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È una grande opera sui generis la galleria Val di Sambro della Variante di Valico sul tratto appenninico dell’Autostrada del Sole tra Firenze e Bologna. A differenza delle altre infrastrutture rimaste quasi tutte al palo, questa sta andando avanti e secondo i piani ufficiali dovrebbe essere pronta nel 2013. Sono già stati bucati 3 chilometri su un tracciato complessivo di 3 chilometri e 800 metri, ma per una volta tanto e paradossalmente, forse sarebbe meglio che i lavori si fermassero. Per un motivo semplice: secondo molti esperti, tecnici e geologi, il tracciato scelto è sbagliato e quel tunnel potrebbe diventare più dannoso che utile, probabilmente inutilizzabile nel giro di pochi anni. E non tanto perché lo scavo sta trasformando le frazioni di Ripoli di Sotto e Santa Maria Maddalena nel comune di San Benedetto Val di Sambro in paesi fantasma, da cui gli abitanti devono fuggire perché le case in cui hanno vissuto per decenni, minacciate dalle crepe, stanno diventando pericolose.

C’è un problema più grosso e più serio che riguarda tutti. C’è il rischio molto concreto che quella galleria che costa circa 200 milioni di euro diventi inutile. Chiariamo subito: a differenza di tante altre grandi opere, la Variante di valico è necessaria perché il tracciato attuale dell’Autosole è insufficiente, spesso intasato e siccome si inerpica a quote notevoli, quando nevica i camion e le auto spesso scivolano e si piantano di traverso e l’Italia viene spaccata in due. La galleria Val di Sambro corre a una quota più bassa, 300 metri circa. Su di essa di lato e dall’alto stanno premendo milioni e milioni di metri cubi di terra, una serie di frane gigantesche che già un tempo si erano mosse e che di nuovo si sono messe in movimento probabilmente proprio a causa dei lavori di scavo.

Gli esperti dicono che non ci sono ripari di fronte a fenomeni del genere, pensare di arrestare artificialmente tutta quella terra sarebbe come voler svuotare il mare col secchiello. Nonostante le sue misure notevoli, 16 metri di larghezza e 14 di altezza, la galleria al cospetto delle frane è come una canna al vento, non può fare a meno di muoversi. Secondo alcuni esperti se si andasse avanti con l’attuale tracciato c’è il rischio che il tunnel si sposti e nel giro di pochi anni non combaci più con il tracciato autostradale all’aperto. Cioè, c’è la possibilità che autostrada e galleria non siano più una il prolungamento dell’altra. A quel punto la galleria Val di Sambro sarebbe inutilizzabile, quel tratto autostradale diventerebbe impraticabile e l’Italia resterebbe spaccata in due non per qualche ora, ma in via definitiva e si dovrebbe rifare tutto.

Sono arrivati a questa conclusione, per esempio, tre professori dell’Università Federico II di Napoli, Luciano Picarelli, Antonio Santo e Carlo Viggiani, che hanno effettuato uno studio per conto della società di costruzioni di Carlo Toto che assieme a Vianini, Profacta e alla cooperativa Cmb ha preso in appalto i lavori del tunnel da Autostrade della famiglia Benetton. Secondo i tre esperti c’è “l’elevata probabilità, anzi, a nostro parere la certezza, che entro pochi anni il tronco autostradale subirà danni non irrilevanti e incontrerà problemi di esercizio”. E non ci sono rimedi perché “qualunque soluzione non porterebbe comunque all’arresto immediato dei movimenti” e quindi gli eventuali interventi “non porterebbero a una soluzione radicale del problema”.

La società Autostrade, però, è di avviso completamente opposto, non prende neanche in considerazione il rischio. In una nota al Fatto i tecnici della società dei Benetton ammettono che “quando si scava una galleria in terreni come quelli sull’Appennino tosco-emiliano si mettono in moto movimenti molto lenti al contorno delle gallerie”. Ma aggiungono con sicurezza che “quando finisce lo scavo quei movimenti rallentano immediatamente e poi si fermano. Sono pertanto prive di fondamento le tesi che sostengono a breve l’inutilizzo delle gallerie, così come sono prive di fondamento le notizie che sostengono che il paese di Ripoli è in pericolo”.

