Caro Bersani, Conosci il mio lavoro ed i miei scritti sulle problematiche connesse col Progetto Tav. Come sai, sono fra i pochi ad aver dato conto del fatto che sei stato l'unico Ministro dei Trasporti che ha provato a rimettere sui binari della legalità il sistema di finanziamento e di affidamento delle infrastrutture per il treno ad AV. Ci hai provato nel 2001 con la legge finanziaria e ci hai riprovato nel 2006 con la cosiddetta lenzuolata. Il governo di centro-destra, in entrambi i casi, ha cancellato quelle norme ripristinando sic etsimpliciter i contratti affidati a trattativa privata da Tav Spa nel 1991, con i costi, nel frattempo, lievitati di oltre il 400%.
Come ti è noto, quel progetto di AV è stato costruito su di una architettura contrattuale e finanziaria truffaldina ed ha già prodotto uno scandaloso debito pubblico: 12.950 milioni di euro, accumulati dal 1994 al 2005 da Tav spa e da Infrastrutture spa, tenuti fuori dai conti pubblici. Come sai, con il comma 966 della legge finanziaria per il 2007, quei 26.000 miliardi di vecchie lire, millantati come finanziamento privato, sono stati tutti trasferiti nel debito pubblico. La Corte dei Conti è arrivata a definire questo accollo del debito una norma “anodina” nei confronti delle future generazioni. Questo dunque lo sfondo, non oscurabile, che ospita la rappresentazione odierna del “confronto” sul progetto della nuova linea Tav/Tac Torino-Lione. Il primo accordo del 2001 con i francesi porta la tua firma e sai bene che prevedeva la ripartizione dei costi per la tratta internazionale in modo paritario fra i due Paesi. Nel 2003 il Cipe, con le procedure speciali della legge obbiettivo, approvava il progetto preliminare della tratta internazionale, con delle previsioni di traffico passeggeri e merci a dir poco fantasiose. Proprio quelle previsioni inattendibili portavano la società ferroviaria nazionale SNCF a esprimere forti dubbi e comunque a valutare in modo negativo il rapporto costo/benefici. Per convincere i Francesi, nel maggio del 2005, Berlusconi e Lunardi sottoscrissero un nuovo accordo nel quale si stabilisce che il costo della tratta internazionale per due terzi sarà a carico dell'Italia.
Nel 2006, dopo le drammatiche vicende di Venaus, due governi, Berlusconi e Prodi, decisero di fare uscire la Torino-Lione dal perimetro delle norme speciali della legge obbiettivo. Proprio in virtù di questa decisione il Consiglio di Stato, con la sentenza n.4482del 23.8.2007,dichiarava “improcedibile per cessata materia del contendere il ricorso in appello proposto dalla Comunità Montana Bassa Valle di Susa e Val Cenischia, nel presupposto che il progetto di realizzazione per la realizzazione della linea ferroviaria Torino-Lione, approvato dal CIPE con la delibera 113/2003, sia stato stralciato dall'ambito applicativo della legge 443/2001 e ricondotto nell'alveo delle procedure ordinarie”. Oggi, in palese contrasto con decisioni politiche e sentenze, il progetto per la nuova galleria di servizio è stato approvato solo grazie alle norme speciali della legge obbiettivo, senza che nessuna autorità abbia mai fornito risposta ai ricorsi che la Comunità montana ha prodotto in proposito. Il nuovo progetto preliminare della tratta internazionale, per il quale non vi è ancora nessun cantiere aperto in Italia ed in Francia, prevede oggi un costo di 10,369 miliardi di euro. I francesi chiedono però che siano per intero a carico dell'Italia le modifiche apportate alla tratta in territorio italiano e ciò porterebbe a circa 8 miliardi la quota a carico del nostro Paese. Le mie stime, come sai le uniche risultate affidabili, valutano in capo al nostro Paese, considerando anche la tratta nazionale, un costo non inferiore ai 20 miliardi di euro. Il finanziamento europeo, stante il regolamento in essere, potrebbe coprire fra l'1,2 e l'1,6 miliardi di euro. Restano da trovare nelle casse dello Stato almeno 18,4 miliardi; cifra per la quale non vi è la benché minima ipotesi di copertura. Con il traffico merci realmente prevedibile, oggi il solo a motivare la realizzazione di questa infrastruttura, i ricavi consentirebbero a stento di coprire i costi di gestione e manutenzione della nuova infrastruttura.
Il giorno successivo alla apertura manu militari del cantiere per la galleria di servizio per la nuova linea Torino-Lione, la cronaca ti ha attribuito queste dichiarazioni:“ Non possiamo accettare l'idea che il processo di decisione venga bloccato da frange violente. ..quello che è successo in Valdisusa è spiacevolissimo ma non si possono fermare i cantieri”. Ho sperato, nei giorni successivi, nella lettura di una riflessione meno banale di quella che ti è stata attribuita. Al contrario, alle tue si sono aggiunte quelle ancor più generiche e arroganti del sindaco e dell'ex sindaco di Torino. Attesa vana anche dopo il 3 luglio, grazie allo spettacolo degli scontri fra frange violente e forze di polizia che ha consentito di oscurare la più grande e ordinata manifestazione mai vista in Italia su di un tema così specifico.
Non credi sia da irresponsabili prendere a pretesto il comportamento di alcune frange violente e glissare totalmente sulle ragioni del NO di una intera comunità e dei loro rappresentanti? Non è da te per come ti conosco, non credo sia consentito al segretario del maggior partito di opposizione che ha fatto della consultazione popolare la sua ragion d'essere. La Comunità Montana della Valdisusa e Valsangone ha prodotto non solo osservazioni puntuali e dettagliate sui nuovi progetti della nuova galleria di servizio della Maddalena e della tratta internazionale Torino-Lione. Ha presentato anche esposti e ricorsi sulla illegittimità delle procedure di approvazione e sulle modalità di affidamento della nuova galleria di servizio della Maddalena alla cooperativa CMC di Ravenna (rigorosamente a trattativa privata, compresi i lavori fuori sacco affidati a tre piccoli imprenditori locali usati come scudo mediatico). Posso assicurarti, e sai quanto io sia rigoroso in queste valutazioni, che tutte le procedure e gli atti connessi adottati dalla società LTF sono quanto di peggio, e illegale forse, possa essere messo in atto a fronte delle norme europee e nazionali.
Non ho alcuna pretesa di essere creduto sulla parola, ma un partito importante come il PD credo abbia il dovere di confrontarsi nel merito delle ragioni del NO o del SI. Il NO a quel progetto è il frutto della conoscenza scientifica dei numeri usati per sostenerne la fattibilità: numeri che non hanno il minimo di credibilità, anzi clamorosamente smentiti dalla realtà. Nel 2003 transitavano su quella linea 1,5 milioni di passeggeri e 9,7 milioni di tonnellate di merci; il progetto preliminare approvato nello stesso anno dal Cipe prevedeva la saturazione della linea storica nel 2020 con oltre 6 milioni di passeggeri e 22 milioni di tonnellate di merci. Nel 2010 i passeggeri sono stati 700 mila e le merci 2,4 milioni di tonnellate. Previsioni sbagliate, no semplicemente false, oggi traslate di sette anni e riproposte pari pari. Conosco nel dettaglio quel progetto, essendo uno dei tecnici nominati, dalla Comunità montana, per valutarne il merito tecnico e le procedure per la sua realizzazione. Conosco la consapevolezza informata e diffusa delle ragioni del NO, dei Valsusini e di tutti i tecnici che hanno almeno una minima conoscenza di quel progetto. Posso sinceramente testimoniare che da quando mi occupo di questo progetto non ho mai avuto occasione di misurarmi con ragioni tecniche del SI minimamente affidabili.
I cantieri, se si apriranno, rischiano di tenere in piedi per decenni questo confronto dissociato fra le ragioni tecniche e scientifiche del NO ad un'opera inutile e le ragioni del NO alle frange violente. Dissociazione utile solo a chi, schierato per il SI, senza alcuna motivazione tecnica, si nasconde dietro il NO alle violenze vere e presunte di quattro gatti. Un paravento che solo l'occultazione della verità e la disinformazione può tenere in piedi.
La TAV Torino-Lione rischia di diventare per il PD e per la Politica, non solo in Valdisusa ed in Piemonte, ma in Italia, la questione dirimente della credibilità del tuo partito e della politica tutta, forse l'ultima occasione mancata per agganciare un rapporto con la nuova aria proposta dal popolo dei referendum dei beni pubblici e della legalità. Il NO al Tav, e non solo in quella Valle, è semplicemente una domanda di trasparenza e confronto nel merito. La politica, con la p maiuscola, non può disattenderla. La mia stima e la mia attesa fiduciosa.
Ivan Cicconi
Trattandosi d’una stazione ferroviaria, concorderete, ci sta tutto che le automobili vengano messe sotto, il verde possa specie all’esterno prendere spazio, un mezzo di trasporto alternativo diventi l’ascensore. Trattandosi poi della Centrale, già sottoposta ad ampia e articolata ristrutturazione interna è inevitabile— essendo ora la priorità il restyling fuori dalla stazione — non pensare all’Expo. E darci sotto, anzi intervenire lì dove si aspettava da decenni. Per esempio nei 33 mila metri quadrati degli ex magazzini di via Sammartini, infiniti tunnel coi binari che servivano per lo scalo merci oramai buio posto degradato. I tunnel potrebbero diventare una cittadella internazionale di ristoranti, locali e bar.
L’amministratore delegato di GrandiStazioni Fabio Battaggia ha pronto il dossier per il sindaco Giuliano Pisapia. Macchine, casse, Milano Novecento in piazza Luigi di Savoia e seicento in via Sammartini, con quattro piani interrati di parcheggi e conti presto fatti: verranno creati 1.500 posti auto sotterranei. Il progetto dev’essere prima approvato dal Comune; dopodiché vanno reperiti i fondi. Non pochi. Soltanto per i due parcheggi sono 25 milioni di euro. In più ci sono 30 milioni per la riqualificazione dei magazzini. Come fare? O con il Cipe, o con le casse del Comune oppure tirando dentro sponsor. Battaggia a Pisapia proporrà: parliamone, occupiamoci insieme della cosiddetta porta d’ingresso della città. Apriamoci alle professionalità, al talento, alle idee. Dice l’ad: «Dopo tutti i lavori fatti, dopo anche le difficoltà, non possiamo lasciare il grande cantiere Centrale a metà...» .
In via Sammartini dai parcheggi (ricavati sempre negli magazzini) vi saranno accessi diretti ai binari. Spegnere l’auto, salire, entrare nel treno. Manciata di azioni in breve lasso temporale. Accelerare, agevolare. Ritmo metropolitano. Dall’Est alle pensiline Fiera dell’Est Europa con il suo doloroso popolo: gli incontri domenicali fra badanti, le parrucchiere di strada con taglio e messa in piega per qualche spicciolo, i bivacchi di chi non aveva da dormire o era steso ubriaco, le corse verso lo scippo dei ladruncoli rom, e le risse, e le valigie rubate ai turisti... Ha la sua lunga storia piazza Luigi di Savoia, peraltro in rapido e progressivo miglioramento. E ne è pronta una nuova, di storia. Nei disegni degli architetti che hanno rivisitato il suo look, la piazza avrà ancora più verde. Olmi, platani, magnolie, ciliegi andranno a popolarla. Nessuna modifica geografica per l’area dei bus (per Malpensa, Orio al Serio e centro città): rimarrà dov’è.
Semmai saranno aggiunte pensiline e panchine, verrà dato un ordine maggiore, insomma sarà più chiaro orientarsi e sostare. La discarica e il jazz Biciclette di bimbi, frigoriferi senza l’anta, chilogrammi di amianto. Sacchetti di chiodi, una friggitrice. Lungo una delle gallerie stradali che collegano via Sammartini a via Ferrante Aporti ci sono accessi. Porticine. Che danno sugli antichi magazzini. Trasformati in discariche abusive. I binari servivano per movimentare vagoni, container, cassoni. Le potenzialità di quest’area sono enormi. Se non altro per le dimensioni. L’area ha ospitato — qualcuna sopravvive — pescherie di varia natura. C’è una naturale predisposizione architettonica ad accogliere locali pubblici. Il sogno l’abbiamo detto: cittadella commerciale. Battaggia suggerisce: all’insegna dell’anima internazionale di Milano, sorta di via parallela di cibo orientale e africano, sottofondo jazz e acuti delle sperimentazioni europee di musica elettronica.
postilla
Miracoli della compartimentalizzazione societaria: Grandi Stazioni occupandosi di valorizzazione immobiliare non ha la più pallida idea di cosa sia una Stazione, né ha alcun interesse a farsela. Lei valorizza immobili e il concetto di mobilità le sfugge per ragione sociale. Punto.
Quanto già ampiamente notato dai milioni di viaggiatori che sperimentano sulla loro pelle il cosiddetto refurbishment del nodo ormai ex ferroviario, perdendosi nei corridoi progettati come all’Ikea, per far fare più strada possibile tra le mirabolanti offerte commerciali, ora raggiungerà il sublime assoluto, allargandosi al quartiere manco fosse il morbillo. Si legge di migliaia e migliaia di posti auto, sopra e sotto terra, naturalmente come se quelle auto fossero pendagli ornamentali, che arrivano lì dal cielo, e non fabbriche di inquinamento costrette ad arrancare per ore attraverso l’intasamento cronico determinato proprio dal loro flusso. Probabilmente anche i treni svolgono un ruolo similmente virtuale in questa coreografia, simpatiche chiazze colorate complementari all’andirivieni di clienti da un negozio all’altro. Niente da fare: lo shopping mall è come un congegno a orologeria, una volta innescato fa il suo mestiere, incurante della città e del buon senso: chiamate gli artificieri!! (f.b.)
5 luglio 2011
Come buttare 14 miliardi senza fare quasi nulla
di Sergio Rizzo
Sono passati più di dieci anni da quando Silvio Berlusconi disegnò a Porta a Porta il grande piano infrastrutturale che avrebbe dovuto modernizzare l’Italia. Per fare un paragone storico, nel decennio compreso fra il 1861 e il 1872 vennero costruiti in Italia circa 5 mila chilometri di ferrovie. Ma senza andare tanto a ritroso, la realizzazione dei 754 chilometri dell’Autostrada del sole, fra il 1956 e il 1964, richiese appena otto anni di lavori.
A un ritmo di 94 chilometri l’anno il Paese cambiò faccia. Non siamo nell’Ottocento e nemmeno negli anni del boom, d’accordo. Resta il fatto che dal 2001 a oggi è cambiato poco o nulla. Tranne qualche eccezione, come il Passante di Mestre (fatto in regime di commissariamento e tuttora commissariato) quelle infrastrutture del sogno berlusconiano sono rimaste segni di pennarello nero su un foglio bianco. A dispetto delle promesse e delle favole che ci vengono frequentemente raccontate. Il 10 dicembre 2010 il presidente del Consiglio ha detto: «Nei prossimi due anni di legislatura apriremo cantieri e ne completeremo per 55 miliardi di euro» .
