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L'Aquila - Il fenomeno insediativo contemporaneo, frutto delle sconfitte dello zoning e della regolamentazione come unici strumenti per il controllo della forma del territorio, è la diffusione. Essa è comunemente definita “sprawl”, ‘dispersione scomposta’ con un alto consumo di suolo a fronte di una bassa densità abitativa (un disastro!), seppur ci sarebbe da discernere tra diffusione e dispersione (dove quest’ultima allude al dividere, al “mandare in parti diverse”) ché, a ben vedere, non sono proprio la stessa cosa.1

Il fenomeno, dilagante anche in Italia come dimostrano ad esempio la città adriatica, quella campana come anche quella padana, è spesso non facilmente delimitabile assumendo dimensioni di area vasta o molto vasta. A tenerlo a freno i confini geo-morfologici, ad innescarne ed alimentarne la crescita le infrastrutture della mobilità, su tutte, unitamente all’assoluta inefficacia delle politiche urbane.

Partendo dalla constatazione per cui, per la forza del modello urbanistico-territoriale con cui era nata e cresciuta, L’Aquila era tutto sommato immune da tale fenomeno (seppur interessata da pessime periferie che sarebbe errato considerare diffuse), ciò che si intende dimostrare è l’innescarsi nella conca aquilana, in conseguenza delle azioni messe in atto per dare risposta all’emergenza post-sismica, di spore di inarrestabile proliferazione insediativa. Esse non sono ferme alle prime decisioni emergenziali, ma vanno alimentandosi l’un l’altra, nel tempo, dettate dalla contingenza piuttosto che da una intelligenza di pre-visione2.

É un cane che si morde la coda e che, nel futuro, potrebbe mordere e mangiare tutto il resto.

Le rare virtù della configurazione della città-territorio aquilana e la scelerata scelta centrifuga del progetto C.A.S.E. come della Delibera Comunale 58/2009 grazie alla quale tutti i proprietari di case inagibili a causa del sisma sono stati messi nella possibilità di realizzare casette fai-da-te pressoché ovunque, da rimuovere dopo 3 anni, senza che per queste ultime vi sia stata la lungimiranza di definire aree che, quantomeno, evitassero la polverizzazione nel territorio.3

Se a ciò si va ad aggiungere il decentramento delle funzioni amministrative e direzionali resosi necessario per l’inagibilità del centro storico con le zone ad esso limitrofe, l’aumento di traffico nel fascio stradale urbano di valle (da cui l’incremento esponenziale degli incidenti mortali nelle strade cittadine) e, non ultimo, l’inerzia e l’incertezza con cui vengono percepiti ricostruzione e processi di finanziamento ad essa correlati, è facile comprendere la crescita di attenzione ed interesse pubblici e privati verso una ruralità che si va sempre più urbanizzando.4

Così si ragiona, mediante non meglio palesati processi progettuali, di dotazione di servizi delle aree C.A.S.E., sorgono cartelli di vendita di terreni prima difficilmente appetibili, capannoni prima in disuso sono oggetto di rifunzionalizzazioni e precoci occupazioni, nuovi capannoni vengono eretti come sedi di grandi imprese di costruzioni o di servizio alla ricostruzione.

Ciò che però, più di altro, segna in modo visibile a tutti la misura del sedimantarsi di un diverso modello di città (dall’estetica pedonale del centro alla tardiva “scoperta” dello spazio stradale) è la “rotonda” stradale.

Unitamente alle C.A.S.E. (Complessi, Antisismici Sostenibili Ecocomptibili), ai M.A.P. (Moduli Abitativi Provvisori), ai M.U.S.P. (Moduli ad Uso Scolastico Provvisori), ai M.E.P. (Moduli Ecclesiastici Provvisori), ai colori eccentrici ed intensi degli edifici riparati, alle casette alpine, americane o stile “Addams” (disposte nei luoghi più impensati), il terremoto ha accelerato l’introduzione di questo strumento di snellimento del traffico anche a L’aquila, città notoriamente “Immota”.5

Tralasciando le modalità di inserimento nel contesto ed “abbellimento” dell’oggetto, oltre che l’assoluta mancanza del pur minimo ragionamento sulla natura spaziale degli interstizi stradali, ciò che interessa più cogliere è l’effetto “spora”6 che questi miglioramenti infrastrutturali (come e più degli altri già menzionati) producono in favore della diffusione urbana.

É come se si facessero portatori di una modalità insediativa vincente nei confronti della contingenza ma, allo stesso tempo, deleteria per il precedente modello insediativo che, resistendo per secoli, continuava a costituire il principale fattore di attrattività per la città7.

Come tali miglioramenti viari facilitino la diffusione è facile da dimostrare, riducendosi con essi i tempi di connessione tra il centro (che in questo caso è ancora meno concentrato che nel pre-sisma e smembrato tra le prime espansioni del centro storico e le aree industriali) e la periferia. E’ facile peraltro riscontrare nelle città diffuse più consolidate quanto esse siano in diretta relazione con la capacità infrastrutturale, come già si diceva.

Come il consolidarsi della “ciambella insediativa” mini il modello multi-centrico/macrocefalo della città-territorio aquilana è altrettanto facile dedurre, visti i tempi di cui necessitano i processi urbani per sedimentarsi. In tal modo L’Aquila viene privata sia del rapporto virtuoso città-campagna di cui godeva che del forte centro di rappresentazione collettiva dal punto di vista iconico, identitario, sociale, commerciale e, non ultimo, spaziale.

Come, infine e più in generale, il modello della dispersione insediativa sia da considerarsi negativo tra le differenti forme in cui può manifestarsi un insediamento umano, è questione che può argomentarsi in primo luogo - per l’attualità che ricopre a livello globale - con la maggiore efficienza energetica, funzionale e di riduzione del consumo di suolo che gli insediamenti densi possono garantire.8

Da quanto rilevato è dunque possibile trarre due differenti conclusioni, l’una di carattere prettamente locale, l’altra sui fenomeni insediativi in senso più ampio.

Sul primo e dunque sull’Aquila, dato lo stato delle cose e non potendo eliminare certe cause, sarebbe importante attenuarne ed indirizzarne gli effetti per rendere attuabile una certa visione di città, condivisa, fattibile e perseguibile mediante un progetto di processo.

Pur in mancanza di tale visione comune, ma con la mente ad un assetto capace almeno di ridonare un ruolo al centro storico e di mantenere il disegno multi-polare insidiato dalla diffusione insediativa, le politiche urbane dovrebbero prioritariamente e tempestivamente assumere le seguenti decisioni:

Definire perimetri di edificazione dove si riscontrino agglomerati di costruito ed una soglia minima di “comunità”, decretando per tutto il restante territorio comunale l’inedificabilità, la rimozione delle casette-fai-da-te come anche dei M.A.P., M.U.S.P., M.E.P. e delle stesse C.A.S.E. In tal modo si rimarrebbe nell’ambito multi-polare mediante una composizione cellulare.9

All’interno di queste cellule, inserire attrezzature pubbliche prestando attenzione a non delocalizzare dal centro storico e dalle zone ad esso più prossime le funzioni direzionali primarie. Prevedere la reversibilità di servizi ed attezzature che dovessero contrastare con le intenzioni del punto 1. Rendere capace ciascuna cellula di essere un centro, evitando allo stesso tempo che sia così forte da soverchiare gli altri centri e rendendo capaci i poli secondari, nella loro sommatoria, di bilanciare la forza del nucleo storico.

Nella previsione di una alternativa armatura di mobilità pubblica sostenibile, limitarsi a risolvere le maggiori criticità della rete stradale in modo così da rendere vantaggiosa la scelta del servizio pubblico non appena reso competitivo.

Rendere praticabile la mobilità ciclabile proprio in virtù della momentanea “discesa a valle” (fuori centro storico) della città, recuperando la rete ambientale-fluviale.

Sono azioni che hanno evidentemente bisogno di dosi da somministrare con il bilancino. Il problema è che ad oggi non si è ancora scritta alcuna ricetta!

Quanto invece alla teoria generale sulla città diffusa è evidente come, seppur con un ritardo di oltre venti anni, oggi a L’Aquila sia possibile osservare, accelerati, i processi che portano alla diffusione insediativa: sintomi, scelte, tendenze, criticità, “qualità”. Quella spazializzazione delle pulsioni sociali che taluni vedono dietro lo sprawl e che, obtorto collo, pare ormai essersi impossessata degli stessi aquilani.

Sulla scorta delle esperienze maturate in altri contesti diffusi già consolidati è opportuno cercare ed adottare contromisure, valutandone di volta in volta la capacità di contenimento del fenomeno e di assicurazione di qualità urbana, per preservare al massimo un rapporto privilegiato, equilibrato e virtuoso insediamento-natura.

L’articolo «Torino-Lione un’opera ad alto rischio (di figuracce)» di Sergio Rizzo, pubblicato sul Corriere della Sera del 7 dicembre, può essere occasione di aprire un dibattito non ideologico su questa costosissima opera. Innanzitutto, i francesi hanno certo iniziato a scavare, ma solo «gallerie esplorative», che costano una frazione di quelle per far passare i treni. Poi, i corridoi europei di cui quello n. 5 fa parte, hanno perso ogni credibilità funzionale e politica: per accontentare tutti sono diventati una ventina, e coprono l’Europa con una fittissima rete, non soltanto nord-sud e est-ovest, ma oggi anche con tracciati diagonali e marittimi. Ma veniamo al nocciolo economico della faccenda: i 672 milioni europei. L’Europa cofinanzia soltanto il tunnel internazionale, che costa circa 8 miliardi di euro (di preventivo…). Ma i costi totali sono oggi stimati intorno ai 22 miliardi di euro, anche se non si dice. Inoltre il finanziamento al 30 per cento del tunnel è un massimo possibile, e assai ipotetico, proprio a causa delle pressioni di altri Paesi. Quindi, nella migliore delle ipotesi, l’Europa finanzierà meno del 15 per cento del totale, e solo se i preventivi (sempre molto ottimisti come l’esperienza Av — Alta velocità — insegna), saranno rigorosamente rispettati. Dal progetto, poi, è certo che non uscirà un euro per finanziare l’investimento, dati i traffici previsti.

Ma veniamo al nocciolo funzionale del progetto: la nuova linea avrà una capacità di 250 treni/giorno. I treni/giorno passeggeri previsti ufficialmente sono circa 14. Allora si è detto: ma è una linea per le merci! Bene, ma perché farla con standard (e costi) da Alta velocità, visto che sulle linee Av francesi e spagnole i treni merci non possono passare?

Vediamo infine i dati del traffico merci: la linea attuale, appena rimodernata, consente il passaggio di 20 milioni di tonnellate/anno. Ne passavano 9 dieci anni fa, in calo costante fino a 6 (è calato anche il traffico autostradale, su quella relazione). Con la crisi, attualmente ne passano circa 3. E non è ancora in funzione il tunnel svizzero del Gottardo, che serve una direttrice non troppo diversa. Ci sono gli elementi per dire che questa è un’opera prioritaria, visto che i soldi son pochi e che, per esempio, il Brennero costa la metà e ha il doppio del traffico?

Marco Ponti Ordinario di Economia dei trasporti

Si tratta di un progetto da far invidia ai berlusconiani. In realtà è stato approvato dal governatore Claudio Burlando che l'aprile scorso, in periodo elettorale, fu congelato. Ora invece c'è il via libera in un territorio dove il 45% del territorio negli ultimi 15 anni è stato mangiato dal cemento. Record italiano.

Centinaia di messaggi dai frequentatori del blog di Beppe Grillo. Un’insurrezione delle associazioni ambientaliste. Consiglieri regionali verdi che si erano schierati apertamente contro il Piano Casa presentato un anno fa dalla Regione Liguria governata dal centrosinistra. Ma alla fine sembrava che la Liguria stavolta si fosse salvata: il documento, un colpo di grazia su una regione già devastata dal cemento, era stato ritirato.

C’era stata perfino una dichiarazione del presidente Claudio Burlandoche, dopo le proteste, aveva fornito assicurazioni precise: “Il Consiglio Regionale ha approvato in questi giorni la legge sul “piano casa”. Ritengo che sia un provvedimento equilibrato e giusto… Forse chi ha diffuso pubblicamente giudizi negativi preventivi dovrebbe oggi riconoscere che le cose stavano e stanno diversamente”. Si trattava, disse Burlando, “di giudizi affrettati e forse non formulati in buona fede”.

Che cosa dicevano i critici in malafede? Che il Piano Casa della Liguria concedeva ampliamenti volumetrici tra l’altro a edifici condonati e a strutture industriali. Insomma, che si rischiava uno scempio definitivo, morale e urbanistico, in una regione che negli ultimi quindici anni con la benedizione di sinistra e destra ha perso il 45 per cento del territorio libero da costruzioni (record italiano).

Ma sono trascorsi dieci mesi. Soprattutto sono passate le elezioni che Burlando e il centrosinistra temevano di perdere se il loro elettorato si fosse ribellato. E così ecco adesso che la Giunta ha approvato il suo Piano Casa definitivo. Il contenuto: ampliamenti per gli immobili condonati e per i manufatti industriali e artigianali (leggi capannoni). Non solo: possibilità di demolire e ricostruire con aumento volumetrico estesa a tutti gli immobili, dunque non soltanto a edifici pericolanti e ruderi. Insomma, i timori avanzati da chi, secondo Burlando, “aveva avanzato giudizi negativi preventivi… e forse non formulati in buona fede” sembrano essersi quasi tutti concretizzati.

Pare il Piano Casa dei sogni per una giunta di centrodestra. Roba da far impallidire Ugo Cappellacci. E invece a votarlo è stata una giunta guidata dal Pd. Di più: le norme più contestate sono state fortissimamente volute dall’Italia dei Valori, nella persona dell’assessore all’Urbanistica (e vicepresidente della Giunta), Marylin Fusco.

Certo i liguri ormai non si stupiscono più di tanto, visto che il centrosinistra locale è sponsor da anni del cemento. Che ha appoggiato o accolto in silenzio progetti che hanno riversato sulle coste liguri milioni di metri cubi di cemento. Le gru ormai sono parte del paesaggio. La febbre da cemento non ha risparmiato nessuno: industrie, colonie, ospedali, manicomi, ogni pietra è stata riconvertita in appartamenti e spremuta per produrre fino all’ultimo euro.

Ma che cosa prevedono nel dettaglio i punti più contestati del Piano? Tanto per cominciare possono accedere ai benefici del Piano Casa, dunque agli ampliamenti, anche gli immobili condonati per abusi classificabili come tipologia 1. In parole povere sottotetti, singoli vani, cantine e verande. “Stiamo dando la possibilità di modesti ampliamenti a realtà deboli, tipiche dell’entroterra e della campagna”, assicura oggi Burlando. Ma c’è chi invece teme che la norma sia un regalo ai ricchi proprietari delle case della costa (dove ogni metro quadrato vale oro). Il punto è, però, un altro: si premia chi non ha rispettato le norme urbanistiche, chi ha realizzato degli abusi. E proprio qui colpisce l’atteggiamento dell’Idv, sulla carta paladino del rispetto delle regole.

Non basta: gli ampliamenti volumetrici fino a un massimo del 35 per cento non riguardano più solo le abitazioni ma anche i manufatti industriali e artigianali. Insomma, i capannoni, dove un ampliamento può significare migliaia di metri cubi in più. Burlando non ha dubbi: “Abbiamo dato la possibilità di modesti ampliamenti volumetrici a favore delle attività produttive in un momento di drammatica difficoltà per le nostre imprese”.

Ma visto quello che è successo in Liguria qualche dubbio è perlomeno legittimo: in tanti ricordano come basti poi una piccola variazione di destinazione d’uso, due righe sui documenti, per trasformare una zona industriale in residenziale. Gli esempi non mancano: a Cogoleto dove sorgeva la Tubighisa alcuni imprenditori amici del furbetto Gianpiero Fioranistanno realizzando 174mila metri cubi di nuove abitazioni per 1.500 abitanti. Un’operazione voluta con tutte le forze dall’amministrazione di centrosinistra e firmata dall’architetto Vittorio Grattarola, fraterno amico di Burlando e membro della sua associazione politica Maestrale (accanto ad altri architetti, imprenditori del mattone e tecnici pubblici che si occupano di urbanistica e, ovviamente, al presidente della Regione che dà il via libera ai progetti).

Di più: la possibilità di demolire e ricostruire con relativi aumenti volumetrici è stata estesa a tutti gli edifici, non soltanto a quelli pericolanti e ai ruderi come sembrava inizialmente. Un’altra norma che apre le porte a decine di migliaia di metri cubi nuovi. Magari in zone di pregio. Basta? Chissà. Adesso la parola passa al Consiglio Regionale e il centrodestra è già pronto a chiedere che gli edifici alberghieri siano anch’essi ammessi ai benefici.

“Il Pdl e la Lega volevano altro. Così come le associazioni dei costruttori”, disse dieci mesi fa Burlando. Oggi possono dirsi accontentati. Meno soddisfatti paiono alcuni esponenti del centrosinistra che timidamente stanno cercando di manifestare i loro dubbi.

E pensare che un anno fa perfino il centrosinistra nazionale era insorto contro il Piano Casa Burlando: “È il piano più cementizio d’Italia”, aveva attaccato il senatore democratico Roberto Della Seta, accusando la “lobby del cemento” interna al partito. Pippo Civatie Debora Serracchianinon erano stati meno duri: “Se la realtà del Piano varato da un’amministrazione di centrosinistra dovesse superare le fantasie di Berlusconi, ci sarebbe da preoccuparsi – affermò Civati – quindi invito Burlando a riflettere sui contenuti della legge e sulle conseguenze che può avere su un territorio ligure già sufficientemente maltrattato. Il centrosinistra ligure abbia la forza di distinguersi da questo modo di procedere. La nostra generazione non si deve macchiare degli stessi errori compiuti dalla precedente”.

Il Pd ligure, però, già allora aveva fatto capire che aria tirava: “Serracchiani e Civati farebbero bene a pensare ai fatti loro, anziché parlare di argomenti che non conoscono”, disse Mario Tullo, allora segretario ligure del Pd. Di sicuro lui di cemento ne sa parecchio.

Ma ormai la Liguria si prepara a un’ennesima ondata di cemento. Anche se Burlando rassicura: “Abbiamo aperto una riflessione sullo sviluppo dei nuovi porti turistici, visto che il Piano della costa del 2000 ha già raggiunto il suo obiettivo di 10mila nuovi posti barca”.

Basta posti barca, sembra dire Burlando. E pensare che era stato proprio lui nel 2005 a dichiarare: “Un mio amico di Bologna (Romano Prodi, ndr) si è augurato di vedere sulle nostre spiagge più ombrelloni e meno porticcioli. Io invece dico: più ombrelloni e più porticcioli”. Era stato sempre Burlando a partecipare soddisfatto alla posa della prima pietra del Porto di Imperia voluto daClaudio Scajolae finito oggi nel mirino della magistratura. Ed erano stati amici di Burlando, come il tesoriere della sua campagna elettorale, a far parte del cda della Marinella spa (allora controllata dalla banca “rossa”, il Monte dei Paschi) che a La Spezia ha lanciato il progetto per un nuovo porticciolo da oltre mille posti nella splendida area della foce del Magra. Basta porticcioli, forse perché non c’è più un centimetro libero di costa dove costruirli: in Liguria ormai c’è un posto barca ogni 47 abitanti. Basta, adesso meglio puntare sul Piano Casa.

LA STRATEGIA “A PEZZETTI”

DELLA GRANDI OPERE

I piani restano faraonici, gli annunci si sprecano, ma le risorse non ci sono per realizzare le grandi infrastrutture promesse dal governo Berlusconi. Questo non induce alcun cambiamento di rotta, anzi si escogitano scorciatoie sempre più pericolose per non ammettere il fallimento. Come ha fatto anche il Cipe del 18 novembre 2010 annunciando il via libera per 21 miliardi di opere pubbliche, in realtà autorizzando lotti costruttivi, cioè pezzi di opere nemmeno funzionali che si sa quando cominciano e non si sa dove e quando finiscono.

Sono i 500 milioni per la TAV Milano-Genova ( che costa oltre cinque miliardi), il primo lotto costruttivo della galleria del Brennero (790 mln), l’approvazione del cunicolo esplorativo La Maddalena, (47 milioni) parte del progetto TAV Torino-Lione che costa 15 miliardi. Ancora 468 milioni per l’autostrada Roma-Latina che costa complessivamente 2,7 miliardi.

Anche l’Ance ha protestato contro il trucco, parlando di opere già approvate da tempo e solo riapprovate a “pezzi” dal Cipe, senza nuove assegnazioni di risorse, anzi con robusti tagli nella manovra finanziaria, mentre anche le opere medio piccole sono incagliate da mesi. Nel suo “Osservatorio congiunturale sull’industria delle costruzioni” l’Ance parla di “ progressivo disimpegno dello Stato nella realizzazione delle opere pubbliche”, analizzando il DDL di stabilità 2011 emerge una riduzione per le grandi infrastrutture del 14% rispetto al 2010 e nel triennio 2009-2011 le risorse per le grandi opere sono state tagliate del 30%.

La stessa manovra per il 2011 del Governo ha fissato il taglio di 922 milioni per le ferrovie, mentre il contributo per investimenti di ANAS nel 2011 è pari a zero perché le risorse dovrebbero venire dal pedaggiamento di diverse strade statali. Risorse al momento solo ipotetiche e che comunque - ha detto il Presidente di ANAS Ciucci – serviranno a pagare i debiti delle opere in corso, mettendo quindi a rischio manutenzione e messa in sicurezza delle strade statali.

Ma le liste sterminate restano: basta leggere l’Allegato Infrastrutture presentato al Parlamento dal Governo in occasione del DFP. Secondo il Ministro Matteoli sono 28 le infrastrutture strategiche superprioritarie da avviare entro il 2013, orizzonte della legislatura, per un totale di 110 miliardi, di cui mancano 71 miliardi da trovare in due anni. E dei 40 miliardi disponibili in realtà ben 18,7 miliardi dovrebbe provenire dai privati, che sappiamo bene quanto siano refrattari all’investimento a rischio in grandi opere.

Secondo l’Allegato Infrastrutture il costo complessivo delle opere Legge obiettivo è lievitato a 231 miliardi, cioè è più che raddoppiato rispetto al 2001, con un fabbisogno residuo di 142 miliardi ancora da trovare. Ma il Quinto Rapporto del Servizio Studi della Commissione Ambiente della Camera, in collaborazione con Cresme ed Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici arriva a conclusioni ben diverse: nel 2010 le opere strategiche sono diventate 348 per un valore complessivo di 358 miliardi. (vedi www.annadonati.it infrastrutture)

In tempi di crisi è ragionevole tagliare le risorse per grandi opere, ma bisogna tagliare anche il piano di grandi opere, puntando all’adeguamento delle infrastrutture esistenti, alla manutenzione del patrimonio pubblico, investire nelle città, aggredite da degrado e mancanza di servizi, destinare risorse contro il dissesto idrogeologico, che nonostante frane ed alluvioni, è al minimo storico per investimenti.

Le solite note:

Autostrade, Mose, TAV, Ponte sullo Stretto.

