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Presentando al consiglio comunale di Cupertino il suo progetto per una nuova sede centrale dell’azienda, il patron di Apple conferma che non sempre all’avanguardia tecnologica corrisponde l’avanguardia in senso lato. Del resto ce lo dicevano già i cartoni dei Pronipoti

Come sanno gli appassionati di fantascienza, fra i mille rivoli in cui si frammenta questo ramo della letteratura contemporanea se ne possono di sicuro individuare due famiglie omogenee, che secondo la cosiddetta legge di Sturgeon si spartiscono la torta nella quota l’una di circa il 10% (la produzione che vale qualcosa), l’altra del 90% (paccottiglia allo stato puro, quando va bene). In sostanza, una piccola parte della narrativa futuristica si pone davvero problemi rilevanti, vuoi di ordine scientifico che sociale, o ambientale ecc., e li sviluppa in modo complesso e articolato cercando di farci riflettere anche sullo stato attuale delle cose. La stragrande maggioranza di ciò che compriamo in edicola, in libreria, o guardiamo al cinema e in televisione, è solo un modo come un altro per rifilarci cose già sentite e banali, travestendole più o meno elegantemente con orpelli insoliti, dai viaggi dentro le astronavi, alla vita dentro a enormi labirinti sotterranei o nelle profondità dell’oceano. Ma come capisce chiunque non basta sostituire al cappello a larga tesa e al cavallo una tuta spaziale e la velocità della luce, per passare davvero dall’avventura western a qualcosa di diverso.

Ce l’hanno insegnato sin da bambini i cartoni dei Jetsons (i Pronipoti) che si può condurre una vita del tutto noiosa e senza particolari sorprese, anche se si abita su una stazione spaziale circondata dalle stelle invece che in una villetta con giardino. Si va con mamma e papà al supermercato il sabato, salvo che i carrelli magari fluttuano in aria e le scatolette hanno forme un po’ strane. Suona il campanello della stazione spaziale, e compare il rompiscatole Sprizzi Sprazzi a cercare di venderci un aspirapolvere atomico, e via di questo passo. Ho provato una sensazione del genere dopo aver visto il breve filmato in cui Steve Jobs, con la solita buona capacità comunicativa, raccontava al consiglio comunale di Cupertino la propria “offerta che non si può rifiutare” in materia di nuova sede degli uffici Apple. Gli argomenti preliminari sono, come si può immaginare, del tutto ovvi: l’azienda cresce “come un’erbaccia infestante” e ormai si è infilata un po’ dappertutto in città, dentro a sedi proprie o meno proprie, moderne e meno moderne. Oggi scoppia, e Jobs premette il classico “vorremmo rimanere qui, dove siamo nati e cresciuti”. Figurarsi cosa ne penserebbero i nostri eroici consiglieri comunali, di veder andar via il fiore all’occhiello tecnologico e occupazionale di tutta la Silicon Valley …

La Apple è qualcosa di molto più che non un gigante dell’high-tech: è un vero e proprio simbolo di post-modernità, tutti i suoi prodotti e anche l’immagine dell’impresa (come ben sa Jobs) contribuiscono a dare il segno alla nostra epoca. Siamo in California, anzi nel cuore socioeconomico e culturale della California, dove si dovrebbero intrecciare al meglio tutte le potenzialità, ad esempio nel rapporto fra ambiente, territorio e attività umane. L’ex Governatore Arnold Schwarzenegger, anche mettendosi contro una parte del suo elettorato Repubblicano, un paio d’anni fa ha varato la cosiddetta SB 375, una legge che sostanzialmente impone di iniziare ad allontanarsi dal modello classico dell’american dream, ovvero un mondo fatto di villette, centri commerciali, autostrade, e centinaia di litri di benzina bruciati e scaricati nell’atmosfera per fare qualunque cosa. Uno dei capisaldi di questo mondo da cui ci si dovrebbe gradualmente allontanare, è il parco per uffici, ovvero la grande concentrazione extraurbana delle sedi di imprese, raggiungibile solo in auto, immersa nel verde, lontanissima dalle abitazioni e da tutto il resto. Apple è impresa virtuale per antonomasia, e invece cosa fa Steve Jobs?

Davanti al consiglio comunale di Cupertino, Jobs racconta la sua storia di adolescente che trova il primo lavoro, tanti anni fa, alla Hewlett Packard, nella stessa città. Oggi quel campus è dismesso, perché l’azienda si è ristretta, e la Apple si è comprata tutti i settanta ettari del terreno … per farci un nuovo office park! Seguono descrizioni dettagliate del concept plan già abbozzato dallo studio dell’archistar Norman Foster, una specie di enorme salvagente di cristallo, che come scherza lo stesso Jobs assomiglia parecchio a un’astronave. Tutto molto ambientalista e tecnologico, massimo risparmio energetico, gestione integrata di luce, acqua, rifiuti, bonifica e ripiantumazione massiccia dei terreni, niente da dire sotto questo profilo. Siamo davvero su un altro pianeta rispetto ai classici general headquarter suburbani delle grandi imprese, di solito costruiti in una logica anni ’60, e che in caso di riuso pongono enormi problemi. Ma rispunta quella vaga sensazione di trovarsi di fronte a un cartone animato dei Pronipoti: tanti spunti avveniristici, stimoli, divertimenti, ma alla fin fine non si esce dal modello che già conoscevamo, ovvero la grande sede suburbana di un’impresa, dove tutti arriveranno “da fuori” nel migliore stile del pendolarismo novecentesco, pur immersi nel verde fino al collo, ma senza alcuna integrazione urbana e sociale.


Le teorie di Richard Florida sulla cosiddetta creative class hanno molti aspetti discutibili, specie quando si osserva nella pratica il tipo di riqualificazione urbana che inducono, con espulsione dei ceti a redditi medio-bassi e relative attività commerciali e di servizio. Questo piallare verso l’esclusività interi quartieri si accompagna però a un percorso parallelo virtuoso: un vero mixed-use spaziale, dove ad esempio le potenzialità delle tecnologie sono sfruttate al massimo per lavorare da casa, dal bar, per spostarsi a piedi, in bicicletta, coi mezzi pubblici, e solo quando davvero serve o se ne ha il desiderio. Ciò consente insediamenti densi, che offrono molti servizi, in una parola centri urbani in senso proprio, del tipo che abbatte le emissioni e che è raccomandato dalla SB375 di Schwarzenegger, contro la crisi energetica e il cambiamento climatico. Invece con il campus a forma di astronave dei Pronipoti voluto da Steve Jobs nell’ex parco per uffici della Hewlett Packard si riproduce un modello di azienda suburbana concentrata classica, nonostante tutte le eccellenze ambientali.


E pensare che tante imprese, come hanno rilevato da anni gli studiosi, spinte anche dalla voglia di ritrovare bacini di manodopera qualificati e concentrati, si stanno ricollocando al centro delle regioni metropolitane, in posti densi, abitati, con tante funzioni composite. I problemi della mobilità, della eventuale dispersione fra sedi diverse, della non costante prossimità fisica nel medesimo edificio, sono cose ormai rese obsolete dalle possibilità delle comunicazioni: per un lavoro qualificato appare assai più importante avere stimoli dall’esterno che trovarsi TUTTI dentro la massiccia sede centrale della multinazionale. E invece, sotto sotto, lo stratega della Apple sembra rifiutare ciò che del futuro non gli piace: lui l’american dream lo preferisce classico, con la partenza dell’automobile dal bianco steccato tutte le mattine, e l’arrivo davanti al modernissimo ufficio una mezzoretta dopo. Che importa se nel frattempo abbiamo riscaldato l’atmosfera coi nostri scarichi, ,quello è un problema secondario, che risolveremo sicuramente con un nuovo modello di iPhone, o tavoletta multi-tutto. Insomma onore al merito, ma come dicono da secoli, diffidiamo dei profeti, anche di quelli che in qualche modo ci azzeccano.

POSCRITTO: oggi 7 ottobre 2011 alcuni osservatori americani commentano, ricordando la presentazione di Jobs al consiglio comunale di Cupertino, che probabilmente la nuova futuristica sede della Apple è da interpretare come grande opera lasciata ai posteri dal visionario imprenditore. Il che non sposta di un millimetro il giudizio, sia mio che di altri, a proposito del modello obsoleto suburbano di riferimento del progetto Jobs/Foster; nella versione dell'articolo su Mall. un paio di links in più (filmato, immagini del progetto, commenti ...)

È una storia da kamasutra del diritto. Un collegio arbitrale interviene come da prassi nel contenzioso tra una società di costruzioni e la pubblica amministrazione. Dà ragione alla società, la Condotte d’Acqua del gruppo Ferfina, ex Ferrocemento, come avviene nel 95 per cento dei casi. La Condotte, privata, è presieduta dall’ex ministro Franco Bassanini, che presiede anche la Cassa Depositi e Prestiti, una delle maggiori casseforti statali.

Il commissario straordinario per la realizzazione dell’opera presenta un esposto alla Procura della Repubblica di Roma, segnalando presunte irregolarità nell’arbitrato. L’Avvocatura dello Stato, a sua volta, impugna l’arbitrato, sostenendo che, dei 38 milioni di risarcimento assegnati, alla Condotte non deve andare neppure un euro. In più la stessa Avvocatura nota che i tre arbitri, chiedendo il pagamento di una parcella da 2 milioni di euro per il disturbo, hanno un po’ esagerato, e sostiene che dovrebbero prendersi non più di 150 mila euro. E qui il cerchio si chiude: sapete chi è il presidente del collegio arbitrale contestato? Sergio San-toro, presidente dell’Autorità di vigilanza sugli appalti pubblici. Santoro, 60 anni, ha il tempo di fare tre lavori insieme: consigliere di Stato, presidente dell’Autorità di vigilanza, libero professionista in grado di svolgere missioni così complesse da farsi pagare per un giudizio arbitrale una parcella di circa 800 mila euro.

Riassunto: un commissario governativo e l’Avvocatura dello Stato agiscono legalmente contro il presidente dell’Autorità di vigilanza sugli appalti per la sua attività privata nel settore degli appalti. Troppo complicato? Vediamo allora la storia nella sua concretezza.

Da trent’anni l’Acquedotto Pugliese vuole realizzare il raddoppio della galleria Pavoncelli, che porta l’acqua dall’Irpinia alla Puglia. Sono già state bandite quattro gare d’appalto. Nei primi tre tentativi fatalmente i lavori si sono interrotti dopo poche settimane, dando luogo a contenziosi. Prima fu la Pontello (oggi Btp, società che fa capo a Riccardo Fusi) a uscire dall’appalto con una risarcimento di oltre tre miliardi di lire. Poi toccò all’Impregilo (allora Cogefar-Impresit, gruppo Fiat) portarsi a casa un assegno da 18 milioni di euro. In tutto 21 milioni di euro pubblici spesi senza ottenere niente, come ricorda l’interrogazione presentata due giorni fa dal deputato Pd Raffaella Mariani.

Adesso in ballo c’è la Condotte. Ha vinto il terzo appalto, ha realizzato lavori per 7 milioni di euro - secondo la denuncia dell’assessore pugliese alle Opere pubbliche, Fabiano Amati - e ha aperto un contenzioso nell’estate del 2009. Il 24 novembre 2009 si è insediato il collegio arbitrale e compie un atto inedito, chiedendo come primo atto un anticipo da 765 mila euro alla Condotte. Quattro mesi dopo lo stesso collegio chiede un anticipo di pari importo al Commissario straordinario Roberto Sabatelli. Il quale non ci sta, chiede un parere all’Avvocatura dello Stato, forse perché chiedendo all’Autorità di vigilanza gli sarebbe venuto da ridere, e gli viene detto di non pagare, perché l’istituto del pagamento anticipato agli arbitri non esiste in nessuna delle migliaia di leggi in materia. Intanto gli arbitri lavorano, e alla fine danno ragione alla Condotte, assegnandole un risarcimento di 38 milioni. A questo punto le carte bollate si arroventano. Il commissario Sabatelli fa partire il quarto bando per la costruzione della galleria Pavoncelli bis, e la Condotte fa ricorso al Tar, ma lo perde. Sabatelli intanto fa altre due mosse: un esposto alla magistratura sull’operato del collegio arbitrale, composto, oltre che da San-toro, dagli avvocati Federico Tedeschini di Roma e Luigi Volpe di Bari; e la richiesta all’Avvocatura dello Stato di impugnare l’esito dello stesso arbitrato. Che non solo assegna alla Condotte un risarcimento da 38,3 milioni di euro, ma accolla alle casse dello Stato anche le spese dell’arbitrato: 1 milione 978 mila euro per i tre membri del collegio e 423 mila euro per il consulente Marco Lacchini che ha redatto la relazione tecnica di 234 pagine. Secondo l’Avvocatura ai tre arbitri non dovrebbero andare più di 150 mila euro. Finora ne hanno già incassati in tutto 979 mila, quindi se il commissario straordinario vincesse dovrebbero restituirne oltre 800 mila.

Beffa finale. Il 15 giugno scorso, pochi giorni prima della nomina di Santoro, il suo predecessore all’Autorità di vigilanza sugli appalti, leggendo la relazione annuale al Senato, ha detto: “Le stazioni appaltanti mostrano una scarsa capacità di gestione degli appalti pubblici che spesso porta ad un prolungamento dei tempi di realizzazione dei lavori nonché ad inasprire il livello di contenzioso”. E che cosa fanno i membri dell’Autorità per ridurre il contenzioso? Gli arbitrati. Il conflitto di interessi elevato a kamasutra.

Ieri sera Berlusconi è calato a Roma. Di solito dalla Sardegna, dove trascorre i weekend fino a quando regge il clima, si dirige su Milano per sbrigare certe sue faccende private. Se d’improvviso il Cavaliere ha cambiato programma, dev’esserci per forza una ragione di speciale importanza. Qualcuno dello staff la collega alle due telefonate di ieri, la prima a Cuneo e la seconda a Bisceglie, in cui Berlusconi ha sparso la sensazione di volersi tuffare nelle misure per lo sviluppo e per la crescita che «esamineremo» in settimana, ha detto. Pare abbia già incontrato Gianni Letta, suo braccio destro. E si prepara una mattina di fuoco, riunioni con i fedelissimi prima di tornare ad Arcore, perché c’è da decidere il «chi», il «come», ma soprattutto il «che fare».

Domanda numero uno: che fare con Tremonti? Berlusconi non ha deciso se licenziarlo o invece no. Se dar retta a chi (la lista è lunghissima, ma sicuramente la guidano Galan e Crosetto) gli suggerisce di «cacciare Giulio addebitandogli la colpa delle decisioni sbagliate» e chi (vedi Fitto, ma pure anti-tremontiani come Cicchitto, per non dire di personaggi prudenti tipo Letta e di Bonaiuti) invitano il premier a considerare il momento, sarebbe da pazzi scatenare una guerra col titolare dell’Economia proprio adesso che lo «spread» con i bund tedeschi viaggia intorno ai 400 punti. Tra l’altro il Professore, che ieri è tornato a Pavia direttamente da Washington, non ha la minima intenzione di dimettersi. E casomai vi fosse costretto dalle circostanze, vale l’immagine colorita di un ministro economico: «Sarebbe come avere nel governo un kamikaze con il giubbotto pieno di esplosivo: Giulio salterebbe in aria, ma tutti noi con lui...».

Meglio evitare. Non per caso a sera Bossi, che nonostante la salute vede più lontano di molti, annotava: «Tremonti non è in pericolo». E dovendolo «sopportare» al Tesoro, meglio ottenere la sua collaborazione per fare in fretta questo decreto sullo sviluppo, di cui ancora nulla è nero su bianco, solo poche idee (avrebbe detto Flaiano) ma confuse. Il libro dei sogni berlusconiano punta a «quota 90», il rapporto tra debito pubblico e Pil che quasi per incanto crolla di 30 punti dall’attuale 120 per cento, riportandoci tra i paesi semi-virtuosi. La bacchetta magica si chiama «dismissioni», in pratica la vendita di asset pubblici, immobiliari e non. Guai però a toccare Eni ed Enel, avverte Osvaldo Napoli, in quanto fruttano soldi freschi all’Erario, venderli sarebbe un autogol. Ci sarebbe l’immenso patrimonio immobiliare. Verdini ha consegnato a Berlusconi un dossier ricco di numeri e di proposte. Lo stesso Tremonti ha convocato per giovedì un incontro sull’argomento, si chiamerà «seminario» in modo che nessuno immagini decisioni rapide, né tantomeno svendite dei gioielli di Stato. Se ne potrebbero ricavare centinaia di miliardi, però il demanio è passato agli enti territoriali, ci va di mezzo il federalismo, il groviglio legislativo è pressoché inestricabile.