Una posizione netta, sicuramente frutto di valutazioni ponderate, ma su cui autorevoli ambienti estranei alla società fanno gravare un sospetto: che Autostrade, il gruppo che finanzia l’opera, voglia assumersi a tutti i costi il rischio elevato della costruzione della galleria così da poter conteggiare gli investimenti effettuati nella partita degli aumenti delle tariffe autostradali in base alla convenzione ministeriale .

I dati forniti dagli inclinometri e dai monitoraggi consegnati al pubblico ministero Morena Plazzi, che ha avviato un’inchiesta sui lavori della galleria in cui ipotizza il reato di disastro colposo per il momento a carico di ignoti, e che Il Fatto ha potuto leggere, attestano uno spostamento eccezionale di quei terreni intorno allo scavo, in media un centimetro al mese negli ultimi tempi, secondo le rilevazioni del 7 settembre. C’è un precedente simile su quel tratto di autostrada e risale al 1969, appena 9 anni dopo l’inaugurazione dell’Autosole. La stessa frana che oggi si è rimessa in moto costrinse allora i tecnici ad abbandonare un pezzo del vecchio tracciato dopo aver costruito in fretta un bypass di 2 chilometri e mezzo, l’attuale variante Banzole-Ca’ Camillini. Italstrade, società dell’Iri allora proprietaria dell’autostrada inviò sul posto uno dei suoi dirigenti migliori, il condirettore centrale Dino Ricci. Il quale oggi abita proprio da quelle parti e ricorda: “Non avemmo un attimo di esitazione di fronte a una frana di quelle dimensioni e quindi avviammo subito i lavori del bypass. Oggi la situazione è esattamente come allora”.

Le grandi opere hanno tempi di realizzazione molto lunghi e vita tecnica lunghissima. Poi, per definizione, costano ciascuna botte di molti miliardi di euro (quando non decine di miliardi, soprattutto a consuntivo…). Lo Stato non ha certo più i soldi per finanziarle “pronta cassa”. Qui interviene allora il soccorso delle grandi banche, che, bontà loro, si precipitano a finanziarle. Ora, le banche sono intermediari, e guadagnano giustamente in percentuale di quanti soldi girano, e per quanto tempo girano. Poi, ancora giustamente, non vogliono correre rischi di perdere i soldi dei loro clienti, grandi e piccoli. Quindi se i ricavi da parte degli utenti sono pochi o rischiosi o nulli, lo Stato deve garantirli. Quale affare migliore, soprattutto quando sono in grandi difficoltà, di operazioni finanziarie di questo tipo? Da qui una pressione politica fortissima e un totale disinteresse sull’utilità, o anche solo la priorità di queste opere: più sono e più costano meglio è. Se si ripagheranno in tutto o in parte, come le autostrade o gli aeroporti, bene, ma se alla fine pagherà tutto lo Stato, come le opere ferroviarie, bene lo stesso. Meglio per l’immagine dell’opera se vi saranno meccanismi di “finanza creativa” che le metteranno formalmente a carico di imprese pubbliche, come Anas o Fs, con operazioni note come project financing, spesso di sola facciata.

Da qui il fortissimo conflitto di interessi “culturale”, se non necessariamente individuale, tra banchieri e scelte di investimento pubblico (ma come distinguere i due tipi di conflitto? La materia è appiccicosa, anche le banche sono grandi imprese nazionali che vanno aiutate, ecc.). Ai banchieri nelle nomine recenti di Monti andavano almeno affiancati tecnici di provata competenza e indipendenza.

