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Nel 2009 la Regione Puglia, come altre regioni italiane, ha subito l’imposizione del governo centrale di doversi dotarsi entro 90 gg. del cosiddetto “piano Casa”, quale misura straordinaria anti crisi economica.

Con il primo “Piano Casa”, la Puglia ha colto l’opportunità della legge per promuovere l’edilizia sostenibile, rispettare le tutele del territorio, garantire l’accessibilità ai disabili, prevenire il rischio sismico. In quella occasione, fu ascoltato il partenariato istituzionale ed economico-sociale, che condivise il principio ispiratore e avanzò proposte migliorative. Anche il Consiglio Regionale l’approvò all’unanimità. Oggi a tre mesi dalla scadenza dei termini per la presentazione delle istanze, quando è palese il fallimento del Piano casa, la Giunta Regionale della Puglia approva uno schema di disegno di legge che modifica quel “Piano Casa”. Ci pare strano che solo ora, dopo quasi ventiquattro mesi di vigenza, si rilevano alcune criticità di tipo interpretativo, alcuni vincoli dimensionali e burocratici della legge regionale. Si vuole recuperare il tempo perduto, ampliando le maglie della legge e prorogando i termini straordinari al 31 dicembre 2011?

Il “nuovo” Piano Casa della Puglia prevede l’aumento della volumetria complessiva, gli interventi di ampliamento da 200 mc. a 300 mc. ed un aumento del volume massimo degli edifici residenziali da 1000 mc. a 1500 mc, privilegiando così gli alloggi più grandi. Per quanto concerne gli interventi di demolizione/ricostruzione è stata ridotta la percentuale di residenza degli edifici esistenti dal 75% al 50%: così si agevolano gli usi non abitativi e salta anche la norma che impediva i cambi di destinazione d’uso. Si consideri il paradosso: gli interventi saranno realizzati con una semplice DIA, ma dovranno avere un punteggio 2 per ottenere la certificazione di sostenibilità ambientale, ai sensi della LR 13/2008 (Norme per l’abitare sostenibile). Gli edifici esistenti, non dovranno essere già accatastati, ma lo si potrà fare anche prima di presentare l’istanza; si ammettono anche gli edifici per quali è stata rilasciata la sanatoria edilizia straordinaria e si semplifica la valutazione antisismica. Non è stato per fortuna, ancora, modificato l’art. 6 che prevede una serie di aree di esclusione dall’attività edilizia (beni culturali e paesaggistici, naturali e ambiti di alta pericolosità idrogeologica) ed in aggiunta le ulteriori aree che potevano essere individuate entro 60 gg dai comuni. Ma, come abbiamo sottolineato già nel 2009 sarà massacrata “l’architettura rurale” in nome dell’edilizia sostenibile, perché in Puglia non c’è ancora una legge che la tutela. Un’ulteriore norma che si trova già all’articolo 9 è tesa a modificare la LR 21/2008 (Norme per la rigenerazione urbana), per permettere di delocalizzare i volumi “incongrui” in aree vincolate, che possono essere spostati in aree previste dagli strumenti urbanistici, con demolizione e ripristino delle aree di sedime.

Le associazioni ambientaliste della Puglia rigettano questo “nuovo” Piano Casa che è frutto delle “lobby del cemento” costituita da alcuni ordini professionali, dai costruttori, dai comuni e dai consiglieri regionali filo governativi.

L'autore è Componente della Commissione Regionale Paesaggio Ambito di Brindisi, Lecce, Taranto . Qui la replica dell'assessora al territorio della regione P8blia, Angela Barbanente.

Lo chiamano l'Untore. "È un omino, piccolo, tarchiatello, stempiato, che passa quasi tutte le mattine all'Ufficio Condono Edilizio del Comune di Roma. Accede senza problemi alle stanze off limits, gli basta fare il nome del dirigente P. ed entra. Posa la sua ventiquattrore sulla scrivania del tecnico o del funzionario di cui ha bisogno, la apre, lascia sul tavolo la mazzetta e un foglietto con scritto il numero della pratica da "ungere", poi se ne va. L'ho visto io, con i miei occhi, decine e decine di volte".

Scene di straordinaria quotidianeità, al comune di Roma. A raccontarle è il testimone V., un tecnico che per undici anni ha lavorato in uno dei punti chiave del "sistema condono edilizio" della Capitale. In questi giorni viene ascoltato dalla Guardia di Finanza, nell'ambito di un'indagine su alcuni accessi abusivi al sistema informatico dell'Ufficio Condono. Dopo un fiume di denunce ed email al sindaco Alemanno, V. ha deciso di raccontare tutto a Repubblica. Un racconto sconvolgente che parte da un'affermazione netta: "Il condono edilizio è la più grande tangente che sia mai stata pagata nel Lazio".

La cupola e il tariffario

"All'interno dell'Ufficio Condono Edilizio - dice - esiste un clan, una cupola composta da alcuni inamovibili funzionari comunali e da almeno sette dipendenti di Gemma". Gemma è la società pubblico/privata che ha gestito per conto del Campidoglio le pratiche del condono fino al giugno del 2010. "Il potere di dare o rifiutare una concessione è tutto nelle mani del clan che quindi gestisce la tangente". Una tangente anomala, che pur provenendo da mille diversi rivoli finisce per riempire sempre la stessa mano. Quella del clan. Il meccanismo è molto semplice. Il cittadino deve essere spremuto ad ogni passaggio, da quando presenta la sua pratica, "i dipendenti chiedono soldi anche solo per dare il numeretto dell'eliminacode, 50 euro l'uno", a quando porta a casa la benedetta concessione.

Il problema con i condoni è sempre lo stesso: la gente pretende di mettere a posto opere che non si possono mettere a posto. Allora entra in ballo la cupola, che provvede a tutto. Basta pagare. Come in tutti i mercati organizzati, anche in questo racket esiste un tariffario. "La cifra varia a seconda dell'importanza dell'abuso e della "delicatezza" del luogo dove è stato costruito. Si va dai 5.000 ai 30.000 euro a condono, ma anche di più. Hanno offerto tangenti anche a me. Ho sempre rifiutato". Se invece la pratica è "buona", cioè sanabile, allora la si fa rimbalzare da un ufficio all'altro di Gemma finché qualcuno del Comune si avvicina al cittadino esasperato e gli dice chiaro e tondo: "La sua è una pratica difficile, si rivolga a uno studio tecnico privato", e gli passa l'indirizzo giusto. Quello di una delle solite cinque o sei "Società di sviluppo immobiliare", insomma geometri e architetti. Queste società nella migliore delle ipotesi sono "amiche" della cupola. Nella peggiore ne sono direttamente partecipate. L'Untore, per capirsi, lavora per una di queste.

I sistemi

Il pagamento della tangente è solo metà dell'opera. Perché poi bisogna saper aggiustare la pratica. E qui si entra nel campo dell'arte. In generale il sistema migliore è quello delle pratiche in bianco, buono per tutti gli abusi. "Negli ultimi giorni utili per presentare le domande, il dirigente G. si era inventato di "protocollare" alcune pratiche in bianco". Cioè dei fogli bianchi col timbro certificato del Comune ai quali aggiungere successivamente i dettagli dell'abuso. In teoria si potrebbe costruire una villa in un parco domani mattina e farla apparire condonata nel 2004. "Ancora oggi esiste un mercato di queste pratiche "pre datate". Costano 50mila euro l'una. Una notte, sotto i miei occhi ne vennero fabbricate 500".

Ma i sistemi sono anche più brutali. "Ho trovato pratiche con modelli "sbianchettati", nei quali erano state diminuite le metrature reali dell'abuso per rientrare nella sanatoria. Così si condona un appartamento di 200 metri quadrati facendolo passare per una verandina. Si possono sanare - con l'inganno - anche i "palazzi fantasma": si presenta una domanda di un abuso mai fatto corredata da una foto ad un palazzo qualunque, modificato con Photoshop, la si inoltra prima dello scadere del condono, e poi si costruisce dopo. Altre volte vengono aggiunti dei documenti nei fascicoli e, siccome non sono protocollati, gli impiegati se li passano al bar o dalle finestre".

I documenti e le prove

Il racconto di V. si fa forte di molte prove documentali. C'è la mail di un dipendente comunale che suggerisce al cittadino il solito studio tecnico privato "vista la situazione un po' burrascosa dell'ufficio". C'è la visura camerale dello Studio Tecnico S. che "incastra" un funzionario dell'Ufficio Condono: ne è il diretto proprietario. Uno di quelli col doppio lavoro. La sera in qualità di tecnici privati prendono i soldi della tangente, il giorno dopo come dipendenti comunali portano avanti la pratica. Ci sono alcuni esemplari dei suddetti modelli in bianco protocollati. Ci sono certificati di pagamento effettuati all'apparenza senza motivo, come quei 2.160.000 lire segnati su una pratica del 1986, una sorta di Gronchi rosa delle tangenti. E poi ci sono i bollettini di pagamento contraffatti, campi sportivi che cambiano dal nulla la destinazione d'uso e diventano parcheggi. Ci sono i documenti che testimoniano la pressione della direzione dell'Ufficio Condono per modificare la domanda per uno stabile di 3000 mq di una grossa società, scavalcando tutte le procedure.

"La corruzione in quegli uffici c'è dal 1995 ma ultimamente è diventata sempre più diffusa. E quanto al sindaco Alemanno, beh, è a conoscenza che ci siano pratiche manomesse e irregolari. Gemma gliel'ha scritto in più di una lettera".

Postilla

Mentre il governo si appresta a varare l’ennesima sanatoria – il decreto blocca ruspe – per i così detti abusi di necessità in Campania, comincia ad emergere nella sua devastante ampiezza il fenomeno della corruzione che alligna accanto a quello altrettanto devastante dell’abusivismo, degradando il nostro paese a livelli da quarto mondo quanto a civiltà amministrativa e capacità di governo del territorio. Il quadro che ne deriva è quello di una società ormai completamente indifferente ad ogni sistema di regole. Dal suo osservatorio privilegiato eddyburg denuncia da sempre il fenomeno dell’abusivismo che per quanto riguarda la capitale si tinge di un ulteriore gravissimo aspetto negativo, che è quello di devastare territori preziosissimi anche sotto il profilo culturale. Primo fra tutti l’Appia antica, area nominalmente a tutela integrale , soprattutto grazie alle battaglie di Antonio Cederna, dove, al contrario, le costruzioni abusive non sono mai cessate. Piscine, gazebo, capannoni, ville ampliate a dismisura anche in tempi recentissimi: esattamente sui resti archeologici di monumenti antichi secondo l’ormai intoccabile principio del “ciascuno padrone a casa propria” che ha di fatto obliterato l’art. 9 della Costituzione.

Le denunce che la Soprintendenza Archeologica ha condotto in assoluta solitudine, ma instancabilmente, in tutti questi anni, nell’indifferenza dell’Ente Parco, affaccendato su primule e poiane, non hanno mai trovato il benchè minimo riscontro presso gli uffici comunali. Cominciamo a capire perchè. (m.p.g.)

E meno male che c'è il calendario. Lì, almeno, il tempo che scorre ci segnala le date, le ricorrenze, gli anniversari, ci richiama al dovere della memoria ed anche a quello dell'impegno. Il caso dell'Aquila e del terremoto che l'ha sbriciolata due anni fa è esemplare. Ci impone di tornare con lo sguardo su quella terribile ferita aperta e mai rimarginata. Il centro storico dell'Aquila, due anni dopo, è immoto: del suo passato si rivedono intatte, come apparvero all'alba del aprile 2009, solo macerie; nel suo futuro dilaga un deserto di impegni disattesi, di promesse non mantenute, di progetti lasciati sulla carta e di sogni di rinascita raggelati da una lunga stagione di inadempienze. Un terremoto (in questo caso, ricordate? 308 morti e 1.600 feriti) per sua stessa natura travolge, distrugge, azzera. Si porta via cose e case e con queste, affetti, ricordi, strumenti di vita e di sopravvivenza. Si può inveire contro la malasorte ma anche contro la poca previdenza, la micragnosa miopia delle istituzioni, il vezzo di affidarsi sempre allo stellone che tutto protegge, là dove il rischio sismico si sapeva altissimo e dove, nel costruire, non se ne era tenuto affatto conto. O come nel caso della casa dello studente, un concentrato di dolore e di morte, di giovani vite spezzate per l'insipienza e per biechi interessi di risparmio sui materiali. O come ad Onna, rasa al suolo due volte nella sua tragica storia, prima dai nazisti in ritirata e poi dalle scosse. Rivisitati oggi quei luoghi, attirati dal dovere imposto dalla ricorrenza, constatiamo che la composta sopportazione degli abruzzesi e degli aquilani, i più colpiti, ci aveva commossi nel profondo. Era una dimostrazione palpabile di una dignità che la magnitudo non era riuscita a scalfire. Ma poi il fronte della ricostruzione, esauriti i lampi mediatici dell'emergenza delle prime settimane, ha sparpagliato la popolazione rimasta senza tetto e senza sostanze con un impegno, in verità, non riscontrato altrove, in precedenti catastrofi. Ma poi, il fronte della ricostruzione, esauriti i lampi mediatici dell'emergenza delle prime settimane, ha sparpagliato la popolazione rimasta senza tetto e senza sostanze con un impegno, in verità, non riscontrato altrove, in precedenti catastrofi. C'è ancora gente del Belice, nelle Marche, nell'Irpinia che si deve adattare a rinchiudersi nei containers! Ma l'Aquila, città d'arte e di monumenti alla storia e della storia, il suo centro, sono rimasti intatti nella loro quasi totale distruzione: il confronto tra le immagini di ieri e di oggi propone plasticamente tutto il non fatto, il lasciato stare, il caduto e il lasciato cadere. Questa ferita aperta non è stata richiusa, non è stata rimarginata. Attorno ad essa sono prosperate polemiche politiche, sindaci ondivaghi nelle minacce di dimissioni, fronti della protesta che portavano carriole vuote, simboleggianti il vuoto delle promesse mancate. Dai primi aiuti, dal pronto soccorso nazionale ed europeo dagli stanziamenti dai fondi per l'emergenza (1,2 miliardi), e da quelli della Ue (494 milioni) tutto si è dissolto in un secondo sisma, stavolta silenzioso ma non meno terrificante. Dei tanti paesi che a telecamere accese avevano promesso di inviare fondi per ricostruire monumenti frantumati dalle onde della terra solo il Kazakistan ha mantenuto l'impegno. E chi se lo sarebbe aspettato. Ciò che a due anni da quel 6 aprile dovrebbe muovere tutti a un nuovo slancio è proprio la constatazione che il molto detto e il poco fatto lasciano la ferita dell'Aquila aperta e sanguinante: una città meravigliosa destinata a soccombere per sempre sotto le proprie macerie non è un destino accettabile. E gli aquilani, è vero, possono e debbono fare da sé, ma non da soli: debbono poter pretendere senza sbandierare la loro delusa indignazione che gli aiuti promessi diventino beni utilizzabili. Altrimenti la pratica degli annunci roboanti, delle false promesse, della generosità pelosa si iscriveranno in una tutt'affatto ingloriosa tradizione italiana. E per fortuna che a distrarci dalla nostra colpevole noncuranza ci pensa una generosa (come il compenso ricevuto) comparsa, finta abruzzese, che in una trasmissione dove si simulano controversie giudiziarie si è sbracciata, sotto copione per strillare a tutti che in Abruzzo il terremoto è un lontano ricordo, che non ci sono problemi, che la gente è felice. Anche questo è un piccolo, avvelenato spaccato, di una simulazione propagandistica della realtà che ritroviamo, quasi fosse una metafora in tanti altri luoghi, in tante altre piaghe di cui il paese soffre. I rifiuti a Napoli, che ciclicamente ricoprono la città e la stringono in un assedio insopportabile, il problema degli emigranti sempre a un attimo dall'essere definitivamente risolto via via che Lampedusa viene sottoposta ad uno stress che non sarà cancellato dall'acquisto di una villa e di due palme. Dunque è il bisogno di verità che urge. E la dimostrazione che i guai si possono davvero sanare. Che le ferite si possono rimarginare. Sennò il Paese appare ed è come uno specchio rotto, del quale diviene impossibile ricomporre i pezzi per riavere una immagine limpida del vero e del falso. E da lì, ricominciare.

[…] La realtà - purtroppo molto diversa - è quella fotografata dall’indagine Microdis - l’Aquila, finanziata dalla Comunità europea e realizzata dalle università di Firenze, delle Marche e de L’Aquila. Con quindicimila contatti, si è scoperto che per il 71% degli aquilani «la comunità è morta assieme al terremoto», che il 68% vorrebbe lasciare la propria abitazione attuale, e che il 43% della popolazioni soffre di stress, una percentuale che arriva al 66% per le donne. Il 73% denuncia «una totale mancanza di posti di ritrovo per la comunità», il 50% l’assenza di servizi essenziali.

Il sindaco Massimo Cialente non è sorpreso da questi numeri. «La comunità sta morendo perché il sisma ha distrutto la città, non pezzi di città. In tanti non l’hanno capito. Se non si adottano misure eccezionali - come è successo nel primo anno, quando il governo ci è stato vicino - si commetterà un omicidio: quello di un’intera comunità. Nei primi mesi, in 65 giorni, siamo riusciti a costruire i Musp, i moduli provvisori ad uso scolastico e ad aggiustare 60 scuole. Poi il nulla. Da quando, 14 mesi fa, è stata dichiarata la fine dell’emergenza, con la partenza della Protezione civile, ci sono tanti commissari e sub commissari che però affrontano i problemi in modo "normale", senza deroghe. E così abbiamo perso 14 mesi e l’Aquila non riesce a riavere la questura e altri palazzi pubblici indispensabili, 1.200 famiglie sono ancora fuori dalle case popolari perché per avviare i lavori ci vogliono gli appalti … Io sono pronto ad assumermi la responsabilità politica, morale e anche giuridica di un colpo di acceleratore, perché se la città muore davvero, dopo potremo avere solo rimpianti. Fino ad oggi non è arrivato un euro per il rilancio economico, la ricostruzione pesante - quella vera - non è ancora partita. Io venti giorni fa mi sono dimesso, volevo che la città ricevesse una scossa. Commissari e sub commissari, a nome del governo, erano per il Comune un muro di gomma. La mia stessa maggioranza non aveva capito che la città era in agonia. Ora sono tornato in Comune perché il governo ha promesso che ci si metterà tutti attorno a un tavolo per discutere le cose da fare, con lo stesso spirito che c’era nei primi giorni. Speriamo sia vero».

Ci sono ancora i soldati, a presidiare il centro storico pieno di macerie. «Non siamo più cittadini - dice Stefania Pezzopane - ma inquilini. C’è chi pensa che città significhi un insieme di case e garage. Ma anche per chi ha un tetto - ci sono comunque 36.000 persone in attesa di tornare a casa loro - non c’è più quel "vivere assieme" che è l’essenza della città. La cosa che fa più male è che anche i giovani se ne vogliono andare via. Gli studenti del liceo Domenico Cotugno, che era a fianco del Comune, hanno detto che dopo il diploma o la laurea partiranno tutti. Ora il liceo è in periferia, vorrebbero almeno studiare in centro, al pomeriggio, anche per potersi incontrare fuori da un supermercato o dai pub di via Croce Rossa. Per loro stiamo preparando un prefabbricato, davanti alla basilica di San Bernardino».

C’erano 850 attività commerciali, nel centro storico. I negozi riaperti sono 20 in tutto. «Altri 70 potrebbero alzare la serranda - dice l’assessore Pezzopane - ma non lo fanno perché in centro non ci sono abitanti. Ormai le insegne più famose dei bar e dei negozi sono state messe nelle baracche di legno che circondano il centro ed hanno occupato ogni spazio libero. La città senza città pone problemi anche al Comune: abbiamo 26 milioni da spendere per il ripristino della rete sociale, per costruire centri per gli anziani e luoghi per i bambini ed i ragazzi. Dove li costruiamo? Nel centro senza abitanti o nelle new town piene di gente e senza nessun servizio? Dobbiamo riflettere. Se investiamo lontano dalle antiche mura, nel cuore della città potremo tornare solo per quelle che noi chiamiamo le passeggiate del dolore».

C’erano 6.000 persone, nelle «domeniche della carriole» del febbraio e marzo dell’anno scorso. Ventimila ad occupare l’autostrada a luglio. Meno di cento persone nell’ultima iniziativa dei comitati l’altra settimana, per togliere l’erba dalla scalinata di San Bernardino. «L’Aquila - dice Eugenio Carlomagno, direttore dell’Accademia di belle arti - più che sconfitta è rassegnata. Da due anni chi vuole tornare a vivere nella propria casa in centro si scontra con i ritardi, la burocrazia e l’assenza di scelte politiche. In centro sarà necessario costituire fra i 300 ed i 400 consorzi per la ricostruzione, fino ad oggi ne sono nati solo 15 e ancora oggi non sappiamo a chi presentare la domanda di finanziamento. La rassegnazione non può stupire nessuno».

Oggi il sindaco Cialente incontrerà la stampa estera a Roma, anche per ricordare gli impegni assunti dai Grandi al G8 e in gran parte non mantenuti. Chiese e monumenti «adottati» sono ancora orfani. Fra le poche eccezioni, il Giappone. Il sindaco ha inviato un messaggio al governo giapponese, per esprimere il lutto per il terremoto che ha colpito quel paese, e i giapponesi hanno ringraziato, aggiungendo che manterranno il proprio impegno di costruire - dopo la nuova sede del conservatorio - anche un nuovo palazzetto dello sport.

Massimo Casacchia, professore di psichiatria all’ateneo e responsabile dei servizi psichiatrici all’ospedale San Salvatore, conosce la tristezza della città sia come medico che come abitante di una new town. «In questi ultimi mesi stanno aumentando lo scoraggiamento, la rassegnazione, la tristezza. In termini clinici, questa si chiama depressione. Né è colpito il 40% della popolazione, forse la metà. Sono persone che hanno bisogno di colloqui con il loro medico o qui all’ospedale. Io vivo nella new town di Pagliare di Sassa. Un tetto, il caldo e nulla intorno. Se hai il tuo lavoro, te la cavi. Chi resta qui tutto il giorno non riesce a trovare un punto di incontro con gli altri, quasi tutti sconosciuti perché il terremoto è stato come una bomba che dal centro ci ha buttati in periferia e anche più lontano. Nelle frazioni invece delle new town hanno fatto i Map, moduli di abitazione provvisoria. Qui almeno hai come vicini di appartamento quelli che abitavano accanto a te, le relazioni rinascono subito. E sappiamo che il vero antidoto al disturbo e alla malattia mentale è la rete sociale». Anche nella sua new town, al tramonto, si vedono solo uomini con cani al guinzaglio.