Ma il vero pozzo di denari cui tutti pensano, perlomeno nel Pdl, si chiama condono. Fiscale o edilizio, parziale o tombale, non ha importanza, purché vi si attinga senza falsi pudori... L’armistizio con Tremonti dovrebbe consistere, secondo quanto va maturando in queste ore, in una sorta di compromesso: il partito cessa di attaccarlo, mette la sordina a Brunetta e agli altri critici del Professore; in cambio lui finge di dare ascolto ai colleghi di governo, e consente qualche operazione di finanza straordinaria fin qui negata. Per dirla con un personaggio ruvido ma sincero come Cicchitto, «per andare avanti servono grandi decisioni, bisogna prendere di petto il debito pubblico». Altrimenti, tutti a casa.

Milano ha fatto scuola. E adesso il bike-sharing debutta anche nel Parco del Ticino, a Magenta, con trenta biciclette a disposizione gratuitamente ogni sabato e domenica per chi vorrà esplorare, sulle due ruote, i sentieri dell'area protetta. Il «PuntoBici» è stato allestito nel piazzale della stazione di Magenta e è aperto tutti i finesettimana dalle 10 alle 12.30 e dalle 14 alle 19, fino a fine ottobre. Poi il servizio chiuderà per i mesi invernali e ripartirà da aprile.

Oggi alle 12 il progetto sarà presentato in un incontro pubblico che si terrà proprio davanti della stazione, al termine di una biciclettata organizzata dal comune di Magenta, che è partner del progetto e lo cofinanzia con 9 mila euro. Il servizio di noleggio bici è stato realizzato dal Parco, che ha investito 50 mila euro e dalla Fondazione Cariplo che ne ha assicurati altri 60 mila. Fondi che sono serviti all'acquisto delle biciclette e alla copertura assicurativa. A chi vuole noleggiare la bici si consiglia la prenotazione al numero 335.8429214. Il «PuntoBici» è la prima fase di un piano intitolato «Dalla città al bosco. In bicicletta dalle stazioni ferroviarie al Parco del Ticino», che vede coinvolti anche altri comuni dell'area protetta in cui esistono delle stazioni: Turbigo e Castano Primo nel Milanese e Sesto Calende nel Varesotto.

L'idea è di promuovere l'uso del treno e delle due ruote per il turismo fuori porta. La riserva naturale «La Fagiana», ad esempio, dista 3 chilometri e mezzo dalla stazione: un tratto che non tutti sceglierebbero di percorrere a piedi. La mountain bike permette invece anche di esplorare i sentieri nei boschi: il parco ne possiede quasi 800 chilometri e dal sito www.vieverditicino.it si può scaricarne gratuitamente la cartografia sui gps da polso o da bici. Il più vicino alla stazione di Magenta è appunto «L'anello della Fagiana», lungo circa 14 chilometri. «I nostri sentieri sono sicuri, perché vengono analizzati e aggiornati costantemente dal personale – sottolinea il presidente del Parco Milena Bertani – Trattandosi di sentieri naturali, basta un nubifragio oppure un'esondazione del fiume a modificarli, per questo li controlliamo periodicamente».

Nel programma del Parco c'è anche l'apertura di un punto di noleggio di bici elettriche nella sede di via Isonzo. E a interessarsi al bike-sharing non è solo l'area protetta, ma anche il comune di Magenta. «Abbiamo sostenuto il parco con una partnership, ma abbiamo anche avviato le procedure per creare un vero servizio di bike sharing simile a quello di Milano anche a Magenta» spiega il vicesindaco Marco Maerna. In città arrivano ogni mattina oltre tremila 500 studenti delle scuole superiori. «Sarebbe estremamente significativo permettere a loro e a chi viene qui a lavorare di muoversi in bici, partendo dalla stazione e da altri punti della città — aggiunge Maerna —. Il progetto è già pronto, presto faremo la gara d'appalto».

postilla

All’innocente casalinga brianzola che riporta fedelmente dal giornale l’articolo sulle biciclette “gratuite” qualcosa non torna. Allora: il comune di Magenta ci mette 9.000 euro, il Parco ne ha investiti ben 50.000 e la Fondazione ne ha assicurati altri 60.000. E come si specifica si tratta di “fondi serviti all’acquisto delle biciclette e alla copertura assicurativa ”. CENTODICIANNOVEMILA EURO PER TRENTA BICICLETTE? Tempo fa si parlava di integrare davvero, anche dal punto di vista degli spostamenti per motivi diversi dal tempo libero, le varie forme di mobilità a scala metropolitana. Ma se i maghi dei bilanci ci sfornano ricette del genere forse è meglio restarsene chiusi in casa. Oppure investire quei quasi quattromila euro a bicicletta nella solita benzina per l’auto, come alla fine fanno tutti. Si risparmia, e non si prendono sulla testa quei fastidiosi temporali estivi (f.b.)

Gateway to London’s Olympic Park



Margine orientale dell’area metropolitana di Londra: a circa 3 miglia, seguendo il corso del Tamigi, troviamo il distretto di Newham, un territorio che porta ancora sulla pelle le tracce del proprio passato, dal quale ora tenta di uscire grazie a un progetto di rigenerazione urbana che si basa su investimenti economici e sociali di diverso tipo, i più importanti dei quali sono legati ai Giochi Olimpici del 2012.

Storicamente il settore trainante dell’economia di Newham è stata l’agricoltura, almeno fino alla metà del 1800, quando la realizzazione del primo porto per navia vapore, collegato direttamente alla ferrovia, rende Newhamil centro di produzione manifatturiera più importantenel sud dell'Inghilterra. Questo filone produttivo si esaurisce però nell’arco di poco più di una generazione, lasciando dietro di sé disoccupazione, calo demografico e abbandono edilizio. Le bombe della Seconda Guerra Mondiale fecero il resto. Solo con la ricostruzione post-bellica è stato possibile attirare nuovamente abitanti (immigrati stranieri che ancora oggi determinano il vivace mix razziale e culturale dell’area), nuovi investimenti e qualche attività economica. Ma la storia sembra ripetersi e, con la crisi dell’industria manifatturiera degli anni ‘80, da oltre un decennio, questo territorio è chiamato a far fronte alla mancanza di lavoro e di conseguenza a fenomeni quali la disoccupazione e la diffusione della povertà.

Newham conta circa 240.00 abitanti, con un’età media tra le più basse dell’area londinese (il 41% della popolazione è under 25) e con tassi di disoccupazione pari a quasi il doppio di quelli della capitale (14% contro l’8% di Londra), dati che contribuiscono a determinare alti livelli di povertà. Il tessuto produttivo è piuttosto debole e la maggior fonte di lavoro per la popolazione locale è rappresentata dal pubblico impiego (scuole, università, sanità) e da alcune catene della grande distribuzione.

Insomma, un territorio che appare sottosviluppato ma con ampie potenzialità per il futuro, purché si sappiano cogliere i giusti investimenti ed elaborare progetti che siano in grado di trasformarlo nella “porta d’accesso orientale alla metropoli”, cercando, al contempo, di “migliorare la competitività dell’economia e la qualità di vita locali”, come si legge nel “Local Economic Assessment 2010 to 2027”, il documento di sviluppo strategico del distretto.

Le istituzioni, per tentare di raggiungere questi obiettivi, hanno aderito al programma The Thames Gateway, una partnership pubblico-privata che coinvolge una ventina di attori locali tra istituzioni e università e che si propone di promuovere operazioni volte al recupero e alla riqualificazione dei territori che si affacciano sul Tamigi. Data la sua posizione strategica, Newham riveste un ruolo centrale nell’ambito di questo progetto, che vuole migliorare l’offerta economica e lavorativa ma anche la qualità dell’abitare di questo territorio.

A fine 2010 è stato approvato il piano strategico per l’area attorno a Stratford, che comprende: la riqualificazione della città esistente, la realizzazione del progetto Stratford City e il riuso, in ottica post-evento, delle strutture olimpiche. L’obiettivo che si intende raggiungere è quello di trasformare l’attuale Stratford nella porta orientale, di scala metropolitana, di Londra, con 46.000nuovi posti di lavoro, 20.000 nuove case, 8 nuove scuole, nuovi negozi, strutture ricreativeeservizi locali, nuove linee di trasporto pubblico. Il progetto trainante dell’operazione di Stratford è quello proposto dal gruppo Westfield, colosso australiano del commercio.

Lo shopping centre più grande d’Europa (English version)



Welcome to the next generation” è solo uno degli slogan utilizzati per il lancio di quello che ambisce a diventare lo urban shopping centre più grande d’Europa, il WestfieldStratford City,la cui apertura è prevista per il prossimo 13 settembre 2011: quasi due milioni di metri quadri tra spazi commerciali e ricreativi, nonché oltre un milione di metri quadrati per uffici, tre hotel, 5.000 abitazioni, per un carico insediativo di 11.000 nuovi residenti e 30.000 posti di lavoro.

Il sito su cui sorgerà il nuovo tempio dello shopping è un’area dismessa, di estensione pari a 73 ettari che confina con il Parco dove si svolgeranno i prossimi Giochi Olimpici di Londra 2012.

Sempre sfogliando il “Local Economic Assessment 2010 to 2027”, si comprende che Stratford già rappresenta un nodo infrastrutturale importante, grazie a linee intermodali di trasporto pubblico che consentono collegamenti efficienti con Londra e con il resto dell’Inghilterra, che si intende valorizzare con ulteriori progetti infrastrutturali, tra i quali spicca il potenziamento delle linee ferroviarie, con annesse strutture di interscambio, e il collegamento diretto con il continente tramite l’alta velocità ferroviaria, grazie alla quale sarà possibile, in due ore di viaggio, raggiungere Parigi.

Del resto qui si trova un’importante dotazione di aree da riqualificare, si concentreranno molti degli investimenti previsti per le Olimpiadi di Londra del 2012 le cui strutture, sono già oggetto di studio al fine di renderle convertibili e adattabili ad usi successivi ed infine qui c’è un tessuto sociale giovane e alla ricerca di lavoro. Sembrano esserci tutte le condizioni per poter attuare un piano di sviluppo, così come programmato nei diversi livelli di pianificazione inglese, supportato da studi economici e sociali integrati a progetti spaziali, almeno in teoria.

La ex “California lombarda”



Margine orientale dell’area metropolitana di Milano: lungo il tracciato della linea ferroviaria Milano-Venezia, appena oltrepassata la stazione di Lambrate, ha inizio l’Est Milano, una realtà territoriale piuttosto vaga e disomogenea, denominata Martesana dal nome del Naviglio che l’attraversa, che si estende dai territori confinanti con Milano, che risentono maggiormente del dinamismo urbano, a quelli più esterni, per i quali l’attività agricola è stata per molto tempo l’unica risorsa ereditata da un passato florido, nel corso del quale lo sfruttamento delle numerose risorse idriche presenti ha garantito un sistema colturale di qualità.

Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, a causa del progressivo congestionamento della metropoli, che ha consentito il trasferimento “fuori città” di molte aziende, ha avuto inizio un rapido processo di industrializzazione, che ha portato Giorgio Bocca, dalle pagine de “Il Giorno” degli anni Sessanta, a definire questo territorio “ la California della Lombardia” in quanto “ da uno stato di indigenza assoluta era passato in poco tempo alla modernità”.

Contestualmente a questi processi di sviluppo, anche grazie ai rafforzamenti infrastrutturali di tipo stradale (autostrada A4, tangenziale est), ferroviario (prolungamento della linea metropolitana e potenziamento della linea Milano-Venezia) e aeroportuale (Linate), i comuni della prima corona suburbana sono stati investiti da una notevole urbanizzazione, tra le più consistenti dell’intera Lombardia, priva però di un governo sovra comunale, e quindi affidata spesso all’iniziativa degli operatori economici locali, che, senza pianificazione, hanno generato squilibri e speculazioni.

Tra questi casi uno tra i più emblematici è certamente il Comune di Segrate che, grazie a una serie di investimenti immobiliari privi di relazione, ha visto triplicare la propria popolazione in poco più di vent’anni. L’esito spaziale è stato un territorio di enclaves spaziali, un patchwork di quartieri ognuno caratterizzato da un assetto spaziale a sé e ognuno con una propria storia e identità: quartieri residenziali di lusso con parchi, giardini e piscine per i residenti, ai limiti delle gated community americane, poli ospedalieri privati, quartieri di edilizia residenziale pubblica poi convertiti in residenze all’ultima moda, poli per il terziario e studi televisivi. Tutte scelte localizzative che, per chi misura lo sviluppo territoriale in termini di ricchezza individuale, hanno dato i frutti sperati: Segrate è il quarto Comune più ricco d’Italia, con un reddito medio pro-capite di 36.000 € all’anno; per quanti invece non ritengono che gli imponibili fiscali siano uno strumento idoneo per valutare la pianificazione comunale è chiaro che questo modello di crescita ha generato un pesante deficit di servizi pubblici e necessita di politiche di riconnessione spaziale per consentire la realizzazione di una rete di servizi efficienti.

Con l’inizio della stagione delle dismissioni industriali la varietà del tessuto produttivo dell’Est Milano ha ritardato alcuni effetti nefasti delle molte crisi di settore, attenuando, o perlomeno ritardando, traumi particolari per le popolazioni locali.

A fronte però dei processi irreversibili di delocalizzazione produttiva, anche qui sono emerse una serie di aree dismesse generate da politiche industriali ed infrastrutturali mutate. Questi vuoti urbani connotano quello che oggi appare un territorio incerto, privato del proprio passato e ancora in cerca di una vocazione per il futuro.

I progetti infrastrutturali in corso, che si susseguono in modo frammentario e disorganico, delineano uno scenario di alta accessibilità per questo ambito metropolitano: autostrada direttissima Milano-Bergamo-Brescia, nuova tangenziale esterna di Milano, potenziamento della linea ferroviaria di alta velocità Milano-Venezia, collegamento metropolitano tra la linea ferroviaria e l’aeroporto di Linate: tutti questi investimenti avverranno senza che il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Milano (l’unico documento con valenza strategica di carattere sovra locale) abbia elaborato delle linee guida di programmazione territoriale complessive e coerenti.

Come era accaduto per i processi di espansione del Dopoguerra, anche i processi di trasformazione delle ex aree industriali sono privi di un piano organico di sviluppo e riqualificazione che affronti le questioni infrastrutturali e che approfondisca una vocazione unitaria del territorio. Ogni ente locale gestisce le proprie aree di trasformazione, tentando di attirare investimenti immobiliari e finanziari, prestando poca attenzione alle ricadute e agli impatti delle nuove funzioni insediate.


Dalla Cittadella del tempo libero…

Anche in questo caso Segrate rappresenta un caso emblematico: qui è stato proposto, e approvato, il progetto per una Cittadella del tempo libero da attuarsi su un’area dismessa di proprietà delle Ferrovie Italiane (ex Dogana) tra le più estese dell’Est Milano.

L’area dell’ex dogana era stata pensata, negli anni ’60, per allontanare le funzioni doganali da Milano città, ma il progetto è rimasto sulla carta, archiviato definitivamente nel '92 dalle norme europee sulla libera circolazione delle merci e, di fatto, l’area è diventata teatro di rave party e raduni clandestini.

Nel 2007 l'area viene acquistata dal Gruppo Percassi, famoso per aver costruito il grande centro commerciale di Orio al Serio proprio di fronte all'aeroporto, la cui strategia di vendita presuppone di “attirare i turisti dello shopping che dovrebbero partire in mattinata dalle capitali europee per recarsi a Orio, fare acquisti e poi tornare a casa”.

