo della cannabis... ».

E come ti trovi nel lavoro qui?

«Splendidamente, io sono arrivato quinto in Europa, nel maggio di quest’anno, al campionato dei pizzaioli. Purtroppo a voi giornalisti di questo non importa nulla, invece se prendi una manganellata sei su tutti i media».

Conferma il signor Giovanni, poliziotto appena andato in pensione: «Vincenzo è un bravissimo pizzaiolo e mio figlio è un ottimo cuoco. Hanno risollevato questo posto dove non veniva più nessuno in un modo straordinario». J. B.

Così l’Abruzzo viene ricacciato

nel Sud più profondo

di Vittorio Emiliani

Gli errori del governo hanno paralizzato l’economia regionale spingendola ai livelli più bassi dopo la crescita degli anni ’80 Il premier si è occupato solo di edilizia e anche qui ha sbagliato

«Svegliarsi a sud». È il groppo di paura che prende gli abruzzesi, gli aquilani in specie, nel gorgo di questa crisi per ora senza fine. Ci hanno messo decenni per staccarsi dalle retroguardie del Sud e per «vedere» il Centro. Ora temono di venire ricacciati indietro. Anche questo muove la protesta, la rabbia del popolo dei terremotati che ha invaso il centro di Roma, venendo repressa con assurda violenza davanti ai palazzi del potere. La vicinanza dell’Aquila a Roma, fondamentale per le «passerelle» di Silvio Berlusconi quale deus ex machina del post-terremoto, gli si ritorce contro, ora che errori e false promesse si svelano per ciò che sono.

Esito prevedibile dopo l’oggettivo successo nei soccorsi più immediati fin dal momento in cui Berlusconi si è rifiutato di tenere in conto le esperienze più positive di altri terremoti (Friuli e Umbria-Marche), di praticare la strada della partecipazione, di raccogliere così idee utili per una strategia mirata sulle realtà dell’Abruzzo e dell’Aquila. Ha imposto la propria linea «edilizia», come se il solo problema fosse quello di dare un tetto (non importa quale) a tutti. E neppure in questa impresa parziale e insufficiente è riuscito, nonostante il fragore mediatico montato sul Salvatore d’Abruzzo. Nessun discorso sulle priorità vere e utili fra case, fabbriche (di qualunque tipo) e chiese. Dilemmi che si erano giustamente posti in Friuli e in Umbria-Marche e che avevano consentito di non paralizzare economie ben più solide di quella aquilana.

Soltanto un presuntuoso, goffo ghe pensi mi. Coi risultati sconsolanti che ora allarmano i terremotati.

Negli anni 70 e 80 l’Abruzzo aveva risalito la china conquistando posizioni più vicine a quelle del Centro. Poi un rallentamento: -0,3% nella crescita del Pil fra ’95 e 2004, contro il +1 dell’Italia. Nel 2008 -0,4, meglio del Paese e di gran parte del Sud. Nell’anno precedente il sisma, l’Abruzzo risultava 13° nella graduatoria del PIL, con l’indice 83,5 (Italia=100) contro 93,0 dell’Umbria, la meno ricca del Centro, e contro il 71,2 della Basilicata, la meno povera del Sud. A conferma che il distacco dal Mezzogiorno si era mantenuto marcato e che il «sogno adriatico» di rincorrere le Marche poteva ancora essere coltivato. Pur fra crescenti problemi e squilibri interni. Come ben racconta il recentissimo lavoro di Paolo Mastri del Messaggero uno dei giornalisti più attivi e lucidi nel valutare Il quinto Abruzzo. La storia cambiata dal terremoto (Edizione Tracce, 2010). «Svegliarsi a sud. Raccontare il vero rischio dell’Abruzzo al bivio». Coi dati esposti prima ovviamente peggiorati dalla tragedia aquilana e dal blocco dell’economia. Mastri cita il dossier di gennaio di Bankitalia che individua i quattro fardelli della regione: povertà relativa, improduttività della pubblica amministrazione, disastro sanitario, ipoteca criminale sul ciclo del credito. Tali da neutralizzare i passi avanti fatti nella politica del lavoro e nella competitività dei sistemi territoriali. In pochi anni la criminalità a partire dalla vulnerabile costa pescarese si è estesa al punto da indurre le banche a rendere meno facili a tutti «le condizioni di accesso al credito». Freno gravissimo in una regione dalle tante mini-imprese e dalla elevata «mortalità» aziendale, specie a Chieti e all’Aquila. Mentre i tempi della ricostruzione e della rimessa in moto dell’economia si allontanano sempre più assieme al borioso «sogno del Cavaliere» lasciando macerie.

il manifesto

Terremoto sul capo

di Valentino Parlato

Quel che abbiamo visto ieri a Roma va oltre ogni immaginazione del peggio. Guardate le immagini, nonostante le omissioni del Tg1. Migliaia di cittadini dell'Aquila, sindaco in testa, vengono a Roma per protestare contro l'abbandono nel quale sono stati lasciati dopo il gran teatro del G8, la santificazione di Bertolaso, e Berlusconi in gloria con il casco. Sembrava di essere tornati ai tempi di Scelba, cariche e manganellate senza pietà. Terremotati e mazziati. Quelle immagini esprimono la ferocia e la rabbia di un capo che ha visto crollare tutti i suoi illusionismi con i quali era sicuro di aver conquistato la popolazione dell'Aquila. L'ha considerato un tradimento e dato via libera al pestaggio degli aquilani venuti a Roma per dire la verità, per dire che L'Aquila è distrutta e abbandonata a un destino di cancellazione dal vivere civile. Venuti per protestare, perché oltre al danno vivono la beffa della «manovra» che li vuole super-tassati.

Ma forse in questa rabbiosa ferocia di Berlusconi c'è anche la paura di essere arrivato alla fine della sua parabola. Si sente travolto dalle liti e dalle ambizioni personali dei suoi gerarchi, dall'opposizione delle Regioni (anche le sue) ai tagli, dalle difficoltà con Tremonti e Bossi, dai sondaggi che lo danno in calo. Ha perso il lume della ragione e probabilmente ha avuto anche la tentazione di mandare Bertolaso alla testa delle guardie che hanno manganellato gli aquilani.

Ma tutto questo che effetto avrà in un Italia politicamente disfatta? Dove il partito, che dovrebbe essere di opposizione, il Pd - come ha scritto Ida Dominijanni sul manifesto di martedì scorso - che sa solo delegare la salvezza al «ruolo guida del Capo dello Stato». Confessando così non solo una nascosta pulsione presidenzialistica, ma anche - e soprattutto - una dichiarazione di inesistenza. Questo partito, che quando è stato al potere, col secondo governo Prodi, ha saputo solo cercare di imitare Berlusconi e adesso, da quando (dovrebbe essere) all'opposizione non è mai stato in grado, non dico di mettere in difficoltà Berlusconi, ma neppure di aprire un serio e chiaro fronte di lotta, trangugiando tutto con malmostosa impotenza. Siamo a un punto limite, quel che ancora in questo paese c'è di sinistra, pur disperso e fuori della guida illusoria dei partiti, dovrebbe entrare in comunicazione, dovrebbe aggregarsi, chiedere conto e ragione al ceto politico che pure manda in parlamento.

Il popolo dell'Aquila ci ha dato un segnale forte. Bisogna scendere in campo, mandare al diavolo quei sepolcri imbiancati che dicono di rappresentarci. Non possiamo restare travolti e schiacciati dal crollo, inevitabile, di Berlusconi.

L’Unità

Questa violenza

di Luigi Manconi

Una giornata di ordinaria violenza istituzionale. Dentro e fuori il Palazzo, dentro e fuori il Paese.

Alle ore 15.45 di ieri, 7 luglio 2010, il ministro per i rapporti con il Parlamento nel corso del question time, rispondeva così agli interrogativi posti da Livia Turco: all’origine della tragedia dei 245 tra eritrei e somali rinchiusi nel carcere di Brak, vi sarebbe «un equivoco». Ai profughi sarebbe stato sottoposto un questionario per esse- re avviati a «lavori socialmente utili», ma gli eritrei e somali si sarebbero rifiutati, temendo che, attraverso quella procedura, venissero rimpatriati a forza. Da qui il trasferimento, in condizioni disumane, nel carcere di Brak.

Il grottesco infortunio di questa risposta del Governo, che riduce un autentico dramma umanitario alle dimensioni piccine di un fraintendimento, ha segnato questa giorna- ta di ordinaria violenza istituzionale. E, infatti, che cosa è più violento tra il comportamento brutale della polizia nei confronti dei cittadini de L’Aquila che manifestavano a Roma e la menzogna sulla sorte di quegli uomini in fuga da regimi totalitari? E, anco- ra, c’è qualcosa di più violento dell’ottusa indifferenza nei confronti di quei disabili che vedono ridursi drasticamente sussidi già miserevoli e previdenze economiche tanto esigue da risultare oltraggiose? Se osservata attraverso questi fatti - e attraverso lo sguardo di tanti soggetti deboli, terremotati o disabili o fuggiaschi - quella di ieri può sembrare davvero una giornata da fine regime. Dalla sudaticcia rincorsa a rattoppare, rappezzare, rappattumare una manovra che fa acqua da tutte le parti allo sfarinarsi di una maggioranza, tanto più imponente sulla carta quanto più goffa e arrancante nei fatti, dal ricorso irresponsabile alle forze dell’ordine (minacciate, a loro volta, da tagli micidiali) all’ostentato cinismo, nei confronti di quel principio universale che è il diritto d’asilo, si ha la sensazione di un sistema di potere che si avvia a un irreparabile declino.

Sarebbe un errore credere che questo significhi, quasi automaticamente, l’inizio di un tempo nuovo. La fine del berlusconismo è destinata a passare attraverso una crisi lunga e devastante, che non si limiterà a logorare i suoi protagonisti, ma che avrà effetti velenosi e conseguenze debilitanti per l’intera società. Per dirne una, la campagna ideologica contro lo straniero e quel sistema di interdizioni e divieti, obblighi e sanzioni che, tramite delibere di amministrazioni locali, intendono disciplinare la vita sociale, non sono revocabili né in breve tempo né attraverso semplici azioni positive. I guasti, e che guasti, hanno inciso in profondità nella mentalità condivisa, nelle relazioni sociali e nei modelli di vita. Proprio per questo è fondamentale che, da subito e in ogni spazio agibile, si operi per affermare un punto di vista diverso. La vicenda dei cittadini de L’Aquila è così importante proprio perché dimostra come la cosiddetta “politica del fare” si riduca a un osceno esercizio di retorica, dove - tra effetti speciali e cotillon - si cancella la vita vera delle perone. E la vicenda degli eritrei è, sì, una questione umanitaria, ma è anche molto di più: è in gioco la vita di quei profughi e, insieme, la nostra civiltà giuridica.

Terra

Non può durare

di Enrico Fontana

Emma Marcegaglia se l’è cavata con un colpo di telefono. Per i rappresentanti dei Cocer, i “sindacati” delle forze armate, è stata sufficiente una conferenza stampa. I cittadini de L’Aquila, invece, hanno dovuto invadere il centro di Roma, prendersi una buona dose di manganellate e non avere comunque la certezza di essere ascoltati. Ai rappresentanti delle associazioni dei disabili sono state risparmiate le botte, ma è la prima volta che devono scendere in piazza, tutti insieme, per difendere il diritto a una vita dignitosa. Il governo Berlusconi, quando si tratta di scegliere con chi trattare e chi lasciare fuori dalla porta, ritrova la sua vera identità. Forte con i deboli e debole con i forti. Le immagini di ieri, insieme alla minaccia di abdicazione ripetuta da giorni come un mantra dai presidenti delle Regioni, danno davvero l’idea di un governo alla sbando. E più che dall’iniziativa dell’opposizione parlamentare, è proprio dalla pancia del Paese che sembrano arrivare i segnali di un possibile disfacimento di questa maggioranza.

In evidente deficit di credibilità, con due ministri dimissionari (Scajola e Brancher), il titolare dell’economia impegnato in un rovinoso «Tremonti contro tutti», la stampa in rivolta contro la legge bavaglio, Berlusconi annaspa alla ricerca di una via d’uscita. E cerca come può di turare le falle. Senza una strategia, però. E si vede. Lui, che pure è uno stratega della comunicazione, commette errori grossolani. Ma come si fa, con la crisi che azzanna persino la spesa alimentare delle famiglie, da un lato consentire alla presidente della Confindustria di sorridere beata in tv dicendo «ho sentito al telefono Berlusconi e Tremonti, le nostre richieste sono state accolte» e dall’altro far prendere a manganellate i terremotati de L’Aquila, che chiedono una ragionevolissima solidarietà?

E che senso ha spingere le rappresentanze delle forze armate fino al punto di mostrare le stellette in tv per attaccare il governo, perché con i tagli della finanziaria mette in pericolo la sicurezza del Paese, per poi concedergli d’un colpo 160 milioni di euro in due anni?

Siamo al suk, altro che il rigore che pure sarebbe necessario per evitare l’assalto della speculazione finanziaria alla disastrate casse nazionali. Nei palazzi, Chigi e Grazioli indifferentemente, si mercanteggia con i “poteri forti” e nelle strade si fa la voce grossa con chi rivendica diritti e pretende risposte. Non può durare a lungo. O almeno si spera.

Postilla

I commenti di altri giornali, che abbiamo ascoltato a “Prima pagina”, avrebbero meritato di essere raccolti in quella specie di Colonna infame che abbiamo in questo sito, la cartella “Stupidario”. Ma a certi giornali non siamo abbonati né vogliamo farlo. Un nostro commento ai fatti di ieri e all’indignazione che hanno suscitato (fuorchè in quei giornali lì, e nelle televisioni del Padrone dello stato) riguarda la distrazione con cui la stampa ha seguito fin dall’inizio i fatti dell’Aquila, e con cui ancora oggi persevera nell’errore. La tesi prevalente è la seguente: il Governo, e Bertolaso in prima persona, all’inizio hanno fatto bene, poi hanno trascurato e sbagliato.