Perché non bisogna dimenticare che un’opera inutile fa contenti quasi tutti: imprese di costruzione, banche, politici che le promuovono e regioni che la chiedono a gran voce (un patetico coro di polemiche è sorto recentemente tra Campania, Veneto, Liguria e Piemonte, al grido di “la mia opera è meno inutile della tua”, con annesse fumosità sui mirabolanti e irrinunciabili effetti di sviluppo di lungo termine, fantomatiche priorità e soldi europei, ecc.). L’opera inutile, o atrocemente sottoutilizzata come la Av Milano-Torino, non fa crescere l’economia come altri tipi di spesa, come le piccole opere e le manutenzioni, ma qui le banche non avrebbero alcun ruolo. Le grandi opere sono infatti “ad alta intensità di capitale” e proprio per questo le banche hanno un grande ruolo, mica come sistemare le strade rotte e pericolose, o migliorare i servizi per i pendolari (su ferro, bus e strada)...

Il fatto poi che gli utenti siano disposti a pagare l’infrastruttura per le strade e non per le ferrovie di lunga distanza dovrebbe far riflettere qualcuno sugli effetti di sviluppo dei due tipi di trasporto. Questo, si badi, non è un capriccio degli utenti, famiglie e industrie, ha solide ragioni funzionali e territoriali, su cui ora qui non possiamo dilungarci.

E la questione adesso è diventata gravissima, perché oggi buttare soldi pubblici sarebbe immensamente più colpevole che dieci anni fa, quando questi erano meno scarsi. Ma il Cipe si accinge serenamente a finanziare un’altra tranche del terzo valico ferroviario tra Milano e Genova, senza che neppure sia noto il piano finanziario dell’opera (cioè non è noto neppure il banalissimo rapporto costi-ricavi, per non parlare del rapporto costi-benefici sociali). Tra l’altro non è certo nemmeno che con i chiari di luna che ci sono, l’opera sarà mai finita (non c’è un meccanismo finanziario “blindato”, anzi, c’è la concreta possibilità che si aprano molti altri cantieri con la stessa logica, aumentando così il rischio di opere che non finiranno mai).

Questo “terzo valico ferroviario” costerà almeno 6 miliardi, e l’ing. Moretti, Ad di Fs, ha dichiarato più volte che è inutile, con qualche coraggio civile, essendo lui il recettore diretto di quei soldi. Una seria “spending review” delle grandi opere berlusconiane sembra davvero urgentissima.

L’economista Keynes diceva che in tempi di recessione sarebbe andato bene anche “scavar buche e riempirle”, perché gli operai avrebbero speso rapidamente i loro stipendi, rimettendo in moto l’economia. Ma certo a vedere questo, e altri, inutili buchi fatti quasi interamente a macchina sotto le montagne sarebbe certamente inorridito. Agli operai, che sono per nostra fortuna spendaccioni, infatti andranno solo le briciole, e in tempi lunghi.

Titolo originale: Are freeways doomed? Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Aiuto: arriva l’Autocalisse. Sono tantissime le città degli Usa che prevedono di chiudere definitivamente le freeway. E se si parla di riprendersi la città sottratta dalle auto, questo è davvero il guanto della sfida. La spinta a demolire le enormi freeway che secondo molti hanno provocato il degrado delle aree centrali fra gli anni ’60 e ’70 è una delle tendenze più vistose dei nuovi orientamenti urbani. Chi propone queste strategie lo fa sulla base di dati che mostrano quanto non sia affatto stravagante eliminare le superstrade urbane, che è possibile tornare a vie a misura d’uomo senza cadere nell’apocalisse dell’ingorgo. Può essere vero. Ma eliminare queste icone automobilistiche sembra proprio la premessa a ridisegnare radicalmente l’idea di città americana del XX secolo: la Vendetta del Pedone. Strettamente personale.