Il progetto della Cittadella di Segrate prevedeva un investimento di circa 600 milioni di euro per realizzare il centro commerciale più grande d'Europa, un hotel immerso nel verde, "torri" a fini residenziali, un campo da golf, un cinema multisala e addirittura un impianto sciistico al coperto, per complessivi 600.000 metri cubi. Per questo progetto l’amministratore delegato della società dichiarava di voler realizzare “un centro di aggregazione tra casa e lavoro dove trascorrere il tempo libero, socializzare e divertirsi”.

Per sedare la rivolta dei comitati locali nati per opporsi al progetto, di cui criticavano soprattutto gli aspetti legati al traffico automobilistico, il gruppo Percassi ha inoltre presentato un piano per la riqualificazione del sistema viabilistico, che va dall’aeroporto di Linate fino a Segrate, con previsione di svincoli a più livelli, nuovi percorsi ciclopedonali e una viabilità dedicata per l’ingresso al centro, cosicché il nuovo traffico indotto non interferisca con quello urbano.

Grazie a questi accorgimenti, secondo l’Amministrazione di Segrate, la Cittadella “darà una risposta ad una serie oggettiva di problemi esistenti sul territorio con un progetto destinato a dare pregio alla nostra città”.

…allo shopping centre più grande d’Europa (Italian version)



Gli ultimi sviluppi di questo progetto, che langue nei cassetti comunali dal 2009 a causa della crisi immobiliare, hanno portato il gruppo Percassi a stringere un accordo con il colosso Westfield (ebbene si, proprio lo stesso di Stratford) per la realizzazione dello shopping centre più grande d’Europa (ebbene si, proprio lo stesso slogan di Stratford), che si chiamerà Westfield Milan e che, con un’estensione di 170mila metri quadrati, sostituirà la Cittadella del tempo libero. Centinaia di negozi di livello medio-alto, marchi prestigiosi, brand di lusso e la promessa di 5000 posti di lavoro, oltre al rispetto degli impegni assunti per gli interventi sulla viabilità, sembrano aver convinto l’Amministrazione Comunale alla ratifica del nuovo progetto, la cui fine lavori è prevista per il 2015, giusto in tempo per l’Expo. Progetto che l’Amministrazione Comunale si augura possa diventare “quel centro urbano che Segrate non ha mai avuto”.

Assonanze e divergenze (entrambi preoccupanti) a confronto

Interessante comparare le assonanze e le divergenze di queste due esperienze.

Il contesto orientale delle grandi metropoli, lo sviluppo di un sistema economico di qualità nel passato, in particolare legato al settore manifatturiero, la crisi dettata dalla fine dell’epoca fordista e dall’affermazione di un economia globale e ora l’attuazione di politiche per la riqualificazione e il recupero delle aree dismesse appaiono delle caratteristiche comuni, ma i due casi presentano molte differenze alla luce delle quali l’operazione di confronto appare piuttosto delicata e forse azzardata.

In primo luogo nel contesto londinese le politiche urbane appaiono strutturate ed articolate in una serie di piani strategici nei quali le variabili economiche, demografiche, sociali ed occupazionali sono relazionate alla dimensione spaziale, integrando interventi di valorizzazione a politiche insediative e sociali, o perlomeno ci si prova.

Nel contesto milanese le scelte localizzative e le politiche urbane appaiono frammentate, disomogenee e certamente prive della dimensione metropolitana cosicché le scelte strategiche sono quasi esclusivamente di competenza delle amministrazioni comunali, che spesso le gestiscono senza una visione coerente e d’insieme che consentirebbe l’elaborazione di politiche integrative in campo insediativo e sociale.

In secondo luogo l’esperienza londinese indica come l’organizzazione di un grande evento, le Olimpiadi del 2012, possa essere utilizzata per dare forma alle strategie di sviluppo esistenti, come, nello specifico, potenziare il sistema infrastrutturale di Stratford che è stata destinata a diventare il gate dell’area metropolitana.

A Milano le scelte fatte per Expo 2015 non rientrano in alcuna visione strategica per il futuro della città – tantomeno della regione metropolitana – come dimostra la selezione delle aree interessate, che ricadono in un ambito urbano consolidato e saturo, con pochi margini di sviluppo, e per il quale è facile immaginare ricadute negative in termini di congestione. Il grande evento, e le conseguenti risorse economiche, non è interpretato come occasione per poter attuare un progetto di città del futuro, quanto come mezzo per ampliare il consenso a favore delle forze politiche al governo che, mediante la valorizzazione immobiliare dei terreni su cui avrà luogo l’evento, permetteranno lauti guadagni ad alcune lobbies, finanziarie ed immobiliari, vicine alle stanze del potere lombardo.

Tuttavia è interessante notare come in entrambi i casi la funzione chiave, il motore quasi, di interventi che si pongono come ambizioso obiettivo la riqualificazione e il rilancio di un intero ambito metropolitano, sia quella commerciale.

Sia a Londra che a Milano (soprattutto a Londra) si affronta la questione del recupero di territori dalle molte opportunità, generate soprattutto dall’assetto infrastrutturale esistente e in progetto, e l’unica vocazione attrattiva, che si offre di affrontare i venti della crisi, è quella commerciale.

In entrambi i casi, supportato da analisi e da politiche pubbliche integrate a Londra e demandato alle iniziative private a Milano, la funzione del commercio sembra essere l’unica trainante, in grado di attirare investitori internazioni che, quasi magicamente, hanno le soluzioni (e i capitali) per risolvere problemi annosi, quali il lavoro e la viabilità, che le amministrazioni pubbliche, locali e non, faticano a governare.

Ma le scelte per imprimere al territorio un’evoluzione che sappia coniugare sviluppo e salvaguardia dell’identità territoriale non possono essere dettate da convenienze localistiche né tanto meno dalla spontaneità degli eventi o dagli interessi forti.

Il futuro non può essere condizionato unicamente dai fattori economici, serve uno sforzo da parte delle istituzioni pubbliche affinché, oltre che alle difficoltà contingenti del presente, sappiano prevedere e indirizzare un percorso progettuale per il futuro, capace di misurarsi con le esigenze delle attività economiche e produttive ma anche dei cittadini, per dare vita a sinergie che portino a un reale sviluppo.

Infine è interessante rilevare, più nello specifico delle due proposte targate Westfield che si propongono di realizzare lo shopping centre più grande d’Europa in entrambi i casi, come se già questo fosse un valore aggiunto, come entrambe sembrino voler superare la concezione e il significato tradizionale legato agli spazi del commercio, andando oltre le filosofie ispiratrici anche dei più moderni shopping mall.

Oltre le definizioni di non-luogo e di iper-luogo, questi scenari progettuali propongono delle vere e proprie nuove città nelle città, dove gli spazi di vendita sono affiancati da funzioni integrate, ma di secondo piano, (un po’ di terziario, un po’ di residenza) che generano nuovi recinti autoconclusi, ben delimitati e identificabili, nei quali si può immaginare di passare non solo qualche ora di shopping ma anche l’intero weekend, forse l’intera vita, in una sequenza di attività che hanno un unico presupposto comune: il consumo.

Una città dall’apparente libertà, alla quale si può accedere sborsando l’equivalente di uno sfavillante tailleur griffato.

Gli abitanti diventano fruitori oppure utenti, che vagano per paesaggi, che di urbano hanno solo la scenografia di fondo, dove i ritmi sono scanditi dai bisogni materiali, indotti da enormi e accattivanti cartelloni pubblicitari.

Una città che non ha continuità con la città circostante, se non grazie alle vie d’accesso che accolgono a braccia aperte i consumatori, e nella quale è difficile immaginarsi l’espressione di altri valori se non quelli quantificabili economicamente.

Resta solo un grande dubbio: chi sarà la reginetta degli shopping centre d’Europa? Stratford o Segrate?

Non resta che attendere inaugurazioni e tagli di nastri per saperlo, con un’unica certezza: la metamorfosi della città (e del cittadino) passerà, inevitabilmente, anche da qui.

Nervosetti, vero? È bastato un minuto di considerazioni contro la grande opera voluta da Dio, il collegamento Tav Torino-Lione, che i sacerdoti del Pd e del Pdl sono esplosi nella loro condanna inquisitoria. Io sarei un istigatore dell’illegalità, parlo di un argomento del quale non è permesso parlare, userei i lauti guadagni che mi corrisponderebbe la televisione pubblica per fare propaganda No Tav. I feroci comunicati emessi da questi personaggi, che non vale la pena di nominare, sovrastano di svariati ordini di grandezza il mio minuto di “propaganda”. Ma io ho esordito che mi esprimevo come cittadino e giornalista. Quindi non c’è propaganda allorché si porta a conoscenza della collettività il fondato dubbio che questa grande opera sia inutile per la gestione dei trasporti, dannosa per l’ambiente alpino e temibile per le pubbliche disastrate finanze. Non è propaganda, bensì è l’essenza stessa del giornalismo e della democrazia.

Mi si addebita il fatto che non vi era contraddittorio (bè vediamo cosa sanno dire loro in un minuto... strategica, fondamentale per lo sviluppo, sì sì, sono vent’anni che lo sentiamo ripetere), ma quante volte sulla televisione pubblica si è parlato delle ragioni del no? E quanto tempo invece di quelle (inesistenti) del sì? Chiedo una commissione che conti i minuti di televisione pubblica Sì Tav degli ultimi dieci anni, poi vedremo quanto conta il mio minuto! Avrei difeso due donne incarcerate per porto abusivo di mascherina “anti-gas” (da ferramenta, non da guerra nucleare-batteriologica-chimica): non ho detto che la magistratura ha fatto male a procedere contro di esse (è attesa per la decisione del Tribunale del riesame), io non c’ero e ci saranno stati dei motivi, ho solo affermato che mi sembra sproporzionata l’incarcerazione di due incensurate che protestavano e che non hanno spappolato il fegato di alcun poliziotto, in confronto ai blandi provvedimenti riservati a delinquenti mafiosi, truffatori, corruttori, e politici che violano le più elementari norme dello Stato. Da qui a “esaltare l’illegalità e difendere comportamenti violenti diretti contro lo Stato”, mi sembra ci sia una bella differenza. Quanto al fatto che io abbia usato questo minuto della Tv pubblica “lautamente pagato con i soldi dei contribuenti”, sono pronto a dimostrare, fatture alla mano e davanti a un giudice, che quanto percepisco in un anno corrisponde sì e no a una mensilità di uno solo di questi “onorevoli” pagati interamente dal denaro pubblico per sprecare il loro tempo in comunicati stampa lesivi della libertà di opinione. Ma tutto questo fiume di accuse si limita a mezzo minuto del mio commento, e ignora completamente l’altro mezzo minuto, nel quale ho suggerito che per uscire da questo assurdo teatrino giocato sullo scontro esasperato tra cittadini No Tav e forze dell’ordine, sarebbe sufficiente spostare il dibattito sulle ragioni dell’opera.

Ovvero analizzare le richieste dei cittadini contrari, verificare se siano corrette o meno, illustrare a tutti gli italiani che pagherebbero di tasca loro, i dati trasparenti e credibili che giustificano questa scelta voluta da Dio, e infine assumere una decisione condivisa se aprire i cantieri o rinunciare. Facile no? In ogni paese civile si farebbe così, tant’è che il 26 luglio scorso, 135 ricercatori e docenti universitari hanno inviato una petizione al presidente Napolitano (alla quale non è per ora pervenuta risposta) chiedendo di rispettare sulla questione Tav il metodo scientifico, basato sull’esame rigoroso e obiettivo dei fatti. Non basta dire che è un’opera strategica, bisogna anche spiegare perché. Non basta nascondersi dietro “le forze dell’ordine e la magistratura” che “difendono le decisioni prese da istituzioni democratiche. Istituzioni che si chiamano Unione Europea, Parlamento italiano, Regione Piemonte, Provincia di Torino”. Vogliamo indagare come queste istituzioni, per nulla infallibili, abbiano portato avanti il percorso progettuale, in atto da vent’anni? Il prof. Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino, componente dell’Osservatorio ministeriale in rappresentanza della Comunità Montana Bassa Val di Susa (istituzione “No Tav”, ignorata, come decine di sindaci), sostiene che pur a fronte di tutti i dati palesemente contrari alla realizzazione dell’opera alla fine è stata assunta una decisione univoca: si deve fare, perché se i dati oggi sono sfavorevoli, diventeranno sicuramente favorevoli tra vent’anni. Facile no? Ora potete utilizzare anche voi lo stesso metodo con il vostro coniuge, con il datore di lavoro, con la banca.

Diversi giorni fa ho assistito mio malgrado (sono interista) all’inaugurazione del nuovo stadio della Juventus, a Torino. A parte la colata di retorica per me ovviamente indigesta, ho trovato interessanti i commenti sul tipo di stadio, la novità che esso rappresenta in Italia. Si tratta del primo stadio, in Italia, di proprietà di una società di calcio e interamente finanziato da privati (la Fiat o suoi dintorni). Lo stadio precedente, a Torino, si chiamava Olimpico ed era stato costruito per i campionati mondiali di calcio del 1990, quelli che, sotto la direzione di Luca Cordero di Montezemolo, contribuirono potentemente a quel debito pubblico per abbassare il quale ora Montezemolo invoca tagli alla spesa sociale. Nel ’90 si costruirono stadi giganteschi, come quello torinese, o quello di Bari, 80 mila posti più le poltrone della famiglia Matarrese.

Il nuovo stadio della Juventus contiene invece 42 mila persone, perché l’idea è di offrire comodità e intrattenimento, calcistico e non solo. Di più, questo tipo di stadi sono l’occasione per praticare lo sport più remunerativo di tutti: la speculazione immobiliare. Sia la Roma che la Lazio, le squadre di Roma, hanno più volte tentato, negli anni, di costruirsi un proprio stadio, abbandonando l’Olimpico romano (a sua volta ristrutturato nel ’90 con enormi spese): si è parlato di uno stadio della Roma alla Magliana, poi alla Pisana, di quello della Lazio (lo “Stadio delle aquile”) sulla Tiberina. In tutti questi progetti, a un impianto più piccolo si affiancavano costruzioni di carattere commerciale e, ovviamente, residenziale. È assai probabile che gli americani nuovi proprietari della Roma abbiano fatto questo investimento, d’accordo con Unicredit, la banca che in pratica possedeva la società, proprio con questo scopo.

In sostanza, il modello è Disneyland, ma anche i grandi centri commerciali: si va allo stadio a vedere la partita, ma si va anche al cinema, a fare shopping. E intorno, uffici e abitazioni in abbondanza, che, anche con un mercato assai depresso dalla crisi, rappresentano pur sempre attivi di bilancio e possibilità di nuovo credito da parte delle banche. Insomma, la finanziarizzazione dell’edilizia applicata allo sport, anzi al business sportivo. Del resto, il modello si è già affermato da tempo in altri paesi, come l’Inghilterra, dove gli stadi sono in generale di proprietà delle società calcistiche. Quello, storico, dell’Arsenal, squadra londinese, fu raso al suolo e ricostruito con il nome di “Emirates”, la linea aerea degli Emirati arabi proprietaria della società.

La spinta è talmente forte che i proprietari della Fiorentina, i Della Valle (il cui “senior” è appena entrato nella cabina di comando di Mediobanca, per dire), si sono più volte “disaffezionati” alla “Viola” proprio perché non sono riusciti a ottenere di costruire un loro stadio, e la famosa frase, in una intercettazione dell’allora sindaco Domenici, «del parco non mi frega una sega» (all’incirca, cito a memoria), alludeva proprio al progetto di nuovo stadio nella famigerata area di Castello. Gli stadi come grimaldelli nell’urbanistica delle città: il calcio è una cosa seria, a parte qualche allenatore dell’Inter.

www.democraziakmzero.org

´Cameron Sinclair è il fondatore di Architecture for Humanity, l’organizzazione nata per aiutare le popolazioni povere o colpite da calamità che è diventata un punto di riferimento in tutto il mondo. Il 23 settembre sarà in Italia per parlarne.

Che l’architettura possa essere utile per l’umanità non c’è dubbio. Basta pensare che tra tre anni 100 milioni di persone nel mondo abiteranno uno slum, che le città grandi e medie sono in crescita rapidissima e in preda a problemi ambientali, sociali, di gestione preoccupanti. L’architettura come la intendono le archistar sembra però piuttosto occuparsi di altro: come lasciare in monumenti ed edifici inutili un contributo indelebile al proprio fragile ego. Cameron Sinclair, il fondatore di Architecture for Humanity,per fortuna non la pensa così. Dice: «Le Corbusier aveva torto nell’affermare "Architettura o Rivoluzione", che l’architettura dovesse in qualche modo prevenire il pericolo di una rivoluzione. Oggi c’è bisogno invece di una rivoluzione architettonica».