No, non è così: fin dall’inizio l’impostazione che è stata data al dopo terremoto è stata palesemente errata: qualcuno (pochi) l’ha denunciato fin dai primi giorni (aprile 2009), e la cartella di eddyburg dedicata all’evento lo testimonia. La corruzione, la speculazione, l’indifferenza per le condizioni reali, sono tutte cose che vengono dopo e sono in gran parte conseguenza degli errori di fondo, che sono stati denunciati (da pochi) fin dall’inizio: era già nelle scelta della mistificazione delle “New towns” alla Berlusconi anziché nella ricostruzione delle strutture urbane, fisiche e sociali; era già nella scelta della soluzione autoritaria e militaresca anziché quella che fa leva sugli enti locali e sulla popolazione. Continuare a dire oggi che “all’inizio andava tutto bene poi hanno cominciato a sbagliare” significa non aver capito nulla, e continuare a ingannare l'opinione pubblica.

Piccola storia nordista di abusi privati e pubbliche lentezze. Protagonista: Reitano Antonino, costruttore abusivo con vocazione d’assessore. Luogo: Desio, città della Brianza. Tempo: il nostro, con i politici, gli affaristi, gli avventurieri. Questa piccola storia comincia nel 1999, quando una pattuglia di vigili urbani – ma ora si chiamano polizia locale – vede un piccolo cantiere su un’area agricola. Qualcuno sta per costruire una villetta. Abusiva. Un cubo di cemento, da far invidia alle ville pastrufaziane tanto odiate da Carlo Emilio Gadda. Identificano il proprietario del manufatto in costruzione: Reitano Antonino, appunto, nato a Rosarno (Reggio Calabria) ma residente a Cusano Milanino, ridente paesone a ridosso di Milano. Comincia quel giorno una complessa procedura per fermare l’abuso. Al signor Reitano viene intimato di abbattere il manufatto. Lui non abbatte, anzi procede nella costruzione, fino a terminare la villetta. Nel 2004 i vigili tornano. Intimano ancora. Ma ci sono i ricorsi, le carte bollate, il Tar, l’ufficiale giudiziario, le perizie, le carte catastali, le delibere di giunta. E gli amici, e gli amici degli amici. Nel 2008 sembra cosa fatta. Anche se Reitano Antonino resta tranquillo nella sua casetta: “Ma cosa volete da me”, dice ai vigili, “il geometra mi ha detto di costruire, tanto poi arriva il condono”. Quale geometra, gli chiedono i vigili-poliziotti locali. “Il geometra Perri”, risponde serafico Antonino. Attenzione. Questo è un nome che pesa, in Brianza. Rosario Perri, detto “il cardinale nero”, per 40 anni è stato il ricercatissimo dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Desio. Potente più d’un sindaco, più d’un assessore. Molto amico dell’ex assessore regionale Massimo Ponzoni (oggi plurindagato) e punto di riferimento della composita comunità calabrese della Brianza. Ora Perri ha fatto il salto ed è diventato anche lui assessore, nella giunta Pdl della Provincia di Monza e Brianza. Pure i cardinali, però, a volte sbagliano le previsioni: il condono non è arrivato. E così la villetta abusiva resta abusiva. Nel 2009, però, questa storia ha un colpo di scena: Reitano Antonino, 63 anni, geometra, ex imprenditore, rimette in fila il suo nome e cognome, si presenta alle elezioni, fa la sua campagna elettorale e viene eletto in consiglio comunale nel paese dove ha la residenza, Cusano Milanino (a Desio non la può spostare, la residenza, perché la villetta a cubo resta abusiva). Sceglie il partito giusto, il Pdl. Vince le elezioni e lo fanno assessore. Quale assessorato, vi chiederete? Al Verde, naturalmente. Per competenza acquisita sul campo. Con delega “a parchi e riqualificazione aree verdi”. Commenta Giuseppe Civati, consigliere regionale del Pd: “L’abusivismo è, purtroppo per il territorio lombardo, un vizio di alcuni esponenti del Pdl, soprattutto di quelli che dalle loro cariche istituzionali dovrebbero occuparsi di tutelare l’ambiente. Adesso capiamo perché per tanti anni si sono chiamati Casa della libertà, e anche cosa s’intendeva per libertà”. La villetta abusiva dell’assessore al Verde, intanto, undici anni dopo, è ancora in piedi. È stata invece abbattuta una costruzione edificata senza permessi, lì vicino. Ma era una baracca di rom.

Ieri sul Corriere della Sera, Gian Antonio Stella denunciava il nuovo tentativo (il terzo in cinque mesi) di parlamentari del Pdl per portare a casa il quarto condono edilizio. Il manifesto è stato in questi mesi in prima fila nel denunciare l’ennesimo regalo all’illegalità con numerosi articoli di Edoardo Salzano e di chi scrive. Finora le denuncie non sono servite ad interrompere la staffetta degli eletti del popolo amici degli abusivi. Primi in ordine di tempo (gennaio 2010) Nespoli e Sarro entrambi deputati eletti in Campania. Il primo sindaco di Afragola con una richiesta di arresti domiciliari. Dopo le elezioni regionali il testimone è passato a tre senatori, due dei quali padani e dunque senza interessi in materia, visto che la vicenda riguarda quasi esclusivamente il sud d’Italia. Terzo turno: il testimone torna alla Camera dei deputati altri tre campani, Cesaro, Petregna e Stasi, probabilmente alfabetizzati, avendo svolto ruoli negli organi della tutela statale.

La staffetta non si può fermare per due buoni motivi. Il primo è che il Pdl ha condotto la campagna elettorale per le regionali in Campania, in Calabria e a Fondi, nel sud del Lazio promettendo il condono. Hanno vinto grazie a queste promesse: è ovvio che cerchino di non perdere la faccia.

Ma oltre a questa, esiste stavolta una motivazione molto più seria. La manovra finanziaria di Tremonti è stata approvata con decreto legge ed è in vigore. Le lacrime e sangue che contiene sono state addolcite con il contentino del “Contrasto dell’evasione fiscale e contributiva” contenuto nel Titolo II. Tagliamo tutti i settori culturali e di ricerca, la scuola e i giornali indipendenti, ma finalmente facciamo sul serio conto l’evasione.

Nell’articolo 19 (Aggiornamento del catasto) si parla della questione emersa qualche tempo fa, e cioè del fatto che attraverso il confronto tra le mappe catastali e le recenti foto satellitari, i tecnici degli uffici del Catasto avevano scoperto che mancavano all’appello oltre due milioni di edifici sull’intero territorio nazionale.

Se togliamo i possibili errori, almeno un milione di case non sono state mai accatastate perché l’ultimo condono non permetteva la sanatoria degli abusi ricadenti nei parchi e nelle aree vincolate dalla legge Galasso. Esiste ancora la Costituzione che all’articolo 9 afferma che “La Repubblica tutela il paesaggio” e non è possibile condonare quegli abusi.

Finora la vicenda era rimasta sospesa. Anche le numerose ordinanze di demolizione emesse dalla magistratura non sono state eseguite sia per le proteste degli abusivi (ad Ischia e Lamezia Terme, ad esempio) sia perchè il Consiglio dei ministri ha da poche settimane sospeso le demolizioni in Campania fino alla fine del 2011. Ma adesso, al comma 8 del citato articolo c’è scritto che entro il 31 dicembre 2010 i titolari degli immobili non accatastati devono farlo obbligatoriamente. Se non lo fanno, il successivo comma 11 permette all’Agenzia del territorio di procedere d’ufficio.

Il catasto deve poi trasmettere le coordinate del nuovo edificio al comune “per i controlli di conformità urbanistico-edilizia”. E qui, come si comprende, sono dolori. Perché i comuni accerteranno che gli abusi ricadono in zona vincolata e non possono essere condonati. Devono dunque essere demoliti per legge. E’ questo articolo che non fa dormire sonni tranquilli ai parlamentari della destra. Ecco perché continua l’estenuante staffetta dei deputati e senatori Pdl. Devono uscire dal vicolo cieco in cui li ha cacciati la bulimia di consensi a tutti i costi e le strizzate d’occhio all’Italia illegale.

L’articolo di Stella può forse cambiare il corso delle cose. Se l’opposizione interpretasse finalmente la nausea che viene dalla popolazione onesta stanca degli scempi e delle sanatorie si potrebbe sconfiggere (per la prima volta nella storia repubblicana!) il partito dei condoni e riportare la legalità nel territorio. Del resto sarebbe ora: tutti i Dipartimenti investigativi antimafia affermano all’unisono che i capitali illegali vengono riciclati attraverso investimenti immobiliari e nell’abusivismo. Non è forse ora di interrompere questo male oscuro italiano?i

Il testo: sistemare entro sei mesi gli arretrati delle sanatorie del 1985, ’94 e 2003

L’altra volta, davanti alla strafottenza della proposta che voleva non solo riaprire fino al 30 marzo 2010 i termini della sanatoria 2003 ma estendere il colpo di spugna agli abusi nelle aree protette, il sottosegretario Paolo Bonaiuti si era precipitato a negare tutto: «Di nuovi condoni non se ne parla assolutamente: né fiscali, né edilizi». Anzi, aveva strillato, l’allarmata denuncia di quell’emendamento non era che «una trovata propagandistica creata ad arte dall’opposizione!». Una tesi ribadita dal ministero dell’Economia: nessun condono. E accompagnata dalle stupefacenti parole di Paolo Tancredi, che aveva giurato al nostro Mario Sensini che lui non sapeva nulla. Che manco aveva letto l’emendamento. L’aveva firmato così, perché gliel’avevano messo davanti: «Io sono un ambientalista... Mai e poi mai mi sarei sognato di proporre un condono edilizio. Dentro ai Parchi e alle aree protette, poi...». E tutti a giurare: ma no, è stato solo un equivoco, ci mancherebbe altro...

Roma Danni al paesaggio per gli abusi edilizi nel cuore della Capitale

Dieci giorni dopo, replay. All’ottava commissione della Camera si discute oggi una nuova proposta di legge: «Disposizioni per accelerare la definizione delle pratiche di condono edilizio al fine di contribuire alla ripresa economica». Vi si legge che entro sei mesi occorre sistemare tutti gli arretrati delle sanatorie del 1985, 1994 e 2003: «È noto che presso i comuni pendono, complessivamente, milioni di istanze di condono edilizio, che non vengono esaminate (ormai da oltre venti anni) per taluni ostacoli "burocratici"». Quali? «In particolare, la difficoltà dovuta a un’interpretazione eccessivamente rigida delle norme di tutela delle aree sottoposte al vincolo paesaggistico». Testuale. L’attesa, tuonano i deputati berlusconiani, è «estremamente pressante». Senza la concessione di quei benedetti condoni, gli abusivi infatti «non possono neppure procedere alla realizzazione di opere manutentive di restauro, di risanamento conservativo e di ristrutturazione di completamento». Cioè non possono far le rifiniture agli abusi. Ora, poiché i tre condoni si collegano in un «continuum» lungo «l’arco temporale che va dal 1983 al 2003» (proprio ciò che da anni dicono gli ambientalisti e che i promotori delle sanatorie, per ribattere alla Corte Costituzionale ostile ai «condoni permanenti» hanno sempre negato) è necessaria una «definizione». La quale «consentirebbe ingenti introiti per la finanza degli enti locali, a seguito del versamento dei contributi per costo di costruzione e oneri di urbanizzazione, nonché dei versamenti a titolo di sanzione per ritardato pagamento».

La Corte dei Conti ha già smentito questa tesi ricordando nel 2004 che gli oneri di urbanizzazione «da più parti sono stati quantificati in misura ben superiore a quella prevista»? Spallucce. Uno studio di Legambiente ha già dimostrato che dai condoni i comuni hanno incassato dal ’95 al 2003 4.429.436.000 euro spendendone per portare i servizi 9.664.224.000 e cioè oltre 5 miliardi di più? I tre tirano dritto: «A ciò si aggiungano gli introiti per gli enti locali e per lo Stato conseguenti alla regolarizzazione di tali immobili sotto il profilo fiscale e tributario...». Non solo: «Il vero "volano"» all’economia sarebbe «la possibilità di intervenire su milioni di immobili, che ormai abbisognano di rilevanti interventi edilizi manutentivi e strutturali, risalendo la loro costruzione ormai a decenni addietro». Sono abusivi? E vabbè... Sono stati tirati su in zone proibite? E vabbè... Sono da abbattere? E vabbè... Ecco quindi la leggina. Articolo 1: i comuni e le soprintendenze devono definire le pendenze «entro il termine di sei mesi». Articolo 2: «Il rigetto dell’istanza di condono presentata ai sensi del comma 1 deve essere motivato in relazione all’assoluta e insuperabile incompatibilità con il contesto paesistico-ambientale vincolato». Articolo 3: «Decorso inutilmente il termine di cui al comma 1 senza che il soprintendente per i beni architettonici e per il paesaggio abbia espresso il prescritto parere, l’amministrazione competente procede comunque all’adozione del provvedimento». Articolo 4: «La mancata adozione del provvedimento motivato di definizione delle pratiche di condono edilizio di cui al presente articolo è valutata ai fini della responsabilità dirigenziale o disciplinare e amministrativa, nonché ai fini dell’attribuzione della retribuzione di risultato dell’amministrazione competente». Traduzione: la mancata risposta va fatta pagare in busta paga a impiegati e dirigenti. Di più: «Resta salvo il diritto del privato di dimostrare il danno derivante dal ritardo della pronuncia dell’amministrazione indipendentemente dalla spettanza o meno del diritto al condono». Rileggiamo: «indipendentemente» dal fatto che l’abusivo abbia o no diritto al condono. Una sottolineatura significativa. «Di fatto è una riapertura perfino del condono del 1983. La maggioranza continua a mandare pericolosi segnali di tana libera tutti al Paese, che alimentano gli appetiti illegali e rischiano di regalare al nostro fragile territorio altre colate di cemento illegale», sbotta Ermete Realacci.

Difficile dargli torto. Basti ricordare come sia finita la «sanatoria delle sanatorie» tentata dalla regione Sicilia per rastrellare soldi dato che a larghissima maggioranza gli abusivi avevano solo avviato la pratica per il condono, pagando l’acconto del 10% necessario a sospendere inchieste e abbattimenti per poi infischiarsene del resto nella convinzione che il loro fascicolo sarebbe ammuffito nella polvere. L’autocertificazione offerta ai 400.000 «fuorilegge» era convenientissima. Il risultato fu questo: 1,1% di adesioni a Palermo, 0, 37% a Messina, 0,037% a Catania. Per non dire di Agrigento, dove i cittadini che scelsero di chiudere il vetusto contenzioso furono 3 ( tre!) su 12.000.