Due mesi dopo ha ammesso che in Italia «c’è il 50%in meno di infrastrutture rispetto a Francia e Germania» , aggiungendo che è colpa tanto del nostro enorme debito pubblico quanto degli «ecologisti di sinistra» . Difficile dire se i protagonisti degli scontri con la polizia in Val di Susa siano qualificabili come «ecologisti di sinistra» . Di solito quando si sconfina nel codice penale la passione politica c’entra poco. Che però spesso un pregiudizio radicale, travestito da malinteso e ottuso ambientalismo, abbia complicato la vita a ferrovie e autostrade, è innegabile. Ma la paralisi delle infrastrutture e il conseguente rischio di perdere anche cospicui finanziamenti europei (come nel caso, appunto della Tav in Val di Susa) non possono essere naturalmente addebitati solo alle pressioni ecologiste. Indipendentemente dalle ragioni, in molti casi legittime, di chi si oppone per motivi ambientali, l’Italia si è trasformata nel «Paese del non fare» .
Non fare, naturalmente, le infrastrutture: perché in questi ultimi dieci anni abbiamo comunque consumato territorio a una velocità, accusa Salvatore Settis in Paesaggio Costituzione Cemento, di 161 ettari al giorno, pari a 251 campi di calcio. Si continua ad allagare le nostre pianure con orrendi capannoni industriali e centri commerciali e a distruggere il paesaggio con colate di costruzioni abusive o legali, mentre è diventato quasi impossibile fare un’autostrada o una ferrovia. Per le opere pubbliche non ci sono i soldi, è il ritornello. Ma un bel contributo lo dà anche il nostro curioso federalismo al contrario, con le sue competenze polverizzate fra miriadi di enti locali e le Regioni che a colpi di ricorsi al Tar o alla Corte costituzionale sono in grado di bloccare tutto. Senza citare il colpevole principale: l’assenza della politica. Perché un conto sono le promesse da campagna elettorale e le dichiarazioni per finire sui titoli dei giornali, un altro impegnarsi a far marciare i cantieri.
Emblematico è il caso del controverso Ponte sullo Stretto di Messina: ci sono i costruttori pronti, i denari per cominciare e il progetto definitivo. Ma non c’è la volontà politica ed è tutto fermo. Il risultato di questa situazione è sotto gli occhi di tutti. Nel 1970 l’Italia era il Paese con la maggiore dotazione autostradale d’Europa, seconda soltanto alla Germania. Oggi è in fondo alla lista. I nostri 6.588 chilometri sono circa metà degli 11.400 della Spagna, Paese che nel 1970 ne aveva appena 387. L’Italia è oggi al top della congestione europea, con 6 mila autoveicoli per ogni chilometro di autostrada, contro i 2.300 della Spagna e i 3.300 della Francia. Per tacere delle ferrovie (rispetto al 1970 la rete è aumentata di appena il 4%mentre i passeggeri sono aumentati del 50%) e della condizione angosciante nella quale un Paese con 8 mila chilometri di coste abbandona infrastrutture strategiche come i propri porti.
E si continua così, complice anche lo stato malandato delle nostre finanze pubbliche. L’Ance denuncia che il governo non ha previsto alcun contributo per gli investimenti dell’Anas e ha tagliato di 922 milioni i fondi destinati alle ferrovie. Uno studio condotto da Agici-finanza d’impresa (di cui è partner l’Associazione dei costruttori) ha calcolato che soltanto negli ultimi due anni il costo per il Paese della «ritardata realizzazione delle infrastrutture programmate» avrebbe toccato 14,7 miliardi di euro. Un terzo della manovra che ci apprestiamo a digerire.
6 luglio 2011
L’elenco (lungo) dei cantieri
di Altero Matteoli
Caro Direttore, Sergio Rizzo nell’articolo «Come buttare 14 miliardi per non fare nulla. Più cemento, meno infrastrutture. Benvenuti nel Paese del non fare» , pubblicato ieri, mette insieme una serie di fattori e di cause che avrebbero ritardato l’infrastrutturazione del Paese. Non entro nel merito di tutte le ragioni addotte sui ritardi, alcune condivisibili altre no. Non sono invece certamente condivisibili le conclusioni a cui giunge («in dieci anni non si è fatto quasi nulla» ) ed i toni disfattistici di Rizzo. Mi preme invece comunicare, almeno per flash, ai lettori del «Corriere della Sera» , che poi potranno liberamente giudicare, quanto fatto in concreto nel settore dei lavori pubblici da questo governo di cui mi onoro di far parte.
Sono stati aperti i cantieri della Tav Torino-Lione, avviati il primo lotto dell’Alta Velocità Milano-Verona, tratto Brescia-Treviglio, e il primo lotto costruttivo del tunnel ferroviario del Brennero. La Bre. be. mi. è in corso di realizzazione, sono stati aperti i cantieri del nodo ferroviario di Genova, e partiti i lavori dell’autostrada Cisa e della Cecina-Civitavecchia. Proseguono a ritmo intenso i lavori del Mo. s. e. di Venezia (completati al 70%), si sta lavorando per le metropolitane di Milano e di Roma, prosegue l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, dove saranno operativi a fine luglio 230 km circa dei 443 complessivi.
Sono state avviate le gare di appalto per l’asse stradale Olbia-Sassari ed è stata completata l’autostrada Catania-Siracusa. Mentre, come è noto, abbiamo completato a febbraio 2009 il Passante di Mestre. Sono solo alcuni esempi molto significativi di tre anni di intenso e produttivo lavoro. L’elenco completo è per fortuna molto più lungo e verificabile. Infine, non comprendo lo scetticismo di Rizzo sulla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina. Dopo aver riavviato i motori dell’opera, bloccati dal precedente governo Prodi, è disponibile il progetto definitivo che sarà approvato secondo i tempi che ci siamo dati all’inizio della legislatura.
Non è tutto fermo e non è vero che manchi la volontà politica, andremo avanti nella realizzazione del Ponte che il governo ritiene prioritario e importante non solo per il Sud ma per tutto il Paese. Cordialmente Altero Matteoli Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti.
Siamo tra i sottoscrittori dell'appello finalizzato ad evitare, in Val Susa, soluzioni militari contro il movimento No Tav. L'appello non è stato accolto e ha vinto, momentaneamente, la forza. Hanno vinto il partito degli affari, un governo agonizzante e la lobby del cemento del Partito democratico torinese. Ma la partita non finisce qui. Anzi, l'improvvido intervento di polizia avrà un effetto boomerang determinando ulteriori mobilitazioni (come dimostrano le adesioni al nostro appello).
Il movimento No Tav continuerà - non ci sono dubbi - a fare la sua parte con la costanza e l'intelligenza politica che lo hanno caratterizzato in oltre venti anni. Ma crescerà, al suo fianco, l'impegno delle donne e degli uomini che, costruendo il successo referendario, hanno affermato la centralità del bene comune contro gli interessi di pochi.
Da oggi incalzeremo, in tutte le sedi possibili, i sostenitori della nuova linea ferroviaria con alcune domande, sfidandoli a quel confronto pubblico con il movimento No Tav che hanno sempre evitato (nascondendosi dietro slogan e luoghi comuni). Le domande sono queste:
1. La linea ferroviaria ad alta capacità Torino-Lione servirà - si dice - ad assicurare che l'Italia non sia tagliata fuori dall'Europa nel trasporto delle merci. Ora, è vero o non è vero che l'attuale linea internazionale a doppio binario, che corre nella valle utilizzando il traforo del Frejus, è tuttora perfettamente operativa e utilizzata al di sotto del 30% delle sue potenzialità? Ed è vero o non è vero che negli ultimi anni il traffico merci lungo l'asse Francia-Italia è in calo costante? In forza di quali previsioni si ritiene che questo trend sia destinato a subire una inversione nei prossimi anni? E perché non potenziare la linea esistente (la cui minore velocità non è certo decisiva per il trasporto di merci), rinegoziando, come altri Paesi hanno fatto, i possibili contributi europei?
2. I costi della nuova linea ferroviaria sono stimati in 16-17 miliardi di euro, da impiegare nei prossimi dieci anni, e il famoso contributo europeo è una parte minima. Ora, anche a prescindere dal fatto che non c'è grande opera nel nostro Paese i cui costi non siano lievitati strada facendo, la questione è ineludibile: in tempi di grave crisi economica dove si pensa di trovare quei fondi? Forse con ulteriori tagli a scuola, salute, assistenza? Impiegare gli attuali finanziamenti europei per un cunicolo preparatorio (di oltre 7 chilometri: sic!) non è irresponsabile se non si hanno certezze in ordine all'opera finale?
3. La linea ferroviaria ad alta capacità consentirà - si afferma - uno spostamento del traffico merci dalla gomma alla rotaia, notoriamente meno inquinante. Il confronto tra trasporto stradale e trasporto ferroviario è, in astratto, condivisibile, ma vale tra reti già esistenti o di agevole costruzione. Siamo proprio sicuri, invece che la realizzazione un'opera colossale, con oltre 70 chilometri complessivi di gallerie, dieci anni (se va bene) di lavori e di cantieri, un numero incalcolabile di viaggi di camion, enormi materiali di scavo (ricchi di uranio e di altre sostanze nocive) da smaltire e il corrispondente consumo di energia non finirebbero per vanificare i vantaggi del trasferimento (per di più ipotetico) dal trasporto stradale a quello ferroviario?
4. La costruzione della «grande opera» - si continua - darà lavoro e benessere alla valle e a tutta l'area circostante. Ma ne siamo davvero sicuri? Non si era detto altrettanto per l'Olimpiade invernale del 2006 che ha interessato la stessa valle? Non dubitiamo della necessità di interventi diretti a incentivare l'occupazione, ma non sarebbe più utile cominciare dal risanamento del territorio, dalla messa a punto delle risorse idriche, dalla tutela del patrimonio artistico? E siamo certi che progetti del genere non avrebbero adeguato sostegno a livello europeo?
5. Da quando si è cominciato a parlare della ferrovia ampi settori della popolazione locale (e i loro rappresentanti, i sindaci) hanno chiesto confronti pubblici e predisposto, con l'aiuto di tecnici di livello internazionale, proposte alternative. Ora, è vero o non è vero che questo confronto è stato eluso e che si è accettato di discutere solo sul come realizzare l'opera e non anche sulla sua effettiva utilità? È questo il modello di partecipazione praticato da chi parla quotidianamente di democrazia e di legalità (modello che ha come suggello finale l'uso della forza contro chi, non essendo stato ascoltato e coinvolto, si oppone)?
Su queste domande continueremo a chiedere un confronto pubblico e trasparente. E, in assenza di risposte convincenti, ad opporci al Tav sul piano della iniziativa politica, del diritto, della informazione. Non si illuda chi ha sgomberato il presidio della Maddalena: la linea ferroviaria Torino-Lione è ancora di là da venire.
Il centro è cieco, la verità si vede dai margini. Quest'affermazione di metodo, propria degli studi post-coloniali e anche della più recente "antropologia di prossimità", mi è tornata in mente la mattina del 27 giugno alla Maddalena, frazione di Chiomonte, quando visto da lassù - da quel fazzoletto di terra sulla colletta che divide il paese dall'autostrada del Frejus - il mainstream che ha segnato ossessivamente la vicenda della Tav è apparso di colpo per quello che è: vuota somma di affermazioni prive di senso reale. E si è affermata una realtà totalmente altra rispetto a quella che viene raccontata nei "luoghi che contano", nei palazzi del potere, nelle redazioni dei giornali, dagli opinion leaders metropolitani.
Prendiamo la questione dei soldi. Il mantra che viene recitato "al centro" - e "in alto" - ripete che l'Italia rischia di perdere i 680 milioni di euro dell'Europa se non aprirà il fatidico cantiere. Qui, in questa estrema periferia, tutti sanno che, al contrario, l'Italia potrà guadagnare (o risparmiare, se si preferisce) qualcosa come una ventina di miliardi di euro se quel cantiere non aprirà. Se la follia della Tav in Val Susa non si compirà. Tanto si calcola che sarà il costo finale dell'opera per il nostro Paese, comprensivo dei quasi 11 miliardi della tratta internazionale, a cui vanno aggiunti i quasi 6 miliardi (a prezzi 2006) della tratta italiana.
Una cifra enorme, pari a quasi la metà della manovra "lacrime e sangue" che il governo sta varando per tentare di sanare il bilancio pubblico, frutto di un calcolo del tutto prudenziale (c'è chi, sulla base dell'esperienza, calcola un costo finale superiore ai 30 miliardi!), per un'opera marchianamente, spudoratamente, inutile. Un'opera concepita e progettata in un altro tempo (gli anni '90 del turbo-capitalismo trionfante) e in un altro mondo (quello della globalizzazione mercantile e dell'interconnessione sistemica di un pianeta votato al benessere). Sulla base di previsioni di crescita dei flussi di traffico fuori misura e tendenzialmente illimitate, frutto dell'estrapolazione di un trend contingente ed eccezionale (i tardi anni '80 e i primi anni '90, quando effettivamente la circolazione internazionale e a medio-lungo raggio delle merci subì una brusca accelerazione), rivelatesi poi fallaci.
Si ipotizzò allora un rapido raddoppio dei circa 10 milioni di tonnellate transitate nel 1997 sulla linea ferroviaria Torino-Modane (la cosiddetta linea storica), che avrebbero portato rapidamente a saturarne la capacità (calcolata in circa 20 milioni di tonnellate) entro il 2020, con una crescita lineare ed esponenziale del flusso. Si sostenne (delirando, possiamo ben dire oggi) la necessità di garantire, con la nuova linea, una capacità di transito pari ad almeno 40 milioni di tonnellate, al fine di trasferire su rotaia buona parte dei volumi di traffico su gomma. Non si sapeva, allora, che il 1997 era stato il culmine di una curva che, esattamente dall'anno successivo, avrebbe incominciato a scendere, senza più fermarsi: era già scesa a 8,6 milioni di tonnellate nel 2000. Cadrà ancora a 6,4 nel 2004, a 4,6 nel 2008 per giungere infine al livello minimo di 2,4 milioni di tonnellate nel 2009 (anno in cui, secondo quelle proiezioni folle, avrebbe dovuto sfiorare i 15 milioni)! Oggi, la sola "linea storica" (sfruttata a meno di un terzo delle sue possibilità), sarebbe tranquillamente in grado non solo di garantire l'intero flusso di merci attraverso il confine con la Francia, ma di assorbire addirittura (cosa puramente teorica) l'intero traffico su gomma (all'incirca 10 milioni di tonnellate annue, anch'esso in costante calo), senza significativi costi aggiuntivi (se non le irrisorie cifre necessarie a realizzare il maquillage della linea esistente).