Per questo Sinclair fonda, nel 1999 a ventiquattro anni, Architecture for Humanity, un’organizzazione con la missione di mettere l’architettura al servizio di comunità in crisi, catastrofi ambientali, povertà, emergenze. L’idea più geniale ce l’ha però nel costituire una rete mondiale di professionisti che si scambiano informazioni e progetti sulla sostenibilità, la partecipazione degli abitanti e un design con materiali locali: l’Open Architecture Network, che oggi ha quarantamila iscritti e opera in 14 paesi del mondo. Il criterio adottato è opposto al narcisismo delle archistar: la rete è open source, consente a tutti di accedere alle competenze professionali e alle soluzioni, alla conoscenza dei territori e al rapido scambio di informazioni. è quello che si chiama creative commons, l’idea rivoluzionaria che il copyright è cosa vecchia e che oggi ci vuole una comunità che si scambia i processi creativi, proteggendo solo una parte dei diritti dell’intelligenza.

Nel 2006 Sinclair è eletto uomo dell’anno da Ted, il sito del Mit di Boston dove vengono segnalate le innovazioni che avranno impatto sul mondo. Ulteriori conferme della genialità di Architecture for Humanity vengono dalla rivista Wired e dal Moma di New York che dedica buona parte della mostra Small Scale Big Change ai progetti raccolti dall’Open Architecture Network. Nel sito di Architecture for Humanity, accessibile a tutti, trovate alloggi per il dopo tsunami e community planning per la popolazione di Sendai; l’asilo costruito in Colombia o in Ghana con fango e paglia pressata; come il sacchetto dove fare i propri bisogni (che evita le conseguenze terribili delle fogne a cielo aperto e può essere utilizzato per gli orti urbani) per la popolazione di uno slum in Kenia.

L’aspetto architettonico non solo non viene trascurato, ma prende un senso legato a contesto, clima, situazione etnica e sociale. Mi viene da pensare ad un incontro di un anno fa con un illustre architetto italiano, Pierluigi Nicolin, direttore della rivista Lotus che commentava il mio libro Contro l’architettura dicendo che agli architetti non si può domandare di fare i boyscout. Gli rispondevo che non capivo come una cosa del genere si potesse chiedere ai medici, tant’è vero che qualcuno ha inventato Medici senza frontiere, e non agli architetti. Cameron Sinclair gli ha risposto per me.

Il traffico è orrendo, anzi peggiora ogni giorno, e questo si sa. Ma quanto esattamente la gente, quella delle metropoli di tutto il mondo, lo odia e vorrebbe prenderlo per il collo se ne avesse uno?

La IBM ha svolto una indagine su un campione di 8.042 disgraziati in 20 città di sei continenti. Scoprendo abissi globali di infelicità, automobilisti devastati dallo stress e dalla frustrazione di questo andirivieni che consuma l’esistenza, ma anche tanti casi in cui si dice che le cose sono assai migliorate per le strade da qualche anno. Questo perché alcune amministrazioni - Bangalore, Città del Messico, Pechino, Nuova Delhi, Milano pare proprio di no – hanno ridotto la congestione stradale grazie a enormi investimenti, migliorando un po’ le cose.

Qualche sprazzo di luce anche per I mezzi pubblici: il 40% dei pendolari globali dice che aiutano a ridurre lo stress. Ma c’è ancora gente che qualche volta non esce proprio di casa pur di sottrarsi alla bolgia.

Scaricabile da qui il rapporto, o altri particolari sul sito INFRASTRUCTURIST

Il dibattito sui trasporti si fonda su un numero ridotto di concetti, molto semplificati e superficiali. E incentrati a favorire un aumento della dotazione di infrastrutture. Per rispondere a precisi interessi di lobby che si sono formati in tutta Europa fin dagli anni Ottanta. Per questo oggi la costruzione di una strada o di una ferrovia comporta in genere una sottostima dei costi e una sovrastima della domanda. Basterebbe una corretta informazione per smontare i luoghi comuni. Ma non è semplice perché si toccano corde irrazionali nella popolazione e interessi costituiti.

“Il gap che ci separa dai maggiori paesi continuerà ad aumentare e l’Italia rimarrà eterna inseguitrice”, “ho paura che ci scippino il corridoio per l’Europa”, “non possiamo perdere l’ultimo treno dello sviluppo”, “occorre sbloccare i fondi privati per la costruzione delle infrastrutture”, “il rischio è quello di perdere i finanziamenti europei”, “l’Italia è al centro dei flussi globali”, “le infrastrutture aprono la strada verso la ripresa”. Frasi simili sono ormai entrate profondamente nelle nostre convinzioni e i trasporti sono diventati argomento di discussione quotidiana. Ci si dovrebbe però chiedere il perché di tanto interesse e, soprattutto, capire quale è il suo influsso sui processi decisionali associati alle politiche di trasporto.

UN ELENCO DI LUOGHI COMUNI

A ben vedere il dibattito sui trasporti è assai limitato e costruito su un ridotto numero di concetti, molto semplificati e superficiali, cioè dei luoghi comuni. Ci limiteremo qui a un elenco, affatto esaustivo e rigorosamente bipartisan:

Il gap infrastrutturale e in generale il confronto con gli standard europei: l’Italia avrebbe reti meno estese degli altri paesi europei e, per questo, risulterebbe meno competitiva.

La confusione tra domanda e offerta e la convinzione che l’offerta generi sempre e comunque la domanda.

La necessità di puntare sui corridoi infrastrutturali a meno di non voler “perdere il treno per l’Europa”.

La pretesa che vi siano ingenti finanziamenti europei e privati, che risultano però bloccati dai veti incrociati e da italica lentezza.

La rigida associazione tra infrastrutture e sviluppo e occupazione: se costruiamo più infrastrutture, avremo più sviluppo.

Il tema dell’interesse del paese, minacciato dalla “anti-italianità” e da gruppi di “professionisti del no”.

Il mito “verde” secondo cui con adeguati investimenti in ferrovie e trasporto pubblico si potrebbe ottenere un significativo cambio modale.

Tutti questi argomenti vanno nella direzione dell’aumento della dotazione infrastrutturale. Non è qui possibile discutere ciascuno di essi per evidenziarne le incoerenze. A puro titolo di esempio, basti citare la scarsa propensione del settore privato a investire capitale di rischio nelle grandi infrastrutture, in particolare le estensioni della rete autostradale, le ferrovie e il Tpl.

La Tav italiana ha avuto un finanziamento privato pari allo 0 per cento. La capacità di autofinanziamento delle linee in progetto (Frejus, Brennero, Napoli-Bari, Terzo Valico) è sicuramente inferiore al 10 per cento, pur con ampie garanzie di rientro (i cosiddetti “canoni di disponibilità”) e pedaggi così alti da compromettere il realismo delle previsioni di traffico (1).


Anche i contributi europei sono inferiori a quanto viene dichiarato. Il valico del Frejus, l’opera per cui vi è il contributo atteso più alto, riceverà al massimo 3,3 miliardi di euro, pari a solo il 22 per cento, senza contare i costi relativi alla linea di accesso per cui non vi è nessun contributo (2). Nella maggior parte dei casi, poi, lo sforzo europeo si riduce a pochi punti percentuali, lasciando quindi allo Stato quasi tutto il costo.

Fonte: nostre elaborazioni da Turrò (1999); European Commission (3).

LE LOBBY DIETRO GLI SLOGAN

I luoghi comuni non costituirebbero un problema se rimanessero entro la dialettica interpersonale, esattamente come i commenti dei tifosi a fine partita. Purtroppo, non è così: i luoghi comuni plasmano pesantemente le politiche di trasporto. Solo per citare un numero, ben il 95 per cento in valore delle opere della “Legge obiettivo”, nata e presentata come lo strumento per velocizzare le infrastrutture fondamentali per il paese (e di cui lavoce.info ha documentato il fallimento, riguarda i trasporti (4). Non vi sono investimenti analoghi in telecomunicazioni, energia, reti idriche, sistemazione territoriale: praticamente solo mega-infrastrutture di trasporto.


Leggendo le dichiarazioni di giornalisti e politici, sempre più radicali ma sempre più superficiali, si può riconoscere una sorta di processo “ipnotico” con cui sono stati narcotizzati negli anni l’opinione pubblica e gli stessi operatori economici: idee superficiali legate alle esperienze quotidiane (“i treni sono sempre in ritardo”), vengono riprese e amplificate. Una volta rivestite di pseudo-scientificità da studi veri o presunti (“una ricerca dell’università tale o talaltra”), assurgono a dimostrazione di se stesse. Uscendo dai documenti ufficiali, diventano slogan, creduti e diffusi da larga parte della popolazione. Come parole magiche, ritornano poi nei piani e nelle decisioni governative, dove la necessità delle infrastrutture è data spesso per via assiomatica, diventando quindi realtà e arrivando a plasmare e costruire il mondo reale (5).


La domanda quindi è un’altra: questi concetti pseudo-tecnici, in grado di convincere l’opinione pubblica della necessità di massimizzare gli investimenti pubblici nei trasporti, si sono formati spontaneamente o sono stati, per così dire, alimentati? La lettura di importanti studiosi del settore dà una risposta forte, ma convincente: i luoghi comuni sono parte di oliati strumenti comunicativi supportati da precisi interessi lobbistici, formatisi fin dagli anni Ottanta in tutta Europa (6)

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Il beneficio per le lobby di costruttori, monopolisti, sindacati, industria, amministratori, è almeno triplice (limitandosi ai soli aspetti leciti): attirare ingenti investimenti nel settore delle costruzioni civili, cioè ad alto capitale e rischio relativamente basso; mantenere lo status quo, guardando alle sole infrastrutture invece che a un ben bilanciato mix di investimenti puntuali, liberalizzazioni, razionalizzazioni e trasparenza; sussidiare indirettamente l’industria, cioè i cosiddetti “campioni nazionali”, non essendo più possibile farlo direttamente.
Queste lobby non beneficiano dell’infrastruttura in sé, se non in minima parte (in forma di minori costi di trasporto), ma del processo di infrastrutturazione. L’interesse è quindi che l'opera non sia completa e che i problemi rimangano, in una tensione mai veramente risolta, basti pensare all’ossessivo confronto con l’estero, quale meta irraggiungibile. Tensione che si traduce in un opaco e continuo flusso di denaro pubblico verso gli interessi industriali, del settore delle costruzioni e, almeno in parte, anche della criminalità (7).


La soluzione del problema è semplice a parole e ardua nei fatti. L’opinione pubblica e alcuni decisori politici sono veramente e intimamente convinti che le infrastrutture in quanto tali siano la ricetta per il paese, che i problemi che vivono ogni giorno possano essere risolti da un ponte, che la vitalità della loro città sia compromessa dalla mancanza della Tav. Sono anche persuasi che, dato che la soluzione è ovvia ma non viene realizzata, ci sia “qualcuno” che rema contro.

Occorrerebbe quindi lentamente smontare, scardinare questo corpus di convinzioni e di argomentazioni retoriche soprattutto attraverso il puro uso dei numeri.
Un esercizio in questo senso è stato fatto da uno studio del 2003 che ha analizzato la coerenza della domanda e dei costi reali con quelli previsti per un ampio campione di progetti (8). Gli autori hanno dimostrato che vi è una sistematica e volontaria sottostima dei costi: l’88 per cento delle strade costa di più del previsto, il 30 per cento delle ferrovie costa dal 40 al 60 per cento in più. E al contempo una sovrastima della domanda: l’85 per cento delle ferrovie ha meno domanda del previsto, con un picco tra il 40 e il 60 per cento di errore. Tuttavia, la strada della corretta informazione dell’opinione pubblica e della decostruzione dei luoghi comuni risulta difficilissima perché deve toccare corde irrazionali, oltre che potenti interessi costituiti.

NOTE

(1) ResPublica, Strumenti innovativi per il finanziamento delle infrastrutture di trasporto, 2010, Milano.


(2) Il dato è precedente al recentissimo, opportuno, ridimensionamento, che però non cambierà le percentuali.


(3) European Commission (2004), Report from the Commission to the European Parliament, the Council, the European. Economic and Social Committee, and the Committee of the Regions on the implementation of the guidelines for the period 1998-2001, Commission staff working paper Sec (04) 220. European Commission (2007), Trans-European transport network. Report on the implementation of the guidelines 2002-2003 pursuant to article 18 of Decision 1692/96/EC, Commission staff working paper Sec (07) 313.


(4) Legambiente, Dieci anni di Legge obiettivo, 2011, Roma.


(5) Non si intende naturalmente sostenere che le infrastrutture di trasporto, grandi e piccole, siano in sé inutili. Ve ne sono di estremamente utili, di completamente inutili e di migliorabili. Il tema è, piuttosto, quali sono più utili e, soprattutto, quali ci possiamo permettere.


(6) Si vedano, tra gli altri: Turró M. (1999), Going trans-European. Planning and financing transport networks for Europe, Pergamon - Elsevier, Amsterdam; Peters D. (2003), Old Myths & New Realities of Transport Corridor Assessment: Implications for EU interventions in Central Europe in Perman A., Mackie P., Nellthorp J. (2003), Transport Projects, Programmes and Policies, Ashgate Publishing; ed Eddington R. (2006), The Eddington transport study, HM Treasury, London (UK).


(7) Relazione del ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione investigativa antimafia. Gennaio–giugno 2010, ministero dell’Interno, Roma.


(8) Flyvbjerg B. et al

Lo Stato non ha più un soldo e la Livorno-Civitavecchia la pagano le banche. Con la regia dell'esperto Bargone

Per l’ennesima volta l’autostrada Livorno-Civitavecchia è ai blocchi di partenza. I protagonisti giurano che questa è la volta buona. Le annose polemiche sul tracciato sembrano pronte a esaurirsi. E attorno a un progetto da due miliardi di euro si è saldata un’alleanza trasversale degli affari. I Benetton, con Autostrade per l’Italia, hanno dato le carte. Sono entrate le principali cooperative “rosse” di costruzione (Cmb, Cmc, Ccc e altre), Francesco Gaetano Caltagirone con la sua Vianini, e il Monte dei Paschi di Siena, banca “rossa” per un verso, ma che ha come vicepresidente il suddetto Caltagirone. A far da regista c’è uno dei massimi esperti di quel mondo dove il cemento e la politica si intrecciano. Si chiama Antonio Bargone. Avvocato di Brindisi, è stato negli anni ’90 il plenipotenziario di Massimo D’Alema nello scacchiere strategico del Salento. Nel 1996, primo governo Prodi, fu piazzato come sottosegretario ai Lavori pubblici, con il compito di marcare strettamente l’effervescenza del titolare del ministero, l’allora neofita Antonio Di Pietro. Nel 2001 Bargone ha abbandonato la politica attiva e si è dedicato agli affari con un certo profitto.

Oggi è un personaggio quasi mitologico, corpo di manager e testa di Stato. Non solo infatti è da alcuni anni presidente della Sat, la concessionaria per l’autostrada tirrenica, ma è anche commissario straordinario, nominato dal governo, per la realizzazione dell’opera. Alcuni parlamentari (Ermete Realacci del Pd, Elio Lannutti e Fabio Evangelisti dell’Idv) hanno fatto notare che ci sarebbe un certo conflitto d’interessi tra il presidente della società realizzatrice e il commissario del governo per l’opera. Ma Bargone non ha fatto una piega. Già due anni fa, al momento della nomina, fu disarmante: “Concessionaria e commissario non hanno interessi in conflitto, ma convergenti, cioè realizzare l’opera”. Adesso, di fronte alle nuove polemiche, precisa il concetto: “Il decreto di nomina parla chiaro: io non ho alcuna funzione di controllo sulla concessionaria, ma solo quello di accelerare le procedure e di rimuovere gli ostacoli di ordine burocratico per garantire il rispetto dei tempi”. Questa logica ferrea gli consente di aggiungere allo stipendio di presidente della Sat quello non trascurabile di commissario: 214 mila euro l’anno che lo Stato paga a Bargone per fare in modo che lo Stato non intralci troppo gli affari della società di cui è presidente.