La lista delle pseudo priorità dell’Allegato Infrastrutture da far partire entro il 2013 contiene le solite opere (Tabella 2): ci sono i grandi valichi ferroviari Torino-Lione e Brennero, il terzo valico Milano-Genova, la TAV Milano-Verona, l’autostrada Orte- Venezia e Roma-Latina, il completamento del Mose, la Salerno Reggio, il Ponte sullo Stretto, l’autostrada Tibre ( di cui si vuole dare il via libera a 15 km) e la Nogara-Mare, le autostrade venete, lombarde e la tangenziale est,. (per l’elenco completo vedi il sito www.mit.gov.it)

Stranamente non c’è l’Autostrada della Maremma, ma il trucco è presto svelato: sta in un’altra Tabella 3, quella che contiene tutto il resto, le opere già fatte, quelle in corso e quelle che non partiranno entro il 2013.

L’Autostrada Tirrenica della SAT costa 3,7 miliardi di euro, di cui la concessionaria si è impegnata a pagare 3,3 mld, ma al momento gli impegni fissati sono per realizzare 4 km tra Rosignano-S.Pietro in Palazzi per 45 milioni. Secondo il Governo grazie a questi 4 km l’opera è avviata anche se sul resto dei 180 km manca ancora il progetto definitivo! Dopo le prescrizioni del Cipe (che ha imposto un valore di subentro per lo Stato pari a zero) e quelle ambientali della Commissione VIA, la stessa SAT ha annunciato di voler modificare il tracciato, per utilizzare anche nel tratto Grosseto-Civitavecchia l’attuale tracciato del’Aurelia, al fine ridimensionare l’investimento che dovrebbe aggirarsi su 2,2 miliardi di euro. A giugno è stato pubblicato il progetto definitivo e SIA del tratto Tarquinia-Civitavecchia, in effetti completamente sovrapposto all’Aurelia. Siamo praticamente tornati al progetto ANAS del 2001, perdendo inutilmente dieci anni.

Un altro caso emblematico è l’autostrada Orte-Venezia, un progetto sbagliato da 400 km, costo previsto secondo l’Allegato di 9,7 miliardi di cui disponibili 8,3, e da trovare altri 1,4 miliardi. In realtà quelli disponibili sono gli 8,3 miliardi che dovrebbe mettere il soggetto privato che vincerà la gara per la concessione. Attualmente il promotore dell’opera scelto da ANAS, è la società privata Gefip Holding dell’on. Vito Bonsignore, sul cui progetto dovrà essere effettuata la gara. Non si è mai vista in tutta la storia del project financing mondiale una simile capacità di autofinanziamento per un’autostrada! Ma intanto il progetto va avanti ed ora ha ottenuto dalla Commissione VIA un inaccettabile parere positivo di valutazione ambientale. Ma comitati ed associazioni ambientaliste ha già reagito con un appello ed una serie di iniziative si preannunciano da Mestre a Perugia passando per Ravenna, chiedendo il miglioramento delle strade esistenti, ed il potenziamento delle ferrovie e del cabotaggio (vedi il sito www.retenoar.org).

Anche per la TAV Torino-Lione si procede come niente fosse, come se la crisi economica e le scarse risorse non imponessero l’accantonamento definitivo del progetto che costa complessivamente 15 miliardi di cui 8,7 miliardi per le casse dello Stato italiano. Basti pensare che per il 2011 il trasporto ferroviario regionale dei pendolari subirà un taglio pesante del servizio e le Regioni parlano di un 20% in meno. Il 29 ottobre è arrivato lo scontato via libera della Commissione VIA del Ministero per l’Ambiente al cunicolo esplorativo de La Maddalena a Chiomonte, (riedizione aggiornata del cunicolo di Venaus del 2005). Questa estate è stato pubblicato il progetto preliminare della tratta internazionale tra Italia e Francia con lo studio di Impatto ambientale che adesso dovrà essere giudicato dalla commissione VIA. Pensanti le osservazioni dei comuni, dei comitati e delle associazioni ambientaliste contro il progetto che hanno chiesto l’interruzione della procedura VIA per tre ragioni: il frazionamento artificioso della VIA dato che manca la parte italiana di innesto a Torino, per la carenza di valutazione sugli impatti ambientali, ed infine per aver riportato il progetto all’interno della Legge Obiettivo, che esclude gli enti locali dalle decisioni. E la popolazione della Valsusa è tornata in piazza con presidi e marce assai partecipate per fermare il progetto, ancora più motivate in tempi in cui si tagliano i servizi essenziali per i cittadini. (vedi il sito www.ambientevalsusa.it).

Anche per il Ponte sullo Stretto è annunciato per fine anno la presentazione del progetto definitivo, su cui dovranno essere verificati i costi reali ed aggiornato il piano finanziario di un’opera che costa 6,1 miliardi ed assegnati dal Cipe 1,3.

In questi mesi sono state effettuate trivellazioni propedeutiche a Torre Faro e Due Torri per la definizione del progetto, ed i cittadini interessati hanno fatto sentire la loro voce, così come le manifestazioni No Ponte hanno visto l’adesione di migliaia di cittadini che chiedono la messa in sicurezza del territorio come opera utile, arrabbiati perché ad un anno dalla frana di Giampilieri con il suo carico di morti e feriti niente è stato fatto. (vedi siti www.noponte.it e www.retenoponte.it )



LA SOLITA FINANZIARIA:

GIÙ DALLA TORRE I PENDOLARI,

RISORSE PER L’AUTOTRASPORTO.

La manovra finanziaria licenziata dalla Camera ed ora in discussione al Senato, trova 400 milioni di euro per l’autotrasporto, anche 471 milioni di euro per i cacciabombardieri F-35 e ben 245 milioni per le scuole private, ma conferma i tagli per il trasporto ferroviario regionale a cui manca più di un miliardo grazie alla manovra estiva di Tremonti.

La manovra “sembra” trovare 425 milioni per coprire il buco ma in realtà li prende dalle risorse previste per l’acquisto di materiale rotabile per il trasporto regionale del DL 185/2008. L’emendamento approvato, peraltro scritto in modo tortuoso ed ambiguo, in pratica azzera le risorse per i nuovi treni per tagliare un po’ meno il servizio. Una vera beffa per quei 2,5 milioni di pendolari che ogni giorno usano il treno per muoversi, e che avevano osato sperare che con l’arrivo del nuovo materiale rotabile a partire dal 2012 sarebbe migliorata la qualità del servizio.

Dal prossimo anno, a meno di novità positive dal passaggio al Senato del ddl stabilità, si annunciano tagli in tutte le regioni del trasporto per i pendolari, tra 10 ed il 20% del servizio sia gomma che ferro, e/o robusti aumenti delle tariffe. Addio quindi alla difficile strada verso la mobilità sostenibile e lo sviluppo del trasporto collettivo, tagliando servizi già scarsi e di bassa qualità, se confrontati con il resto delle città europee.

In effetti di fronte all’enormità del taglio non sembra esserci una adeguata reazione, a partire da Trenitalia, ma è probabile che esploda la protesta una volta che sarà evidente il taglio dei servizi di trasporto. ASSTRA ha elaborato alcuni scenari: se il taglio delle risorse è del 20% l’aumento delle tariffe sarà del 78% per mantenere i servizi. Se invece si tagliano i servizi, con il 20% in meno di risorse vanno tagliati ogni anno 392 milioni-km di autobus, tram e metropolitane e questo comporta 540 milioni di passeggeri/anno di meno. A questi vanno sommati il taglio di 7,8 di treni-km di ferrovie regionali ( esclusa Trenitalia), che comporta 1,5 milioni di passeggeri in meno.

Questo avrà anche pesanti effetti ambientali nelle città, mentre è sottovalutato l’effetto sull’occupazione sulle aziende del TPL. Con il taglio del 20% dei servizi ci saranno - secondo ASSTRA - 19.720 addetti da tagliare, per i quali non è prevista alcuna forma di ammortizzatore sociale specifica. Senza dimenticare che tagli in questo settore significa anche fermare l’industria ed i suoi occupati di chi produce autobus, treni, tram con tutto l’indotto collegato e che in Italia ha una presenza significativa.

Diverse città hanno inaugurato di recente nuove reti tramviarie o su ferro come Padova, Messina, Bergamo, Firenze, Cagliari, Sassari, ed altre linee sono in cantiere a Mestre e Palermo. Ma se si tagliano le risorse per l’esercizio come faranno a trasformarsi in servizio ai cittadini? E come sarà possibile aumentare il trasporto regionale come promesso, sulle linee liberate dai treni di lunga percorrenza che ora viaggiano sulle nuove linee veloci AV?

Il rischio concreto è che dopo aver speso tante risorse pubbliche in infrastrutture su ferro, adesso i pendolari ed il trasporto locale non traggano alcun beneficio per i loro spostamenti, nonostante che siano la stragrande maggioranza dei viaggi quotidiani.

Viaggio a Tor Bella Monaca per immaginare il futuro di un mondo dove il degrado si mescola ad archeologia e verde. I nuovi metri cubi nei terreni del conte Vaselli. La minaccia alla sorgente dell’Acqua Vergine.

Prima tappa, viaggio sotto la pioggia in torpedone verso Tor Bella Monaca. All’appello hanno risposto nove dipartimenti e facoltà di architettura di Roma, Milano, Torino, Pescara, Parma, Venezia, Camerino, Napoli, Reggio Calabria. Tema: la proposta del sindaco di Roma Gianni Alemanno di demolire l’edilizia popolare degli anni Ottanta – «buttiamo giù l’architettura comunista », traduce Massimiliano Lorenzotti, presidente dell’VIII municipio - e ricostruire in stile «Garbatella» con l’aiuto dell’architetto lussemburghese Leon Krier. Seconda tappa (martedì nell’aulamagnadella facoltà di architettura a Fontanella Borghese a Roma), seminari di studio, terza: le proposte, a gennaio 2011. Gli studiosi delle periferie hanno parecchie perplessità su un’operazione che, solo con i materiali di demolizione, «riempirebbe l’intero stadio Olimpico », spiega Marta Calzolaretti, professore di progettazione alla Ludovico Quaroni di Roma.

GRA e A24, un incubo di traffico sotto la pioggia. Fa da guida Daniel Modigliani che è stato direttore dell’ufficio delle periferie e poi del nuovo Prg. C’è Renato Nicolini, c’è una piccola troupe con Pierpaolo Andriani e Roberto Giannarelli per le riprese video: il complesso del Municipio (studio Passarelli) con il cinema e il teatro è un inno – da poetica anni Settanta - al cemento nudo. Niente panchine, niente piante, niente passaggi coperti per ripararsi dalla pioggia. Primo appunto: demolire o curare la vivibilità degli spazi pubblici?

Anni Settanta, epocale manifestazione per la casa al tempo dei baraccati dell’Acquedotto Felice. Anni Ottanta, sindaco Luigi Petroselli, detto l’Etrusco o anche il Comunista, è il tempo dell’ultimo grande programma di edilizia popolare e agevolata. Nascono Corviale, Laurentino 38 e Tor Bella Monaca.

Tor Bella viene su in meno di due anni, 1982-1983. Roba da far impallidire il progetto CASE a L’Aquila. Case popolari, insediamenti privati e cooperativi. Però non ci sono servizi. Racconta Modigliani: nel progetto Isveur i servizi c’erano ma sulle aree espropriate al conte Vaselli si prevedevano gli alloggi ma non le infrastrutture. Il contenzioso del conte con il comune di Roma dura tuttora. E l’edilizia prefabbricata è un disastro dal punto di vista energetico.

Viale dell’Archeologia, il famigerato R5 con le sue tre grandi corti (architetto Barucci). Alle spalle c’è il rudere rugginoso del mercato mai entrato in funzione per l’ortofrutta ma perfetto per lo spaccio di stupefacenti. Non si è mai riusciti ad abbatterlo. Però,R5 hauno spettacolare panora-ma verso i Castelli. È Agro romano vincolato, tenuta Vaselli, sarà oggetto delle nuove edificazioni di Alemanno. «Così il conte si prepara a guadagnarci due volte», chiosa Renato Nicolini. Là sotto c’è una villa romana ed emerge, trattato come una discarica, il lastricato preromano della via Gabina. Al confine fra Agro e abitato piccoli orti e baracche sorvegliate dal latrato dei pit bull. Ma non c’è solo abbandono, anche i campi sportivi e la piscina.

Il rischio accertato è un ulteriore consumo di suolo: dagli attuali 77,7 a 97,7 ettari, da 28mila abitanti previsti attuali a 44mila. Cifre che spiegano l’arcano del presunto costo zero per l’amministrazione comunale a fronte di un miliardo di spesa: il pagamento è in cubature che passano da duea tre milioni e mezzo. L’operazione ideologica copre una gigantesca speculazione immobiliare, mentre sul comune ricadranno i costi di urbanizzazione e sociali. E l’espansione andrà a lambire la sorgente dell’acqua Vergine che sgorga sotto la cresta vulcanica dell’insediamento. La prospettiva sono tre anni di un immenso cantiere senza contare tutto il tempo necessario ai progetti e alla ricerca dei finanziamenti e senza che si sia risposto ad una domanda fondamentale: perché dovrebbe migliorare la qualità della vita delle persone, come si contrasterebbe la microcriminalità che affligge alcune zone del quartiere?

C’è un problema di degrado edilizio e gli spazi pubblici sono lande desolate, gli spostamenti dentro al quartiere si devono fare in macchina, mancano ciclabili, marciapiedi, servizi agli anziani e ai bambini. Marta Calzolaretti: «È a questi problemi che si deve rispondere e a quello del risparmio energetico, mentre nuovi alloggi potrebbero sorgere dove è già urbanizzato». E, se si allarga lo sguardo, Tor Bella Monaca fa parte di una città di 90mila abitanti con Torre Angela e Torre Gaia, Capanna Murata e Rocca Fiorita che sconfinano verso i Castelli. Un mondo pieno di ricchezze naturali e archeologiche che la presenza della seconda università a Tor Vergata ha profondamente modificato, attirando studenti e albergatori per chi usufruisce del Policlinico. Il cantiere del metro C entra nelle case. Ce n’è abbastanza per chiedersi quali problemi risolvano le casette basse di Alemanno a parte l’indubbio guadagno di chi si vedrà modificare le proprietà agricole in edificabili.

Non c’è solo la piazza "palladiana" e la gondola costruita dai maestri d’ascia nello squero veneziano. Oggi c’è molto di più nell’outlet di Noventa di Piave, costruito nel cuore del Nordest, a venti minuti da Venezia, davanti all’autostrada che porta a Trieste.

In mezzo alla miriade di negozi che animano il villaggio del lusso è spuntato anche un museo archeologico.

Sì, proprio un museo, rigorosamente virtuale, in armonia con la "finzione" che tanto piace alla ressa di visitatori che quotidianamente prende d’assalto la cittadella dello shopping. Così tra un vestito di Valentino, una borsetta di Prada e una giacca di Versace ecco che si materializza sulla parete l’area archeologica di Altino, oppure quella di Concordia Sagittaria. E mentre cammini sul pavimento, di una vera e propria sala espositiva attrezzata accanto ai negozi, si illumina sotto le scarpe un mosaico di una villa romana del primo secolo A. C.

Se poi ti avventuri a smanettare sui touch screen, puoi ricostruire interi pezzi storia di mille e più anni fa. Saltare dal museo di Altino a quello di Este, passando per l’area archeologica di Concordia. Un’operazione culturale per nulla improvvisata, condotta da McArthurGlen - il marchio dell’outlet - in collaborazione con la Sovrintendenza ai beni archeologici e Comune, che sta funzionando. Inutile dire dello stupore dei visitatori. Ma dopo un attimo d’incertezza solitamente restano incuriositi dal museo virtuale. Così puoi trovare la coppia di giovani fidanzati con in mano un sacchetto di Fendi che si divertono a camminare avanti e indietro sul "mosaico" scoprendo il fascino del passato: «Che roba - esclama lui - sembra di fare un tuffo nel passato».

Ma poi, incontri anche la signora un po’ anzianotta che sembra essersi smarrita: «Scusi, ma è questo il negozio di Loro Piana?». Ci sono però pure marito e moglie di una certa età incantati a guardare le immagini che scorrono sulle pareti mostrando gli scavi in corso nel complesso archeologico di San Mauro a ridosso del Piave, a poca distanza dallo stesso outlet: «Guarda, qui è scritto che si tratta di una grande villa romana, probabilmente di qualche patrizio». Poi ci sono i ragazzini che, scoperto il gioco, non li smuovi più dal touch screen.

Sono trascorsi solo pochi giorni dall’inaugurazione del museo interattivo, ma il risultato sembra andare al di là delle aspettative. Dice Maurizio Lupi, presidente Bmg Noventa, la spa proprietaria dell’outlet. «Questa mostra rientra nella nostra filosofia aziendale che punta ad integrarsi con il territorio dando vita a iniziative di qualità. In questo senso stiamo anche collaborando allo scavo archeologico in corso a San Mauro».

Enrico Biancato, direttore dell’outlet, traduce in cifre la politica aziendale: «Abbiamo aperto da due anni, non siamo ancora a regime, ma possiamo contare su più di un milione e mezzo di visitatori all’anno, con persone che vengono anche dall’Austria, dalla Croazia e Slovenia. Senza contare i turisti che fanno tappa a Noventa durante l’estate».

Non c’è dubbio: i numeri danno ragione a questa politica che tiene assieme business e cultura, shopping e divertimento intelligente. Se a Las Vegas prima e a Macao dopo, hanno riprodotto Venezia con tanto di canali e ponte di Rialto, per richiamare i giocatori al Casinò, qui a Noventa l’operazione è diversa. Sempre ispirata alla finzione scenica, ma cercando di interagire con l’area urbana circostante. Gli archeologi sono contenti perché quest’atteggiamento, ha consentito, in tempi di vacche magre per la Cultura, di allestire il museo storico interattivo che consente anche di divulgare l’opera di scavo in corso a San Mauro. Che, per l’archeologo Vincenzo Gobbo che dirige i lavori, è «un complesso archeologico eccezionale».

postilla

Liberiamo subito i campo da un equivoco: il modello del centro commerciale suburbano, più o meno tirato a lucido e ribattezzato, fa male all’ambiente e all’equilibrio socioeconomico. Detto questo, quanto raccontato dall’articolo è un percorso a modo suo virtuoso, anche indipendentemente dai contenuti culturali certificati dagli specialisti. Ovvero si sostituisce alla monocoltura commerciale una maggiore articolazione, con un’offerta che va decisamente oltre il baraccone posticcio del solito cosiddetto retailtainment , ovvero un po’ di animazione da tempo libero per sfigati che lascia il tempo che trova. La stessa Venezia scimmiottata, se la pensiamo in una logica da parco a tema qual è, perché non dovrebbe essere considerata anche nel suo aspetto positivo, di valvola di sfogo per una utenza che magari cercherebbe nella Venezia vera quel consumo di spazio mordi e fuggi che in tanti lamentano come pericolosamente degradante? Certo sarebbe assai più auspicabile che tutta la popolazione turistica mondiale, o magari solo padana, fosse composta da tanti piccoli educati intellettuali benestanti tipo moderni Goethe, che sanno come e sino a che punto godersi l’inestimabile bene culturale. Ma visto che non è così, né può esserlo in questo mondo, magari riflettere sugli spunti positivi del “percorso verso la città” dei villaggi commerciali moderni aiuta. Opinione strettamente personale, ma mi pare più fondata e realistica di tante altre (f.b.)

Brutto mese novembre: era novembre quando il Po, nel 1951, ha allagato il Polesine, la prima grande tragedia nazionale, che riuscì a mobilitare emozione e solidarietà in tutto il Paese, appena uscito dalla guerra, e impegni perché non succedesse più; era il 4 novembre 1966, in pieno boom economico, quando le acque dell'Arno e le fogne di Firenze hanno invaso quella straordinaria città, e le acque dell'Adige hanno invaso Trento e il mare ha allagato Venezia; anche allora emozione e solidarietà e anche allora impegni perché non succedesse più. Era novembre quando ci sono state le grandi alluvioni del Piemonte nel 1994; ormai sempre meno emozione e qualche soldo agli alluvionati in modo che ricostruissero proprio dove le loro case e fabbriche erano state spazzate via. E' novembre ancora adesso che stiamo soffrendo per il dolore di tante famiglie nel Veneto e in Toscana e in Calabria e in Sicilia.

Se il mese di novembre è brutto perché i meteorologi dicono che le piogge intense si formano dallo scontro di masse di aria fredda e calda sulla nostra penisola, stesa là nel Mediterraneo fra Europa e Africa, anche tutti gli altri mesi dell'anno sono cattivi per frane e allagamenti: giugno Versilia (1996); luglio Ofanto e Manfredonia (1972), Valtellina(1987); settembre Soverato in Calabria (2000); ottobre Salerno (1954) e Genova (1970), e così via.

"Calamità naturali", le chiamano, ma la natura non è né buona né cattiva: fa il suo mestiere che è quello di far circolare aria e acqua sugli oceani e sui continenti, così come il "mestiere" dell'acqua piovana consiste nello scendere dalle montagne e dalle colline al mare lungo le strade di minore resistenza, i torrenti, i fiumi i fossi, con maggiore o minore velocità a seconda di quello che incontra sul terreno, cose ben note e prevedibili.

I guasti vengono dal fatto che noi umani ci comportiamo sul territorio come se queste leggi non esistessero, costruendo strade e case, ponti e fabbriche e campi dove ci torna comodo, secondo piani che dovrebbero essere "regolatori", cioè adatti a regolare le scelte sulla base delle leggi della natura, ma che invece non tengono conto di tali leggi, anzi spesso operano contro di loro. L'unico sistema per evitare allagamenti e frane consiste nel predisporre sistemi per rallentare il moto delle acque con la vegetazione e i boschi e nel lasciare libero lo spazio di scorrimento delle acque nel loro cammino verso il mare. Purtroppo le valli sono spesso le zone più desiderabili per le costruzioni; i fondovalle sono stati occupati da strade e città a spese della vegetazione; sono state interrotte le strade naturali predisposte dalle acque per la loro discesa.

E' uscito di recente un libro scritto dall'economista Giovanna Ricoveri, intitolato "I beni comuni" (Jacabook, 2010) in cui viene ricostruito il processo con cui si è formata la proprietà del suolo; in tempi medievali la terra era "del principe", cioè dello Stato, che stabiliva dove dovevano o non dovevano essere costruite le città e i villaggi, come dovevano essere protetti o rinnovati i boschi, con leggi che sono arrivate spesso abbastanza intatte fino allo stato unitario, addirittura fino alla metà del Novecento. Queste leggi stabilivano che non si doveva costruire sulle rive dei fiumi e dei laghi perché si doveva lasciare spazio alle acque di muoversi nei periodi di piena che si manifestano in maniera abbastanza regolare e prevedibile, m,a soprattutto perché erano di proprietà del principe cioè, dello Stato (in termini più moderni erano "demanio statale").

Rive, boschi, fiumi possono essere usati come beni comuni dal "popolo" ma sotto il controllo dello Stato che ne è l'unico padrone nel nome del popolo stesso.

Le opere di salvaguardia del territorio, di pulizia e controllo dei fiumi, sono venute meno; lo stato, ormai ridotto con la lettera minuscola, per far soldi ha venduto e ceduto i beni collettivi cioè la base per la salvaguardia dei cittadini da alluvioni e frane, ha lasciato costruire secondo gli interessi dei proprietari privati dei suoli. Sorprende che in nessuno dei molti programmi dei vari "partiti" che si formano e disfano nell'attuale momento politico, figuri mai la parola "riassetto del territorio", che significa, in primo luogo, difesa del suolo contro l'erosione, almeno dove è ancora possibile farlo, regolazione e sistemazione e pulizia dei corsi di acqua, dai torrenti di montagna ai fianchi delle colline, ai grandi e piccoli fiumi, ai fossi di pianura, con l'unico imperativo di assicurare che l'acqua scorra senza violenza e senza ostacoli verso il mare, suo unico destino finale.