Ma davvero gli autori della proposta di oggi pensano che gli uffici pubblici che per anni hanno spesso tenuto bloccate apposta le pratiche per chiudere un occhio, evitare alla gente di dover pagare davvero tutto e non dare il via alle ruspe, possano oggi sistemare tutto in sei mesi? Che le sovrintendenze decimate negli organici e nei mezzi tecnici possano fornire risposte scritte per ogni singolo abuso? Assurdo. Sanno perfettamente che, se passasse la loro leggina, sarebbe sanato l’insanabile. Tanto più che tutti e tre vengono da un’area, quella tra Napoli e Caserta, che è una mostruosa metastasi cementizia cresciuta senza legge. La prima firmataria (lei pure «a sua insaputa»?) è Maria Elena Stasi, già prefetto di Caserta al centro di dure polemiche su un «buco» di ore nello scrutinio alle politiche 2006. Il secondo è Luigi Cesaro, proprietario immobiliare, deputato e (nonostante l’incompatibilità) presidente della provincia di Caserta. La terza è Giovanna Petrenga, già direttrice della Reggia di Caserta. Il messaggio che lanciano farà piacere a Nicola Cosentino, al quale sono vicini, ma anche alla buonanima di Totò. Che in una spettacolare scenetta declama: «Abusivi di tutto il mondo unitevi! Ci vogliono abolire! È un abuso! Abusivi: diciamo no all’abuso!».

ROMA— Nel 2018 saremo il Paese più vecchio d’Europa, già oggi ci supera solo la Svezia. L’aspettativa di vita è di 78 anni per gli uomini e di 84 per le donne. Una buona notizia ma anche un problema. E non solo per le pensioni. Con l’età diminuisce l’attenzione, e per chi guida l’attenzione è fondamentale come la prudenza. Per questo Mario Valducci, deputato del Pdl e presidente della commissione Trasporti della Camera, lancia la sua proposta: « Si dovrebbe pensare a un’età limite, una soglia oltre la quale non è più possibile guidare. Possono essere 80 o 85 anni, di questo si può discutere. Ma la questione va affrontata». Valducci è anche il relatore di quella riforma del codice della strada che dovrebbe essere approvata prima della pausa estiva del Parlamento. Il limite d’età non sarà inserito in questo disegno di legge, proprio perché la Camera sta stringendo i tempi per evitare un nuovo rinvio. Ma il dibattito è aperto.

Oggi, in teoria, è possibile guidare anche fino a 100 anni. La patente deve essere rinnovata ogni 10 anni fino al cinquantesimo anno d’età, ogni 5 fino al settantesimo compleanno, e poi ogni tre. L’automobilista in pensione non ci va mai, va bene così?

La proposta sull’età massima è arrivata nel corso di un convegno organizzato dalla Fondazione per la sicurezza stradale dell’Ania, l’associazione nazionale fra le imprese assicuratrici. «Dobbiamo prendere atto — spiega Sandro Salvati, che della Fondazione Ania è il presidente — che siamo un Paese di vecchi. E che le visite mediche per il rinnovo della patente spesso sono solo sulla carta». D’accordo sul tetto, quindi? «No, potrebbe essere una grande ingiustizia. Ci sono persone che a 85 anni sono sveglie come grilli e altre che a 65 non hanno più i riflessi di una volta». Ma anche secondo lui il problema va affrontato. Come, lo suggerisce Umberto Guidoni, che della Fondazione Ania è il segretario: «Oltre una certa età, ad esempio 70 anni, si potrebbe prevedere il rinnovo annuale della patente. E soprattutto chiedere un vero e proprio certificato del medico curante. Oggi, sostanzialmente, siamo all’autocertificazione».

Quello dell’età avanzata è una tema che si intreccia con la prossima campagna della Fondazione Ania per la sicurezza stradale, una serie di spot contro la guida distratta. «Le automobili moderne — dice il presidente Salvati — sono ricche di optional che fanno scendere l’attenzione di chi è al volante». Non ci sono soltanto il cellulare e la radio, ma anche il navigatore, il monitor per la tv, l’iPod attaccato al cruscotto, il computer di bordo. Senza contare le piccole distrazioni antiche, chi si rifà il trucco e chi si accende una sigaretta. Dati ufficiali non ci sono ma l’Ania stima che il 30% degli incidenti sia causato proprio dalla guida distratta, un «virus contagioso» come l’ha definito addirittura il segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki Moon. La polizia stradale sta cercando di capire se è possibile arruolare nella battaglia il tutor, il sistema che misura la velocità media in autostrada, aggiungendo delle telecamere in grado di pizzicare chi telefona al volante.

Intanto la prossima settimana partirà la campagna della Fondazione Ania «Pensa a guidare». Ricordando che nel 2008, solo in Italia, le vittime della strada sono state 4.731, una volta su dieci ragazzi sotto i 20 anni. E che nei weekend dei primi 4 mesi del 2010 si registra un aumento del 5,9%. Oltre ai lutti, al dolore e ai sogni spezzati di migliaia di persone, si tratta anche di un costo sociale insostenibile: 31 miliardi di euro l’anno, più della manovra adesso in Parlamento. Come dice Angelino Alfano siamo «all’emergenza sociale» e per questo il ministro della Giustizia invoca una «riforma del diritto penale sulla circolazione stradale che si ispiri al principio della tolleranza zero». La questione è tecnica ma di grande importanza. In alcuni Paesi, come la Francia, c’è una reato specifico, quello della criminalità stradale che in caso di incidente mortale prevede sanzioni più alte rispetto al semplice omicidio colposo. Da noi, per il momento, se ne parla.

postilla

Come sempre accade, la stampa (e purtroppo presumibilmente chi prende le decisioni e gran parte di chi le subisce) davanti a un problema ne coglie solo alcuni aspetti, dandone per scontati altri, come se fossero leggi ineluttabili della fisica. E parlando di mobilità privata la tendenza alla settorializzazione diventa letteralmente scatenata, come se salendo in auto si entrasse in un universo parallelo: la distrazione alla guida è un problema? La guida in sé è un problema? Di sicuro, ma come sempre si può affrontare da sinistra e da destra.

Quella di destra è la solita risposta: repressione, per il nostro bene, per la nostra “sicurezza”. Via la patente, e per milioni e milioni di persone questo significa, letteralmente: galera, reclusione, emarginazione, morte civile.

Perché appare decisamente criminale, prima promuovere un modello di vita dove tutto, ma proprio tutto, ruota attorno all’automobile (lavoro, localizzazione della casa, consumi, anche fare l’amore ed esprimere la propria personalità a seconda di modelli e stili di guida), e poi per decreto levarla da sotto al culo dei malcapitati colpevoli di non essersi schiantati da giovani su qualche guard rail del sabato sera.

Che dire dei quartieri nel nulla, dove è INDISPENSABILE l’auto per fare qualsiasi cosa diversa da una telefonata? Che dire anche delle città, storiche o periferie, piallate a misura di scatoletta meccanica individuale (vedi il surreale dibattito milanese sul megatunnel di fatto alternativo alla metropolitana, ma non solo)? Che dire della apparante ineluttabilità del modello di consumo shopping mall che sin dall’inizio, ovvero quanto pesa la spesa, e quanto costa relativamente al chilo, è al 100% auto-oriented ?

Cari signori, prima di parlare a vanvera, manco si fosse negli anni ’60 con l’enfasi giovanilista e i cosiddetti matusa da scalzare dal potere, vediamo di ragionare su queste questioni di base. Altrimenti gli scenari della peggiore fantascienza inizieranno davvero a profilarsi, non per colpa di qualche genio malevolo, ma prosaicamente a causa di una manciata di pensosi imbecilli (f.b.)

L´Aquila, con il disagio e la protesta dei suoi cittadini, ci parla in molti modi dell´Italia. Ci ripropone la sensazione che sempre avvertiamo dopo la catastrofe, materiale e culturale, di un terremoto: la sensazione cioè che ogni volta sia la nazione nel suo insieme a doversi rialzare, a dover ritrovare ragioni e speranze per il proprio futuro. Lo avvertivo nel 1976 friulano, nei luoghi in cui sono cresciuto, e lo avverto ora nell´ Abruzzo in cui insegno da molti anni. L´Aquila ci parla anche di un paese incapace di far tesoro delle esperienze del passato. E ci costringe a interrogarci sul nostro presente: è la storia d´Italia che ci viene incontro quando ricordiamo la valanga d´acqua del Vajont, il 1968 del Belice, il 1976 del Friuli, il 1980 della Campania o l´Abruzzo di oggi.

Si pensi al Vajont del 1963, che mostrava all´Italia del "miracolo economico" la tenace sopravvivenza di una povertà arcaica, di donne vestite di nero, di gerle che portavano in salvo i residui di una miseria antica. E si pensi all´inadeguato esito del processo ai responsabili, frutto di una giustizia ancora debole e incerta di fronte ai potenti. La prima fotografia scattata a L´Aquila che ricordo d´aver visto è della fine degli anni Sessanta, la pubblicarono tutti i giornali: ritraeva le donne del Vajont scese in Abruzzo per assistere a quel processo.

Vi è poi il 1968 del Belice, che è anche l´anno di Avola, nella stessa Sicilia: un´Italia in cui i braccianti potevano ancora morire sotto il piombo della polizia battendosi per diritti elementari. In quell´anno una giovane generazione iniziò a chiedere l´"impossibile": si dimostrò impossibile anche dare risposte adeguate a quei diritti e a quei bisogni. E il Belice divenne il simbolo di un amarissimo, doloroso e umiliante fallimento nazionale.

Si pensi anche al 1976 del Friuli, molto evocato ma poco conosciuto nella sua articolata realtà. Ci racconta molte cose, quel Friuli. Ci parla in primo luogo del clima del tempo, di una "democrazia dal basso" che si sviluppò prepotentemente in un Paese segnato da una grande sensibilità civile e da una forte speranza di cambiamento, presto delusa. Ci parla del concreto operare di persone e di istituzioni, di legislatori nazionali e di amministratori locali, a contatto diretto – non senza conflitti, talora – con gli amministrati, con i paesi e le culture ferite dal trauma. E ci parla anche del prezioso ruolo svolto allora dalla Chiesa friulana, dai suoi sacerdoti e dal suo vescovo. Un momento irripetibile, forse, e quattro anni dopo l´Irpinia sembrò collocarsi in un´altra epoca. Illuminò di luce cruda i mutamenti in corso sia nel Paese che nel Palazzo. In un primo momento i ruoli sembrarono quasi rovesciarsi: poche ore dopo il sisma è Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, a irrompere dal video nelle case degli italiani e a denunciare i rischi di un "altro Belice". A chiamare in causa responsabilità di singoli e di parti politiche. Quelle immagini televisive ci appaiono oggi la nobile e terribile testimonianza di un´impotenza. A nulla varrà quell´irrituale appello, che attirò al Presidente anche veementi critiche. In Irpinia fu molto peggio che nel Belice. La ricostruzione delle aree colpite – e di quelle non colpite, poiché l´area si dilatò a dismisura e lo sperpero si protrasse nel nulla – moltiplicò inefficienze, corruzione, sprechi, dilapidazioni di denaro pubblico. Alimentò o consolidò intrecci perversi fra poteri legali e illegali. E la grande solidarietà per l´Irpinia fu l´ultimo grande momento di mobilitazione nazionale per il Sud, prima dell´innescarsi di derive e umori che la Lega porterà agli estremi: nei primi anni Ottanta deliranti scritte antimeridionali inizieranno a comparire sui cavalcavia veneti o sui muri lombardi.

Che Paese ci ha mostrato, infine, il dramma di oggi, il dramma dell´Abruzzo? In primo luogo un Paese irresponsabilmente smemorato: il decisionismo di vertice e l´esautorazione della popolazione che sono state imposte a L´Aquila sono l´esatto contrario di quell´intreccio fra partecipazione e decentramento che fu la chiave vera della rinascita friulana (e contraddicono anche la positiva esperienza delle Marche e dell´Umbria, nel 1997). Hanno sottratto alla discussione e alla decisione della comunità colpita e dell´intero Paese non solo le misure della primissima fase ma anche quelle riguardanti il futuro della città, ancora circondato da un´incertezza e da un´opacità che alimentano la sfiducia, se non lo sconforto. Negli ultimi anni, inoltre, l´azione generale della Protezione civile ha assunto progressivamente al proprio interno il perverso meccanismo che è stato alla base del disastro campano: l´estensione delle regole dell´emergenza – con l´indebolimento di controlli e vincoli – ad eventi che non hanno alcun rapporto con essa (con le conseguenze rivelate dalle intercettazioni telefoniche, che il governo vuole appunto abolire). La berlusconiana "politica del fare", presunto simbolo di innovazione, ha così riproposto in qualche modo i contorni più negativi della politica degli anni ottanta. Amplificati dalle promesse mirabolanti e dalle realtà virtuali fatte intravedere, favoriti anche da troppi "intervalli di silenzio" dell´informazione (di quella televisiva in modo particolare, con rarissime eccezioni).

Anche il Paese, infine, dovrebbe interrogarsi meglio su se stesso. Una nazione che non sente il bisogno di essere realmente e assiduamente vicina a una propria parte ferita rischia di smarrire, e forse sta già smarrendo, la propria ragion d´essere più profonda.

Postilla

Una esemplare, sintetica lezione di una storia dimenticata dell’Italia, attraverso il succedersi degli eventi catastrofici. Questo tipo di lettura andrebbe approfondito su spazi più ariosi delle colonne di un quotidiano. In tal caso si potrebbero approfondire le modalità delle esperienze positive (come quelle del Friuli e dell’Umbria) e a un’analisi più dettagliata ne apparirebbero altre (come quella del dopo-terremoto a Napoli, nei primi anni 80).

Il lavoro che non c’è, i ragazzi che si ritrovano nei centri commerciali (e si diffonde l’alcol), le case che mancano, le tasse da pagare. L’Aquila mostra sue ferite e chiedeunalegge. Visita al centro senza vita.