Non è l’unico aspetto curioso della futura autostrada da 206 chilometri. Tutta da capire e raccontare sarà la storia del cosiddetto “project-finance” con cui l’opera si pagherà senza esborso alcuno da parte dello Stato. Funziona così: siccome lo Stato non ha più un soldo, le nuove infrastrutture vengono costruite da privati che se le ripagano con i proventi del traffico. Vent’anni fa la formula fu inaugurata per l’alta velocità ferroviaria. Furono aperti i faraonici cantieri dichiarando che lo Stato non avrebbe speso una lira, perché era tutto a carico dei privati. Era ovviamente un imbroglio: la linea veloce Napoli-Milano-Torino è costata ai contribuenti almeno 60 miliardi di euro, mentre i mitici privati non ci hanno messo un soldo, ma se ne sono presi tanti. Adesso la speranza di farsi dare fondi pubblici è tenue. E sull’autostrada tirrenica vedremo il project finance alla prova. Qualche giorno fa il Financial Times ha pubblicato uno studio secondo cui in Gran Bretagna il sistema del finanziamento privato ha comportato un costo imprevisto per i cittadini di circa 30 miliardi di euro su 60 miliardi di opere realizzate. Autostrade per l’Italia aspetta l’approvazione delle autorità per la cessione delle quote della concessionaria a coop, Caltagirone e Montepaschi. I due soggetti costruttori hanno preso un 25 per cento ciascuno, Autostrade si è tenuta un 25 per cento, il Monte dei Paschi ha comprato il 15 per cento. Il valore della società è stato stimato in circa 100 milioni, quindi il 25 per cento è costato 25 milioni. Per le società di costruzione il business è presto detto: con le norme sulle opere cosiddette “in house” la concessionaria può evitare di mettere in gara i lotti dell’autostrada e farli fare a società collegate, anche sue azioniste; teoricamente fino al 60 per cento del totale, ma il modo di aggirare questo tetto si trova sempre.

Le coop e la Vianini potranno così spartirsi un portafoglio di lavori tra un miliardo e un miliardo e mezzo di euro, secondo le stime. Il Monte dei Paschi si è messo in pole position per gestire il flusso di finanziamenti dell’operazione, che gli garantirà commissioni per diversi milioni. L’opera sarà finanziata per un 30 per cento dalla concessionaria (cioè dai suoi azionisti) e per il 70 per cento dalle banche. Ma non è escluso che le banche finanzino anche l’apporto di capitale delle società azioniste. Per vedere se le cose funzioneranno bisognerà aspettare una ventina d’anni. Se per caso la nuova autostrada non avesse abbastanza traffico di ripagare i debiti fatti, il cerino acceso rimarrà alle banche finanziatrici, esattamente come una volta rimaneva in mano allo Stato. Ma qui c’è l’analogia con la storia della Tav: tra vent’anni nessuno degli artefici dell’operazione sarà più lì a risponderne, così come oggi non sappiamo a chi chiedere conto della voragine finanziaria dell’Alta velocità. Speriamo che vada tutto bene.

Ventimila metri cubi di negozi, alberghi, uffici ma anche spazi riservati «ad attività museali e culturali, ludico-ricreative e sportive» con annessi alberghi e ristoranti. E due torri, una delle quali da 105 metri, parcheggi per accogliere un milione di nuovi visitatori all'anno, su un totale di 46 mila metri quadrati.

E' il nuovo Minitalia, così come lo delinea il progetto presentato due anni fa dalla Thorus spa, società che dal 2007 (e fino al 2010 con i vicentini Zamperla) gestisce il parco dei divertimenti: rinnovato e rilanciato, in questi ultimi anni ha ripreso quota fino ad affacciarsi al 2011, suo quarantesimo anno, con 409.500 presenze nell'arco degli ultimi 12 mesi, che fanno segnare un incremento del 25%. Ma Leolandia — l'altro nome di questa Disneyland bergamasca — vuole crescere ancora. Nonostante i molti dubbi, le opposizioni, le osservazioni. La pagina più recente della vicenda porta la data dello scorso 27 luglio e viene dalla Direzione generale Territorio ed Urbanistica della Regione Lombardia. Promuove il progetto, ma ponendo anzitutto quattro «prescrizioni» ed una mezza dozzina di «indicazioni» cui fanno seguito le «misure di compensazione».

Prima prescrizione: che la torre più alta «scenda» a 90-95 metri perchè si possa «ridurne sostanzialmente la visibilità dal sito del Villaggio Crespi». Seconda, che uno «studio di incidenza» garantisca «il mantenimento della funzionalità globale di Rete Natura 2000»; terza, che un altro studio dimostri «la sostenibilità della trasformazione per quanto riguarda gli impatti attesi a regime sulla sistema trasportistico e infrastrutturale»: in quest'area già congestionata (parlando solo di autostrada, la Milano-Brescia è la più trafficata d'Italia) arriveranno entro il 2015 anche Brebemi e Pedemontana. Quarta: le reti idriche e i sistemi di trattamento delle acque «dovranno essere verificate e analizzate nel dettaglio».

Seguono le indicazioni, sulle alternative ai parcheggi così come sono progettati, sulle aree agricole vicine da salvaguardare, sulla gestione dei rifiuti. «E' un parere positivo, un tassello importante anche se parziale ma, per chi sa leggere, una sostanziale bocciatura del progetto» dicono Mara Leoni e Luciano Gelfi dai circoli Legambiente di Trezzo sull'Adda e Cerca Brembo. Da due anni alla testa del fronte del «no» alla nuova Minitalia, gli ambientalisti sperano che quelle prescrizioni e indicazioni diventino ostacoli insormontabili.

E poi ci sono le misure compensative: prima fra tutte quelle «finalizzate alla valorizzazione e al miglioramento della fruizione del sito Unesco di Crespi d'Adda». Ce ne sarebbe davvero bisogno. Nello storico villaggio industriale costruito a fine Ottocento il corso Gaetano Donizetti è chiuso «al traffico veicolare e pedonale per motivi di sicurezza pubblica»: la grande ciminiera del cotonificio (abbandonato, il tetto a pezzi, tante delle decorazioni in cotto sbreccate) è pericolante. «Io compio ottant'anni e sono nato nel palazzone all'inizio del paese. Il nome non ve lo voglio dire, ma se aggiustassero questa invece di fare torri nuove sarebbe meglio per tutti».

Quando si dice che tra la Prima e la Seconda Repubblica per gli affari di appalti e mattoni sono più le somiglianze che le differenze… Prendete, per esempio, Piergiorgio Baita. Chi è Baita? Un emerito sconosciuto per il grande pubblico, anche se non per i veneziani e gli esperti del settore delle costruzioni; ma soprattutto un caso da manuale di “continuismo mattonaro”. A Venezia anche l’ultimo dei gondolieri conosce Baita perché quel nome significa impresa Mantovani, cioè edilizia, cioè appalti pubblici, cioè grandi opere, cioè Mose, quel grandioso quanto contestato sistema di dighe mobili che dovrebbe salvare la laguna dall’acqua alta. Per i cultori del mattone, invece, Baita è una delle stelle più luminose del firmamento perché nella graduatoria delle imprese più grosse la sua Mantovani è tra le prime venti.

Esattamente 19 anni fa, piena era Tangentopoli, lo rinchiusero nel carcere di Venezia e poi gli concessero i domiciliari al termine di un interrogatorio durante il quale un altro indagato suo pari, Giorgio Casadei, il portaborse dell’allora ministro e deputato socialista Gianni De Michelis, tenne duro senza aprire bocca, e invece lui, Baita, aprì le cateratte illustrando, come scrissero i giornali di allora, “le logiche di spartizione tra Dc e Psi”.

Il pubblico ministero Ivano Nelson Salvarani riconobbe il suo prezioso apporto: “Ora abbiamo un ampio quadro del contesto politico istituzionale in cui operano Baita e le imprese a Venezia”, dichiarò. Baita non parlava a spanne, le cose che raccontava erano precise perché conosceva bene il sistema dal di dentro. A quei tempi era una quarantenne promessa, direttore del Consorzio Venezia Disinquinamento, concessionario unico dei lavori per la pulizia della laguna. Due anni più tardi, Baita uscì indenne dal processo. I magistrati giudicarono invece colpevoli 7 tra amministratori, manager e politici che con Baita avevano lavorato spalla a spalla. Tra questi Casadei e Franco Ferlin, il portaborse dell’ex ministro democristiano Carlo Bernini, e ancora il presidente democristiano della giunta veneta, Gianfranco Cremonese.

Uno si sarebbe aspettato che dopo una vicenda del genere, Baita avesse rinunciato agli affari edili e agli appalti dicendo addio al mattone, magari per rifarsi un nome, una vita e una carriera in qualche altro campo. Neanche per sogno: dopo aver capito che il passaggio in cella non era un episodio di cui vergognarsi, ma anzi faceva curriculum con i nuovi potenti, si rituffò nel business delle costruzioni gomito a gomito con le aziende e le amministrazioni pubbliche. Quanto e più di prima. C’è da meravigliarsi che a distanza di un ventennio, a 63 anni suonati, il suo nome rispunti in affari border line, questa volta in Sardegna?

La storia è quella del contestato ripascimento del litorale di Poetto, la spiaggia dei cagliaritani, un affare che, secondo una sentenza di primo grado della Corte dei conti, avrebbe procurato alle casse pubbliche un danno di 4,8 milioni di euro. I lavori furono eseguiti nel 2002 da un’associazione di imprese guidate da Baita in qualità di presidente della Mantovani, non a regola d’arte secondo l’accusa. Due anni fa politici e manager coinvolti nella faccenda tirarono un sospiro di sollievo grazie alla prescrizione che sbianchettava i reati contestati e di recente sono stati di nuovo gratificati da una sentenza favorevole della Cassazione. Baita compreso, naturalmente, che per la seconda volta riesce a sfilarsi dai guai e a proseguire imperterrito in una carriera costellata di allori.

Giancarlo Galan, per esempio, politico dell’inner circle berlusconiano, per un quindicennio governatore del Veneto e ora ministro dei Beni culturali, nutre nei confronti di Baita un’ammirazione profonda. Nel libro-intervista dal sobrio titolo Il nordest sono io, scritto da Paolo Possamai, Galan riconosce a Baita un merito storico: “Mi ha spiegato che cos’è il project financing”. Baita ha contraccambiato il complimento nell’autunno del 2009 quando insieme ad altri 11 imprenditori di primissimo piano del Veneto accolse con tutti gli onori Berlusconi in visita e colse l’occasione per tessere davanti a lui le lodi del Gran governatore.

Per il project financing poi, dopo averlo spiegato, Baita lo ha messo in pratica con Galan. Un gruppo di aziende guidate dalla Mantovani ha tirato fuori circa 300 milioni per costruire l’ospedale di Mestre e ora lo gestisce con una società, Veneta sanitaria, di cui Baita è vicepresidente. Ma è il Mose, le paratie della laguna, l’opera epica di Baita e del Consorzio Venezia Nuova (Cnv) di cui la Mantovani è azionista di riferimento. Come vent’anni prima con il Consorzio Venezia Disinquinamento, il Consorzio Venezia Nuova è concessionario unico dell’opera. “Un caso singolare” come lo definisce Felice Casson, un tempo magistrato proprio a Venezia e ora senatore Pd.

Baita non se ne cura. A un giornalista che gli faceva notare che la Mantovani ha in pratica il monopolio delle opere pubbliche in laguna, ha risposto sornione che niente vieta agli altri di farsi avanti. Nel frattempo ha collezionato la bellezza di 72 incarichi, presidente, vicepresidente, amministratore delegato, consigliere in 40 società diverse, in prevalenza consorzi. Più altre tre: consigliere del Passante di Mestre e consigliere e vicepresidente della Nuova Romea, poltrone che secondo le visure camerali sono occupate da un Piergiorgio Baita con lo stesso indirizzo di residenza e la stessa data di nascita, ma con un codice fiscale diverso. Chissà perché.

Prima scintilla: Cortina, dove Luca Zaia prese il 77,8%. Seconda: Asiago, dove arrivò al 68,6. E poi Zoldo Alto e Colle Santa Lucia e Borca e Pieve di Cadore... C'è una rivolta di cittadini e paesi e contrade «amiche», sulle montagne del Veneto, contro il Piano Casa regionale. Reo di tradire il primo dei giuramenti autonomisti: «Padroni a casa nostra». Falso, accusano i ribelli: al posto di Roma, decide tutto Venezia. Spalancando le porte agli speculatori, ai palazzinari e ai capitali sporchi.

Tutto avrebbe potuto immaginare, il governatore del Carroccio, tranne che l'insurrezione scoppiasse ai piedi della Tofane, dove l'intero centrosinistra raccolse alle regionali di un anno fa un umiliante 14,6%. E così sull'Altopiano, dove non arrivò neppure al 20%. Eppure i sindaci delle due celebri località turistiche, l'ampezzano Andrea Franceschi e l'asiaghese Andrea Gios, eletti alla guida di liste civiche che guardano a destra, non hanno avuto dubbi nel fare asse e mettersi alla guida della ribellione.

Per capire, occorre partire dalla foto urbanistica. Cortina ha poco più di 6.000 abitanti e circa l'80% della proprietà immobiliare è in mano a non residenti. Asiago ha mezzo migliaio di anime in più e insieme con Roana e Gallio, gli altri due principali poli di attrazione dell'Altopiano dei Sette Comuni, storicamente affratellati dalla comunità cimbra (Siben Alte Komeun) condivide la stessa sorte: quasi tre quarti delle case sono intestati a «foresti». Una risorsa, per chi vive di turismo, e nessuno è così sciocco da lagnarsene. Ma, insieme, anche un problema. Sempre più grave.

Tanto più se in passato la gestione di questa «fioritura» di seconde case è stata un po' troppo «spontanea» col risultato che, denuncia Gios, «esistono zone intere caratterizzate dalla presenza di edifici unifamiliari, ville di dimensioni rilevanti con ampi giardini, costruite negli anni 70 come case per vacanza in lottizzazioni prive di marciapiede con strade strettissime e senza adeguati sottoservizi».

Questo è il contesto. Non dissimile, per certi aspetti, a un'altra ferita del territorio. Quella delle aree industriali. Anch'esse lasciate crescere a dismisura senza una visione d'insieme, come se si trattasse solo di accompagnare senza intralci la crescita dei capannoni. Con la conseguenza che il Veneto si ritrova con 10 aree industriali a Comune che diventano addirittura 14 in provincia di Treviso. Dove Crocetta del Montello, come accusa l'urbanista Tiziano Tempesta, è arrivata ad avere 5.714 abitanti e 28 aree industriali. Una ogni 204 residenti. Da pazzi.

In un territorio così, il più urbanizzato d'Italia dopo la Lombardia anche se è per quasi il 44% montagnoso o collinare, ha senso cercare la ripresa nel cemento? Nonostante migliaia di capannoni vuoti (38 milioni di metri cubi tirati su soltanto nel 2002 grazie alla Tremonti bis) e nonostante siano state costruite in questi anni secondo i calcoli di Tempesta «abitazioni sufficienti a dare alloggio a circa 788.000 persone» e cioè il triplo delle 243.000 in più registrate all'anagrafe, in buona parte straniere?

Bene, in questo contesto il nuovo piano casa del Veneto, per forzare la mano ai sindaci rompiscatole, contiene per la cosiddetta «prima casa» poche righe micidiali. Dove si spiega che i proprietari di un immobile hanno diritto ad aumentare la cubatura purché «si obblighino a stabilire la residenza e a mantenerla almeno per i ventiquattro mesi successivi al rilascio del certificato di agibilità».