DUE INTERVISTE

DI FRANCESCO ERBANI

Vezio De Lucia: è ora di tornare alla gestione ordinaria



"Recuperare il centro questa è la vera sfida"

Eppure è danneggiato, in alcuni casi gravemente, ma non distrutto. I crolli sono relativamente pochi

«La ricostruzione del centro storico è ancora il problema fondamentale dell’Aquila. E si può affrontare solo immaginando il suo recupero integrale. Com’era e dov’era». Vezio De Lucia è stato fra i primi urbanisti a impegnarsi attivamente dopo il sisma (insieme ad altri ha scritto Non si uccide così anche una città?).

Perché è il problema fondamentale?

«L’Aquila è disseminata in più di cinquanta frazioni e il centro era il luogo ordinatore, dove c’era tutto, le istituzioni, l’università, il commercio. Racchiudeva le identità cittadine. Questa funzione la svolgeva prima del terremoto e dovrebbe svolgerla tanto più ora che la dispersione abitativa è appesantita dalle 19 cosiddette new towns».

E invece?

«Senza centro non c’è una città, ma un agglomerato edilizio. Il centro è abbandonato. Eppure è danneggiato, in molti casi gravemente, ma non distrutto. I crolli sono relativamente pochi. È possibile intervenire con un restauro per il quale abbiamo eccellenti competenze».

Ma non si interviene. Di che cosa c’è bisogno?

«Occorre tornare a una gestione ordinaria, bandendo i commissariamenti. Tutto deve passare nelle mani dell’amministrazione comunale. Ora iniziano ad arrivare i finanziamenti. Ma fin da subito si poteva usare la disciplina prevista dal vecchio piano regolatore, mentre ci si è baloccati inventando complicazioni burocratiche che hanno sfinito la popolazione. Finalmente si è capito che non si potevano indennizzare integralmente solo le prime case, perché così non si sarebbe ricostruita neanche la metà degli edifici. Ma ci sono voluti due anni».

Federico Oliva: compromesso il futuro del territorio

"Quelle 19 new town un errore definitivo" In questo modo non si rimette in piedi il tessuto complesso di un organismo urbano

«A L’Aquila si è sbagliato tantissimo», secondo Federico Oliva, professore a Milano e presidente dell’Inu, Istituto nazionale di urbanistica. «Se si ha in mente di ricostruire una città, bisogna partire dal centro storico. Se invece si hanno altri obiettivi, si possono anche immaginare strade diverse: ma così non si rimette in piedi il tessuto complesso di un organismo urbano».

Ricostruire il centro com’era e dov’era?

«Dov’era, senz’altro. Il com’era è una questione che mi appassiona meno. Ogni epoca ha il suo linguaggio».

Lei è favorevole a introdurre edifici moderni in un contesto antico?

«Sì. Mettendo mano alla ricostruzione di un’area così vasta come il centro dell’Aquila è indispensabile. Anche se devo ammettere che non abbiamo dato buone prove in passato. Ma a L’Aquila certi condizionamenti di tipo speculativo non dovrebbero esserci, trattandosi comunque di una ricostruzione tutta affidata al pubblico. Rispettando una serie di vincoli e muovendosi delicatamente in un contesto pregiato, il moderno può convivere con l’antico».

Che errori si sono commessi a L’Aquila?

«Si è deciso per motivi politici di ricostruire subito una parte definitiva della città: i 19 nuovi insediamenti. Che sono stati localizzati senza tenere in nessun conto questioni urbanistiche, ma solo la disponibilità delle aree».

Con quali conseguenze per la città?

«È stata irreparabilmente compromessa la sua forma futura. E inoltre sono state sottratte risorse e attenzioni alla ricostruzione del centro storico. Che invece era il punto da quale partire».

Nel 2011 scade un decennio caratterizzato da due eventi, di gravità molto diversa ma entrambi luttuosi: l’attacco alle Torri gemelle e la proclamazione alla lavagna di Vespa (senza apposito plastico, tuttavia) della legge obiettivo per le Grandi opere.

Vediamo, per il secondo evento, qualche aspetto di metodo: di metodo anzi non si potrebbe parlare, trattandosi di un elenco eterogeneo di opere, di cui non è stata spiegata al volgo plaudente (e pagante) l’origine, se non come parto della benevolenza del principe. Di solito la pubblicità televisiva di un prodotto, ne illustra le qualità, in questo caso per esempio si sarebbe potuto parlare dei ridotti costi per lo Stato e/o dei rilevanti traffici serviti. Di conti, invece, neanche l’ombra.

Un aspetto emerge subito: sono quasi tutte opere per il traffico di lunga distanza (minoritario), mentre paiono assenti le città dove non solo c’è la maggior parte del traffico, ma anche i maggiori problemi ambientali e la maggior congestione che genera costi elevati a famiglie e imprese. Sconcerto iniziale nell’opposizione, che aveva tentato negli anni precedenti di fare piani di trasporto, che parlassero anche di servizi, gestione, di priorità ecc. Dopo una breve perplessità, il centrosinistra, tornato al governo, decideva che inaugurare Grandi opere, se l’inauguratore era quello giusto, andava tutto sommato bene. Il populismo costruttivo/cementizio diveniva “bipartisan”. Ma la faccia andava pur salvata. Allora si cancelli subito il Ponte sullo Stretto!

Opera costosissima e inutile al Paese (si tratta di meno del 10 per cento del costo complessivo delle Grandi opere). Sul resto silenzio, anzi, si passa “all’inseguimento”, non solo nel merito ma anche nel metodo, quindi nessuna analisi quantitativa, “terza” e comparativa, ovvia premessa per un dibattito democratico e trasparente sulle priorità di spesa pubblica. Sui soldi poi si continua a tollerare inaccettabili stime ottimistiche dei costi pubblici, proprio mentre, nel silenzio “bipartisan”, i costi dell’Alta velocità triplicano, diventando inconfrontabili con quelli dei paesi vicini. Ma certo non tutti piangono per questa esplosione (costruttori, enti locali, ambientalisti).

Passando a qualche sviluppo specifico e illuminante del dibattito comunque emerso, un tema forte riguarda la “priorità delle Grandi opere per il Sud, per lo sviluppo”. Tralasciando le molte analisi su quanto le grandi opere civili giovino, al Sud, soprattutto alla malavita organizzata, emerge ancora una volta l’assenza di numeri sia per le opere insensate del Nord che per quelle del Sud.

Meno vivace, perché tutti d’accordo, il dibattito sul tema “più ferrovie che strade, perché le ferrovie servono all’ambiente” . Peccato che l’argomento sia falso: le ferrovie in Italia soffrono di carenza di domanda, non di offerta (tre quarti della rete è sottoutilizzata). La stessa Alta velocità ha sottratto un po’ di traffico all’aereo, certo, ma i numeri sono modesti, pari ad alcuni treni Av al giorno su una capacità aggiuntiva di 300 treni/ giorno. Inoltre le emissioni di CO2 da cantiere, per costruire l’opera, sembrano essere dello stesso ordine di grandezza del CO2 risparmiato col cambio modale indotto.

Ultimo slogan“bipartisan”: i privati devono contribuire agli investimenti. Peccato che quelli ferroviari siano pozzi di denari (al più si ripagano i costi di esercizio) dove nessun privato metterebbe un euro, se non fosse garantito che alla fine lo stato paghi tutto. Il contrario per le autostrade, in buona misura pagate dagli utenti che mostrano di gradirle di più anche dei migliori servizi ferroviari. Tale distinzione non sembra però “politically correct”, per cui si parla di infrastrutture in genere e anzi ci si lamenta (verdi) dei troppi investimenti per le strade.

Alcune “perle” finali: dall’anno scorso, si possono finanziare “lotti costruttivi”, non più solo “lotti funzionali”. Si possono cioè aprire cantieri (sotto elezioni) anche se non ci saranno mai i soldi per finire le opere. Una grande priorità è stata data a opere ferroviarie inutili, come la Torino-Lione e la Napoli-Bari (basta guardare i dati di traffico ufficiali). Manca solo il tunnel Trapani-Tunisi, proposto da Cuffaro, che tuttavia non può al momento occuparsene.

Una nota finale di ottimismo: la scarsità di denari ha indotto una qualche maggior ragionevolezza. L’autostrada tirrenica, opera inutile e lesiva per l’ambiente nel progetto originario, sarà realizzata in asse con la statale Aurelia con costi molto ridotti, e la nuova linea ferroviaria Venezia-Trieste sarà costruita con interventi successivi, in funzione della crescita del traffico, oggi scarso. Speriamo che i soldi continuino a mancare, ma forse occorrerebbe sperare che cresca la razionalità e il senso civico dei decisori. “Ogni denaro pubblico sprecato è sottratto a qualche servizio sociale essenziale” è il mantra della Banca Mondiale.

Una versione estesa di questo articolo sarà pubblicata sul numero di marzo de Il giornale dell’Architettura

“Due strade si separavano nel bosco/e io ho preso la meno battuta/e questo ha cambiato ogni cosa”, scrisse il poeta Robert Frost. A Daniele Kihlgren è successo davvero, ha trovato un bivio che somigliava tanto al destino e gli ha cambiato la vita. “Ero in Abruzzo, stavo facendo un giro in moto”. La strada che si arrampica sul Gran Sasso, tra prati dove puoi incontrare cavalli lasciati liberi al pascolo con l’erba che comincia lentamente a ritrovare il verde. Decine di bivi, ogni volta il dubbio, destra o sinistra. Finché la sua moto si lascia guidare dalla discesa fiancheggiata dal rosa dei mandorli in fiore e Daniele si trova lì: “Davanti a me ho visto quella torre, le case. Mi sono detto: questo sarà il mio borgo”.

Già, perché Daniele, un ragazzone che oggi ha 44 anni, ma l’entusiasmo che vorrebbero avere i ventenni, dentro di sé aveva un sogno: “Volevo trovare un paese, ancora intatto, e riuscire a riportarlo com’era. Le case, ma anche la vita. Senza un euro di contributi pubblici”.

E quel borgo aspettava proprio lui. Era Santo Stefano di Sessanio, un grumo di case arrampicate sulle pendici del Gran Sasso. Per capire come Daniele ha realizzato il suo sogno bisogna lasciarlo parlare, con quei suoi pensieri che ricordano gli studi di filosofia e l’accento lombardo che invece ti dà un’idea di sana concretezza. Poi ci sono le origini mezze svedesi, rigore e sincerità senza ombre. Ecco, Daniele è un idealista pragmatico. Soltanto una persona così poteva far rinascere un paese coinvolgendo gli abitanti. Ma soprattutto salvandone l’identità, parola che Daniele ripete spesso, come un mantra.

Un filosofo, persona normale

Ma perché ha scelto Santo Stefano di Sessanio? Kihlgren si guarda intorno, è già una risposta: non si vedono che prati, bianchi d’inverno quando la temperatura a 1.200 metri scende a meno venti, di un giallo ineguagliabile in primavera. Poi monti: il Gran Sasso, sulle spalle ne senti l’enorme massa. E la Maiella a segnare l’alba, il Sirente dove il sole tramonta. Intorno non c’è un abitato. Di notte è solo buio.

“Comprai un rudere, poi altri. Non costavano niente”, racconta. Basta vedere le vecchie fotografie di Santo Stefano per rendersene conto. Dopo gli anni ‘50 il Borgo aveva cominciato a spopolarsi, con le bestie non ci si campava più. Era una vita dura spostarle ogni stagione, dal Gran Sasso fino al Tavoliere delle Puglie.

“Negli anni Ottanta si è cominciato a pensare al turismo”, spiega Elisabetta Leone, il sindaco di queste 120 anime. Aggiunge: “Ma ci voleva un progetto. Finché è arrivato Daniele”. Sì, in paese lo chiamano per nome. Kihlgren non ha grandi imprese alle spalle, è solo con gli abitanti del paese. Con loro si mette a ristrutturare le case che ha comprato. “Utilizziamo materiale del luogo, spesso di risulta. Niente cotto che fa chic, ma qui non c’entra. All’interno i mobili contadini risistemati”.

È lo stesso Daniele che spiega lo spirito del suo lavoro:“Non sono un architetto, ho studiato filosofia, ma sono soprattutto una persona normale”. Aggiunge: “Sarebbe straordinario riuscire a recuperare il patrimonio storico minore. In Italia ci sono 2.500 borghi abbandonati e oltre 15.000 compromessi. E noi li lasciamo andare, la storia per noi sono i grandi imperi, i monumenti solenni. Invece la vita dell’Italia è anche questa, di semplici paesi, luoghi poveri”.

Teorico, ma anche concreto: “Il recupero del patrimonio è anche un’occasione per l’economia. E alla fine la gente se ne accorge: arriva il lavoro e le case, se recuperate bene, valgono molto di più”. Con una sola condizione: “In luoghi come questi non si deve costruire più nulla. Cemento zero. In Italia continuiamo a costruire e ci sono milioni di case vuote. I costruttori devono trasformarsi in restauratori”.

Alla fine il progetto ha preso corpo: “È nato un albergo diffuso, con le stanze disseminate nelle case, così che gli ospiti potessero vivere in mezzo alla gente del paese e far rivivere il borgo”.

Camping, ristorante e cinque bambini

L'entusiasmo di Daniele è stato contagioso: lui possiede un sesto delle case di Santo Stefano, ma anche gli altri abitanti hanno cominciato a restaurare, con la stessa cura. E sono ritornati i negozi, i locali. Racconta Elisabetta Leone, il sindaco: “Abbiamo 120 abitanti, l’emorragia della popolazione si è fermata. Ma soprattutto molti di noi possono lavorare qui. La disoccupazione quasi non esiste”. Davide De Carolis è arrivato per aprire un camping. Francesca Pasquali e il suo compagno Vittorio De Felice hanno messo su il ristorante “Tra le braccia di Morfeo”. Raccontano: “Abbiamo clienti da tutto il mondo”. Tra i trentasei tavoli, vengono serviti agnello scottadito, formaggi di Castel del Monte, paccheri con la zucca. Ti capita di incontrare reali del Belgio tra i comuni visitatori. Insomma, Santo Stefano di Sessanio sta rinascendo davvero, anche se i bambini sono solo cinque, ma l’anno scorso è nata Giulia Cesare. Tutto così semplice? “Sì, si potrebbe replicare ovunque”, è convinto Kihlgren. E racconta: “Ho ricevuto 600 mail da paesi che vogliono affidarsi a noi. Ma non posso. Oggi stiamo lavorando in otto borghi e soprattutto ai Sassi di Matera. Vorrei diffondere gli alberghi diffusi, soprattutto nei borghi sconosciuti e meraviglio-si della Calabria”.

Tutti d’accordo? “A volte abbiamo paura che il nostro paese diventi un borgo per vip. Che i vecchi abitanti vendano le loro case ai turisti”, sussurra qualcuno nel bar di piazza Mediceo. Kihlgren è sicuro che non sarà così: “Noi siamo l’opposto del Chiantishire. La ricetta è semplice: identità e cura. Bisogna mantenere le costruzioni e gli arredamenti, ma anche i cibi, insomma la cultura. E soprattutto le persone”.

Una cura contro il sisma

Già, la cura è il segreto che ha salvato Santo Stefano di Sessanio dallo spopolamento e, due anni fa, anche dal terremoto. Aprile 2009: il sisma devasta l’Abruzzo, decine di paesi vengono rasi al suolo. Santo Stefano no, le case restaurate con la massima cura subiscono danni minimi. Crolla solo l’antica torre medicea. Perché? “Più di dieci anni fa – racconta Camilla Inverardi, noto architetto dell’Aquila – c’era stato un intervento pubblico per realizzare un belvedere in cima alla torre. Il legno era stato sostituito con una soletta di cemento”.

Gli antichi costruivano meglio di noi? No, secondo Daniele: “La scienza strutturale è andata avanti, l’etica, però, è tornata indietro”.

Nota: in effetti l'iniziativa di recupero abruzzese non è cosa nuova, qui su eddyburg.it parecchi anni fa abbiamo già riportato un esauriente articolo da la Repubblica (f.b.)

L'ultima è stata la Avellino-Rocchetta, chiusa a dicembre dopo il taglio dei fondi della Regione Campania. Ma la storia delle ferrovie italiane è quella di una grande dismissione. Celebrata da una giornata con passeggiate e manifestazioni. Tra amarcord, proteste e il boicottaggio di Trenitalia

Se uno avesse voluto vedere dove albergano la dignità, la sobrietà, il coraggio, la speranza nel futuro, la capacità di attingere dalla saggezza del passato, allora sarebbe dovuto andare, domenica 6 marzo, giornata nazionale delle ferrovie dimenticate, a Rapone, piccolo comune lucano dirimpettaio dell'Alta Irpinai e agli inizi del vasto comprensorio del Vulture, terra naturalisticamente e storicamente ricca. Rapone condivide con Ruvo del Monte e San Fele la piccola stazione della tratta ferroviaria Avellino-Rocchetta Sant'Antonio (Fg), dall'11 dicembre scorso chiusa da Trenitalia dopo il taglio dei fondi da parte della Regione Campania. È una delle tredici stazioni, su trentatré complessive della tratta, non soppresse, almeno fino al dicembre scorso. Adesso è iniziata, ma in realtà bisogna dire che non si è mai fermata, una lotta tutta in salita per il ripristino della linea, storico lascito di impegni iniziati nella seconda metà dell'Ottocento (la ferrovia fu poi inaugurata il 25 ottobre del 1895), che ha visto come protagonisti tanti tra cui Francesco De Sanctis (nel paese d'origine, Morra, in Alta Irpinia, c'è una delle stazioni), e Giustino Fortunato.

La giornata è stata organizzata dal gruppo "In loco motivi", che ha lavorato da un paio d'anni alla difesa di questa linea e ai tantissimi viaggi di conoscenza fatti con un pubblico attento e curioso che ha imparato a conoscere il territorio in modo del tutto diverso. È iniziata, però, con l'amarezza di aver dovuto rinunciare al treno (Trenitalia, che pure sponsorizza la giornata, ha chiesto una cifra esorbitante) e alle tante prenotazioni di un viaggio concepito anche come celebrazione del centocinquantenario dell'Unità d'Italia. Col bus gran turismo non è la stessa cosa, ma molti non hanno voluto rinunciarvi. E hanno fatto benissimo. Perché il senso di solidarietà e resistenza che si è respirato nella giornata, contro una decisione vissuta come ingiusta e impoverente per un territorio che del turismo vuol fare la sua cifra futura, ha dimostrato tutto il suo valore. Appena lasciata la stazione di Avellino, la ferrovia si costeggia, sulla rotabile, un po' da lontano e un po' da vicino.

I commenti e i racconti sono tanti. In viaggio c'è il cerimoniere, cioè Pietro Mitrione, ex ferroviere e organizzatore del gruppo degli amici della linea, impegnatissimo come sempre per la salvezza e lo sviluppo di questa creatura a cui sta dedicando tanto del suo tempo. C'è Anna Donati, ex parlamentare e storica ambientalista oltre che saltuariamente collaboratrice del nostro giornale, che ha occupato il posto di dirigente dell'Acam (Agenzia Campana per la Mobilità sostenibile) per due anni in Regione Campania ed è sempre stata molto attenta alle ferrovie, da grande "aficionada" del treno che si vanta di aver preso ovunque. C'è Valentina, architetto e studiosa della tratta, altra super impegnata nel gruppo di lavoro attorno alla Avellino-Rocchetta, che distribuisce copie del suo bel calendario «In loco motivi - Il treno irpino del paesaggio», che porta anche l'intestazione storica da non dimenticare «Il treno, non l'aereo, ha fatto l'Italia». Ricco di foto che documentano la straordinarietà di quest'opera tra ponti grandi e piccoli di mirabile fattura, belle visioni naturalistiche, passaggi da un territorio all'altro con grande varietà di natura, come si addice del resto ad una linea che attraversa tre regioni (Campania, Basilicata, Puglia). Ci sono poi tante persone che non hanno voluto rinunciare al viaggio per sostenere una battaglia che soltanto i miseri tifosi di un vecchio modello di sviluppo possono ritenere nostalgica.

È in realtà una battaglia d'avanguardia, di chi vuole testardamente dare un futuro diverso a se stesso e ai propri figli. Un futuro ricco di possibilità, di conoscenza, persino di apertura a mondi nuovi. C'è poi Simona, studentessa che deve mettere in piedi la tesi di laurea sulla tratta, ed è più gasata che mai. Il tempo non è bello, fa freddo, c'è nebbia e ogni tanto riprende a piovere. Ma, all'arrivo a Rapone, tutto cambia e il tempo inclemente diventa del tutto secondario, a riprova che la fiducia delle persone nel futuro può muovere qualsiasi ostacolo. In piazza e davanti al Municipio c'è una festa coloratissima fatta di curiosità, banda musicale, gruppo folk, straordinari piatti della tradizione più antica (diciamo un superamento a sinistra del biologico tipico), soprattutto tantissime donne tra i musicisti e le persone accorse. A partire dalla vitale sindachessa, Felicetta Lorenzo, che ha accolto tutti con garbo e gioia e ha iniziato un discorso che si vorrebbe sentire in ogni borgo d'Italia di questi tempi. «Bisogna dare dignità alle ferrovie minori. La nostra è stata da poco sospesa, ma adesso occorre lanciare la sfida delle tratte come patrimonio nazionale. Non solo per i viaggi ma per godersi quello che oggi è un lusso, cioè il tempo. E io invito tutti a guardare dalla nostra ferrovia le bellezze discrete del nostro paesaggio». Anna Donati prende la parola: «Sono qui perché sono un'amante delle ferrovie. In questi anni, in cui c'era lo sport di dismettere, abbiamo vinto una battaglia, perché adesso è molto difficile che non ci sia una sensibilità nuova anche da parte dei vertici delle ferrovie sulle tratte dismesse. Per due anni ho fatto il dirigente della mobilità in Regione Campania e quando mi giunse la telefonata degli amici della Avellino-Rocchetta immediatamente li ho invitati. Avevo già visto in Sardegna, in Val d'Orcia e altrove il grande successo avuto dai treni delle tratte paesaggistiche. Ed è del tutto spiegabile: viviamo un tempo in cui davvero non se ne può più del degrado ambientale. Qui c'è cibo genuino, aria salutare e tante altre cose, cioè tutto ciò che può fare il successo come altrove. Purtroppo la manovra Tremonti ha tagliato i servizi per i trasporti e per questo la nuova direzione politica della Regione ha chiuso questa linea». «Che fare adesso? - riprende Donati - Certo tutti dicono di sì a questa tratta, ma non sono sufficienti le parole. Bisogna mettersi insieme con la consapevolezza che tutte le ferrovie sono sostenute, in tutto il mondo. Queste strutture poi sono un patrimonio in sé. E, del resto, quanti territori in Italia, apparentemente abbandonati, oggi sperimentano proprio su quel presunto abbandono la loro fortuna? Importante è adesso strappare un piccolo, concreto, impegno nei luoghi dove le decisioni si prendono. Non arrendiamoci. Ce la possiamo fare e la gente è con noi se vede questo impegno. È anche un modo degno di consegnare alle nuove generazioni questi patrimoni».