Ciò significa opere di rimboschimento, edificazione secondo criteri che lascino libere le acque di muoversi, dalle valli fino agli scarichi dei tombini urbani i cui intasamenti riescono a paralizzare per ore molte città (e ne sappiamo qualcosa anche da noi in Puglia). Purtroppo queste opere sono "competenza" si fa per dire, di innumerevoli enti, dai piccoli comuni, alle metropoli, alle Regioni, ai Ministeri, ciascuno dei quali opera per suo conto. Eppure una politica del territorio e di "prevenzione civile", ben diversa dalla protezione civile che appalta opere per riparare guasti già avvenuti ma che si sarebbero potuti prevenire, creerebbe posti di lavoro, contribuirebbe alla soluzione di problemi dell'energia e del traffico, offrirebbe occasioni produttive secondo i progetti "ecologici" e sostenibili. Soprattutto stimolerebbe una ripresa della moralità perché la moralità verso la natura è premessa per la moralità privata e pubblica. Sembra che l'uomo abbia perso la capacità di prevedere e prevenire: per questo finiamo così spesso sott'acqua.


Pennellate gialle contro piste protette. E un «patto» tra automobilisti e ciclisti per affrontare il nuovo corso delle piste ciclabili cittadine. L’assessore Masseroli vuole andare avanti con le strisce gialle che delimitano le aree per le biciclette. C’è già un progetto pilota che parte da Melchiorre Gioia per raggiungere la periferia Est della città, fino a Forlanini. Pennellate gialle contro piste protette. E un «patto sociale» tra automobilisti e ciclisti per affrontare il nuovo corso delle piste ciclabili. Palazzo Marino intende andare avanti con le strisce gialle «pitturate» sulla strada che delimitano le aree per le biciclette. C’è già un progetto pilota che parte da Melchiorre Gioia per raggiungere la periferia Est della città, fino a Forlanini.

Una scommessa che l’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli vuole giocare fino in fondo. Anche se i primi risultati non sono stati incoraggianti. Il modello «berlinese» stenta a prendere piede. Come nel caso della Cerchia dei Navigli — con le strisce gialle dal Policlinico alla biblioteca Sormani — dove le auto se ne infischiano delle corsie riservate e invadono prepotentemente lo spazio destinato alle bici. Tanto che il Comune ha dovuto inserire dei piccoli dissuasori per evitare incidenti e invasioni di campo. «Sono convinto che in città — attacca Masseroli — stia maturando la voglia di muoversi anche in bici. La grande sfida è generare delle regole nuove di convivenza tra pedoni, auto, biciclette e moto. Questo è il concetto del progetto pilota che vogliamo realizzare». E a differenza della Cerchia dei Navigli, un vecchio progetto dell’amministrazione, la nuova sperimentazione avrà delle regole ben precise: «Stiamo individuando delle vie dove si possano muovere insieme i vari tipi di veicoli, con dei limiti di velocità e con priorità ciclabile».

Una «rete di mobilità ciclabile» sul modello berlinese, insiste Masseroli, con una segnaletica molto leggera. «Perché non dobbiamo pensare alle piste ciclabili come a delle infrastrutture e neanche come una guerra tra auto contro bici». Restano i comportamenti scorretti degli automobilisti, liberi di scorrazzare negli spazi riservati alle bici: «Stiamo introducendo delle nuove regole ed è chiaro che devono essere assimilate dalla cittadinanza. Non mi stupisce che le prime pennellate trovino una certa incomprensione. Il rispetto delle regole crescerà quanto più la gente userà le piste ciclabili. E le userà quando ci saranno dei percorsi che ti permettono di muoverti veramente in città. È chiaro che per raggiungere questo obiettivo ci vuole un patto sociale tra automobilisti e ciclisti, ci vuole fiducia e ci vuole coraggio».

Per questo, accanto alla sperimentazione nella zona Nord-est, si procederà alla definizione di massima di una «rete ciclabile» dell’intera città. «E chiederemo ai cittadini — conclude Masseroli — di darci i loro suggerimenti via per via, strada per strada. Così da non calare il progetto dall’alto o di entrare in modo violento sulla città, ma di dare a tutti un’opportunità in più».

postilla

Al solito commoventi, queste eroiche “scommesse” dove la posta in palio è sempre la pelle altrui, perché tanto poi ai convegni basta usare la parola magica del “ma il problema è un altro”. No?

Sembrerebbe contenere qualche grano di ragionevolezza, la dissertazione di Masseroli, se non facesse a pugni con tutto il resto del mosaico di cui necessariamente si compone il tema: l’organizzazione urbanistica, l’orientamento prevalente della mobilità e dei rapporti di forza relativi fra i vari modi, le possibilità di rete continua, magari a scala un po’ più ampia del piccolo gruppo di isolati. E poi, molto poi, anche l’approccio psico-sociale-culturale, che come tra l’altro ci insegnano decenni di cultura architettonica e urbanistica non sgorga spontaneo dall’anima, risucchiato su dalla Provvidenza assessorile e da un predicozzo mediatico, ma da quelle forme virtuose di rapporto pubblico/privato che sono i dialoghi fra spazi fisici e comportamenti individuali. Tanto per fare qualche nome noto e riassumere il concetto, si può buttare lì, che so William “Holly” Whyte (sponsor della giovane Jane Jacobs a suo tempo), o per passare ai vivi il danese Jan Gehl. I quali ci raccontano appunto come la civiltà, l’educazione, le pie intenzioni, siano tutte cose sacrosante, ma che è la pubblica amministrazione a doverne tener conto, nelle sue politiche spaziali, che si traducono in regole e interventi diretti coerenti. Non viceversa. Eh? (f.b.)

Giovedì sera al Tg3 il presidente del Veneto, l’ex ministro Luca Zaja, è stato molto tranciante: l’ennesima disastrosa alluvione veneta è soltanto frutto di “calamità naturali”, la cementificazione della collina e il dissesto idrogeologico non c’entrano nulla. Ieri però una nota della la Società Italiana di Geologia Ambientale, dopo aver descritto i disastri verificatisi dal Lombardo-Veneto alla Calabria, dice fra l’altro: “Dal punto di vista scientifico, i fenomeni naturali sopradescritti rientrano nella normalità. E’ normale che in autunno si registrino piogge di tali intensità e durata”. Non è invece per niente normale che un territorio geologicamente “giovane” come il nostro sia diventato “strutturalmente fragile” perché si costruisce in zone “pericolose”.

Di recente l’Istat collocato il Veneto fra le tre regioni italiane con la massima concentrazione edilizia, case e capannoni, tanti capannoni da far esclamare nel 2003 all’allora presidente Renzo Galan “Basta capannoni!” Un grido senza alcun seguito pratico. Sempre l’Istat definiva la pedemontana veneto-lombarda – in termini meno tecnici, la un tempo splendida collina di Piovene e di Parise – una delle zone più cementificate e asfaltate d’Italia. Basta scendere in aereo su Venezia: il continuum edilizio è agghiacciante senza uno spicchio di verde in mezzo, per centinaia di chilometri da Venezia-Mestre.-Padova, ormai saldate, alla Lombardia. Ed è, per lo più, edilizia “legale”, eretta in base a piani urbanistici sforacchiati da continue varianti. Perché un territorio collinare così maltrattato dovrebbe “tenere” con le piogge autunnali o primaverili? Difatti le alluvioni, qui e altrove, sono ormai permanenti.

Cosa fa il governo Berlusconi, il “governo del fare”? Concorre potentemente a disfare il Belpaese riducendo nell’ultimo triennio del 60 % (così il Wwf) i fondi destinati alla difesa del suolo e al restauro di un territorio massacrato. Eppure ci eravamo dati una buona legge – la n. 183 del 1989, nella deprecata Prima Repubblica – creando, sul modello dell’Authority del Tamigi, le Autorità di bacino. Solo che nel Regno Unito le competenze forti sono tutte andate alla Themes Autority, mentre qui si è fatto l’opposto togliendo alle Autorità (specie se interregionali, orrore) soldi e competenze. Un anticipo di federalismo all’italiana che smantella i poteri pubblici, li regionalizza, poi magari li municipalizza e infine lascia fare ai privati quello che vogliono. Case e capannoni, capannoni e case. Nel decennio 1991-2001 in provincia di Vicenza la popolazione è aumentata del 32 %, ma la superficie urbanizzata è esplosa: + 342 %. In tutta Italia nel periodo 1995-2006 – secondo un calcolo attento (e su dati Istat) dell’urbanista Paolo Berdini – sono stati mangiati dall’edilizia di tutti i tipi ben 750.000 ettari di suoli liberi, una regione grande come l’Umbria. Da una parte stiamo rendendo impermeabile ogni anno circa 70.000 ettari, dall’altra lo spopolamento agricolo (ripreso con forza visto che sui campi si guadagna sempre meno) abbandona a se stesse montagna e alta collina. Coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti alla prima pioggia un po’ più forte.

A questo consumo di suolo sfrenato si comincia a dare uno stop dal basso. Un buon esempio viene proprio dal Milanese, dal sindaco, Domenico Finiguerra, di Cassinetta di Lugagnano (sul bellissimo Naviglio), premiato come il più “virtuoso” poiché ha varato un piano territoriale a “consumo zero” di suoli liberi. Una sacrosanta battaglia che nel Regno Unito, pensate un po’, ha prodotto una legge severa negli anni ’30 e poi una ancor più rigorosa con Tony Blair. In Germania vige dagli anni ’90 una legge Merkel che punta ridurre il consumo di buona terra, anche se quello di partenza era un terzo del nostro. E da noi? Si rincorrono i guasti di frane e alluvioni spendendo infinitamente di più in rattoppi di quanto si spenderebbe in prevenzione. E si contano tristemente i morti: dal Polesine ad oggi, o a ieri, 3.255 includendo il Vajont che qualcuno cercò allora di spacciare per “calamità naturale”.

Premessa

Nei sistemi di welfare, in particolare in Europa, le politiche pubbliche nel settore delle abitazioni hanno svolto e tuttora svolgono un ruolo fondamentale.

Mediamente nei paesi Europei il patrimonio abitativo pubblico, gestito dagli enti locali o da agenzie a hoc, rappresenta il 20 – 25% del totale dello stock d’abitazioni esistenti, con la rilevante eccezione dei Paesi del Mediterraneo. Nel nostro Paese il patrimonio pubblico può essere stimato attorno al 3 – 4% del totale. Una percentuale risibile. (1)

Va detto tuttavia che in Italia, come in Spagna e in Grecia, questo dato trova una parziale spiegazione nel fatto che il 70 – 80% delle famiglie sono proprietarie dell’abitazione, mentre di norma negli altri Paesi europei non si supera il 50%.

In ogni caso l’offerta pubblica appare assolutamente inadeguata rispetto alla domanda sociale – fra l’altro in crescita per effetto dell’immigrazione e della crisi economica mondiale – determinando così una situazione che non consente alcuna politica d’efficace contenimento degli affitti. (2)

Inoltre in questi ultimi anni i Comuni hanno svenduto parte del loro patrimonio immobiliare per fare cassa.

Le case non mancano, solo che spesso non corrispondono alle esigenze e/o alle tasche delle famiglie. Negli ultimi 10 – 15 anni, si è costruito troppo, ma soprattutto male. Accade così che in un mercato sempre più segmentato e articolato per fasce di reddito e tipologie famigliari possano coesistere enormi eccedenze nell’offerta complessiva d’abitazioni e allo stesso carenze anche forti d’offerta rispetto alla struttura della domanda effettiva d’abitazioni.

Reggio detiene, sotto questo profilo, un non certo invidiabile primato. Per questo motivo le considerazioni qui svolte possono essere estese, in linea di massima, a livello nazionale.

La condizione abitativa a Reggio Emilia

Si calcola che a Reggio Emilia vi siano attualmente circa 7.000 abitazioni invendute, a fronte delle quali abbiamo registrato nel corso del 2009 un aumento del 27% dei depositi bancari.

Una situazione anomala che ha attirato l’attenzione della DIA (direzione investigativa antimafia). Che a Reggio ci sia una forte e radicata presenza di cosche mafiose è cosa arcinota, anche se mai seriamente contrastata.

Il settore in cui esse sono maggiormente presenti è quello dell’edilizia. Ma esse operano anche in altri settori “grigi” dell’economia nei trasporti, nella distribuzione commerciale al dettaglio, nella ristorazione, inoltre controllano il businnes della droga, che ha un ruolo importante nel reperimento dei capitali che vengono poi investiti, non solo per ampliare il mercato della droga, ma anche e principalmente nei settori “grigi” dell’economia.

Si tratta di fenomeni con una lunga storia alle spalle e ormai profondamente radicati nel tessuto urbano della città, dando origine ha fenomeni d’intolleranza e di disgregazione sociale. Il mito di Reggio Emilia città solidale mostra ormai crepe profonde e sempre più, negli episodi della vita quotidiana, si manifesta per quello che è: una balla politica! (3)

Tali fenomeni sono in vario modo conseguenza ed espressione del modello di sviluppo che Reggio Emilia ha avuto in questi ultimi 15 anni: uno sviluppo fondato su una crescita prevalentemente estensiva e di tipo quantitativo - pur non mancando le eccellenze - che ha portato ad un forte incremento demografico per effetto dell’immigrazione dai paesi extracomunitari e dal mezzogiorno: l’aumento della popolazione residente è stato di oltre il 25% negli ultimi 15 anni, un primato a livello nazionale fra le città capoluogo di provincia. La città si avvia ormai a contare 170.000 abitanti, cui si aggiungono diverse migliaia di clandestini.

Il nuovo piano strutturale, se realizzato, determinerà una crescita: stimata fra i 35.000 e i 50.000 abitanti, a seconda delle stime, mentre il territorio urbanizzato dovrebbe passare dagli attuali 31 Kmq ai 45 Kmq.

Neppure l’intensità e la durata della crisi economica che, probabilmente, farà sì che queste cifre saranno largamente disattese, hanno indotto l’amministrazione comunale ad andare ad una rivisitazione del potenziale di crescita espresso dagli strumenti urbanistici in vigore, basti pensare al convegno “Gli Stati Generali dell’Area Nord”, tenuto in piena campagna elettorale per le regionali, convegno nel quale tutti i grandi progetti sono stati rilanciati in una logica da anni sessanta. Ma si sa la nostra amministrazione continua ad essere prigioniera del mito.

Nella Francia degli anni cinquanta si diceva “Quand lo batiment va tout va”. Da allora sono passate due generazioni e mezzo, forse quel mito andrebbe rivisto, anche perchè di territorio da divorare c’è n’è sempre di meno.

Il mercato dell’edilizia abitativa è completamento bloccato. Il paradosso al quale stiamo assistendo è che con 7.000 abitazioni vuote, gli sfratti sono in continuo aumento. La crisi ha impoverito vasti settori di ceto medio, che hanno sempre più difficoltà ad accedere al bene casa: il sogno d’ogni italiano.

Il caso Reggio, quindi non è frutto del caso, ma anche di precise scelte politiche fatte a livello locale, che hanno creato le premesse economiche e urbanistiche per un crollo del mercato, che la crisi internazionale ha fatto poi esplodere con gli effetti perversi che sono oggi sotto gli occhi di tutti.

Eppure l’Amministrazione comunale era da tempo a conoscenza della situazione che si stava determinando. Da uno studio, commissionato dal Comune di Reggio Emilia a Caire – urbanistica, la cui sintesi è stata pubblicata dalle Edizioni Diabasis “Questione abitativa e politiche per la casa”, risulta che la Provincia di Reggio Emilia è di gran lunga la Provincia della Regione in cui più alta è stata, nel breve scorcio del nuovo secolo, la produzione edilizia, ben al di là del fabbisogno di una popolazione in continuo aumento.

Quello studio dimostra anche come oltre che troppo, si sia costruito male, con tipologie, in particolare, che nulla hanno a che fare con un’edilizia di tipo sociale, l’unica in grado di soddisfare le esigenze degli strati più deboli della popolazione, oltre che con tipologie che non tengono conto delle nuove caratteristiche delle famiglie, che sono profondamente mutate rispetto a quelle ancora prevalenti negli anni settanta.

Non è questa la sede per approfondire tali problematiche, sulle quali intendiamo comunque ritornare in sede di costruzione di una proposta, che sia in grado di dare una risposta adeguata alla gravità della crisi sociale ed economica che stiamo attraversando.

Quello che con queste note vogliamo fare è, piuttosto, di chiarire il senso di una proposta, per altro già anticipata dagli organi di informazione locali, sicuramente innovativa nel panorama nazionale, ma largamente praticata a livello europeo.

L’idea centrale è quella di andare in controtendenza, puntando ad una ricostituzione del patrimonio pubblico, come condizione per dare una risposta credibile alle nuove domande abitative che vanno emergendo e che, nel medio periodo, sono destinate a consolidarsi fino a creare una situazione socialmente ingestibile.

La situazione potrà essere governata solo trovando nuove e ingenti risorse, che a nostro parere esistono, certo non nei bilanci pubblici, a condizione che ci sia la volontà politica di attivarle e metterle in circolazione.

Una proposta ampiamente praticata in Europa. Basti pensare, a titolo d’esempio che la città di Parigi, che certo è ancora lontana dall’aver trovato una soluzione in qualche modo esaustiva al problema dell’abitazione, dispone attualmente di un patrimonio abitativo pubblico imponente: qualcosa come 200.000 appartamenti.

La costruzione di tale patrimonio è stata finanziata dai parigini stessi, attraverso l’acquisto di certificati di credito immobiliari garantiti dal Comune di Parigi sulla base del patrimonio immobiliare, che via, via si è venuto costituendo nel tempo.

Come ricostituire e potenziare il patrimonio abitativo pubblico.

La nostra proposta muove dalla considerazione che alla questione abitativa il mercato non è in grado di dare risposte socialmente soddisfacenti, se così fosse, dato il livello di ricchezza cui sono giunti i Paesi dell’Occidente europeo e del Nord America, il problema sarebbe stato, in quei Paesi, risolto da tempo.

In realtà questi Paesi hanno dovuto dotarsi in varia misura di politiche pubbliche più o meno efficaci e penetranti.

La situazione della nostra città, e più in generale quella dell’Italia intera, può diventare drammatica e socialmente ingestibile, se ad essa non verranno date risposte nuove in grado di fare i conti anche con il fatto, che non è possibile, se non in misura minimale, farlo con soldi pubblici.

Occorre trovare nuove risorse. La situazione economica italiana è caratterizzata, ancora e per fortuna, da una robusta capacità di risparmio delle famiglie e dalla mancanza di alternative sicure per il risparmio privato, specie per quello delle famiglie a reddito medio e medio basso, questo fa sì che nelle banche giacciano grandi quantità di fondi liquidi inoperosi. La situazione reggiana costituisce, sotto questo profilo, un caso esemplare.

Si è creata quella che, nell’economia keynesiana è chiamata “una trappola della liquidità”, per cui nella sola Reggio, a fronte di un ancora elevata liquidità detenuta dalle famiglie, ci sono circa 7.000 appartamenti invenduti, parte dei quali già in mano alla banche e che prima o poi potrebbero essere messi all’asta.

Non c’è bisogno di costruire, basterebbe poterne comprarne una parte e affittarli a canone convenzionato (300 – 350 Euro al mese).

L’operazione potrebbe essere fatta attraverso l’emissione di certificati di credito immobiliare. In pratica il sistema bancario potrebbe collocarli a un tasso del 3%, meglio se superiore. Naturalmente questi certificati sarebbero garantiti dallo stesso patrimonio edilizio, che via, via, verrebbe acquisito dall’ente locale. L’Acer potrebbe/dovrebbe occuparsi della gestione delle abitazioni.

Naturalmente il rendimento deve essere competitivo. Si tenga conto che le famiglie potrebbero trovare conveniente un tasso del 3% che si collocorebbe al di sopra di quello garantito dalle banche virtuale sui depositi. Inoltre sui certificati si pagherebbe un’imposta del 12,5% e non del 27%.

Naturalmente per garantire la collocabilità dei titoli e l’equilibrio finanziario dell’operazione (i costi di gestione sono elevati e probabilmente il rendimento delle abitazioni non basterebbe), bisogna che una parte degli interessi pagati ai sottoscrittori siano sostenuti dal pubblico. I fondi potrebbero provenire da:

- enti locali

- un’apposita legge del governo

- fondazioni bancarie

- eventuale possibilità di attingere ai fondi dai TFR.(4)

- una tassa di scopo.(5)

Naturalmente la proposta va definita tecnicamente e ha bisogno del sostegno di un ampio arco di forze sociali e politiche. Essa inoltre potrebbe/dovrebbe dare luogo ad apposite iniziative legislative.

A questo proposito è necessario verificare rapidamente le esperienze che in Europa non mancano. E costruire una vera e propria piattaforma sulla quale, e qui i sindacati e non solo quelli confederali penso ad esempio alle associazioni dei consumatori, potrebbero avere un ruolo decisivo.

Reggio potrebbe tentare di partire anche subito e proporsi come terreno di sperimentazione. Questo naturalmente comporterebbe un ripensamento e una ridefinizione strategici della politiche abitative e urbanistiche sin qui seguite.

Franco Cefalota, Rossana Benevelli, per Gente di Reggio – Forum dei cittadini.

NOTE.

Ultima versione 01/10/2010. Essa sostanzialmente coincide con quella data alla stampa il 17/10/2010. Il documento, del resto, è aperto ai contenuti di tutti coloro che ne condividono l’ispirazione politica e programmatica. In questo senso vuole mantenere il carattere di work in progress, almeno fino a quando un vero e proprio piano di fattibilità non ne avrà assorbito le istanze e l’ispirazione politica.

(1) Del resto il nostro Paese destinava nel 2005 all’edilizia sociale 5 Euro pro – capite, a fronte delle 396 sterline del Regno Unito.

(2) E’ appena il caso di ricordare che l’Italia ha da tempo rinunciato a una qualsiasi politica abitativa. Le responsabilità dei governi di centro – sinistra sono pesantissime. Nel 1993 (Governo Ciampi) sì da il via alla svendita del patrimonio immobiliare di enti, banche e assicurazioni. Viene meno così uno strumento che, al di là dell’uso distorto e clientelare che n’è stato fatto, in qualche modo contribuiva a calmierare il mercato dell’affitto. Nel 1998 si attua la liberalizzazione degli affitti. Circa gli effetti di tale misura ricordiamo questo due dichiarazioni di Cipolletta (Uffico studi di Confindustria). Nel 2001 Cipolletta annunciava con enfasi :” Il mercato degli affitti deve essere libero, perché aumentando l’offerta, i prezzi scenderanno”. Cinque anni dopo a Vicenza veniva presentato uno studio (firmato anche da Cipolletta) dove, fra l’altro, si legge :”La riforma non ha avuto alcun effetto di rallentamento sulla dinamica dei canoni. Inoltre la penuria di abitazioni a basso costo ha acuito il disagio di determinarti strati di popolazione”. Ancora più esplicite le dichiarazioni di Lorenzo Bellicini (Cresme): “Con la fine degli anni ottanta in Italia non c’era più una questione abitativa”: negli ultimi anni è fragorosamente esplosa, con “fenomeni di sovraffallomento, di coabitazione forzata: condizioni da anni sessanta”. Nel 1999 si consente ai Comuni di vendere le aree Peep. Nel 2007 secondo governo Prodi si consente l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa corrente. Il nuovo Governo Berlusconi completa l’opera: abolizione ICI sulla prima casa, aumento fino al 50% della quota di oneri di urbanizzazione per il finanziamento della spesa corrente e infine, ciliegina sulla torta (siamo nel 2009), federalismo demaniale, primo atto per l’attuazione del federalismo fiscale.