«Questo vuol dire — accusa il sindaco di Asiago — che qualsiasi persona, di qualsiasi parte d'Italia, può comprare una casa ad Asiago, richiedere e ottenere l'ampliamento fino al 35% in più rispetto al volume esistente o addirittura fino al 50% in caso di demolizione e ricomposizione volumetrica, solo impegnandosi a trasferire per due anni la residenza. E se poi non si trasferisce davvero? Cosa facciamo: avviamo una causa giudiziaria fino in Cassazione per demolire? Ma ci si rende conto dell'impatto di questi interventi? Così ogni turista che ha una seconda casa è spinto a trasformarsi in un immobiliarista d'assalto». Per non dire, accusano i sindaci, dei rischi di una infiltrazione di capitali sporchi: cosa possono desiderare di più i mafiosi, i camorristi, gli 'ndranghetisti, se non un bell'investimento ad Asiago o a Cortina? Basta comprare un rudere, trovare un prestanome che si impegni a portarci la residenza...

Laura Puppato, già sindaco di Montebelluna e capogruppo in Consiglio regionale del Pd, dice di non essere d'accordo. E spiega che sì, il suo partito a dispetto di tanti ambientalisti ha votato a favore del piano casa delle destre «perché sui centri storici e altri punti avevamo ottenuto dei cambiamenti radicali al testo e volevamo rispondere a chi ci accusava di ostruzionismo. È chiaro che quando voti una legge pensi alle persone perbene: sulla prima casa nel 99% dei casi le persone non vanno ad artefare la propria situazione anagrafica. I Comuni possono fare regolamenti più rigidi come ha fatto Salzano. Possono mandare i vigili a controllare se uno ci vive davvero in quella casa...»

«Eh no, abbiamo letto e riletto tutto con gli avvocati virgola per virgola e manca completamente la sanzione per chi fa il furbo — risponde Andrea Franceschi —. Infatti il proprietario di una baracca per le api, al quale avevamo negato la sua trasformazione in una villa, si è subito fatto sotto. E così i padroni di una casa, anche loro stoppati in passato, che il giorno stesso hanno chiesto di aggiungere un piano per un totale di trecento metri cubi. In entrambi i casi la proprietà, e lì si vede la "buonafede" sulla prima casa, era intestata a società... Mettiamo che la spuntino: una volta che il danno è fatto cosa facciamo? I Comuni sono completamente tagliati fuori dalle scelte regionali. Che Cortina debba avere le stesse regole di Marghera fa venire i brividi».

La cosa più grave, rincara il sindaco di Asiago, «consiste nel fatto che il testo di legge non limita l'incremento delle unità abitative (appartamenti) ricavabili con l'applicazione del piano casa e, dunque, l'edificio ampliato (la vecchia villetta con giardino) potrebbe essere suddiviso in un maggiore numero di unità abitative: dall'originaria villetta turistica i più "furbi" potrebbero ricavare 8/10 nuovi appartamenti da porre sul mercato delle "seconde case" in spregio alle norme urbanistiche locali e alle limitazioni che il nostro Comune ha inserito a salvaguardia del territorio e dei fragilissimi equilibri urbanistici e sociali del territorio».

«Ma mica tutti possono portarsi la residenza!», dicono i sostenitori del «piano». «Dettagli», rispondono a Cortina. «Sui fienili c'erano regole che imponevano la residenza per 20 anni. Ma la scappatoia i furbi la trovano sempre».

Ed è lì che sindaci girano il coltello nella ferita: «Non vogliamo che scelte così importanti, con un così forte impatto sul territorio siano prese a Venezia. Rivendichiamo il diritto e il dovere di decidere le nostre sorti». E citano una dichiarazione di Zaia un attimo prima d'essere eletto: «L'urbanistica la deve fare l'ente locale. Se qualcuno pensa di mettere in piedi un neocentralismo regionale, allora andiamo tutti a casa». «Pienamente d'accordo — ironizza Andrea Franceschi —. Ma lo Zaia di oggi è d'accordo con lo Zaia di ieri?»

Alcuni articoli pubblicati da Il Sole 24 Ore del 24 Agosto scorso ripropongono in evidenza una situazione agghiacciante: il recente decreto legge n. 70 del 13 maggio 2011 (cosiddetto "Sviluppo") sancisce al comma 3 del suo articolo 5 una modifica dell'articolo 2643 del codice civile con cui si intende «garantire certezza nella circolazione dei diritti edificatori». Questo comma è stato, forse, in queste settimane uno dei punti meno valutati nelle nostre osservazioni critiche all'impianto complessivo del dl Sviluppo, ma dobbiamo ora farvi grande attenzione, perchè il nuovo panorama che delinea è davvero grave: infatti sancisce che sono ora trascrivibili nei registri immobiliari «i contratti che trasferiscono i diritti edificatori comunque denominati nelle normative regionali e nei conseguenti strumenti di pianificazione territoriale, nonché nelle convenzioni urbanistiche a essi relative». La perequazione trionferà ...

Come spiegano Angelo Busani ed Emanuele Lucchini Guastalla sempre sul quotidiano di Confindustria, per effetto del dl 70/2011 «se Tizio e Caio sono proprietari di due terreni (anche non confinanti) e su quello di Caio sono edificabili 900 metri cubi, Caio può ad esempio limitare la propria costruzione a 700 metri cubi e vendere o donare i 200 metri cubi residui a Tizio il quale, con il permesso del Comune, potrà sfruttarli sul proprio fondo. Chiunque comprerà il lotto dal quale la volumetria è stata "prelevata" sarà quindi reso avvertito, dalla lettura dei registri immobiliari, che si tratta di un fondo a capacità edificatoria nulla o ridotta».

Siamo, dunque, nel pieno di quella idea di pianificazione urbanistica basata sulla "perequazione" (letteralmente " rendere uguale una cosa fra più persone"), che consiste nell'affermazione che tutti i terreni esprimono la stessa capacità edificatoria e sottintende che, da ora in poi, non ci saranno più equivoci possibili: la cubatura di competenza dei terreni non edificabili potrebbe, quindi, essere venduta a quelli edificabili.

Nell'articolo di Busani e Lucchini Guastalla viene spiegato ancora meglio la questione: « con questo sistema, in sintesi, viene impresso a ogni metro quadrato di territorio comunale, senza distinzioni, un indice volumetrico standard, di modo che il proprietario del fondo che sia destinato a non essere edificato (perché ad esempio è un'area di uso pubblico o a verde) possa cedere la sua virtuale edificabilità a quel proprietario cui invece la pianificazione comunale consente di costruire. Realizzando in tal modo una completa equiparazione tra cittadini beneficiati dai "retini" del pianificatore comunale e cittadini invece titolari di fondi privi di capacità edificatoria. In concreto, però, l'acquirente potrà usare la volumetria se gli strumenti urbanistici comunali lo consentono: dove ci sono vincoli legati, per esempio, all'altezza degli edifici, una sopraelevazione potrebbe essere impossibile».

Il Decreto approvato pare, così, confermare la criticata impostazione fatta dal Comune di Milano per il proprio nuovo Pgt, che stabilisce per ogni terreno della città una capacità edificatoria e quindi un diritto di costruzione pari a 0,5 mq/mq.

L'Istituto Nazionale di Urbanistica era prontamente intervenuto pubblicamente, rilanciando la propria proposta basata su indici differenziati in base alle caratteristiche del territorio e sostenendo che tematiche come perequazione e compensazione andrebbero disciplinate da una legge nazionale in grado di rinnovare la legge urbanistica del 1942 e raccordarla con le disposizioni regionali.

Anche il Cnappc (Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori) aveva sostenuto la posizione dll'INU suggerendo che il trasferimento delle cubature dovesse essere integrato da un piano nazionale in grado di impedire il consumo di ulteriore suolo e dalla previsione di alti standard di eco-compatibilità degli edifici e qualificazione degli spazi pubblici.

Ora il DL Sviluppo mette chiarezza e certezze ... E, come sempre Il Sole 24 Ore ricorda negli articoli del 24 agosto ("Libera cubatura e tutela del territorio", pagina 22): «si potrà aprire un vero mercato di questi diritti, che di fatto consentono ai nuovi proprietari di allargare le cubature a loro già assegnate, sfruttando quelle cedute da chi le ha solo teoricamente perché l'area è sotto vincolo. Può sembrar strano che l'idea di una casetta rustica alla periferia estrema di una grande città si trasformi in un paio di appartamenti in più in un palazzone di nuova edificazione o una sopraelevazione di un edificio già esistente. Ma la perequazione è proprio questa: dare a tutti il vantaggio di possedere qualcosa da sfruttare in termini commerciali, anche per chi ha la sfortuna di possedere un terreno inedificabile. Così, in nome della giustizia economica, si riusciranno ad aggiungere altri mattoni da qualche altra parte. Come a Milano: sui terreni agricoli piomberanno d'incanto milioni di euro di nuove cubature».

Capito tutto ? Ci vengono idee intelligenti (ed immediate) per fare in modo che chi ha la "sfortuna di possedere un terreno inedificabile" NON possa fare un po' di sano business sui suoi presunti diritti edificatori ?

Sarà forse il caso di preoccuparci (subito ...) di fare qualcosa per lasciare le cubature al loro posto e non sui terreni agricoli di Milano e di ognuno degli oltre ottomila Comuni d'Italia (o seimila e passa, se il taglio dei piccoli comuni andrà in porto. Ma noi non crediamo che le soppressioni verranno fatte: solo fumo per i nostri occhi).

Il dl 70/2011 è stato approvato il 13 maggio 2011 e pubblicato nella G.U. 160 del 12 luglio 2011. Non c'è molto tempo, dunque …

Il centro studi conservatore-liberista britannico Policy Exchange ha appena pubblicato il rapporto “Making Housing Affordable - A new vision for housing policy” , di Alex Morton eNatalie Evans, di cui alleghiamo il testo integrale in formato .pdf. É dedicato al problema della casa ed è fondato su due capisaldi: il trasferimento delle decisioni di trasformazione alla "responsabilità locale" (si badi: non dell'amministrazione locale, ma di una governance dove prevalgono gli interessi privati); la liquidazione progressiva del patrimonio di case popolari attraverso un "percorso alla proprietà". Si tratta della modulazione britannica della strategia globale del neoliberismo, certamente meno buzzurra di quella italiana ma altrettanto letale nelle sue conseguenze territoriali e sociali. eddyburg ne riporta qui una sintesi nella traduzione di Fabrizio Bottini.

Titolo originale:Making Housing Affordable - A new vision for housing policy – Estratto tradotto da Fabrizio Bottini

Making Housing Affordable delinea un modo per migliorare i risultati sociali complessivi (proprietà della casa, occupazione) risparmiando 20 miliardi di sterline l’anno.

Presupposto essenziale del rapporto è che:

Siamo di fronte a una crisi delle abitazioni. Negli ultimi decenni prezzi delle case e affitti sono aumentati nel nostro paese molto più rapidamente che in altri, facendo crescere la spesa pubblica in Housing Benefit e costruzione di case economiche e popolari, e facendo diminuire la proprietà dell’abitazione. Certo hanno pesato anche altri fattori (es. il sistema dei prestiti), ma il fattore determinante nella crisi delle abitazioni è la scarsità dell’offerta. La quantità di nuove costruzioni si è più che dimezzata negli ultimi decenni, sino a toccare livelli decisamente fra i più bassi dei paesi sviluppati. Le case popolari non rispondono all’esigenza. Le attuali politiche per l’abitazione sociale spingono verso un tipo di dipendenza non sostenibile dagli interventi di assistenza per inquilini sempre più poveri, cosa sottolineata dallo “inspiegabile divario” fra i loro tassi di occupazione e quelli parecchio più elevati di soggetti simili ma esclusi dagli interventi. E questo determina gli incredibili incentivi per gli inquilini dell case popolari.

Si propongono le seguenti soluzioni:

Ridurre gli incrementi di prezzo/affitto delle case aumentando il numero delle nuove costruzioni. I dati evidenziano come l’attuale regime di autorizzazione urbanistica determini una carenza dell’offerta e un incremento dei prezzi, sia necessario costruire invece un sistema di “controllo locale”, verso un modello urbanistico consensuale, dove chi è soggetto alle trasformazioni (non l’amministrazione locale) decide se autorizzarle o meno. Così che gli incentivi finanziari e le migliorie legati a queste trasformazioni possano beneficiare direttamente gli abitanti. Ciò farebbe crescere notevolmente sia la quantità e qualità delle nuove costruzioni. E mantenere bassi gli affitti, i prezzi, la spesa pubblica per Housing Benefit, oltre che contenere anche l’inflazione. Qui risulta essenziale l’azione del governo, ma non si escludono altri interventi.

Cambiare radicalmente il sistema degli incentivi per gli inquilini delle case popolari. Si deve porre termine all’attuale distribuzione “secondo i bisogni”, e l’abitazione sociale diventare uno dei passaggi intermedi verso la proprietà della casa per chi lavora, eliminando il perverso sistema degli incentivi e riducendo quello “inspiegabile divario” nei tassi di occupazione. Gli inquilini delle case popolari dovrebbero essere sostenuti nell’accesso alla proprietà rinnovando il sistema del Right to Buy e parificando tendenzialmente gli aiuti all’affitto con quelli all’acquisto: così che non ci siano più inquilini che pagano di più per acquistare di quanto non si paghi per l’affitto.

Creare un nuovo modello di “Percorso verso la proprietà” per case economiche e realizzare più case popolari. Sul lungo periodo, con la maggiore accessibilità all’abitazione propria, diminuisce la domanda per la casa popolare. Ma al momento attuale esiste una urgenza. L’attuale modello di forti sostegni non è praticabile, e quindi se ne propone uno nuovo, che consenta la realizzazione immediata di molte case popolari praticamente a costo zero. Le riforme delineate in questo rapporto possono produrre risparmi per circa 20 miliardi di sterline l’anno a partire da subito e continuando in futuro.

Risparmi che derivano da:

● Riduzione della spesa attuale per case economiche e popolari.

● Vendita sul libero mercato dello stock esistente (se di particolare valore) o secondo il nuovo percorso Verso la Proprietà, continuando la costruzione di nuove case popolari.

● Via via, risparmiando le quote di Housing Benefit dato che gli affitti cresceranno più lentamente.

● Via via, riducendo la dipendenza dal welfare degli inquilini delle case popolari.

Di seguito scaricabile il rapporto integrale originale; si veda anche qui in eddyburg.it, sul rapporto fra politica urbanistica britannica attuale e problema della casa, l'opinione dell'esperto Peter Hetherington dal Guardian (f.b.)

Titolo originale: This government is rapidly demolishing the housing industry – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Nel travagliato settore della casa, con una produzione crollata ai minimi storici, il termine “smantellamento” pare particolarmente rilevante in ambito pubblico così come privato fra i principali interessati. Descrive bene l’atteggiamento complessivo del Ministero per le Aree Urbane [ Department for Communities and Local Government – CLG] che sino a non molto tempo fa fissava i propri obiettivi per la realizzazione di case attraverso piani regionali. Poi, con nuovo ministro Conservatore, Eric Pickles, si è deciso di eliminare tutto quanto e di far tornare al tavolo da disegno le amministrazioni locali.

Via gli obiettivi coordinati, e per certi versi anche via le procedure urbanistiche attraverso le quali venivano autorizzate le nuove abitazioni. Risultato? Centinaia di progetti rinviati, o del tutto eliminati, e decine di migliaia di case in meno. Conseguenze per gli assegnatari, 4,5 milioni di persone nelle liste d’attesa municipali per l’abitazione sociale, e tante giovani coppie sempre più ansiose di accedere alla prima casa, che a quanto pare non possono pensarci più.

Chi poteva essere ragionevolmente convinto che con un governo di coalizione, temperato dall’influenza dei Liberaldemocratici, si adottassero strategie pragmatiche, ha invece capito di avere a che fare con ministri ideologizzati, per cui la parola “pianificazione” suona come un insulto.

Gli addetti al settore ricordano bene come un alto esponente del ministero abbia dichiarato nel momento di entrare in carica: “Al governo mi comporterò esattamente come all’opposizione”. E pare che sia proprio questo il problema, ovvero non riflettere sulle conseguenze di affermazioni che forse si conquistano i titoli dei giornali, ma che possono dare ulteriori colpi al già fragile settore, agli enti per la casa, ai costruttori, ad amministrazioni locali che vorrebbero fare la loro parte nella realizzazione di case di cui si sente un disperato bisogno.