Pietro Mitrione, che ha la passione dell'ex ferroviere che su questa linea vi ha lavorato, prende la parola mentre l'atmosfera si fa commovente: «Vogliamo tenere vivo un territorio che è un unicum. Questa quarta giornata delle ferrovie dimenticate vuole essere una protesta civile. La cosa che unisce i nostri territori è la ferrovia, incomparabile dal punto di vista turistico. Ci ritorneremo col treno e con gli studenti. Quando ho visto la banda e tante donne in essa ho subito pensato che dove ci sono le donne le cose hanno una marcia diversa». «L'impegno che prendiamo qui - aggiunge Mitrione - è quello di continuare. Nella protesta civile, certamente, anche se sappiamo nomi e cognomi di quelli che hanno deciso la soppressione di questa tratta». La banda riprende a suonare, stavolta l'inno nazionale, e c'è commozione in tanti. La gioia riprende per le strade del paese e sfida il tempo inclemente. Gustosissimi piatti da assaggiare, visita al borgo con acquisti vari, il gruppo folk che suona e canta, e un arrivederci senza perdersi di vista. Con un augurio unico: che la linea ferroviaria, di cui tutti hanno compreso il valore grande, come delle cose che hanno una storia lunga, riprenda a vivere e sviluppi i suoi progetti per troppo tempo lasciati dormienti.

ROMA - Preti, costruttori, calciatori, avvocati. E poi circoli canottieri, associazioni culturali, malavitosi vari, e persino ristoranti e discoteche. Due cd insabbiati in un ufficio del Campidoglio per mesi, con dentro tutta "la Roma che conta". Eccolo il libro nero dell´abusivismo edilizio, l´indice dei "furbetti del terrazzino", e della verandina, del garage, della villetta, dell´appartamento extra lusso, dell´intero condominio. Una colata di cemento frazionata in 12.315 abusi che Repubblica è in grado di documentare.

LA CASTA DEL CEMENTO

Nomi, cognomi, indirizzi, inequivocabili foto aeree da quattro prospettive diverse, scattate prima e dopo l´abuso. Costruzioni fuorilegge in centro, a due passi dal Colosseo, in periferia, nei parchi protetti, in zone con vincoli paesaggistici così stretti che anche tirare su una cuccia per cani è un crimine. Strutture illegali tenute in piedi dalla pretesa di ottenere prima o poi l´assoluzione definitiva, che in edilizia si chiama appunto condono. L´hanno chiesto tutti. Anche di fronte a situazioni palesemente non sanabili. Come l´appartamento con terrazza e tendoni sbocciato all´improvviso su un tetto a ridosso di Piazza Navona, o la villa in marmo con piscina stile "Scarface" eretta di nascosto spianando trecento metri quadrati di bosco nel parco di Veio.

Il bello è che il comune di Roma sa tutto. Ha sempre saputo tutto. Perché sono stati gli stessi proprietari, certi dell´impunità, ad "autodenunciarsi". Hanno inoltrato la domanda di condono e così si sono iscritti nella lista degli abusivi, sulla base della quale l´amministrazione avrebbe dovuto "ripulire" la città dagli scempi, o quanto meno trarne qualche vantaggio economico, acquisendoli.

E invece il più immobile di tutti è stato ed è tutt´oggi il sindaco Alemanno. La lista fa la muffa da marzo dello scorso anno. Nemmeno un atto è stato notificato. Ruspe in deposito, vigili urbani ai semafori, abbattimenti zero. L´elenco contenuto in quei due cd si riferisce al terzo condono edilizio concesso dallo stato italiano, quello del 2003 (governo Berlusconi), intervenuto dopo le sanatorie del 1985 e 1994. Al comune di Roma arrivarono in tutto 85 mila richieste. Gemma Spa è la società privata che ha avuto l´incarico di valutarle, con l´ausilio di un sistema a fotografia aerea che ha mappato dall´alto, metro per metro, tutto il territorio romano tra il 2003 e il 2005. Un lasso di tempo non casuale: la normativa sul condono (L. 326/2003) concedeva la possibilità di sanare soltanto gli abusi ultimati tassativamente prima del 31 marzo del 2003.

Nel giugno scorso, poco prima che le venisse ritirato il mandato apparentemente perché incapace di smaltire il monte dei fascicoli ai ritmi concordati, Gemma consegna ad Alemanno il frutto del proprio lavoro, la lista dettagliata delle "reiezioni", le domande da respingere perché - a vario titolo - violano i termini della legge 326. 12mila manufatti (e Gemma non era arrivata a lavorare nemmeno la metà delle 85 mila domande). Perché così tanti romani hanno chiesto il condono per abusi evidentemente insanabili? Da chi avevano avuto la garanzia dell´impunità?

i protagonisti

Alemanno scorre con gli occhi l´elenco e suda freddo. Sa bene quello che prevede la legge, abbattere o acquisire. E sa altrettanto bene cosa ciò può comportare in termini politici: l´addio a migliaia di voti, alla simpatia dei grandi elettori, alle sintonia con gli ambienti che contano. Tra chi ha provato a fare il furbo chiedendo il condono per una struttura costruita ampiamente dopo il 31 marzo 2003 - i cosiddetti "fuori termine", circa 3.712 pratiche - spunta il nome di Luigi Cremonini, l´imprenditore modenese leader nel commercio della carne e proprietario di tre catene di ristoranti, che dal giorno alla notte si è costruito una terrazza modello villaggio vacanze in uno dei punti più pregiati di Roma, di fronte alla fontana di Trevi. O come Federica Bonifaci, figlia del costruttore Bonifaci (anche editore del Tempo) che ha dato un´"aggiustatina" alla sua casa ai Parioli.

Di vip o anche solo di personaggi e istituzioni in vista nell´elenco ce ne sono a volontà. Si va da Maria Carmela d´Urso, alias Barbara d´Urso al calciatore nerazzurro ed ex laziale Dejan Stankovic, da Luciana Rita Angeletti, moglie del rettore della Sapienza Luigi Frati, all´Istituto figlie del Sacro Cuore di Gesù. Le congregazioni religiose hanno una certa dimestichezza col cemento. Nella lista nera figurano le Suore Ospedaliere della Misericordia, la Procura Generalizia delle Suore del Sacro Cuore, quella delle missionarie di Madre Teresa di Calcutta e la Famiglia dei Discepoli della diocesi romana. Non mancano i templi dove la Roma bene ama riunirsi per celebrare i suoi riti di socialità. Il Parco de´ Medici sporting club, il country club Gianicolo, il Tennis Club Castel di Decima, la discoteca Chalet Europa nel parco di Monte Mario. E nemmeno le ville mono e bifamiliari con piscina dell´alta borghesia, cresciute come gramigna nel parco di Veio, ai lati di via della Giustiniana, la strada più abusata di Roma. Ancora, scorrendo la lista balzano agli occhi decine di società immobiliari, alcuni distributori di carburante della Esso e la sede centrale della "Fonte Capannelle Acque Minerali" nel parco dell´Appia Antica. L´aspetto più buffo o forse drammatico è che nell´elenco dei più furbi tra i furbi compaiono anche molte aziende comunali di servizio, come l´Ama, l´Acea e addirittura Risorse per Roma, la municipalizzata che da gennaio ha il compito di occuparsi proprio delle pratiche di condono.

l´abuso del comune

Ma il top lo si raggiunge con la pratica numero 577264 contenuta nel faldone riservato alle richieste di sanatoria nei parchi. Bene, a guardare sotto la voce "proprietario" dell´abuso si scorge l´incredibile dizione "Comune di Roma" (ovviamente residente in "via del Campidoglio 1"). In sostanza: il Comune è contravvenuto alle proprie regole e poi si è chiesto da solo il condono sapendo benissimo di non poterselo dare. La manovra serviva a "legalizzare" un´opera abusiva in via del Fontanile di Mezzaluna, in pieno parco del Litorale romano dove i limiti all´edificazione sono strettissimi. Come del resto negli altri undici parchi di Roma. Che, ciononostante, sono probabilmente l´obbiettivo preferito dagli speculatori. E forse proprio per questo la Regione Lazio, con la legge 12 del 2004 aveva messo dei paletti all´ultimo condono: «Gli abusi realizzati nei parchi e nelle aree naturali protette - dice la norma - non sono sanabili».

Parole vane. Il comune oggi si ritrova, nero su bianco, 2099 domande (compresa la sua e quelle delle sue aziende) di condono per porzioni di villette, garage, interi fabbricati. Veio, Decima Malafede, Marcigliana, Appia Antica, Bracciano Martignano, Tenuta di Acquafredda. Non uno dei parchi di Roma è rimasto immacolato.

Chi c´è dietro? Ancora una volta l´occhio scorre sugli elenchi e individua i nomi grossi della città. Come Tosinvest spa, la finanziaria della potentissima famiglia Angelucci, i signori delle cliniche private nonché editori di Libero e il Riformista. A nome di Tosinvest spa ci sono tre domande di condono per una struttura aziendale nel parco dell´Appia Antica. In quello di Veio c´è un abuso a nome di Acea Spa, il colosso dell´energia e dell´acqua per metà pubblico (proprietà appunto del comune di Roma), in parte nelle mani del costruttore Francesco Caltagirone. Siccome il giochino era molto semplice, in molti hanno esagerato. Fanno impressione ad esempio le 28 domande di condono chieste per lo stesso indirizzo, via Cristoforo Sabbatino 126: un intero complesso di case in pieno Litorale Romano, a nome di Abitare Srl.

il business del condono

La procura di Roma si è accorta che qualcosa non va. Pochi giorni fa ha sequestrato, negli archivi di Gemma, 5000 pratiche fuori termine. Vuole capire perché non sono state notificate ai proprietari. La verità è che impostate così, con le domande presentate e automaticamente insabbiate dal comune, senza ruspe né multe, senza procedimenti né scandali, le sanatorie edilizie sono uno dei business più redditizi e politicamente più convenienti. Fanno girare soldi, ingrassano le casse delle amministrazioni quel tanto che basta e non scontentano nessuno. Dal 1994 al 2000 (giunta Rutelli) il comune di Roma ha incamerato 383 milioni di euro grazie alle 251 mila concessioni rilasciate per i precedenti condoni. Il successore di Rutelli, Veltroni, è stato anche più fortunato: dal 2001 al 2005 le concessioni, circa 84 mila, hanno fruttato mezzo miliardo di euro. Una montagna di soldi, spalmata in oneri di urbanizzazione e costi di costruzione, sborsata dai proprietari per "perdonare" il mattone nato illegale. Il segreto è non arrivare mai alle demolizioni. Che spezzerebbero la catena di interessi che tiene in piedi tutto. Ma cosa muove la macchina del mattone selvaggio nella capitale? Chi ha voluto che prosperasse indisturbata per anni? Dove si inceppava il sistema dei controlli?

il porto delle nebbie

Prima partecipata dal Comune, poi vincitrice dell´appalto esclusivo per il condono nel 2006 come società privata, Gemma a fine anni Novanta viaggia a una media di 24 mila pratiche, o meglio concessioni, all´anno. Nell´ultimo decennio la media scende a 12 mila, fino alle misere 1103 del 2007. Risultati al di sotto degli standard del contratto di servizio, per i quali comune e Gemma si accusano reciprocamente. «Fino all´agosto del 2009 (quando viene stipulato un nuovo contratto di servizio, ndr) non abbiamo mai avuto accesso libero alle pratiche - sostiene Renzo Rubeo, presidente di Gemma - quelle da lavorare le sceglieva l´Ufficio Condono». Fatto sta che, nonostante la lentezza, Gemma negli anni viene regolarmente pagata fior di milioni, e questo insospettisce i pm romani che mettono sotto indagine tutti i vertici dell´azienda, a cominciare da Rubeo, e gli ultimi due assessori romani all´Urbanistica, Roberto Morassut del Partito Democratico e Marco Corsini, della giunta Alemanno. Il sospetto/certezza degli investigatori è che Gemma fosse un carrozzone, una sorta di Bancomat della politica. E che tutti sapessero delle concessioni troppo facili. Sospetti pesanti, messi nero su bianco da uno degli ultimi direttori dell´Ufficio Condono nominato da Veltroni, l´avvocato Roberto Murra, in un documento confidenziale a uso interno. «Dietro tali procedure - scrive Murra al sindaco nel 2007 - spesso si è nascosta la tentazione di poter agire al limite della norma se non, addirittura, in esse si è annidato il malaffare».

Pure il sistema informatico "Sices" della Unisys, utilizzato per la lavorazione dei fascicoli, è sotto accusa: la Guardia di Finanza ha dimostrato che i dipendenti dell´Ufficio Condono avevano la possibilità di accedervi e modificare i fascicoli senza lasciare traccia. Un porto delle nebbie, appunto, dove ancora giacciono 250 mila pratiche. Secondo Gemma almeno la metà sono da rigettare. Per ora però non si muove una ruspa. E i furbetti dormono sogni tranquilli. Sotto un tetto abusivo.

Gira molto di questi tempi una favoletta apparentemente semplice, ma nella sostanza fasulla, che viene ampiamente propagandata e indirizzata - quasi come un manifesto, uno slogan, un credo ideologico-politico-urbanistico da imporre - ad un pubblico di menti candide, distratte o impreparate, che poco o nulla sanno o capiscono di questioni urbanistiche e ambientali e di pratiche di gestione del territorio, disposto a credere che “più grattacieli si costruiscono più si risparmia suolo” e che “grattacielo è bello” anzi “dovuto” per potere “risparmiare suolo” (questa è la parte del messaggio indirizzata agli ambientalisti ingenui).

In molti, a volte anche persone studiate dalle quali non te lo aspetteresti, ci cascano. Perché?

Questa favoletta risulta infatti, nel suo messaggio, anche non poco scorretta - un po’ come coloro che la sostengono e la propagandano - perché mischia artatamente al suo interno, in un ragionamento che si presta facilmente ad essere aggrovigliato e confuso, sia una parte vera che una parte falsa. E dove la parte vera sembra essere talmente evidente e indiscutibile da indurre a pensare che lo sia anche la parte falsa.

Vera è la parte stereometrica del ragionamento contenuto, che dimostra come il tipo edilizio del grattacielo, può, in termini fisici (la stereometria è infatti quella parte della geometria solida che studia i diversi modi coi quali si può configurare un volume nello spazio) consumare meno suolo rispetto ad altri tipi edilizi bassi o orizzontali che forniscano la stessa volumetria. Falsa è la parte del ragionamento che vuole far intendere che trasferire automaticamente nelle pratiche e nei metodi dell’urbanistica e dei suoi piani l’uso diffuso del ricorso alla tipologia del grattacielo provochi l’effetto virtuoso di fare risparmiare, sempre e comunque, suolo.

La verità stereometrica

Si prendano due dadi e li si posino su un tavolo. Si supponga che ogni dado rappresenti una casa o un edificio (per residenze, uffici, ecc.) di volume e di altezza pari a quella del dado. La superficie di tavolo occupata – o “consumata”, perché inibisce altri usi possibili della superficie complessiva del tavolo - da questi due edifici è equivalente alla superficie delle due facce sulle quali si posano i due dadi.

Sovrapponiamo ora i due dadi: otteniamo un edificio alto due dadi e dello stesso identico volume dei due. Abbiamo fatto un “grattacielo” (l’esempio vale anche per più dadi, per chi desiderasse giocare con un grattacielo più alto) che altro non è, nel senso più banale, che una certa quantità di metri cubi impilati in altezza. Ora però possiamo osservare che la superficie coperta, consumata dai due dadi impilati si è ridotta ad una sola faccia di dado: pari volume complessivo e superficie coperta ridotta della metà: magnifico! Ma allora è proprio vero e dimostrato che il grattacielo fa risparmiare suolo!

Fine dell’unica parte veritiera della favoletta.

La falsità urbanistica

Si consideri innanzitutto che il suolo, meglio pensarlo come territorio, nel quale e sul quale noi viviamo e operiamo, non è proprio equivalente al piano del tavolo di cui all’esempio e nemmeno è paragonabile a un foglio di carta bianca (come spesso se lo immaginano certi architetti) sul quale poter disegnare e collocare tutto ciò che passa per la testa. E non è neppure una sommatoria di “mappali” come lo pensa una concezione meramente proprietaria dei suoli.

Sul suolo si posano gli ambienti umani, si posa la natura, si posa l’ambiente naturale, si posa il paesaggio, vivono aree naturali sensibili e rare e sono presenti aree e ambienti preziosi o delicati che debbono assolutamente essere conservati e protetti per la vita. Il suolo stesso è natura e materia vivente e non è piatto e indifferenziato come un tavolo.

Il suolo è dunque risorsa scarsa e limitata, riproducibile dove può essere riprodotta, se non in tempi lunghissimi, che non può essere utilizzato e sfruttato nella sua totalità (come un tavolo). E che non può essere reso tutto edificato o edificabile (come pensano gli ossessi del metro-cubo, dello “sviluppo” e della “crescita”).

L’urbanistica, quella vera e consapevole, si pone, nell’organizzare e pianificare gli sviluppi insediativi urbani, prima ancora del problema delle tipologie edilizie da utilizzare o da non utilizzare, quello di quanti volumi (e funzioni) e per chi e per quali bisogni, programmare e autorizzare nei propri piani o programmi.

Tornando all’esempio dei dadi, cioè dei volumi “necessari” per un corretto e ben dimensionato piano urbanistico, la domanda è: sono necessari due dadi? ne basta uno? ne basta mezzo?

Prima domanda: servono due dadi o ne basta uno?



Prima di tutto viene il problema del “dimensionamento del piano” anche in termini di metri cubi programmabili che non possono essere infiniti o indeterminati (problema oggi completamente dimenticato e volutamente cancellato) e della loro rispondenza ai reali fabbisogni della comunità.

Ma non bisogna dimenticare che spesso si pone anche, a monte di ogni altra decisione, il problema della valutazione dell’accettabilità o della compatibilità dell’uso della tipologia del grattacielo in determinati siti o ambienti, urbani o anche non urbani, dove potrebbe, per mille evidenti ragioni immaginabili, rivelarsi inaccettabile o incongrua.

Il ricorso al tipo edilizio del grattacielo può funzionare ed essere accettato in urbanistica, ma sempre se compatibile con l’ambito dell’intervento, solo al verificarsi, contemporaneo, di due condizioni: la prima che il grattacielo venga a concentrare e ad assorbire in sé volumi già correttamente programmati e autorizzati, in una data area definita da corretti indici territoriali; la seconda, ancora più importante, che richiede che sui suoli così sottratti all’edificazione (il cosiddetto risparmio raggiunto) venga posto un vincolo che vieti ogni ulteriore edificabilità. Il suolo, per essere considerato effettivamente risparmiato deve essere identificato e sottratto ad ulteriori edificazioni. Il meccanismo del “risparmio” deve essere identificato, produrre un effetto tangibile, verificato e verificabile, ed essere conservato nel tempo come prodotto di un risparmio.

Se invece il sorgere di grattacieli fosse il prodotto, voluto e cercato, di nuove norme e scelte urbanistiche, generato da aumentati indici di edificabilità (territoriali o fondiari e di rapporti di copertura) non si andrebbe certamente in direzione di un risparmio di suolo. Ci si dovrebbe piuttosto preoccupare dei rischi (urbanistici, ambientali e paesistici) derivanti inevitabilmente dall’aumento dei nuovi carichi insediativi e ambientali o di congestione urbana apportati dalla nuova densificazione.

Ah, se le Valutazioni Ambientali Strategiche fossero una cosa seria!!

Legambiente, Wwf Italia, Rete dei comitati per la difesa del territorio, Comitato per la bellezza e Comitato terra di Maremma hanno condiviso, sottoscritto e presentato (Rispescia, 25 febbraio 2011) il documento che segue

Vale la pena riprendere il discorso sul corridoio tirrenico perché ci troviamo ad uno snodo interessante del processo di decisione: uno snodo dal quale possono prendere avvio aperture positive o, al contrario, ulteriori peggioramenti di un progetto già molto discutibile e discusso.

I fatti sono noti. Nel dicembre 2008 il Cipe ha approvato il progetto preliminare dell’autostrada Tirrenica con un tracciato di 200 km completamente in variante posizionato tra 50 e 100 metri dall’attuale Strada Statale Aurelia, la quale a sua volta veniva riportata per intero a due corsie, con a lato una pista ciclabile sui tratti oggi a quattro corsie. Abbiamo contestato fortemente questo progetto perché determinava un elevato consumo di suolo, un forte impatto paesaggistico in un territorio ancora integro, perché buttava a mare le risorse pubbliche investite fino ad oggi per adeguare l’Aurelia, ed aumentava le corsie a disposizione dei veicoli creando ulteriore traffico ed inquinamento.

Solo la Regione Lazio contestò quel progetto SAT, chiedendo il rifacimento della tratta laziale, con un progetto che utilizzasse ed ampliasse la Strada Statale Aurelia, soluzione che fu accolta dal CIPE nell’approvazione del dicembre 2008.

Di conseguenza la concessionaria SAT ha dovuto presentare un nuovo progetto del lotto 6A tra Tarquinia e Civitavecchia di circa 14 km, con una nuova procedura di Valutazione di Impatto Ambientale che è stata pubblicata ed avviata nell’estate 2010 e di cui si attende il parere da parte del Ministero per l’Ambiente.

Le caratteristiche del progetto definitivo recentemente presentato nel tratto laziale sono assai diverse da quelle del progetto preliminare del 2008 e approssimano in buona misura, tranne l’introduzione del pedaggio, a quelle del progetto ANAS del 2000:

- è cambiato il posizionamento territoriale, che passa dal tracciato distante dall’Aurelia a un tracciato pressoché totalmente sovrapposto all’attuale Aurelia;

- è cambiato il sistema di pedaggiamento, che passa da un sistema chiuso di esazione a svincolo ad un sistema misto di esazione a barriere intercalate da entrate/uscite regolate con il sistema free flow multilane. Un sistema che consente il passaggio dei veicoli in velocità, il pagamento differito del pedaggio e la selezione tra traffico pagante e traffico non pagante;

- e sono cambiate le stime di traffico: la nuova configurazione porterebbe ad una diminuzione del traffico atteso di circa il 40% rispetto a quello riportato nel Piano Economico Finanziario del 2008.

Questo calo dei dati di traffico futuri danno ragione alle obiezioni degli ambientalisti sulle stime gonfiate del progetto 2008, che tra crescita del traffico tendenziale e capacità della nuova autostrada di attrarre traffico dall’autostrada A1, arrivava a ben 52.000 veicoli/giorno nel 2030 sulla nuova Autostrada della Maremma. Un calo del 40% stimato adesso nel nuovo progetto definitivo significa arrivare a circa 31.000 veicoli/giorno nel 2030, sostanzialmente la crescita che si avrebbe sull’Aurelia, secondo le simulazioni di SAT, anche in assenza di qualsiasi intervento di adeguamento.