Sono numeri ben presenti a qualsiasi anziano valsusino seduto sull'erba del prato della Maddalena, a ogni ragazzo accampato (fino a lunedì) nelle tende del bivacco, a ogni casalinga di Bussoleno o di Venaus. Solo i "decisori" centrali, i politici di lungo corso, gli addetti all'informazione nazionale continuano a ripetere, come organetti rotti, le cifre di ieri, imbozzolati nel cavo del loro mondo scaduto, ciechi ad ogni evidenza, compresa quella mostrata dalle loro stesse statistiche ufficiali.
Oppure prendiamo un altro tema caldo, nella discussione attuale sulla Valle di Susa: il tema della legalità. Dal "centro del centro" - dal Viminale - il ministro Maroni proclama, mentre i suoi 2000 uomini si avvicinano alle barriere che difendono la Libera repubblica della Maddalena: «Di là ci possono essere i professionisti della violenza, di qua ci sono i professionisti della legalità, dell'antiviolenza, professionisti che sanno cosa fare, abituati a combattere il terrorismo, la criminalità organizzata, a combattere chi usa i kalashnikov e la lupara». Qui, invece, nella periferia delle periferie, sul ponticello della strada che da Chiomonte porta al sito archeologico sulla collina, la gente della valle guarda le ruspe che avanzano circondate - embedded - dai plotoni di agenti in assetto antisommossa, e grida «mafia». Sanno che la storia di alcune di quelle ditte che hanno messo a disposizione i propri mezzi è disseminata di vicende giudiziarie, d'indagini della magistratura e della Guardia di finanza per reati come «associazione a delinquere», «turbativa d'asta», falsa fatturazione, corruzione... Ci sono i ritagli dei giornali con le notizie degli arresti d'imprenditori, a più riprese, nei tardi anni '80, all'inizio dello scorso decennio... Basterebbe poco ai cronisti "centrali" - uno sguardo ai propri archivi, de La Stampa, di Repubblica - per documentarsi. E se è vero che i trascorsi giudiziari non bastano per emettere una sentenza di colpevolezza attuale, è pur anche vero che l'impatto di quello strano mix di Stato e di sospetto "antistato" ha un effetto devastante sui sentimenti collettivi di una popolazione che dallo Stato vorrebbe essere protetta e non attaccata. È il mondo che appare alla rovescia. E insieme terribilmente vero.
Possiamo chiederci il perché di questa distonia ottica, che rende così cieco (e ottuso) il "centro" e così lungimirante il "margine". Che acceca chi in teoria avrebbe tutti gli strumenti per guardare ad ampio raggio, e al contrario rende visionario chi in teoria dovrebbe essere "tagliato fuori". Una risposta - ineccepibile - la offre la letteratura più radicale della galassia post-coloniale statunitense, quella ascrivibile al femminismo nero, capace di muoversi acrobaticamente tra esclusione estrema e inclusione letteraria, ben testimoniata da Bell Hooks con il suo Elogio del margine. Qui la capacità di aprire il tempo dello sguardo laterale è ascritta al suo carattere di "spazio di resistenza". Alla bi-direzionalità di quello sguardo, rivolto contemporaneamente verso l'interno e l'esterno: libero dunque. Non prigioniero. E alla sua irriducibilità al mainstream e al peso falso che lo connota. Chi se ne fa portatore sa, durissimamente, chi è e cosa non intende diventare. A lui si addicono le strofe di Bob Marley: «We refuse to be what you wont us to be, we are what we are, and that's the way it's going to be» («rifiutiamo di essere ciò che voi volete farci essere, siamo quel che siamo e voi non ci potete fare proprio niente»). Ma è possibile affiancare a questa anche un'altra ipotesi. Ed è che il centro è cieco perché sta crollando. Perché il mondo di cui si è fatto centro sta "venendo giù". E come nella Bisanzio cantata da Guccini - «sospesa tra due mondi e tra due ere» - sono i barbari dei confini, non i senatori del Campidoglio, a sapere già la verità.
In questi giorni in molti parlano di Alta velocità, e per questo è utile ripercorrere, per sommi capi, la storia di questa scelta. Il progetto Tav comincia ad essere pensato e progettato dentro le Fs oltre vent' anni fa. Subito si apre un dibattito serio e ampio, cui parteciparono trasportisti, urbanisti, economisti, le associazioni ambientaliste tutte, gli ambientalisti del Pci e poi Ds (che io dirigevo), i verdi, la Rifondazione appena nata, i sindacati.
Due le proposte che si confrontavano: da una parte il progetto Tav che prevedeva una direttrice verticale Napoli-Milano e una orizzontale Venezia-Torino-Lione. Treni super veloci, su binari diversi da quelli normali, con molte gallerie e dunque molti scavi, costi alti e tempi lunghi di realizzazione. A sostegno di questo progetto non solo le Ferrovie ma i governi dell'epoca, i poteri forti, l'Impregilo e la Fiat in primis ma anche alcune cooperative, diverse banche. E i sindacati, che pensavano ne potesse venire lavoro e occupazione.
Dall'altra parte, il nostro progetto alternativo prevedeva il raddoppio della rete esistente, l'utilizzo della vecchia per le merci in modo da arrivare a standard europei nel trasporto su ferro. La nuova rete doveva viaggiare in parallelo un po' più veloce per le persone, ma per tutti, pendolari in primis. Un progetto fattibile in 6/8 anni e che costava la metà. La prima proposta metteva al centro la velocità, e per questo veniva spacciata come più moderna. Noi mettevamo al centro lo spostamento delle merci dalla gomma al ferro (come la Germania stava già facendo) e l'esigenza di dare a tutti i cittadini un servizio più rapido ma non super veloce. Questo secondo progetto avrebbe diminuito le emissioni perché avrebbe diminuito del 30/40 per cento i mezzi pesanti, con impatti ambientali minimi.
Alla fine ebbe la meglio il progetto Tav, sostenuto non solo dai sindacati ma anche da tutti i partiti più grandi, compresi i Ds dove solo gli ambientalisti si schierarono contro.
Persa quella battaglia, gli ambientalisti (ma anche molti sindaci, amministratori, cittadini) si dedicarono a migliorare l'impatto ambientale dell'opera ormai decisa. Se qualcuno avesse la pazienza di andare a vedere come erano i primi progetti tra Firenze e Bologna e Roma e Napoli vedrebbe come sono cambiati, pur restando dentro una logica che non abbiamo mai condiviso. Cercammo di minimizzare i danni. Nel frattempo i costi della Tav lievitavano di giorno in giorno. E i tempi: le merci continuavano a girare in gran parte su gomma, cresceva il disagio dei viaggiatori normali, e dei pendolari che usano il treno per andare al lavoro. Furono chiuse diverse linee piccole. Ogni tratta aveva i suoi problemi e quella della Valle Susa ne proponeva di enormi, per la fragilità del territorio, per l'attraversamento della valle che già da parte di una grande arteria con migliaia di mezzi pesanti su gomma ogni giorno. Anche su quella tratta si sono apportati cambiamenti, ma resta un'opera ambientalmente molto impattante e di dubbia utilità per diminuire il traffico pesante.
Così è andata. Gli anni ci diranno chi aveva ragione. Penso e temo che alla fine, come per il nucleare, la ragione stia dalla nostra parte. Ecco perché continuare a porre dubbi su quella scelta è legittimo, non è eversivo e soprattutto non è irresponsabile, come qualcuno dice. Anche sul nucleare eravamo irresponsabili noi che non lo volevamo dall'inizio.
Quante discussioni ho fatto con Pier Luigi Bersani quando eravamo ancora nello stesso partito sia sulla Tav sia sul nucleare. Sul nucleare ho avuto ragione io, e non lui che era favorevole. Sulla Tav lo diranno gli anni. Ma anche sul Ponte sullo stretto abbiamo avuto ragione noi ambientalisti, e anche su quell'opera il Pci prima e poi i Ds erano in gran parte favorevoli. Ora il Pd ha cambiato idea. E anche sull'acqua vedo con piacere che la posizione del Pd e di Bersani è cambiata.
Discutere dunque serve. E serve la partecipazione dei cittadini. Noi non abbiamo mai discusso solo per dire no. Abbiamo controproposto altre strade, perché il nostro ambientalismo è serio e propositivo. Quanto al fatto che in ogni lotta alcuni gruppi e centri sociali si infilino dentro è fenomeno normale, può non piacere ma non è una buona ragione per scatenare la repressione più dura.
Da ultimo il direttore di Europa scrive che noi di Sel [l’Autrice è dirigente di Sel-n.d.r.] non saremmo alleati affidabili e che non abbiamo una cultura di governo perché abbiamo sollevato dubbi sulla Tav. Trasecolo: proprio perché abbiamo una cultura di governo li abbiamo sollevati. Vogliamo ferrovie efficienti e popolari, e treni umani per i pendolari. Lavoriamo perché il sistema trasportistico italiano diventi europeo e dunque porti una buona metà delle sue merci su ferro. Questi obiettivi la Tav non li ha garantiti dove è stata fatta, e non li garantirà in futuro. Ci vuole coraggio nelle scelte, anche quello di cambiare strada se quella intrapresa non risponde alle esigenze di un paese e dei suoi cittadini. Convinceteci del contrario, siamo disponibili ad ascoltare. Ma randellare non è discutere.
Molte volte le proteste “ambientaliste” sono state vistosamente strumentali, e hanno ottenuto solo di far crescere di molto i costi delle opere: nel complesso degli investimenti italiani della rete di Alta velocità questo è stato un caso frequentissimo. E smettiamo di chiamarla Alta Capacità: una ridicola foglia di fico, i treni merci non ci viaggeranno mai, come in Francia e Spagna. Questo investimento appare difficilissimo da giustificare, anche stando solo alle cifre ufficiali, ovviamente “ottimistiche” (sia sui costi che sul traffico). Vediamo innanzitutto gli aspetti “strategici”, e smontiamo una serie di luoghi comuni insensati.
1. “Fa parte dei corridoi europei”: vero, ma ridicolo. Questi corridoi prioritari sono cresciuti talmente di numero che oggi sono 30, e coprono fittamente tutta l’Europa: nessun paese o regione poteva essere scontentata. Di priorità non si può proprio più parlare.
2. “Crea sviluppo e occupazione”: falso. Per euro pubblico speso, le grandi opere occupano pochissima gente rispetto a quelle piccole, o alle manutenzioni, di cui c’è estremo bisogno. Il cemento è una tecnologia matura, non è certo l’informatica o la microbiologia genetica.
3. “Perdiamo i soldi europei”: vero, ma di nuovo ridicolo. Se va bene, ma proprio bene, perdiamo 3 miliardi su 22 di costo totale dell’opera... e si tratta di costi preventivi! In realtà, risparmieremmo 11 miliardi (quota italiana) di soldi pubblici non costruendola. Infatti se si chiedesse agli utenti (merci e passeggeri) tariffe che coprano parte dell’investimento, queste diventerebbero così alte che non ci passerebbe su nessuno. Merci e passeggeri pagano volentieri i costi di costruzione delle autostrade, ma in generale non ne vogliono sapere di pagare quelli dell’Alta velocità (pagano al massimo i costi di esercizio).
4. “Altrimenti gli altri costruiscono un corridoio a nord delle Alpi”: questa è pura fantascienza, e qualcuno dovrebbe rispondere di queste frottole.
Vediamo ora gli aspetti più tecnici, non meno fantasiosi.
1. “Sposterà un sacco di camion via dalla strada, con grandi benefici ambientali”. Finora non è mai successo, nemmeno in Francia, patria dell’Alta velocità (i passeggeri ufficialmente previsti sulla nuova linea sono pochissimi, 16 treni al giorno su una capacità di 250 treni al giorno). Ma, paradossalmente, anche se ci riuscisse, le emissioni da cantiere sono tali che compenserebbero questi ipotetici risparmi per i prossimi vent’anni.
2.“ I treni merci italiani con questa linea potranno correre sull’Av francese” (articolo di prima pagina di qualche anno fa del Sole 24 Ore). Peccato che sulla rete AV francese e spagnola i treni merci non ci possono passare proprio; quelli, che di ferrovie ne capiscono, sanno che le merci che vanno in treno non sono interessate alla velocità, ma all’affidabilità e ai bassi costi.
3. “La linea attuale, quando la crisi economica finirà, sarà presto saturata dalla crescita del traffico”. Il traffico su quella direttrice era in calo già prima della crisi, anche sull’autostrada. Figuriamoci dopo che ci sarà la concorrenza della nuova linea del Sempione via Svizzera. Ma meglio stare sui numeri ufficiali: oggi passano 3 milioni di tonnellate sulla linea esistente, che, recentemente rimodernata, ne può portare 20 milioni. E le previsioni ufficiali della crescita del traffico ferroviario risultano in media sovrastimate del 40%, a livello internazionale. Ma immaginiamo che ci sia davvero questa crescita vorticosa: se è così, andranno molto prima in crisi le direttrici e le aree già congestionate adesso, e quindi questo investimento rimarrebbe comunque a priorità bassissima, soprattutto se i soldi pubblici sono scarsi.
Si ricorda per concludere che il 75% del traffico, della congestione, dei costi per le imprese e per l’ambiente sono nelle aree metropolitane, mica sulle lunghe distanze. Quindi di cose più urgenti da fare ce ne sono davvero tantissime. Se l’opera avesse qualche sensatezza, i valligiani “protestanti” dovrebbero prendersi gli indennizzi e star buoni, per il maggior interesse collettivo. Ma in questo caso sembra proprio che abbiano qualche ragione. Certo se si buttano in questo modo i soldi pubblici per ragioni di visibilità politica e di lobby poco illuminate, la Grecia anche per questo verso non può che avvicinarsi. Tuttavia sembra in vista un progetto ancora di dubbia priorità, ma più mirato al traffico merci (l’unico che c’è) e molto meno costoso, forse ad una canna sola.
Ma il punto politico non è questo: bisogna salvare la faccia (anzi, le facce, visto l’incomprensibile appoggio “bipartisan” al progetto). Tanto pagheranno i contribuenti, e i cantieri intanto si inaugurano.
Non è concepibile che la Val di Susa divenga di colpo una specie di Palestina per un'opera pubblica.
Qui non si tratta più di essere favorevoli o meno alla Tav, è semplicemente assurdo che il governo e i manifestanti arrivino a questa specie di Intifada, coi blindati, i lacrimogeni, i feriti e le barricate. Finché lo fanno in medioriente per questioni territoriali e religiose (e nemmeno lì è ormai più perdonabile), ma qui stiamo parlando di una ferrovia di un paese che si presuppone civile ed evoluto. Non ci si può ridurre in questo stato.
Non è pensabile che un governo legittimo e le legittime richieste delle comunità locali non trovino un punto di incontro e di dialogo.