La Home Builders Federation, che rappresenta i grossi operatori, ha fatto dei calcoli secondo cui sono 60 le amministrazioni che hanno rinviato i progetti, in attesa di chiarimenti da parte del ministero retto da Pickles, o si rifiutano di rivedere i programmi per la casa o modificare i piani di localizzazione adottati. La National Housing Federation (NHF), che rappresenta gli enti senza scopo di lucro, valuta che siano 85.000 le nuove abitazioni per cui si sono bloccati i progetti dopo la perentoria eliminazione di Pickles del sistema di programmazione regionale.

Quello che preoccupa di più la NHF è chei tagli di 450 milioni di sterline alla governativa Homes and Communities Agency fanno intravedere un riduzione del 40% al bilancio per i prossimi anni. La federazione traduce tutto questo in 284.000 posti di lavoro in meno, fra persi e non creati, mezzo milione in più nelle liste d’attesa.

Gli investimenti governativi per la casa avrebbero comunque subito un taglio, indipendentemente dallo schieramento vincitore delle elezioni. Ma perché agire con tanta ideologica fretta, spinti da un viscerale disgusto per tutto quanto riguarda i programmi per la casa, la dimensione regionale, e a quanto pare anche la stessa pianificazione urbanistica? Costruire un simile contesto di incertezza non solo mette a repentaglio posti di lavoro, redditi, sistema di finanziamento delle costruzioni, ma anche le speranze di chi cerca casa.

La pianificazione ha sempre funzionato in Gran Bretagna. Con le green belt, con la cura e salvaguardia delle nostre città grandi e piccole, in genere siamo sempre riusciti ad evitare lo sprawl sul modello del nord America. O quasi. In epoca Thatcheriana, uno dei predecessori di Pickles si è divertito a minare il sistema, consentendo quell’ondata di centri commerciali extraurbani che ancora oggi degrada le campagne. Significa questo, lo “smantellamento”. Non è una bella cosa, comunque lo si voglia presentare.

Nota: su Mall_int naturalmente English version e nella varie cartelle del sito in italiano molti altri contributi sul dibattito britannico e internazionale (f.b.)

Noi dobbiamo combattere con tutte le nostre forze contro la smania di far correre di più la gente, che ci assilla nella politica dei trasporti terrestri, e che si manifesta, ad esempio, con la tendenza assolutamente antieconomica delle ferrovie a prediligere treni sempre più rapidi. Spesso per far guadagnare ai convogli una mezz’ora di tempo su una percorrenza di otto ore, si spendono somme che non hanno alcun rendimento adeguato, quando si pensi che, con la congestione del traffico cittadino, il guadagno ottenuto con la maggiore velocità dei treni, viene perduto con la lentezza del traffico per andare alla stazione, e viceversa.

Lo stesso si può dire per le autostrade, dove si stanno immobilizzando decine, a volte centinaia di miliardi, in opere che poi costano moltissimo per la manutenzione, che sono adoperate con coefficienti molto al di sotto della loro portata normale, e che in qualche settore potrebbero essere anche rimandate, se si fosse proceduto ad un riassetto delle vecchie strade nazionali parallele, con qualche anello di circonvallazione, per evitare l’attraversamento di grossi centri abitati.

Io ritengo che, per invogliare il turismo, sarebbe stato meglio spostare alcune decine di miliardi di spese della costruzione di autostrade, inutili doppioni di ottime strade nazionali, alla conservazione del nostro patrimonio artistico, alla valorizzazione delle opere d’arte e di archeologia, che restano ignorate per mancanza di adeguata esposizione, o che vanno deteriorandosi per mancanza di personale e di mezzi adeguati. Sono di ieri le discussioni sulla mancanza di controllo nei musei, sulla impossibilità di mettere in mostra centinaia di opere d’arte nascoste nelle cantine dei musei, e sono dovunque note le difficoltà che si incontrano per effettuare scavi o ricerche in zone che potrebbero mettere in luce ricchezze archeologiche di enorme valore, che invoglierebbero i turisti assai di più di qualche cinquantina di chilometri di autostrada, che nei giorni festivi si percorrerebbero più rapidamente a piedi che in macchina.

Oggi, con il titolo "Trasporti e turismo" anche in: E.Corbino, Cronache economiche e politiche, III, Napoli, 1965, pp. 780-83) .

Postilla

Mi chiedo che cosa direbbe oggi il Corbino, e qualunque liberale vero, a proposito delle ultimissime esternazioni - per restare nella sua terra - di Raffaele Lombardo sull’alta velocità in Sicilia o anche, proprio a due passi dalla sua Augusta, a proposito di un’autostrada, la Siracusa-Catania, il cui tracciato fa guadagnare, secondo stime autorevoli, non più di un minuto di tempo rispetto a quello della strada statale esistente, se riadattato secondo l’iniziale progetto dell’Anas! (g. p.)

Il caso Ikea a La Loggia, nell’hinterland torinese, viene affrontato da alcuni giornali nazionali mettendo in ombra ciò che lo ha provocato e cioè la questione del consumo di territorio agricolo. Si commenta – e si protesta a fianco di Ikea – come se davvero l’Italia pigra, burocratica e clientelare avesse ostacolato un’occasione pulita e dinamica di nuovo sviluppo. Non è così. Qualunque cosa si pensi del territorio italiano, e innanzitutto padano, si deve prendere atto con rispetto che qui, forse per la prima volta, una Provincia intesa come governo di scala vasta, più forte e autorevole dei singoli comuni, ha detto no alla cementificazionedi un’area agricola, e lo ha fatto in coerenza con un Piano Generale. Sta diventando un caso pilota.

Dopo la decisione di Ikea di sospendere il progetto, il presidente della Provincia respinge al mittente le accuse mosse dalla multinazionale svedese. “Se proviamo a capire i motivi dell’ostinazione con cui Ikea Italia indica nel suo ultimatum quella di La Loggia come unica localizzazione possibileper un secondo punto vendita in Piemonte - ha affermato il presidente della Provincia, Antonio Saitta -ci rendiamo facilmente conto che l’area agricola prescelta con il cambio di destinazione urbanistica acquisterebbe un valore di almeno 20 milioni di euro e Ikea realizzerebbe immediatamente una plusvalenza enorme. In questo modo tutti possiamo essere abili a fare gli imprenditori”.

La decisione della Provincia di Torino ha ricevuto l’appoggio della Coldiretti e delle associazioni ambientalisteche si sono schierate a difesa del suolo agricolo. «Apprezziamo il parere negativo che la Giunta provinciale ha espresso rispetto all’ennesima trasformazione da agricola a commerciale – ha dichiarato la Coldiretti Torino -. Per i coltivatori, il giorno 22 luglio 2011 sarà una data da ricordare. Finalmente una istituzione come la Provincia ha il coraggio di fermare l’indiscriminata espansione commerciale e industriale a danno di terreni agricoli”.

“Grande dimostrazione di coerenza, sul consumo di suolo si è passati dalle parole ai fatti” è stato il commento di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta. In un comunicato, l’associazione ambientalista fornisce alcuni dati sul consumo di suolo nel territorio provinciale: “La provincia di Torino – scrive Legambiente - in questo ultimo ventennio ha subito un consumo di suolo che davvero lascia senza parole (7500 ettari dall’88 al 2006); tali dati dovrebbero frenarci e farci riflettere prima di divorare altri pezzi di verde. Bene quindi che alle buone intenzioni dichiarate nel Piano Territoriale di Coordinamento (Ptc) siano accompagnati fatti concreti e non dannose deroghe”. Non mancano le superfici già urbanizzate e abbandonate dove si potrebbe pensare di fare la sede nuova Ikea. Chiaro, farne su suolo agricolo è più semplice e molto meno costoso. Ma non è quello che ci aspettiamo… dall’Ikea .

Per fortuna in rete si stanno formando gruppi di discussione e appoggio, come su Facebooke Causes

postilla

Forse è il caso di sottolineare, un po' più di quanto non faccia l'articolo, che la vera rilevanza del caso è la dimensione provinciale assunta dal tentativo di governare l'insediamento dello scatolone multinazionale.

Sono diversi lustri che chiunque affronti con un minimo di sistematicità il problema della grande distribuzione sul territorio prima o poi si trova a confrontarsi col classico squilibrio fra le dimensioni dei bacini regionali di riferimento degli operatori, e lo spazio di decisione praticabile dalla pubblica amministrazione che vorrebbe almeno provare a metabolizzarne un po' l'invasione.

Di questi tempi si urla tanto all'abolizione delle Province per "tagliare i costi della politica", e spesso, quasi sempre ahimè, si sorvola allegramente sul fatto che se l'ente territoriale intermedio esiste, di solito ha qualche ragione per farlo, e abolirlo tout court (ovvero senza pensare un istante a chi e come debba assumerne le competenze) lascia come minimo un vuoto.

Ecco: confrontarsi più o meno alla pari con un bacino di utenza commerciale della grande distribuzione è uno di questi potenziali importanti ruoli della Provincia, o di qualunque entità operi a quella scala. Se poi invece non si vuole o non si può farlo (perché ad esempio limitati nelle competenze, ma di solito per carenze culturali o poca volontà) è un'altra storia.

Però se pensiamo a tutte le questioni ambientali, infrastrutturali, insediative, socioeconomiche e via dicendo, poste dall'intreccio col territorio locale di questi giganti. E le mettiamo a confronto con la realtà un po' misera del solito scontro nimby senza sbocco fra piccolo e grande commercio, o cittadino abitante e cittadino consumatore, allora il ruolo di un governo sovracomunale inizia ad emergere, e si può ragionare. Magari litigare, ma ragionare, il che non guasta (f.b.)

Pier Luigi Bersani ha una passione: le autostrade. Una in particolare, la Nuova Romea, tanto da essere sponsor del progetto che proprio oggi potrebbe ricevere il via libera del Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica). Nuova Romea è soltanto il primo tratto di una delle più faraoniche maxi opere italiane, la Mestre-Civitavecchia: 5 regioni attraversate, circa 400 chilometri di percorso (di cui 139 su ponti e viadotti), 147 sovrappassi, 268 sottovie, 17 nuovi svincoli e l’adeguamento di altri 55. Costo: 9,8 miliardi, di cui 1,4 a carico dello Stato (senza contare la concessione garantita ai privati per 49 anni). Un’opera che per alcuni è un sogno, ma che per decine di comitati sparsi in mezza Italia somiglia a un incubo: “Corre alle porte della Laguna di Venezia, poi taglia il Delta del Po e le Valli di Comacchio, poi la Romagna, quindi passa a pochi chilometri da un tesoro come la Val Marecchia cantata da Tonino Guerra. Quindi eccola nell’alta Toscana ancora incontaminata, nel cuore dell’Umbria, fino a Orte. Forse Civitavecchia”, raccontano i Cat, Comitati Ambiente e Territorio del Veneto.

Ma Bersani non ha dubbi, tanto da esser stato presidente dell’associazione che spinge per la realizzazione dell’autostrada. Di più: nel 2008 ha presentato un’interrogazione parlamentare che in alcuni passi sembra presa con il taglia-incolla dal dossier della Fondazione Nord Est di Confindustria, intere frasi sono uguali, perfino le virgole: “Considerati gli impegni assunti, visti i ritardi oggettivi rispetto alla fase esecutiva dell'opera in oggetto, considerati i crescenti eventi luttuosi che costellano la percorrenza su quest'importante asse stradale, chiediamo se il governo non intenda adottare ogni iniziativa utile a reperire le risorse necessarie per il finanziamento della Nuova Romea”, chiede il segretario Pd.

Ma perché è tanto favorevole al progetto? “La vecchia Romea detiene il primato in materia di incidenti mortali. Il tasso di mortalità è di 97,22 morti ogni mille incidenti, l'indice di gravità è pari a 52,51 morti ogni mille infortunati. Negli ultimi cinque anni si contano 5.950 feriti e 37 persone che hanno perso la vita. È la strada più pericolosa d'Italia”.

Vero. MA tra i comitati veneti contrari all’autostrada più d’uno storce il naso: “Non si capisce se si tratti di una spiegazione o di un alibi. È vero, l’attuale percorso della Romea è pericoloso, troppo, vanno adottate soluzioni definitive. Ma spendendo 10 miliardi il problema della sicurezza stradale potrebbe essere risolto in tutta Italia, non soltanto sul percorso della Romea. Perché invece si vuole costruire un’autostrada che attraversa sei regioni?”. Intanto il progetto della Mestre-Civitavecchia corre, anche perché nessuno si oppone. Tutti scendono in campo, fino ai massimi livelli. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante una sua visita a Venezia aveva chiaramente appoggiato la Nuova Romea: “Pare anche a me incontestabile l'importanza – in una visione unitaria responsabile delle priorità da osservare e delle scelte da compiere sul piano nazionale, in materia di grandi opere e di trasporti – del corridoio autostradale Civitavecchia-Venezia come naturale integrazione del corridoio europeo numero 5 da Lisbona a Kiev. Il progetto, anche come project financing, che è stato apprestato, merita una tempestiva valutazione di impatto ambientale, cui consegua senza indugio un avvio dei lavori”.

Come ricorda Il Sole 24 Ore, il progetto è firmato Vito Bonsignore, alla guida di una cordata (in testa ci sono Gefip Holding, Mec Srl, Ili Spa). Bonsignore è eurodeputato Pdl, noto per la sua fortuna imprenditoriale, ma anche per una condanna a due anni (per gli appalti dell’ospedale di Asti). Il suo nome poi ricorreva nelle intercettazioni Antonveneta, una in particolare tra Massimo D’Alema e Giovanni Consorte (numero uno di Unipol, travolto dallo scandalo). Consorte confida a D’Alema la speranza di attirare Bonsignore dalla sua parte. D’Alema: “Ho parlato con Bonsignore… Evidentemente è interessato a latere in un tavolo politico”. Consorte: “Chiaro, nessuno fa niente per niente”. Ma questa è un’altra storia.

Appaiono davvero notevoli le dichiarazioni del governatore della Liguria Claudio Burlando (ex ministro dei Trasporti) che ha sostenuto sui media che l’Alta Velocità Torino-Lione non serve a niente e costa carissima, mentre è essenziale la linea Genova-Milano. In realtà, questa è nota come “terzo valico”, per ricordare che ce ne sono già due su quell’asse, assai poco utilizzati, e pubblicamente dichiarato inutile dall’ad delle Ferrovie Mauro Moretti solo pochi anni fa. Come ha fatto a diventare essenziale tutt’a un tratto? L’ex governatrice del Piemonte Bresso e il governatore attuale Cota, insieme all’ex sindaco di Torino Chiamparino e all’attuale Fassino han sempre assicurato che è vero il contrario e che l’AV Torino-Lione è l’opera più utile che si possa fare. Son tutte persone d’onore, ma chi ha ragione?
La disputa ha anche precedenti illustri: sul “Riformista” due anni fa ci fu un vivacissimo dibattito tra il governatore del Veneto e l’assessore campano ai trasporti Cascetta (professore assai noto nel settore dei trasporti) sui meriti relativi dell’AV veneta e di quella Napoli-Bari. E a proposito della linea AV veneta ancora recentemente (Boitani, Il Sole 24 Ore) alcuni “capitani coraggiosi” di quella regione si offrirono di costruirla a loro spese, certo purché fosse garantito un adeguato ritorno ai loro investimenti (senza precisare da chi ma, chissà perché, sospettiamo che pensassero allo Stato).
Come spiegare questa imbarazzante e “bipartisan” perdita del senso del ridicolo? La motivazione potrebbe essere semplice: si tratta di opere di dubbia utilità, tanto che se gli utenti dovessero pagare con le tariffe una parte non simbolica dei costi di investimento, si scioglierebbero come neve al sole ben prima di essere cementate. Allora devono essere interamente finanziate dalle casse pubbliche, e si tratta di cifre rilevantissime: accaparrarsi una bella fetta dei pochi soldi pubblici in palio fa gola a tutti. Dulcis in fundo, la concorrenza funziona pochissimo in questo settore, per cui una quota consistente dei sub appalti finisce ad imprese locali, che spesso poi manifestano gratitudine ai decisori politici di riferimento (anche in modo lecito, si intende). La funzionalità dell’opera non è davvero in cima all’agenda dei decisori, che nella più parte dei casi inaugureranno i cantieri, ma non ne vedranno la conclusione, essendo i tempi di realizzazione mediamente nell’ordine dei dieci anni. Queste opere tuttavia potranno collegarci ad Alta Velocità ad un importante paese europeo: la Grecia, dove le spese infrastrutturali per le Olimpiadi hanno contribuito non poco allo sfascio dei conti pubblici.