Che siamo preparati o no, la decisione incombe. Molte di queste strade sono state pensate per durare quaranta-cinquanta anni: dovranno rapidamente essere sistemate o totalmente reinventate. “Cosa succederà da qui a dieci anni, se vogliamo investire e evitare disastri come col ponte di Minneapolis?” si chiede John Renne, professore di studi urbani all’Università di New Orleans. Per alcune città, significa l’occasione unica e irripetibile di recuperare ampie superfici a spazio pubblico come si era da sempre sognato. C’è una associazione a St. Louis che si sta muovendo molto per eliminare una striscia di ottocento metri della Interstate 70, riunendo così il centro città al fiume Mississippi e al Gateway Arch di Eero Saarinen.

Si spera che spalancando questa “porta principale” come la chiamano, per la prima volta dal 1964, si inneschi un vero e proprio rinascimento di St. Louis nella sua zona più spopolata. A Trenton, New Jersey, ci sono obiettivi simili, con l’idea di convertire una strada a quattro corsie ungo il fiume Delaware in una sponda a verde e nuovi edifici. A New Orleans si sta attuando il nuovo piano regolatore dopo l’uragano Katrina, e tutto sembra possibile, come demolire la Claiborne Expressway, la superstrada che quando fu realizzata vari decenni or sono tagliò fuori diversi quartieri neri storici. Dovrebbe essere sostituita da un bel viale a riunire quei quartieri, espressione poetica di giustizia infrastrutturale.

Difficile descrivere la radicalità di proposte del genere. Ci sono pochissimi elementi di trasformazione urbana in grado di cambiare in un istante la città, come una freeway (costruita o demolita). Lo si è sperimentato a San Francisco nel 1991, quando ben prima dell’attuale tendenza demolitrice si è eliminata la Embarcadero Freeway a due livelli, danneggiata da un terremoto. Oggi l’area occupata dalla Embarcadero si è evoluta, da pericolosa terra di nessuno a sponda vivacissima e calamita di turisti. Andandoci oggi non si riesce proprio a immaginare quel posto percorso da un traffico di attraversamento su 16 corsie.

Adesso sono tante le città che vogliono fare un loro miracolo Embarcadero. Tony Ortiz abita a Crotona Park East, quartiere del Bronx reso famoso dalla visita del Presidente Carter alle macerie bruciacchiate negli anni ‘70. Ortiz ha 84 anni, capelli bianchi ma ex pugile incredibilmente arzillo, si è trasferito qui da Puerto Rico nel 1946, e ricorda bene com’era la vita prima della Sheridan Expressway. Marciapiedi “pieni di gente” racconta, davanti al suo edificio da sei piani a un isolato dalla superstrada. Insieme agli amici tirava di boxe nelle vie, e una volta ricorda ancora con orgoglio fece perdere del tutto i sensi a un avversario. Dopo la costruzione della Sheridan però, Ortiz rammenta solo degrado e la puzza degli incendi dolosi.

Oggi l’area, certo ancora molto povera, si è notevolmente ripresa. E l’amministrazione di New York sta studiando un progetto di demolizione della Sheridan, che scorre lungo il fiume Bronx davanti alla finestra di Ortiz, per sostituirla con un parco. Dove potrebbero stare piscine, campi da calcio, un centro ricreativo da 3.000 metri quadrati, e case simili a quelle spazzate via dalle ruspe nel 1958 per farci la freeway. Sarebbe uno straordinario ribaltamento della storia, per un’area quasi dimenticata. Ma basterò davvero levare la freeway per ridare vita alla zona? Probabilmente no. Perché anche se Ortiz accosta la costruzione della Sheridan al momento in cui dalla vivacità si è passati al degrado, la verità è che luoghi come Crotona Park East probabilmente sarebbero entrati comunque in crisi. Quartieri che quasi certamente sarebbero crollati sotto il peso dello spopolamento, della criminalità legata allo spaccio, superstrada o no, semplicemente comunità più deboli nei momenti difficili.