«Non si politicizza una tragedia», dice il sindaco dell'Aquila. Ha chiamato i giornalisti, ha organizzato dei piccoli autobus, «i primi a entrare nel centro storico» dalla notte del 6 aprile di un annofa, si è improvvisato cicerone nella speranza che gli occhi vedano, soprattutto quelli delle telecamere, che sono gli occhi degli italiani, perché solo gli occhi possono raccontare una tragedia che rimane immota – Aquila immota manet è scritto nei gonfaloni della città – e che si raccoglie nel nucleo distrutto e deserto di quella che asetticamente viene definita la «zona rossa». «Se salta il nucleo, il centro storico – dice il sindaco medico – gli elettroni impazziscono. Gli adolescenti stanno pagando più di tutti. Si incontrano nei centri commerciali e hanno cominciato a bere alcolici. Ancora non siamo riusciti a ricostruire le attrezzature sportive distrutte dalle tendopoli. Gli anziani sono spaesati. Mille nuclei monofamiliari non hanno ancora una sistemazione». Caschetti bianchi, scorta dei vigili del fuoco e della sicurezza del comune. Ci si addentra camminando al centro delle antiche e strette strade deserte. I palazzi settecenteschi e le abitazioni modeste sembrano in piedi ma la verità è che in piedi sono solo le facciate, fantasmatiche quinte teatrali di una città che amava il teatro, lo faceva anche nelle chiese, a San Filippo, Sant’Agostino, ora imprigionate da puntelli che, dentro, fanno una maglia stretta a contrastare l’implosione e che ha fatto precipitare i piani alti su quelli bassi. Il sindaco non fa polemiche: «L’emergenza è stata affrontata bene, ma già dalla fine del 2009 i soldi sono cominciati a mancare. Procedere per ordinanze ha funzionato all’inizio, ora ci vuole una legge. Non chiediamo niente di più, anche qualcosa di meno, di ciò che è stato fatto per gli altri terremoti». Il sindaco cicerone si ferma a San Pietro a Coppito, a Santa Maria di Paganica. Mostra, illustra: «Chiederci di pagare gli arretrati delle tasse a un anno dal terremoto è come chiedere a un paziente fortemente anemico di donare il sangue». Si ferma fa un cenno di saluto con la mano: «Ciao papà». Il signor Umberto Cialente, 84 anni, si è infilato fra i visitatori, con l’amico Giovanni Di Stefano, 76 anni: «Quello che fa più – dice Umberto – è vedere alla televisione solo il palazzo del governo o la chiesa delle Anime Sante. Gli italiani si sono fatti l’idea che solo poche cose sono state colpite. Invece è tutto distrutto». «Tassa di scopo – dice il signor Di Stefano – una volta si faceva con una giornata di lavoro di tutti gli italiani», ricorda da pensionato delle Poste.

LE CIFRE

Vediamole in cifre queste distruzioni, a cominciare dalle macerie: 4 milioni le tonnellate prodotte dal sisma, ma solo 72mila quelle fin qui rimosse. L’assessore al patrimonio storico Vladimiro Placidi ha fatto una scheda sugli edifici di valore gravemente danneggiati: 1047 chiese, di cui 51 in centro, 116 nelle frazioni, 880 negli altri comuni del cratere. 718 palazzi, di cui 444nel centro storico dell’Aquila. Il calcolo è che per il solo centro storico storico sono necessari 9 miliardi, una cifra non lontana da quella che era stata spesa per il terremoto del Friuli nel 1995.

L’avvocato Pierluigi Pezzopane è assessore alle Pari Opportunità. Racconta come il figlio Alessandro premesse: «Allora quando lo riaprite ‘sto centro?». Fino a quando lui se lo è portato a fargli vedere come erano ridotti i posti della sua adolescenza. «Papà – ha chiesto poi Alessandro – dimmi sinceramente, tu pensi che per noi qui ci sia un futuro?». Su 6000 imprese sono 4000 quelle che hanno chiesto indennizzo per i danni da terremoto. Le ore di cassa integrazione sono passate da 227mila nel 2009 a un milione 760mila nel 2010. In una delle strade deserte, sotto al ponteggio, gli operai edili Luigi Ciuffetelli e Renato Colageo sono senza caschetto: «Pausa pranzo!», rassicurano il responsabile della sicurezza del Comune. Per un cantiere sono al lavoro in tutto 4 operai. «Fossimo di più si andrebbe più spediti- dice Ciuffetelli - ma le ditte non si arrischiano perché i soldi arrivano con il contagocce».

Guido Bertolaso ha tuonato da lontano: «Mostrate quello che abbiamo fatto».E la visita si conclude al progetto C.a.s.e.: «le migliori, le più vicine alla città», spiega Cialente. Il controcanto lo fa Federico D’Orazio, studente in medicina, alloggiato nelle C.a.s.e di Coppito: «Su unapiastra antisismica poggiano 24 appartamenti per il costo di 3 milioni e mezzo. Nel mio condominio, in periferia, in un posto dove i lavori sarebbero potuti cominciare presto, abitavano 18 nuclei familiari, quasi gli abitanti di una piastra. Il preventivo per i lavori nel nostro condominio, con gli adeguamenti sismici, non raggiunge il milione. Che necessità c'era di spendere tanto per noi? Le case in legno sono confortevoli, più grandi e sarebbero state sufficienti. Avrebbero potuto risparmiare, costruire le case durevoli solo per gli abitanti del centro storico, che dovranno aspettare più a lungo. E usare quei soldi per la ricostruzione».

Postilla

Sarebbe bene ricordare che il destino della città dell’Aquila è stato deciso quando Berlusconi e Berrtolaso, nell’ammirazione generale, hanno deciso di costruire nuovi insediamenti sparpagliati occasionalmente sul territorio, con il progetto C.A.S.E, e nel rispetto dello slogan del premier: “una new town per ogni capoluogo”; dove adoperando il termine “new town” si rivelava la propria ignoranza e si intendeva la scimmiottatura dello squallore delle Milano 2. E vogliamo ricordare che eddyburg.it - quando ancora tutti i mass media, con rare eccezioni della stampa alternativa, celebravano la straordinaria efficacia di B&B – documentava la decisione di uccidere il capoluogo abruzzese pubbicando il dossier “L’Aquila. Non si uccide così una città?”, curato da Georg Frisch. La decisione peggiore è stata assunta a livello di pianificazione urbanistica, ma questa non la conosce più nessuno di quelli che, infiormando, formano.

La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Recita così l'art. 9 della Costituzione. Se venisse accettato l'emendamento proposto dai senatori Tancredi (Abruzzo), Latronico (Basilicata) e Richetto Fratin (Piemonte) questa solenne prerogativa verrebbe di fatto cancellata. La precedente legge del 2003 (presidente Berlusconi e ministro delle infrastrutture Lunardi) escludeva dalla possibilità di ottenere il condono per gli immobili che ricadevano in aree vincolate paesaggisticamente proprio perché la tutela è un principio costituzionale e non può essere una legge ordinaria a violare quel principio. Ma, come noto, la Costituzione sta stretta al presidente del Consiglio e a molti esponenti del Pdl: ecco il motivo di tanto accanimento.

Ci sono poi anche meno nobili motivazioni. Dal 2003, nel più totale disinteresse della politica, sono stati i poteri dello Stato a contrastare l'illegalità dilagante nel campo dell'urbanistica. La magistratura ha ordinato molte demolizioni previste dalle leggi. Le Soprintendenze archeologiche - si pensi all'azione coraggiosa di quella dell'Appia antica a Roma - hanno negato i condoni agli scempi perpetrati contro il bene comune. Contro questa volontà di far rispettare le leggi ci sono state manifestazioni in tutta la Campania.

È anche questo il motivo dell'iniziativa del Pdl: mettere la parola fine alla legalità e alle azioni promosse dallo Stato che resiste. Sembra che l'onorevole Bonaiuti abbia negato con sdegno qualsiasi ipotesi di condono. Un mese fa il consiglio dei ministri aveva approvato un decreto che sospendeva l'esecuzione delle demolizioni in Campania fino al prossimo anno. Era con tutta evidenza il primo passo per il condono. Non vale dunque la pena di scandalizzarsi, basterebbe che la presidenza del Consiglio abrogasse la sospensiva e sostenesse l'esecuzione delle demolizioni in Campania, in Sicilia e in Calabria, tanto per cominciare. In questo modo non solo contribuirebbe all'affermazione della legalità ma darebbe il segnale che si vuole mettere in sicurezza il territorio. L'abusivismo provoca tragedie. Nel 2009 a Giampilieri una frana cancella una parte dell'abitato e semina vittime. C'erano da fare 200 demolizioni di case abusive e non furono eseguite. Sempre nel 2009 ad Ischia frana la collina sopra Casamicciola uccidendo una persona: erano pronte decine di demolizioni e anche lì non furono eseguite.

Non sappiamo se il Parlamento "sovrano" approverà o meno l'emendamento dei tre senatori. Comunque vada, il segnale al paese avrà prodotto comunque i suoi effetti: ciascuno è "padrone a casa propria" e può continuare a fare scempi. Tanto paga la collettività. Il condono edilizio viene giustificato dall'esigenza di fare cassa. Un falso vergognoso: per ogni euro di introito alle casse pubbliche i comuni sono costretti a spendere cinque volte tanto per portare strade, acquedotti e gli altri servizi. E visto che questi soldi i comuni non ce l'hanno perché il governo taglia i bilanci, non c'è altro modo che ricorrere all'urbanistica contrattata, che in cambio di quattro soldi consente di costruire dappertutto, al di fuori di ogni regola. L'abusivismo e la speculazione edilizia si danno una mano. E soffocano il paese.

I kamikaze del Pdl a caccia di condono

di Vittorio Emiliani

Secondo Giuliano Ferrara, Berlusconi è “un gigante inetto” che “sbaglia con volutta”. Sarà. L’impressione è che, come governante, sia un inetto e basta. Prendete i condoni edilizi. Ne ha prodotti, in un quindicennio, due, disastrosi per i Comuni e per il paesaggio, capaci soltanto di premiare l’illegalità e di riaccendere il motore dell’abusivismo foraggiato dalle varie mafie. Più un raccapricciante condono ambientale. La tecnica: si manda avanti lo stesso ministro Tremonti, con l’accatastamento delle cosiddette case-fantasma (con sanatoria mascherata incorporata), oppure la più o meno solita pattuglia di guastatori i quali buttano là un emendamento col nuovo condono edilizio, pronti ad essere poi sconfessati se monta la protesta. Della case-fantasma accertate dall’Agenzia del Territorio, circa 2 milioni fra abitazioni, capannoni, garage, ecc., non si sa più molto: registrarle al catasto, vorrebbe dire mettersi in regola sul piano fiscale, ma se poi il Comune chiede al titolare la concessione edilizia e non ce l’ha, viene in chiaro che sono case abusive e vanno demolite. Ameno di un provvidenziale condono…

E’ un caso se la legge per una maggiore libertà alle imprese dovrebbe sospendere per 2-3 anni le autorizzazioni urbanistiche, comunali e regionali? Gli interessi privati prevalgono su quello generale. Nell’inverno un gruppo di deputati campani – seguendole promesse elettorali del ministro Mara Carfagna – avevano appiccicato al decreto “mille proroghe” un caratteristico condono edilizio “regionale”. Adatto a sanare, che diamine, gli abusi di una regione ricca di case illegali e però “punita”, dicono loro, danorme troppo severe. È stato bocciato in commissione e per ora è morto lì. Ieri però un altro kamikaze Pdl, il sen. Paolo Tancredi, teramano, ha presentato un emendamento alla manovra, uno dei 1200 del suo partito. Oggetto? Uncondono edilizio un po’ sfacciato esteso pure alle zone sottoposte a vincolo paesaggistico – le più belle, le meno sfregiate - in modo da riaprire la sanatoria e incoraggiare altri abusi. L’ha stoppato il sottosegretario Bonaiuti: “Sinistra bugiarda, non c’è nessun condono al Senato. Il capogruppo Gasparri non lo sosterrà mai”. Già, è lo stesso capogruppo che spergiurava che Pierino Gelmini, l’ex don Gelmini, non sarebbe stato mai rinviato a giudizio per molestie sessuali, e invece…

E il senatore-kamikaze Paolo Tancredi? Ora sostiene che ha firmato senza leggere. “Nessuno che io conosca aveva in mente di proporre un condono così ampio”. Così ampio magari no, esteso alle zone protette da vincolo forse nemmeno,ma un condono “qualunque” sì. Sa bene che i condoni fanno rima con Berlusconi. Lui ci si tuffa volentieri. Da “inetto” che sbaglia. Sempre “con voluttà” però.

La lobby del cemento in azione

Torna lo spettro della sanatoria

di Iolanda Bufalini

Sarebbe il quarto condono edilizio dopo quelli del 1985,1994, 2003. E intaccherebbe anche le aree protette. Dopo la bagarre emendamento ritirato ma resta in piedi quello sulla sanatoria fiscale.

Dice che è «un appassionato conoscitore del Gran Sasso, un cosciente ambientalista, per il rispetto dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile », eppure è lui il senatore Pdl teramano Paolo Tancredi, primo firmatario dell’emendamento tombale per il paesaggio italiano, che riapre il condono ampliandolo agli abusi nelle zone protette e pure in quelle a rischio, e pure a quei manufatti che hanno avuto il diniego delle amministrazioni locali. Chissà come pensa di difenderlo l’amato Gran Sasso. Ma d’altra parte in quella terra martoriata dal terremoto, terra di parchi naturali, l’assalto è cominciato, anche in nome dell’emergenza. Sembra che questi «non abbiano la capacità di vedere cosa sta succedendoin Italia dove, a differenza che nel resto d’Europa, si è persa ogni distanza fra città e campagna», commenta l’urbanista Vezio De Lucia.

Quando si tratta di condoni il Pdl unisce l’Italia, daNord a Sud. Einfatti all’emendamento edilizio si aggiungono le firme di Cosimo Latronico, consulente aziendale, lucano e di Gilberto Pichetto Fratin, commercialista, da Biella: il combinato disposto di condono, piano case e modifiche costituzionali sulla libera impresa (compreso un ristringimento dei tempi sul silenzio-assenso da rasentare l’impossibilità per gli uffici oberati dalle carte di aprire bocca).

Unificazione verso il peggio perché «tre condoni in 18 anni hanno fatto danni gravi nel sud, dove ancora si devono espletare le pratiche del 1985, ma anche al nord, ormai, non c’è più attenzione al territorio», chiosa De Lucia.