È folle un paese in cui un governo ha bisogno di schierare le forze di polizia in guerriglia per attuare una decisione importante ma non epocale, ma è anche vero che è altrettanto folle prendere decisioni contro una comunità locale alla quale si chiede solo di subirle. Non si tratta più di questioni di merito, ma di metodo. Una situazione per certi versi analoga a quella che c'è a Napoli attorno alla spazzatura e alle discariche.
A rendere ancora più demenziale la situazione c'è poi il fatto che in Val di Susa una parte dei manifestanti non è gente della zona, ma ragazzi dei centri sociali del nord, che infatti nel corso della guerriglia hanno invocato l'arrivo dei locali non sapendosi muovere con disinvoltura nella valle. Se infatti accanto alle ragioni pratiche ci si mettono anche questioni ideologiche è la fine.
Quando si arriva all'uso della forza vuol dire che hanno perso tutti, anzi che abbiamo perso già tutti perché quel che accade in Val di Susa potrebbe accadere domani in qualunque zona del paese e per una qualunque opera pubblica. Quando partono i lacrimogeni e la battaglia sul campo vuol dire che non si è riusciti a far prevalere l'arma principe della democrazia: la parola, il dialogo, il consenso. In Val di Susa non ci sono vincitori e vinti: siamo tutti sconfitti.
Centosedici milioni di euro: è l’astronomico risarcimento chiesto dai proprietari dell’hotel Baia delle ginestre al Comune di Teulada e alla Regione Sardegna, colpevoli a loro dire di un misfatto. Quale? Fecero abbattere una caterva di opere abusive riconosciute tali da varie sentenze comprese due della Cassazione. La storia, definita dagli ambientalisti del Gruppo d’intervento giuridico come un incredibile esempio di faccia tosta, è illuminante per capire come mai l’Italia sia il Paese europeo marcato dall’abusivismo più devastante. Tutto inizia nei primi anni 90, quando i fratelli Guido, Emilio, Fernando e Renato Antonioli tirano su a Portu Malu, sulla costa di Teulada, un albergone che la stessa pubblicità attuale su Internet declama con parole esaustive: «Il Resort Hotel Baia delle ginestre sorge direttamente sul mare in posizione panoramica» .
Hanno una licenza per un tot di metri cubi. Già che ci sono, diranno i verdetti della magistratura, si fanno prendere un po’ la mano. Aggiungendo illegalmente, denunciano gli ambientalisti, «un parcheggio coperto, un fabbricato-alloggio del personale, un campo da tennis, un ampliamento del ristorante, un vascone, una cabina Enel, locali-servizio, la reception del complesso alberghiero, un comparto alberghiero da 100 camere, una piscina con locale-filtri, una piattaforma-pizzeria, tre baracche di legno, una pista di accesso alla spiaggia, tre pontili galleggianti, una barriera frangiflutti per complessivi metri cubi 15.600» . Prima se ne occupa il pretore: demolizione e ripristino ambientale. Poi la Corte d’appello di Cagliari: demolizione e ripristino ambientale. Poi la Cassazione: demolizione e ripristino ambientale.
A quel punto, ricorda il Gruppo d’intervento giuridico, «le strutture abusive vennero dissequestrate per consentire la demolizione da parte dei condannati. Risultato: come se niente fosse, il complesso venne riaperto e la società di gestione lucrò per anni miliardi di vecchie lire su un patrimonio ormai divenuto pubblico» . Cinque anni di battaglie legali, politiche, ambientaliste e finalmente nel giugno del 2001, dopo una seconda sentenza della Cassazione che spazzava via gli ultimi ricorsi contro le demolizioni, ecco in azione le ruspe e l’abbattimento delle opere abusive. I padroni dell’albergone, però, sapevano bene che in Italia, paese del cavillo, non è definitiva neppure una sentenza definitiva della Cassazione. Ed ecco che l’anno dopo un altro verdetto della stessa Cassazione aggiungeva un’altra puntata tormentone, rinviando nuovamente gli atti alla Corte d’appello di Cagliari. E si apriva una nuova battaglia legale su chi doveva pagare il ripristino dell’ambiente stravolto dal calcestruzzo.
Morale: 15 anni dopo la prima ordinanza di demolizione, 13 dopo il fallimento della società «Baia delle ginestre s. p. a.» (rilevata nel 2006 nella gara fallimentare dalla Regina Pacis s. r. l. appartenente per pura coincidenza allo stesso gruppo Antonioli), 10 dopo gli abbattimenti, 9 dopo la terza sentenza della Cassazione, la faccenda è ancora aperta. E lancia agli abusivi e agli speculatori il seguente messaggio: costruite, costruite, costruite. E poi fate ricorsi su ricorsi su ricorsi. Tanto la giustizia italiana è un colabrodo... E di chi sarebbe la colpa: delle solite toghe rosse? Ma per favore!
Spesso ci indigniamo (e giustamente) quando nei campi fra un centro urbano e l’altro iniziano a sorgere fabbricati, strade, capannoni, che poi non vengono terminati, restano lì per anni coi cartelli VENDESI o AFFITTASI a scolorirsi al sole di troppe stagioni. Mentre la campagna e il paesaggio sono cancellati per sempre.
Beh, non siamo i soli, in Cina riescono a fare di molto peggio, almeno in quanto a dimensioni delle scatole vuote e dei territori inopinatamente occupati: appartamenti, uffici, commercio, c’è di tutto, in una surreale serie di immagini Google Earth raccolte dal sito Business Insider
Soffia forte il vento ecologico nelle vele delle città italiane, rinforzato dai risultati dei Referendum. A Firenze il giovane sindaco rottamatore Matteo Renzi dopo aver pedonalizzato nell’ottobre 2009, fra parecchie polemiche, piazza Duomo dove passavano 1.850 bus al giorno, annuncia una nuova rivoluzione che con perfetto senso del marketing farà partire il 24 giugno, giorno di San Giovanni, patrono della città. Pedonalizzazione di tre aree, Piazza Pitti, via Tornabuoni e via Por Santa Maria, cancellando le auto da un’area di tre ettari e mezzo.
E a chi si lamenta per un centro solo a misura di turisti, e vorrebbe subito una rete di trasporti efficiente, potrà rispondere, senza paura di far la fine di Maria Antonietta, «il centro non è grande, intanto che ricomincino ad andare a piedi, a camminare e a pedalare» . E per essere chiaro scommette sulla fase tre dell’operazione: raddoppiare le piste ciclabili da 60 a 120, bloccare l’attraversamento della città da Ovest ad Est espellendo dal traffico cittadino 6 mila motorini e 3.400 auto. Lo spirito che percorre le amministrazioni italiane fa pensare a una possibile rivoluzione copernicana che faccia rifiatare gli intricati centri storici e riporti al centro della scena l’uomo, protagonista negletto e piegato da anni di subalternità alla macchina e ai miasmi che ne derivano.
È l’offensiva del pedone, che vede rivalutata la sua presenza, dopo esser stato obbligato, nella giungla cittadina, a camminare accostato ai muri per dribblare le auto sui marciapiedi, a respirare gas venefici, a schivare ruote di motorini. Costretto ultimamente addirittura a combattere una guerra dei poveri e quasi fratricida con i ciclisti che, anche loro incattiviti dai percorsi di guerra cittadini, sono diventati una nuova minaccia sfrecciando sui marciapiedi a danno della ruota più debole della catena, il solito pedone.
Due mesi fa sul Corriere.it nel Blog la 27esima ora ho scritto un Post dedicato al calpestato Orgoglio di chi cammina in città (Io, pedone, dico ai ciclisti: Siate meno arroganti!), in cui raccontavo le disavventure capitate a me e ad altri nel traffico cittadino invocando più educazione civica per tutti, articolo subito sommerso da commenti appassionati e molto civili ma polarizzati sulle accuse incrociate delle due schiere: pedoni che reclamavano le targhe per i velocipedi, e ciclisti che reclamavano le piste a loro riservate.
«Nelle città storiche il pedone deve stare a suo agio, deve poter trovare momenti di convivialità, anche di contemplazione del tanto bello che c’è. Da quando c’è l’area pedonalizzata a Firenze ho riscoperto, direi meglio "rivisto", la bellezza dell’abside di Santa Maria del Fiore. La città storica deve essere a misura d’uomo e anche la bici si deve adeguare, non può essere arrogante» dice Pier Luigi Cervellati, urbanista di lungo corso che è stato anche assessore al Comune di Bologna. Proprio a Bologna intanto anche il neo-sindaco Virginio Merola manda segnali ecologici. La prima delibera della nuova giunta è stata quella di eliminare 291 permessi di parcheggio a Palazzo d’Accursio, sede del Comune: piccoli privilegi «professionali» concessi ai consiglieri e ai giornalisti.
E Merola annuncia una macro-pedonalizzazione della cinta del Mille, la parte di centro che comprende anche le Due Torri chiusa entro le mura dell’anno Mille, e la revisione dei 75 mila pass concessi per entrare nell’area più ampia entro le mura medievali, già da tempo a traffico limitato. Più ondivaga ma sempre piena di buona volontà ecologica anche la giunta genovese che ha deciso di mettere mano a un’arteria nevralgica e delicata come quella di via Venti Settembre. In un primo tempo si è ispirata a Barcellona e ha aperto un canale verde al centro della strada per i pedoni, tappeto erboso per terra e due file di alberetti, lasciando i bus ai lati. Una specie di rambla, nelle intenzioni che però, date le dimensioni dell’arteria genovese, è stata subito ribattezzata «rambletta» .
Un po’ per l’ironia dei cittadini, un po’ per le proteste dei commercianti che vedevano i clienti passeggiare troppo lontano dai loro negozi, la giunta ha virato così verso un altro progetto, Boulevard, marciapiedi amplissimi ai lati e bus che scorrono al centro, ora allo studio. Stessi spiriti post-referendari a Milano dove si discute se pigiare l’acceleratore dell’Ecopass o quello delle isole pedonali. «La verità è che noi abbiamo stressato il modello centro-periferia invece di puntare su quello di un centro più tanti quartieri con anima e attrezzature autonome» analizza Cervellati di ritorno da Tokyo «modello virtuoso e contemporaneo, poche auto, sistema metropolitano fantastico, spazi larghi per bici e pedoni» . E conclude che non è questione di destra/sinistra, ma «di saper pianificare per il bene pubblico» . Impervio, ma chissà.
postilla
A quanto pare la mitica assessorile travolgente “misura d’uomo” colpisce ancora: tanta buona volontà e intenzioni rovesciate su ottimi progetti che rischiano di rivelarsi però controproducenti (e oggetto di motivate feroci critiche da parte non solo di lobbies ecc.) se non si tocca contemporaneamente la rete entro cui gi ambiti tanto gelosamente custoditi si inseriscono. È assolutamente vero che la città storica monumentale si costruisce su spazi che fanno a pugni, funzionalmente e percettivamente, con ogni forma di mobilità diversa da quella pedonale. È anche assolutamente vero, però, che in tutti i secoli in cui si sono accumulati e integrati, quegli spazi non erano circondati, diciamo per un raggio di qualche chilometro (diciamo, ragionevolmente, senza esagerare), da spazi, reti e aspettative del tutto diversi. Non si può per decreto trasformare né l’abitante né l’operatore né il city user del terzo millennio in un mitico viandante , magari consegnandogli all’ingresso dell’area contrassegnata un costume storico da indossare per l’occasione… No?
Dunque, contemporaneamente alle giuste e simboliche chiusure al traffico di qualche pregiata area delle città, vanno ripensati i sistemi di accesso, intermodalità, mix funzionali, incentivi e disincentivi. E onestamente partire dalla penalizzazione della bicicletta pare proprio l’estremismo dadaista più idiota: da penalizzare è invece l’idea ”autostradale” delle piste ciclabili, ma quella è un’altra storia (f.b.)
Le grandi opere non le vuole più nessuno, salvo chi le costruisce e la politica bipartisan che le sponsorizza con pubblico denaro. Dell’inutilità del Ponte sullo Stretto non vale più la pena di parlare, e dell’affaruccio miliardario delle centrali nucleari ci siamo forse sbarazzati con il referendum. Prendiamo invece il caso Tav Val di Susa. Per i promotori si tratterebbe di un progetto “strategico”, del quale l’Italia non può fare a meno, sembra che senza quel supertunnel ferroviario di oltre 50 km di lunghezza sotto le Alpi, l’Italia sia destinata a un declino epocale, tagliata fuori dall’Europa. Chiacchiere senza un solo numero a supporto, è da vent’anni che le ripetono e mai abbiamo visto supermercati vuoti perché mancava quel buco.
I numeri invece li hanno ben chiari i cittadini della Valsusa che costituiscono un modello di democrazia partecipata operante da decenni, decine di migliaia di persone, lavoratori, pubblici amministratori, imprenditori, docenti, studenti e pensionati, in una parola il movimento “No Tav”, spesso dipinto come minoranza facinorosa, retrograda e nemica del progresso. Numeri che l’Osservatorio tecnico sul Tav presieduto dall’architetto Mario Virano si rifiuta tenacemente di discutere. Proviamo qui a metterne in luce qualcuno.
Il primo assunto secondo il quale le merci dovrebbero spostarsi dalla gomma alla rotaia è di natura ambientale: il trasporto ferroviario, pur meno versatile di quello stradale, inquina meno. Il che è vero solo allorché si utilizza e si migliora una rete esistente. Se invece si progetta un’opera colossale, con oltre 70 chilometri di gallerie, dieci anni di cantiere, decine di migliaia di viaggi di camion, materiali di scavo da smaltire, talpe perforatrici, migliaia di tonnellate di ferro e calcestruzzo, oltre all’energia necessaria per farla poi funzionare, si scopre che il consumo di materie prime ed energia, nonché relative emissioni, è così elevato da vanificare l’ipotetico guadagno del parziale trasferimento merci da gomma a rotaia. I calcoli sono stati fatti dall’Università di Siena e dall’Università della California. In sostanza la cura è peggio del male. Veniamo ora all’essere tagliati fuori dall’Europa: detto così sembra che la Val di Susa sia un’insuperabile barriera orografica, invece è già percorsa dalla linea ferroviaria internazionale a doppio binario che utilizza il tunnel del Frejus, ancora perfettamente operativo dopo 140 anni, affiancato peraltro al tunnel autostradale. Questa ferrovia è attualmente molto sottoutilizzata rispetto alle sue capacità di trasporto merci e passeggeri, sarebbe dunque logico prima di progettare opere faraoniche, utilizzare al meglio l’infrastruttura esistente. Lyon-Turin Ferroviarie a sostegno della proposta di nuova linea ipotizza che il volume dell’interscambio di merci e persone attraverso la frontiera cresca senza limiti nei prossimi decenni. Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino dimostra che “assunzioni e conclusioni di questo tipo sono del tutto infondate”. I dati degli ultimi anni lungo l’asse Francia-Italia smentiscono infatti questo scenario: il transito merci è in calo e non ha ragione di esplodere in futuro. Un rapporto della Direction des Ponts et Chaussées francese predisposto per un audit all’Assemblea Nazionale nel 2003 afferma che riguardo al trasferimento modale tra gomma e rotaia, la Lione-Torino sarà ininfluente. E ora i costi di realizzazione a carico del governo italiano: 12-13 miliardi di euro, che considerando gli interessi sul decennio di cantiere portano il costo totale prima dell’entrata in servizio dell’opera a 16-17 miliardi di euro. Ma il bello è che anche quando funzionerà, la linea non sarà assolutamente in grado di ripagarsi e diventerà fonte di continua passività, trasformandosi per i cittadini in un cappio fiscale.