Però togliere le freeway, che non erano l’unico catalizzatore di declino, potrebbe comunque stimolare evoluzioni positive. Le città sono molto più reattive oggi di quanto non fossero negli anni ‘60. Nel 2011 ci sono molte più possibilità di rivitalizzazione: basta porre le premesse. Come potrebbe spiegare John Norquist, che da sindaco di Milwaukee ha gestito la demolizione della superstrada Park East nel 2002. Una struttura sopraelevata che rappresentava “la morte di qualunque immobile lì attorno” ricorda Norquist. Oggi gli sforzi concertati di attirare nuove attività sembrano finalmente dare frutti. Dopo una partenza faticosa, nell’area riqualificata ci sono oltre dieci ettari a parco, affaccio sull’acqua e molta attività commerciale. Il Manpower Group, agenzia per l’impiego, si è trasferito qui dalla sua sede centrale suburbana, e un percorso nel verde lungo il fiume collega la zona alla cosiddetta “Beerline” insediamento lineare residenziale per il ceto medio sull’ex tracciato ferroviario merci.

Ma la proposta di demolizione più audace è sicuramente quella di New Orleans, dove i gruppi e le associazioni lavorano al ripristino di un corridoio un tempo orgoglio commerciale della popolazione afroamericana. Claiborne Avenue, elegante viale famoso per le centinaia di alberi di quercia, una volta era l’arteria di negozi del quartiere Treme e di altre zone nere. Ma a fine anni ‘60, come al passaggio di un aratro invece del viale spuntò la Claiborne Expressway (se ne può ascoltare il suono minaccioso delle macchine da costruzione nelle scene dell’acido al cimitero di Easy Rider).

Il progetto per il corridoio Claiborne potrebbe ripristinare il viale più o meno com’era un tempo (salvo le querce), ricucire il tessuto stradale, e far crescere il commercio sulle fasce. Unificherebbe anche il quartiere che la freeway ha diviso, consentendo agli abitanti della zona nord di approfittare della vicinanza di quella sud al French Quarter. Per i timori di gentrification fears, John Renne non prevede arrivi in massa di persone agiate che posano scacciare gli abitanti attuali. “Se il ciclo di questo tipo di sostituzione sociale funziona come un pendolo, noi ci troviamo sicuramente all’altra estremità dell’oscillazione. Stiamo nella fase di degrado. Ce n’è parecchia di strada da fare prima di arrivare alla gentrification”. Dai sondaggi emerge che la città è molto favorevole al progetto, e gli esponenti delle associazioni devono coinvolgere di più il sindaco Mitch Landrieu. Lui sinora ha definito l’idea un potenziale “cambiamento di carte in tavola” ma non la sostiene ancora ufficialmente.

E che fine fanno con tutti questi grandiosi progetti i poveri pendolari costretti a muoversi in auto? Gli va benissimo, a quanto pare. Nel caso non abbiate frequentato una freeway urbana negli ultimi tempi, lasciate che ve lo spieghi io: non funzionano proprio come dovrebbero. Si deteriorano rapidamente, si intasano nei momenti sbagliati, sono pochissimo versatili quando sorgono dei problemi, basta un tamponamento e arrivano in ritardo in ufficio diecimila persone. In realtà, il segreto irriferibile delle superstrade urbane è che non riducono affatto il traffico, ma lo creano. Basta chiedere a un urbanista qualunque: più strade, più automobilisti. Gli studi mostrano che nella maggior parte dei casi eliminando una freeway si aggiungono al massimo pochi minuti al percorso. E quelle che oggi hanno i giorni contati sono comunque sottoutilizzate (quando sono andato in macchina nel Bronx per intervistare Tony Ortiz, la Sheridan era deserta a sufficienza per poterla attraversare a piedi). E poi lo stereotipo dell’automobilista contro l’utente del mezzo pubblico non esiste: una ricerca degli studenti di Renne ha rilevato come a New Orleans la stragrande maggioranza degli abitanti voglia disfarsi della Claiborne Expressway, compreso il 50% degli automobilisti che la usano regolarmente. “Non c’è nessuno che vorrebbe ricostruirla [la freeway]” a Milwaukee dopo che è stata tolta, racconta Norquist. Sbarazzarsene “ha anche fatto sparire per sempre l’idea di fare una circonvallazione a superstrada attorno al centro”.