Va anche detto che più in generale la crescita del traffico è molto legata all’andamento dell’economia e del PIL e quindi ogni previsione deve fare i conti con l’andamento futuro dell’economia reale: anche passare dai 18.000 veicoli al giorno di oggi alla stima per 31.000 veicoli/giorno nel 2030 è comunque una stima assai ottimistica e di piena ripresa economica che al momento risulta invece altamente incerta. E senza calcolare le incertezze che gravano sul prezzo e la fine del petrolio.

Al di là della questione del pedaggio (che oggi ANAS propone su molte strade statali) c’è da chiedersi come mai nel 2005, quando venne presentato il progetto poi approvato nel 2008, l’adeguamento in sede dell’Aurelia del progetto del 2000 fosse stato ritenuto inaccettabile a causa dell’impossibilità di rispettare le nuove norme tecniche per la costruzione di strade e autostrade ed ora divenga improvvisamente possibile. Se si poteva fare, chi pagherà i dieci anni che sono stati persi? A leggere i termini con cui lo studio commenta il confronto tra l’alternativa del 2005 e l’alternativa di oggi emerge chiara la miseria progettuale di allora. Il progetto del 2005 si collocava “a metà tra la SS1 Aurelia e la ferrovia Roma – Pisa – Livorno, creando una frattura nel territorio e interferendo con moltissime attività locali e vincoli di tipo archeologico, naturalistico e paesaggistico”. Quello di oggi “ annulla la maggior parte delle problematiche ambientali connesse al progetto precedente del 2005”.

Meglio tardi che mai viene proprio da dire, e nello stesso SIA viene indicato che anche per il resto del tracciato in corso di progettazione, quindi per tutto il tratto tra Civitavecchia e Rosignano, verrà realizzato “come adeguamento dell’attuale Aurelia” abbandonando quindi il progetto approvato nel 2008.

Le ragioni addotte dalla concessionaria SAT per tale profondo cambiamento si richiamano alle prescrizioni del CIPE sia sul piano ambientale che sul piano economico finanziario, nonché alla difficile situazione economica ed alla necessità di ridurre i costi dell’intervento. Ma è evidente che la SAT ha cambiato atteggiamento perché è stato smascherato il suo tentativo si scaricare sulla collettività i costi dell’investimento (alla fine della concessione) e quindi non gli è stato consentito di realizzare profitti e speculazioni spacciandolo per “autofinanziamento”.

In questo quadro di inedita prudenza finanziaria lo studio di impatto dei 14 km tra Civitavecchia e Tarquinia si spinge a promettere che tutto il tracciato da Rosignano a Civitavecchia verrà rivisto in base agli stessi principi.

Riteniamo positivo il fatto di intervenire sull’adeguamento dell’Aurelia, così da non introdurre un nuovo elemento di sfascio del territorio, ed in buona sostanza è quello che come ambientalisti abbiamo sempre chiesto in alternativa all’Autostrada della Maremma, interna o costiera che fosse. Ma proprio perché si sta andando nella giusta direzione come per il nuovo tracciato presentato del lotto 6A tra Tarquinia e Civitavecchia, riteniamo si debbano fare ancora altri passi in avanti verso il miglioramento del futuro progetto Rosignano–Civitavecchia in corso di progettazione che suscita, a nostro avviso, più di una preoccupazione.

A partire dal tratto Ansedonia-Fonteblanda che, secondo le prime intenzioni della SAT riportate dai giornali, si sarebbe trattato non più del pessimo tracciato interno in arte in galleria del 2008, bensì un nuovo tracciato a “ridosso” del massiccio di Orbetello. Tracciato che ha suscitato una forte preoccupazione nella popolazione del luogo e che rischiava davvero di avere un impatto paesaggistico inaccettabile.

Sembrerebbe che queste proteste siano state recentemente e giustamente ascoltate se alla fine di gennaio 2011, Ruggiero Borgia, Amministratore Delegato di SAT, ha annunciato sui giornali una ulteriore svolta con un tracciato interamente sulla sede dell’Aurelia anche nel tratto orbetellano. E di tracciato interamente in sede ha parlato anche SAT anticipando ai giornali a metà febbraio 2011 come sarà la Tirrenica.

Certo se la pretesa è quella di mettere semplicisticamente “una grande autostrada” su di una strada statale, di sicuro non potrà funzionare, mentre quello che serve è un adeguamento e riqualificazione sull’Aurelia, per renderla una strada sicura ed omogenea, inserita al meglio nel territorio.

Resta da vedere quindi quale sarà davvero il progetto definitivo che verrà presentato, con quali caratteristiche e con quale tracciato, di cui valuteremo gli impatti, l’utilità collettiva e come risolverà i problemi di viabilità locale dei territori maremmani. Ma di sicuro non è invocando il ritorno al progetto devastante del 2008 come si fa oggi da più parti, che avremo fatto passi in avanti verso la tutela del territorio, del paesaggio, delle attività e delle popolazioni della Maremma.

Un’altra preoccupazione riguarda lo “spezzettamento” del progetto definitivo, che solleva un’importante questione di metodo. Ciascuna tratta è sottoposta separatamente alla procedura di Valutazione di Impatto Ambientale: prima i 4 km tratta Rosignano-S. Pietro in Palazzi, poi i 14 km del tratto Civitavecchia-Tarquinia, poi in futuro, forse entro i primi mesi del 2011, la presentazione del tratto Tarquinia-S.Pietro in Palazzi. Ai fini della Valutazione di Impatto Ambientale (da rifare sul progetto definitivo visti i rilevanti cambiamenti di tracciato rispetto al preliminare, così come prescritto dalla Legge Obiettivo) un tale frazionamento, evidentemente motivato dal solo desiderio di poter dire di aver iniziato l’opera, condiziona la valutazione dei tratti successivi al fatto compiuto dei tratti precedenti ed è esplicitamente vietato dalle direttive europee e dalle norme italiane dal momento che impedisce la valutazione della compatibilità ambientale dell’opera nel suo complesso.

In secondo luogo questo modo di procedere lascia senza risposte una serie di interrogativi che sono invece di fondamentale importanza per valutare le proposte di intervento. Tre sono, in sintesi, le questioni principali, ovviamente tra loro fortemente interrelate: il problema della fattibilità economico-finanziaria, il problema del ruolo territoriale dell’infrastruttura e il problema dell’impatto ambientale.

Questioni di fattibilità economico-finanziaria

La fattibilità economico-finanziaria dell’opera è estremamente importante perché la storia ci ha insegnato che piani finanziari del tutto campati per aria hanno dato luogo a grandi deficit nei bilanci delle concessionarie, ma nessuna concessionaria insolvente è mai fallita e il ripiano dei debiti è stato ottenuto grazie alla devoluzione di rilevanti risorse pubbliche, sottratte ad altri più importanti impieghi di interesse collettivo.

Sussistono ad oggi forti dubbi circa la possibilità della concessionaria di ripagarsi con le entrate da pedaggio. In occasione della stipula della Convenzione unica firmata da SAT ed ANAS l’11 marzo 2009 , avevamo sottolineato tutte le criticità già allora evidenti: il traffico era troppo scarso (per quanto fosse “gonfiato” come oggi SAT riconosce) per giustificare la realizzazione di un’autostrada e per ripagare con le sole tariffe un investimento da 3,8 miliardi di euro, nonostante la proroga dal 2028 al 2046 della concessione, a cui ha dato il proprio assenso anche l’Unione Europea bocciando purtroppo il ricorso delle nostre associazioni ambientaliste.

I fatti si sono prontamente incaricati di confermare la ragionevolezza delle nostre critiche. Oggi SAT stima il traffico di un buon 40% inferiore a quello contemplato nella Convenzione già firmata nel 2009. Per di più la delibera CIPE che doveva ratificare la convenzione ANAS-SAT verificando che non avesse effetti negativi sul bilancio dello Stato, ha opportunamente bocciato il “valore di subentro” di 3,5 miliardi di euro che lo Stato avrebbe dovuto corrispondere alla concessionaria a fine concessione (praticamente l’intero costo di costruzione), stabilendo invece che tale valore deve essere “pressoché nullo”.

Altri elementi di costo non hanno invece ancora trovato alcuna esplicitazione e sarà opportuno che vengano chiariti: quanto dovrà corrispondere la concessionaria all’ANAS per l’uso della strada statale Aurelia già portata a 4 corsie con risorse interamente pubbliche e che quindi non potrà essere ceduta gratuitamente ad una concessionaria privata? E ancora, cosa accadrà delle risorse (172 miliardi di lire) elargite nel 2000 a SAT come forma di compensazione dallo Stato a motivo della sospensione della realizzazione dell’autostrada decisa nel 1999? Ora che l’opera è ripartita queste somme verranno restituite?

Sono tutti legittimi quesiti, che dovranno trovare una risposta nella nuova Convenzione ed allegato Piano economico e finanziario che la concessionaria presenterà nei prossimi mesi, così come richiesto dalla delibera Cipe del 22 luglio 2010 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 7 ottobre 2010.

In questo quadro oggi SAT parla di un progetto da ridimensionare e ha annunciato un progetto che deve costare complessivamente circa 2,2 miliardi di euro. Anche questo costo a nostro avviso è molto rilevante e sulla base delle esperienze italiane di infrastrutture in autofinanziamento (come ad esempio la BreBeMi tra Brescia e Milano) sembra molto difficile che possa ripagarsi con le sole entrate da pedaggio. In sostanza la fattibilità finanziaria complessiva dell’opera presenta aspetti, allo stato delle cose, ancora di grandissima incertezza.

Questioni di ruolo territoriale dell’infrastruttura

Occorre dunque attendere il nuovo Piano economico e finanziario e la nuova convenzione per capire come si prevede che l’opera possa ripagarsi, ma fin d’ora sembra necessario avanzare le questioni relative al secondo irrisolto problema: ovvero il ruolo territoriale dell’infrastruttura, che proprio dal piano finanziario dipende in larga misura.

Infatti nel Piano finanziario dovrà essere chiarita non solo l’entità degli introiti, ovvero il livello delle tariffe e le loro dinamiche nel tempo, ma anche la ripartizione tra traffico pagante e traffico non pagante, la tariffazione del traffico di lunga percorrenza e del traffico locale, il trattamento del traffico portato in loco sottraendolo ad altre infrastrutture. A quali condizioni e per quanto tempo gli utenti locali saranno esonerati in tutto o in parte dal pagamento dei pedaggi? Ne deriverà un peggioramento funzionale e un aggravamento del costo della mobilità locale? In quale misura l’adozione del sistema di pedaggiamento free flow eviterà complanari e ulteriori aggiunte di viabilità e in quale misura l’autostrada sarà connessa alla viabilità ordinaria? Si tratta ovviamente di un problema centralissimo dal momento che si consegnerebbe alla concessionaria l’intero sistema di relazioni territoriali stratificato intorno all’Aurelia.

E ancora: quale struttura tariffaria sarà adottata e come terrà conto di quella politica di trasferimento modale verso la ferrovia che tutti i documenti programmatici comunitari, nazionali e regionali di politica dei trasporti non perdono occasione di riaffermare?

In questo contesto non possono che destare una forte preoccupazione due fatti attuali. Da una parte il taglio dei servizi di trasporto ferroviario lungo la ferrovia tirrenica ventilato (e in parte già attuato) da Trenitalia per il traffico di lunga percorrenza considerato poco conveniente, su di una direttrice già oggi debole, con scarsi servizi veloci (due Eurostar al giorno) e nessun servizio mirato in estate quando aumenta moltissimo la domanda di turismo in Maremma . Dall’altra gli effetti dovuti ai tagli del trasporto regionale e locale ferroviario e stradale (e/o robusti incrementi tariffari) che si faranno sentire nel 2011 a causa della manovra Tremonti; tagli contro cui si sono impegnati anche i sindaci e gli amministratori locali della provincia di Grosseto.

E’ chiaro che se si tagliano i treni e gli autobus, se non si sostiene il trasporto via mare delle merci e non si investe sulla portualità (come succede anche a Livorno dove il porto è addirittura commissariato dal Ministro Matteoli che non ha accettato le proposte degli Enti locali per la Presidenza), tutto il traffico resterà e crescerà sulla strada alimentando non solo inquinamento, rumore e congestione ma anche la “fame” di nuove strade ed autostrade. E’ evidente dunque che per noi il ruolo del corridoio tirrenico deve essere accompagnato da un potenziamento del trasporto ferroviario e marittimo, per offrire diverse e valide integrazioni ed alternative agli utenti ed al trasporto delle merci.

Come dicevamo quindi la struttura tariffaria è un elemento determinante per definire concretamente il ruolo territoriale dell’infrastruttura, questione che i progetti presentati lasciano del tutto al margine. E’ appena il caso di osservare che un progetto di autostrada che punta ad utilizzare l’Aurelia solo “per risparmiare” sui costi appare inadeguato fin dall’impostazione.

Il riconoscimento, sempre più evidente, della non fattibilità di una nuova autostrada in variante, quale era il progetto preliminare del 2008, dovrebbe invece portare ad una reale modifica, di significato oltre che di geometria, del progetto di ammodernamento dell’infrastruttura esistente, con un progetto di potenziamento e riqualificazione sull’Aurelia.

Una infrastruttura che sarebbe assurda e controproducente se finalizzata ad attrarre in un territorio delicatissimo e meraviglioso nuovo traffico di transito di merci e passeggeri tra il nord ed il sud del Paese, ma che può invece divenire interessante da molti punti di vista se serve a risolvere i problemi di mobilità di chi vive e lavora in quel territorio, se supporta in modo adeguato la qualità dei luoghi i flussi turistici destinati alla Maremma, se collega quei territori con il resto del mondo senza distruggere le preziose (e ormai rare) risorse paesistiche su cui si fonda la capacità locale di benessere economico e sociale.

Un tale progetto dovrebbe essere calibrato sulle reali esigenze dei territori interessati ed essere frutto di politiche di trasporto decise in accordo tra Stato, Regioni ed enti locali piuttosto che dalle concessionarie autostradali. Sarebbe il caso che SAT ed ANAS rendessero noti i dati di traffico dell’attuale SS Aurelia, con una indagine accurata, capace di chiarire quali siano le percorrenze medie, quali gli itinerari verso le aree interne e la costa che utilizzano almeno in parte l’Aurelia, quali le entrate ed uscite maggiormente utilizzate, quali i traffici di transito e le ragioni d’utilizzo. Così da avere reali elementi di conoscenza per poter decidere in modo condiviso sia il miglior adeguamento dell’infrastruttura sia coerenti politiche di pedaggio.

E sarebbe anche il caso, trattando di traffico ed intermodalità, di ragionare a livello regionale e locale sull’incremento dell’uso del treno, dei bus e della bicicletta come modalità concrete di accesso e spostamento in Maremma, con parcheggi di interscambio alle stazioni, con un sistema di reti e strade ciclabili sicuro, e magari anche un sistema di trasporto pubblico efficiente, tipo Metro del Mare, per spostamenti lungo la costa tra i principali punti di attrazione turistica.

Tutti interventi e misure che hanno concrete connessioni con il progetto di ristrutturazione stradale e ne condizionano la natura, i caratteri fisici e funzionali e la desiderabilità per gli abitanti e le attività insediate. E’ una partita che non può evidentemente essere affidata ai soli calcoli della Concessionaria circa i propri equilibri finanziari, ma deve essere riportata alla sua sede naturale di dialettica e concertazione con Comuni, Provincie e Regione con il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Il pedaggio è dunque un problema centralissimo per la definizione del ruolo territoriale dell’infrastruttura e dovrà essere oggetto di discussione pubblica. Ma fin d’ora si possono avanzare i criteri di fondo: sarà necessario stabilire tariffe elevate per il traffico di passeggeri e merci di lunga percorrenza in transito mentre occorrerà invece un pedaggio alleggerito per gli spostamenti di area provinciale, che fanno poche decine di km. Occorrerà infine consentire entrate ed uscite gratuite per gli spostamenti quotidiani di breve raggio. La tendenza, evidente anche in altri analoghi progetti, pare oggi quella ad esonerare i residenti per un certo periodo, cinque anni per esempio, ma si tratta di una condizione inaccettabile, che serve solo a rinviare il problema.

Questioni di impatto sull’ambiente e sul paesaggio

L’insieme delle condizioni vecchie e nuove che ruotano intorno alla questione dell’autostrada tirrenica rendono del tutto evidente la necessità di modificare il Progetto Preliminare del 2008 sotto il profilo dell’impostazione concettuale prima ancora che delle soluzioni geometriche: occorre un progetto che serva ai territori attraversati e faccia dell’inserimento ambientale, della valenza paesaggistica, della riqualificazione i suoi elementi essenziali. In sostanza serve un progetto di adeguamento in sede sull’Aurelia, perchè rimane, in ogni caso, non condivisibile la scelta di promuovere la realizzazione di una grande autostrada secondo gli standard tecnici ordinari come di sicuro faceva il progetto del 2008. Infatti, una simile infrastruttura, sarebbe indiscutibilmente connessa ad un modello gestionale che punta a “maggior traffico uguale maggiori introiti”.

Certamente aver abbandonato il progetto preliminare del 2008 per puntare su di un tracciato sull’Aurelia, va verso questa direzione migliorativa ma occorre attendere la concreta presentazione del promesso progetto di adeguamento in sede dell’Aurelia tra Tarquinia e S. Pietro in Palazzi per poter esprimere un giudizio definitivo. Ma è possibile esprimere fin d’ora una forte preoccupazione per i problemi ambientali: in primo luogo l’inquinamento dell’aria, le emissioni di gas serra ed il rumore.

Secondo il progetto del lotto tra Tarquinia e Civitavecchia, la trasformazione in autostrada porta a risparmiare tempo (da 70 a 115 km/ora) e su questa base si costruisce la valutazione dei benefici. Ma proprio la maggiore velocità porta a peggiorare il clima acustico, così che saranno necessarie barriere per proteggere gli abitati dal rumore. Il pessimo effetto dei tunnel di barriere fonoassorbenti, l’impatto sul paesaggio per coloro che le vedono da fuori e anche sulla qualità del percorso per coloro che le vedono dall’autostrada è davvero uno dei problemi più delicati sul quale il nuovo progetto dovrà impegnarsi. E ancora l’aumento di velocità peggiora non solo il consumo energetico dovuto al traffico, ma anche le emissioni soprattutto per quanto riguarda le polveri fini. Mentre il risparmio di tempo dovuta alla velocità viene monetizzato ed entra a far a far parte del bilancio di fattibilità dell’autostrada, l’inquinamento, il rumore e il peggioramento della qualità ambientale dei luoghi dovuti alla stessa velocità non entrano nel bilancio della concessionaria.

Una stima prudente delle emissioni in atmosfera, atteso l’aumento del traffico secondo le ultime elaborazioni di SAT (31 mila autoveicoli/giorno al 2030 rispetto ai 18.000 attuali) comporterà per la sola tratta Civitavecchia - Livorno un aumento delle emissioni stimabile tra 120.000 e 300.000 ton/anno di CO2, a seconda delle diverse tipologie di veicoli, delle percorrenze medie e della crescita del traffico. Non va dimenticato che questa crescita di emissioni di gas serra, andrebbe viceversa ridimensionata anche rispetto ai dati attuali, secondo gli accordi internazionali ed il protocollo di Kyoto. Come verranno dunque compensati o mitigati questi impatti? Al momento, sembra non esistere alcuna volontà al riguardo da parte della SAT, che punta al massimo profitto e a far ricadere sulla collettività gli oneri ambientali.

Riuscirà il nuovo progetto a fare davvero i conti con questi problemi e ad attrezzare l’infrastruttura per regolare quantità e velocità del traffico in modo da rispettare le soglie di qualità ambientale garantite dalle norme a tutti i cittadini?

Infine la questione del paesaggio, che è assai rilevante in questi luoghi, dove il preteso “ritardo” costituisce oggi un vantaggio competitivo di straordinaria rilevanza per costruire un modello di sviluppo basato proprio sulla qualità delle risorse paesaggistiche, territoriali ed ambientali. Le mitigazioni esemplificate nella tratta Tarquinia Civitavecchia, che consistono nel mascheramento dell’infrastruttura con striminziti filari di alberi, non appaiono in grado di migliorare granché l’inserimento paesaggistico. La progettazione del paesaggio intorno alla strada, come molti esempi francesi o olandesi ampiamente dimostrano, offre invece possibilità straordinarie di inserimento paesaggistico dell’infrastruttura a bilancio positivo. Anzi in alcune parti deve diventare una riqualificazione secondo le caratteristiche storiche, ambientali e paesaggistiche dei luoghi, intervenendo sulle situazioni più degradate che già oggi si sono posizionate qua e là in modo disordinato lungo l’Aurelia, con capannoni, luoghi commerciali ed attività artigianali.

Ma certo occorre disporre di spazio, concordare con i proprietari di quello spazio le sistemazioni necessarie, operare e manutenere anche fuori dallo stretto sedime dell’infrastruttura. Tutte cose che costano e chiedono un atteggiamento del tutto nuovo da parte delle concessionarie di “stile italiano”.

Sarebbe interessante cogliere le aperture pur presenti nel nuovo atteggiamento SAT per rilanciare la sfida: è capace la concessionaria di realizzare una infrastruttura realmente innovativa? Un itinerario integrato pienamente con il sistema del trasporto pubblico e della viabilità locale, non penalizzante per la mobilità quotidiana degli abitanti, attrezzato con tutte le tecnologie telematiche per la sicurezza, il segnalamento, l’esazione automatica del pedaggio? Ma anche progettato per essere un reale contributo alla qualità del paesaggio, per ricucire e arricchire la rete ecologica, per “dosare” traffico e velocità in relazione alla sensibilità degli ambienti e delle circostanze, per offrire una inedita gamma di servizi agli utenti e anche ai territori attraversati?

In sostanza una strada fortemente innovativa, destinata ad assomigliare pochissimo ad una tradizionale autostrada, su cui non sarebbe neppure difficile, in luoghi di questa bellezza e preziosità, far confluire risorse comunitarie di progettazione e sperimentazione da costruire con la partecipazione delle collettività locali. Si può fare? A nostro parere ne varrebbe la pena.

ROMA - Lotta all´abusivismo: per difendere, oltre al territorio e all´ambiente, anche l´industria del turismo. Alla vigilia del Convegno nazionale in cui il Fai (Fondo per l´ambiente italiano) riunirà dal 25 al 27 febbraio alla Città della Scienza di Napoli i propri delegati e volontari, la presidente onoraria Giulia Maria Crespi lancia insieme al Wwf una campagna di mobilitazione contro la norma governativa - contenuta nel cosiddetto "decreto Milleproroghe" - che annulla di fatto le demolizioni delle costruzioni abusive in Campania. «Non posso credere che il governatore Stefano Caldoro porti avanti un´operazione destinata fatalmente a danneggiare la regione e i suoi cittadini».