«Non avevo letto bene - si giustifica - ho firmatoun centinaio di emendamenti », quando scoppia il vespaio e l’alzata di scudiaccomuna l’opposizione a esponenti di maggioranza comeFabio Granata, a Emma Marcegaglia, ancora basita di una recente tentata investitura ministeriale. Fresco pure il ricordo della brutta figura fatta alla Camera, quando la maggioranza è andata sotto sul blocco delle demolizioni degli abusi in Campania, «è stato un buon segnale, spero in unanalogo scatto di dignità», aveva detto Vezio De Lucia prima dell’«indietro tutta» della presidenza del gruppo Pdl. «Iniziative personali che saranno passate (oggi, ndr) al filtro della commissione di presidenza. Il grup- poinuna materia così importante come la manovra si coordina con il governo». Del filtro fa parte anche il senatore Tancredi (insieme al capogruppo Gasparri e al presidente della commissione bilancio Azzollini, alla sentarice Bonfrisco) distratto nella lettura degli emendamenti ma tenace per quanto riguarda i condoni. Sua la firma, insieme agli altri due, il Latronico e il Pichetto, anche sul condono tombale fiscale con cui si riaprono i termini di quello del 2002 fino al 2008.

RIMPALLO

Ma la «condonite» è un tic da dottor Stranamore che contagia commercialisti e consulenti aziendali diventati parlamentari Pdl con la velocità della Sars. Il pd Matteo Mauri si chiede se il governo «non si prepari a creare un ministero ai condoni». E, infatti, derubricato a «iniziativa personale » quello per gli abusi nei parchi naturali e archeologici, resta da vedere che fine farà il testo che ritenta il blocco delle demolizioni in Campania. E, soprattutto, cosa ne sarà del condono fiscale. In questo caso sul testo c’è anche il timbro del gruppo Pdl del Senato. Mentre Bonaiuti se la prende con la trovata propagandistica della «sinistra bugiarda», la quale a sua volta ha gioco facile nel rispondere, Antonio Misiani (Pd): «gli emendamenti li avete presentati voi». E nel mettere in chiaro: «Con i condoni in campo si chiude ogni spazio di dialogo» (Boccia), dal sottosegretario all’economia Luigi Casero arriva la sconfessione sottoscritta dal ministro Tremonti.

A questo punto al Senato la confusione è all’acme, parte il rimpallo delle responsabilità con l’altro ramo del parlamento: gli emendamenti vengono da lì, «noi per accorciare i tempi li abbiamo firmati». Anche la Lega ha il suo condono, riguarda i falsi invalidi che dovrebbero autodenunciarsi per evitare le sanzioni».

Insomma, partita la raffica di richieste di condono, qualcuna nella manovra potrebbe restare impigliata. «Dispiace e dà amarezza questa mancanza di serietà. Con i condoni la manovra diventa ancora più iniqua», è la chiosa dell’opposizione.

ROMA - La manovra economica del governo potrebbe contenere anche la riapertura del condono edilizio, esteso agli abusi compiuti nelle aree sottoposte a vincoli paesaggistici. A proporlo è un emendamento del Pdl dal titolo esplicito: "emendamento condono edilizio". Primo firmatario il senatore Paolo Tancredi e sottoscritto anche da Cosimo Latronico e Gilberto Pichetto Fratin. Nel testo di prevede che la sanatoria prevista nel decreto 269 del 2003 "si applichi anche agli abusi edilizi realizzati entro il 31 marzo 2010, in aree sottoposte alla disciplina di cui al codice dei beni culturali e del paesaggio" previsto dal decreto legislativo 42 del 2004, previa l'acquisizione dell'autorizzazione prevista dal codice stesso. La richiesta di sanatoria può essere avanzata entro il 31 dicembre 2010 anche se precedenti istanze di condono sono state respinte. Nelle more, si legge ancora nel testo, "sono sospesi tutti i procedimenti sanzionatori amministrativi e penali già avviati, anche in esecuzione di sentenze passate in giudicato".

Nell’aprile 2014 scadrà la concessione dell’autostrada del Brennero. È la prima scadenza di un’importante concessione autostradale ed è quindi un’occasione rilevante per prefigurare la politica che verrà seguita quando, nei prossimi anni, ne arriveranno al termine altre importanti.

UN ARTICOLO DELLA MANOVRA PER LE CONCESSIONI. Il decreto sulla “manovra” (Dl 78/2010) dedica all’argomento un intero articolo, il 47. Viene modificato il comma 2bis del Dl 59/08 (1) e si stabilisce quanto segue: 1) l’Anas pubblicherà un bando di gara per l’affidamento della concessione entro settembre; 2) il bando dovrà indicare il valore della concessione e le modalità di pagamento; 3) il subentrante dovrà continuare gli accantonamenti al “fondo ferrovia”.

Non si capisce quale modello di gara abbia in mente il nostro “legislatore”. Trattandosi di una infrastruttura “matura”, che non necessita di investimenti tranne quelli di manutenzione, le variabili in gioco sono tre: durata della concessione, livello del pedaggio (e regole della sua variazione nel tempo) e prezzo della concessione.

Normalmente, uno Stato fissa pedaggio e durata e assegna poi la concessione a chi offre il prezzo più elevato. Se invece si prefissa il prezzo, come sembra si voglia fare secondo il decreto, ci chiediamo: si assegnerà la concessione a chi si accontenta della durata minore (fissato il pedaggio) o a chi richiede il pedaggio minore (fissata la durata)?

Avendo lasciato indefiniti questi aspetti, forse era meglio che il decreto nulla dicesse sulle modalità della gara. Anche perché poi continua stabilendo che “il bando deve prevedere un versamento annuo di 70 milioni (…) fino alla concorrenza del valore di concessione”. Frase, questa, che lascia stupefatti, in quanto prefigura che la concessione “valga” molto meno di 70 milioni l’anno. Ma l’autostrada genera già oggi un margine operativo lordo (Mol) di circa 140 milioni l’anno. Per fare un esempio, se la concessione venisse assegnata per 1.400 milioni, pagando 70 milioni l’anno, il concessionario terminerebbe il pagamento dopo venti anni. Ma, essendo il Mol 140 milioni, ogni anno resterebbe al concessionario un profitto lordo di circa 70 milioni, che giustificherebbe un prezzo doppio per la concessione.

PERCHÉ RIASSEGNARLA? Si pone poi una domanda di fondo: è utile e opportuno riassegnare la concessione? Trattandosi di un’infrastruttura matura, il nuovo concessionario avrebbe solo due compiti, relativamente semplici: esazione dei pedaggi e manutenzione. Lo Stato, tramite l’Anas, potrebbe facilmente appaltare ciascuno dei due ruoli a imprese private (e la concorrenza qui sarebbe forte per la pluralità di potenziali concorrenti) e incamerarsi tutto il ricavo netto dell’autostrada, devolvendolo magari all’Anas. Si eviterebbero così i costi, le incertezze e le insidie di gare per concessioni di lunga durata e si eliminerebbero i gravosi costi amministrativi, inclusi pletorici consigli di amministrazione, di società che hanno per solo oggetto la gestione di un tratto d’autostrada.

Esempi di “unbundling” per infrastrutture mature vi sono già, ad esempio in Spagna, con risultati molto positivi. Perché lasciare quote consistenti di profitto a concessionari che nulla investono (se il pagamento della concessione è dilazionato nel tempo), nulla rischiano e ben poco hanno da fare? Anche nel caso che lo Stato decidesse di farsi pagare in anticipo l’intero prezzo della concessione, per “far cassa” subito, lo stesso obiettivo potrebbe facilmente essere ottenuto con anticipazioni finanziare a fronte degli incassi futuri, a costi assai inferiori a quelli richiesti da concessionari privati. Ricordiamo che gli azionisti della “Autostrada del Brennero spa” investirono negli anni Settanta meno di 3 miliardi di lire, e si ritrovano ora una società che ha in cassa circa 600 milioni di liquidità e titoli: davvero un ottimo investimento.

Un ultimo commento sul “fondo ferrovia”, nel quale la Autobrennero spa ha accumulato circa 400 milioni, in esenzione d’imposta. Resta ancora irrisolta la domanda che avevo posto in un precedente articolo (LaVoce, 6 giugno 2009) : la titolarità di questo fondo, per ora inutilizzato, passerà allo Stato alla scadenza della concessione o resterà nella disponibilità della società?

(1) Comma che peraltro non esiste nel testo convertito in legge pubblicato sul sito del Parlamento.

Il condono edilizio? Si chiede prima che sia compiuto l’abuso. Eccoli gli effetti della sanatoria light nel Comune di Roma attraverso le fotografie aeree che svelano i trucchi e dimostrano che la sanatoria del 2003 potrebbe essere stata utilizzata anche per regolarizzare preventivamente immobili che non esistevano, che i proprietari hanno fatto domanda di condono prima di tirare su i muri, mettere le tegole sul tetto, scavare per la piscina. Migliaia di costruzioni illegali: c’è anche un attico accanto alla Fontana di Trevi.

ROMA— «Il condono edilizio? Sarà leggero» minimizzava il 18 settembre 2003 Gianni Alemanno, allora responsabile dell’Agricoltura in un governo che si apprestava ad approvare la terza sanatoria delle costruzioni abusive. Una battuta infelice e azzardata, come l’ex ministro ha avuto modo di sperimentare personalmente una volta diventato sindaco di Roma. Eccoli gli effetti del condono light: un assaggio è nelle fotografie aeree pubblicate in queste pagine. Sono la dimostrazione che la sanatoria voluta dal governo di Silvio Berlusconi nel 2003 potrebbe essere stata utilizzata in molti casi anche a regolarizzare preventivamente immobili che non esistevano.

Osservatele bene, e fate attenzione alle date. Perché quelle potrebbero incastrare proprietari che hanno fatto domanda di condono prima ancora di tirare su i muri, mettere le tegole sul tetto, scavare il buco per la piscina. Parliamo di tre casi da manuale. Il primo, una costruzione in cima a uno stabile di via di San Vincenzo, a Roma, accanto alla Fontana di Trevi: dove nel 2004, come dimostrano gli scatti dall’alto, non c’era nulla. Valore economico di quegli 80 metri quadrati terrazzatissimi nel cuore della Capitale? Come almeno dieci appartamenti in periferia.

Il secondo è stato scovato dall’obiettivo indiscreto fuori del Raccordo anulare, al Nord della città. Quattro costruzioni, come testimoniano le foto, apparse dal nulla nel 2005. Dal valore, pure qui, niente affatto trascurabile. Il terzo è anch’esso fuori del Raccordo, ma a Sud, in un’altra zona sulla quale sussistono vincoli di un piano territoriale paesistico: lì, su un’area che nel 2004 era libera da costruzioni, adesso c’è quella che sembra una villa con piscina.

Inutile dire che in tutte le tre circostanze è stata presentata domanda di sanatoria come se l’abuso fosse stato commesso entro il termine previsto dalla legge per ottenere il beneficio: 31 marzo 2003.

Ma chi pensa si tratti di episodi isolati, si sbaglia di grosso. Sapete quante situazioni simili hanno scoperto i tecnici di Gemma, la società privata che gestisce dietro corrispettivo le pratiche del condono edilizio del Comune di Roma? Ben 3.713. Tremilasettecentotredici su 28.072, ovvero il numero di domande di condono edilizio esaminate nei primi quattro mesi di quest’anno. È il 13,2% del totale. E non è tutto. Perché alle 3.713 costruzioni tirate su dopo che la sanatoria era stata già approvato, bisognerebbe aggiungere le 6.503 realizzate, sì, entro il 31 marzo 2003, ma in aree soggette a vincoli di qualche genere. Oltre alle 2.099 spuntate come funghi addirittura nei parchi. Per un totale di 12.315 abusi, secondo Gemma, non sanabili.

Vi chiederete: e lo scoprono adesso, dopo tutto questo tempo? Domanda più che legittima. Dall’inizio la situazione dei condoni edilizi a Roma è stata caratterizzata da storture e disfunzioni. C’è chi per esempio ha sempre criticato la scelta (fatta dalle giunte di centrosinistra) di affidare a un privato un compito così delicato: tanto più che in altre grandi città, come Milano, ci pensano gli uffici comunali. C’è chi invece l’ha sempre difesa, sottolineando l’abnorme numero di domande. Fino a un epilogo sconcertante. Alla fine di maggio il presidente e azionista di Gemma, Renzo Rubeo, ha deciso infatti di risolvere il contratto con il Campidoglio per inadempienza della controparte, rivendicando arretrati per svariati milioni di euro. Una iniziativa giunta al culmine di un rapporto che va avanti da dieci anni, fra molti attriti che l’hanno logorato. E in un contesto nel quale non sono mancati i risvolti giudiziari.

E’ un grido d’allarme finora rimasto inascoltato. «Ogni giorno in Italia scompaiono quasi 1000 ettari di suolo destinato all'agricoltura: produzione agroalimentare, turismo e ambiente». Ma Vittoria Brancaccio, simpatia tutta napoletana (è di Sorrento) e battagliera presidente di Agriturist, l’associazione agrituristica di Confagricoltura (riunisce circa 5 mila aziende) insiste su una battaglia che si annuncia non solo professionale, ma che potrebbe diventare il manifesto di una nuova filosofia cultural-agricola. «Tutti convengono sulla necessità di rilanciare il turismo valorizzando i nostri paesaggi e l'offerta enogastronomica; tutti concordano sulla necessità di tutelare le produzioni agricole italiane e di conservare il nostro patrimonio ambientale per difenderci dall'inquinamento e favorire l'ossigenazione dell'aria. Ma pochi sanno che tutto questo è fuori della realtà» annota. E spiega, dati alla mano: «In 25 anni, fra il 1982 e il 2007, abbiamo perso 3,1 milioni di ettari di superficie agricola utile (Sau) e 5,8 milioni di ettari di superficie agricola totale (Sat) - sulla base di dati Istat - Parte di questa terra sottratta all'uso agricolo è stata convertita in bosco, ma 1,8 milioni di ettari sono stati mangiati irreversibilmente dal cemento, al ritmo medio di 200 ettari al giorno».