Ho qui sintetizzato una minima parte dei dati che riempiono decine di studi rigorosi, incluse le recenti 140 pagine di osservazioni della Comunità Montana Valle Susa e Val Sangone, dati sui quali si rifiuta sempre il confronto, adducendo banalità da comizio tipo “i cantieri porteranno lavoro”. Ma suvvia, ci sono tanti lavori più utili da fare! Piccole opere capillari di manutenzione delle infrastrutture italiane esistenti, ferrovie, acquedotti, ospedali, protezione idrogeologica, riqualificazione energetica degli edifici, energie rinnovabili. Non abbiamo bisogno di scavare buchi nelle montagne che a loro volta ne provocheranno altri nelle casse statali, altro che opera strategica!
Seguendo lo stesso criterio, anche l’Expo 2015 di Milano sarebbe semplicemente da non fare, chiuso il discorso. Sono eventi che andavano bene cent’anni fa. Se oggi in Italia tanti comitati si stanno organizzando per dire “no” alle grandi opere e per difendere i beni comuni e gli interessi del Paese, non è per sindrome Nimby (non nel mio cortile), bensì perché, come ho scritto nel mio “Prepariamoci” (Chiarelettere), per troppo tempo si sono detti dei “sì” che hanno devastato il paesaggio e minato la nostra salute fisica e mentale.
Il paesaggio è il grande malato d’Italia, come scrive Salvatore Settis? Dovunque ci si volti, si trova che il cemento cresce e diminuiscono l’erba, la terra, l’acqua in libertà. La volontà di dominio degli uomini sulla natura non conosce misura. Le lezioni tipo Fukushima non spaventano gli esaltati del cemento, i quali, nella convinzione che ogni filo d’erba costituisca un impedimento al guadagno, non riescono mai a rivolgere uno sguardo verso il futuro. Eppure il futuro dovrebbe esserci caro, poiché è sul futuro che possiamo piantare le nostre speranze, i nostri progetti. Ma lo stiamo inondando di rifiuti. Segno, come dicono gli studiosi del comportamento animale, che ci stiamo disamorando del nostro stare al mondo.
Secondo l’Istat, fra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata (Sau) in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’area grande quanto il Lazio e l’Abruzzo messi insieme: «Abbiamo così convertito, cementificato o degradato in quindici anni, senza alcuna pianificazione, il 17%del nostro suolo agricolo» . Cito dal bel libro di Salvatore Settis: Paesaggio Costituzione Cemento. Gli effetti sono: «La riduzione dei terreni agrari, boschivi e il dissesto idrogeologico, che creano una terra di nessuno disponibile ad affrettate urbanizzazioni» . Secondo l’Istat, «l’espansione dell’urbanizzazione ha conosciuto negli ultimi decenni un’accelerazione senza precedenti» . Eppure c’è la crisi, le case costano sempre piu care, gli affitti si fanno improponibili, e i giovani sono affamati di abitazioni. Ma le gettate di cemento non risolvono la questione, anzi l’aggravano. È questo il punto.
Come scrive Franco La Cecla ( Per un’antropologia dell’abitare): «L’equilibrio storico fra popolazione e territorio è già compromesso o sul punto di collassare» . Insomma: a cosa serve tutto questo cemento se non a soddisfare l’ingordigia di guadagno e l’induzione di nuovi inutili bisogni? E non si tratta, come dicono alcuni, di ubbie ambientaliste: la devastazione del territorio costa alla comunità un mucchio di denaro. Secondo il rapporto Ispra del 2009, l’uso irrispettoso «delle vocazioni naturali del territorio ha generato negli ultimi 7 anni danni per almeno 5 miliardi di euro» . Per non parlare degli incendi che ogni anno distruggono in media 45.000 ettari di aree boschive (dati del Corpo forestale), di cui oltre il 90%provocati dall’uomo. Questo non impedisce a molti amministratori di essere vittime di quello che Settis chiama «la retorica dello sviluppo» , parola d’ordine che incanta sia le destre che le sinistre. Il motivo è nobile: creare posti di lavoro.
Ma è chiaro che si tratta di un vecchio modo di guardare alle cose. Se non si cambiano i criteri di valutazione sui rapporti dell’uomo con la natura, ne usciremo sempre più poveri e malati. Il rimedio? Meno pretesa di dominio, meno speculazione, meno voracità. Più attenzione, più ascolto, più rispetto, più pianificazione. Non ci sono alternative. Pena la dipendenza sempre più drammatica dalle reazioni di una natura che si rivolta furibonda e senza pietà.
ROMA - Alla luce del sole, ma all´ombra delle tasse. Nascondere agli occhi dell’uomo case, fabbricati, immobili dovrebbe essere un impresa impossibile. Ma se gli occhi sono quelli del fisco, sono in tanti provarci. Si costruisce, ma non si dichiara: niente iscrizione ai registri del catasto, nessuna rendita sulla quale versare le tasse. Omertà fiscale e abusivismo.
Oggi però, grazie alle tecnologie satellitari e digitali, farla franca è davvero difficile e le casse vuote dello Stato hanno contribuito ad aguzzare l’ingegno dei tecnici incaricati di recuperare il gettito. Così nel 2007 l’Agenzia del Territorio ha lanciato su tutto il territorio nazionale una mappatura destinata a far riemergere l’evasione immobiliare, a stanare le case nascoste, regolarizzarle e recuperare i fondi. La tecnica usata è molto complessa: le «anomalie» sono state individuate e portate alla luce sovrapponendo una serie di immagini e rilevamenti, utilizzando le fotografie satellitari fornite dell’Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) e le mappe informatiche della Sogei. In una prima fase si è puntato alla denuncia spontanea da parte dell’evasore immobiliare, nella seconda si procederà all’emersione coatta.
Ora, al termine della prima fase (conclusa il 31 aprile), sono arrivati i risultati: gli immobili fantasma (o più precisamente le particelle catastali sulle quali sono stati costruiti edifici coinvolti nell’abusivismo o nell’omertà fiscale) sono 2.228.143. Un mare di cemento composto da case, casette, interi condomini, fabbrichette, magazzini o semplici depositi. Anche parti di aeroporti, stazioni e uffici pubblici ampliati, ma non messi in regola. Edifici di varia natura, non necessariamente abusivi, ma sicuramente inadempienti agli obblighi fiscali.
Su poco meno della metà di questa colata di mattoni (1.065.484 particelle) gli accertamenti sono già stati conclusi: gli immobili spontaneamente emersi sono 560.837 mila e «valgono» 415,5 milioni di euro rendita catastale (l’1,2 per cento di quella nazionale). Il 35 per cento è costituito da case (oltre 196mila), il 29 da magazzini, il 21 per cento sono autorimesse. Il restante 12 per cento è composto da negozi, ma anche parti di alberghi, scuole, stazioni.
C’è una graduatoria del «nero»: Salerno, Roma, Palermo, Cosenza e Napoli risultano le province con più immobili «fantasma», anche se, il direttore generale dell’Agenzia, Gabriella Alemanno, vorrebbe evitare la pagella dei buoni e dei cattivi «perché ci sono tante variabili in gioco, dall’estensione del territorio, al tipo degli immobili».
Altre 572mila costruzioni analizzate sono invece risultate «irrecuperabili» ai fini fiscali: o perché gli uomini dell’Agenzia del Territorio si sono trovati di fronte ruderi, tettoie e serre sfondate, immobili ancora in costruzione e quindi non ancora produttori di una rendita. Oppure perché i proprietari, piuttosto che pagare, hanno preferito abbatterli, temendo che l’esborso chiesto fosse superiore al valore dell’immobile.
Ora l’Agenzia del Territorio passerà alla fase due, controllando gli immobili non dichiarati al catasto costruiti sulle restanti 1.162.659 particelle. I tecnici, con la collaborazione dei comuni e della Guardia di Finanza, effettueranno i loro sopralluoghi e attribuiranno rendite presuntive (salvo rettifiche). L’operazione sarà conclusa entro la fine dell’anno o entro i primi mesi del 2012. La rendita catastale presunta si può immaginare sia di pari entità di quella finora rilevata. Chiaramente, precisa l’Agenzia, in caso di costruzioni abusive, le regolarizzazioni fin qui effettuate regolarizzano la posizione fiscale, ma «non rappresentano una sanatoria urbanistico-edilizia».
In un paese come l'Italia le autostrade del mare sarebbero un modo per ridurre il trasporto merci su gomma e su ferro. E gli operai avrebbero lavoro. Ancora una volta tocca alla Fiom fare da punto di riferimento di un'aggregazione sociale che vada al di là della protesta
L'Italia è naturalmente dotata di due straordinarie autostrade del mare in grado di collegare, una - il Tirreno - Trapani, Palermo e Napoli con Livorno, La Spezia, Genova e Savona; ma anche con Marsiglia, senza bisogno di scavalcare o perforare le Alpi con un'autostrada ferroviaria (il Tav Torino-Lione) tanto costosa quanto inutile e dannosa; o di scavalcare lo stretto di Messina con un ponte altrettanto assurdo. L'altra - il mare Adriatico - Catania, Crotone e Bari con Ancona, Ravenna e Trieste. Se tutto il traffico merci di lunga percorrenza che attraversa la penisola e tutto il traffico automobilistico di carattere turistico - o anche solo una loro quota consistente - fossero deviati su queste autostrade, la rete viaria in terraferma sarebbe sgombra e a disposizione di chi ha da percorrere itinerari più brevi; i consumi energetici e le emissioni di gas serra si ridurrebbero drasticamente; e così pure l'inquinamento. Ma, soprattutto, si ridurrebbero i costi del trasporto e se ne avvantaggerebbe molto la famosa competitività delle produzioni italiane che oggi la Confindustria e il sistema delle imprese italiane sembrano inseguire quasi esclusivamente attraverso la compressione del costo e dei ritmi di lavoro e il ricorso al lavoro precario o a quello in nero.
L'idea di utilizzare di più e meglio le autostrade del mare italiane non è una grande trovata: se ne parla da decenni e la prospettiva aveva preso una dimensione concreta con il Piano nazionale dei trasporti messo a punto dal primo governo Prodi sotto la direzione della professoressa Vittadini. Ma poi non se ne è fatto quasi nulla e oggi il traffico di cabotaggio via mare copre una percentuale infima di quello che da Nord a Sud - e viceversa - intasa le nostra autostrade e satura il numero sempre più ridotto di convogli che trasportano merci "su ferro".
Se le autostrade del mare italiane venissero attivate, quand'anche, come è giusto, gradualmente, gli impianti di Fincantieri avrebbero lavoro assicurato per almeno i prossimi vent'anni, e anche oltre. Gli operai e i tecnici di Fincantieri le navi le sanno costruire; di tutti i tipi. Oggi la loro azienda si è concentrata su quelle da crociera, e sta perdendo il mercato; perché la domanda è debole e il lavoro per questo tipo di navigli si fa quasi tutto fuori dai cantieri; e sulle navi da guerra, perché il mercato dei massacri invece "tira". Ma in un segmento di mercato come questo i paesi committenti, giustamente, hanno detto: se le navi sapete farle, venite a farle da noi; così Fincantieri ha portato all'estero i suoi cantieri, ma non i loro operai; questi, caso mai, li importa dai paesi dell'Est: costano meno, sono più ricattabili e ce ne si può sbarazzare più facilmente.
Eppure, se uno dei cardini della riconversione produttiva del sistema economico è costituito da una mobilità che riduca il suo impatto sul territorio (e sul pianeta), il passaggio modale dalla strada al mare è una soluzione irrinunciabile. Ma allora, perché non la si imbocca con maggiore determinazione? I tracciati - i mari - ci sono già: a farli ci ha pensato la Natura, mentre quelli stradali e ferroviari bisogna costruirli a caro prezzo, devastando il paesaggio. Mancano i convogli: cioè le navi Ro-Ro (roll in-roll out), che sono quelle che possono attraccare senza rimorchiatore, caricando e scaricando in pochissimo tempo i mezzi. Quali mezzi? Tecnicamente, nel trasporto merci, è sufficiente far viaggiare i rimorchi, senza imbarcare anche le motrici con l'autista al seguito; anche se la cosa, come vedremo, è alquanto complicata. Poi mancano i caselli autostradali, cioè porti adeguatamente attrezzati per smistare grandi volumi di questo traffico. Realizzarli darebbe molto lavoro alle città portuali e, soprattutto, contribuirebbe a riqualificare la loro attività. Perché se le merci viaggiano in container, o anche sfuse, possono essere caricate su un convoglio ferroviario per proseguire il loro cammino. Ma se viaggiano su un bilico, un autorimorchio, sarebbe opportuno che il rimorchio venisse sganciato dalla motrice al momento dell'imbarco e riagganciato da un'altra motrice, con un altro autista, quando riprende il viaggio via terra. Far viaggiare motrici e autisti su una nave raddoppia inutilmente i vettori e il personale viaggiante; e con essi i costi, anche se comunque è sempre più economico del trasporto su strada.
Ma perché lo stesso rimorchio sia preso in carico da due motrici diverse - una prima dell'imbarco e l'altra dopo lo sbarco - bisogna che i loro autisti siano d'accordo e se non sono entrambi dipendenti da una grande impresa di trasporto, ma sono dei "padroncini", come oggi in Italia succede nel novanta per cento dei casi, bisogna che a metterli d'accordo sia un'organizzazione comune: per esempio una delle multinazionali di logistica che ha in carico l'intero itinerario del carico. Ma questa, se e quando c'è, si avvale per lo più di imprese di spedizione in subappalto; e sono queste, a loro volta, a reclutare i "padroncini", che non sono che il terzo o anche il quarto anello di questa catena; quando non sono loro a farsi reclutare sulla piazza, insieme al loro camion, come dei braccianti a giornata ingaggiati da un padrone saltuario ogni volta diverso. La grande impresa, però, preferisce beneficiare dei vantaggi offerti dalla concorrenza selvaggia tra una miriade di operatori, dove lo spazio offerto a mezzi fuori norma e ad autisti spericolati dell'Europa dell'Est è in continua crescita.