Si scoprono colori, suoni e profumi del paesaggio lombardo. Si viaggia da Nord a Sud, dalla montagna alla pianura, passando per la collina. Circumnavigando i laghi e costeggiando i fiumi. Niente auto, moto, camion. Solo due ruote, pedali e sudore lungo i 2.439 chilometri di piste ciclabili che si snodano dalla Valtellina al Po, dal Ticino al Mincio, dal lago di Varese al Garda. Una rete di strisce d’asfalto ma anche di tratti sterrati, sicuri e protetti. Un paradiso per chi vuole stare all’aria aperta, godersi il sole, cercare un po’ di benessere, ammirare borghi storici e artistici di una Lombardia nascosta, rilassarsi nel verde. Fuori dalle città, lungo le ciclabili delle dodici province si incrociano tutte le età. Coppie, amici e famiglie. Operai, casalinghe, manager e imprenditori.

Un popolo in crescita, per lo più soggetti metropolitani, che macinano chilometri con la bici sportiva, o la mountain bike. In Valtellina, lungo i 97 km del tracciato che parte da Grosio e scende fino a Colico, sul lago di Como. Da dividere in due tappe, con tanto di pernottamento in valle, per chi non è sufficientemente allenato. Chi ha buone gambe può cimentarsi anche con le salite del Bergamasco: tappe da non perdere in Val Brembana (20 km da Zogno a Piazza Brembana), in un paesaggio mozzafiato di gallerie, ponti, saliscendi. Da non perdere anche il percorso della Valganna (17 km da Ponte Tresa a Miniera di Valsassera) nel Varesotto, lungo l’antica via di pellegrini, re e mercenari. Si pedala per passione, per turismo, per passatempo lungo l’anello del lago di Varese, 28 km con partenza e arrivo a Gavirate. Oppure lungo corsi d’acqua e canali. A cominciare dall’ Adda, 29,3 km da Garlate (Lc) a Trezzo d’Adda (Mi): un itinerario dal retrogusto manzoniano, uno spettacolare corridoio verde con canyon, ponti e i resti dei castelli di Brivio, Trezzo, Cassano, che si annoda poi con la pista della Martesana, che arriva fino a Milano.

Gli innamorati delle due ruote non possono rinunciare al Ticino e al Naviglio Grande, 73 km da Sesto Calende a Milano, con un paesaggio che racconta tanta storia di Lombardia. Come i 33 km della ciclabile del Naviglio Pavese, con una deviazione irrinunciabile verso la Certosa di Pavia. Due percorsi meritano, infine, una citazione: la ciclabile del Parco delle Groane, 20,8 km da Lazzate e Bollate; e la Peschiera del Garda-Mantova, 43,5 km, dove un’atmosfera rinascimentale si sposa con l’anima più vera della Pianura Padana.

postilla

In questa rassegna delle bellezze lombarde e del modo più intelligente per godersele, c’è un passaggio (giusto alla fine del penultimo paragrafo) che a modo suo apre e frettolosamente richiude il vero cuore di tenebra della faccenda: sono anni e anni che abbiamo fatto trenta, ma il trentuno no, quello mai! Nel senso che, quando dalle vertigini sportive e turistiche si passa alla vita normale cominciano i dolori. E dolori non tanto dovuti all’ovvia ripresa del tran tran quotidiano, ma alla scomparsa da sotto il sedere del ciclista di quel percorso che sin lì l’aveva guidato tra fiumi valli e monumenti. C’è davvero da chiedersi il perché, di questa relativa rarefazione infrastrutturale proprio quando invece tutte le altre reti improvvisamente si infittiscono e integrano.

L’architetto Jan Gehl, vero e proprio guru internazionale in materia di progettazione di sistemi integrati di mobilità dolce locale coordinati alle reti più tradizionali, nel suo ultimo Cities for People (Island Press, 2010) osserva sulla scorta delle infinite consulenze in materia come esista un criterio infallibile per valutare la civiltà – un assessore in campagna elettorale direbbe “misura d’uomo” – di un insediamento urbano moderno. Un criterio semplice e pratico, lo possiamo usare tutti mettendoci in un momento qualunque a osservare i ciclisti che passano: la civiltà cresce man mano diminuisce la percentuale dei maschi giovani con mezzo high-tech e tutine fosforescenti, e aumenta quella di donne, bambini, anziani con zainetti e borse della spesa.

Perché succeda questo, ovviamente, oltre a buona volontà e spirito di adattamento ci vogliono un minimo di infrastrutture e organizzazione. E invece?

Invece, ad esempio (solo per farne uno) proprio dove il percorso turistico “si annoda poi con la pista della Martesana, che arriva fino a Milano”, e iniziano a comparire vistose strade, quartieri a organizzazione fortemente automobilistica, barriere, ferrovie, tangenziali, le stazioni della MM2 … la pista ciclabile resta più o meno identica al percorso che si stava seguendo dai paesaggi manzoniani dell’addio ai monti parecchi chilometri prima. Vietato svoltare di qui o di là, salvo nei centri storici dove qualche piccola zona pedonale e comunque il traffico scoraggiato dalle stradine aiutano da soli. Vietato portarsi la bici in metropolitana, per i soliti ostacoli burocratici cretini, che però nessuno affronta MAI. Poi, superati nei soliti cunicoli un po’ puzzolenti gli svincoli autostradali, l’ex percorso turistico entra in Milano. E qui, parafrasando il mitico Peppino, “ho detto tutto”. Posso solo richiamare la vicenda del piano cosiddetto Grande Gronda, sperando che magari i feroci comunisti della giunta Pisapia, o qualcun altro, provino un po’ a far diminuire quella percentuale di ciclisti testosteronici che malgrado loro sono sicuro indice di inciviltà (f.b.)

Le manifestazioni in Val di Susa hanno provocato molti mal di pancia e qualche ripensamento, ma in compenso hanno dato fiato all’esercito dei benpensanti. "Benpensanti" sono quelli che non pensano, convinti come sono che qualcuno deve pur averlo fatto per loro, e perciò sposano all’istante qualsiasi banalità, purché abbia l’aria "rispettabile" e "condivisa", e sia comunque ready made, per non perder tempo e passare ad altro.

In Val di Susa c’è chi vuole a ogni prezzo la Tav, c’è chi non la vuole a nessun costo, e c’è chi vuol capire meglio, chiede informazioni e garanzie, contesta dati e analisi con altri dati e altre analisi. C’è chi si chiede come mai il sito archeologico della Maddalena di Chiomonte sia recintato e danneggiato dalle ruspe, mentre intanto Arcus (una Spa "di Stato" controllata dal ministero dei Beni Culturali) ha concesso al comune di Chiomonte ben 800.000 euro per un sito che la Tav potrebbe distruggere.

Alcune decine di migliaia di persone hanno manifestato pacificamente intorno a un’area presidiata militarmente; pochissimi hanno ingaggiato scontri con la polizia. Il coro dei benpensanti, al grido di "no alla violenza!" ne ha dedotto che chi vuole la Tav ha sempre e comunque ragione. Un solo esempio, Bersani : «Non possiamo accettare l’idea che il processo decisionale venga bloccato da frange violente. Quello che è successo in Val di Susa è spiacevolissimo ma non si possono fermare i cantieri».

Proviamo ad applicare lo stesso modello a un altro caso.

Poniamo che si svolga a Roma una manifestazione contro i conflitti d’interesse e le bugie di Berlusconi; e che, su centomila manifestanti, venti o cinquanta rovescino una camionetta della polizia e tirino sulle vetrine qualche sanpietrino. Se ne dovrà dedurre che il conflitto d’interessi di Berlusconi è santo e giusto, l’essenza stessa della democrazia? Dovremo aspettarci dichiarazioni del tipo «Non possiamo accettare l’idea che il conflitto d’interesse venga bloccato da frange violente», con quel che segue? Le "frange violente" autorizzano a non pensare, spostano l’attenzione dal cuore del problema (il conflitto d’interesse, la Tav) al margine: la frangia, appunto, anzi la violenza. Di riflesso, si discute animatamente su quanti fossero davvero i manifestanti, su quanti davvero abbiano commesso una qualche violenza, e quale; se vi fossero davvero dei feriti, e quanti, e come. Su tutto, insomma, meno che sulle ragioni civili della protesta. Che restano identiche (se e quando ci sono) anche quando qualcuno le rappresenti in modo improprio, violento (o anche stupido e disinformato: anche questo può succedere).

Lasceremo in mano ai "benpensanti" le regole del gioco? Quanto si può alzare la voce in un corteo, che cosa si può scrivere negli striscioni, quanto ci si può avvicinare a una recinzione? Perché, invece, non riportare sulla scena le virtù civili dell’indignazione? Dobbiamo sperare solo nello sguardo profetico dei vecchi, José Saramago che pretende la parola "indignato" sulla propria pietra tombale, Stéphane Hessel che col suo grido Indignez-vous! scuote la Francia? I giovani italiani, indignati perché condannati dalla "macelleria sociale" in atto a scegliere fra disoccupazione e emigrazione, hanno diritto a un po’ di rabbia, almeno quanto gli indignados di Spagna? O la loro protesta sarà accettabile solo se edulcorata e mediata da un qualche partito? E perché i partiti non riescono (più) a farsene interpreti, e sanno solo esortare alla calma? Non sarà stata, invece, l’indignazione dei cittadini a vincere il referendum del 12 giugno?

Quel che è in ballo non è la Val di Susa, ma l’Italia. Non la Tav, ma la democrazia. Si scontrano, in questo come in altri casi, due culture: da un lato, quella di chi difende sempre e comunque i "processi decisionali", cioè gli addetti ai lavori, cioè i politici di mestiere, che non vogliono esser disturbati nelle loro manovre. Dall’altro, la cultura dei cittadini che non si rassegnano al ruolo di spettatori passivi, che vogliono capire in prima persona, che reclamano il diritto di dire la propria: insomma, la cultura delle associazioni spontanee che, ormai a migliaia, sorgono in tutta Italia, spesso per reazione a violenze estreme contro il territorio (come le 3000 pale eoliche che si vorrebbero imporre sui 4000 chilometri quadrati del Molise). Questa sfiducia nella politica dei politici ha un forte argomento in una legge elettorale iniqua (sperimentata "a sinistra" dalla Regione Toscana, e poi adottata "a destra" dal governo nazionale), che vieta all’elettore di scegliere per nome i propri rappresentanti, e irregimenta gli eletti al servizio di capi e partiti a cui devono tutto. Ma il movimento spontaneo dei cittadini può essere una grande occasione per la democrazia, innescando una più alta dimensione della politica non come mestiere ma come diritto di cittadinanza, dignità della polis, rivendicazione di eguaglianza. Non ripudiando i partiti, ma invitandoli a pensare, a ri-pensarsi.

La reazione difensiva dei politici (da destra a sinistra) non sorprende. "Lasciateci lavorare", essi dicono in sostanza: con l’implicazione perversa che i cittadini non possono e non devono interloquire nei "processi decisionali" se non ponendo disciplinatamente nell’urna schede predeterminate dagli apparati di partito. E quando dai cittadini vengono proteste e proposte (non sempre ingenue), anziché discuterle nel merito, il politico di mestiere tende a dichiarare con sufficienza che "ci vuol ben altro". Benpensantismo e benaltrismo sono fratelli siamesi: due modi di espropriare il cittadino dei propri diritti, di chiudersi nella stanza dei bottoni (e dei bottini) al grido di "Non parlate al manovratore". Perciò le "frange violente" fanno comodo: come si è visto lo scorso dicembre, quando le proteste degli studenti contro la riforma dell’università si infransero non per mancanza di ragioni e di energie, non per incapacità di argomentare, ma perché di fronte ad alcune violenze si compattò sull’istante un solido fronte di benpensanti, che (giustamente) ripudiavano la violenza e (sbagliando) accantonavano senza discuterle le ragioni civili della protesta. Quei moti studenteschi, i primi di un qualche rilievo dopo decenni, coincisero (lo abbiamo già dimenticato?) con un momento di grande difficoltà di Berlusconi, si incrociarono con la sua campagna acquisti per conquistare il voto di fiducia svendendo la residua dignità del Parlamento. Potevano, senza le violenze e senza la retorica dell’antiviolenza che seppellisce le ragioni di chi protesta, contribuire a una caduta che non ci fu. E siamo proprio sicuri, sette mesi dopo, che sia stato meglio così?

«Un tram chiamato disastro» , «un treno fantasma» , «vagoni che portano al nulla» . Il progetto lanciato nel 2002 per attraversare la Città Santa su rotaie ancora una volta resta tale: il debutto previsto per il 19 agosto è stato rimandato di «qualche settimana o mese, almeno fino a dopo l’estate» . E le polemiche, puntualmente, sono riesplose sui media israeliani insieme ai titoli velenosi. Finiti i lavori che hanno disturbato un po’ tutti, molti abitanti si sono intanto rassegnati a quei vagoni argento con scritte luminose in ebraico, arabo e inglese, che a orari regolari passano per Gerusalemme. Tutti assolutamente vuoti. «Va avanti così da mesi, circola come se fosse in servizio ma con nessuno a bordo — commenta il proprietario di una libreria su Jaffa Road mentre il tram modernissimo e lucido passa per la via— Una cosa ben poco logica, ma non è certo l’unica di questi tempi» .

La logica dell’ennesimo ritardo — spiega Shmuel Elgrabli, portavoce della società pubblica Jtmt partner del progetto CityPass — sta in alcune questioni legali da risolvere con i nostri soci privati. Ma ci vuole pazienza, come per far nascere un bimbo» , anche se l’attesa è già stata di nove anni, non mesi. E aggiunge: «È un progetto enorme e poi Israele non ha esperienza sul fronte di treni e rotaie, non vi ha mai investito finora: forse perché alla generazione dell’Olocausto evocavano ricordi terribili» . Al di là delle questioni legali — l’investimento è ingente: 1,2 miliardi di dollari — il tram fantasma è oggetto di altre polemiche. Il percorso parte dal memoriale dello Yad Vashem, passa per il centro, davanti alle mura della Città Vecchia, poi punta a settentrione. Tagliando la Linea Verde che separa la Gerusalemme Ovest da quella Est, fino a Pisgat Ze’ev, considerato dai palestinesi un insediamento ebraico illegale. L’Autorità Nazionale Palestinese ha infatti definito il trenino parte dell’ «espansione criminale» di Israele nel suo territorio.

Oltre 170 Ong palestinesi hanno lanciato una campagna perché i partner francesi Alstom e Veolia abbandonassero il progetto e un’associazione franco-palestinese li ha perfino denunciati a Nanterre, perdendo però la causa pochi giorni fa. Le due società hanno intanto ridotto le partecipazioni, «ma solo per ragioni finanziarie» . E il contenzioso politico ha così causato, in sostanza, solo ulteriori ritardi. «Proteste inutili, il tram creerà una rete di comunicazione per tutti, indipendentemente dalla loro religione» , ha tagliato corto il sindaco della città, Nir Barkat, alle prese intanto con una questione di precedenza ai semafori per la nuova linea, banale ma a quanto pare fondamentale. Ma anche tra gli israeliani molti sono contrari.

Per problemi di sicurezza: con tutte quelle porte che si aprono insieme quali garanzie ci saranno che non salga un terrorista? Pollice verso pure dagli ecologisti, per i molti alberi abbattuti, e da chi ritiene «quel proiettile d’acciaio» uno spregio a questa città antica e bellissima. E infine c’è la questione dei «vagoni kosher» , ovvero riservati alle donne come chiedono con insistenza gli haredim, gli ebrei ultraortodossi che vivono soprattutto qui. Per il momento la richiesta non è stata accolta, ma le femministe e i laici sono comunque sul sentiero di guerra: «Accettare una simile idea sarebbe un chiaro invito a presentare innumerevoli altre domande di segregazione tra sessi, ognuna più estrema e selvaggia della precedente — ha scritto Tali Farkash su Ynet — Dobbiamo essere sicuri che il “ treno della segregazione” degli zeloti si fermi qui» .

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