Ma ad inquietare è il silenzio «assordante» del mondo politico italiano sul tema. «In Germania - ricorda la lady di Agriturist - dal 1999 vige una legge che obbliga, per nuove costruzioni, a recuperare almeno il 70% di suolo già urbanizzato, e in Inghilterra una normativa simile ha permesso la successiva crescita urbanistica di Londra senza rubare un solo ettaro alle campagne circostanti. E sono leggi che portano nomi importanti: Merkel, Blair. Noi abbiamo scritto a Berlusconi, provato a portare la questione in Senato, cercato di sensibilizzare “trasversalmente” gli esponenti dell’arco parlamentare, ma devo dire finora con scarsi risultati. Evidentemente ci sono argomenti più interessanti sul piatto da esaminare». E avvisa: «Autorevoli studi di urbanistica affermano che, quando saranno realizzati i piani di sviluppo territoriale già approvati dai comuni per i prossimi anni, il ritmo di sottrazione di suolo all'agricoltura segnerà un'ulteriore rilevante accelerazione». E non si tratta soltanto di terreni incolti che diventano «preda» della cementificazione, ma anche della realizzazione di infrastrutture che in qualche modo limitano o alterano il normale equilibrio agro-turistico. «La nostra prima richiesta che è anche un po’ uno slogan è quello di avere aziende dagli “orizzonti lunghi”». Il sogno di un paesaggio a misura d’uomo, il più possibile lontano da una visione «condominiale» del territorio.

Si veda anche la relazione di Vittoria Brancaccio e quelle di Massimo Quaini e di Edoardo Salzano al recente congresso di Agriturist (Riomaggiore, 1 dicembre 2009)

Dunque, ci siamo. Ad occupare il centro della scena della ricostruzione post terremoto torna un ingombrante convitato di pietra. Ora oggetto di attenzioni investigative. Ma del resto capace, da qualche tempo, di agitare gli ambienti della maggioranza parlamentare e i tecnici più vicini a Guido Bertolaso. Parliamo del progetto "C.a.s.e.", acronimo di Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili. Dei 185 edifici (per un totale di circa 4.500 appartamenti) in cui oggi vivono 15 mila sfollati, costruiti tra il settembre 2009 e il febbraio scorso su piastre e isolatori sismici in diciannove aree della periferia aquilana. Il «fiore all´occhiello» della Protezione Civile. Un fiume di denaro su cui pure in questi mesi si era cominciato a fare domande. Ottenendone ora indignate repliche. Ora curiosi silenzi.

I dati forniti dalla Protezione civile documentano che, al 24 maggio scorso, la realizzazione dei 4 mila e 500 appartamenti del Progetto è costata complessivamente 803 milioni e 857 mila euro. Comprendendo in questa cifra, non solo le spese di fondazione ed edificazione, ma anche il costo degli allestimenti, degli arredi, delle opere di urbanizzazione e di sistemazione del verde. Mentre un calcolo standard dei costi di semplice costruzione – almeno a voler stare alle indicazioni fornite in questi mesi in Parlamento e alla Regione Abruzzo dall´Idv di Antonio Di Pietro - indica il prezzo a metro quadro degli appartamenti più o meno in 2 mila e 600 euro. Vale a dire, quattro volte quello delle casette in legno prefabbricate. Comunque più del doppio del costo medio di mercato che oscilla intorno ai mille e cento euro a metro quadro. A rendere importanti i costi, come sempre, una rigogliosa fioritura di subappalti (sono state 931 le imprese che hanno lavorato nei cantieri a fronte delle 121 che si sono aggiudicate le gare), i cui criteri restano nella piena discrezionalità delle imprese. E la singolare esosità di alcuni voci di spesa. Come i 14 milioni e mezzo per la sistemazione del verde, la posa di aiuole e alberi. O i 66 milioni di euro pagati per la fornitura, il trasporto e il montaggio degli arredi. Più o meno 15 mila euro ad appartamento (una fortuna, se si pensa che un arredamento completo da "Ikea" per una casa di circa 50 metri quadri può arrivare a 7-8 mila euro).

Gian Michele Calvi, direttore dell´Eucentre di Pavia, braccio operativo di Bertolaso a L´Aquila e, soprattutto, padre e direttore dei lavori del Progetto "C.a.s.e", non più tardi di qualche settimana fa ha chiesto 2 milioni di euro di risarcimento danni per diffamazione all´Idv (che la questione ha sollevato per prima), obiettando che i costi del Progetto sono «assolutamente in linea con i prezzi di mercato». Non 2 mila e 600 euro a metro quadro, dunque, ma 1.300, perché nel calcolo della superficie di riferimento andrebbero considerati non solo i 1.800 metri quadri mediamente sviluppati dagli appartamenti di ciascun edificio, ma gli ulteriori 500 metri quadri sviluppati dai parcheggi auto, dagli spazi comuni, dai ballatoi e dalle scale.

È un fatto, però, che ad assediare il giovane ingegnere di Pavia oggi ci sia anche dell´altro. E parliamo del mistero che avvolge i 7.300 isolatori sismici «a pendolo scorrevole» su cui sono poggiate le piastre degli edifici. Le "molle" che li dovrebbero rendere impermeabili a una futura catastrofe, assorbendo le oscillazioni della terra. Insomma, l´anima del Progetto. Quella che ne ha giustificato la realizzazione (una prima volta nel nostro Paese).

La fornitura degli isolatori è costata 13 milioni e mezzo di euro. E ad aggiudicarsi la gara sono state la società "Alga" di Milano (per i due terzi dei pezzi necessari) e la "Fip industriale" di Selvazzano Dentro (Padova). Ebbene, il materiale fornito dalle due società ha conosciuto storie diverse. Si scopre infatti – e ne chiede conto già nel gennaio scorso un´interrogazione parlamentare del senatore del gruppo misto Giuseppe Astore, che resterà senza alcuna risposta – che mentre un campione degli isolatori della "Fip" è stato sottoposto a simulazioni avanzate in laboratori qualificati quali quelli dell´Università della California di San Diego (gli addetti chiamano queste prove "eccitazioni bidirezionali"), con costi modesti (20 mila euro), tempi celeri ed esiti positivi, non altrettanto è avvenuto per quelli dell´ "Alga". Questi isolatori hanno infatti superato un unico test. Quello previsto dalla nostra normativa antisismica (è il test definito di "eccitazione monodirezionale"). E per giunta nei laboratori di quello stesso Eucentre diretto da Calvi che, oltre ad essere padre del progetto C.a.s.e è stato anche, nel 2003, tra i padri della nostra nuova legge antisismica.

Insomma, per qualche motivo – di cui né i tecnici della Protezione civile, né il governo hanno sin qui voluto dare spiegazioni - gli isolatori "Alga" vengono sottoposti a una sola simulazione "domestica". E per qualche motivo, soltanto nella scorsa primavera, quando ormai sono stati già tutti montati in cantiere, si "scopre" che quegli stessi isolatori hanno un problema. E che problema. Non possiedono, al contrario di quelli della "Fip", un meccanismo interno che li protegga dalla polvere, un agente atmosferico in grado di gripparne e annullarne il funzionamento. Ebbene, la Protezione civile, in marzo, corre ai ripari bandendo una nuova gara per «la progettazione e la realizzazione di elementi di protezione per basamenti, colonne e dispositivi di isolamento sismico». Ma perché il problema è stato ignorato per mesi?

Postilla

Sembra incredibile. Sei mesi fa eravamo quasi soli, e comunque controcorrente, nel criticare la politica del dopoterremot di Berlusconi e Bertolaso, per ragioni di fondo, documentate nel lavoro L’Aquila. Non si uccide così anche una città? Adesso giorno per giorno si scopre che i piazzisti delle New Towns all’italiana non solo hanno scelto il peggio nell’impostazione generale e nelle scelte di fondo (quelle che distruggono la città e disgregano la società) ma che anche all’interno della loro stessa logica aziendalistica e mercantile hannop commesso errori non marginali. Questa volta il tempo è stato rapido a dar ragione alla ragione.

La battuta dell’architetto è intrigante. Con i capannoni del Nord Est sta succedendo qualcosa di analogo ai film di Totò, prima sono stati derisi e trent’anni dopo tutti li rivalutano. Anche in questo caso la rivisitazione è tardiva visto che ormai lungo la Pontebbana, la Valsugana e la Strada del Santo campeggiano le scritte «Vendesi» e «Affittasi». L’epicentro è nella provincia di Treviso con un 20% di capannoni inutilizzati ma dati analoghi interessano tutto il Veneto e il Friuli, con le sole eccezioni di Belluno e Rovigo. Una dimostrazione di come la storia (che sarebbe dovuta morire) sia arzilla e corra velocissima. Ci stiamo ancora interrogando sul riuso dell’archeologia industriale del Novecento, quella «nobile» alla Marzotto/Valdagno, con mattoni a vista, merletti e decorazioni di stampo storicista, e già siamo costretti a fare i conti con i resti materiali del post-fordismo, con le vestigia dell’industrializzazione diffusa.

Il prezzo (alto) allo sviluppo

I capannoni standard, a campata unica e volta a botte, quelli che gli americani chiamano shoe box, scatola di scarpe, sono quasi sempre di cemento grigio. Ottocento-mille metri quadri spesso attaccati all’abitazione dell’artigiano e a due passi dal bar Sport del paese. Negli anni del miracolo nord-estino ne sono nati dappertutto, quasi sempre lungo le strade come accadeva nel Far West e sono stati unanimemente giudicati il prezzo (alto) pagato allo sviluppo, la causa prima del degrado del paesaggio veneto. Nella Marca trevigiana su 95 comuni le zone industriali previste erano 313. In realtà le isole produttive con capannoni e carrozzerie arrivano almeno a quota mille, tutte sviluppatesi in maniera anarchica per colpa di sindaci, imprenditori, immobiliaristi e parroci che mentre i muratori tiravano su le pareti si giravano dall’altra parte. Il giudizio formulato dal grande geografo e paesaggista veronese Eugenio Turri in proposito era netto: «Architettura banale, spesso orribile e di forte visibilità, la cui tristezza si coglie soprattutto nei giorni festivi quando le aree industriali si svuotano».

Giuseppe Milan, direttore dell’Unione Industriali di Treviso, pensa però che sia utile riavvolgere il nastro: «Da noi il modello è stato quello della subfornitura. I Benetton, i De Longhi e gli Zanussi avevano segmentato il processo produttivo e ai piccoli imprenditori è stato chiesto di specializzarsi in una sola lavorazione. Questa divisione di compiti ha garantito per anni lo sviluppo, ha fatto la fortuna di tanti e quindi forse oggi non ha senso sputare nel piatto». Del resto ai tempi della crescita facile non c’era piano regolatore comunale che non prevedesse una zona industriale, una artigianale e una commerciale. Non partiva nemmeno la concorrenza tra i Comuni, tanto ce n’era per tutti, le aree nel giro di qualche anno raddoppiavano il loro prezzo e gli uffici urbanistica delle Unioni Industriali erano presi d’assalto dai Piccoli per le pratiche edilizie.

Usati come leva finanziaria

Gli stessi artigiani usavano poi il capannone come leva finanziaria per avere udienza e credito dalle banche. Ma il troppo stroppia e anche in casa leghista oggi ci si pone il problema del paesaggio da tutelare. I maligni sostengono che in questo modo il Carroccio vuole evitare che i capannoni diventino grandi abitazioni zeppe di immigrati, ma più probabilmente è maturata una nuova intransigenza verso il consumo indiscriminato del suolo.

Un vero censimento dei capannoni sfitti o in vendita nell’intero Nord-Est non c’è. È troppo presto. Alla mancanza di numeri certi viene in soccorso il colpo d’occhio. C’è chi per evocare un paragone tira in ballo gli scenari alla Philip K. Dick e il suo algido pessimismo post-moderno. Per operare, invece, un raffronto più prosaico e vicino a noi, il Nord-est dei capannoni vuoti è assai differente dalla cintura della ruggine attorno a Brescia, con le grandi cattedrali della siderurgia ormai svuotate che fanno mostra di sé a mo’ di dinosauri. L’industria veneta è più giovane, ha meno problemi di smaltimento dell’amianto perché, tutto sommato, chi cuciva vestiti non inquinava. Comunque quale che sia il paragone giusto, la prima ipotesi per i capannoni è rottamarli. «È quella che anche solo istintivamente piace di più» sostiene Ezio Micelli, architetto e assessore al Comune di Venezia. Qualche esperienza è stata fatta - racconta - e cita Montebelluna, la città del sindaco Laura Puppato che ha demolito alcuni impianti "che rappresentavano una ferita", ma anche San Donà di Piave ha operato in senso analogo. Buttarli giù non può essere però una ricetta da adottare e replicare all’infinito. Certo si potrebbe sostituire semplicemente verde a cemento, ma ciò presuppone un intervento finanziario di natura pubblica che di questi tempi è difficile anche sognare. Una strada più realistica porta a convincere e incentivare i proprietari privati di capannoni vuoti perché accettino uno scambio.

Esiste una legge regionale veneta che introduce il principio del credito edilizio, tu rottami da una parte a tue spese e hai diritto a una pari volumetria da costruire in un’altra. Dirlo è facile, realizzarlo un po’ meno. Intanto perché secondo un famoso studio dell’università di Padova (professor Tiziano Tempesta) in Veneto negli anni del mattone facile si è già costruito oltre ogni misura, ma anche non volendo prendere in considerazione i dettami dell ’urbanisticamente corretto, è difficile che in piena recessione un artigiano chiuda a Schio e avvii contemporaneamente un’altra attività a Belluno. L’idea dello scambio comunque è assai presente nel dibattito locale e la rivista Nordesteuropa, che organizza ogni anno in primavera il Festival Città-Impresa, sta studiando il tema per mettere a punto una nuova proposta. Anche l’idea cara all’ex governatore Giancarlo Galan di liberare il territorio costruendo grattacieli non sembra in realtà così attraente. Secondo Flavio Albanese, architetto e ex direttore di Domus, «per valutare i grattacieli bisogna capire cosa trovano sotto, che contesto e che accoglienza c’è, costruire in alto non può essere un mero espediente tecnico».