Per voi, si tratta di un altro condono mascherato?

«Peggio ancora. Avallare un condono, dopo tre gradi di giudizio che hanno prodotto sentenze penali definitive, significa dare uno schiaffo alla magistratura e a tutta la giustizia italiana».

Perché lo giudicate tanto grave?

«Non grave, gravissimo. Per il fatto che non si annullano le demolizioni soltanto per gli abusi - diciamo così - normali, ma anche per gli edifici costruiti in aree vincolate. E allora mi chiedo: quanti saranno i disastri idro-geologici provocati dal mancato rispetto di questi vincoli? Quante sono le fabbriche o i capannoni realizzati negli alvei dei fiumi? Quante strade sono a rischio di frane o smottamenti? È una situazione che mette in pericolo anche tante vite umane».

Un condono, poi, è sempre diseducativo…

«Certamente. È un precedente, costituisce un cattivo esempio per il futuro. Così si alimenta la convinzione che, prima o poi, arriva una sanatoria. E alla fine, è sempre il cittadino onesto che paga».

In polemica con il governo, gli ambientalisti l´hanno definito un provvedimento "ad regionem".

«Sì, ma - come si sa - la mela marcia guasta anche quelle buone. Molte altre regioni si sentiranno autorizzate a fare altrettanto. In Lombardia, per esempio, il governatore Formigoni ha già puntato il dito contro i Parchi».

Ma il provvedimento per la Campania non è limitato alle "prime abitazioni" e a coloro che le "occupano stabilmente"?

«Guardi, io ho cinque figli. Se assegno a ciascuno una "prima casa", il problema è presto risolto. Fatta la legge, insomma, trovato l´inganno».

Al di là dei danni ambientali, voi temete anche un contraccolpo economico?

«Alla lunga, non credo che le grande aziende rimarranno in Italia. Sono i flussi della storia. Di immobile, invece, noi abbiamo il paesaggio e la bellezza. I Faraglioni non si possono trasferire da Capri in Cina né il Colosseo a New York. Ecco perché dobbiamo tutelare e valorizzare il patrimonio che abbiamo: è la principale attrattiva turistica del nostro Paese».

Purtroppo, in questo momento l´Italia non gode di una grande reputazione…

«Quando torna dall´America, dove insegna all´università, il mio amico Francesco Giavazzi mi racconta spesso che lì si parla più o meno male della nostra situazione politica ed economica, ma sempre bene della bellezza italiana. È vero, quando leggo i giornali stranieri e vedo il nostro Paese così bistrattato, ne provo vergogna. Ma per i turisti di tutto il mondo il viaggio in Italia continua ad avere un forte richiamo. Se continuiamo però a rovinare il paesaggio, l´Italia perderà sempre più fascino a livello internazionale».

Il suo tono sembra particolarmente accorato.

«Ho trascorso recentemente qualche giorno di riposo a Sirmione, dove andavo in vacanza da ragazza e avevo imparato a memoria i versi di Catullo in latino. Ora c´è cemento ovunque, si parcheggiano le automobili ai bordi del lago e non si può più neppure passeggiare. Per merito della Sovrintendenza che ha fatto un lavoro encomiabile, s´è salvato soltanto il piccolo promontorio con la casa di Catullo».

E al governo, intanto, che cosa manda a dire il Fai?

«Non dobbiamo più parlare soltanto di escort. Dobbiamo preoccuparci del patrimonio comune. Bisogna salvaguardare l´integrità dell´Italia: l´unità nazionale si difende anche attraverso il paesaggio e il turismo».

ROMA - Dopo 43 anni, per la Nuova Aurelia c´è un progetto definitivo. Venti giorni e sarà pubblico. Per conoscere il piano finanziario, due miliardi i costi, basterà una settimana. La Società autostrada tirrenica, nata a Grosseto il 21 ottobre 1968 per costruire la Livorno-Civitavecchia, è arrivata a un passo dalla missione. Il progetto, lungo 206 chilometri, è pronto: la Nuova Aurelia correrà lungo la Vecchia Aurelia. Semplice. Il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, è favorevole. Il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, che è anche sindaco di Orbetello, cittadina strategica, ha ottenuto un "taglio" di venti chilometri attorno all´Argentario e si dice soddisfatto. Di più. Dopo aver temuto chilometri di complanari e gallerie (progetto Lunardi), nuove autostrade nell´entroterra o lungo la costa, ora gli ambientalisti dialoganti si stanno convincendo: meglio limitare i danni e dire "sì" al progetto "in sede". Un intellettuale d´area come Vittorio Emiliani - la Bassa Toscana è piena delle seconde case di intellettuali, giornalisti, politici che alla Nuova Aurelia si sono fieramente opposti per stagioni - ha scritto sul "Tirreno": «L´ultimo progetto ricalca quello già appoggiato da Italia Nostra, Wwf e Lega Ambiente. Consuma poco suolo e paesaggio, costa la metà del disegno del 2008. Con i "no" aprioristici e aristocratici ci si salva (forse) l´anima e però si fanno passare le cose peggiori». La statale Aurelia, che in diversi punti oggi è "una variante" e lascia a margine la storica Aurelia (declassata, in quegli stessi punti, a provinciale), diventerà un´autostrada a pagamento a due corsie per senso di marcia. Si allargherà dagli attuali 14-18,60 metri a 24 metri (eccetto l´area "di rispetto" prima di Orbetello, tra Fonteblanda e Follonica: lì si salirà solo a 18,60 tagliando la corsia d´emergenza). Via gli incroci a raso e le pericolose svolte a sinistra. Saranno migliorati gli attuali 32 svincoli. Tutti gli altri accessi - non più diretti - saranno raccordati attraverso controstrade «che non toglieranno ingressi a residenze, fattorie e aziende», spiega l'amministratore delegato Ruggiero Borgia. Dieci le aree di servizio (la gran parte esistenti) e sette nuove barriere. Serviranno a pagare il pedaggio in uscita. Quanto? Ipotizzando 10-13 centesimi a chilometro, l´intero percorso Civitavecchia-Livorno potrà costare venti euro. Probabili esenzioni parziali per i residenti. Il cantierone della Nuova Aurelia sarà diviso in sei lotti. Il primo, a nord, Rosignano-San Pietro a Palazzi, è già avviato e sarà chiuso entro il 2012. Poi toccherà al Civitavecchia-Tarquinia. Tutto, si annuncia, sarà concluso entro il 2016. «L´abbattimento di case sarà minimo e così l´esproprio di terreni», assicura Borgia, «abbiamo fatto un progetto all´uncinetto, metro per metro».

Postilla

Zunino si riferisce a un articolo di Vittorio Emiliani sul Tirreno. Lo inseriamo qui di seguito, con in calce la precisazione che Emiliani ha inviato al direttore de la Repubblica .

il Tirreno, 16 febbraio 2011

Tirrenica sull'Aurelia. Il male minore

di Vittorio Emiliani



La quarantennale vicenda dell’autostrada della Maremma sembra vicina ad una svolta. Bisogna essere cauti e vedere quale sarà il progetto (e non soltanto il generico tracciato) soprattutto fra Grosseto e Civitavecchia. La linea enunciata dalla concessionaria SAT di una autostrada tutta sulla sede stessa dell’Aurelia rappresenta un indubbio passo avanti. E’ la “filosofia” che presiedeva al solo progetto vero messo sin qui in campo e cioè al progetto Anas di superstrada che sostenemmo: perché evitava le tanto (giustamente) temute complanari; consumava poco suolo e paesaggio (o ne consumava molto di meno); costava circa la metà dell’autostrada SAT-Regione Toscana, ecc. Si obietterà che quella era una superstrada e questa è una autostrada. In realtà nel lessico dell’Unione Europea non esistono superstrade, ma soltanto autostrade, cioè arterie di una determinata larghezza, con un guard-rail largo così, con corsie di emergenza, ecc. Se poi debbano essere a pedaggio o libere, questo è affare dei singoli Stati.

Quindi il progetto che la SAT presenterà a fine mese appare il più vicino per tracciato e impatto paesaggistico-ambientale a quello Anas, un grande volume ricco di dati e di carte, che all’epoca venne presentato – è bene ricordarlo agli smemorati di ogni parte – nella sede nazionale di “Italia Nostra” a Villa Astaldi a Roma, alla presenza del vertice di IN, di Fulco Pratesi presidente del Wwf, degli esponenti di Legambiente e di altre sigle. Da parte di tutti (ripeto: di tutti) vi fu un largo consenso sia pure con alcuni correttivi da introdurre. E a questo dovremmo essere nuovamente. Avendo stornato, con lotte, proposte e proteste, locali e nazionali, alcune minacce gravissime, fra le quali: a) il progetto Lunardi di autostrada a monte con varie gallerie; b) l’autostrada a mare parallela all’Aurelia (ridotta a strada ordinaria), con complanari e caselli devastanti, e alla ferrovia.

A nostro avviso la priorità assoluta dovrebbe essere costituita dal raddoppio e dalla messa in sicurezza dei due tratti, pericolosissimi (come conferma il recente incidente alla Torba, miracolosamente senza vittime), ad una corsia per senso di marcia, in Comune di Capalbio e fra Tarquinia e Civitavecchia. Dove l’Aurelia presenta un tasso di incidentalità doppio rispetto alla media toscana. Il resto dovrebbe venire adeguato – nelle corsie di emergenza e nei troppi ingressi a raso – in base ad un piano certo. Ma la Regione Toscana – dove il presidente Rossi e l’assessore Marson hanno dato precisi segnali di attenzione al paesaggio e all’ambiente, come da anni non succedeva - deve proporre con forza al governo una politica dei trasporti integrata, centrata sulla rivalorizzazione della ferrovia tirrenica (invece negletta), per passeggeri e merci, in funzione dei porti di Livorno e di Piombino, e su quelle autostrade del mare di cui quasi non si parla più (una delle tante follie italiane). Coi “no” aprioristici e aristocratici ci si salva (forse) l’anima e però ci si condanna all’impotenza e si fanno passare le cose peggiori.

La lettera di precisazione

di Vittorio Emiliani



Caro direttore,

nell'articolo uscito oggi su "Repubblica" Corrado Zunino mi fa dire, sbrigativamente, cose che non ho detto. Sul "Tirreno" ho infatti scritto che una decina di anni fa Italia Nostra, Wwf, Legambiente, Comitato per la Bellezza si espressero favorevolmente, con alcuni punti critici da approfondire, sul progetto Anas di una superstrada da Rosignano a Civitavecchia. Che costava la metà del progetto autostradale SAT-Regione, consumava molto meno suolo, riduceva l'impatto paesaggistico, ecc. Ho osservato che il tracciato proposto ora dalla SAT ricalca in buona parte quel progetto e quindi rappresenta un passo avanti, ma che bisogna andarci cauti e verificare bene le cose non sul tracciato bensì sul progetto annunciato come prossimo dalla concessionaria . Quindi non c'è nessun favore preventivo da parte di Wwf, Legambiente (Italia Nostra rimane, a quanto pare, del tutto contraria), Rete Comitati Toscani, Comitato per la Bellezza, ecc. Non firmiamo cambiali in bianco. Proprio per questo abbiamo fatto studiare la cosa da due valide esperte di trasporti come Anna Donati e Maria Rosa Vittadini e renderemo al più presto pubblici i risultati di tali indagini. Sempre attendendo il progetto dettagliato e ribadendo la priorità per la il raddoppio della strada attuale ancora a corsia unica nei due tratti, pericolosissimi, fra Tarquinia e Civitavecchia e in Comune di Capalbio. Grazie dell'ospitalità, cordialmente

La decisione è contenuta del decreto Mille Proroghe. Lo stop alle ruspe sarebbe valido anche nelle aree vincolate, in una regione attraversata da strumenti di tutela ambientale e piani paesaggistici che interessano il 60% del territorio

Ci riprovano. Stavolta con un emendamento al “mille proroghe”, che ha ottenuto l’ok in commissione parlamentare. L’obiettivo della maggioranza di governo è lo stesso contenuto nel decreto legge della primavera dell’anno scorso, miseramente naufragato in sede di conversione: fermare sino alla fine dell’anno, al 31 dicembre 2011, gli abbattimenti degli immobili abusivi in Campania. E nella sola Campania. Molte le analogie tra oggi ed allora. A cominciare dal primo firmatario del provvedimento, il senatore Pdl Carlo Sarro, avvocato amministrativista che non disdegna la difesa di persone e imprese colpiti da procedimenti di demolizione. Questa volta però lo stop alle ruspe sarebbe valido anche nelle aree vincolate, in una regione attraversata da strumenti di tutela ambientale e piani paesaggistici che interessano il 60% del proprio territorio: le isole, le aree costiere, le colline, le aree di naturale espansione urbanistica per effetto delle nuove esigenze abitative e della crescita demografica. Ma c’è anche un 10% dei comuni campani sprovvisto di piani urbanistici, dunque in ritardo di 68 anni rispetto alle leggi. Cento comuni dispongono solo dei vecchi piani di fabbricazione, cancellati nel 1982. Norme e prassi preistoriche che hanno favorito il proliferare dell’illegalità.

L’emendamento Sarro funzionerebbe da “salvacondotto” per tutti i casi di mattone selvaggio, a prescindere dalla data di realizzazione dell’abuso. Purché si tratti di prima casa, in uso a persona o famiglia che non dispone di altre risorse abitative, che non rappresenti un pericolo per l’incolumità di chi la occupa. Altrimenti le ruspe potrebbero intervenire comunque. L’emendamento però non riapre i termini del condono, ma secondo il senatore Sarro “consentirà alla Regione di avere il tempo necessario per riscrivere i piani paesaggistici”. E quindi di allentare i vincoli. Comunque si guadagna tempo per sperare in un condono vero e proprio.

Nel decennio 1994 – 2003, quello che riguarda l’ultimo condono, sono state registrate nella sola Campania 76.836 opere abusive. E’ un record nazionale. Qui si concentra circa il 20% delle illegalità edilizie tricolori. In pratica, più di un abuso ogni cento abitanti. In Campania sono circa 65.000 i manufatti interessati da una sentenza penale di condanna passata in giudicato, con la sanzione accessoria dell’abbattimento e del ripristino dello stato dei luoghi. Per iniziare ad eseguire le decisioni della magistratura dopo anni di inerzia, dal 2008 la Procura generale di Napoli ha istituito un pool, coordinato da Ugo Riccardi. Il team di toghe si avvale del lavoro prezioso della sezione Ambiente della Procura di Napoli, guidato da Aldo De Chiara. Poche settimane fa scritte minacciose all’indirizzo di De Chiara e del governatore della Campania Stefano Caldoro sono state ritrovate su un auto parcheggiata a pochi metri di distanza dalla casa del papà di Caldoro, sull’isola d’Ischia. Un’isola interessata da 774 sentenze di demolizione, diverse delle quali già eseguite, tra proteste, tafferugli, e migliaia di persone a chiedere un nuovo condono e ‘la salvezza’ delle case abusive.

Secondo il rapporto Ecomafie 2009 di Legambiente, è la provincia di Salerno a collezionare il maggior numero di casi di abusivismo. Sarebbero 93.000 le aree che risultano libere al catasto, e che in realtà sono occupate da case senza licenze e autorizzazioni. La frenesia edilizia contagia principalmente le due costiere, quella amalfitana e quella cilentana. Ma non si scherza nemmeno nell’agro-nocerino-sarnese, dove negli ultimi vent’anni 27.000 persone sono state denunciate per abusi edilizi, praticamente il 10% della popolazione residente.

Giugliano (Na). La città-sversatoio della Campania, soffocata da tonnellate di ecoballe e da rifiuti depositati ovunque, vanta anche altri tipi di statistiche poco tranquillizzanti: 500 immobili sequestrati, tra case e locali commerciali, e 900 ordinanze di demolizione. Nei primi mesi del 2010 qui sono stati eseguiti otto abbattimenti sul litorale.

Castelvolturno (Ce). E’ interessata da 15mila pratiche di condono (dati del 1985) su circa 50mila unità immobiliari lungo la parte centrale del litorale domizio. Nel 1994 se ne sono aggiunte altre 3000. A Villa Literno il piano messo a punto dalla Procura generale prevederebbe 37 abbattimenti, i primi per circa 500 case abusive censite. E nella vicina Casal di Principe, la capitale di Gomorra, il luogo della cattura del boss latitante Antonio Iovine, le case abusive sarebbero circa 1000.

Costiera sorrentina (Na). Nel 2004 gli uffici tecnici dei paesi leader del turismo campano sono stati travolti da circa 3000 istanze di condono, di cui 600 nella sola Massa Lubrense, dove è nato un agguerrito comitato antiruspe, che l’anno scorso organizzò un convegno col senatore Sarro e il sindaco Leone Gargiulo. Per i condoni 1985 e 1994 le pratiche di condono furono in tutto 4260. Nel 2004 a Sorrento sono state presentate 650 istanze (2750 nei due precedenti condoni), 450 a Vico Equense (3600 in precedenza). Sant’Agnello è stata interessata 388 domande (ma ne pendevano già 1500 circa). A Piano di Sorrento i dati sono i seguenti: 630 pratiche nel 2004, 2000 negli anni precedenti. A Meta, infine, 250 nel 2004 e 2500 le istanze precedenti. Nella vicina area stabiese sarebbero circa 300 le demolizioni da eseguire, circa 150 nella sola Castellammare di Stabia. A Gragnano tra gli edifici a rischio abbattimento c’è pure la sopraelevazione di una villa appartenente a un boss di camorra.

Michele Buonomo. Il presidente campano di Legambiente va giù durissimo. “Questo emendamento è indecente, è uno schiaffo alla lotta contro l’abusivismo che, come testimoniano i morti di Sarno e Ischia, mina la sicurezza del territorio e mette a rischio la vita delle persone. E’ la vittoria dei faccendieri alla Cetto Laqualunque”.

Recensione al volume L’Aquila, Progetto C.A.S.A. - Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili. Un progetto di ricostruzione unico al mondo che ha consentito di dare alloggio a 15.000 persone in soli nove mesi dal terremoto del 6 aprile 2009, a cura di Roberto Turino, Editore IUSS, € 20,00

“Nevicava ma sembrava primavera”. Queste parole dell’ideatore del Progetto C.A.S.E. sintetizzano in modo incisivo l’epopea ingegneristica vissuta nel post-terremoto aquilano dai realizzatori del progetto, un’avventura “eccezionalmente singolare” descritta con grande dettaglio di particolari nel recente libro “L’Aquila- Il Progetto C.A.S.E. - Un progetto unico al mondo che ha consentito di dare alloggio a quindicimila persone in soli nove mesi”.

Il volume, curato da Roberto Turino, è prodotto e pubblicato da Eucentre (il centro di competenza del Dipartimento della Protezione Civile per la ricerca sismica) tramite la sua casa editrice IUSSpress, ed è disponibile nelle librerie Feltrinelli al modico prezzo di 20 euro perché finanziato dai Costruttori ForCASE , cioè dal gruppo di imprese protagoniste della ricostruzione in Abruzzo (altrimenti costerebbe 7-8 volte di più).

Per i nostalgici dell’architettura, dell’ingegneria e dell’urbanistica degli anni ’60, il libro è di sicuro interesse. Al contrario, per coloro che non rimpiangono le sfide di quegli anni infelici (“la diga più alta”, “il ponte più lungo”, “l’impianto più potente”), che tanto hanno contribuito alla devastazione del nostro paese, ai grandi scempi urbanistici e allo sventramento e all’abbandono dei centri storici nonché alla crescita incontrollata di periferie metropolitane, le 500 fotografie, le 200 immagini e i disegni tecnici contenuti nelle 430 pagine di questo volume, sono una doppia ferita culturale e umana.

Il volume, perfettamente rifinito sotto il profilo editoriale, potrebbe essere brevemente liquidato come un eminente esempio di cultura ingegneristica superata dal tempo. Le immagini non lasciano dubbi. La povertà architettonica e l’estetica cimiteriale delle costruzioni, la disarmonia con il contesto, il consumo di territorio, l’eccesso ingiustificato e costosissimo di “sicurezza” , la rovina del paesaggio, le incoerenze urbanistiche balzano agli occhi di chi sfoglia le pagine, e il primo istinto è quello di non proseguire. Un sinistro passato che ritorna e un futuro già contrassegnato non sono sopportabili. Ma, poiché, come recita il testo: ”Questo è un libro di pubblicità. Di pubblicità della capacità italiana di costruire e gestire imprese impossibili” , destinato a girare in Italia e nel mondo, non si può non spendere qualche parola sulla retorica del “miracolismo ingegneristico” che impregna ogni pagina del libro. Miracolismo italiano che, nel Progetto C.A.S.E., avrebbe trovato la sua massima espressione facendo di questo progetto, come recita il sottotitolo “un modello unico al mondo”. Il volume è perciò già oggetto di propaganda in Italia e all’estero per potere vendere (come già fatto ad Haiti) il “modello L’Aquila” (così viene definito!) di ricostruzione dopo le catastrofi.

Il testo è un inno, un canto di vittoria, che va letto in crescendo. L’introduzione di Guido Bertolaso dà il via. Anche se spiazza un po’ il lettore (per ben due fitte pagine vengono elencate le tante critiche che il lettore potrebbe muovere al progetto: altissimi costi, invadenza, compromissione del territorio, ecc.) è evidente però che, nel suo caso, il canto della vittoria è anche e soprattutto un tentativo di “difesa”.

Segue poi la presentazione dell’“idea”, orgogliosamente rivendicata come propria dal direttore di Eucentre Prof. Ing. Gianmichele Calvi, che, in una nota, precisa di avere ricevuto il compenso lordo di 64.800 euro e un rimborso spese di 13.935 euro (pur essendo il motore di “tutto”). Il linguaggio ingegneristico è quello tipico degli anni ’60 (“gli edifici sismicamente più sicuri mai costruiti in Italia”, “mille viaggi di betoniere al giorno”, “il mondo ha ancora bisogno di Costruttori”, ecc.). Il Progetto C.A.S.E. è presentato soprattutto come una “sfida di ingegneria” e di “sfide nella sfida”: sfida della tecnologia e della sicurezza sismica, sfida della logistica, sfida della qualità e della sicurezza, sfida dell’energia e dell’impatto ambientale, ma, soprattutto “sfida della velocità”. “Velocità, velocità, velocità”, così inizia un paragrafo che riporta ancora più indietro negli anni, a Marinetti, ad esempio.

Poi si descrive in dettaglio il “progetto “ (si apprende, per inciso, che il progetto dei giardini è degli architetti di Milano 2); si passa quindi alla “ realizzazione”, ai “cantieri”, alle diverse “tecnologie” impiegate (“che non si conoscevano e che hanno vissuto matrimoni d’amore e di interesse”), e infine ai“risultati”.