(3) Il fatto che la Lega abbia triplicato i voti in cifra assoluta e rappresenti ormai quasi il 18% del corpo elettorale non ha insegnato nulla. Certo la democrazia è fatta di voti e d’idee. Non bastano le buone idee per avere un buon risultato elettorale. Ma forse non sarebbe il caso d’interrogarsi sulle ragioni profonde (strutturali) di un disagio sociale sempre più evidente e smetterla con un atteggiamento predicatorio, stucchevole, talvolta perfino arrogante nella sua presunzione pedagogica, come se i cittadini fossero tutti dai bambini egoisti e viziati.

(4) A questo proposito va detto che è in atto un dibattito nel sindacato. Il modello potrebbe essere quello dei fondi pensioni americani. Per la prima volta nel nostro Paese nell’edilizia sociale opererebbero investitori istituzionali.

(5) A questo proposito giova ricordare la vicenda dei contributi Gescal, istituiti con la legge 805 del 1971. Tali contributi sono serviti a finanziare case per i lavoratori dipendenti e a istituire IACP, successivamente le graduatorie sono state aperte a tutti con il che si è modificata la natura del contributo, che è diventata di fatto una tassa sull’occupazione. Successivamente i contributi Gescal sono stati aboliti di qui la crisi degli IACP. Viene da chiedersi se non sarebbe stato di sostituirli con una tassa di scopo e farli pagare alla generalità dei contribuenti.

postilla

Obiettivi e spirito della proposta sono condivisibili. Occorre però assicurarsi che il prezzo di acquisto sia commisurato ai costi di produzione e non ai valori di mercato, o quantomeno allineato ai valori dell'edilizia convenzionata, per non remunerare oltre misura i percettori della rendita immobiliare. (m.b.)

Apripista. Prestanome. Affittacamere. Chiamateli così, quegli imprenditori aquilani i quali, alla ricerca affannosa di affari del post-terremoto, parlano ore e ore al telefono con gli uomini della'ndrangheta. Il calabrese chiede un appartamento per gli operai? Trovato. Il calabrese chiede di entrare in società? Trovato il notaio, società fatta. Il calabrese chiede lavori nella città devastata dal terremoto? Fatto. Accade poi che, un giorno, uno di quei calabresi viene arrestato, con altri 32, in una mega-operazione che riguarda i clan Borghetto-Caridi-Zindato decimati dalla Procura condotta da Giuseppe Pignatone e dalla Mobile di Renato Cortese, l'uomo che arrestò Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza, e Giovanni Strangio, oltre a scompaginare il clan dei Piromalli.

LE INTERCETTAZIONI Biasini: "Ho contratti per 1,8 milioni"

Per il gip del tribunale di Reggio Calabria la'ndrangheta ha messo gli occhi, e non solo, sulla ricostruzione dell'Aquila. Infatti, uno dei reati contestati agli arrestati è stato commesso «all'Aquila», si legge in un'ordinanza di 414 pagine del gip Andrea Esposito, «il 26 marzo 2010». Cos'è avvenuto? «Santo Giovanni Caridi e il commercialista Carmelo Gattuso», entrambi arrestati, «in concorso tra loro, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione, Caridi attribuiva fittiziamente al Gattuso la titolarità del 50 per cento della quota societaria della Tesi costruzioni srl, essendone in realtà Caridi Santo il reale titolare; con l'aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare la cosca mafiosa Borghetto-Caridi-Zindato di appartenenza del Caridi». La Tesi costruzioni, con sede in via Pescara, è una società della quale è comproprietario l'aquilano Stefano Biasini, poi divenuto amministratore unico.

CHI È BIASINI. Stefano Biasini, che tuttavia non risulta indagato dalla Procura reggina, è un costruttore edile, figlio di un noto geometra. Nato all'Aquila il 18 maggio 1977, è residente a Vasche di Pianola. Titolare della Edil B.R. costruzioni e appassionato di auto di lusso, a leggere le decine di intercettazioni telefoniche nelle quali compare il suo nome è il «gancio» aquilano per i personaggi calabresi. Biasini si dà un gran daffare per consentire a Caridi e al commercialista reggino Gattuso «di inserirsi», si legge nell'ordinanza, «nei lavori di ricostruzione a seguito del terremoto». Per il gip, Gattuso è il prestanome, per conto di Caridi, nell'ambito delle società attive nel territorio aquilano. La complessa vicenda è stata ricostruita da numerose informative della polizia giudiziaria. Caridi è entrato in due imprese «impegnate nell'esecuzione di lavori edili all'Aquila» e affida al commercialista «il subentro in una terza società». Secondo un'informativa riportata nell'ordinanza del gip, «già nel mese di gennaio 2010 Santo Caridi iniziava a intrattenere rapporti di evidente natura lavorativa con il costruttore Stefano Biasini».

L'AFFARE ABRUZZO. Oltre alle estorsioni in Calabria, le cosche reggine erano, e sono, interessate alla ricostruzione post-terremoto. La diversificazione degli interessi, così come avvenuto per i Casalesi nel caso scoppiato la scorsa estate (vedi articolo in alto) sembra trovare, ancora una volta, terreno fertile nel tessuto imprenditoriale cittadino. Secondo quanto emerge dalle carte, Caridi incaricò Gattuso di preparare un piano di sicurezza per l'imminente apertura di un cantiere all'Aquila e specificava che quanto richiesto era necessario proprio per permettere l'avvio delle attività delle imprese facenti capo a Stefano Biasini e Pasquale Giuseppe Latella, quest'ultimo indagato. I contatti dei calabresi con L'Aquila sono continui e costanti. Tra le prime richieste che evidenziano l'interesse di Caridi sull'affare c'è anche la ricerca spasmodica di un appartamento dove poter alloggiare gli operai provenienti dalla Calabria. Secondo quanto si è appreso, sia l'interessamento per reperire l'immobile sia i soldi del contratto di affitto sarebbero stati riconducibili allo stesso Biasini. Per i magistrati, da quel momento, è più che acclarato che Biasini e Latella stessero operando in stretta sinergia e, soprattutto, sotto la «direzione» di Santo Caridi.

Il gruppo che fa capo all'imprenditore di Paternò riassume il modello italiano di business nella sua forma più pura: scarsi rischi e alti utili, profitti privati e perdite pubbliche. Dagli esordi immobiliari alla profonda crisi attuale - ignorata dalla Consob dormiente - i numeri di una storia tutta italiana. Postato il 22 ottobre 2010

Premessa

Una delle basi fondamentali della costruzione della finanza moderna, costruzione che ha valso, negli ultimi decenni, a molti degli studiosi che vi hanno contribuito il premio Nobel per l’economia, è quella che correla il rendimento di un investimento al suo livello di rischio: più alto il rischio, più alto deve essere il rendimento, più ridotto il rischio, più ridotto il profitto relativo.

Ma questa massima, evidentemente, è largamente ignorata nel nostro bizzarro paese, dove le grandi fortune si fanno spesso prendendosi rischi bassissimi. Così il modo più semplice e contemporaneamente tra i più redditizi per fare impresa in Italia è di solito quello di avviare un business nel settore delle costruzioni, in particolare sviluppando delle attività immobiliari. Basta essere abili nelle relazioni, essere disposti a trasgredire le regole e collegarsi a qualche politico di peso, coinvolgendo quest’ultimo ed eventualmente il suo partito/corrente/gruppo affaristico, in qualche modo “finanziariamente”, negli specifici progetti da portare avanti. E il gioco è fatto. Si può dire che sulle modalità appena indicate si basa un meccanismo di “accumulazione primitiva” fondamentale dei capitali in Italia.

Se poi qualche cosa in itinere va male, si può ricorrere anche a qualche banchiere di fiducia, che comunque, a suo tempo, colpito dalle loro capacità “imprenditoriali”, avrà già accompagnato i nostri eroi, con ampie linee di credito, nei loro vari progetti.

Il modo più elementare, dal punto di vista operativo, per fare poi dei soldi nel settore è quello, ampiamente noto, di comprare dei terreni agricoli, farseli trasformare in aree edificabili e far poi arrivare i geometri con i camion e le gru. Una ricetta quasi infallibile. Ma le possibili varianti del gioco dei soldi possono essere molte.

Pensiamo che Salvatore Ligresti, forse in questo momento il campione più rappresentativo del settore immobiliare del nostro paese, abbia sperimentato quasi tutte tali varianti nel corso della sua lunga vita. E’ anche giusto che le attuali gravi difficoltà del nostro modello di sviluppo trovino puntuale simmetria nei rilevanti problemi attuali dell’imprenditore siciliano.

La storia

Originario di Paternò, in Sicilia, Ligresti si trasferisce a Milano sul finire degli anni cinquanta. Sulla sua carriera finanziaria aleggeranno a lungo, come del resto su quella di Berlusconi, dei sospetti di legami con la mafia, mai provati anche dopo alcune indagini della magistratura. Nella città lombarda si fa strada con abilità; ad un certo punto stringe i legami con Bettino Craxi, grazie anche al quale negli anni ottanta avviene l’esplosione dei suoi affari, quando, da una parte, diventa il protagonista della grande crescita edilizia della città, mentre, dall’altra, riesce a mettere le mani in maniera avventurosa, dopo anche delle aspre vicende giudiziarie, sulla società di assicurazioni Sai, già di proprietà del gruppo Fiat. Egli stringe presto i suoi legami anche con Enrico Cuccia, mentre è da sempre molto vicino alla famiglia Larussa, anch’essa di Paternò.

Nel 1986 scoppia a Milano lo scandalo delle aree d’oro: Ligresti viene indagato per corruzione, ma alla fine se la cava con delle piccole condanne. Negli anni novanta lo attendono altri e più seri guai giudiziari: coinvolto, tra l’altro, in tangentopoli, l’imprenditore viene condannato a due anni e quattro mesi e va in galera; ma dopo poco tempo, viene scarcerato e affidato ai servizi sociali. Seguiranno altre condanne minori.

Il suo impero imprenditoriale ne soffre molto e una crisi finanziaria lo spinge a cedere una buona parte delle sue attività. Ma poi, nei primi anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, Mediobanca gli da una mano per farlo uscire dai guai. Si tratta peraltro della seconda volta –la prima era stata nel 1989 quando, per liberarlo da qualche problema finanziario, la banca era riuscita a far quotare in borsa la Premafin, la sua capogruppo, a prezzi astronomici. Sempre la banca d’affari milanese arriverà al soccorso una terza volta ancora nel 2010.

E’ del 2002 l’acquisizione di Fondiaria, sempre con l’aiuto determinante di Mediobanca. E’ del 2004, poi, l’ingresso nel patto di sindacato di Rcs. Intanto Ligresti si è alleato con Berlusconi e partecipa quindi da protagonista delle grandi operazioni immobiliari del periodo successivo. Ma egli non manca di fare affari anche in città rette dal centro-sinistra, come Firenze e Torino. Nel 2008, su sollecitazione di Berlusconi, parteciperà all’ operazione Alitalia, insieme ad una serie di imprenditori titolari di business fortemente legati alla politica. Nello stesso 2008 viene indagato dalla procura di Firenze per episodi di corruzione legati ai progetti edilizi della città e nel 2010 viene rinviato a giudizio.

La struttura societaria attuale

Per arrivare a Premafin, il centro nodale della attività del gruppo, bisogna passare attraverso l’intermediazione di molte società. Così i tre figli di Salvatore Ligresti si servono di strutture di diritto lussemburghese, la Hike, la Canoe e la Limbo, attraverso le quali controllano complessivamente circa il 31% del capitale della finanziaria –le percentuali relative ai possessi azionari delle varie società, in questo come nei casi successivamente citati, vanno considerate come approssimative, dal momento che le varie fonti spesso danno delle cifre differenti. Le azioni possedute dalle tre società sono però depositate presso una fiduciaria, la Compagnia Fiduciaria Nazionale. Salvatore Ligresti, invece, attraverso un’altra lussemburghese, la Starlife, controlla totalmente Sinergia, che a sua volta possiede il 60% della Imco; Sinergia e Imco detengono complessivamente circa il 20% della Premafin. Salvatore Ligresti e i suoi figli sono poi legati da un ferreo patto di sindacato e, nella sostanza, comanda soltanto il padre, ormai vicino agli ottanta anni di età.

Ai tre figli, che occupano cariche di presidente, vicepresidente, consigliere, nella varie società del gruppo, vengono riconosciuti rilevanti stipendi e bonus, che ad esempio nel 2008 hanno oscillato tra i 4,6 e i 5,0 milioni di euro per ciascuno; in questo modo, essi estraggono ogni anno rilevanti somme dalle società operative, che, almeno in parte, impiegano poi per rinforzare le basi patrimoniali e finanziarie delle società comprese nella parte alta della piramide. Che i proprietari di un’impresa ottengano dei bonus legati ai risultati annuali appare singolare e una delle tante caratteristiche per così dire “pittoresche” del nostro paese.

L’intero pacchetto del 51% della Premafin in possesso delle varie società della famiglia sarebbe peraltro da molto tempo in pegno alle banche a fronte dei crediti concessi dalle stesse (Pons, 2010).

La Premafin, a sua volta, controlla circa il 47,7% del capitale della Fonsai –un altro 11% è nella mani della stessa Fonsai e della Milano Assicurazioni-, la principale struttura operativa del gruppo, che è anche la seconda entità assicurativa del paese, nata dalla fusione tra Fondiaria e Sai. Con circa 12 miliardi di premi raccolti nel 2009, essa possiede poi partecipazioni, di controllo e non, in molte società di tipo assicurativo, immobiliare, finanziario e vario.

Un’altra società controllata da Premafin, l’Immobiliare Lombarda, partecipa poi al controllo della più grande impresa di costruzioni italiana, la Impregilo; il gruppo Ligresti, il gruppo Benetton e il gruppo Gavio possiedono in effetti insieme, a partire dal 2005, attraverso la Igli –di cui ognuno dei tre soci detiene il 33,3% delle azioni-, il 29,9% del capitale della stessa Impregilo. Il controllo del gruppo è stato a suo tempo rilevato dai tre soci dalla Gemina in difficoltà, grazie, come al solito, anche agli auspici di Mediobanca. Tra gli altri soci di Impregilo si segnalano anche le Generali, con il 3,25% del capitale.

La Premafin detiene inoltre il 5,5% del capitale della Rizzoli- Corriere della Sera, il 5% della Pirelli, il 4,2% di Gemina, il 3,9% di Mediobanca, l’1% di Assicurazioni Generali, lo 0,4% di Montepaschi, lo 0,3% infine di Unicredit. Così la finanziaria costituisce un nodo importante del sistema di equilibri di potere economici e politici del nostro paese, partecipando tra l’altro a numerosi patti di sindacato sulle stesse società sopra indicate. Qui risiede una fonte molto importante, anche se non la sola, del potere di Salvatore Ligresti e della sua sicura ancora di salvezza in caso di difficoltà.

In un tale quadro di riferimento, ovviamente l’interesse di Ligresti per i processi di internazionalizzazione appare molto limitato. Le sue società di assicurazione hanno una proiezione estera che è, nella sostanza, minima e non sappiamo neanche di rilevanti iniziative immobiliari del gruppo in una direzione che non sia nazionale. Importante è invece la dimensione internazionale delle attività di Impregilo, ma essa è preesistente all’ingresso di Ligresti e degli altri attuali soci nella compagine azionaria della società.

Le difficoltà in essere e il loro precario superamento

Nel 2010 Ligresti deve far fronte a quella che appare forse la più grave crisi della sua carriera. La Fonsai, complice la crisi, registra in bilancio 390 milioni di euro di perdite nel 2009 e circa altri 157 nel primo semestre del 2010, dopo aver ottenuto un utile di 620 milioni nel 2007 e di soli 91 milioni invece nel 2008 –la crisi aveva già cominciato a mordere.

Rileviamo, parallelamente, che la società presenta da sempre una struttura finanziaria più consona agli interessi di controllo di Ligresti che a quelli degli investitori (Penati, 2010). Tra l’altro, vi si registra un’incidenza degli investimenti immobiliari – quelli in particolare che Ligresti ha interesse a scaricare sul suo bilancio- sul totale degli impieghi che è molto più alta delle consuetudini del settore. La Fonsai è inoltre obbligata a tenere in bilancio titoli azionari pari al 7% del capitale della controllante Premafin, più altre partecipazioni improprie, mentre essa stessa appare largamente sottocapitalizzata. Intanto la Milano assicurazioni perdeva 140 milioni nel 2009 e 195 nel primo semestre 2010. Parallelamente la Premafin ha presentato un deficit economico di 413 milioni nel 2009 e di un po’ più di 175 nel primo semestre di quest’anno.

Hanno pesato sui risultati delle strutture citate sia il cattivo andamento del comparto assicurativo che di quello immobiliare.

Se la Consob obbligasse Ligresti ad adeguare il valore di carico in Premafin della partecipazione in Fonsai a quello di mercato il colpo sarebbe molto duro, perché significherebbe una minusvalenza di 562 milioni in capo alla controllante. Ma la Consob, organismo che si è dimostrato nel tempo del tutto inutile, si guarda bene dal muovere un dito.

Intanto l’immobiliare Sinergia, che presenta in bilancio un debito intorno ai 300 milioni di euro, non ha pagato le rate che scadevano a giugno 2010 su una linea di credito di 108 milioni concessa da Unicredit e su di una di 30 milioni concessa da GE Interbanca.

Per far fronte a queste ed altre difficoltà Ligresti ha mosso delle pedine su più fronti. Intanto ha sostanzialmente fatto prelevare denaro dalle casse della Fonsai pur in difficoltà per dare ossigeno alle società di famiglia, in particolare alla Imco e alla Sinergia, con buona pace ancora una volta della Consob e degli azionisti di minoranza della stessa Fonsai. In dettaglio, la società assicurativa, mentre è spinta per suo conto a vendere molti immobili per fare cassa e per superare le sue difficoltà interne, viene obbligata ad acquistare società, palazzi e terreni dal suo azionista, tra i quali in particolare l’intero capitale di Immobiliare Lombarda, una catena alberghiera, la Ata hotels, nonché quote dei fondi di investimenti inventati da Ligresti per collocarvi degli altri suoi immobili. Così Ligresti ha venduto con una mano e comprato con l’altra (Oddo, 2010). Inoltre, sempre la Fonsai è obbligata a distribuire un dividendo anche dopo un bilancio così disastroso come quello sopra indicato.

Più in generale, sono arrivati in soccorso dell’amico in difficoltà Unicredit, Mediobanca, Generali, Intesa San Paolo, Mps, Interbanca e compagnia bella.

Così il riassetto finanziario di Sinergia si è fatto da una parte con la cessione alla fondazione MPS di Eurocity sviluppo edilizio per 110 milioni di euro, mentre dall’altra Unicredit ha accettato di ristrutturare il suo credito da 108 milioni di euro in scadenza a giugno 2010.

Un’altra partita difficile è anche avviata alla soluzione. Fonsai possiede attualmente, attraverso la Milano Assicurazioni, il 27,2 % di Citylife, la società titolare del megaprogetto di riqualificazione immobiliare sui terreni dell’ex fiera di Milano; con i suoi 2,4 miliardi di euro di valore esso appare uno dei maggiori progetti nel settore in Europa. Gli altri azionisti di Citylife sono le Generali con il 41,3% e Allianz con il 31,5%. La prima mossa significativa delle Generali sotto la presidenza di Geronzi è stata quella di fornire un paracadute finanziario al gruppo Ligresti (Riva, 2010); l’imprenditore siciliano non appariva in grado di partecipare alla presa in carico della quota del 20% posseduta precedentemente dalla famiglia Lamaro, così acquisite interamente dagli altri due soci; ma soprattutto Ligresti ha potuto accordarsi con Generali su di un’opzione di vendita della sua quota, opzione con scadenza nel settembre 2011.

Sempre Ligresti si è poi attivato per portare avanti, con la complicità dei comuni interessati, diversi progetti minori in Lombardia e si è messo a vendere anche una parte rilevante del suo patrimonio immobiliare, tra cui anche la torre Velasca a Milano.

Nel lungo termine, bisogna considerare che potrebbero diventare molto redditizi i terreni che Ligresti possiede in un quartiere a ridosso dell’area dell’Expo 2015 e che il comune di Milano vorrebbe trasformare in un gigantesco centro direzionale.

Le difficoltà del gruppo, per quanto forse superabili con il tempo, sembra che abbiano comunque risvegliato l’interesse su Fonsai di V. Bollorè, il finanziere francese che è uno dei protagonisti delle vicende Mediobanca-Generali; egli, per il momento, ha acquistato una partecipazione ridotta nella società, ma viene sospettato di essere potenzialmente pronto ad acquisirne il pacchetto di controllo per conto di una società assicurativa francese, la Groupama. Su questo punto ci sarebbero comunque delle discussioni con Mediobanca, che preferirebbe invece una qualche soluzione meno drastica ai problemi strutturali dello stesso Ligresti, soluzione che appare peraltro complessa.

Alla fine, il quadro del gruppo non appare certamente in prospettiva come molto brillante, ma non è da escludere che la famiglia, grazie alle sue abilità imprenditoriali, nonché grazie al supporto di amici e parenti, riuscirà a galleggiare ancora a lungo sulle vicende economiche e politiche del nostro paese.

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Dall'abbigliamento alle autostrade e autogrill. La parabola di un gruppo che ha vissuto una mutazione genetica, partendo da un un business di successo per poi legarsi progressivamente al carro pubblico. E portandosi dietro grossi problemi di indebitamento. Postato il 14 ottobre 2010



Il percorso imprenditoriale della famiglia Benetton appare piuttosto chiaro e abbastanza singolare. I membri della famiglia sono partiti negli anni sessanta con un’idea di business a suo tempo molto innovativa nel settore dell’abbigliamento, idea coronata in un primo periodo da un rilevante successo di mercato e di redditività. Poi, con il tempo, tale attività si è dovuta confrontare con diversi problemi, sia di tipo interno che esterno all’impresa; in particolare, si è manifestata una importante concorrenza, costituita da marchi quali Zara o H & M, che è riuscita a mettere in rilevanti difficoltà la società, superandola per capacità innovativa, volumi di affari e redditività su quasi tutti i mercati, mentre la società incappava anche in alcuni problemi organizzativi. La famiglia non è stata in grado di reagire rinnovando ed adeguando la sua offerta nel settore in misura adeguata, le vendite complessive della società non sono più cresciute, i risultati economici si sono ridimensionati. Nel frattempo, nuovi concorrenti si profilano all’orizzonte.

Così, ad un certo punto, i membri della famiglia hanno deciso di ridurre il peso delle attività in cui c’era da confrontarsi tutti i giorni con il mercato e con la concorrenza e di trasformarsi invece sostanzialmente in rentier. Ecco allora l’acquisizione, secondo alcuni avvenuta a prezzi di favore, di Autostrade e di Autogrill dallo Stato, per di più scaricando i debiti fatti almeno per l’ acquisizione di Autostrade sulla stessa impresa acquistata, mentre verranno poi anche, con il tempo, le stazioni e gli aeroporti; ecco anche la partecipazione a molte avventure di interesse del potere politico da una parte, gli stretti legami con la fortezza Mediobanca dall’altra. (sulla storia e i conti di Autostrade, si veda anche l' articolo di Anna Donati su questo sito).