Revisionismo urbanistico



Se la rottamazione è una strada difficile, l’idea del riuso comincia a contare molti supporter della serie «i film di Totò non eran tremendi». È il revisionismo urbanistico che fa di necessità virtù. «Non ha senso rifiutare quello che abbiamo fatto per 40 anni - spiega Claudio Bertorelli, direttore del Festival Comoda/mente di Vittorio Veneto -. Lavorare sui capannoni non è un incubo ma una fantastica occasione. E poi il capannone è uno strumento molto flessibile». Aggiunge Flavio Albanese: «Brutti? È l’architettura dei condomini anni ’70 è forse bella? Vi sembrerà strano ma i capannoni sono assai pertinenti al modo di vivere di oggi. Guardate gli annunci di ricerca di case». Fino a 6-7 anni fa si cercava un appartamento da 140 metri quadri con un grande soggiorno, oggi invece tutti scrivono nelle primissime righe «ampio, spazioso e luminoso». L’idea che circola tra gli addetti ai lavori è di replicare in Veneto quanto fatto a Milano in Porta Genova o a Lambrate, un intelligente lavoro di riconversione urbanistica che deve far nascere occasioni di lavoro e loft da abitare, perché, «non è tempo di soldi pubblici, non siamo negli anni ’70, i capannoni vanno rimessi in commercio». Bertorelli giura che di esperimenti di questo tipo ormai ce ne sono in giro per il Nord-Est alcune decine. I casi più conosciuti sono quelli di Mario Brunello, che insediato il suo laboratorio musicale Antiruggine in un capannone nel centro di Castelfranco e di Cristiano Seganfreddo per l’arte contemporanea in piena Vicenza. Tutti laboratori di terziario, tutti esperimenti di un’economia nella quale si dà per scontato che viaggino campioni e idee al posto delle merci. Tutti test di maturità per la classe creativa veneta che adora il sociologo americano Richard Florida.

Tra manifatturiero e terziario

Ma quale sarà veramente l’economia del dopo-crisi? Ci sarà davvero una staffetta più o meno virtuosa tra manifatturiero «povero» e terziario creativo? Gli industriali di Treviso per risolvere il rebus dei capannoni partono da queste domande. Il direttore Milan sostiene che dalle informazioni raccolte è vero che i capannoni inutilizzati sono più frequenti nelle aree industriali più piccole e meno attrezzate ma la sorpresa è che in parallelo vi sono numerose imprese che hanno comunque esigenza di spazi più grandi rispetto al passato. Servono a creare un’organizzazione più efficiente del loro ciclo industriale e logistico. I nomi sono importanti come gli investimenti che hanno messo in cantiere: infatti Geox, Benetton, Breton, Texa e Polyglass negli ultimi mesi hanno, in controtendenza, accresciuto le loro superfici. Ma accanto alla logistica che ha bisogno di grandi spazi si intravede un ruolo anche per le matite. L'idea che circola tra i confindustriali è quella di assecondare una sorta di via trevigiana al design. Si è partiti ristrutturando una vecchissima fornace ad Asolo e lanciando Treviso Design ma l’idea è che un giorno o l’altro verranno buoni anche quei famigerati capannoni. A meno che nel frattempo non si siano trasformati tutti in discoteche.

Nota: quasi contemporaneamente a questo articolo, un quotidiano americano ne pubblicava un altro su temi identici, anche se in prospetiva diversa, sul noto caso di deindustrializzazione dell'area di Detroit, che propongo su Mall (f.b.)

È apparsa sul Sole 24 Ore di qualche giorno fa (28 maggio), la notizia che l’Alta velocità tra Milano e Venezia si fermerà a Treviglio (Bergamo) perché non ci sono soldi per proseguire. Questo, si dice, comporterebbe drammatici danni per l’Expo milanese del 2015, perché quella folla di turisti che l’evento attirerà non potrà precipitarsi a Venezia o a Padova con velocità adeguate. Già l’accostamento appare ardito: un’opera da miliardi di Euro, destinata a durare nei secoli, dovrebbe essere costruita in relazione ad un evento che dura sei mesi? È una linea in progetto da almeno un decennio, proposta insieme alla Torino-Milano-Napoli, realizzata, per completare la “grande T” del progetto Alta velocità italiano.

Si tratta però di una linea con caratteristiche e prospettive radicalmente diverse dalla Milano-Napoli. La domanda di traffico qui è caratterizzata da distanze medie molto minori, attorno ai cento km contro distanze ben maggiori della Milano-Napoli. Serve una catena di città, nessuna delle quali “capitale”. Su queste distanze, i benefici della velocità sono ovviamente molto minori: alcune decine di minuti per relazione, spesso meno, ed è necessario che anche i treni più veloci facciano un certo numero di fermate per essere ragionevolmente pieni Non vi è possibilità di togliere traffico all’aereo, come sulla Milano-Napoli. Inutile ricordare poi che per le merci la linea non serve, in primo luogo perché le merci ferroviarie non hanno fretta e le linee Av costano molto di più per gli operatori ferroviari. Tutto fa pensare che tali treni rimarranno sulla vecchia linea, esattamente come oggi accade sulla Milano-Napoli.

I ritorni finanziari saranno comunque tali da pagare praticamente solo i costi di esercizio, cioè l’80-90 per cento dei costi di investimento saranno a carico dei contribuenti. Anche grazie ai costi esorbitanti che si hanno in Italia per opere di questo tipo. Infine, il fatto che non si trovino i soldi la dice lunga sui dubbi che debbono serpeggiare anche nel governo sulla priorità di questo investimento. D’altronde il precedente della Milano-Torino (con caratteristiche funzionali analoghe alle altre tratte tra Milano e Venezia) parla chiaro: traffico esiguo (16 treni su una capacità di 300) e costi al di là di ogni ragionevolezza (7,8 miliardi).

Ma è stata fatta una valutazione adeguata del progetto, del tipo costi-benefici sociali (della redditività finanziaria inesistente abbiamo già detto)? Certo che sì, ma sponsorizzata proprio dai promotori privati del progetto (“Traspadana”), ed eseguita dal prof. Gilardoni dell’Università Bocconi (cfr. La Voce.info del 10/12/2008 per un commento completo). I risultati apparivano davvero molto positivi: diversi miliardi di benefici netti, denominati “I costi del non fare” per sottolineare le perdite che si soffrirebbero nel non realizzare l’opera. Peccato che lo studio, per un banale e certamente involontario errore di calcolo, abbia moltiplicato per 16 alcuni dei benefici. Correggendo questo errore, i risultati divengono fortemente negativi, cioè rappresentano una perdita netta di benessere per la collettività e ciò, si badi, includendovi anche l’ambiente.

Tornando ora all’Expo milanese, l’argomentazione appare grottesca. Se si avranno a motivo della mancata realizzazione dell’Av tempi un po’ più lunghi su una sola delle molte mete in uscita da Milano, e solo per la modalità ferroviaria tra le molte possibili, come si può supporre di avere conseguenze di qualche rilievo sull’evento? Qualcuno crede che un turista americano non andrà a visitare Verona solo perché il treno ci mette 20 minuti in più? O che un padovano interessato all’evento rinunci ad una visita a Milano?

Molto illuminante in proposito è stata l’esperienza dell’Expo di Saragozza di pochi anni fa: quell’evento è stato un clamoroso flop, ma il sindaco ha dichiarato che non se ne lamentava, perché aveva accentuato la pressione per avere dallo stato centrale i soldi per una nuova linea di alta velocità (che evidentemente non è servita a molto per il successo dell’evento stesso). Per concludere sembra necessaria una riflessione sul motivo per cui l’industria italiana, attraverso uno dei suoi maggiori organi di stampa, “Il Sole 24 Ore”, difende con tale convinzione qualsiasi grande opera, senza mai metterne in dubbio la necessità o l’urgenza o neppure l’esigenza di rigorose analisi “terze” per stabilire gerarchie e priorità per la spesa di miliardi di Euro. Il motivo sembra abbastanza semplice e non di per se illegittimo: le grandi opere civili non sono soggette a reale competizione internazionale neppure se messe in gara (ciò accade ovunque, non solo in Italia, per motivi tecnici sui quali qui non è possibile dilungarsi). Quindi la spesa pubblica in questo settore rappresenta uno dei pochi canali rimasti agli stati per finanziare le industrie nazionali. Si pensi all’enorme flusso di denari pubblici rappresentato in questi anni dai costi (meglio, dagli extracosti) delle linee di alta velocità già costruite.

L’azione di lobby conseguente, e molto insistente, appare dunque del tutto spiegabile. C’è solo da sperare che l’azione di promozione prima e la gratitudine poi (sentimento in sé nobile), si mantengano nei limiti della legalità.

Il Fatto Quotidiano

Il pdl si distrae e le demolizioni si bloccano (sic)

di Marco Palombi

Il decreto che fa un favore agli abusivisti campani è decaduto. Forse. A meno che la capigruppo convocata per stamattina da Gianfranco Fini, che però non ha giurisdizione sul merito, o magari l’ufficio di presidenza della Camera decida di annullare la contestata votazione con cui ieri sera l’aula di Montecitorio ha affossato il cosiddetto “dl demolizioni”, quello che bloccava fino al 30 giugno 2011 la demolizione di edifici abusivi nella regione Campania (tranne per quelli costruiti in zone vincolate). Il centro-destra, infatti, incolpa della sua debacle Rosi Bindi, in quel momento presidente di turno, rea di aver chiuso troppo in fretta la votazione impedendo ad alcuni deputati di maggioranza che bivaccavano in Transatlantico o nel cortile interno di raggiungere in tempo il loro scranno. Uno psicodramma in piena regola, con tanto di richiesta di dimissioni da vicepresidente per l’onorevole democratica e “fascista”, secondo la definizione di Nunzia Di Girolamo (PdL) fuori dall’aula, seguita a stretto giro da un più prosaico “tacci sua” di Alessandra Mussolini, per la cronaca entrambe campane. Questi i fatti. Alle 18.50 si vota la cosiddetta pregiudiziale di costituzionalità presentata dall’Italia dei Valori. In 51 secondi votano 480 deputati (64 assenti del PdL e 15 della Lega) col risultato di 249 sì e 231 no. Tradotto: per la Camera quel decreto è incostituzionale.

A quel punto scoppia il casino. Alcuni deputati del PdL stavano rientrando in aula e accusano la Bindi di aver deciso deliberatamente di non farli votare. Il capogruppo Fabrizio Cicchitto accusa la vicepresidente di “prevaricare il Parlamento”, l’ex finiano Amedeo Laboccetta di “offenderlo”, il leghista Luciano Dussin, paonazzo, invoca prima la moviola per controllare quanti deputati stessero entrando in aula e poi chiede le dimissioni di Bindi: “Ne guadagnerà la Camera”.

La maggioranza pretende subito l’annullamento della votazione o, almeno, la convocazione immediata di una riunione dei capigruppo: quest’ultima le viene concessa ma, non essendo presente Gianfranco Fini, viene rinviata a stamattina.

“Dimissioni? Ma non scherziamo. E poi Dussin farebbe meglio a pensare al suo doppio incarico (è anche sindaco di Castelfranco Veneto, ndr)”, sbotta Bindi parlando col Fatto: “Ho tenuto la votazione aperta quasi un minuto, un tempo normale, il cicalino che avvisa i deputati che si sta per votare suonava da 10 minuti, ho sempre consentito a chiunque fosse seduto di votare quando c’era qualche difficoltà, che dovevo fare di più?”. La vicepresidente della Camera non sente di avere nulla di cui pentirsi: “Respingo qualunque ricostruzione malevola di quanto accaduto, sono sempre stata imparziale nel mio ruolo. E’ chiaro che esiste una discrezionalità di chi presiede l’aula per la chiusura delle votazioni, ma ricordo che il vicepresidente Lupi venne messo sotto accusa perché l’aveva tenuta aperta troppo a lungo. Che vogliamo fare?

Esiste il diritto, anzi il dovere, di votare, non quello di prendersi tempi di pausa più lunghi del necessario”. Quanto al merito, sostiene il democratico Realacci, “grazie ad una debacle e alle assenze tra i banchi della maggioranza, il Parlamento ha almeno fermato uno scempio ai danni del paese e degli italiani onesti”. Secondo i tecnici infatti, anche se manca ancora l’ufficialità, non c’è possibilità di ripetere la votazione: “Non esiste il diritto ad andarsi a fumare una sigaretta invece di stare in aula”, sintetizza pittorescamente uno. Il decreto demolizioni, insomma, è defunto. Riposi in pace.

il manifesto

Campania agli abusivi ma il governo va sotto

di Andrea Fabozzi

Seduta lunga, maggioranza stanca. E alle sette di sera il governo va sotto sul decreto che blocca gli abbattimenti delle case abusive in Campania. Con 249 sì e 231 no viene approvata la questione pregiudiziale presentata dall'Italia dei valori. Di conseguenza non si passa alla votazione della legge di conversione e il decreto decade. E non sarà riproponibile, il governo dovrà pasticciare qualche soluzione incollando la norma altrove. Ma intanto la maggioranza parte all'assalto della vice presidente di turno dell'assemblea, Rosy Bindi, accusata di aver chiuso troppo presto la votazione.

Il decreto è quello promesso in campagna elettorale per le regionali da Stefano Caldoro. Promessa mantenuta: nonostante gli allarmi e le ripetute frane che affliggono la Campania, il 23 aprile scorso il governo ha approvato un provvedimento di urgenza per sospendere fino al giugno 2011 gli abbattimenti delle costruzioni abusive. All'inizio doveva essere fino alla fine di quest'anno e solo a Napoli, ma poi si sono allargate le maglie in modo da offrire agli abusivi campani (la regione è maglia nera in Italia) una proroga dell'ultimo condono berlusconiano. Il precedente governatore Bassolino ne aveva escluso l'applicazione alla regione, ma la Consulta gli aveva dato torto. Con il decreto di aprile, passato senza problemi al senato il 26 maggio, il governo pagava il suo debito con gli elettori campani. Ma il voto di ieri sera cambia tutto.

Giusto ieri mattina, discutendo della legge sulle intercettazioni, Berlusconi aveva preteso un'accordo con tutte le componenti della maggioranza per garantire al provvedimento un percorso sicuro alla camera (lì dove sono numerosi i deputati vicini a Gianfranco Fini). «Blindato». Ma a Montecitorio le cose non vanno bene: poco più di un mese fa l'ultimo rovescio sulla legge sull'arbitrato. Con conseguente ira di Berlusconi, minacce ai deputati assenti e promessa di una maggiore attenzione. Ieri sera erano 64 i deputati del Pdl assenti e 15 quelli della Lega (molto meno appassionata al condono in Campania dei colleghi di maggioranza). Un paio di deputati del Pdl hanno fatto presente di aver votato ma di non essere stati registrati dal dispositivo elettronico. Tutti gli altri, capogruppo Cicchitto in testa, hanno scatenato una gazzarra verso la presidente di turno. Colpevole di non aver rispettato, a loro dire, la prassi di attendere che tutti i deputati presenti in aula avessero raggiunto i loro posti nei banchi. «Ho tenuto aperta la votazione 51 secondi», la replica di Rosy Bindi, tabulato elettronico alla mano.