Alla magnificenza sulla qualità dei lavori, si aggiungono, per certificare la quantità e la trasparenza, i numeri, spesso a otto-nove cifre che riguardano le ore lavorative, gli importi di gara, il numero dei verbali, le tonnellate di ferro, i metri quadri di casserature , i metri cubi di calcestruzzo, i metri lineari di tubazioni, ecc. ma anche il numero delle tovaglie, dei piatti, delle forbici e delle grattugie… Per non parlare della galassia dei numeri sugli isolatori. Insomma, “una risposta per ogni domanda”, come, per l’appunto, dice Guido Bertolaso nell’introduzione. Certo, i “nemici” potrebbero obiettare che qualche numero è stato dimenticato, per esempio: quanto è costato il Progetto C.A.S.E. prima che il terremoto avvenisse, visto che già si trovava nel surgelatore e che è stato proposto agli amministratori locali solo due giorni dopo?

Poi si descrivono anche “le intenzioni “ e “le persone”. E qui, ci sarebbe da restare commossi di fronte alle parole poetiche usate per indicare la passione per i terremotati, l’entusiasmo di squadra, il timore e il tremore di fronte all’eccezionalità dell’impresa, l’orgoglio, e infine la speranza di raggiungere l’alto traguardo e di avere “la splendida ricompensa di un sorriso e di un grazie da parte di chi aveva perso la propria abitazione e, purtroppo, non di rado anche congiunti o amici a causa del terremoto”.

“Nevicava, ma sembrava primavera”, esclama il Prof. Calvi ricordando i volti sorridenti degli abitanti quando uno degli edifici fu sottoposto alla riproduzione di un possibile evento sismico reale.

Ma come non ricordare anche il triste finale degli schizzi di fango gettati sul Capo del Dipartimento nel febbraio 2010 e che hanno infangato anche l’ideatore e i realizzatori del Progetto C.A.S.E.? Il volume si chiude descrivendo appunto il mesto passaggio “Dall’orgoglio alla vergogna, immeritata”.

Alle tante ragioni espresse partendo da altre ottiche (storica, sociale, urbanistica, economica), o alle tante ragioni che riguardano punti specifici (molto ad esempio ci sarebbe da dire sull’impiego di isolatori, non molto innovativi ma soprattutto molto costosi ed eccedenti in sicurezza per semplici palazzine a tre piani), la ragione più evidente, dalla prospettiva della cultura ingegneristica, è che il Progetto C.A.S.E. rappresenta un vero e proprio ritorno all’indietro. Per chi ha seguito l’evoluzione dell’Ingegneria degli ultimi 50-60 anni, non solo non è un progetto innovativo, ma è un esempio di rivoluzione culturale al negativo. Nasce da un’ideologia del “moderno” e della “dismisura” di 50 anni fa. Usa lo stesso linguaggio ingegneristico di allora, un linguaggio, che, a partire dalla fine degli anni ‘70, è stato superato dal linguaggio dell’”incertezza” e della “complessità”, espressione di un’ingegneria più umile, più responsabile, più attenta alle leggi della natura, alle regole della tutela e della conservazione, a ciò che può dare benessere e felicità a tutti, e cioè paesaggio, monumenti, attività produttive, e tutte le espressioni di una civiltà e di una cultura del territorio. Un ingegneria che non per questo è necessariamente inefficiente, anzi tutt’altro se si pensa che, con le tecnologie di allora, le abitazioni semipermanenti dopo il terremoto del Friuli furono costruite in 15 mesi, cioè solo sei mesi in più che a L’Aquila, senza invece lasciare tracce sul territorio.

Il Progetto C.A.S.E. è un ritorno all’ingegneria che rimuove l’idea di complessità, all’ingegneria violenta, prepotente, aggressiva, senza freni, che vede un nemico nella natura, autorefenziale, che si muove con destrezza violando leggi e regolamenti, è un ritorno all’ingegneria dei miracoli, dei grandi numeri, dell’onnipotenza, che persegue interessi e vantaggi aziendali, incollata al presente, senza memoria, che non conosce il normale scorrere del tempo, che ignora l’interesse collettivo, che esprime energia e vitalità per nascondere la povertà culturale (e naturalmente i sottostanti interessi) e che per apparire al passo coi tempi, usa tutte le parole dell’avversario (“rispetto del territorio”, “ecosostenibilità”, persino “economicità” e “risparmio di suolo”) per svuotarne la carica critica.

Un’ingegneria che è una minaccia per il nostro paese, come appunto questo libro dimostra.

Firenze 28.01.2011

Il calo della vendita di automobili nel mondo occidentale non è contingente ma la crisi di un sistema maturo, che dopo un grande successo, con 35 milioni di veicoli in circolazione solo in Italia e il 65,5% di cittadini che la usa ogni giorno, mostra i suoi limiti. Limiti della crescita si direbbe, con la necessità di puntare sulla mobilità sostenibile con idee e progetti per la riconversione del sistema produttivo dell’automobile e del sistema di trasporti basato sul tutto strada.

C’è consapevolezza che la riconversione non è semplice né rapida perché i numeri sono impressionanti: il sistema «auto» dalla costruzione alla vendita e manutenzione impiega in Italia circa 1.000.000 persone, nel settore dell’autotrasporto lavorano 330.000 addetti (dati Eurostat) ed il sistema di prelievo fiscale del sistema auto ( veicoli, carburanti, multe) porta nelle casse dello stato ogni anno 81 miliardi, circa il 20% delle entrate totali.

Gli occupati nei servizi di trasporto



Ma altri dati del sistema trasporti italiano indicano comunque opportunità e numeri utili da cui partire in modo realistico: nel settore del trasporto pubblico e privato su strada (inclusi i taxi) lavorano 150.000 addetti, nel trasporto ferroviario nazionale e locale sono impiegate altre 110.000 unità, il sistema portuale nel suo complesso impiega 100.000 addetti e circa 25.000 muovono il sistema di trasporto marittimo, ben 45.000 addetti lavorano nelle agenzie di viaggio e come operatori turistici. In totale sono circa 430.000 gli addetti nei servizi di trasporto «sostenibili» rispetto al complesso dei servizi di trasporto pari a 968.491 addetti in Italia. (dati Eurostat 2006)

Colpisce che confrontando i dati italiani con la Germania, è che su di un totale di 1.317.000 addetti nei servizi di trasporto, lavorano nell’autotrasporto il 23,4% (309.000) e ben il 22, 2% (292.500) sono impiegati nel trasporto pubblico e privato su strada, in pratica il doppio dell’Italia, dove lavorano nel trasporto collettivo solo il 15,4% e nell’autotrasporto il 34%. Già da questo confronto con il paese che è la locomotiva d’Europa, possiamo trarre suggerimenti su cosa dovremmo fare anche in Italia: aumentare i servizi di trasporti ai passeggeri e ridimensionare il trasporto di merci su strada con l’intermodalità della gomma con ferro e mare. Già oggi una stima prudente di esperti del settore indica che il personale direttamente impegnato per la produzione dell’intermodalità terrestre è dell’ordine di 4.000/5.000 persone e sono questi i settori innovativi da far crescere.

Peccato che in questo momento in Italia la strada intrapresa sia esattamente opposta. Il governo ha tagliato le risorse per il trasporto collettivo su ferro (circa 20%) e le Regioni alle prese con i tagli della manovra Tremonti stanno ridimensionando gli autobus. Insomma nessun piano di efficienza serio che riduca i costi, innovi i servizi e rilanci il settore. Allo stesso modo una forte innovazione è richiesta nei servizi di trasporto delle persone a domanda individuale dato che solo una parte di spostamenti può essere risolta a costi accessibili con il trasporto collettivo. Sarebbe preferibile non vendere automobili in proprietà ma offrire servizi di trasporto in auto, come car sharing, autonoleggio «facile», taxi collettivo e noleggio con conducente.

Nel trasporto merci le cose non vanno meglio, con il trasporto ferroviario in caduta libera ed il sistema portuale in frenata . Poche le briciole destinate all’ecobonus per il trasporto combinato, ma ben 400 milioni anche per il 2011 in aiuti all’autotrasporto su strada. Insomma la solita strategia: grande sostegno all’autotrasporto (ben 5 miliardi in dieci anni) e quasi nulla a tutto il resto.

La produzione dei veicoli e gli investimenti per infrastrutture

Per la produzione dei veicoli sono oggi impiegati 130.000 addetti complessivi producono autovetture mentre la produzione degli autobus ne occupa circa 10.000, quello del

ferroviario e tramviario circa 15.000, infine le due ruote ( moto, ciclomotori e bicicletta) occupano circa 13.500 addetti. Se vogliamo parlare di riconversione, da un lato dobbiamo indurre un ridimensionamento del sistema auto, che comunque manterrà sempre una quota significativa di produzione, sia per il mercato sostitutivo e sia per l’innovazione di prodotto e di servizi, con un’auto a basse emissioni, sicura, riciclabile, ad energia rinnovabile. Un veicolo che ancora non c’è e che richiede un progetto di ricerca pubblico/privato credibile, che coinvolga centri di ricerca, università, intelligenze, legato direttamente alla soluzione del problema dei carburanti dopo la fine del petrolio.

L’altra strategia essenziale nel settore industriale è puntare all’aumento della produzione di autobus, di treni, tram, tutti segmenti produttivi che oggi sono in forte sofferenza sia perché mancano investimenti pubblici per l’ammodernamento dei mezzi di trasporto collettivo e sia perché questo alimenta la debolezza delle nostre imprese nella concorrenza globale. Nessun investimento significativo sta arrivando nel settore del trasporto ferroviario metropolitano e regionale, anzi per coprire i buchi del taglio al servizio ferroviario pendolare il governo ha dirottato le scarse risorse (460 milioni) destinate ai treni e quindi ormai del necessario piano per i 1.000 nuovi treni per i pendolari del costo di 6 miliardi (come il Ponte sullo Stretto!) ormai è rimasto ben poco.

Anche il settore autobus vive una crisi molto seria perché si è smesso di investire nell’ammodernamento dei mezzi di trasporto collettivo su strada. Il governo non investe, le aziende non hanno risorse per i nuovi veicoli ed è stata abbondata la strategia di anni passati che aveva abbassato l’età media del parco autobus: adesso siamo a 9,3 anni di media contro i 7 anni della media europea.

Anche la vendita delle due ruote, cicli e motocicli sta vivendo una crisi evidente, con una piccola ripresa della bicicletta a seguito degli incentivi assicurati dal governo nel 2009, nonostante che vi sia molto interesse e disponibilità da parte dei cittadini verso queste modalità sostenibili. L’ Ancma stima che in Italia siano circa 90.000 le persone impiegate nella commercializzazione, riparazione ed accessori di prodotti legati alla bicicletta, moto e scooter: si tratta di numeri significativi.

Infine anche nel campo degli investimenti serve riorientare la spesa dalle grandi opere inutili e dalla costruzione di nuove autostrade programmate verso le reti per la mobilità su ferro urbana e regionale, il vero buco nero del nostro sistema di trasporti. E questo è anche un modo per dare occupazione per opere utili nel settore delle costruzioni. Manca di nuovo il governo, che d’intesa con le regioni e le città metropolitane individui una spesa costante e duratura per queste grandi opere strategiche.

I costi della riconversione



Non sfugge a nessuno che la principale obiezione che verrà alla riconversione del sistema «tutto auto», è la necessità di ingenti risorse pubbliche e private per poter camminare, un problema molto serio.

Una parte della spesa deve essere riconvertita da sussidi perversi che vengono dati adesso a sistemi da disincentivare come l’autotrasporto e le grandi opere inutili per destinarla a trasporto combinato ed infrastrutture ferroviarie urbane. In alcuni settori innovativi legati a nuovi servizi di trasporto dovrà essere incoraggiata e sostenuta l’iniziativa privata. Le aziende di trasporti pubblici su gomma e ferro dovranno fare la loro parte per l’efficienza dei costi perché è impensabile aumentare i servizi aumentando i debiti.

La ricerca scientifica per veicoli innovativi e sui carburanti puliti e rinnovabili dovrebbe far parte di un filone di ricerca pubblica, così come gli investimenti per autobus e treni dovrebbero far parte di un progetto industriale promosso dal governo. Se si innesta un circolo virtuoso anche la spesa delle famiglie che oggi destinano 90 miliardi ogni anno per l’uso dell’automobile potrà essere riconvertita verso servizi di trasporto alternativo, aumentandone la redditività. Insomma sarà dura ma si può e si deve fare.

Colpisce che il piano Marchionne di rilancio di Mirafiori punti a costruire Suv per il mercato americano, con componenti che provengono dagli Usa assemblati a Torino, che tornano per essere rifiniti e pronti per la vendita nel mercato americano. Un sistema insostenibile di globalizzazione dei trasporti che scarica sulla collettività i suoi effetti negativi.

Genova. “Quarantacinque milioni di metri cubi di nuove costruzioni. Il Piano casa della Liguria è come Attila. Per questa regione, per il suo paesaggio, ma anche per il turismo e l’economia sarebbe un colpo fatale. Sta per arrivare una seconda rapallizzazione”: Angelo Bonelli, presidente nazionale della Federazione dei Verdi punta dritto il dito sul piano della Regione che attende l’approvazione definitiva del Consiglio. Annuncia una raccolta di firme. Già, una storia da raccontare. Primo, per l’ambiente, perché secondo gli studi in mano ai Verdi e compiuti da esperti dell’Università La Sapienza di Roma le nuove norme porterebbero circa 45 milioni di nuovi metri cubi di cemento. Una città. Secondo, perché nasce un caso politico nazionale: per i Verdi, il piano della giunta di centrosinistra di Claudio Burlando “è molto peggio di quello sardo di Ugo Cappellacci”.

Nessuna sorpresa, il Pd ligure da anni brilla per le scelte cementificatorie. Ma non basta: a presentare il piano è la vicepresidente, quella Marilyn Fusco che rappresenta in giunta l’Italia dei Valori. Il partito che alle ultime elezioni sui manifesti scriveva a caratteri cubitali: “Ambiente”. Rifondazione e Sel minacciano di non votare il piano degli alleati. Il presidente del Consiglio regionale, Rosario Monteleone (Udc), sospende l’iter di approvazione (per togliere le norme contestate o aggiungerne altre?). Intanto il documento viene “arricchito” per la gioia dei costruttori.

L’ultima aggiunta: chi demolisce un edificio e lo ricostruisce può chiedere il cambio di destinazione d’uso. Paolo Berdini, urbanista, la spiega così: “È il cavallo di troia per trasformare le fabbriche in case. Questo piano è il peggiore d’Italia, la morte dell’urbanistica”. Da più di un anno associazioni e cittadini danno battaglia. Dai frequentatori del blog di Beppe Grillo arrivarono centinaia di messaggi alla Regione. Alla fine sembrava che la Liguria si fosse salvata: gli emendamenti più devastanti, presentati dallo stesso centrosinistra, furono ritirati. C’era stata perfino una dichiarazione di Burlando che aveva fornito rassicurazioni: “Ritengo che sia un provvedimento equilibrato e giusto. Forse chi ha diffuso pubblicamente giudizi negativi preventivi dovrebbe oggi riconoscere che le cose stavano e stanno diversamente”. Si trattava, disse Burlando, “di giudizi affrettati e forse non formulati in buona fede”.

Che cosa dicevano i critici in malafede? Che il Piano Casa della Liguria concedeva ampliamenti volumetrici tra l’altro a edifici condonati e a strutture industriali. Insomma, che si rischiava una devastazione in una regione dove già il 45 per cento del territorio è “consumato” (record italiano). È passato un anno. Soprattutto sono passate le elezioni che Burlando e il centrosinistra temevano di perdere. E così ecco che il piano casa di nuovo cambia volto. Il contenuto: ampliamenti per gli immobili condonati e per i manufatti industriali e artigianali (leggi capannoni) fino al 35 per cento. Non solo: possibilità di demolire e ricostruire con aumento volumetrico estesa a tutti gli immobili, dunque non soltanto a edifici pericolanti e ruderi. Insomma, i timori di chi, secondo Burlando, “aveva avanzato giudizi negativi preventivi… e forse non formulati in buona fede” sembrano concretizzarsi. “Si premia chi non ha rispettato le norme urbanistiche, chi ha realizzato abusi”, sostengono i Verdi. Burlando, però, non ha dubbi: “Abbiamo dato la possibilità di modesti ampliamenti volumetrici a favore delle attività produttive in un momento di drammatica difficoltà per le nostre imprese”.

Ma visto quello che è successo in Liguria qualche perplessità è perlomeno legittima: in tanti ricordano come basti poi una piccola variazione di destinazione d’uso, due righe sui documenti, per trasformare una zona industriale in residenziale. Gli esempi non mancano: a Cogoleto dove sorgeva la Tubighisa alcuni imprenditori amici del furbetto Gianpiero Fiorani stanno realizzando 174 mila metri cubi di nuove abitazioni per 1.500 abitanti. Un’operazione voluta dal centrosinistra e firmata dall’architetto Vittorio Grattarola, fraterno amico di Burlando e membro della sua associazione politica Maestrale (dove sta accanto ad altri architetti, imprenditori del mattone e tecnici pubblici che si occupano di urbanistica e, ovviamente, al presidente della Regione che dà il via libera ai progetti). Di più: si dice che anche gli edifici alberghieri saranno ammessi ai benefici. “Il Pdl e la Lega volevano altro. Così come le associazioni dei costruttori”, disse un anno fa Burlando. Oggi forse possono dirsi accontentati.

E pensare che il centrosinistra nazionale era insorto contro il Piano Casa Burlando: “È il piano più cementizio d’Italia”, aveva attaccato Roberto Della Seta (Pd), accusando la “lobby del cemento” interna al partito. Pippo Civati e Debora Serracchiani non erano stati meno duri: “Se la realtà del Piano varato da un’amministrazione di centrosinistra dovesse superare le fantasie di Berlusconi, ci sarebbe da preoccuparsi. Il centrosinistra ligure abbia la forza di distinguersi da questo modo di procedere. La nostra generazione non si deve macchiare degli stessi errori compiuti dalla precedente”. Il Pd ligure, però, già allora aveva fatto capire che aria tirava: “Serracchiani e Civati farebbero bene a pensare ai fatti loro, anziché parlare di cose che non conoscono”, disse Mario Tullo, allora segretario ligure del Pd. Di sicuro lui di cemento ne sa parecchio.

«Uno Stato parallelo», definisce così Marisa Dalai Emiliani - presidente dell'associazione Bianchi Bandinelli - ciò che di grave è avvenuto nella «gestione del terremoto», a conclusione del convegno "L' Italia non può perdere L' Aquila" (Roma, teatro dei Dioscuri, 19 gennaio). E ricorda come fu imposto, durante la gestione dell'emergenza, «il silenzio stampa a soprintendenti e funzionari». Una gestione autoritaria che ha le sue origini, Marisa Dalai cita l'ex direttore del servizio sismico nazionale Roberto De Marco, in quella legge del 2001 che «ha trasformato i grandi eventi in catastrofi e le catastrofi in grandi eventi». Stato parallelo è un'espressione forte per Marisa Dalai, storica dell'arte "senior" abituata a misurare le parole, con un'esperienza trentennale nella gestione dei terremoti, dal Friuli, dove arrivò come volontaria, all'Irpinia e all'Umbria. Questa volta la sua esperienza, come quella di tutti o quasi coloro che hanno memoria storica e pratica dei terremoti, non è servita, è stata respinta. Il consuntivo è amaro: «Deficit di democrazia, deficit di cultura, deficit di organizzazione istituzionale». E l'impressione è che lo stato parallelo, a quasi due anni dal sisma, continui ad operare. Un'ordinanza, spiega Gianfranco Cerasoli, della Uil del ministero, sancisce la fine dell'emergenza, un decreto di Gianni Chiodi affida gli «interventi di restauro non a chi è deputato per legge, cioè alla soprintendenza, bensì al vice commissario Marchetti che avrebbe dovuto occuparsi della sola messa in sicurezza».

Ma se questa è la diagnosi, quali sono gli effetti pratici nel recupero del patrimonio storico artistico della città? Quale il disegno politico che si nasconde dietro l'emarginazione di 630 funzionari delle soprintendenze abruzzesi, stipendiati per fare ciò che, invece, viene affidato e pagato a consulenti esterni. Uno degli effetti dell'emarginazione degli specialisti funzionari dello Stato potrebbe essere quello che vedete rappresentato nella foto qui sopra: a palazzo Carli Benedetti la ditta dei lavori di messa in sicurezza ha perforato gli affreschi di un portale del 700 facendovi passare i tiranti. «L'attuale ministro Sandro Bondi - dice Marisa Dalai Emiliani - si è rivelato il Grande Liquidatore». La storica dell' arte cita tre fatti dalle conseguenze nefaste: «La riduzione delle risorse del 55% in meno di un decennio, il prepensionamento dei funzionari con maggiore esperienza, l'Istituto centrale di restauro, l'Opificio delle pietre dure, l'istituto di patologia del libro, scuole preziose che non possono più rilasciare il titolo di restauratore».

L'Aquila-Italia, dunque: non si sfugge alla regola dei tagli orizzontali di Tremonti, le cifre le dà Gianfranco Cerasoli: i fondi ordinari e il lotto per l'Abruzzo nel 2010 erano 5.788.000 euro, nel 2011 saranno 2.611.000. Il ministro Bondi aveva promesso l’1% dei fondi Arcus per un decennio ma questa cifra, pari a 25 milioni annui, è scomparsa per lasciare posto alla promessa di 60 milioni in un decennio. Ci dovrebbe essere un tesoretto nascosto, quello di Win for Life. Il decreto istitutivo del gioco destina - è ancora Cerasoli a parlare – 23% alla ricostruzione in Abruzzo. «Ma dove sono i 230,7 milioni su 990 fin qui raccolti?». Eppure, se non si trovano le risorse, «saranno buttati 120 milioni di euro spesi per le opere provisionali, perché a distanza di due anni l'efficacia dei puntellamenti è al 30%». Un discorso a sé va fatto sull' ingente patrimonio ecclesiastico. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, nel 1976, l'arcivescovo di Udine Alfredo Battisti lanciava lo slogan «prima le case poi le chiese». C'è una lettera dell'agosto scorso dei vescovi dell'Aquila al presidente commissario Chiodi che mette in evidenza come la Chiesa sembra essersi adeguata al sistema delle deroghe introdotto dalle ordinanze della Protezione civile che, come sostiene Vezio De Lucia, è «una violazione legalizzata della legge». I prelati, monsignor Molinari e monsignor D'Ercole, lamentano in effetti l'incertezza delle procedure perché «manca un preciso quadro di riferimento normativo» ma poi, sollecitando i finanziamenti pubblici, chiedono «una disciplina per l'affidamento dei lavori con modalità a tutela della diocesi, ma con apposite deroghe (ad esempio sul codice degli appalti) che consentano una rapida ricostruzione». Recuperare, riaprire il centro storico, non è solo una questione di beni culturali. È anche, dice il sindaco Massimo Cialente, una questione di vita e di morte. «Solo gli aquilani sanno cosa era la nostra vita lì, mentre io mi vedo arrivare decreti e regole da gente che non sa nemmeno dove sono le strade principali: la ricostruzione del centrò storico deve partire subito, altrimenti la vita si sposterà altrove e non tornerà più». Nella classifica del sole 24 ore il sindaco ha guadagnato 8 punti percentuali di consenso e non è temerario pensare che li abbia acquistati lasciando la carica di vice commissario. «Vi svelo un retroscena», dice: «addebitare da parte di organi dello stato tutte le difficoltà a una sola istituzione, alla più debole, aveva una sola ragione, decidere chi avrebbe ricostruito, tenendo fuori il sindaco».