L'alternativa è allora un consorzio - magari obbligatorio, o, meglio, l'affiliazione al quale sia vincolante per l'accesso alle navi Ro-Ro - che provveda, con il ricorso alle tecnologie più moderne, a coordinare imbarchi e sbarchi, a ottimizzare i carichi e i percorsi, a garantire i carichi di ritorno, a contrattare le tariffe con le controparti e con i vettori navali, a escludere i mezzi fuori norma e gli autisti che mettono a rischio la propria e l'altrui vita con orari di guida troppo lunghi e tempi di percorrenza troppo corti. Gli autisti - tutti, autonomi o dipendenti - ci guadagnerebbero in soldi e salute; il paese in qualità dell'ambiente e in sicurezza sulle strade; il "sistema delle imprese" in competitività e autonomia. Ma chi pagherà tutto questo?
Se solo i fondi destinati a due opere totalmente inutili come il Tav Torino-Lione e il ponte sullo stretto fossero destinati a un programma del genere (per esempio alla ristrutturazione dei porti e del loro hinterland) un buon tratto di questo percorso sarebbe già garantito. Inoltre, a promuovere il passaggio al trasporto intermodale lungo le autostrade del mare potrebbe concorrere un graduale aumento delle tariffe autostradali (purché a incassarle non sia Benetton e servano a finanziare il nuovo sistema) e i fondi dell'Unione europea destinati (come il programma Marco Polo) al finanziamento del trasporto a minore impatto ambientale. Ma il problema prioritario è quello di affrontare due delicati passaggi, evitando che i diktat del liberismo annientino i vantaggi che si possono ricavare da questa soluzione; garantire con accordi di programma le transazioni tra Fincantieri, che dovrà costruire le navi, e l'armatore - o, meglio, un consorzio di armatori - che dovrà gestire la flotta Ro-Ro; e poi, le transazioni tra questo e il consorzio, o i consorzi, di autotrasportatori che quella flotta dovranno utilizzarla. L'uno non si tiene senza l'altro: se gli armatori non avranno un mercato garantito dagli autotrasportatori non potranno a loro volta offrire un mercato garantito a Fincantieri perché avvii questa nuova linea produttiva.
È questa una violazione della normativa europea sulla concorrenza? Può darsi, ma non è detto. Se una potenza come la Volkswagen ha potuto fare non solo un accordo di programma, ma una vera e propria società con un'azienda di distribuzione dell'energia elettrica per assicurare un mercato captive, cioè garantito, ai propri microcogeneratori, senza doversi esporre alla concorrenza di altri produttori di impianti analoghi, non si vede perché, all'interno di un programma finalizzato alla salvaguardia dell'ambiente e della sicurezza stradale, non si possano stringere accordi per garantire un mercato a una così importante riconversione produttiva.
Dunque la palla è in mano ai centomila e più autotrasportatori italiani che intasano le strade e le autostrade del belpaese: un popolo indisciplinato peggio di un'assemblea di condomini e tendenzialmente conservatore almeno quanto i camioneros che quarant'anni fa avevano messo alle strette il Cile di Allende; ma anche un popolo che si trova sempre più con l'acqua alla gola e che governi di destra e di sinistra hanno cercato di "tener buono" con gli sconti sulle accise del gasolio messi al bando dall'Unione europea (e la cui abolizione potrebbe essere un'altra possibile fonte di finanziamento di un loro associazionismo ambientalmente consapevole). La palla passa dunque alla politica. E purtroppo non è, o non è solo, una politica che si possa promuovere dal basso, senza una prospettiva complessiva a livello almeno nazionale. Ma per concretizzare e consolidare l'appoggio e la solidarietà con i lavoratori di Fincantieri da parte di tutte le categorie sociali che in questi giorni si manifesta nelle città colpite dai piani di ristrutturazione dell'azienda non c'è altra strada. E ancora una volta tocca alla Fiom fare da punto di riferimento di un'aggregazione sociale che vada al di là della protesta. La posta in gioco è talmente alta, e il rischio per i lavoratori coinvolti nel settore (le maestranze di Fincantieri; ma certo non solo loro) è talmente grande, che un impegno nel merito dovrebbe e potrebbe coinvolgere molti altri soggetti. L'importante è cominciare.
Le aree metropolitane continuano ad espandersi in superficie e popolazione, e si aggregano a comporre entità uniche dal punto di vista economico, politico, e anche sociale, note come “conurbazioni” e per cui è usato anche il termine di “megalopoli”
Una delle più grandi conurbazioni del mondo si trova sulla Costa Orientale degli Stati Uniti, chiamata Atlantic Seaboard Conurbation. ASC si estende su oltre 1.000 chilometri a comprendere poli economici politici e culturali quali Boston, Massachusetts; New York, stato di New York; Filadelfia in Pennsylvania; Baltimora in Maryland; Washington, District of Columbia.
La foto dallo spazio comprende tutte le aree metropolitane di ASC tranne quella di Boston (fuori dallo scatto verso nord-est). L’immagine evidenzia posizione e dimensioni delle regioni metropolitane grazie all’illuminazione. Nascita e crescita delle conurbazioni si devono alle reti di trasporto – ferrovie, autostrade, rotte aeree – per spostare materie prime, prodotti, persone fra le varie città.
Ci sono altre due aree metropolitane comprese nello scatto — quella di Norfolk e di Richmond, Virginia, nella parte inferiore — che non vengono però considerate parte di ASC.
Prove generali per il condono universale 2012
di Vezio De Lucia
Potrebbe essere solo sordida propaganda elettorale. È contraria la Lega (ma non ci si può fidare, nei mesi scorsi era stata d'accordo) e Il Sole 24 Ore ha scritto che non va bene, che si deve dire no all'abusivismo edilizio sempre e comunque. Potrebbe essere solo un'iniziativa, da abbinare alle dichiarazioni con le quali Berlusconi ha condiviso il triviale attacco di Letizia Moratti a Giuliano Pisapia, dettata dalla necessità di sollecitare i peggiori istinti giocando il tutto per tutto in una sfida elettorale all'ultimo sangue. Temo però che non sia così, e che l'intervento legislativo annunciato a Napoli per sospendere fino a dicembre le demolizioni degli abusi edilizi in Campania sia un promessa che il governo intende davvero rispettare. E non è tutto, se va in questo modo è inevitabile un provvedimento di condono universale. Che non sorprende chi ricorda le tre precedenti leggi degli anni 1985 (governo Craxi), 1994 e 2003 (governi Berlusconi): una ogni nove anni. La data del condono prossimo ventura sarebbe perciò il 2012. E quello promesso a Napoli per fermare le ruspe è solo un preavviso.
Certo è che il nostro Paese si allontana sempre di più dal mondo civile. In quale altro luogo d'Europa c'è tanta tolleranza per l'illegalità, la furbizia, l'esasperazione dell'egoismo proprietario? Il condono edilizio appartiene a quella filosofia - mirabilmente espressa dallo slogan «padroni in casa propria» - che ispira tutte le iniziative del governo in materia edilizia, dagli abominevoli piani casa, all'abolizione dell'Ici, alla liquidazione dei beni pubblici. Quella filosofia che consente di raccogliere sotto la stessa bandiera gli stati maggiori della proprietà immobiliare insieme alle fanterie che posseggono solo miserevoli manufatti abusivi. Queste cose le scrisse Valentino Parlato in uno dei primi fascicoli del manifesto mensile per far capire l'ampiezza dello schieramento sociale che si opponeva allora alla riforma urbanistica. Adesso è l'Italia di Silvio Berlusconi.
Alla quale non interessa che si mortificano le persone perbene, gli amministratori, i funzionari, i magistrati che fanno il proprio dovere contrastando l'illegalità. Che l'abusivismo di necessità non esiste da decenni e che ormai è solo un'attività criminale nelle mani di mafia, camorra e 'ndrangheta. Che gli insediamenti abusivi non rispettano neanche le norme a difesa delle frane e dei terremoti. Che le spese a carico dei comuni per il risanamento degli insediamenti abusivi superano di oltre tre volte l'ammontare delle oblazioni. Che il condono edilizio è peggio di quello fiscale e simili.
Potrei continuare. Ma è vero anche che esiste un'altra Italia, che si riconosce in principi diversi da quelli dell'egoismo proprietario. Un'Italia però sparpagliata e avvilita che finora non siamo stati capaci di mobilitare.
Usi e abusi, si sanano le case non le persone
di Marco Rovelli
E saniamole queste case abusive, dice il Caro Leader. L'abuso eretto a norma, morale prima che giuridica, pare ormai uno dei segni più marcati di questa età di Fine Impero. L'abuso è generalizzato, ci dice il Caro Leader strizzandoci l'occhiolino, siamo tutti complici di un'illegalità diffusa: ovviamente non quell'illegalità diffusa invocata anni fa in nome di una trasformazione rivoluzionaria collettiva, ma un'illegalità individualistica finalizzata al «si salvi chi può» - dove poi, a salvarsi e prosperare sulle spalle di un massacro sociale generalizzato, sono sempre quelli che partono da posizioni di vantaggi acquisiti. Che in questo paese, dove la forbice tra i più ricchi e i più poveri è larghissima, assume contorni devastanti.
Tutto questo appare in una luce particolare, dalla prospettiva del Duomo di Massa, dove da due settimane stiamo conducendo una lotta a sostegno degli immigrati in presidio permanente che chiedono di essere regolarizzati avendo subito truffe in occasione del decreto flussi colf-badanti del 2009. È una lotta difficile, con margini ristretti per conseguire gli obiettivi prefissi. Da una parte, una legislazione schiavista che non lascia spazi per poter dare giustizia a coloro che hanno consegnato migliaia di euro a qualche falso datore di lavoro, e sono stati lasciati nella clandestinità da cui volevano emanciparsi, senza i propri risparmi frutto di una fatica immane. Dall'altra, un percorso che in questi giorni si riapre in conseguenza della sentenza del consiglio di Stato che ha annullato la circolare Manganelli che escludeva dalla regolarizzazione coloro che avevano subito la doppia espulsione: un percorso però arduo, visto che la possibilità di accedere alla regolarizzazione non riguarda tutti coloro - e sono tanti - che non hanno fatto ricorso dopo la loro esclusione.
Ecco, da questa prospettiva irta di difficoltà, in cui tocchi con mano passo dopo passo che cosa significhi essere persone «non-persone», la ventilata sanatoria degli abusi edilizi appare come scandalo. Da una parte un territorio che può venir devastato impunemente, e ogni suo abuso può essere sanato. Dall'altra, invece, non si sana per nulla al mondo la condizione giuridica di persone che lavorano e che non devono venire riconosciute nei propri diritti di lavoratori, e prima ancora di esseri umani.
Sotto questa apparente contraddizione, però, si legge una logica unitaria, e fondativa della nostra epoca: il consumo di oggetti elevato a principio supremo. Territorio e persone sono usati e abusati, ciascuno a suo modo: da ciascuno ciò che può dare. Anzi: da ciascuno e da ogni cosa ciò che si può estrarre. (E, come corrispettivo: a ciascuno ciò che egli si può prendere). Così uso e abuso di persone e di territorio sono legittimati. Uso e abuso, indifferentemente, perché nella prospettiva del consumo totale scompare la soglia tra i due concetti, che si confondono: ogni uso è sempre cattivo (ab-uso), in quanto smisurato. È questo, insomma, il tempo della hybris (e Luciano Gallino ci ha detto, di fatto, come sia questa la marcatura "etica" di questa nostra età del finanzcapitalismo). E non possiamo continuare a rimandare la questione di fondo: come salvarsi da questa tracotanza del genere in-umano.
«Quando vado all’estero non riesco nemmeno a raccontare quello che succede in Italia. Mancano le parole perché i concetti non sono traducibili. Un governo che sistematicamente massacra il proprio territorio, che apre la strada alle infiltrazioni del malaffare, che peggiora i propri bilanci costringendosi a fornire infrastrutture agli abusivi, che mette a rischio la vita dei cittadini incentivando la violazione delle norme sismiche e di sicurezza idrogeologica. Come si fa a spiegare? Non ci credono». Vezio De Lucia, uno dei nomi storici dell’urbanistica, è indignato ma non sorpreso. In 26 anni ha visto tre condoni e ha sviluppato una sua teoria interpretativa.
«I terremoti non si possono prevedere, i condoni sì», spiega De Lucia. «Il primo, il Craxi-Nicolazzi, è del 1985. Il secondo, il Berlusconi-Radice, del 1994. Il terzo, il Berlusconi-Lunardi, del 2003. Uno ogni 9 anni. Il prossimo dovrebbe scattare nel 2012 e quello che sta succedendo in Campania suona come la premessa per estendere all’intero paese la sanatoria edilizia. Che, come tutte le altre, naturalmente sarà l’ultima della serie, parola di premier».
Questa volta però un nuovo condono sembrava impossibile. Le frane che in Calabria e in Sicilia hanno spazzato via le case abusive seminando lutti, la magistratura che aveva cominciato a far muovere le ruspe…
«Appunto. Aveva iniziato il sindaco di Eboli, Gerardo Rosania, che qualche anno fa aveva coraggiosamente fatto abbattere le case comprate dalla camorra. Poi è intervenuto Aldo De Chiara, il procuratore che ha colpito l’abusivismo a Ischia. Si è capito che l’Italia poteva diventare un paese europeo, un paese in cui le regole vengono rispettate e il merito premiato. Un problema per chi percepisce la legalità come una minaccia».
Nel caso degli altri condoni la motivazione era stata legata a esigenze di cassa: c’era bisogno di entrate fiscali e si era calcolato che con la sanatoria si poteva ottenere un incasso rapido.
«Un calcolo clamorosamente sbagliato o una bugia. E’ successo esattamente il contrario. Per ogni euro che lo Stato ha incassato dal condono ne ha dovuti spendere tre per costruire le infrastrutture necessarie. Senza calcolare le vittime dei disastri idrogeologici prodotti dal malgoverno del territorio».
Pensa che arriverà il quarto condono?
«Ho detto che me lo aspetto ma parlavo dal punto di vista statistico. In realtà non ho ancora perso la speranza: penso che una reazione sia possibile. I condoni precedenti hanno creato un disastro amministrativo, perché al danno economico si è associata la paralisi dei servizi visto che sono ancora aperte le pratiche della prima sanatoria, e un disastro legale, perché è stata alimentata la crescita della malavita organizzata che controlla buona parte del circuito illegale del cemento. Questa coazione a ripetere il danno non è compatibile con la rinascita di un’economia sana e quindi capace di durare nel tempo. Il condono edilizio è il più devastante dei condoni perché i suoi effetti negativi durano per secoli».
In passato le sanatorie hanno sempre incentivato una forte accelerazione degli abusi.
«E’ quello che sta già succedendo proprio ora: mentre siamo qui a parlare di sicuro c’è già chi sta aprendo centinaia di cantieri abusivi in tutto il paese. Del resto i vari piani casa berlusconiani avevano gettato le premesse di questo affondo illegale. Abbiamo il record di abusivismo in Europa».
Oggi dunque Berlusconi annuncerà ai napoletani che è «Pronto il provvedimento che sospenderà gli abbattimenti delle case in vista di una soluzione». L'anticipazione del proclama è andata in onda ieri ai microfoni di radio Kiss Kiss, emittente legata a Mondadori che per conto del network napoletano gestisce in esclusiva la vendita dello spazio pubblicitario.