Flusso di traffico migliorato, meno strade da mantenere, quartieri migliori, cosa si vuole di più? Ma la cosa divertente della freeway è che la gente ci si affeziona, anche quando fanno più male che bene. Gli studenti di Renne hanno rilevato una piccola quota di abitanti attorno alla Claiborne a cui piaceva, anche a gente che non la usa. Qualcuno teme la gentrification se la si togliesse. Altri hanno qualche tipo di legame emotivo con la sopraelevata: un signore era triste all’idea di dover smettere con la sua tradizione di fare le grigliate sotto i piloni.

Ma si tratta di eccezioni, anomalie. La maggior parte degli abitanti dei quartieri è convinta che demolire la freeway che ha sfondato il loro quartiere mezzo secolo fa raddrizzi un antico torto. Eliminare le freeway può spalancare le porte a nuove attività, offrire spazi per il verde là dove è più necessario, terreni su cui costruire case economiche, a volte recuperare aree di sponda di interesse anche turistico. A Seul, in Corea del Sud demolendo una sopraelevata si è anche recuperate il corso di un fiume tombato che attraversa la città. Sepolto sotto la strada da trent’anni, il Cheonggyecheon si è trasformato in uno degli spazi verdi più frequentati, e il sindaco che ha demolito la freeway riportandolo alla luce è diventato poi presidente con una valanga di consensi. Probabilmente perché anche così glie lettori arrivavano ai seggi senza alcun problema.

Non è facile recensire Il libro nero dell’Alta velocità di Ivan Cicconi, pubblicato prima on line dal fattoquotidiano.it   e poi in libreria da Koiné. Una critica possibile riguarda il ruolo degli ambientalisti nel progetto, nel complesso micidiale, e che Cicconi sfiora soltanto: sono gli ambientalisti che hanno contribuito, con grande giubilo dei costruttori, a passare da un modello “francese”, cioè di linee per soli passeggeri, a un molto più costoso modello di “alta capacità”, cioè che consentisse anche il passaggio di treni merci, molto più pesanti. In realtà, non solo i treni merci non hanno fretta, ma il fatto che i treni passeggeri di lunga distanza avrebbero viaggiato sulle nuove linee dell’Alta velocità avrebbe liberato le vecchie linee, lasciandovi una capacità che sarebbe bastata per le merci nei secoli futuri.

Cicconi non sembra neppure dar peso al ruolo che gli ambientalisti hanno avuto anche nella costosissima richiesta di stazioni in galleria per l’Av a Bologna prima, e a Firenze poi (“per motivi acustici...”), con quadruplicamento dei costi. Anche qui, certo i costruttori non hanno pianto. Ciò detto come critica, si possono solo aggiungere dei “cammei” che rafforzano ulteriormente la straordinaria analisi di Cicconi.