Ogni giorno l´Emilia-Romagna consuma una quantità di suolo pari a dodici volte Piazza Maggiore - Dal 1950 abbiamo perso il 40 per cento della superficie libera del Paese. La Liguria si è dimezzata - Anche il diffondersi delle energie alternative corre il pericolo di alimentare la speculazione e fare danni all´ambiente - In Veneto le aree urbanizzate sono cresciute in 60 anni del 324 per cento ma la popolazione solo del 32

I dati certi su cui fare affidamento sono pochi, non sempre concordanti per via dei diversi metodi di misurazione utilizzati, ma tutti ci parlano in maniera univoca di un consumo impressionante del territorio italiano. Stiamo compromettendo per sempre un bene comune, perché anche la proprietà privata del terreno non dà automaticamente diritto di poterlo distruggere e sottrarlo così alle generazioni future. Circa due anni fa su queste pagine riportavamo che l´equivalente della superficie di Lazio e Abruzzo messi insieme, più di 3 milioni di ettari liberi da costruzioni e infrastrutture, era sparita in soli 15 anni, dal 1990 al 2005. Dal 1950 abbiamo perso il 40% della superficie libera, con picchi regionali che ci parlano, secondo i dati del Centro di Ricerca sul Consumo di Suolo, di una Liguria ridotta della metà, di una Lombardia che ha visto ogni giorno, dal 1999 al 2007, costruire un´area equivalente sei volte a Piazza Duomo a Milano. E non finisce qui: in Emilia Romagna dal 1976 al 2003 ogni giorno si è consumato suolo per una quantità di dodici volte piazza Maggiore a Bologna; in Friuli Venezia Giulia dal 1980 al 2000 tre Piazze Unità d´Italia a Trieste al giorno. E la maggior parte di questi terreni erano destinati all´agricoltura. Per tornare ai dati complessivi, dal 1990 al 2005 si sono superati i due milioni di ettari di terreni agricoli morti o coperti di cemento.

Come si vede, le cifre disponibili non tengono conto degli ultimi anni, ma è sufficiente viaggiare un po´ per l´Italia e prendere atto delle iniziative di questo Governo (il Piano Casa, per esempio) e delle amministrazioni locali per rendersene conto: sembra che non ci sia territorio, Comune, Provincia o Regione che non sia alle prese con una selvaggia e incontrollata occupazione del suolo libero. Purtroppo, nonostante il paesaggio sia un diritto costituzionale (unico caso in Europa) garantito dall´articolo 9, la legislazione in materia è in gran parte affidata a Regioni ed Enti locali, con il risultato che si creano grande confusione, infiniti dibattiti, nonché ampi margini di azione per gli speculatori. Per esempio la recente legge regionale approvata in Toscana che vieta l´installazione d´impianti fotovoltaici a terra sembra valida, ma è già contestata da alcune forze politiche. In Piemonte è stata invece approvata una legge analoga, ma meno efficace, suscitando forti perplessità dal "Movimento Stop al Consumo del Territorio". In realtà, in barba alle linee guida nazionali per gli impianti fotovoltaici - quelli mangia-agricoltura - essi continuano a spuntare come funghi alla stregua dei centri commerciali e delle shopville, di aree residenziali in campagna, di nuovi quartieri periferici, di un abusivismo che ha devastato interi territori del nostro Meridione anche grazie a condoni edilizi scellerati.

Ci sono esempi clamorosi: Il Veneto, che dal 1950 ha fatto crescere la sua superficie urbanizzata del 324% mentre la sua popolazione è cresciuta nello stesso periodo solo per il 32%, non ha imparato nulla dall´alluvione che l´ha colpito a fine novembre. Un paio di settimane dopo, mentre ancora si faceva la conta dei danni, il Consiglio Regionale ha approvato una leggina che consente di ampliare gli edifici su terreni agricoli fino a 800 metri cubi, l´equivalente di tre alloggi di 90 metri quadri.

Guardandoci attorno ci sentiamo assediati: il cemento avanza, la terra fa gola a potentati edilizi, che nonostante siano sempre più oggetto d´importanti inchieste giornalistiche, e in alcuni casi anche giudiziarie, non mollano l´osso e sembrano passare indenni qualsiasi ostacolo, in un´indifferenza che non si sa più se sia colpevole, disinformata o semplicemente frutto di un´impotenza sconsolata. Del resto, costruire fa crescere il Pil, ma a che prezzo. Fa davvero male: l´Italia è piena di ferite violente e i cittadini finiscono con il diventare complici se non s´impegnano nel dire no quotidianamente, nel piccolo, a livello locale. Questa è una battaglia di tutti, nessuno escluso.

Ora si sono aggiunte le multinazionali che producono impianti per energia rinnovabile, insieme a imprenditori che non hanno mai avuto a cuore l´ambiente e, fiutato il profitto, si sono messi dall´oggi al domani a impiantare fotovoltaico su terra fertile, ovunque capita: sono riusciti a trasformare la speranza, il sogno di un´energia pulita anche da noi nell´ennesimo modo di lucrare a danno della Terra. Anche del fotovoltaico su suoli agricoli abbiamo già scritto su queste pagine, prendendo come spunto la delicatissima situazione in Puglia. I pannelli fotovoltaici a terra inaridiscono completamente i suoli in poco tempo, provocano il soil sealing, cioè l´impermeabilizzazione dei terreni, ed è profondamente stupido dedicargli immense distese di terreni coltivabili in nome di lauti incentivi, quando si potrebbero installare su capannoni, aree industriali dismesse o in funzione, cave abbandonate, lungo le autostrade. La Germania, che è veramente avanti anni luce rispetto al resto d´Europa sulle energie rinnovabili, per esempio non concede incentivi a chi mette a terra pannelli fotovoltaici, da sempre. Dell´eolico selvaggio, sovradimensionato, sovente in odore di mafia e sprecone, se siete lettori medi di quotidiani e spettatori fedeli di Report su Rai Tre già saprete: non passa settimana che se ne parli su qualche testata, soprattutto locale, perché qualche comitato di cittadini insorge. È sufficiente spulciare su internet il sito del movimento "Stop al Consumo del Territorio", tra i più attivi, e subito salta agli occhi l´elenco delle comunità locali che si stanno ribellando, in ogni Regione, per i più disparati motivi.

Intendiamoci, questo non è un articolo contro il fotovoltaico o l´eolico: è contro il loro uso scellerato e speculativo. Il solito modo di rovinare le cose, tipicamente italiano. Anche perché l´obiettivo del 20% di energie rinnovabili entro il 2020 si può raggiungere benissimo senza fare danni, e noi siamo per raggiungerlo ed eventualmente superarlo. Questo vuole essere un grido di dolore contro il consumo di territorio e di suolo agricolo in tutte le sue forme, la più grande catastrofe ambientale e culturale cui l´Italia abbia assistito, inerme, negli ultimi decenni. Perché se la terra agricola sparisce il disastro è alimentare, idrogeologico, ambientale, paesaggistico. E´ come indebitarsi a vita e indebitare i propri figli e nipoti per comprarsi un televisore più grosso: niente di più stupido.

Il problema poi s´incastra alla perfezione con la crisi generale che sta vivendo l´agricoltura da un po´ di anni, visto che tutti i suoi settori sono in sofferenza. Sono recenti i dati dell´Eurostat che danno ulteriore conferma del trend: "I redditi pro-capite degli agricoltori nel 2010 sono diminuiti del 3,3% e sono del 17% circa inferiori a quelli di cinque anni fa". Così è più facile convincere gli agricoltori demotivati a cedere le armi, e i propri terreni, per speculazioni edilizie o legate alle energie rinnovabili. Ricordiamoci che difendendo l´agricoltura non difendiamo un bel (o rude) mondo antico, ma difendiamo il nostro Paese, le nostre possibilità di fare comunità a livello locale, un futuro che possa ancora sperare di contemplare reale benessere e tanta bellezza.

Per questo è giunto il momento di dire basta, perché rendiamoci conto che siamo arrivati a un punto di non ritorno: vorrei proporre, e sperare che venga emanata, una moratoria nazionale contro il consumo di suolo libero. Non un blocco totale dell´edilizia, che può benissimo orientarsi verso edifici vuoti o abbandonati, nella ristrutturazione di edifici lasciati a se stessi o nella demolizione dei fatiscenti per far posto a nuovi. Serve qualcosa di forte, una raccolta di firme, una ferma dichiarazione che arresti per sempre la scomparsa di suoli agricoli nel nostro Paese, le costruzioni brutte e inutili, i centri commerciali che ci sviliscono come uomini e donne, riducendoci a consumatori-automi, soli e abbruttiti.

Una moratoria che poi, se si uscirà dalla tremenda situazione politica attuale, dovrebbero rendere ufficiale congiuntamente il Ministero dell´Agricoltura, quello dell´Ambiente e anche quello dei Beni Culturali, perché il nostro territorio è il primo bene culturale di questa Nazione che sta per compiere 150 anni. Sono sicuro che le tante organizzazioni che lavorano in questa direzione, come la mia Slow Food, o per esempio la già citata rete di Stop al Consumo del Territorio, il Fondo Ambientale Italiano, le associazioni ambientaliste, quelle di categoria degli agricoltori e le miriadi di comitati civici sparsi ovunque saranno tutti d´accordo e disposti a unire le forze. È il momento di fare una campagna comune, di presidiare il territorio in maniera capillare a livello locale, di amplificare l´urlo di milioni d´italiani che sono stufi di vedersi distruggere paesaggi e luoghi del cuore, un´ulteriore forma di vessazione, tra le tante che subiamo, anche su ciò che è gratis e non ha prezzo: la bellezza. Perché guardatevi attorno: c´è in ogni luogo, soprattutto nelle cose piccole che stanno sotto i nostri occhi. È una forma di poesia disponibile ovunque, che non dobbiamo farci togliere, che merita devozione e rispetto, che ci salva l´anima, tutti i giorni.

Un centro commerciale (un altro?) nella campagna lombarda. Sorgerà sulle rive del Naviglio, a Borgarello, paese a nord di Pavia, non distante dalla Certosa. La Regione guidata da Roberto Formigoni ha dato l’ok al progetto. Il fatto in sé non meriterebbe neppure due righe in cronaca: nella miriade di centri commerciali che spuntano come funghi al Nord, è come dare notizia di un cane che morde un uomo. Ma attorno a questo morso banale, ci sono anche uomini che mordono cani: dunque forse vale la pena di raccontarlo, lo strano caso del centro commerciale sulla riva del Naviglio pavese.

Intanto è curioso che la Regione abbia dato il via libera al progetto, visto che il suo “Piano territoriale regionale d’area Navigli lombardi” sostiene che bisogna valorizzare e preservarele aree ancora libere nei pressi di quei corsi d’acqua (una fascia di 100 metri dalle sponde, di 500 in presenza di aree agricole, ricorda Renato Bertoglio, responsabile locale di Legambiente). E cosa c’è di meglio di un bel centro commerciale di 240 mila metri quadrati, per valorizzare le aree agricole di Borgarello?

Ancor più strano è il fatto che, dopo dieci anni di tentativi, a condurre in porto l’operazione sia un commissario prefettizio, che dovrebbe limitarsi a gestire l’ordinaria amministrazione: sì, nel municipio di Borgarello decide il commissario Michele Basilicata, perché il sindaco, Giovanni Valdes (Pdl), è in galera. Già buono sponsor dell’affare, oggi Valdes non se ne può più occupare: ha lasciato il municipio di Borgarello per una più scomoda cella del carcere di Opera.

Arrestato nel luglio scorso, nel corso della grande operazione antimafia che ha decapitato la ’Ndrangheta in Lombardia, è accusato di turbativa d’asta: avrebbe truccato la gara per vendere un terreno davanti al suo municipio, finito a una società, la Pfp, riconducibile, secondo il pm Ilda Boccassini, a Carlo Chiriaco, uomo d’affari che ha ammesso di essere affascinato dai boss calabresi che gli ronzavano attorno. A Valdes, uomo di Cl, consigliere della Compagnia delle opere, il giudice ha rifiutato la scarcerazione a causa della“disinvoltura con cui il sindaco di Borgarello ha messo a disposizione di Chiriaco e dei suoi sodali la funzione pubblica svolta”. Ha fatto carte false,“con collusioni e mezzi fraudolenti”, per far vincere la gara all’amico degli amici.

Non sappiamo se ha usato la stessa“disinvoltura”anche nelle pratiche sul centro commerciale, ma certo in questi casi sarebbe bene usare il massimo della prudenza. Invece: avanti tutta. Strada spianata alla società Progetto commerciale srl di Costantino Serughetti. Malgrado il commissariamento del Comune e le perplessità dei partiti. Ufficialmente la Lega è contraria e così pure il Pd. Ma poi i capataz locali della politica sono, chissà perché, tutti favorevoli (a parte Rifondazione). Compresi i sindaci Pd dei paesi vicini, Certosa e Giussago.

E sapete, ultima chicca, chi è il progettista del centro? L’ex dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Borgarello, Giuseppe Masia, prima ha lavorato al piano del territorio e alla valutazione ambientale strategica. Ha detto sì, nel nome dell’interesse generale. Poi si è alzato dalla sua poltrona pubblica e si è seduto dall’altra parte del tavolo. Salto della quaglia in bassa padana.

Così su queste pagine si apriva - parecchi anni fa - la telenovela del Centro Commerciale Borgarello con quello che poi si è trasformato nel primo capitolo del libro I Nuovi Territori del Commercio (f.b.)

N ella rassicurante convivialità familiare natalizia spesso ho pensato a L'Aquila e ai suoi abitanti ormai in diaspora continua. Leggo, infatti, che molti degli occupanti nei Map (ossia i Moduli abitativi provvisori) sono stati trasferiti in altre strutture, mi auguravo per un riavvicinamento familiare ma non è così; è ancora in corso una sorta di «assestamento», «assegnamento» e «designazione» di alloggi.

Assieme al panorama familiare e amicale, è cambiato anche il modo di riunirsi, incontrarsi fare conoscenza. Sparsi in una area vasta che comprende vari Comuni lontani tra loro, gli esuli del terremoto stanno cambiando il loro modo di vivere, dimentichi delle strade che si incrociavano e si aprivano ai saluti e a nuovi incontri. Le strade de L'Aquila! Attorno agli attuali Map, zero punti di aggregazione vera. Dunque, in giro, si odono appuntamenti dati a "l'Aquilone".

L'Aquilone non è fatto di carta e non si libra nel cielo abruzzese. È un centro commerciale che (ecco il nome, purtroppo) sorge fuori dalla città. Costruito una decina di anni fa, ora vive il suo massimo splendore; questo è il nuovo percorso dello «struscio» e della «conversazione». Il giorno del terremoto gli abruzzesi e gli aquilani hanno perso tutto ed hanno anche perso quella forma di socializzazione che rappresentava l'ultimo grado di umanità e di affetti. Ora tutto viene mescolato, in una povertà spirituale e sociale immensa, in un sali-scendi di scale mobili e splendenti vetrine, market e svendite.

La manifestazione Cercalibro si è svolta presso un centro commerciale a Coppito (e bisogna ringraziarlo). Fra qualche anno il fenomeno verrà studiato soprattutto per come la sconsideratezza di una pseudo ricostruzione abbia potuto trasformare antropologicamente una intera popolazione. Eppure il sindaco Massimo Cialente e la presidente della Provincia Stefania Pezzopane, nel 2009 riuscirono a far rivivere la città con belle iniziative natalizie e a costo zero grazie a numerosi sponsor. L'Aquila del Natale appena concluso è una città fantasma ben filmata su YouTube. Il video testimonia che L'Aquila deve restare al centro dei servizi di informazione.

Nuovi progetti infrastrutturali per la base aerea di Aviano (Pordenone), sede del principale comando dell’Us Air Force in Europa e trampolino di lancio dei cacciabombardieri a capacità nucleare F-16 nei Balcani e in Medio oriente. “Priorità strategica per i piani di lavoro 2011”, come ha spiegato Jeff Borowey, responsabile del Comando d’ingegneria navale Usa per l’Europa, l’Africa e l’Asia sud occidentale, Aviano assorbirà da sola più del 27% degli investimenti destinati per il nuovo anno al potenziamento delle basi aeree Usa nel vecchio continente. Si tratta di 29 milioni e duecentomila dollari, 10 milioni e duecentomila destinati alla costruzione di una “Air Support Operations Squadron (ASOS) Facility” e 19 milioni per 144 alloggi per il personale del 31° Stormo dell’Us Air Force.

“La nuova facility di Aviano deve rispondere adeguatamente alle necessità amministrative, operative, addestrative e di manutenzione e stoccaggio veicoli ed attrezzature dell’8° Squadrone per le Operazioni di Supporto Aereo (8th ASOS)”, scrive il comando dell’Us Air Force nella richiesta di finanziamento per il 2011 presentata al Congresso. Giunto nella base friulana a fine 2006 dalla caserma Ederle di Vicenza, l’8° Squadrone è composto da una quarantina di uomini che forniscono il supporto al “Comando e Controllo Tattico delle componenti congiunte delle forze aeree e terrestri statunitensi per le operazioni di guerra”. “Questo progetto - aggiunge il comando dell’Us Air Force - consentirà di sostenere l’iniziativa di trasformazione voluta dall’aeronautica militare per consentire il collegamento diretto dell’ASOS con le unità aeree e dell’US Army di stanza ad Aviano”. Dallo scorso anno è infatti operativa nella base, accanto ai reparti aeronautici, la 56th Quartermaster Company, letteralmente 56^ Compagnia Timonieri, unità dipendente dalla 173^ Brigata trasportata dell’Us Army di Vicenza, specializzata nelle tecniche di aviolancio. “Secondo le linee guida progettuali”, spiega il Pentagono, “le aree destinate ad uffici ASOC cresceranno in superficie del 30% (2.414 mq), mentre quelle riservate a deposito veicoli di un 25% circa (550 mq). È prevista l’installazione di condizionatori d’aria, sistemi antincendio e distribuzione di energia, collegamenti internet e telefonici, apparecchiature di protezione luminosa e attenuazione dei rumori. Questo progetto risponderà alle richieste del Dipartimento della difesa in materia di protezione da attacchi terroristici e richiederà l’approvazione da parte di una commissione mista USA-Italia”.

La seconda importante tranche finanziaria ottenuta dall’Air Force è riservata alla realizzazione di nuovi dormitori multipli per gli avieri, dotati di saloni, servizi, lavanderia e ampi parcheggi. “Saranno demoliti i tre dormitori attualmente utilizzati nell’Area A2 di Aviano in vista della sua restituzione al governo italiano (rimozione dalla lista delle infrastrutture di proprietà Usa)”, scrive il comando Us Air Force nella richiesta di finanziamento al Congresso. Il nuovo complesso abitativo sorgerà accanto alle sei palazzine esistenti nella cosiddetta Area 1 (distante circa 5 chilometri dall’Area 2), dove sono concentrate le unità abitative, l’ospedale e le scuole per i figli del personale militare. Secondo il comando del 31st Civil Engineer Squadron, le modalità per la restituzione dei circa 13 acri (52.611 mq) dell’Area 2 sono in via di definizione con le autorità militari italiane e la decisione di “ricongiungimento” dei dormitori sarebbe stata dettata dai “rischi per i militari” e dalle difficoltà di protezione dei veicoli in transito sulla strada statale che collega i due siti. “A causa della gravità delle violazioni ai sistemi di sicurezza nell’Area A2, un dormitorio è già stato chiuso del tutto e solo il 50% di un secondo dormitorio è usato ancora oggi”, spiegano ad Aviano. “La costruzione di una struttura con 144 alloggi nel principale campus della base secondo le prescrizioni dell’Air Force 2008 Dormitory Master Plan, consente a tutti i residenti di non essere più “facile obiettivo” in caso di evento terroristico; la chiusura dell’Area A2 elimina inoltre il grande blocco stradale esistente”.

Aviano si conferma dunque come una delle principali basi-cantiere delle forze armate Usa in Europa. Nell’ottobre 2009 è entrato in funzione l’“Airborne Equipment/Parachute Shop”, costo 12 milioni e 100 mila dollari, un megadeposito di 4.000 mq che ospita i materiali necessari per le operazioni di aviolancio e altre attrezzature pesanti dei reparti Us Army di Vicenza. Recentemente è stata pure completata la costruzione di una infrastruttura di 5.000 mq atta ad ospitare sino a un migliaio di paracadutisti della 173^ Brigata in attesa di imbarco (“PAHA - Personnel Alert Holding Area”). Accanto ad essa sorge pure una piattaforma per le soste operative dei grandi velivoli da trasporto delle forze armate Usa, in grado di ospitare simultaneamente sino a dodici C-130 o cinque C-17. A fine 2009 sono stati completati infine i lavori di riparazione della rete stradale e del sistema d’illuminazione del parcheggio della base per una spesa complessiva di 750 mila dollari.