Oggi siamo davanti ad un gruppo di grandi dimensioni, molto articolato, ma anche altamente indebitato, mentre esso presenta una redditività complessiva piuttosto scarsa e mentre le sue sorti sono affidate, almeno in parte, alla benevolenza dei potenti di turno. La crisi di questi anni ha contribuito comunque a frenare i suoi volumi di attività e le sue prospettive.

La struttura societaria

Nel 2009 il gruppo Benetton ha fatturato in tutto circa 11,3 miliardi di euro a livello mondiale. Lo ha fatto attraverso un grande numero di società operanti in molti settori e in molti paesi, anche se le attività possono essere fatto risalire sostanzialmente a tre business.

La struttura societaria ha visto numerosi e anche radicali cambiamenti nel tempo, sia per l’ingresso e l’uscita quasi continui nel sistema di numerose imprese, sia per i mutamenti dettati dallo sviluppo stesso delle varie attività e anche da considerazioni di altro tipo, ad esempio mutamenti di strategia e anche “affinamenti” di tipo fiscale.

Essa vede oggi al primo livello di governo la capogruppo Edizione srl, controllata interamente dalla famiglia Benetton. Tale società, a sua volta, possiede dei pacchetti azionari di grande rilievo in un gran numero di altre entità, suddivisibili per comparti di attività:

1) nel settore del tessile-abbigliamento, il business storico della famiglia, troviamo in particolare il Benetton group, di cui Edizione srl possiede il 67,08% del capitale e che a sua volta da origine ad una miriade di società sparse per il mondo;

2) nel campo della ristorazione, la capogruppo controlla il 100% del capitale della società Schema 34 srl, che possiede poi il 59,28% di Autogrill, di nuovo con molte società del settore sotto il controllo di quest’ultima;

3) nel comparto delle infrastrutture e dei servizi per la mobilità, Edizione srl da origine a tre sottogruppi di società.

Essa detiene intanto il 79,06% del capitale di Sintonia sa, che controlla al 100% la società Schema 28 spa, che a sua volta possiede, insieme alla stessa Sintonia sa, il 38% del capitale di Atlantia spa; la Atlantia detiene a sua volta il 100% del capitale di Autostrade per l’Italia, nonché l’8,85% di Alitalia; infine, Autostrade per l’Italia possiede il 33% della IGLI spa - gli altri soci, il gruppo Ligresti e quello Gavio, detengono ciascuno una quota analoga-; la IGLI, a sua volta, controlla il 29,87% del capitale di Impregilo.

Sempre Sintonia sa controlla il 100% di Investimenti infrastrutture spa, che, insieme alla stessa Sintonia sa, possiede il 30,23% delle azioni di Gemina, al cui capitale partecipano anche, tra l’altro, con quote variabili, Mediobanca, il gruppo Ligresti, Assicurazioni Generali, Unicredit; Gemina detiene a sua volta il 95,76% del capitale di Aereoporti di Roma; Sintonia possiede poi ancora il 24,38% della Sagat, i cui azionisti di maggioranza sono gli enti locali piemontesi –Regione, Provincia e Comune di Torino- e che controlla le attività degli aereoporti di Torino e di Firenze;

Infine, infine Edizione srl detiene direttamente il 32,71% del capitale di Eurostazioni spa, partecipata con eguali quote anche dalla Pirelli & C. e dal gruppo Caltagirone; la Eurostazioni possiede poi il 40% di grandi Stazioni spa, mentre il restante 60% è controllato dalle Ferrovie dello Stato;

4) nel settore immobiliare e dell’agricoltura, la capogruppo ha in mano il 100% di Edizione Property spa, che detiene a sua volta il 100% di Maccarese spa, titolare poi del 100% del capitale di Cia de Terras Sud Argentino sa;

5) Edizione srl ha anche in bilancio una serie di altre partecipazioni molto preziose perché fanno parte, nella sostanza, del suo sistema di relazioni con il mondo della finanza e dell’imprenditoria nazionale, relazioni che sono essenziali al perseguimento dei suoi interessi e che ruota intorno al gruppo di potere organizzato intorno a Mediobanca; segnaliamo, in particolare, lo 0,945% del capitale di Assicurazioni Generali, il 2,16% della stessa Mediobanca, il 4,77% di Pirelli & C., il 5,7% di RCS, il 2% di Il Sole 24 Ore, il 2,24% di Caltagirone Editore, il 7,94% di Banca Leonardo; la società partecipa poi ovviamente ai vari patti di sindacato messi in piedi da Mediobanca per puntellare gli equilibri di potere delle varie entità;

6) in una categoria a parte possiamo inserire il pacchetto di controllo – con il 58,99% delle azioni- posseduto da Edizione srl nella di 21 Investimenti spa, una delle più importanti società europee di privateequity, che è stata costituita a suo tempo da Alessandro Benetton, uno degli eredi, apparentemente il più dinamico, della dinastia familiare;

7) tralasciamo per brevità le società operanti nel settore sportivo.

Per completezza informativa, va ricordata l’avventura Telecom Italia. Nei primi anni del nuovo millennio i Benetton si inseriscono in misura importante nell’azione di conquista da parte di Tronchetti Provera del pacchetto di controllo della società telefonica. Ma il gruppo di intervento sarà obbligato nel 2007, di fronte alle difficoltà e ai pessimi risultati della sua gestione, a lasciare la presa e si dovrà ritirare riportando gravi perdite. Ricordiamo anche di sfuggita i tentativi, anch’essi poi abbandonati, di inserirsi nel settore delle attrezzature e dell’abbigliamento sportivo ed anche in quello della grande distribuzione.

Dati ed informazioni di base sul gruppo

Dunque il gruppo ha fatturato nel 2009 circa 11,3 miliardi. Tale importo si concentra intorno a tre poli di aggregazione, il Benetton Group, con circa 2,0 miliardi di euro di cifra d’affari nello stesso anno, il raggruppamento Atlantia con circa 3,6 miliardi e Autogrill con 5,7.

Dal punto di vista settoriale, il polo della ristorazione pesa per il 51,3% del fatturato totale, le infrastrutture e servizi per la mobilità per il 30,1%, il tessile-abbigliamento per il 17,7%; lo 0,9%, infine, fa riferimento ad attività residuali.

Sempre nel 2009, sul fronte della distribuzione geografica, il 50,6% dei ricavi del gruppo si collocano in Italia, il 27,4% nel resto d’Europa, il 16,8% nelle Americhe, il 5,2% residuo nel resto del mondo. Da questo punto di vista il gruppo appare fortemente concentrato sul nostro paese e, più in generale, sul nostro continente.

Per quanto riguarda la redditività complessiva, l’utile netto appare molto limitato nel 2008 e uguale a 196 milioni di euro, cifra pari all’1,7% del fatturato, per poi scendere ad appena 104 milioni nel 2009, lo 0,9% delle vendite. Per la verità, il reddito operativo della società appare abbastanza più sostenuto, collocandosi nel 2009 intorno ai 2,1 miliardi di euro, importo pari a quasi il 19% del fatturato; ma poi gli oneri finanziari pesano per circa il 6% della cifra d’affari e qualche punto ulteriore viene sottratto anche dalle perdite su partecipazioni, in parte strascichi dell’avventura Telecom. A questo punto, all’utile ante-imposte, ancora abbastanza importante nonostante tutto e pari a circa 1,2 miliardi di euro, bisogna sottrarre il carico fiscale, molto rilevante e pari al 5,5% del fatturato, nonché la quota di utile di pertinenza degli azionisti terzi, che si portano a casa 455 milioni di euro, ben più della famiglia e così alla fine l’utile netto scende alle dimensioni sopra ricordate.

Accanto alla limitata redditività bisogna ricordare, come sopra accennato, il molto alto livello dell’indebitamento complessivo. Esso appare sostanzialmente identico come importo alla fine del 2008 e del 2009 e pari a 14, 1 miliardi di euro, con un rapporto uguale al 173,0% rispetto ai mezzi propri, al 124,8% rispetto al fatturato del 2009, a 4,5 volte rispetto al reddito operativo prima degli ammortamenti (Ebitda), sempre per il 2009. L’esposizione appare fortemente concentrata in valori assoluti sul gruppo Atlantia ed essa è da mettere in gran parte in relazione con i debiti fatti a suo tempo per acquisire Autostrade per l’Italia, debiti poi scaricati sulla stessa società. Tale livello fa molta fatica a scendere nel tempo ed esso appare come una delle più serie ipoteche al futuro del gruppo.

Per la verità, c’era stato qualche anno fa il tentativo di sbarazzarsi del problema vendendo il settore autostradale agli spagnoli, ma la questione è stata portata avanti in maniera forse non brillante e si sono sviluppati dei problemi che hanno portato al fallimento del tentativo. Tra l’altro, i Benetton hanno cercato di vendere agli iberici senza aver portato avanti gli investimenti a suo tempo concordati col governo al momento della privatizzazione (Astone, 2009).

L’andamento dei principali business

Benetton. Dopo i rilevanti successi dei primi decenni, il marchio Benetton appare da molto tempo abbastanza in affanno. Così, intorno alla metà degli anni 2000 i bilanci hanno dovuto registrare delle perdite. Poi la situazione è migliorata, grazie anche ad interventi abbastanza decisi su molti fronti, da quello dell’organizzazione della rete di vendita a quello della riduzione dei costi degli approvvigionamenti, ma non si è veramente verificata la svolta netta che sembrava necessaria. Comunque, soprattutto sul mercato statunitense e sostanzialmente anche nei paesi europei, sia pure in misura più ridotta, l’azienda appare ancora in rilevante difficoltà e le vendite tendono a crescere, anche se lentamente, soltanto nei paesi emergenti, dove si sta portando avanti un importante allargamento della rete distributiva.

Guardando alle cifre degli ultimi cinque anni, appare evidente una sostanziale staticità di tutti gli indicatori. Il fatturato era pari nel 2005 a 1,8 miliardi di euro e nel 2009 ci si ritrova soltanto con un leggero incremento a 2,0 miliardi, mentre l’utile netto oscilla, di anno in anno, tra i 100 e i 155 milioni di euro –anche gli indici di redditività appaiono sostanzialmente costanti- e mentre il capitale netto è fermo dal 2005 ad oggi a 1,3/1,4 miliardi di euro. I dati di redditività del primo semestre del 2010 appaiono in discesa, mentre quelli di qualche concorrente come Inditex-Zara sono invece molto più incoraggianti.

Per completezza di informazione, si può ricordare che i ricavi suddivisi per area geografica registrano negli ultimi anni una percentuale del 47/48% sul totale per l’Italia, del 34/36% per il resto d’Europa, un risibile 3% per le Americhe ed un 17% per il resto del mondo.

Non si vede al momento come l’azienda possa uscire dal sostanziale impasse strategico in cui si trova. Significativamente, si parla da tempo di una possibile cessione del business, plausibilmente ad una delle tre grandi società del settore, la statunitense Gap, la spagnola Inditex-Zara, la svedese H&M; ma tale cessione sarebbe peraltro contrastata da una parte della famiglia.

Atlantia. Un concreto tentativo di cessione c’è stato qualche anno fa, come già accennato, per quanto riguarda invece il settore autostradale, ma esso è finito poi nel nulla. Le attività che fanno capo ad Atlantia spa, di cui la parte più significativa è costituita da Autostrade per l’Italia spa, presentavano complessivamente ricavi per 3,6 miliardi di euro nel 2009 contro i 3,5 del 2008. Il raggruppamento gestisce circa 3400 chilometri di autostrade nel nostro paese e circa 900 in quelli esteri. Per quanto riguarda questi ultimi, si tratta di concessioni ottenute in Cile, Polonia, Brasile, India –quattro concessioni, tre continenti-, apparentemente quindi senza un piano organico di penetrazione di specifici mercati, ma sfruttando le occasioni che si presentavano di volta in volta in giro per il mondo. Si ha una sensazione di grande dispersione degli sforzi.

Sul fronte economico, il settore sembra godere di un’elevata redditività –gli utili netti sono pari a circa 0,7 miliardi di euro sia nel 2008 che nel 2009, nonostante i rilevanti oneri finanziari che la gestione deve sopportare in relazione all’elevatissimo indebitamento cui abbiamo fatto cenno sopra; tali oneri sono e pari a ben il 13,9% dei ricavi nel 2008 e addirittura al 14,9% nel 2009.

La redditività sostenuta potrebbe presumibilmente essere legata a dei do ut des importanti con i pubblici poteri, essendo la fissazione delle tariffe e delle altre condizioni di sfruttamento delle concessioni in mano a questi ultimi. Questa possibilità sembra plausibile nel nostro paese, dove il gruppo Benetton appare sempre pronto a partecipare alle iniziative sponsorizzate dal governo –si veda ad esempio la vicenda Alitalia- e, nel settore finanziario, ad essere parte organica dell’asse Mediobanca-Generali, in cui appare sempre più ingombrante la presenza di Cesare Geronzi, il punto di collegamento tra Berlusconi e la finanza.

Autogrill. Neanche del raggruppamento Autogrill si può dire che esso navighi nell’oro.

Primo operatore al mondo per quanto riguarda i servizi di ristorazione e retail per chi viaggia, il suo fatturato per il 2009 è stato pari complessivamente a circa 5,7 miliardi, in leggera riduzione rispetto alle cifre dell’anno precedente. La rilevante diversificazione geografica e settoriale – le attività del raggruppamento si possono suddividere nei tre comparti della ristorazione, del retail aeroportuale e della fornitura di servizi di catering a bordo degli aerei - hanno apparentemente permesso di limitare i danni in un settore che ha risentito abbastanza della crisi.

Il comparto della ristorazione appare quello più importante ed esso raggiunge nel 2009 il 64,5% del fatturato totale del settore. Le cifre disponibili indicano una diversificazione geografica molto ampia raggiunta con il tempo dal raggruppamento, partendo dalla sola base italiana.

I risultati economici non appaiono particolarmente brillanti, con un utile netto per il 2008 di 84 milioni di euro, pari all’1,4% del fatturato e di soli 37 milioni nel 2009, con un’incidenza sulla cifra d’affari pari allo 0,6%.

Il livello di indebitamento non appare elevato in valore assoluto come quello di Atlantia –esso si situa intorno ad 1,9 miliardi di euro alla fine del 2009, contro i 2,1 miliardi della fine dell’anno precedente-, ma esso risulta comunque rilevante se lo confrontiamo con i mezzi propri dell’azienda.

Conclusioni

Il gruppo Benetton ha subito già da parecchio tempo una grande mutazione genetica, trasformandosi da un’entità che operava su di un mercato competitivo in una invece almeno parzialmente legata al carro pubblico. Questa trasformazione, che ha comunque molto accresciuto le dimensioni complessive dello stesso gruppo, non ha però permesso di risolvere i problemi economici e finanziari precedenti, ma anzi ne ha creati di nuovi ed ha legato molto più di prima le sorti aziendali, almeno in parte, alla volontà di governi e di banche. Così oggi i vari business non presentano una situazione brillante sul piano strategico, economico e finanziario. In particolare il settore tessile-abbigliamento sembra avere problemi strategico-organizzativi, Atlantia invece soprattutto di tipo finanziario, mentre Autogrill si ritrova con una scarsa redditività ed anche di nuovo con problemi di indebitamento elevato. La crisi degli ultimi anni ha certamente contribuito ad accrescere le difficoltà di prospettiva di un gruppo in cui esse erano già prima presenti in misura rilevante. Può darsi che il ricambio generazionale, che dovrebbe toccare in maniera più decisa la famiglia Benetton nei prossimi anni, possa portare a qualche colpo d’ala che è difficile attendersi oggi da degli imprenditori forse troppo appesantiti dalle esperienze anche difficili incontrate su vari fronti negli ultimi decenni.

Testo citato nell’articolo

Astone F., Gli affari di famiglia, Longanesi, Milano, 2009

«Eccoli, i bastardi, appena usciti dalla fortezza». Fariz dà un calcio alla lattina in terra mentre passa la volante. Alza il cappuccio, piove e soffia il solito vento micidiale di Clichy, un altipiano esposto alle intemperie, quasi fosse un´altra punizione divina. Fariz ha 14 anni, ripete il ginnasio con scarse probabilità di passare, l´anno prossimo è fuori. S´infila tra due Hlm, le grandi torri di case popolari. Un presente di spaccio e piccoli espedienti. «Sono in deal, in affari, e anche se i keufs, i poliziotti, mi mettono alla cage, in prigione, tanto sono minorenne. Un mio amico è già entrato e uscito cinque volte».

Racaille, feccia, cinque anni dopo. Ragazzini come Fariz avvampati di odio, uguali ad allora. «Se ci provocano, li sfondiamo» dice indicando il nuovo commissariato, avamposto della République in terra ostile. A Clichy-sous-Bois due abitanti su tre sono di origine straniera. Uno su tre è disoccupato, il 75% della popolazione è considerato indigente e vive di sussidi. Appena quindici chilometri da Parigi, un´ora e mezza di trasporti. Guardando la "fortezza" si capisce che la rivolta è solo in sonno. Da qualche giorno, centocinquanta poliziotti si sono stabiliti qui per presidiare la periferia che ha lanciato gli scontri del 2005 in tutto il paese: ventuno notti di assalti alle forze dell´ordine, diecimila auto incendiate, tremila fermati, finché è calato il coprifuoco. Da allora è tregua armata. E un lento ritorno alla normalità. Il commissario capo, Olivier Simon, manda via i giornalisti. «Non posso dire nulla». Una parola di troppo può diventare dinamite.

Anche Muhittin Altun è costretto al silenzio. Racaille, pure lui. Il 27 ottobre 2005 voleva sfuggire a un controllo della polizia. Insieme agli amici Zyed e Bouna si è nascosto in una centrale elettrica. Loro sono morti fulminati, lui è vivo per miracolo. Zyed e Bouna, 17 e 15 anni, sono diventati il simbolo della rivolta. Ancora oggi i loro nomi sono dentro ai rap, sui graffiti, negli slogan dei casseurs che manifestavano qualche giorno fa nei cortei contro le pensioni. Muhittin è caduto in grave depressione, è sotto psicofarmaci. Non sa se riuscirà ad andare alle commemorazioni di oggi. A Clichy, anche sopravvivere può diventare una colpa. «Cinque anni per avere giustizia sono un tempo interminabile» spiega Siaka Traoré, fratello maggiore di Bouna. Venerdì scorso i poliziotti coinvolti nell´incidente sono stati rinviati a giudizio per omissione di soccorso. Hanno visto entrare i ragazzini nella centrale ma non hanno dato l´allarme. Quel giorno, alle 18.52, il blackout a Clichy-sous-Bois ha annunciato la tragedia in corso. Gli avvocati chiederanno la diretta televisiva per il processo. Non è ancora detta l´ultima parola: la procura ha fatto ricorso sul rinvio a giudizio.

«La riconciliazione passa anche attraverso la verità sulla morte di Zyad e Bouna». Claude Dilain fino a quarant´anni ha fatto il pediatra poi, nel 1995, è diventato il sindaco socialista di Clichy-sous-Bois. All´epoca, le cose andavano già molto male. «L´odio», il film di Matthieu Kassovitz ambientato in una periferia-ghetto, è di quell´anno. Durante gli scontri, Dilain dormiva di giorno e vegliava di notte. «La rivolta può scoppiare di nuovo, in qualsiasi momento». Il 70% dei giovani non ha votato alle ultime elezioni, la criminalità organizzata è sempre più radicata nelle banlieues. «L´altro segnale preoccupante è il ripiego sull´identità religiosa e culturale». Giovani donne velate, famiglie poligame. «I figli o nipoti degli immigrati hanno preso atto del fallimento dell´integrazione nella società francese».

Arrivando in macchina da Parigi, l´orizzonte è puntellato da gru gialle e rosse. Clichy è diventata un enorme cantiere. Millecinquecento nuove case sono state costruite al posto di quelle vecchie e fatiscenti. I finanziamenti per il rinnovo urbano sono l´unica novità visibile del famoso "Piano Marshall" che Nicolas Sarkozy ha promesso. «Noi chiediamo educazione e lavoro. Il nostro futuro non è fatto solo di muri puliti». Samir Mihi, 33 anni, era amico di Zyad e Bouna e ha fondato l´associazione "Au delà des mots". Il tasso di disoccupazione tra i giovani supera il 40%, e non esiste un ufficio di collocamento. «Sul curriculum - racconta Samir - nessuno di noi scrive il vero indirizzo. Dal 2005 Clichy è sinonimo di racaille».

Quegli scontri sono una pesante eredità. «Ma almeno la Francia non ignora più la nostra situazione», commenta Claude Dilain. Il sindaco di Clichy guida l´associazione dei 120 comuni cosiddetti "sensibili". La banlieue è la vera frontiera. Ogni anno circa 200mila stranieri si stabiliscono in queste città satelliti. «Il patto sociale sul quale ci siamo costruiti negli ultimi due secoli è andato in frantumi. E nessuno ne vuole discutere davvero». È la storia di un tipo che cade da un palazzo di cinquanta metri, diceva il protagonista de «L´odio». Fino a qui tutto bene. Ma l´importante non è la caduta. È l´atterraggio

Diciamo la verità: che alla fine arrivasse l’aut aut di Bruxelles c’era da aspettarselo. La Commissione europea è disposta a concederci due anni di proroga, dal 2013 al 2015, per ottenere i finanziamenti comunitari necessari a realizzare l’alta velocità Torino-Lione in cambio di un segnale concreto che facciamo sul serio. E questo segnale non potrà che essere l’avvio dei lavori del cosiddetto tunnel «esplorativo» nella polveriera della Val di Susa. In gioco ci sono 672 milioni di euro di cui 9, secondo il Sole24ore, sono già andati perduti: comunque vada siamo già fuori per una quarantina di milioni anche dalla scadenza del 2015.

Inutile dire che se il cofinanziamento europeo, il quale rappresenta il 27% del fabbisogno previsto a carico dell’Italia per l’infrastruttura di collegamento con la Francia, venisse dirottato come minaccia la Commissione verso altre infrastrutture, su quell’opera si potrebbe mettere una pietra tombale. Qualcuno indubbiamente gioirà. Ma per il Paese, comunque la si possa pensare, non sarà una buona notizia.

Una storia penosa, che dimostra purtroppo l’inadeguatezza (attuale) del nostro sistema nei confronti dei grandi progetti strategici. Soprattutto quando si tratta di compiere scelte di interesse generale che possono entrare in rotta di collisione con interessi locali. È lì che si misura tutta l’incapacità della nostra classe politica, più concentrata su obiettivi di breve periodo in vista delle successive elezioni invece che sul futuro del Paese.

Non per nulla la vicenda della Torino-Lione si trascina senza soluzione di continuità fin dal 1992: anno del primo governo di Giuliano Amato. «Un progetto vitale», venne definito dal comitato promotore, allora presieduto da Sergio Pininfarina, oggi senatore a vita. Due anni dopo, giusto una settimana prima della caduta del governo di Silvio Berlusconi, i ministri dei Trasporti italiano, Publio Fiori, e francese, Bernard Busson, firmarono l’accordo che prevedeva la costruzione di un tunnel di 60 chilometri sotto le Alpi. Obiettivo: togliere dalla strada 2,6 milioni di Tir. Tre anni più tardi, nel 1997, la prima fase di studi tecnici era conclusa. Costo: 60 miliardi di lire. Alla fine di gennaio del 2001 il presidente del Consiglio italiano, ancora una volta Giuliano Amato, e il presidente francese Jacques Chirac fissarono la data di entrata in esercizio della linea al 2015. Soltanto dieci mesi dopo, però, un nuovo vertice italo-francese, anticipò la scadenza di tre anni, al 2012.