La sospensione degli abbattimenti è il cavallo di battaglia numero due delle ultime campagne elettorali: dopo il flop del miracolo dei rifiuti, via libera all'abusivismo edilizio, come alle scorse regionali. Una promessa che da due anni il Pdl prova a onorare tra decreti e leggine da far approvare in sordina al Parlamento, ma per ora nessuno stop agli abbattimenti della procura. Oggi pomeriggio alla Mostra d'Oltremare, per la chiusura della campagna elettorale di Gianni Lettieri, Berlusconi incasserà la ola di quelli che ruotano intorno al ciclo del cemento. «In Campania - osserva Michele Buonomo, presidente regionale di Legambiente - dove un terzo delle case degli ultimi dieci anni è abusivo, con decine di morti, e il business del cemento illegale è nelle mani della camorra, tale provvedimento può avere solo un effetto devastante». Un effetto soprattutto nei quartieri periferici, ad alta densità di abitanti e molti voti in palio, dove palazzoni e villette spuntano dalla sera alla mattina. Come si leghino mattone e successo elettorale, lo spiegano gli eletti. Se due anni fa a Ischia - dove gli abbattimenti aizzano la popolazione - il pieno di voti lo fece Mara Carfagna cavalcando la richiesta di fermare le ruspe, a Pianura, ultimo quartiere dormitorio prima dei Campi flegrei, tra i più votati c'è Pietro Diodato, ex An, poi Pdl, adesso Fli, quello che capeggiava la rivolta contro i migranti per liberare spazi, mentre il cognato, ex cutoliano, si accaparrava le proprietà dei suoli. Suo concorrente Marco Nonno, rimasto nel Pdl, ugualmente interessato agli sviluppi urbanistici del quartiere, su cui entrambi fondano il loro radicamento elettorale.
La strategia sui trasporti di qui al 2050. Il nuovo libro Bianco della Commissione Europea per incrementare la mobilità e ridurre le emissioni. Della serie: “missione impossibile”
Il 28 marzo 2011 la Commissione europea ha adottato il nuovo Libro bianco sui trasporti con una strategia di ampio respiro e dal lungo orizzonte temporale fino al 2050(1).
Il nuovo Libro bianco arriva dieci anni dopo l’analogo del 2001(2) intitolato “La politica europea dei trasporti fino al 2010: il momento delle scelte” mentre quello adottato di recente già dal titolo indica una strategia assai più realistica, se pur con un orizzonte temporale al 2050 ed include tappe intermedie al 2020 ed al 2030. “Tabella di marcia verso uno spazio unico europeo dei trasporti – per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile” – così è stato titolato il Libro bianco - nel tentativo davvero complesso di coniugare l’incremento della mobilità e la riduzione delle emissioni.
Il volume è suddiviso in tre parti – analisi della situazione insostenibile, gli obiettivi e le sfide fondamentali da affrontare, la strategia e le regole per attuarle – ed un allegato che contiene un elenco di 40 iniziative da mettere in campo nei prossimi anni.
L’analisi della situazione parte dalla considerazione che il settore dei trasporti in Europa impiega direttamente dieci milioni di persone e rappresenta il 5% circa del Pil, che per le imprese il costo del trasporto si aggira sul 10-15% del prodotto finito ed in media le famiglie spendono il 13,2% del proprio bilancio in beni e servizi di trasporto. I trasporti dipendono per 96% dal petrolio, il cui prezzo è stimato che nei prossimi decenni sia destinato a raddoppiare, la congestione costa all’Europa circa l’1% di PIL ogni anno, e le emissioni secondo i piani della UE dovranno ridursi dell’80-95% entro il 2050 rispetto ai dati del 1990.
Anche i trasporti dovranno fare la loro parte ed il documento individua tre obiettivi per abbattere le emissioni che si dovranno ridurre del 60%: migliorare l’efficienza dei veicoli mediante l’uso di carburanti e sistemi di alimentazione sostenibili, ottimizzare le prestazioni della catena logistica multimodale e puntare sull’uso efficiente delle infrastrutture grazie ai sistemi di gestione informatizzata del traffico.
Sono dieci gli obiettivi fondamentali indicati nel libro Bianco:
Buoni obiettivi in parte già contenuti nel libro Bianco del 2001, da raggiungere mediante strategie e regole che puntano al mercato unico europeo dei trasporti, alla concorrenza, all’innovazione tecnologica ed alla ricerca, alla tariffazione delle infrastrutture e dei sistemi urbani, alla sostenibilità ed a forme innovative di mobilità, alla realizzazione delle reti TEN-T: parole chiave di una strategia ambiziosa e lungimirante di azione ed intervento.
Il nuovo documento è anche lo specchio dei successi ed insuccessi del libro bianco del 2001 e tiene conto delle azioni e dei piani di questi anni: dal piano di riduzione europeo 20-20-20 delle emissioni di C 02, del piano di azione UE per i veicoli puliti e l’auto elettrica del 2010, dalle difficoltà economiche e procedurali peri realizzare il piano delle reti TEN-T, alla nuova direttiva sui sistemi di trasporto intelligenti che dovrà essere attuata entro il 2012 dai paesi membri, dei significativi obiettivi ottenuti in ambito europeo per la riduzione di morti e feriti sulle strade.
Non mancano nemmeno debolezze e criticità nel Libro bianco. A partire dalla scarsa considerazione per i problemi del trasporto urbano ( oltre due terzi della mobilità) dove viene confermata la necessità del potenziamento del trasporto collettivo, della bicicletta e delle aree pedonali, ma si affida un ruolo chiave all’auto pulita, tralasciando i problemi di congestione, di uso dello spazio urbano e di pianificazione territoriale.
Ed anche per l’auto “pulita” da estendere su vasta scala in ambito urbano, si punta alla ricerca ed innovazione tecnologica, ammettendo che questo obiettivo è ancora molto lontano dalla sua soluzione e per i carburanti alternativi si ammette che “ non si potrà fare affidamento su di una sola soluzione tecnologica”. Nel Libro bianco non vengono mai richiamate specifiche tecnologie di alimentazione delle vetture mentre solo nei documenti di lavoro preparatori si trovano diversi riferimenti ad elettricità, idrogeno e biocarburanti, mentre come soluzione ponte da usare insieme al petrolio si richiamano metano, gpl e carburanti sintetici.
In questo senso il documento resta debole perché assegna un ruolo chiave per la riduzione delle emissioni all’auto “pulita” ma senza - ed onestamente- intravedere delle soluzioni operative in tempi ravvicinati e pur in presenza del piano europeo di sostegno all’auto pulita ed elettrica del 2010.
Un’altra criticità è rappresentata dalle reti TEN che anche in questo documento costituiscono un pezzo essenziale della strategia, che assomiglia al ruolo chiave che anche in Italia è stato assegnato dalla politica alle grandi opere strategiche della legge obiettivo, senza una efficace selezione e dai costi pubblici insostenibili.
Il Libro bianco 2011 quantifica in 550 miliardi di euro il fabbisogno europeo di risorse fino al 2020 per il completamento delle reti TEN-T ed arriva a 1500 miliardi di euro che servirebbero entro il 2030 per sviluppare le infrastrutture di trasporto adeguate alla domanda di mobilità. Risorse pubbliche e private che non sono in alcun modo disponibili e che rendono questi obiettivi evanescenti e quindi in parte inadeguati rispetto agli obiettivi ambiziosi della Commissione europea nel campo dei trasporti.
Infine un altro punto debole è rappresentato dall’applicazione dei validi principi “chi usa paga” e “chi inquina paga” che in questo decennio hanno trovato ostilità pesanti da parte del mondo delle imprese e delle lobby a livello europeo.
L’internalizzazione dei costi esterni negativi nei trasporti, che doveva trovare regole comuni da applicare in tutti i stati membri (anche per evitare distorsioni della concorrenza) è divenuta una metodologia che può (e non deve) essere applicata a discrezione dei singoli paesi membri; l’eurobollo, la tariffazione del trasporto merci a livello europeo per attuare il principio “chi inquina paga”, è divenuta una misura debole e non obbligatoria.
Allo stesso modo pedaggi e tariffe sia delle infrastrutture che in ambito urbano sono divenute raccomandazioni e di sicuro si scontrano con la difficoltà di sistemi assai differenziati tra i diversi paesi membri – basti pensare al sistema dei pedaggi autostradali legati alle concessionarie italiane, basato su contratti che a volte scadono fra trenta anni – avendoli legati agli investimenti infrastrutturali. Il nuovo Libro bianco ribadisce l’importanza di questi strumenti di regolazione per gli anni a venire ma è facile prevedere che le difficoltà saranno persistenti.
Una grande enfasi è dedicata al mercato unico europeo dei trasporti sia nel settore aereo – da completare – e sia nel sistema ferroviario, predisponendo un terzo pacchetto di direttive che rafforzi regole comuni sia per alimentare la concorrenza (anche nel trasporto passeggeri interno delle ferrovie), con la separazione strutturale (e quindi non solo contabile e societaria) tra proprietario delle reti e chi fa il servizi di trasporto, con il potenziamento dell’Agenzia europea di regolazione.
L’obiettivo è quello di promuovere un mercato comune del trasporto ferroviario, superando le attuali barriere e vincoli tecnologici che impediscono l’interoperabilità, puntando ad una concorrenza effettiva nei servizi a livello europeo. Obiettivo già in passato posto a livello europeo ma poi che ha rallentato la sua corsa e che ora ritorna tra le priorità europee. Restano da vedere gli strumenti operativi che verranno adottati per davvero dalla Ue in un settore che anche in italia in questo momento vive un dibattito complesso e non privo di polemiche, ora che sono arrivati per davvero nuovi operatori ferroviari nel mercato italiano.
Esiste una differenza fondamentale con il Libro bianco del 2001, che puntava al riequilibrio modale verso modalità a basso impatto ambientale come ferrovia e cabotaggio ed alla necessità di una strategia per “ il progressivo sganciamento della crescita economica dalla crescita dei trasporti”. Obiettivo quest’ultimo a cui il nuovo libro Bianco 2011 rinuncia completamente ed apertamente come ha dichiarato il vicepresidente Siim Kallas responsabile per i Trasporti, che nel presentarlo ha dichiarato che “Ridurre la mobilità non è un’opzione, ne lo è mantenere lo status quo. Possiamo interrompere la dipendenza del sistema dei trasporti dal petrolio senza sacrificare l’efficienza e compromettere la mobilità. Possiamo guadagnare su tutti i fronti”.
Parole di speranza e giusta esortazione che non trovano però riscontri concreti sulle modalità con cui questi due obiettivi ambiziosi possono davvero essere raggiunti secondo le indicazioni del Libro bianco. Mentre l’esperienza concreta di questo decennio ci ha dimostrato che ogni positivo incremento di efficienza dei veicoli, in particolare delle automobili e dei veicoli stradali, è stato divorato dall’aumento della potenza e dell’aumento dei chilometri percorsi, producendo alla fine un incremento significativo delle emissioni di C02, passati dal 23% al 28% nel settore dei trasporti e quindi fallendo ogni obiettivo di riduzione fissato dal protocollo di Kyoto del 6,5% rispetto ai dati del 1990.
Del resto è lo stesso Libro bianco trasporti 2050 (nei documenti preparatori) che prevede che tendenzialmente il trasporto merci crescerà del 40% dal 2005 al 2030 e di poco più dell’80% entro il 2050. Il traffico passeggeri dovrebbe invece registrare un aumento leggermente inferiore: del 34% entro il 2030 e del 51% entro il 2050.
Sarebbe opportuno non rinunciare completamente al raffreddamento della crescita della domanda di mobilità - che non equivale a “ridurre la mobilità” - ma semplicemente per il futuro aumentare l’efficienza complessiva del sistema, eliminare i viaggi a vuoto nel trasporto merci, progettare e riqualificare le città avvicinando le diverse funzioni per non essere “condannati alla mobilità”, promuovere i consumi a chilometro zero nel settore alimentare, sostenere tutte le tecnologie e le procedure telematiche che riducono la domanda fisica di trasporto merci e passeggeri.
Difficile insomma credere che sia possibile - con le conoscenze e le tecnologie di oggi - aumentare la mobilità riducendo in modo significativo le emissioni e la congestione.
Il dibattito è aperto ed adesso non resta che aspettare il confronto pubblico e l’approvazione da parte del parlamento europeo e del Consiglio del nuovo Libro bianco sui trasporti 2050.
1 Commissione Europea. Libro Bianco. Tabella di marcia verso uno spazio unico europeo dei trasporti – Per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile. Bruxelles, 28.3.2011 ( vedi sul sito www.eur-lex.europa.ue)
2 Commissione Europea. Libro Bianco. La politica europea dei Trasporti fino al 2010: il momento delle scelte. Bruxelles, 2001
Gli altri litigano, e lui fa promesse. Peccato che siano sempre le stesse. Evidentemente non funzionano. L’altro ieri fisco «friendly», ieri l’ennesimo piano casa. Dopo il flop dell’ultima proposta, che finora ha registrato pochissimi interventi su gran parte del territorio nazionale, a parte il Veneto. Così Giulio Tremonti procede spedito sul suo sentiero di grande «timoniere» della coalizione, ufficialmente fedele al premier, ma anche a lui pericolosamente alternativo.
L’ultimo annuncio seduce la platea dei geometri, che plaudono al nuovo cemento promesso. Il ministro annuncia un decreto a inizio maggio, che dovrebbe contenere le semplificazioni per l’edilizia, con chiarimenti sulla Scia (segnalazione certificata di inizio attività), i distretti turistici costieri, già annunciati al momento del varo del pnr (piano nazionale di riforme) e opere pubbliche. Sulle abitazioni i numeri ricalcano quelli già in vigore: possibilità di ampliamento del 20% e fino al 30% in caso di demolizione e ricostruzione. Annunciando la solita falsa rivoluzione, Tremonti va all’affondo contro i «nemici del cambiamento»: le Regioni, la Costituzione, i vincoli, e naturalmente i Verdi, gli «oppositori » per antonomasia.