Per esempio, nel libro, l’autore ricorda il ruolo quasi eroico di oppositore del progetto avuto dall’allora ministro Andreatta: bene, posso aggiungere che Andreatta fu talmente orripilato dalla vicenda Av (e dalle sue connotazioni economiche) da dichiarare in una celebre intervista a Repubblica che “i politici che promuovono questi grandi investimenti sono interessati solo alle loro tangenti”. Chi scrive poi è stato coinvolto come tecnico in molte vicende dell’Av ricordate da Cicconi, e può solo confermarle o rafforzarle. Il primo Piano Generale dei Trasporti, nel quale assieme all’Ing. Beltrami fui responsabile della parte ferroviaria, promuoveva poche linee nuove da 250 km/h e il mantenimento sulla rete della tensione a 3000 volt (quella esistente, sufficiente per quella velocità ma non per i 300 km/h). Se quel piano non fosse finito in un cassetto, avremmo già da 10 anni una rete ferroviaria principale moderna e veloce, con un decimo dei costi dell’Av. L’avvocato Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie, mi chiese di valutare il complicato sistema di finanziamento. Io riferii che era tutto a carico del pubblico, anche se così non appariva. Necci mi disse che la cosa era nota a tutti i “giocatori”, ma dire che i privati pagavano il 60 per cento dell’opera era l’unico modo per ottenere i soldi pubblici necessari. Io diffusi poi questo risultato, ma senza alcuna conseguenza pratica, come ovvio, se non forse nella prima “esternazione” del ministro Burlando, che dichiarò appunto che in realtà non vi era alcun finanziamento privato.

Un’altra “valutazione”, che lo scrivente richiese a gran voce a Fs, riguardava l’analisi costi-benefici della linea Torino-Venezia: le distanze medie di percorrenza erano molto basse e per il traffico merci esisteva una linea un po’ tortuosa ma deserta, nota come “mediopadana”. Chiesi di confrontare i risultati di una linea nuova Av tra Torino e Venezia con la riqualificazione della mediopadana per le merci. Miracolo! Contro ogni ragionevole aspettativa l’analisi dava vincente la linea nuova Av. La ragione era semplice: non fu confrontata la riqualificazione della linea mediopadana, ma il suo totale rifacimento con standard di Alta velocità, assurdi per le merci. Più recentemente, quella linea ha avuto un’altra vicenda di valutazioni “imbarazzanti”: due anni fa fu presentato a Milano uno studio che dimostrava che la linea avrebbe generato enormi benefici alla collettività. Applausi da politici “bipartisan”, Confindustria e ferrovie. Peccato che lo studio conteneva una moltiplicazione errata, che sovrastimava di 10 volte certi benefici. Correggendo quel banale (ingenuo?) errore, i benefici sociali dell’opera diventavano clamorosamente negativi. La volontà politica di promuovere quell’investimento è passata, e passa, al di là di ogni verifica tecnica non “truccata” da interessi di parte, come documenta Cicconi. I fautori della “finanza creativa” non dormono: falliti i tentativi precedenti, ci provano adesso con una nuova formula, il “canone di disponibilità”. Fs è una Spa, quindi formalmente privata, anche se in realtà al 100 per cento pubblica (e già questa è una pericolosa anomalia).

Si finge che sia disposta a pagare come privato un onerosissimo “canone di disponibilità” annuo per una nuova linea con poco traffico (es. Torino-Lione, Napoli-Bari). Quel canone finanzia l’opera in modo sostanziale, e proviene formalmente da un soggetto privato, anzi, da un “utente”. Fs ci perde un sacco di soldi, che verranno poi ripianati dai contribuenti. Due note ottimistiche finali: non ci sono più soldi per costruire a costi folli opere di dubbia utilità e, sotto la minaccia di non costruire nulla, sembra che anche gli interessi costituiti si siano “rassegnati” a ridimensionare le spese, costruendo le opere per fasi, si spera in funzione della crescita del traffico. Per molte di queste opere verosimilmente ciò significa che sarà realizzata solo la prima fase, visto che le stime ufficiali di crescita del traffico sono assurdamente ottimistiche. Ma farsi illusioni in questo settore rimane pericoloso.

Titolo originale: How cycling set deprived Indian girls on a life-long journey – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Bihar è uno degli stati più poveri e popolosi dell’India, dove metà delle donne e un quarto degli uomini sono analfabeti, e il 90% dei 104 milioni di abitanti vive in zone rurali. Esistenza particolarmente difficile per le ragazze, e uno degli ostacoli principali alla loro realizzazione è quella cosa semplicissima dello spostamento necessario per andare a scuola. Per molte, troppo lungo, costoso, pericoloso. Ma proprio qui, nel poverissimo e rurale Bihar, si è trovata una soluzione a due ruote.