Il nostro ministro, Pietro Lunardi, evidentemente non sospettava che nulla avrebbe potuto nemmeno la legge obiettivo. Senza poi considerare, al di là dei roboanti annunci berlusconiani, come di soldi in cassa per le grandi infrastrutture ce ne fossero davvero pochini.

Ripercorrere la strada di quello che è accaduto da allora è doloroso. Fra i proclami della destra e i balbettii della sinistra, nessuno è stato capace, per anni, di gestire la situazione. Non lo è stato, per ben due volte, il governo Berlusconi. E nemmeno il governo Prodi, nel quale coabitavano un ministro dell’Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, che definiva la Torino-Lione «un danno ambientale e uno spreco economico» e un ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, che ammoniva: «Se resteremo fuori dalle reti internazionali saremo destinati a restare fuori da un sistema globale per anni».

Le reti internazionali, appunto. Senza la Torino-Lione il mitico Corridoio V, la linea transeuropea che dovrebbe unire Lisbona a Kiev, non potrà passare per l’Italia. Come senza il Terzo valico dei Giovi sull’Appennino ligure non sarà completo il Corridoio 24, progettato per collegare il Mare del Nord (Rotterdam) con il Mediterraneo (Genova) attraverso il tunnel del Gottardo. Per inciso, gli svizzeri hanno appena finito di scavare quella galleria di 57 chilometri, mentre noi i lavori per quel valico non li abbiamo ancora iniziati: la riunione del Cipe che a metà ottobre doveva dare il via libera è stata rinviata ancora una volta. E in questo caso i No-Tav non c’entrano nulla.

Qui di seguito è riportato il testo senza le note, le tabelle e la bibliografia. La versione completa, in formato .pdf, è scaricabile in calce.

1. L’obiettivo 30 ettari

Il contenimento dell’occupazione di suolo per fini urbani e il rafforzamento delle strategie di riqualificazione della città esistente sono da tempo entrati fra gli obiettivi della legislazione urbanistica e dei documenti di pianificazione a livello europeo e dei singoli stati membri. Come è noto, nella lotta all’inarrestabile espansione delle città, si è distinta soprattutto la Germania con una vasta gamma di strumenti diversi: oltre a quelli di esclusiva natura legislativa si sono messi a punto strumenti di carattere fiscale ed economico, di comunicazione e di ricerca . Il carattere distintivo delle politiche tedesche è però la definizione di un obiettivo quantitativo rispetto al quale misurare l’efficacia delle strategie adottate. Questo approccio ha portato ad alcune innovazioni rilevanti nelle pratiche di pianificazione, arricchendo il discorso tradizionale con concetti nuovi di management e di comunicazione.

La necessità di invertire, o almeno mitigare, la tendenza all’espansione urbana è stata riconosciuta, per la prima volta, dal governo tedesco nel 1985 nell’ambito della formulazione dei principi di tutela del suolo. Solo tredici anni dopo l’allora ministro per l’ambiente Angela Merkel (CDU) si era però posto l’obbiettivo di disgiungere in modo duraturo lo sviluppo economico dall’occupazione di suolo. Fu allora fissata la soglia di 30 ettari al giorno (pari a un quarto della tendenza allora in atto), alla quale limitare l’aumento di aree per insediamenti e mobilità entro il 2020.

Successivamente, l’obiettivo 30 ettari è stato ripreso dai governi rosso-verdi all’interno della strategia per uno sviluppo sostenibile (Bundesregierung, 2002) e da tutti gli altri governi che si sono succeduti . Nonostante si tratti di un obiettivo piuttosto impegnativo, da subito molte voci autorevoli lo hanno considerato soltanto una meta intermedia e si sono espressi a favore di una crescita zero nel lungo periodo (Consiglio degli esperti per le problematiche ambientali, Consiglio per lo sviluppo sostenibile, Enquete-Kommission).

Ancora più rigorose erano le richieste delle associazioni ambientaliste BUND, DNR e NABU. Le associazioni chiedevano già dieci anni fa una progressiva riduzione delle aree fino a zero ettari nel 2010 (NABU, 2002). L’alleanza per la tutela dell’ambiente e della natura, invece, reclamava la necessità di trovare strumenti per realizzare “un’economia di rotazione”: per ogni nuova occupazione di suolo si sarebbe dovuta naturalizzare una superficie equivalente da un’altra parte (BUND, 2004).

Anche a livello dei singoli Länder è stato riconosciuto il problema della progressiva occupazione di suolo e sono state prese misure per la sua riduzione. Hanno funzionato come battistrada la Baviera con il “patto per il risparmio delle aree” e il Baden-Württemberg attraverso la tutela degli spazi aperti e dei suoli agricoli.

Come è dunque evidente, in Germania lo sforzo sul piano legislativo e programmatico, a tutti i livelli di governo, è stato notevole e va ben oltre lo slogan dei 30 ettari al giorno. I dati pubblicati nel marzo 2010 da parte dall’ufficio statistico federale inchiodano però le politiche alla loro efficacia: assolutamente deludente.

2. Le politiche sono efficaci?

Nel quadriennio dal 2005 al 2008 l’occupazione di suolo per fini urbani in Germania è aumentata del 3,3% circa, per una superficie pari a 1.516 kmq. Questo incremento equivale a una crescita di 104 ettari al giorno. Nei quattro anni precedenti (2001 – 2004) si attestava ancora a 115 ha. Se si può dunque registrare una flessione nella dinamica di occupazione di suolo, altrettanto evidente risulta la distanza dall’obiettivo 30 ettari.

L’analisi della serie storica dei dati dimostra chiaramente le tendenze in atto: il territorio urbano è in continua crescita e ha ormai superato la soglia del 13% della superficie nazionale. Si espande anche il territorio naturale che ormai occupa un terzo esatto del territorio complessivo. Il perdente risulta essere, invece, il territorio agricolo, orientato a finire sotto la soglia del 50%. Il suolo occupato per fini urbani non può, però, essere equiparato al suolo impermeabilizzato. Il “suolo urbano” include, infatti, anche una notevole quantità di superficie non edificata e non impermeabilizzata. Si tratta, ovviamente, delle aree di pertinenza degli edifici non sempre e non necessariamente lastricate. Ma si tratta soprattutto delle superfici per usi ricreativi, parchi urbani e impianti sportivi che, secondo gli ultimi dati disponibili, ammontano all’8% della superficie urbana in Germania. Nell’arco temporale dal 2005 al 2008 hanno contribuito in maniera decisiva all’aumento dell’occupazione di suolo: 45 ettari al giorno sul totale di 104.

Nell’insieme, la dinamica che sta alla base delle trasformazioni degli usi del suolo può essere letta studiando gli incrementi percentuali dei tre territori, quello urbano, quello agricolo e quello naturale. Dai tassi di crescita risulta chiaramente come essi siano sempre positivi, per quanto riguarda il territorio urbano, ma decrescenti negli ultimi tre quadrienni. Nel territorio agricolo sono costantemente negativi e di grandezza variabile, soprattutto in funzione dell’avanzamento del territorio naturale. Oltre che da parte dagli usi urbani, il territorio agricolo sembra dunque subire una pressione anche da parte del territorio naturale. Anche in Germania si avvertono dunque fenomeni di abbandono degli spazi dell’agricoltura, a partire da quelli meno accessibili e meno redditizi, e un conseguente avanzamento della superficie arbustiva e boscata.

Ciò che qui ci interessa di più sono però i fenomeni legati al consumo di suolo urbano. Come si è visto, la progressiva urbanizzazione continua con tassi molto elevati anche se, lentamente calanti. È difficile capire se ciò sia dovuto a una progressiva presa di conoscenza del problema, alle politiche messe in campo finora oppure se sia semplicemente riconducibile alle fasi del ciclo economico. Certo è che la tendenza in atto non basta a raggiungere l’obiettivo dei 30 ettari al giorno entro il 2020 .

È opinione diffusa che la difficoltà a contenere l’espansione urbana sia legata soprattutto alla tipologia insediativa della casetta unifamiliare, parte essenziale del sogno tedesco di progresso, che si vedrebbe minacciato da politiche di contenimento urbano. I dati recenti sembrano però smentire quest’ipotesi.Nel quadriennio dal 2005 al 2008, la crescita del suolo edificato per usi civili ammonta ad appena il 29% dell’incremento complessivo della superficie urbana (437 km2 su 1.516 km2) mentre risultano determinanti gli incrementi delle superfici per la ricreazione (656 km2) e per la mobilità (328 km2). Se nel quadriennio precedente (2001-2004) la superficie edificata, sia residenziale che produttiva, costituisce ancora più della metà dell’incremento complessivo e un ulteriore 20% deriva dalla costruzione di strade, dal 2005 al 2008 prevalgono gli usi di verde urbano (35%), di verde sportivo (7,8%), di superfici per la mobilità diverse dalle strade (interporti, porti, scali ferroviari, eccetera, pari al 16,1%). Insomma, nell’ultimo quadriennio il nuovo impegno di suolo per edifici e strade pesa appena il 38% sulla crescita complessiva delle superfici urbane, mentre aumenta notevolmente il fabbisogno di spazio per aree a verde attrezzato e per le funzioni della mobilità diverse dalle strade, raggruppabili nel termine di logistica. Ne emerge così una nuova e diversa struttura della crescita urbana.

3. Cooperare, gestire, comunicare

Da tempo la comunità scientifica è consapevole della necessità di sperimentare nuove strade di fronte ai cambiamenti strutturali in atto. In Germania, le linee di ricerca più fertili nel campo delle politiche urbanistiche di contenimento del consumo di suolo sono riconducibili ai concetti di cooperazione, management e comunicazione.

Alla cooperazione nei processi di piano spetta un ruolo particolare nella ricerca di maggiore efficacia delle politiche di riduzione del consumo di suolo. La cooperazione può riguardare ambiti istituzionalmente definiti (per esempio le regioni) oppure può essere limitata a insiemi di comuni, riuniti ad hoc, per affrontare problemi specifici. In Germania, la cooperazione intercomunale non è nuova e avviene, di norma, nella forma di associazioni fra comuni. Come anche in Italia, le associazioni vertono generalmente sulla fornitura di servizi di base ma possono essere investite anche dalle competenze di pianificazione urbanistica. La differenza fra cooperazione intercomunale e cooperazione regionale sta nel fatto che la prima è volontaria ed è limitata ad attori accomunati soltanto da fattori di vicinanza, mentre la seconda è istituzionalizzata e riguarda attori legati anche da aspetti funzionali (Fürst e Knieling in ARL, 2005). Essa trova la sua principale applicazione nella formazione del piano regionale. Il sistema di pianificazione assegna, in Germania, al piano regionale il ruolo di indirizzo della struttura insediativa che viene poi concretamente disegnata al livello locale (comunale o intercomunale) attraverso gli strumenti urbanistici di destinazione d’uso dei suoli. In questo quadro, la pianificazione regionale detiene un ruolo centrale nella promozione dello sviluppo insediativo sostenibile (BFN, 2006). Questa sua funzione è definita nella legge urbanistica federale (Par. 7, comma 2 e seguenti ROG) e nelle leggi dei singoli Länder. Al di là degli aspetti gerarchici formali, la formazione dei piani regionali è però basata, ogni volta con modalità differenti, sulla cooperazione fra regione e comuni. In tempi recenti, nel concreto svolgere dei giochi di piano, il ruolo degli enti si è inoltre arricchito di funzioni inedite di consulenza e mediazione (RSO, 2008). Il progressivo affermarsi di ruoli e competenze non codificati dalla legge ha dato un forte impulso alla cooperazione intercomunale informale. In molti casi, dove questa è orientata specificamente verso i problemi di contenimento del consumo di suolo, le politiche di sviluppo urbano sostenibile dimostrano un deciso miglioramento di performance . Come è però noto, ogni cooperazione comporta necessariamente dei costi transazionali che, a meno di incentivi specifici, sono accettabili soltanto in contesti di particolare pressione (Bleher, 2006). Ne consegue che la cooperazione intercomunale, in quanto volontaria, avviene solo laddove il problema del consumo di suolo è particolarmente sentito, vuoi per fattori esogeni, vuoi per fattori endogeni.

Nel caso della Germania, i principali fattori di pressione esogena sono la globalizzazione dell’economia che necessita azioni a livello regionale, l’orientamento sovracomunale delle politiche strutturali europee e i cambiamenti nella struttura socio-economica dei singoli Länder, soprattutto nella Germania dell’Est. Il primo fattore di pressione endogena che spinge alla cooperazione intercomunale è, invece, la difficile situazione finanziaria dei comuni; un secondo fattore è rappresentato dalla scarsità di aree disponibili nelle città capoluogo e l’indiscutibile appartenenza della maggior parte delle città ad aree metropolitane vaste (Fürst, 1999). Come ulteriore fattore endogeno possono essere citate le politiche di attrattività che vengono spesso promosse, a livello regionale, per attirare investimenti privati importanti. Se l’ambito di applicazione delle politiche sperimentali di contenimento urbano è quello intercomunale, gli strumenti si basano generalmente sui metodi di management dei suoli. Nella letteratura tedesca, con questo termine si intende la combinazione di strumenti giuridici e consensuali per la promozione di uno sviluppo insediativo rispettoso della risorsa suolo (Löhr e Wichmann, 2005). L’approccio prevede una maggiore sensibilità rispetto al patrimonio edilizio e urbanistico esistente, misure specifiche per l’attivazione di potenziali di spazio all’interno del perimetro urbanizzato e strumenti di tutela degli spazi aperti. Come nelle scienze di gestione aziendale, anche il management dei suoli è strutturato in fasi diverse (Einig, 2007):

- - analisi e valutazione delle riserve e dei potenziali edificatori;

stima dei fabbisogni futuri;

- concertazione di obiettivi ed elaborazione di scenari di sviluppo condivisi;

- valutazione dei diversi scenari;

- messa a punto di strumenti di attuazione;

- monitoraggio dello sviluppo insediativo.

Numerosi casi di studio hanno dimostrato che, generalmente, il potenziale edificatorio rilevabile nel patrimonio urbanistico esistente supera il fabbisogno di spazi programmabile nell’arco temporale della pianificazione urbanistica (10-15 anni). Gli studi hanno però anche messo in evidenza che lo “sviluppo urbano interno” (densificazione, riabilitazione, in generale trasformazione) non avviene spontaneamente e non si autoalimenta. La distribuzione spaziale, la frammentazione e la disponibilità dei potenziali edificatori, ma anche la moltitudine di attori da coinvolgere oppure le specifiche tendenze sociali sono altrettanti ostacoli alla trasformazione del patrimonio urbanistico esistente (RSO, 2008). Oltre a un nuovo strumentario tecnico è dunque necessaria la messa in rete degli attori e degli stake-holder dell’arena decisionale.

Fin dal 2004, nell’ambito dell’obiettivo 30 ettari è stato istituito il fondo di ricerca REFINA (Forschung für die Reduzierung der Flächeninanspruchnahme und ein nachhaltiges Flächenmanagement), dotato di 22 Mio. di Euro, con il quale sono stati finanziati progetti di ricerca nell’ambito della comunicazione ambientale: comunicazione fra istituzioni diverse, fra interessi confliggenti, fra linguaggi disciplinari distinti. Forme nuove di comunicazione per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto alle strategie di uso sostenibile della risorsa suolo, ma anche forme di coinvolgimento diretto dei proprietari, di discussione con le famiglie in procinto di trasloco, di inclusione di investitori privati.

Come componenti delle politiche di sviluppo sostenibile gli strumenti di comunicazione vanno ben oltre a un ruolo soft di mero affiancamento degli strumenti giuridici e di incentivazione economica. Come si è visto, non basta modificare le leggi o introdurre nuove tasse per garantire l’efficacia di politiche così strettamente intrecciate con interessi economici e stili di vita come quelle di riduzione del consumo di suolo. Appropriate strategie comunicative sono indubbiamente di enorme importanza nell’implementazione e nell’accettazione della strumentazione hard, soprattutto se possono essere intese come processi di apprendimento sociale.

Il ricorso alla comunicazione è stato affrontato da due punti di vista diversi: elemento di processi partecipativi di agenda 21 locale da un lato, quadro di riferimento di strategie di marketing dell’abitare in città dall’altro. Da un lato, dunque, la comunicazione è servita per sensibilizzare l’opinione pubblica e per incentivare scelte e stili di vita responsabili. Dall’altra parte, invece, le strategia di comunicazione erano funzionali al marketing dell’abitare in città, promuovendo l’incremento di qualità della vita e delle localizzazioni urbane. Infatti, la tematica dell’abitazione include un importante potenziale di marketing (BMVBS/BBR 2007; in particolare sul tema del marketing dell’abitare in città Urban Task Force, 1999). Per attingere a questo potenziale è però necessario riconoscere e valorizzare le caratteristiche architettoniche e urbanistiche delle città, ma anche le loro risorse culturali, economiche e sociali. Solo successivamente è possibile individuare attori e partner per una nuova strategia di sviluppo insediativo sostenibile basato sulla sinergia fra utenti e investitori (Kriese 2009).

4. Conclusione

La ricerca e la sperimentazione di strumenti e politiche per la riduzione della crescita urbana si presenta, in Germania, come un campo scientifico particolarmente fertile. Ne sono testimoni le numerose pubblicazioni di istituti di ricerca e di istituzioni a tutti i livelli. Le dinamiche delle strutture insediative sembrano però non del tutto rispondenti agli sforzi normativi e agli obiettivi di governance: il rallentamento della crescita urbana è sensibile, ma come dimostrano i dati statistici non è ancora sufficiente per centrare l’obiettivo 30 ettari entro il 2020. In buona misura ciò è riconducibile a un’insufficiente sensibilizzazione della classe dirigente e dell’opinione pubblica.

C’è però un altro aspetto, finora non sufficientemente considerato dalla comunità scientifica. Nel caso di un’effettiva limitazione di nuovo suolo edificabile, quali sarebbero le conseguenze sui bilanci famigliari e sui costi collettivi? Quali sarebbero le implicazioni su sviluppo e occupazione? Che effetto avrebbe sugli squilibri territoriali fra comuni, fra regioni, fra Meridione e Settentrione? Quale effetto avrebbe sull’assetto istituzionale una necessaria limitazione delle autonomie locali? Si tratta di interrogativi ai quali la ricerca finora non è riuscita a rispondere con sufficiente chiarezza. Insieme alla sperimentazione di nuovi strumenti e all’elaborazione di nuovi modelli, forse è necessario partire proprio da qui: immaginare risposte semplici alle domande più difficili.

Di solito i comunicati di Confcommercio e Federalberghi sono vivaci come un requiem a Ognisanti. Ma in questi giorni gli esercenti de L'Aquila stanno sparando ad altezza uomo dichiarazioni che non risparmiano davvero nessuno. Nel mirino soprattutto i teologi della ricostruzione: il premier Berlusconi, il capo della Protezione civile Guido Bertolaso, il governatore Gianni Chiodi. E proprio a quest'ultimo è stato dedicato ieri il pensiero di giornata: “Ci vuole una bella faccia tosta a fare le affermazioni che ha rilasciato contro gli albergatori aquilani - dice in una nota Federalberghi -. E quindi ormai è ufficiale: Chiodi la faccia tosta ce l’ha eccome. Invece di chiedere scusa per non aver rispettato per lunghi mesi gli impegni, è arrivato imprudentemente all’insulto che restituiamo al mittente”.

Il Commissario alla ricostruzione aveva infatti definito 'disumani' gli albergatori che, esasperati dai mancati pagamenti a partire dal gennaio 2010, minacciano di negare ai terremotati pasti caldi e pulizia delle camere. In realtà ieri, primo giorno dello sciopero, in pochi hanno aderito alla protesta. "Ma figuratevi se ce la possiamo prendere con 'sti disgraziati - confida un associato -. Siamo pure noi nei guai fino al collo e cerchiamo di far capire a tutti che non siamo lagnosi ma proprio disperati. Lo scriva eh, disperati. Ci rimangono solo gli strozzini".

Una rabbia nera, che continua anche nella nota di Federalberghi: "Se c'è qualcuno che è 'disumano' non è tra gli albergatori aquilani che bisogna cercarlo, ma al Commissariato Straordinario. Da mesi avevamo avvertito che la corda si sarebbe spezzata. Già nel maggio 2009 a Roseto i primi colleghi segnalarono che non ricevevano un soldo e sospesero le erogazioni di servizi. Quindi le chiacchiere stanno a zero, caro Chiodi e se qualcuno di voi pensa che i costi dell'assistenza e della ricostruzione debbano essere sostenuti dal sistema delle imprese aquilane, avete sbagliato genere, numero e cosa". E, tanto per chiarire, Federalberghi Rieti ha avviato le procedure di messe in mora per la Protezione civile Abruzzo.

Come dire: i 2,6 milioni teoricamente pronti per saldare il conto e promessi ieri da Chiodi, sono briciole davanti ai 60 già anticipati e mai rimborsati. Ma il messaggio è diretto anche al governo di Roma e soprattutto al sottosegretario Bertolaso, che tra un mese lascerà la Protezione civile in mano all’ex prefetto cittadino Franco Gabrielli. “Speriamo bene” sospira Alessio Di Giannantonio, portavoce di quel Comitato 3e32 che ha avuto parecchi guai sin dai tempi delle riunioni (vietate) nelle tendopoli di Campomaggio per finire al celebre sequestro delle carriole. “Ora la strategia è cambiata - spiega Di Giannantonio -. Invece di litigare su dati e soluzioni si passa direttamente a cancellare la realtà. Basta vedere l’ultimo rapporto ufficiale della Sge, la Struttura per la gestione dell’emergenza guidata da Chiodi. Siccome L’Espresso aveva scritto che gli sfollati a L’Aquila sono ancora 50 mila, lui ha fatto la magia: solo 3.065 persone ora figurano senza sistemazione, cioè quelli in albergo e nelle caserme. Tutti gli altri sono a posto. Magari stanno in casette di legno o appoggiati dai parenti, vivono a cento chilometri dalla città o si stanno fumando i risparmi per pagarsi l’affitto, ma che importa”.

Polemiche strumentali, le ha definite Chiodi, è solo una diversa catalogazione. Per la precisione, gli sfollati aquilani sono ad oggi 55.362.

Tutti pazzi per il social housing. È da non credersi la mole di progetti che in pochi mesi è nata in tutta Italia per agganciare uno dei pochissimi business che in questo momento sintetizza il panorama delle costruzioni e dell’immobiliare.

Con la Cassa Depositi e Prestiti a fare da regista col suo Fia (Fondo investimenti per l’abitazione, che attualmente conta su una dotazione di circa 2 miliardi) sta prendendo il via una maxi operazione che si pone come obiettivo di dare una risposta al problema del fabbisogno abitativo in Italia

Per ora non ci sono dati certi, ma facendo un po’ i conti, il numero di alloggi che potrebbe essere realizzato nelle diverse regioni varia tra i 30 e i 40 mila, ben lontani dai 100 mila annunciati dal governo in un primo momento, ma comunque non pochi. I progetti in cantiere sono arrivati rapidamente a una ventina, di questi dieci sono già all’esame della Cdp e uno (il fondo Parma Social House) ha già ottenuto il via libera.

Arriva il Superfondo

Si tratta di tutte iniziative che, per la prima volta, vedono coinvolti investitori privati ed enti pubblici, come sottoscrittori dei fondi immobiliari regionali ai quali il superfondo della Cdp potrà partecipare con un quota massima del 40%. Un meccanismo che fa del social housing un cantiere da almeno 6-7 miliardi, visto che all’equity che la Cdp mette piatto vanno sommate l risorse (anche terreni e aree) stanziate dagli investitori locali e la leva finanziaria.