La verità è esattamente contraria agli slogan triti del ministro. Quando, nel marzo del 2009, si arrivò ad un’intesa sul piano casa con le Regioni, tutti i governatori, chi prima chi dopo, vararono la loro legge. Dunque, nessun veto dalle amministrazioni. Quello che non rispettò l’impegno preso allora fu proprio il governo, che avrebbe dovuto varare un decreto di semplificazione mai visto. Tante altre cose si sono stratificate negli anni, mentre tutti promettevano e nessuno faceva. «Aspettiamo dalla primavera scorsa i chiarimenti sulla Scia – dichiara Anna Marson, assessore al territorio della Regione Toscana - e tanto per dirla chiara, aspettiamo da decenni la nuova legge urbanistica nazionale, che è addirittura del ‘42». Anche la Toscana, come le altre Regioni, ha varato il suo piano, e lo ha confermato con il cambio di amministrazione con aggiustamenti richiesti da Comuni e costruttori. Naturalmente qualsiasi normativa deve rispettare gli strumenti urbanistici vigenti. Restano in vigore i vincoli sui centri storici, paesaggistici, sulle coste, sulle aree golenali. Oggi il ministro promette maggiori libertà: vuole abolire anche questi? Non si sa. In materia a governare sono le Regioni, che hanno subito rivendicato il loro ruolo. «Tutte le Regioni hanno emanato una legge che rispetta le linee di indirizzo dell'accordo - ha dichiarato Vasco Errani - alcuno spazio per polemiche fra le istituzioni su questo tema». Sta di fatto che la nuova proposta somiglia pari pari alla prima che non ha funzionato. Ci si aspettavano investimenti per 60 miliardi, ci sono state briciole. «Il fatto è cheunintervento di questo tipo funziona solo in caso di villette monofamiliari - spiega Marson - Ecco perché in Veneto ha tirato. Ma nel resto del Paese gli effetti sono molto limitati».
«Naturalmente qualsiasi normativa deve rispettare gli strumenti urbanistici vigenti. Restano in vigore i vincoli sui centri storici, paesaggistici, sulle coste, sulle aree golenali. Oggi il ministro promette maggiori libertà: vuole abolire anche questi?» Naturalmente si, rispondiamo. E’ quello che vogliono, che vuole il vasto e ramificato partito del mattone, il più grande di tutti, con tentacoli ovunque. Sembra che lo slogan vincente, contro il quale troppo pochi si oppongono nelle istituzioni e nei partiiti, sia ancora: “Lotta dura per una maggiore cubatura”.
Via i vincoli del piano regolatore, finché i piani regolatori non saranno tutti ispirati allo “sviluppo del territorio”, finché i piani paesaggistici buoni, o anche solo decenti, non saranno tutti rifatti dai cappellacci di turno.
È allo studio un progetto per creare il terzo polo autostradale italiano con una forte connotazione lombarda e, nella prima fase, pubblica. Nascerebbe intorno a una holding da creare ex novo. Battezziamola «Autonord» . È un piano in cinque fasi. In Autonord confluirebbero, in una prima fase, le partecipazioni degli enti pubblici, a partire dal 52%della Provincia di Milano e il 18%del Comune meneghino, nella Milano Serravalle, pezzo forte del nuovo polo. Ma gli apporti riguarderebbero anche le altre partecipazioni della Provincia (Pedemontana, Tangenziali Esterne, ecc.) oltre a uno stock di debiti compreso fra 150 e 200 milioni.
In una seconda fase sarebbe coinvolto il gruppo Intesa Sanpaolo. E su questo vi sarebbero stati già contatti ai massimi livelli tra i soggetti coinvolti nel progetto, in particolare il presidente della Provincia, Guido Podestà, e l’amministratore delegato di Intesa, Corrado Passera. Intesa ha infatti svariati interessi nel sistema autostradale, sia con partecipazioni azionarie dirette (l’Autostrada Brescia-Padova di cui è da poco azionista di riferimento, la Pedemontana, Autostrade Lombarde) sia come finanziatrice dei lavori. Gli incroci sono innumerevoli, un guazzabuglio di partecipazioni che la nuova holding potrebbe razionalizzare (il grafico in pagina illustra solo i principali collegamenti).
E i soggetti coinvolti potrebbero essere anche altri, come la banca Ubi o il gruppo autostradale Gavio, anch’essi incastonati nel labirinto di partecipazioni, o altre banche finanziatrici del «sistema» . Dunque Autonord funzionerebbe da polo aggregante con due soci forti come Provincia di Milano e Intesa (per via dei loro apporti). In sostanza è su quest’asse che si decide la fattibilità del piano. Per ora il livello della discussione è molto «politico» ma tra i molti soggetti interessati qualche carteggio è già circolato.
E da qui filtra lo schema della fase tre: apertura del capitale di Autonord a nuovi investitori, anche stranieri, i fondi sovrani per esempio, che vogliano scommettere sulle infrastrutture di un’area tra le più ricche d’Europa. La partecipazione pubblica potrebbe essere ridotta sotto il 50%ma con patti parasociali che garantiscano il controllo sulle opere infrastrutturali. Il nodo dei patti parasociali, che essenzialmente dovrebbe riguardare Provincia Milano e Intesa, è un tema allo studio. Una volta riunite le partecipazioni in Autonord e raccolto denaro con l’ingresso di nuovo soci, scatta la fase quattro, fondamentale: portare a compimento le principali opere infrastrutturali avviate.
A quel punto non più è solo una questione d’interesse pubblico ma anche privato, cioè degli investitori che pretendono un ritorno (e che magari hanno in mano un’opzione put da far valere). È evidente che il progetto è concepito soprattutto per attirare nuove risorse, al di fuori del canale bancario, essenziali ai lavori infrastrutturali. Risorse che la Provincia dai bilanci asfittici non ha. La fase quattro si dovrebbe concludere con l’Expo del 2015, tempo limite per chiudere i lavori dei collegamenti stradali e autostradali già progettati per l’evento. Poi la fase cinque: la quotazione in Borsa di Autonord. È un progetto, si vedrà se e quanto realizzabile.
Nel rapporto Ambiente Italia 2011, l'associazione del cigno lancia l'allarme. Periferie sempre più estese, arterie stradali, maxi-parcheggi e capannoni. E' come se ogni quattro mesi nascesse una nuova Milano
Il cemento si sta mangiando l’Italia, al ritmo di 10.000 ettari di territorio all’anno: ogni 4 mesi è come se nascesse una nuova Milano. Periferie sempre più estese, arterie stradali, maxi-parcheggi e capannoni.
Grappoli disordinati di sobborghi residenziali e centri commerciali sorti in mezzo alle campagne. È l’ambiente nel quale vivono 6 italiani su 10.
Lombardia, Veneto e Campania guidano la classifica: cresce l’asfalto, la terra soffre, va in crisi il sistema idrogeologico. Mancano regole a tutela del suolo, aumentano i danni ambientali e i costi sociali. È il nuovo allarme lanciato dal rapporto Ambiente Italia 2011, promosso da Legambiente: insieme agli spazi verdi, spariscono ettari preziosi per l’agricoltura, che vanta un export da 26 miliardi di euro. A farla da padrone sono i palazzi: negli ultimi 15 anni si sono costruiti 4 milioni di nuove case. Ma oltre un milione di alloggi resta vuoto. E almeno 200.000 famiglie non riescono a pagare l’affitto o la rata del mutuo.
Urbanizzazione selvaggia, sempre più insostenibile. Lo rivela il rapporto realizzato in collaborazione con l’INU, l’Istituto Nazionale di Urbanistica, presentato in questi giorni a Milano. Un quadro inquietante del consumo di territorio, che oltre all’ambiente mette in pericolo anche la produzione agroalimentare. Il cemento invade già 2 milioni e 350.000 ettari.
Un’estensione equivalente a quella di Puglia e Molise messe insieme: il 7,6% del territorio nazionale, con 415 metri quadri per abitante. Risultato: crescono le superfici impermeabili. Già nel 2007, in città come Napoli e Milano era isolato dall’acqua il 62% del suolo. Il primato è della Lombardia, con il 14% di superfici artificiali. Seguono Veneto (11%), Campania (10,7%), Lazio ed Emilia (9%). A rischio la Sardegna, dove la cementificazione minaccia patrimoni naturali di inestimabile valore.
“Il territorio italiano si sta rapidamente metropolizzando”, afferma il presidente INU, Federico Oliva. “Alla città tradizionale si sta sostituendo una nuova città, in cui vive oltre il 60% dell’intera popolazione italiana”. Si vive in condizioni insostenibili: cementificazione, traffico congestionato, nuovi squilibri e fame di spazio pubblico. Principale imputato: la crescita incontrollata delle periferie metropolitane, che divorano ogni anno 500 chilometri quadrati di aree verdi. Un esempio? Roma, il più grande comune agricolo in Europa. Nella città eterna, i complessi residenziali in periferia hanno “mangiato” 4.384 ettari agricoli, il 13% del totale, e 416 ettari di bosco. E il peggio deve ancora arrivare: i piani regolatori di Roma e Fiumicino prevedono di consumare altri 9.700 ettari, più di quanto sia stato urbanizzato dal 1993 al 2008.
Per Paolo Pileri del Politecnico di Milano, uno dei curatori del documento, “ad essere erose sono le risorse agricole e di biodiversità, che costituiscono uno dei beni comuni più importanti”. L’Italia è in controtendenza rispetto ai paesi europei dove “sono in atto da tempo politiche ambientali ed urbanistiche incisive contro il consumo di suolo e i suoi costi sociali”. Lo sfruttamento del suolo italiano non produce “solo ferite al paesaggio”, ma “una vera e propria patologia del territorio”. Per questo Legambiente e INU hanno deciso di creare un Centro di Ricerca sui Consumi di Suolo (CRCS). Nella legislazione italiana “mancano ancora regole efficaci sulle facoltà di trasformazione dei suoli”, afferma il presidente di Legambiente Lombardia, Damiano Di Simine: “Qualunque sia la politica che una Regione attua per il governo del territorio, riteniamo irrinunciabile che essa sia confortata da un’attività di verifica e monitoraggio, oggi estremamente lacunosa”.
Molti comuni piemontesi, stanchi di vedere il proprio territorio invaso da capannoni sfitti, hanno dato vita alla Campagna nazionale Stop al consumo di territorio. “Il consumo di suolo - dichiara il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza – è oggi un indicatore dei problemi del Paese. La crescita di questi anni, senza criteri o regole, è tra le ragioni dei periodici problemi di dissesto idrogeologico e tra le cause di congestione e inquinamento delle città, dell’eccessiva emissione di CO2 e della perdita di valore di tanti paesaggi italiani e ha inciso sulla qualità dei territori producendo dispersione e disgregazione sociale. Occorre fare come negli altri Paesi europei, dove lo si contrasta attraverso precise normative di tutela e con limiti alla crescita urbana, ma anche con la realizzazione di edilizia pubblica per chi ne ha veramente bisogno”. Tra le abitazioni sfitte, 245.142 sono a Roma, 165.398 a Cosenza, 149.894 a Palermo, 144.894 a Torino e 109.573 a Catania. Ma il fenomeno sfugge, perché non ci sono banche dati aggiornate. E la piaga dell’abusivismo si aggiunge alle carenze di pianificazione.
Tornerete presto nelle vostre case. Non pagherete tasse. La ricostruzione sarà veloce. Trasparenza assoluta nella gestione. Vareremo incentivi ed esenzioni fiscali per attirare investimenti delle imprese. Tra impegni solenni e chiacchiere a vuoto, per due anni il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sul terremoto de L'Aquila del 6 aprile 2009 ha spesso straparlato, dando quasi i numeri. E, numeri per numeri, ecco quelli che più degli altri documentano le sue false promesse, gli impegni assunti con gli aquilani e non mantenuti, il fallimento del modello di ricostruzione imposto alla città.
37.731 Sono gli sfollati che ancora attendono di rientrare nella propria casa. Troppi, dopo due anni. Di essi, 13.856 sono alloggiati nei 185 edifici del Progetto Case, i Complessi asismici ed ecocompatibili, dislocati in 19 aree intorno alla città; 7.099 sono sistemati nei Map, Moduli abitativi provvisori, sparsi nelle 21 frazioni dell'Aquila e degli altri Comuni del cratere; 844 utilizzano abitazioni acquistate dal Fondo immobiliare Aquila e concesse in affitto; 1.126 godono degli affitti concordati con la Protezione civile in tutte le località danneggiate dal sisma; 62 si trovano in altre strutture comunali. Ci sono poi 13.416 persone che beneficiano del contributo di autonoma sistemazione (600 euro mensili per ogni nucleo familiare), 1.077 sfollati ospitati in diverse strutture ricettive in Abruzzo e fuori e 251 persone alloggiate in caserme.
3.401.000.000 È quanto è stato speso sinora per il terremoto, tra emergenza, assistenza alla popolazione e primi lavori di ricostruzione. Una cifra colossale, anche se il ritorno alla normalità appare lontanissimo. Con un'ombra pesante sulla trasparenza dell'operazione: "Berlusconi aveva promesso massima informazione", denuncia il senatore democratico Giovanni Legnini, "ma nonostante una legge lo preveda, in Parlamento stiamo ancora aspettando il rendiconto del governo sulla gestione dell'emergenza".
4.000.000 Sono le tonnellate di macerie prodotte dai crolli. Il problema è che vengono smaltite al ritmo di 300 tonnellate al giorno. Si continuasse così ci vorranno 444 mesi, oltre 36 anni per liberarsene. Un disastro, lasciato in eredità dalla Protezione civile di Bertolaso che ha lasciato la città un anno fa senza mettere mano al problema.
90.000.000 Si tratta dello stanziamento per l'istituzione di una zona franca per l'Aquila che attraverso facilitazioni fiscali e altri incentivi avrebbe dovuto invogliare imprenditori italiani e stranieri ad investire nel territorio devastato dal sisma. L'allora presidente della provincia Stefania Pezzopane e il sindaco dell'Aquila Massimo Cialente la proposero a Berlusconi e Gianni Letta l'8 aprile 2009, due giorni dopo il terremoto. Il Cavaliere si impegnò solennemente, ma due anni sono passati e la zona franca nessuna l'ha vista, mentre il tasso di disoccupazione a l'Aquila e dintorni continua a salire secondo alcune rilevazione oltre l'11 per cento.
1.200.000.000 Sono le tasse arretrate che gli aquilani devono al fisco. Berlusconi aveva lasciato sperare in una totale esenzione. Poi si è capito che era una semplice sospensione. Solo che è durata fino a giugno 2010, tre mesi in meno del periodo concesso ai terremotati dell'Umbria. E non basta: dopo avere ripreso a pagare dal luglio scorso le tasse correnti, gli aquilani hanno appurato che la restituzione degli arretrati dovrà avvenire in 5 anni e per il 100 per cento degli importi, mentre Umbria e Marche hanno cominciato a saldare le imposte sospese dopo 12 anni e solo per il 40 per cento del dovuto.
13.000 Sono i cantieri per le case E, le più danneggiate, che devono ancora partire sia nel centro storico che nel resto della città. Il ritardo è dovuto alla mancanza del prezzario delle opere e delle procedure per il finanziamento delle stesse, strumenti indispensabili che il commissario straordinario, il presidente della Regione Gianni Chiodi, è riuscito a varare solo alla fine di marzo. Un intoppo che sta rimandando alle calende greche il ritorno alla normalità. "Colpa anche della scelta della ricostruzione leggera voluta da Berlusconi", spiega Stefania Pezzopane, "che ha lasciato per ultimo il disastrato centro storico".