Attualmente il distretto europeo dell’Us Army Corps of Engineers sta eseguendo una serie di lavori di manutenzione per circa 4 milioni di dollari, che includono la riparazione di alloggi, scuole, piste aeree e di una facility per l’addestramento anti-incendio. Il 31st Civil Engineer Squadron ha inoltre dato il via ad un piano biennale con un investimento di 5 milioni di dollari che prevede la realizzazione di 16 progetti di “risparmio energetico”, tra cui l’installazione di un impianto geotermico nel Fitness Center, pannelli solari per la piscina e i dormitori destinati ai militari e un sistema d’irrigazione con acqua piovana dei campi sportivi e del campo da golf realizzato nel 2006 su 3 ettari e mezzo di superficie dell’aeroporto “Pagliano e Gori”. Per la rizollatura dell’“Alpine Golf Corse” di Aviano, l’Us Air Force ha pubblicato a fine settembre un bando di gara e i lavori dovrebbero iniziare a giorni. Altro bando per un milione di dollari è stato pubblicato a fine luglio per la ristrutturazione dei fabbricati Command Post Facility n. 1360 e Alternate Command Post n. 1135, ubicati entrambi nell’Area F della base. Tutti questi impianti rientrano nel piano di ammodernamento e potenziamento infrastrutturale per il valore di 610 milioni di dollari denominato “Aviano 2000”: si tratta complessivamente di 99 grandi progetti (33 gestiti dall’Aeronautica militare italiana e 66 dalle forze armate statunitensi), a cui si aggiungono 186 interventi di dimensioni minori. Obiettivo strategico è quello di trasformare Aviano nella maggiore installazione dell’Us Air Force per “condurre la guerra aerea e nello spazio e le operazioni di supporto al combattimento nella Regione europea meridionale”. Come specificato dal Comando dell’aeronautica nel suo report finanziario 2011 “ad Aviano si mantengono operativi due squadroni di cacciabombardieri F-16 fighter per operare regionalmente ed extra-area su richiesta della NATO, di SACEUR o della nazione con munizioni convenzionali e non-convenzionali. La base mantiene operativo anche uno squadrone di controllo aereo per le attività di sorveglianza, controllo e comunicazioni”. Le schede allegate al nuovo piano forniscono il censimento aggiornato del patrimonio immobiliare Usa ad Aviano: si tratta di una lunga lista di infrastrutture, alloggi, depositi, ecc. presenti in 1.192 acri di terreno, valore complessivo 740 milioni e 700 mila dollari. Lo scorso anno, l’Us Air Force ha pure pubblicato uno studio sul cosiddetto “impatto economico” generato delle basi estere, il quale prende in considerazione i “beni e i servizi acquistati localmente” dal personale militare, gli stipendi versati al personale civile locale, gli affitti degli alloggi e i lavori appaltati a ditte e imprese delle nazioni ospitanti. Stando ai militari Usa, nell’ultimo anno “il valore totale del denaro immesso nell’economia locale di Aviano raggiunge i 427 milioni di dollari”. Di questi, 199 milioni corrisponderebbero alle spese sostenute fuori dalla base dal personale militare e civile statunitense e dai dipendenti civili italiani; 47,3 milioni sono stati generati dalle attività di costruzione, 16 milioni dalle spese “per servizi”, 104,9 dall’acquisto di materiali ed attrezzature. L’Us Air Force si spinge nel quantificare in 1.743 i posti di lavori “secondari” generati dalla base aerea friulana, con un apporto di 59, 8 milioni di dollari in retribuzioni e contributi salariali. Anche se restano misteriose le modalità e i parametri con cui sono stati stimati i presunti “benefici” economici dell’installazione, una prima incongruenza traspare dal computo degli appartenenti alle forze armate e dei dipendenti civili in forza ad Aviano. Lo studio “sull’impatto economico” calcola infatti una presenza di 348 ufficiali, 3.409 militari semplici, 594 civili Usa e 934 lavoratori civili italiani. Nella scheda presentata al Congresso, sempre dall’Us Air Force, per i fondi infrastrutturali del 2011, il personale Usa ad Aviano è invece leggermente inferiore (303 ufficiali, 3.196 militari semplici e 764 civili). Nelle stime manca poi qualsivoglia riferimento agli impatti “negativi” sull’economia e la società locale, non certo indifferenti in termini di contaminazioni ambientali, traffico veicolare, inquinamento acustico, consumo di territorio, depauperamento risorse idriche e naturali, rischi di dispersione di materiali radioattivi, accumulazione rifiuti solidi e speciali, ecc.. I comandi Usa, che lo scorso anno hanno pubblicamente enfatizzato il “business” generato dal mercato degli affitti degli immobili destinati al personale statunitense (“36 milioni e 600 mila euro all’anno”), preferiscono glissare sul fatto che la stramaggioranza dei contratti sottoscritti direttamente dal Dipartimento della difesa riguardano immobili di proprietà di quattro grandi società immobiliari che hanno sede fuori dalla provincia di Pordenone. A ciò si aggiunge il piano di drastico ridimensionamento delle spese recentemente varato dal Pentagono il quale prevede entro la fine del 2011 una riduzione degli alloggi locati ad Aviano da 726 a 531 unità e del canone medio mensile da 8.712 dollari a 6.372, con una spesa finale di 16.078.000 dollari contro i 20.734.000 del 2009.

A rendere ancora più asimmetrica la relazione costi-benefici per la popolazione locale l’ammontare delle risorse pubbliche dirottate dalle amministrazioni locali per interventi infrastrutturali pro-base. Nel gennaio 2009, ad esempio, sono state consegnate due rotatorie e una serie di bretelle intermedie sul confine meridionale dell’aeroporto “Pagliano e Gori”, sulla strada provinciale Aviano-Pordenone e la circonvallazione nord di Roveredo. Gli interventi si sono resi necessari per regolarizzare i voluminosi flussi veicolari verso lo scalo aereo (oltre 5.000 mezzi al giorno), e hanno comportato una spesa di oltre tre milioni di euro da parte dell’amministrazione provinciale di Pordenone e della Regione Friuli Venezia Giulia.

Carta patinata, quattro facciate e in prima pagina la foto di un’elegante porta d’ingresso ripresa dall’alto e di uno zerbino dove sta scritto: “Da inquilino a proprietario il passo è breve, non devi neanche uscire di casa”. Firmato Enasarco, l’ente di previdenza dei 400 mila rappresentanti di commercio e promotori finanziari. Migliaia di depliant di questo tipo sono stati diffusi in questi giorni nei palazzi di proprietà dell’istituto, con un volantinaggio di massa che ha avviato il lancio del piano Mercurio, cioè la vendita del gigantesco patrimonio immobiliare dell’ente, 17.063 appartamenti di cui 15.245 solo a Roma, per un valore di circa 4,5 miliardi di euro. Un’impresa che durerà mesi e sta scatenando una guerra tra inquilini ancora prima che sia venduto il primo alloggio.

I portavoce dell’ente raccontano che il call center è tempestato di telefonate di gente che vuole dettagli sull’affare e preme perché i contratti si facciano alla svelta. Sempre secondo le stesse fonti, le condizioni offerte non solo sono trasparenti in quanto garantite da un accordo siglato con i sindacati, ma sarebbero particolarmente vantaggiose per gli acquirenti: sconto del 30 per cento sul prezzo a metro quadro fissato dall’Agenzia del territorio, mutui Bnp Paribas-Bnl della durata di 40 anni con interessi ridotti e senza spese di perizia, costi notarili bassi, possibilità di far partecipare all’acquisto anche parenti fino al quarto grado dei titolari dei contratti di affitto.

In effetti per le centinaia di affittuari privilegiati e di lusso dell’ente, dal ministro Elio Vito al vice Roberto Castelli, dai parlamentari ai sindacalisti, quei signori che per alloggi nelle zone in di Roma e Milano hanno pagato per anni canoni da case popolari, poter comprare a quelle condizioni è la ciliegia sulla torta: dopo una vita da inquilini vip ora diventerebbero proprietari in carrozza. Anche per gli affittuari con redditi medi e medio-alti l’offerta di acquisto delle case può risultare un’occasione vantaggiosa, anche se a costo di molti sacrifici.

Ma il pianeta Enasarco ha anche un’altra faccia: migliaia di inquilini anziani con redditi bassi o medio-bassi e famiglie di lavoratori dove in casa entra solo uno stipendio, probabilmente la maggioranza, che considerano il piano Mercurio non un affarone, ma una sòla, una pistola puntata alla tempia, pronta ad esplodere facendoli sprofondare nella miseria. Per far sentire le loro ragioni si sono organizzati in comitati; solo a Roma ne sono sorti una dozzina, dall’Ostiense a Monteverde, da Torre Rossa alla Cassia. Conti alla mano, nonostante tutti gli sconti e le garanzie, loro, gli inquilini con i redditi più bassi, non ce la faranno mai a comprarsi casa.

Prendiamo un caso classico: un pensionato ultrasessantenne con un reddito mensile netto tra i 1.000 e i 1.500 euro che abita in un appartamento tra i 60 e gli 80 metri quadri. Dando per scontato che non abbia i 180 mila euro per comprarsi sull’unghia e con lo sconto la casa, dovrà per forza accendere un mutuo. Dal momento che non può usufruire di quello della durata di 40 anni pubblicizzato nei dépliant Enasarco e riservato a chi ha al massimo 38 anni, il nostro pensionato bene che vada otterrà un mutuo di 15 anni e dovrà pagare una rata mensile di 1.350 euro, a cui dovrà aggiungere la rata del condominio e le spese per la manutenzione straordinaria, particolarmente onerose in immobili generalmente trascurati come quelli in vendita. Insomma, dovrà decidere se rinunciare alla casa o fare la fame.

Se rinuncerà all’acquisto, però, non sarà salvo, perché entrerà nel girone dei dannati dello sfratto. Non subito, magari, perché tra le “clausole di tutela dell’inquilinato” ce n’è anche una che consente agli affittuari di restare negli alloggi invenduti per 5 anni, con una proroga di altri 3. La regola, però, vale solo per determinate categorie: chi è senza famiglia e ha un reddito imponibile sotto i 30 mila euro all’anno, oppure chi vive con un familiare e non supera i 33 mila euro fino ad arrivare a 42 mila euro per una famiglia di 4 persone. Dopo i 5 anni di tregua, gli alloggi invenduti saranno comunque trasferiti dall’Enasarco a fondi immobiliari gestiti da Prelios (la ex Pirelli Re) e da Paribas Real Estate. E a quel punto per gli inquilini le possibilità di non essere buttati fuori di casa si ridurranno davvero al lumicino.

Strada facendo gli inquilini anziani e le famiglie con redditi bassi hanno trovato alleati inaspettati: le organizzazioni dei rappresentanti di commercio tipo la Federagenti o l’Ugifai e quelle dei promotori finanziari come l’Anasf, assai dubbiose sull’operazione Mercurio. Agenti di commercio e promotori, cioè coloro che ogni mese pagano fior di contributi all’Enasarco, temono che la vendita del patrimonio immobiliare si trasformi in un boomerang e finisca per affossare l’ente i cui conti sono già abbastanza malmessi, mandando in fumo le pensioni future. Secondo loro l’operazione di vendita degli appartamenti, pensata per incamerare un’ottimistica plusvalenza di 1,4 miliardi di euro in tre anni (500 milioni nel 2011, 600 nel 2012 e 300 nel 2013), è sbagliata perché polverizza il patrimonio immobiliare, trasferisce il ricavato in investimenti in titoli ed azioni in un momento di grande volatilità del mercato finanziario e quindi rischia di trasformarsi in un bagno storico.

Carlo Massaro, presidente dell’Ugifai, un passato da consigliere Enasarco dove contribuì a bloccare l’operazione di vendita dei palazzi dell’ente ai “furbetti del quartierino” di Stefano Ricucci, lo ha scritto in maniera chiarissima in una lettera alla commissione parlamentare degli enti gestori: “Trasformare oggi il mattone in moneta significa correre rischi enormi”. Il presidente dei promotori finanziari Anasf, Elio Conti Nibali, ci aggiunge un carico da novanta: “I dirigenti Enasarco ritengono di far fruttare al 3,5 lordo per 10 anni il ricavato delle vendite immobiliari. É un’illusione”. Una proiezione attuariale preparata dallo studio Orrù e consegnata a Luca Gaburro, segretario della Federagenti, dimostra inoltre che la gigantesca vendita degli immobili Enasarco non è in grado di garantire la sostenibilità finanziaria trentennale stabilita per legge a garanzia dell’erogazione delle pensioni e quindi sarebbe inevitabile un inasprimento della quota contributi-va, addirittura il raddoppio. Insomma, i conti Enasarco stanno saltando e il progetto Mercurio non è risolutivo. Riflette Gaburro: “Per salvare le nostre pensioni, a questo punto l’unica strada è passare armi e bagagli l’Enasarco all’Inps”.

Crisi o non crisi le famiglie italiane continuano a non indebitarsi troppo. Soprattutto nel confronto degli altri europei degli americani e dei giapponesi. Quando lo fanno, poi, è principalmente per accendere un mutuo e comprare casa, che rappresenta il pezzo forte del loro patrimonio. Lo rivela l’indagine Bankitalia sulla ricchezza delle famiglie italiane nel 2009, cioè il secondo anno di recessione, il più "nero"della crisi. Si tratta quindi di dati condizionati da una realtà congiunturale difficile, che confermano la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi fortunati ma che dimostrano anche che gli italiani, forse per la connaturata voglia di risparmiare e per l’attaccamento al mattone, resistono meglio di altri alle avversità dell’economia. La piramide del benessere non è molto cambiata negli ultimi anni: il 10%delle famiglie possiede quasi il 45%della ricchezza complessiva che solo per il 10%è suddivisa tra la metà più povera dei cittadini. E’ un dato che sorprende sempre anche se è ancora più stupefacente scoprire che la quasi totalità delle famiglie italiane ha una ricchezza netta superiore a quella del 60%delle famiglie dell’intero pianeta. Insomma nonostante tutto l’Italia appartiene alla parte più ricca del mondo. Il confronto internazionale premia gli italiani anche sui debiti: sono i più parsimoniosi visto che hanno passività pari al 78%del reddito disponibile contro il 100%di Germania e Francia, il 130%di Stati Uniti e Giappone, il 140%di Canada e il 180%del Regno Unito. Il 41%dei debiti delle famiglie italiane è rappresentato dai mutui per l'acquisto della casa che è la parte preponderante del loro portafoglio: circa 196 mila euro a nucleo (4.667,4 miliardi complessivi, cioè oltre l’ 82%dei beni reali posseduti). La componente finanziaria è più conten

uta e i Bot sono decisamente scesi nella lista delle preferenze degli italiani che preferiscono tenere i soldi liquidi in banca o in Posta o nell’investimento in Borsa. In complesso la ricchezza lorda delle famiglie italiane alla fine del 2009 era stimabile in quasi 9.500 miliardi di euro, quella netta in 8.600 miliardi, corrispondenti a circa 350 mila euro in media per famiglia. Nel 2010 le cose sembrano essere andate peggio: tra gennaio e giugno la ricchezza netta delle famiglie sarebbe diminuita dello 0,3%in termini nominali.

In Europa nascono interi quartieri dove la macchina è vietata. Ma le città italiane segnano il passo, 30 anni dopo la prima isola pedonale



A ricordarlo o raccontarlo oggi c´è da non crederci. Eppure era così. Piazza Navona a Roma, Piazza del Duomo a Milano, Piazza del Plebiscito a Napoli... Trent´anni fa chi si fosse affacciato dalla finestra su una di queste icone del nostro Paese, avrebbe "ammirato" un tappeto di automobili in movimento o parcheggiate. Uno sfregio di lamiera a scenografie antiche, medievali, rinascimentali, barocche, che si ripeteva immutabile nei centri storici di ogni città italiana. Piccola o grande che fosse.

Poi, il 30 dicembre del 1980, la svolta. La giunta comunale di Roma guidata dal sindaco Luigi Petroselli, approvò la norma che avrebbe cambiato profilo al volto urbano del nostro Paese: il nuovo assetto dei Fori Imperiali con il divieto di circolazione delle auto a ridosso del Colosseo. "Partiamo in questa operazione da una situazione di emergenza dovuta ai gas di scarico degli automezzi e alle vibrazioni causate dal traffico", spiegò Petroselli con parole che ancora calzerebbero a pennello per un sindaco dei nostri giorni. Era la prima isola pedonale nella storia d´Italia e da quel giorno, anche se a gran fatica per l´iniziale opposizione delle lobby dei commercianti, la cultura delle aree libere dal traffico si sarebbe diffusa nel resto del Paese. Ultimo tassello in ordine di tempo, la pedonalizzazione nell´ottobre dello scorso anno di Piazza Duomo a Firenze. Un quadro confortante ma che, come vedremo, ci vede in abbondante ritardo sul resto d´Europa, dove ormai non si parla più di isole pedonali ma direttamente di interi quartieri "carfree". Una rivoluzione culturale impensabile per un Paese, come il nostro, dove il 30,8% degli spostamenti motorizzati avviene su tragitti inferiori a due chilometri.

Oggi in Italia - secondo i dati di "La città ai nostri piedi", un rapporto realizzato da Legambiente e Aci (Automobile club d´Italia) in occasione, appunto, del trentennale della prima isola pedonale - ogni 100 abitanti ci sono una media di 34 metri quadrati di zone interdette al traffico motorizzato (Venezia, naturalmente, insieme a Verbania, Cremona e Terni sono i centri in testa alla graduatoria con più di 100 metri quadrati ogni 100 abitanti, mentre in coda troviamo un drappello di città - da Agrigento a Ascoli Piceno, da Caserta a Rovigo - dove le isole pedonali non esistono). Nel complesso, i capoluoghi di provincia che adottano le isole pedonali sono 93, con effetti positivi ormai indiscutibili: riduzione del livello di smog e rumore, aumento degli utenti del trasporto pubblico, migliori tutela dei monumenti e valorizzazione turistica, aumento della vivibilità e della sicurezza sia stradale che generale, rivalutazione del mercato immobiliare. E, soprattutto considerando le iniziali perplessità dei negozianti, l´innalzamento del volume d´affari delle attività commerciali non inferiore al 20%.

Ma i trent´anni di isole pedonali in Italia impallidiscono davanti ai quasi sessanta dell´Olanda, apripista europea con la chiusura al traffico nel 1953 di Lijnbaan, principale distretto commerciale di Rotterdam. Oltre mezzo secolo di cultura del pedone che da qualche anno si è trasformata in qualcosa di diverso e di più ambizioso: la creazione di interi quartieri completamente liberi dal traffico dei mezzi motorizzati.

Come a Vienna, dove c´è l´esperienza consolidata dell´Autofrei Siedlung di Nordmanngasse, un´area residenziale a circa 8 chilometri dal centro servita in modo perfetto dai mezzi pubblici: le circa 600 famiglie che abitano lì, al momento della firma del contratto si sono impegnate a non possedere un´auto propria, scegliendo così per gli spostamenti quotidiani i mezzi pubblici, la bicicletta o i piedi. "Il denaro e lo spazio risparmiato grazie alla mancata costruzione dei parcheggi sottolinea il rapporto di Legambiente possono essere investiti in migliore qualità residenziale, spazi verdi, servizi collettivi". E dopo Nordmanngasse è già in progettazione una replica, Bike City, con 3.400 persone che hanno già prenotato un appartamento. Tornando in Olanda, anche Amsterdam ha il suo quartiere carfree: GWL Terrein, realizzato negli anni Novanta su un´area di 6 ettari che in precedenza era occupata da un grande impianto di trattamento dell´acqua. A GWL Terrain vivono circa mille persone e tra un edificio e l´altro ci sono soltanto sentieri, piste ciclabili e prati. L´accesso è consentito esclusivamente ai mezzi d´emergenza, mentre per disincentivare l´uso dell´auto i parcheggi edificati a ridosso del quartiere possono contenere non più di 135 mezzi. E´ attivo un servizio di car sharing (auto in multiproprietà) utilizzato dal 10% degli abitanti e gli altri preferiscono la vasta rete di piste ciclabili e le linee tramviarie intorno al quartiere.

Dall´Olanda alla Scozia. L´insediamento di Slateford Green, a Edimburgo, è sorto su una zona precedentemente occupata dalla ferrovia: 251 appartamenti senza un solo posto auto privato. Anche in questo caso esistono servizi di trasporto pubblico efficientissimi, il car sharing e scuole facilmente raggiungibili a piedi. Risultato: solo il 12% delle famiglie possiede un´auto, parcheggiabile naturalmente soltanto fuori dal quartiere. Indicativo per l´intero fenomeno delle città carfree, uno studio condotto a Slateford Green dall´Università del Canada ha rivelato che la gran parte dei residenti ha rinunciato all´auto non tanto per una scelta ambientalista o di responsabilità civile, quanto piuttosto per convenienza economica e per necessità.

Rimanendo in Gran Bretagna, anche Londra ha il suo quartiere libero da auto. Si chiama BedZed (BedZed (Beddington Zero Energy Development) ed è autosufficiente dal punto di vista energetico e a bilancio zero in fatto di emissioni di anidrite carbonica. Un centinaio di case, 3000 metri quadrati di uffici, negozi e impianti sportivi, un centro medico-sociale e un asilo nido: per scoraggiare l´uso delle auto, è stato promosso lo shopping online e messo a disposizione degli abitanti un parco di mezzi gestito in car sharing e car pooling (utilizzo della vettura da parte di un minimo di tre persone). Disponibile, inoltre, una piccola flotta di scooter elettrici per gli spostamenti più brevi.

In Germania, a 3 chilometri da Friburgo (città che adottò le isole pedonali già negli anni Settanta), a partire dal 1998 si sta sviluppando quello che potrebbe diventare l´insediamento carfree più grande d´Europa, con circa 6000 abitanti e 2000 edifici. Piste ciclabili, spazio limitato per i posti auto, bus e ferrovia leggera efficienti: uno schema che a Vauban è partito dal basso, ovvero dall´associazione di cittadini "Forum Vauban" che ha partecipato a tutti i progetti di edificazione del quartiere. Tra le idee realizzate, il pagamento di una tassa a parte per chi sceglie di possedere un´auto, con il gettito destinato alla costruzione e alla gestione dei parcheggi. Una zona carfree che in Germania esiste anche a Kronsberg, nel distretto di Hannover, dove si è sfruttata l´occasione dell´Expo del 2000 per minimizzare il fabbisogno di mobilità motorizzata.

E in questo elenco non poteva mancare la Svezia. A Malmö, il nuovo quartiere residenziale di Augustenborg ha puntato esclusivamente su vie pedonali, piste ciclabili e mezzi pubblici. Così, solo il 20% delle famiglie possiede un´automobile, rispetto alla media comunque bassa dell´intera Malmö (35%); l´80% delle strade ha un limite di velocità fissato a 30 chilometri orari; il 40% degli spostamenti casa-lavoro avviene in bici; gli autobus sono alimentati a gas naturale o biogas; la rete dei tram è molto estesa; funziona un servizio di car sharing molto efficiente.

Una rassegna di chimere se si pensa alle città italiane nelle quali probabilmente non basteranno altri trent´anni per approdare ai quartieri carfree. Legambiente e Aci, in un´inedita alleanza tra ambientalisti e automobilisti, provano comunque a guardare avanti con una serie di proposte alle amministrazioni locali e al governo: un´authority nazionale che coordini programmazione e interventi sul territorio; una legge quadro che introduca criteri generali per la realizzazione dei nuovi quartieri nelle città; un´altra norma quadro che fissi criteri uniformi per i provvedimenti di ogni Comune in tema di limiti alla circolazione delle auto; l´introduzione del pedaggio per l´accesso nei centri urbani; investimenti per rendere più efficienti e meno inquinanti i trasporti pubblici locali; pagamento del bollo auto in rapporto ai livelli di emissione e alla dimensione; incentivi al car sharing e al car pooling.

La palla, dunque, passa a esecutivo, sindaci e governatori. Intanto le isole pedonali continueranno la loro lotta di resistenza quotidiana contro l´assedio dell´esercito motorizzato.

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