Va detto che agli inizi di questo processo, cioè nel 2009, quando è stato approvato il decreto sul piano casa che conteneva anche le norme per la nascita di un sistema integrato di fondi immobiliari destinati all’housing sociale, in molti erano scettici sulla redditività di queste operazioni, mete altri erano convinti che l’intero affare diventasse di esclusivo appannaggio di coop e istituzioni no profit.

Sarà che l’attesa dei rendimenti nel settore real state si è fortemente ridotta, ma sono numerosi gli operatori privati, anche di grosso calibro, che stanno scendendo in campo con iniziative, e questa è la vera novità, che addirittura non prevedono la presenza di enti locali (ma sono lo stesso finanziabili dalla Cdp). Secondo quanto risulta al Mondo, nel Lazio si sta muovendo un gruppo finanziario cme la Banca Finnat della famiglia Nattino, che avrebbe invitato un pool di soggetti privati, tra i quali la cooperativa Anagnina ’97, a ragionare su un’ipotesi di investimento nellarea romana attraverso una società in via di costituzione.

Il Mattone dell’Est

Anche in Veneto si registrano due nuove iniziative analoghe.

La prima è di Est capital sgr, che ha appena ottenuto da Bankitalia il via libera per al costituzione del fondo Real Quesrcia, al quale parteciperanno due gruppi imprenditoriali il cui nome resta per ora riservato, con un equity di 40 milioni e progetti per Venezia, Padova, Vicenza e Verona.

La seconda è del gruppo di costruzioni Sarmar di Antonio Sarti, che punta alla costituzione di un fondo privato per costruire centinaia di alloggi in tutta la regione Veneto.

Passando più a sud, in Basilicata, si trova un’altra iniziativa a carattere totalmente privato: Matera ’90 (capocordata di un gruppo di imprese e cooperative locali di costruzione) sta costituendo un fondo per realizzare 350 alloggi in provincia di Matera. Va detto, però, che questi ultimi sono eccezioni, poiché nella maggior parte dei casi, come si può vedere dalla mappa dei progetti, la presenza di Regioni e Comuni nei fondi è d’obbligo visto che sono loro a metetre a disposizione le aree su cui edificare, quando non offrono anche dotazioni finanziarie.

Pubblico & Privato

In alcune regioni, come Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, questo processo di partnership pubblico-privata è già in fase avanzata grazie soprattutto al lavoro di promozione e di mediazione svolto da Fondazioni bancarie come Cariplo, pioniere del settore come dimostra il fatto che le creature di sua emanazione, Polaris sgr e Fondazione Housing sociale (Fhs) sono presenti in un gran numero delle iniziative nate nella Penisola, anche nella veste di advisor.

Sergio Urbani, presidente di Fhs, spiega che “è come se di colpo molti imprenditori avessero compreso di poter accettare guadagni inferiori rispetto al passato, facendo girare ugualmente l’economia della propri azienda e del territorio”.

Una dimostrazione dell’enorme interesse suscitato dall’affare social housing è la risposta al bando di gara internazionale indetta dal Fondo Abitare Sociale 1 per due progetti di Milano (Figino e via Cenni): hanno risposto 1.100 studi di progettazione sono state presentate 260 proposte.

Ma faranno profitti?

Per tutti i progetti, ora, si pone il tema della sostenibilità, cioè della loro capacità di soddisfare un’esigenza sociale e allo stesso tempo di produrre ricchezza. Guido Inzaghi, giurista esperto di edilizia e territorio e partner dello studio Dla Piper, che segue alcuni dei maggiori progetti, spiega: “È importante una giusta articolazione delle destinazioni d’uso all’interno dei progetti di social housing. La sostenibilità economico-finanziaria dell’investimento si raggiunge dando spazio anche all’edilizia residenziale, libera, degli uffici, e terziaria in genere. A questo ampliamento non deve tradire la finalità sociale dell’investimento”.

Ma c’è un’altra questione, che questa volta sta a cuore alla Cassa ed è rappresentata dal tema della gestione degli immobili. L’orientamento che sembra prevalere è quello di accordare una preferenza ai progetti che prevedono in modo chiaro il coinvolgimento di una società specializzata che si occupi di manutenzione, riscossione affitti e così via. Bisognerà tenerne conto per ottenere il placet della Cassa.

Quasi 53 milioni di metri quadrati di aree agricole saranno cancellati dalle grandi opere previste sul territorio lombardo. L’allarme è di Coldiretti, nel mirino Pedemontana, Tangenziale esterna di Milano, Brebemi, terza corsia della A9. «Le grandi opere disegneranno un fiume d’asfalto lungo 303 chilometri, pari quasi alla metà del fiume Po, che toccherà 214 comuni, ‘speronando’ centinaia di aziende agricole» spiega il presidente lombardo Nino Andena.

Una ferita di 53 milioni di metri quadrati: questo, secondo i calcoli della Coldiretti regionale, sarà il prezzo che l’agricoltura lombarda dovrà pagare per il completamento delle grandi opere infrastrutturali già in cantiere o in attesa di partire, dal collegamento autostradale tra Brescia, Bergamo e Milano (Brebemi) alla Pedemontana, dalla tangenziale est esterna di Milano (Tem) alla tratta ferroviaria ad alta velocità Milano - Verona. Senza dimenticare la strada statale 38 tra Como, Lecco e Sondrio con la tangenziale di Morbegno e l’ampliamento dell’autostrada dei Laghi.

«È un fiume d’asfalto lungo 303 chilometri, che tocca 214 comuni e "sperona" centinaia di aziende agricole - sottolinea Nino Andena, presidente di Coldiretti Lombardia - E a questi dati vanno aggiunti i 400mila ettari già cementificati dal 1990 a oggi, pari al 15 per cento del suolo agricolo lombardo. Negli ultimi vent’anni abbiamo perso un’area grande due volte le province di Milano e Monza Brianza».

Moltissime realtà imprenditoriali da sempre radicate sul territorio rischiano di essere spazzate via a suon di espropri. È il caso dell’azienda agricola di Ivana Regazzetti, che alleva mucche da latte a Paullo: «La Tem passerà a pochi metri da casa nostra - racconta - Già 30 anni fa la mia famiglia si è dovuta spostare in campagna per fare posto alla speculazione edilizia, ma ora ci hanno raggiunto anche qui. Dove andiamo se non possiamo ricominciare da un’altra parte?».

Per pianificare il futuro, gli agricoltori avrebbero bisogno degli indennizzi garantiti negli accordi di cessione volontaria delle terre che molti di loro hanno già stipulato, senza però vederne i frutti. «Le quasi 1500 imprese toccate dalla Brebemi hanno rinunciato ai terreni necessari all’autostrada a luglio dello scorso anno - sottolinea Rossana Cozzolino, responsabile dell’area legislativa e dei rapporti istituzionali di Coldiretti Lombardia - ma ad oggi non hanno ancora ricevuto gli indennizzi previsti dal protocollo d’intesa che abbiamo siglato a ottobre 2009 con Brebemi per ragioni burocratiche. Manca la firma del Cal, Concessioni autostradali lombarde, uno dei troppi enti coinvolti».

Coldiretti chiede al Pirellone uno snellimento della burocrazia per rendere più diretto il rapporto tra esproprianti ed espropriati, oltre a «un piano regionale di salvaguardia dei suoli agricoli - come sottolinea Andena - Noi vogliamo le grandi opere e pensiamo che possano trasformarsi in vetrine per le aziende locali, ad esempio dando la possibilità agli agricoltori di vendere i loro prodotti nelle aree di servizio o di occuparsi della manutenzione delle aree verdi a margine delle autostrade».

Richieste che appaiono in sintonia con quanto recentemente dichiarato da Giulio De Capitani, assessore regionale all’Agricoltura: «Le infrastrutture sono necessarie, ma serve un’adeguata compensazione che consenta al settore primario di mantenere i propri standard di produzione»

Un'emergenza continua che ci è costata 213 miliardi di euro. Questo è il conto – attualizzato ai valori 2009 – che abbiamo pagato dal dopoguerra a oggi per tamponare e rincorrere le mille fragilità del suolo italiano, dai terremoti alle frane, dalle alluvioni alle esondazioni.

A fare i conti con una fotografia dei costi del dissesto stavolta sono i geologi, addetti per mestiere alla valutazione (e alla prevenzione) del rischio. Il nuovo centro studi dell'Ordine, guidato da Pietro De Paola, ha aggiornato la mappa delle emergenze in Italia, ha incrociato per la prima volta i dati statistici sulle presenze sul territorio con le carte del rischio sismico e idrogeologico, ha rastrellato e attualizzato i mille rivoli in cui dal dopoguerra a oggi si sono incanalati gli stanziamenti pubblici per fronteggiare le emergenze, dall'alluvione di Firenze del 1966 al terremoto in Abruzzo.

Il dato più significativo è proprio quel conto finale: 213 miliardi per la ricostruzione e il risanamento dopo le emergenze, spesi dal 1944 al 2009. Di questi, 161 a coprire i danni da terremoti (il 48% pari a 48 miliardi solo per l'Irpinia) e 52 a riparare quelli per il dissesto.

Una cifra enorme se si pensa che, sempre secondo le stime dei geologi e le richieste dei Piani delle Autorità di bacino, per mettere in sicurezza tutto il territorio dal rischio idrogeologico di miliardi ne basterebbero (si fa per dire) 40, il 68% dei quali dovrebbe andare al centro Nord.

Già perché il dossier «Terra e Sviluppo – Decalogo del territorio 2010 – messo a punto con la collaborazione scientifica del Cresme - che i geologi presenteranno a Roma mercoledì (primo di quello che sarà un appuntamento annuale sul uso e sul consumo di suolo e sui costi anche economici delle emergenze) contiene alcune preziose informazioni.

Si scopre ad esempio che il nostro Paese ha speso per la protezione dell'ambiente (difesa del suolo, riduzione dell'inquinamento e assetto idrogeologico) 58 miliardi nel decennio dal 1999 al 2008, una cifra inferiore alle attese, ma non trascurabile. Ma il problema è che ben 31 di questi (il 54%) è stata assorbita dalle spese di parte corrente (stipendi soprattutto) e solo 26 miliardi sono veramente andati alla prevenzione dei rischi.

«Per cinquant'anni non abbiamo fatto pianificazione – ricorda amaro De Paola – dal 1998, dopo la tragedia di Sarno qualcosa lentamente si sta muovendo e siamo ormai arrivati, anche con il contributo dei geologi, ad avere una mappatura dettagliata del rischio».

«Ma ora – aggiunge – occorre intervenire e frenare il consumo di suolo». Come? De Paola è diretto: «I sindaci hanno in mano tutto il potere di controllo, sorveglianza e gestione del territorio, spetta a loro, ad esempio, reprimere l'abusivismo». Ma avverte: «Sembriamo non ricordarci quanto sia importante la manutenzione del territorio: non più tardi di una settimana fa tre donne sono morte a Prato in un sottopassaggio allagato per una banale fognatura ostruita».

Il rapporto lo dice chiaro: l'89% dei nostri Comuni è a rischio idrogeolico. Vivono con questa minaccia 5,8 milioni di italiani che abitano dentro 1,3 milioni di edifici in zone pericolose. E invece 2,4 milioni di italiani e 6,3 milioni di edifici si trovano in zone ad alto rischio sismico, con il record di Napoli in cui il 92% della popolazione corre pericoli. «I nostri numeri confermano una realtà a tutti nota – lamenta Lorenzo Bellicini, direttore del Cresme – spendiamo male le nostre risorse con interi capitoli di spesa dirottati dalla prevenzione all'emergenza».

Un'emergenza che può arrivare a durare anche cinquant'anni. Il rapporto dei geologi ci ricorda che ancora oggi dopo 42 anni paghiamo (e pagheremo fino al 2018) un obolo di 168 milioni all'anno (8,4 miliardi in tutto) per il sisma che rase al suolo la valle del Belice, nel lontano 1968.

Nemmeno il caldo agostano ha bloccato a Firenze polemiche e iniziative contro il "Grande Buco": il megatunnel con annessa Grande stazione sotterranea che dovrebbe segnare l'attraversamento della città da parte delle linee ad alta velocità - unico nodo ancora irrisolto della tratta Milano-Napoli. Si tratta di un progetto inutile: il tunnel e la grande stazione sotterranea - se i lavori effettivi partissero, come da cronoprogramma, nel febbraio 2011 - non sarebbero pronti prima di fine 2020, nella migliore delle ipotesi; nel frattempo, come già avviene, il treno ad alta velocità continuerà a passare in superficie. Anche per questo il gruppo di studiosi della locale università che ha indagato l'impatto ambientale del progetto ha avanzato la proposta di razionalizzare proprio il passaggio di superficie, con uno schema progettuale di semplicissima attuazione (due nuovi binari totalmente in aree di pertinenza ferroviaria, con alcuni piccoli interventi di riassetto della linea e di allargamento dell'intorno) che sarebbe ad impatto pressoché nullo e poco costoso (ma forse questo è il problema). Lo studio prevede la ristrutturazione della vecchia stazione di Statuto-Circondaria, in collegamento con il principale polo ferroviario di Santa Maria Novella; per creare un sistema, un "blocco stazione"-Firenze Novella - che permetterebbe di recuperare brani importanti del patrimonio industriale, infrastrutturale ed insediativo storico della città, riqualificando tessuti decisivi del suo centro storico. Logica opposta a quella del progetto attuale che si abbatte sul centro, con un impatto urbanistico assai negativo.

Numerosi comitati cittadini - in primis il "Comitato contro il sottoattraversamento"- si oppongono al "Grande Buco" e chiedono di attuare il progetto di superficie; svolgendo un ruolo prezioso di informazione, trasparenza e collegamento tra studiosi ed esperti, istanze della politica istituzionale, movimenti e abitanti. La novità delle ultime settimane è l'avvio di una sorta di class-action per il blocco del progetto di sottoattraversamento da parte di centinaia di cittadini le cui case sono minacciate dai lavori: è stato infatti costituito un pool di legali - supportati da alcuni tecnici - che ha depositato l'istanza tecnico-giuridica di blocco dei lavori, con denuncia e richiesta di risarcimento per «danno temuto» da parte degli abitanti titolari.

La crescita del movimento anti-Buco ha scosso il quadro politico fiorentino e toscano: il sindaco Renzi ha chiesto alle Ferrovie e al governo un rallentamento e una nuova riflessione sul progetto che ha portato al rinvio dei lavori a febbraio, previa nuova verifica dei rischi. Tutte le opposizioni e buona parte delle maggioranze sono per il passaggio di superficie. Restistono le componenti dalemiane del Pd, ancora maggioritarie, che rifiutano qualsiasi riflessione sui danni ambientali e sulla mancanza di garanzie del progetto.

È ormai acclarato che per la nuova stazione sotterranea non è stata mai effettuata alcuna Via, un abuso clamoroso in contrasto anche con le maglie larghe della Legge Obiettivo. Come hanno più volte sottolineato geotecnici del calibro di Giovanni Vannucchi e Teresa Crespellani, è altissimo il rischio di «crolli e danni rilevanti al patrimonio abitativo» (Ferrovie ammette i rischi di «danni anche ingenti» per 270 edifici, ma stime realistiche, ancorché prudenziali, portano a cifre almeno doppie; i manufatti dell'intorno sarebbero comunque sottoposti a una sorta di «sciame sismico permanente» per tutto il decennio di durata dei cantieri) e al «patrimonio storico-artistico».

Alberto Asor Rosa ha avanzato una proposta di mediazione, sotto forma di Variante generale del progetto Tav, che permetterebbe di abbandonare «il folle progetto di sottoattraversamento» e passare alla soluzione di superficie. La proposta prevede di impiegare interamente la cifra già prevista da Ferrovie (1.5 miliardi di euro), ma per attuare la proposta del gruppo dell'Università di Firenze ampliandola ancora, per realizzare un pezzo consistente della linea ferroviaria metropolitana, già programmata per risolvere i problemi di mobilità dell'hinterland.

Le grandi opere “prioritarie”, decise nella legge finanziaria che si appresta a essere presentata, adesso sono diventate 28 (cfr. Sole 24 Ore di martedì), quasi tutte di trasporto, strade e ferrovie. Un nuovissimo elenco. I governi di centrodestra, dopo la celebre lavagna presentata da Berlusconi a Porta a Porta con 19 opere prioritarie, hanno prodotto davvero un grande numero di elenchi: il numero delle opere ha oscillato da 9 a 184, con moltissime sottovarianti. Poi di opere ne hanno fatte pochine e spesso per nostra fortuna, visto che molte e costosissime, probabilmente non servono, o non sono affatto prioritarie.

Nel mondo sviluppato, gli elenchi di opere pubbliche si chiamano “shopping lists”, per distinguerli dai piani di investimento dotati da una qualche razionalità complessiva. Ma a quest’ultimo (ultimo?!?) elenco manca anche un minimo assoluto di elementi di valutazione e di priorità, che possano almeno suggerire ai contribuenti (nel caso delle ferrovie e metropolitane), o a agli utenti (nel caso delle autostrade) con quale logica si è deciso di spendere i loro soldi. Mancano ovviamente analisi costi-benefici sociali comparative (ma questo c’era da attenderselo, dato il deserto culturale in materia da sempre esistente in Italia). Ma mancano anche più semplici analisi finanziarie comparative (cioè il bilancio costi-ricavi, che segnala l’onere pubblico complessivo dell’opera e che per questa ragione deve contenere stime sul traffico servito). Ma manca anche il più semplice dei dati, appunto le previsioni di domanda. Queste consentirebbero ai cittadini (ai pagatori) di confrontare un’opera costosissima su cui passerà poco traffico con una più economica su cui ne passerà moltissimo e di aspettarsi che di ciò si sia minimamente tenuto conto nelle scelte di priorità. Ma se la logica della spesa è spartitoria e prescinde da ogni razionalità economica, dare dati di domanda può essere pericoloso, anche in caso di analisi di domanda “addomesticate”, cioè non fatte da soggetti indipendenti e in modo comparativo.

Basta guardare al recente passato: la linea Alta Velocità Milano-Torino per esempio (ma tanti altri ce ne sono) è costata 8 miliardi di euro, ha una capacità di 300 treni al giorno e ne porta 14, cosa largamente prevedibile e da molti tecnici invano prevista e segnalata per tempo.

Ma l’elenco delle 28 opere sarà comunque utile: farà partire molti cantieri (soprattutto in vicinanza di elezioni), per i quali poi non ci saranno i soldi per finire le opere, che si trascineranno per tempi biblici. Niente di male: l’obiettivo è aprire i cantieri, non finire le opere. L’orizzonte del consenso politico non supera certo la durata (residua) di una legislatura, e moltissime hanno durate superiori anche se realizzate secondo programma.

C’è una razionalità di fondo in questa follia: il funzionamento degli appalti nelle opere civili. La concorrenza funziona pochissimo e non solo in Italia: gran parte delle risorse devono essere reperite in loco (macchinari, cemento, inerti, parte della mano d’opera). Quindi vincono quasi sempre imprese nazionali, che in buona quota poi si servono di imprese locali. Quindi le opere civili sono uno dei pochi strumenti con cui lo stato può finanziare le imprese nazionali e locali. Poi succede a volte che le imprese manifestino gratitudine, che in sé è un sentimento virtuoso.

Purtroppo poi il settore è anche particolarmente afflitto dalla presenza della malavita organizzata, sempre a causa della scarsa competizione possibile e del diffuso intreccio politica-affari che ne segue. Malinconico ma non inspiegabile, per le ragioni sopra illustrate, il pieno supporto dato dal Pd e anche da Di Pietro a questa logica di spesa. La foglia di fico della contrarietà all’inutile Ponte di Messina del Pd infatti nasconde l’assenso a tutto il resto, spesso ancora più inutile e costoso.

Per finire, tre accorate raccomandazioni: 1) dare un minimo di dati comparativi, per rincuorare i pagatori delle opere. 2) Tener conto che il traffico è prevalentemente di breve distanza, che si serve assai meglio con le “piccole opere” locali e con la manutenzione, che generano tra l’altro più occupazione in tempi più brevi, a parità di spesa. 3) Infine, partire coi cantieri solo quando tutti i soldi necessari a finire l’opera sono allocati e “congelati”. Lo “stop and go” infinito dei cantieri è micidiale sul piano sia dei costi che della funzionalità, come troppe esperienze passate hanno mostrato.

Tempio dello shopping, paradiso del consumo todo modo. L’outlet è la terra promessa dello sconto. La vetrina del lusso democratico, dell’esclusività che non esclude.

Una medina del tempo libero nel senso più autentico del termine, quello di città oasi, di rifugio di mercanti, di location suggestiva. Queste cittadelle consacrate alle divinità del mercato sono la nuova Mecca del desiderio dove i pellegrini del look compiono il loro cammino rituale per ottenere la grazia di un guardaroba griffato senza doversi svenare. È la versione consumistica dell’indulgenza. E a concederla sono i capricciosi numi della domanda e dell’offerta.

Gli outlet che stanno cambiando la geografia dello stivale, dalle Alpi alle Madonie, sono in realtà dei set multifunzione che mescolano passato e presente, realtà e fiction, turismo e affari, socialità e divertimento. Più glamour dei normali ipermercati, questi santuari del superfluo che diventa indispensabile sono l’ultima generazione dei parchi a tema. Figli pentiti dei non-luoghi, hanno trasformato il vuoto dei padri in un pieno straripante. E sono diventati iperluoghi. Zippati di attrazioni, di occasioni, di sollecitazioni, di tentazioni. E di relazioni.

Come suggerisce la parola stessa. Che ha una serie di significati che vanno molto al di là del centro commerciale. Perché in inglese outlet, prima di indicare in senso figurato uno spaccio, è una canaletta elettrica, ovvero uno snodo fatto di collegamenti e di passaggi, di uscite e di entrate, un luogo di contatti e di connessioni, un alternatore di correnti, un trasformatore di energia. Basta riflettere su questo significato perché l’analogia con l’antica agorà si accenda come una lampadina. Erano proprio la concentrazione e l’interconnessione spaziale tra flussi economici, sociali e religiosi a fare del centro della polis un iperluogo. Dove si poteva trovare di tutto, dal tempio al mercato, dai rapporti umani ai contatti politici. Ma anche trascorrere il tempo libero, andare a teatro, godersi lo spettacolo dei prestigiatori e dei ciarlatani, ascoltare i citaredi di strada, interrogare gli oracoli. Una forma sociale che si rifletteva in una forma spaziale e viceversa. L’agorà era l’outlet della democrazia nascente. Mentre gli outlet sono le agorà della democrazia mutante. E riflettono nella loro struttura paradossale, nella loro architettura iperreale, nella loro urbanistica da Luna park, le metamorfosi della cittadinanza globale.

E del resto la stessa parola spaccio ha in sé l’idea della connessione, dell’in ma anche dell’out, mittente e insieme destinatario, in quanto deriva da dispaccio, nel senso di spedizione. Come dire che comprare non è solo portar via qualcosa. E che nella merce si nasconde sempre una relazione incarnata. Anche nel più anonimo degli acquisti c’è un rapporto con l’altro, perfino quando quest’altro non è che l’ombra del nostro desiderio, il Narciso che è in noi. Non a caso nelle lingue indoeuropee i verbi dare e ricevere, che sembrerebbero opposti, hanno la stessa radice do. Lo provano espressioni apparentemente contraddittorie come dare un ricevimento. In altri termini, dare è sempre anche prendere, ovvero un rapporto a due. O più.