Ma la consapevolezza di aver combinato un brutto guaio al governo e la certezza che il presidente del Consiglio la prenderà molto male hanno gonfiato la rabbia del Pdl. Sono stati numerosi gli interventi dei deputati fragorosamente polemici con Bindi, dal furioso capogruppo Cicchitto al più sorvegliato Lupi, dal rauco Laboccetta all'intimidatorio Consolo e tutti si sono conclusi con la richiesta di ripetere il voto. Impossibile secondo il Pd che ha difeso il comportamento della vice presidente Bindi. Che ha provato a portare avanti la seduta ma poi ha dovuto sospendere per interpellare il presidente titolare. Gianfranco Fini ha deciso per un gesto di attenzione alle richieste del Pdl: accolta la richiesta di convocare - stamattina alle 8.30 - la conferenza dei capigruppo. Che difficilmente però potrà concedere la ripetizione del voto, a meno che la presidente ammetta un errore, ipotesi improbabile.

Il ministro leghista Calderoli non sembrava stracciarsi le vesti ieri sera mentre spiegava che «caduto il decreto cadranno un bel po' di case» in Campania. Anche se ricordava che la sanatoria escludeva i casi di pericolo per la pubblica incolumità e le costruzioni nelle aree vincolate. Ma una promessa è una promessa, come ha subito fatto notare il capogruppo Pdl in regione Martusciello evocando «l'incubo delle ruspe». E se il decreto non potrà essere reiterato - come ha ammesso lo stesso Calderoli - toccherà imbrogliare un po' le carte per recuperare il condono in qualche altra legge. Il governo conosce il sistema.

Guido Bertolaso resisterà fino alla fine: il terremoto che la notte del 6 aprile 2009 rase al suolo L'Aquila e uccise 300 persone, non era prevedibile. Gli allarmi, le 400 scosse registrate nei quattro mesi precedenti, il verbale della rapidissima riunione degli esperti fatto firmare la sera stessa del sisma, le relazioni di Giuliani, valgono poco, l'inchiesta della procura de L'Aquila ha un unico obiettivo: distruggere la Protezione civile. La "sua" Protezione civile, quella che insieme con Silvio Berlusconi ha modellato nel corso degli anni. Non più organismo che cerca di prevedere col concorso di esperti e tecnici le catastrofi naturali e di mitigarne i disastrosi effetti, ma ente con poteri smisurati che si sovrappongono alle competenze di ministeri, Regioni e Comuni, che agisce al di fuori e al di sopra delle leggi correnti, delle normative sugli appalti, insofferente alle lentezze delle burocrazia e ai controlli. Tutto in nome dell'emergenza.

Le grandi catastrofi hanno distrutto tante carriere politiche nel corso della storia italiana, per Silvio Berlusconi non è stato mai così. Dal terremoto di San Giuliano di Puglia a L'Aquila. La ricetta è sempre la stessa: trasformare una tragedia in grande occasione mediatica, alle telecamere che inquadrano lutti e macerie, gente infreddolita e donne in lacrime, vanno subito affiancati i microfoni che trasmettono il verbo dell'efficienza e del fare. San Giuliano avrà la sua scuola, sarà moderna e bellissima e con le lavagne luminose, i terremotati aquilani avranno subito una casa, bella e sicura. Tutti dimenticheranno lutti, sofferenze e responsabilità. È il governo del miracolo. A L'Aquila si sta ancora scavando quando, e sono le 21:40 del 6 aprile, nel salotto di Porta a Porta, Silvio Berlusconi annuncia che costruirà le "new town". Se la ricostruzione ha tempi lunghi, una ventina d'anni nell'Irpinia del terremoto del 1980, almeno una decina in Abruzzo, è il calcolo ottimistico degli esperti, noi faremo nuove città. Un'idea che Berlusconi e il governo avevano già nel cassetto e che Bertolaso e la sua Protezione civile sposano subito. È costosa, 710 milioni, 2.500 euro a metro quadro per ogni appartamento, tanto è costato il Progetto Case a L'Aquila e dintorni, devasta il territorio (venti aree nel capoluogo abruzzese e nei comuni limitrofi, 100 ettari occupati per le abitazioni più 30 per le infrastrutture), ma assicura tempi di realizzazione rapidissimi e folgoranti inaugurazioni.

Al progetto delle new town il premier stava lavorando da mesi, ben prima del terremoto. In Italia ne vorrebbe costruire un centinaio, come ci racconta "Progetti e concorsi del 2 maggio 2009". "Il piano delle 100 New Town partirà da L'Aquila. Il progetto caro al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha trovato – proprio nel terremoto – una inaspettata occasione. Solo pochi giorni prima del sisma, il premier ha chiesto a un imprenditore veneziano una ipotesi di nuova città, sulla base di alcune indicazioni. L'idea, supportata dall'avvocato Niccolò Ghedini, è stata trasmessa personalmente dal premier all'imprenditore Andrea Mevorach, il quale ne ha recepito i contenuti e ha trasferito al suo team la filosofia del progetto".

Mevorach è un imprenditore veneziano attivo nei settori dell'occhialeria, della meccanica e dell'immobiliare, si occupa anche di sviluppo per conto di fondi immobiliari riservati ed è da anni socio dello Yacht Club Costa Smeralda. La sua idea viene subito adattata all'"inaspettata occasione" del terremoto, venti new town, inaugurate dal premier con grande dispiego di telecamere compiacenti, case tutte uguali e con gli appartamenti già arredati. Quartieri dormitori senza servizi che hanno già compromesso il futuro urbanistico della città, denunciano gli aquilani. Ma per realizzare il progetto serviva anche altro: espropriare i comuni delle proprie prerogative in materia di uso del territorio, e militarizzare le tendopoli. Una sorta di modello "choc economy", anche se più paternalistico e televisivo. Oggi Naomi Klein lo chiama "capitalismo dei disastri", vent'anni fa l'economista Ada Becchi Collidà, che studiò a lungo il dopo-terremoto in Irpinia, lo chiamò "economia della catastrofe". Il risultato è lo stesso: imprenditori pronti all'assalto della ricostruzione. Un "male" che Ignazio Silone aveva visto dopo il terremoto di Avezzano. "Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformerà in occasione di più larghe ingiustizie, e la ricostruzione edilizia per opera dello Stato una calamità assai più penosa del cataclisma naturale". Era il 13 gennaio 1915.

Condono o sanatoria. La differenza potrebbe essere più nel suono della parola, nell’effetto che fa, che nella sostanza. Per il governo significa un’operazione da 6 miliardi di euro che sono indispensabili per reggere la manovra da 24 miliardi di euro appena approvata dal consiglio dei ministri. Per gli ambientalisti vuol dire sanare un milione e quattrocentomila abitazioni sconosciute al catasto e in gran parte abusive. Con effetti devastanti per un territorio già martoriato. Certo, in teoria condono e sanatoria sono diversi. Il primo elimina gli effetti anche penali. La seconda ha un valore fiscale. Però quello che sulla carta è distinto, nella sostanza potrebbe essere simile. Anzi, c’è chi arriva a dire – perfino tra gli ambientalisti – che una sanatoria abborracciata, potrebbe essere addirittura peggio di un condono: ugualmente devastante, ma meno redditizia. Il danno e la beffa.

“Non ci sarà condono”, promette Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Ecco allora l’ipotesi della sanatoria degli “immobili fantasma”, cioè non censiti al catasto. Che sono abbastanza per costruire una metropoli grande più di Roma. L’Agenzia del Territorio si sta occupando di due tipi di immobili: 1,4 milioni di case “fantasma” e 870mila fabbricati ex rurali. Finora si sa questo: entro il 31 dicembre 2010 i proprietari di immobili non censiti dovranno presentare, ai fini fiscali, la dichiarazione di aggiornamento catastale. Una sanatoria accompagnata da un giro di vite: per contrastare il fenomeno degli immobili fantasma è previsto che i contratti di compravendita e mutuo debbano contenere a pena di nullità i dati catastali esatti.

Tutto chiaro? Mica tanto. Le associazioni ambientaliste storcono il naso: “La sanatoria richiede per forza un condono”, sostiene Stefano Ficorilli del Wwf. Aggiunge: “E’ vero, non tutte le case fantasma costituiscono un illecito penale. Ma è certo il contrario: un immobile abusivo è per forza fantasma”. Insomma, la sanatoria dovrebbe riguardare anche le case costruite illegalmente (che sono gran parte del milione e quattrocentomila). E qui gratta gratta spunta il condono: se il proprietario denuncia al catasto il proprio immobile abusivo immediatamente dovrebbe scattare la denuncia penale (salvo prescrizione). “Quindi – sostiene il Wwf – deve necessariamente essere previsto un condono. Non è pensabile che una casa sia in regola da un punto di vista fiscale (sanatoria) e non da quello urbanistico (condono). Quale proprietario pagherebbe per mettere in regola un immobile da abbattere? Nessuno”.

Il condono, però, serve anche per raggiungere i 6 miliardi di entrate previste dal Governo. Con l’oblazione pagata dai proprietari delle case abusive – si calcola 5mila euro per unità immobiliare – il gioco sarebbe fatto visto che almeno un milione delle case fantasma sarebbero illegali e che dal condono del 2004 sono stati costruiti 350mila edifici fuorilegge. Insomma, il terzo “colpo” di spugna” edilizio dell’era Berlusconi sembra alle porte. Che si chiami condono o sanatoria. Ma quali saranno gli effetti? “Per il territorio sarà una sciagura”, prevede Ermete Realacci (Pd), “soprattutto se sarà confermato il termine aperto fino alla fine dell’anno”. L’annuncio avrebbe un effetto “criminogeno” perché darebbe il via al solito boom di abusi realizzati in vista della sanatoria. Ma molti sollevano il dubbio che, anche da un punto di vista economico, la sanatoria sia vantaggiosa: “Un pagamento una tantum, parziale, è meno redditizio per le casse dello Stato di una politica basata sul rispetto costante delle norme fiscali e urbanistiche”, sostiene Stefano Pareglio, professore di Economia Ambientale all’Università Cattolica. Aggiunge: “Soprattutto, però, si crea nei cittadini la convinzione che chi commette un abuso e aspetta il condono paga meno di chi rispetta le regole”. Il che in Italia, purtroppo, non è lontano dal vero.

La sanatoria, però, non convince nemmeno i comuni. Salvatore Perugini, sindaco di Cosenza e vice-presidente dell’Anci, sospira: “Siamo contrari anche sul piano del metodo. Ci hanno convocato, ma non ci hanno dato la possibilità di interloquire. E poi non si capisce che cosa ci aspetti: con il condono pagavi un’oblazione e da quel momento la casa era in regola e dovevi versare l’Ici. Ma se si trattasse soltanto di una manovra fiscale, resterebbe soltanto l’Ici, che tra l’altro adesso sulla prima casa neanche si paga”. Insomma, il danno ambientale, senza un consistente beneficio economico. E poi, a parte il carico di lavoro per i comuni, c’è la questione della sicurezza: “Se un immobile non risulta al catasto significa che non è passato al vaglio comunale. Quindi – spiega Perugini – una volta regolarizzato costringe i comuni a realizzare le opere di urbanizzazione (strade, scuole, allacci)”. Per garantire agli abitanti, che hanno costruito abusivamente, condizioni di vita dignitose pagate dalla collettività. Infine: “C’è il pericolo che le case fantasma siano realizzate a rischio... vicino a un fiume o in una zona franosa”.

Il Senato dà il via libera alla conversione in legge del decreto che sospende le demolizioni delle case abusive in Campania. E lo fa nella stessa giornata in cui a Casalnuovo vengono rasi al suolo altri due fabbricati costruiti senza licenza.

Un intero pomeriggio è durata la discussione in Senato. E se la parola passa ora alla Camera, c´è da registrare una importante modifica rispetto al testo che portava la firma del governo: il decreto che secondo la prima versione doveva limitarsi ad un solo articolo e doveva essere applicato esclusivamente alle abitazioni che fossero stabilmente occupate da chi non possedeva un´altra casa, e che non si trovassero in territori tutelati da vincoli paesaggistici, allarga ora le sue maglie e concede una sospensione degli abbattimenti anche alle abitazioni costruite in aree vincolate.

Una sospensione di più breve durata, però: il blocco delle demolizioni nelle zone paesaggisticamente protette avrà durata solo sino al 31 dicembre di quest´anno, termine però entro il quale la Regione dovrà provvedere alla «rivisitazione del regime vincolistico». È la speranza, lasciata a chi abbia edificato in area a vincolo, di ritrovarsi a gennaio 2011 fuori da quella limitazione ed essere messo così alla pari con gli altri casi per i quali il blocco degli abbattimenti è confermato fino al 30 giugno. Resta inteso che il provvedimento riguarda solo immobili costruiti entro il 31 marzo del 2003.

In aula hanno votato contro Pd, Idv e Udc, ma la maggioranza ha fatto sentire il proprio peso, nonostante le pressioni contrarie esercitate, fuori dall´aula, anche da associazioni ambientaliste come il Wwf e il Fai. I cui presidenti, rispettivamente Stefano Leoni e Giulia Maria Mozzoni Crespi, ieri hanno confermato anche il proprio parere negativo sulla sanatoria delle cosiddette «case fantasma». «Un terzo condono edilizio - spiegano - che sarebbe devastante per il territorio del Paese e deludente per i conti pubblici». E mentre a Roma si discuteva, a Casalnuovo venivano abbattuti due edifici abusivi ancora allo stato grezzo, non abitati. A Casalnuovo sono quindi ricominciate le operazioni di demolizione. Operazioni iniziate all´alba, per evitare eventuali scontri con la popolazione, sotto lo sguardo vigile delle forze dell´ordine. I due edifici, in via Vecchiullo, sorgevano circondati da altri palazzi ugualmente abusivi, in un quartiere interamente fuorilegge edificato nel 2006.

Per firmare l’appello di eddyburg contro il decreto

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