Questo valore arcano della merce, di ogni merce, che è la traccia dell’altro, la sua ammirazione, la sua invidia, il timore del suo sguardo che ci giudica, insomma la reciprocità del vedere e dell’esser visti, celebra negli outlet le sue liturgie. Come fa da sempre ogni rito che si costruisce spazi sacri a sua immagine e somiglianza, i templi più adatti a custodire lo scintillio dei suoi idoli.

Ecco perché in questi sancta sanctorum dell’opulenza la fantasmagoria delle merci, per dirla con Walter Benjamin, si manifesta oggi in una sorta di ipertrofia della riproducibilità tecnica, in una clonazione miniaturizzata del mondo, in una mimesi generalizzata che è di fatto una presa di possesso dell’intera realtà. Ridotta a mercato o meglio trasformata in un immenso ipermercato sceneggiato. Borghi rinascimentali, paesini appenninici, città d’arte, siti archeologici, villaggi che sembrano fatti con il Lego. E addirittura cittadine stile rinascimento veneziano con piazze, portici e barchesse, come quelle delle ville palladiane del Brenta. Ogni particolare replicato alla perfezione per offrire ai clienti un incentivo ludico ai loro acquisti. Così l’economia diventa forma mentis e allarga sempre più i confini della merce ma in compenso restringe sempre più quelli del mondo. Fino a farli coincidere. Ingigantimento e miniaturizzazione, lo dice Lévi-Strauss, sono i procedimenti del mito e del rituale che costruiscono modelli ridotti della realtà e con pezzi di realtà, facendone una scena illusionistica, un come se, un bricolage da pop art. Non diverso da quello che fa l’arte contemporanea che non a caso è spesso indistinguibile dalla merce.

Ecco perché queste acropoli dello sconto non sono semplicemente luoghi di transito di una folla solitaria di consumatori "shopaholici". Sono tutto il contrario dei non-luoghi, ammesso che i non luoghi siano mai veramente esistiti e non siano invece la svista di uno sguardo sociologico volto più al passato che al presente. No, gli outlet, che ci piaccia o no, sono più che luoghi. Siti ad alta densità simbolica che ci costringono a rimettere in questione le nostre categorie spaziali. I confini fra dentro e fuori e soprattutto tra centri e periferie. Sono i poli della topografia dello spazio sociale che accompagna la mutazione antropologica del nostro tempo. Nuovi trasformatori di relazioni economiche, ma anche generatori di correnti antropologiche. Queste risparmiopoli suntuarie sono figlie del low cost ma non solo. In realtà riflettono un cambio di scena della modernità, sono un sintomo di quella tendenza alla delocalizzazione, delle imprese, delle persone e anche dei luoghi, che attraversa economia e società. E soffia sul pianeta come un vento nomade, come l’alito irresistibile di un Eolo dei mercati alla ricerca di terre promesse. In realtà gli outlet sono l’effetto di una delocalizzazione della storia, che si trasferisce fuori porta dove i costi sono più bassi. E avvia un turn over epocale destinato a fare delle periferie di oggi i centri di domani.

Non a caso queste disneyworld del fasto attraggono milioni di visitatori. C’è chi ci va per una gita domenicale. Chi per accompagnare i bambini – tra un acquisto e l’altro – a passeggiare nelle strade della Roma imperiale, tra fori e suburra, tra cashmere e porchetta. Ma c’è anche chi va all’outlet per passare una giornata diversa, per incontrarsi con gli amici, per riempire il vuoto del tempo libero. Mille ragioni individuali per quello che è diventato un rito di massa che sta riscrivendo usi e consumi del paese, ma anche le sue mappe. Trasformando spazi residuali, luoghi di transito, no men’s land, come gli svincoli autostradali, le adiacenze degli aeroporti, le aree industriali dismesse in altrettante Bengodi della griffe. Nate da un disegno a tavolino. Dove funzioni e passioni, desideri e sogni sono già immaginati nel progetto. L’outlet è la città del sole dell’umanità interinale. L’utopia realizzata a pochi chilometri da casa.

Nota: naturalmente, per chi se li fosse persi o dimenticati, il riferimento è agli articoli sull'emergere degli outlet village comparsi in questo sito cinque o sei anni fa, e ancora disponibili

Nonostante la crisi Autostrade per l'Italia continua a produrre utili, grazie all'aumento delle tariffe e ai sistemi telematici di pagamento. Ma che non mantiene le promesse sugli investimenti fatte al momento della privatizzazione. Radiografia di un gruppo privato molto vicino al potere politico

Un agile libretto scaricabile dal sito di Autostrade per l’Italia, espone il punto di vista della società sui risultati e di numeri a dieci anni dalla privatizzazione (1) , da cui è bene partire per analizzare i dati odierni strettamente legati alla sua storia recente.

Autostrade per l’Italia gestisce oggi (direttamente e con le sue controllate) 3.400 km di rete italiana, ed è presente in India, Brasile, Cile, Usa e Polonia, con circa 900 km di autostrade a pedaggio grazie ad acquisizioni avviate nel 2005. Circa cinque milioni di viaggiatori utilizzano ogni giorno la sua rete e nonostante sia nata per “accorciare” l’Italia, in realtà oggi il 60% degli utenti ed il 48% delle merci non fa più di 50 km per ogni viaggio (2).

Gestisce anche una serie di società di servizi tra cui Spea (primaria società di progettazione) e Pavimental (manutenzione e pavimentazioni autostradali ed aeroportuali). Detiene anche dal 2005 una partecipazione non consolidata del 33,3% nella Igli, la finanziaria di Impregilo, operazione effettuata come ha dichiarato per prestare “soccorso finanziario del gruppo Impregilo, primo General Contractor in Italia”.

A sua volta Autostrade per l’Italia è di proprietà al 100% di Atlantia, la holding autostradale di proprietà del gruppo Benetton, che ne detiene il 39,03% attraverso Sintonia S.A. Quindi al termine dei diversi processi di riorganizzazione legati alla privatizzazione prima ed alla scalata poi (con l’offerta pubblica di acquisto lanciata dalla famiglia Benetton), Atlantia è la holding strategica e Autostrade per l’Italia è la società operativa, che hanno lo stesso presidente, Fabio Cerchiai, e lo stesso amministratore delegato, Giovanni Castellucci. Complessivamente lavorano nelle diverse attività e società di Atlantia circa 10.000 dipendenti.

Prima di passare ai numeri e risultati della società Atlantia va rammentato che il processo di privatizzazione è stato lungo e pieno di polemiche. Non solo per le modalità di privatizzazione avviate dal governo Prodi nel 1997 di una rete fondamentale per il paese data in concessione ai privati fino al 2038, ma anche per il debole sistema di regolazione che è stato adottato successivamente e che il governo Berlusconi ha definitivamente affondato nel 2008 con l’approvazione per legge della Convenzione unica. Dieci di dibattito politico, istituzionale ed economico, dove va riconosciuto che sono di sicuro Atlantia/Autostrade per l’Italia che hanno vinto e piegato ogni resistenza, in cambio della promessa di mirabolanti investimenti autostradali per 25 miliardi di euro nei prossimi anni.

La Convenzione unica tra Anas ed Autostrade venne sottoscritta il 12 ottobre 2007 (quindi durante il governo Prodi con ministro Di Pietro), ma è diventata operativa solo dopo una forzata approvazione “per legge” grazie alla conversione del decreto legge 59/2008 del governo Berlusconi e della maggioranza di centrodestra in parlamento. La nuova Convenzione elimina il price cap, cioè il sistema che legava (se pur in misura debole) le tariffe alla verifica puntuale della qualità del servizio all’utenza sulla base di precisi parametri. Introduce l’adeguamento automatico annuale delle tariffe fino al 2038 riconoscendo il 70% dell’inflazione reale, slegandole dagli investimenti reali e dalla qualità del servizio (anzi per ulteriori investimenti sono previsti ulteriori adeguamenti tariffari aggiuntivi) e stabilisce un sistema di sanzioni e penali per il rispetto degli impegni.

Anche l’Unione Europea si è resa complice di questa regolazione “debole”, dato che, in tempi di crisi e bisognosa di investimenti privati, è stata disposta ad accettare proroghe delle concessioni anche se in contrasto con le direttive, ed è anche intervenuta aprendo una procedura d’infrazione per evitare “discriminazioni” verso il soggetto privato Autostrade da parte dello stato Italiano, come viene naturalmente sottolineato nel libretto edito dalla società.

Richiamo questa storia sia per rinviare ogni approfondimento al bel libro di Giorgio Ragazzi I Signori delle Autostrade (3) e sia perché come vedremo ha riflessi leggibili sul bilancio di Atlantia S.p.A., con gli aumenti tariffari, i dati di traffico, l’indebitamento, la spesa per investimenti, l’utile netto.

Se analizziamo i dati dell’esercizio 2009 di Atlantia (4) approvati nel bilancio consolidato 2009 (v) emerge che nel 2009, nonostante la crisi economica il traffico complessivo sia rimasto stazionario (-0,13% rispetto al 2008) pur in presenza di un cambiamento qualitativo: crescono le automobili e calano in modo significativo i veicoli per il trasporto merci (-7,1%) legati alla congiuntura economica negativa. In termini di ricavi da traffico del gruppo Autostrade questo ha fatto registrare una diminuzione di 1,2% rispetto al 2008.

I ricavi netti da pedaggio di Atlantia nel 2009 sono stati 2.946,4 milioni di euro e presentano un incremento rispetto al 2008 del 3,6% (103,4 mln), determinati dall’incremento del 2,4% delle tariffe scattate dal 1 maggio (circa 20 mln), dall’incremento del canone dei concessione per Anas stabilito con norma (6) che la società ha ribaltato sugli utenti (82,3 mln di euro di ricavi) e dalle variazioni di traffico, in particolare con il calo sulle autostrade polacche ed il consolidamento su quelle cilene.

Complessivamente i ricavi consolidati di Atlantia si attestano nel 2009 a 3.611 milioni di euro con un incremento del 3,9% rispetto al 2008 pari a + 133,9 milioni di euro. Oltre ai ricavi da pedaggio già sopraindicati sono registrati sul bilancio 2009 altri ricavi per lavori su ordinazione (50,2 mln) e 604 mln di ricavi derivanti principalmente da royalties per subconcessioni e ricavi da canoni Telepass e Viacard.

Scrive Atlantia nella relazione che se si valutano le variazioni del perimetro di consolidamento e l’ incremento del canone di concessione destinato ad Anas (ribaltato sugli utenti), facendo un raffronto su base omogenea, la crescita dei ricavi nel 2009 si attesta sull’1%.

I costi operativi netti di Atlantia ammontano a 1.406,3 milioni di euro e si incrementano di 44,8 mln rispetto al 2008, pari a + 3,3%, dovuto al risultato tra minori costi operativi esterni e maggiori unità lavorative e dell’incremento secondo il nuovo contratto del costo medio del lavoro.

Il margine operativo lordo (rapporto costi/ricavi) nel 2009 è stato pari a 2.204 milioni di euro, in aumento calcolato su base omogenea del 3,7%. Sulla pubblicazione di Autostrade per l’Italia viene sottolineato con grande enfasi il miglioramento della redditività del gruppo che dal 1999 al 2009 raddoppia il Mol, passando da 1.037 milioni di euro a 2.204 mln. Questo risultato è stato ottenuto dalla somma di diversi fattori: +336 mln dovuti ad un incremento dell’efficienza operativa (ad esempio: meno caselli con operatore e più caselli con Telepass, con oltre il 74% dei pagamenti che avviene con modalità automatiche), +236 mln da sviluppo delle attività accessorie (subconcessioni aree di servizio, canone Telepass), +286 mln da aumenti tariffari ( al netto degli incrementi dei canoni di concessione ad Anas), +166 mln da incremento del traffico che ha generato nuovi ricavi.

E’ lo stesso documento che chiarisce che le tariffe in questi dieci anni sono cresciute come l’inflazione: ponendo nel 2000 un indice 100, nel 2009 tariffe autostradali ed inflazione si attestano a 121,8. Potrebbe sembrare un dato equilibrato ma se calcoliamo che le tariffe fino al 2008 dovevano servire anche a pagare investimenti che in buona parte sono ancora da fare, gli incrementi si sono trasformati soprattutto in utili per la società, passati da 300 mln del 1999, a 503 mln del 2002, a 803 mln del 2005, per poi arretrare lievemente, sia a causa della crisi economica, delle operazioni finanziarie effettuate, e per il fatto che alcuni investimenti come la Variante di Valico sono davvero partiti e quindi sono aumentati ammortamenti ed oneri finanziari.

Nel bilancio 2009 l’utile netto di Atlantia è stato pari a 690,7 milioni di euro con una flessione del 6% rispetto al 2008, quando l’utile si era attestato su 734,8 milioni di euro, scontando svalutazioni nette pari a 85 milioni di euro. Di queste - a quanto si può dedurre dalla relazione - ben 67,4 milioni di euro sono state perdite dovute alla riduzione di valore della partecipazione in Igli, e cioè l’operazione di salvataggio verso la società Impregilo, sostenuta da Autostrade insieme al gruppo Ligresti ed al gruppo Gavio in modo paritetico. Il 12 giugno 2010 Autostrade ha siglato un accordo con Ligresti e Gavio per il rinnovo del patto parasociale in Igli fissato fino al 31 luglio 2012. Va inoltre ricordato che Atlantia ha una partecipazione significativa pari all’ 8,85% della nuova Alitalia di Colaninno.

Il patrimonio netto di Atlantia nel 2009 è stato pari a 3.865,2 milioni di euro, con un incremento rispetto al 2008 di 249,7 milioni di euro. Elevatissimo l’indebitamento finanziario netto del gruppo che al 31 dicembre 2009 ammontava a 10.372,1 milioni di euro, con un aumento di 617,3 milioni di euro rispetto al 2008, che nella relazione viene motivato con un aumento del perimetro delle attività (partecipazione gruppo itinere) e con la realizzazione di maggiori investimenti sulla rete. Ma è noto che questo forte indebitamento è dovuto al prezzo pagato per la scalata di Autostrade con il lancio nel 2002 dell’opa da parte di Schemaventotto (azionisti Benetton con il 60%, Cassa di risparmio Torino, Acesa, Unicredit, Assicurazioni Generali, Brisa), costato 7 miliardi e poi in buona parte trasferito nella riorganizzazione societaria da Atlantia su Autostrade per l’Italia. Scalata che è stata oggetto di forti critiche perché avvenuta senza l’esborso di capitali propri e interamente a debito da ripianare con i futuri ricavi da pedaggio, grazie alle regole particolarmente favorevoli di adeguamento tariffario e di convenzione. (vedi nota ìì – pag. 117). Ma resta comunque difficile da comprendere come il gruppo riuscirà a ridurre in maniera significativa il debito nei prossimi anni, vista l’evidente frenata dell’economia, del Pil e quindi del traffico.

Il 3 agosto 2010 il Consiglio di Amministrazione di Atlantia ha approvato la relazione finanziaria semestrale al 30 giugno 2010 (vii) dove grazie agli aumenti tariffari scattati dal 1 gennaio i conti migliorano decisamente. Si sottolinea che il confronto è relativo allo stesso semestre del 2009 dove la crisi economica è stata più pesante del 2010.

I ricavi totali nei primi sei mesi del 2010 ammontano a 1.778 mln e si incrementano del 10, 3% mentre i ricavi netti da pedaggio sono stati 1.472,5 con un incremento complessivo di 174,6 mln di euro, pari al 13,5%. La relazione spiega che questi incrementi sono legati ad una lieve ripresa del traffico (+0,6%) in particolare di quello pesante, agli aumenti tariffari scattati sia nel 2009 che nel gennaio 2010 (2,4% ogni anno che hanno portato ben 75 mln circa di ricavi in più nel semestre) ed all’incremento di pedaggio per pagare l’incremento del canone di concessione dovuto ad Anas e ribaltato sugli utenti, che ha fatto incassare altri 92,6 mln. Il Margine Operativo Lordo è stato pari a 1.077 milioni di euro con una crescita su base omogenea rispetto al semestre 2009 del 9,5% e l’utile netto si è attestato a 310 mln, con un incremento del 5,5%. Possiamo dire che nel primo semestre del 2010 i conti di Atlantia migliorano sostanzialmente grazie agli incrementi tariffari automatici assicurati dalla Convenzione unica e quindi sono pagati dagli utenti.

Uno dei temi sempre oggetto di confronto istituzionale e polemica politica sono gli investimenti che la società Autostrade si è impegnata fin dal 1997 a realizzare. Il documento sul decennio dalla privatizzazione di Autostrade riassume tutti gli impegni pari a 21,9 miliardi di euro ed il loro stato di attuazione al 31 dicembre 2009, così ripartiti:

- nella Convenzione del 1997 erano previsti investimenti per 3,5 miliardi di euro, i cui costi sono oggi lievitati a 6,5 mld e di cui ne sono stati realizzati 3,1 mld. Tra le opere in corso vi è la nota Variante di Valico Bologna-Firenze che dovrebbe essere già stata conclusa secondo la convenzione da tempo 


- gli interventi inseriti nel IV atto aggiuntivo alla Convenzione nel 2002 prevedevano opere per 4,4 miliardi di euro, il cui costo oggi è lievitato a 7 mld e di cui sono realizzati, 0,9 miliardi. Tra le opere principali previste c’è il passante di Genova su cui è stato svolto un dibattimento pubblico sulla utilità e sugli impatti ambientali dell’opera


- anche la Convenzione del 1997 prevede nuovi investimenti per circa 5 miliardi, per interventi di 3°e 4° corsie da realizzare nel decennio 2008-2018


- infine vi sono gli interventi previsti dalle società controllate tra cui la SAT titolare dell’Autostrada della Maremma, con impegni previsti per 1,3 miliardi e realizzati per 0,8 mld. 


Da un agile conto complessivo emerge che gli investimenti che Autostrade avrebbe dovuto realizzare ammontano a 21,9 miliardi di euro: a fine 2009 ne sono stati realizzati solo 5,1 miliardi di euro, circa un quarto. Debito da abbattere, investimenti da realizzare: per queste ragioni la società ha esercitato ogni pressione ed ha ottenuto dall’Anas, dai decisori pubblici e dalla politica di svincolare l’aumento delle tariffe dalla realizzazione effettiva degli investimenti.

Per inciso va sottolineato che da sola l’Autostrada della Maremma della Sat costa 3,8 miliardi di euro ma al momento gli impegni contrattualizzati sono per realizzare 4 km tra Rosignano e San Pietro in Palazzi per 45 milioni di costo. Mentre sul resto dell’autostrada dopo le prescrizioni del Cipe (che ha imposto un valore di subentro per lo Stato pari a zero), le prescrizioni ambientali della Commissione di valutazione di impatto ambientale sul progetto preliminare e la discussione ancora aperta con enti locali ed associazioni ambientaliste sull’impatto dell’opera, la stessa Sat ha annunciato di voler modificare il tracciato, per utilizzare anche nel tratto Grosseto-Civitavecchia l’attuale tracciato del’Aurelia, al fine risparmiare risorse per l’investimento che dovrebbe in questo modo aggirarsi su 2,2 miliardi di euro. Staremo a vedere.

Abbiamo sempre criticato come ambientalisti le attuali regole dove sono le concessionarie a fare la politica dei trasporti in Italia, con programmi per nuove autostrade, terze e quarte corsie, condizionando la politica, i ministri per le infrastrutture, i governi nazionali , regionali e locali, tanto più in tempi difficili per le scarse risorse pubbliche. In questo modo le autostrade si autoriproducono e prosegue la corsa alla crescita del traffico motorizzato.

Il gruppo Autostrade nel documento ( vedi nota (1) – pag.44) fa anche il punto sulla strategia generale di sviluppo in Italia, dichiarando che a causa delle difficoltà autorizzative e della mancanza di risorse pubbliche è stata costretta ad “abbandonare molti progetti ( per esempio Brebemi, Pedemontana Lombarda, Arcea Lazio, Nuova Romea).” E’ un’affermazione davvero spudorata, basti pensare che nel caso di Brebemi, dopo aver messo in piedi un’Ati (associaizone temporanea di imprese) e vinto la gara per la concessione, ottenuto tutte le autorizzazioni e la convenzione in project financing, ha deciso di uscire dalla società quando i cantieri stavano per partire e di concentrarsi sulla quarta corsia Milano-Bergamo-Brescia della sua rete. Una scelta strategica prudente e precisa, certo senza costrizioni e che tiene evidentemente conto del livello di indebitamento e dei tanti impegni ancora da attuare per gli investimenti sulla propria rete.

Va anche detto che la società ha sviluppato a partire dagli anni 90 anche sistemi tecnologici avanzati come il Telepass, che gli ha consentito sia di migliorare il servizio all’utenza e sia di promuovere in altri paesi questa nuova tecnologia. Anche sul fronte sicurezza sono stati fatti, con l’introduzione del tutor istallato su 2200 km di rete, ottimi passi in avanti: dal 1990 al 2009 il tasso di mortalità è passato da 1,14 a 0,32 con una riduzione del 72%. Qualche timido tentativo di innovazione si registra anche sul fronte dei servizi all’utenza, con la promozione del Car Pooling sull’autostrada Milano-Laghi, lanciato qualche mese fa da Autostrade per risparmiare traffico ed inquinamento e di cui sarebbe interessante conoscere i primi risultati.

L’aumento di valore della società è partito dopo la sua privatizzazione con un valore per ogni azione pari a circa 7 euro per poi crescere costantemente fino al novembre 2007 quando Atlantia ha raggiunto in Borsa il valore di 27,2 euro per azione. Poi con la crisi economica internazionale anche il suo valore si è drasticamente ridimensionato toccando i minimi ( circa 10 euro per azione) nel marzo 2009, per poi risalire lentamente ed attualmente posizionarsi su circa 15 euro per azione.

Stranamente ( ma non troppo) nel documento di bilancio decennale non si fa cenno alla mancata fusione con Abertis, progetto di assoluta rilevanza presentato dalla società nel 2006 e fermato dal governo Prodi, perché invece di essere una fusione che valorizzava un asset fondamentale del Paese, si configurava come una svendita della società. Secondo quanto ha detto l'ammnistratore delegato Castellucci in un'intervista, si è trattato di un progetto fermato “illegittimamente” ma poi lo stesso Castellucci conclude l’intervista (8) dichiarando che “eravamo un’azienda forte prima, lo siamo ancora di più oggi”.

(1) Autostrade per l’Italia. Autostrade a dieci anni dalla privatizzazione. Fatti, numeri e risultati. Aprile 2010.

(2) Le percorrenze sulla rete Autostrade per l’Italia. Studio che analizza i comportamenti di viaggio in autostrada, anno 2007. A cura di Autostrade per l’Italia (maggio 2008)

(3) Giorgio Ragazzi. I Signori delle Autostrade. Edizioni Il Mulino, Studi e Ricerche, 2008

(4) Atlantia. Relazione Finanziaria Annuale 2009.

(5) Atlantia. Comunicato stampa: Approvati il bilancio consolidato 2009 ed il progetto di bilancio dell’esercizio 2009. 5 marzo 2010

(6) Legge 3 agosto 2009 n. 102, di conversione del DL 78/2009

(7) Atlantia. Comunicato Stampa. Approvata la relazione finanziaria consolidata semestrale al 30 giugno 2010, redatta in conformità all’IFRIC 12

(8) La Repubblica. Affari&Finanza. Castellucci: “Ecco perché guadagniamo”. Parla l’amministratore delegato di Atlantia:”Siamo efficienti”. 14 dicembre 2009.

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