Tre anni fa il nuovo primo ministro statale Nitish Kumar ha adottato una “agenda di genere” impegnandosi a riequilibrare i ruoli sociali per indurre un po’ di sviluppo in quella che resta fra le aree più arretrate dell’India. L’idea era di favorire fra le giovani dello stato indipendenza, motivazione, e fra le iniziative di punta spicca il Mukhyamantri Balika Cycle Yojna,programma che assegna 2.000 rupie (una trentina di euro) per l’acquisto di una bicicletta. Con risultati sinora assai promettenti: in tre anni in Bihar sono 871.000 le studentesse saltate in sella grazie al progetto. I tassi di abbandono scolastico delle ragazze sono diminuiti, e le iscrizioni nelle scuole cresciute dalle 160.000 del 2006-2007 alle 490.000 di oggi.

Ragazze come Pinki Kumari (15 anni), del liceo di Desari, che si faceva 14 km al giorno. Poi tornata a casa doveva aiutare la mamma nelle faccende domestiche. “Era sfiancante, e frequentare la scuola una specie di rituale. Non avevo in pratica tempo per studiare”, ricorda Pinki. Il padre, Anil Sharma, elettricista, voleva che si sposasse in fretta. Ma fu costretto a rinunciare davanti alla determinazione della figlia di continuare a studiare, dopo aver ottenuto la sua bicicletta dal governo. Oggi Pinki per andare a scuola ci impiega 15 minuti, ed è piena di speranze per il futuro della famiglia.

Siamo andati poco tempo fa a visitare in Bihar la scuola del villaggio di Bumbuar, circondati da una schiera di fierissime ragazzine in bicicletta, ad ascoltare storie di grandi progressi, visto che dal varo del programma la frequenza delle femmine si è impennata del 90%. Nelle famiglie da cui provengono, come in tutto il resto del Bihar povero e rurale, le biciclette erano riservate ai genitori, o al massimo ai fratelli maggiori maschi. Oggi però che sono così tante a frequentare la scuola di Bumbuar regolarmente, non solo iniziano a saperne di più di tutte le materie di studio, ma cresce la fame di conoscenze e l’aspirazione a un futuro professionale migliore.

Una simpatica giovane ciclista con cui ci incontriamo ci conferma queste speranze di tutte le sue compagne di classe, quando racconta: “Ogni mattina non vedo l’ora di andare a scuola. Quando sarò più grande voglio andare all’università”. Un balzo in avanti nell’istruzione e aspirazioni delle ragazze del villaggio, che significa un vero e proprio nuovo mondo rispetto all’epoca dei loro genitori: sono solo quattro le mamme, su 70 studentesse, che sono arrivate alla licenza elementare. E ampliando l’orizzonte, lo stato di Bihar non è solo in questa iniziativa. Sono almeno quattro i governi indiani, dal Punjab a Tamil Nadu, che condividono l’idea del primo ministro Kumar e la stanno traducendo in realtà. Lui riassume schematicamente i suoi obiettivi: “Non c’è niente che mi dia più soddisfazione di un lavoro ben fatto, quando vedo un piccolo corteo di ragazze in sella alla bicicletta che vanno a scuola. É una affermazione di progresso sociale, di eguaglianza e di nuovo potere”.

Si è fermato il sogno americano

di Federico Rampini

Addio sogno di rifarsi una vita lasciando il gelo del Nord per approdare qui sulla West Coast. Basta con l’illusione che tutto sia possibile giù nella Sun Belt ("Cintura del Sole"), nell’Arizona o nel Nevada dalle mille opportunità. Gli americani hanno smesso di migrare, nel loro stesso paese. La mitica mobilità interna di questo popolo è crollata. «Siamo una nazione congelata», è la definizione che coniano gli esperti, sulla base degli ultimi dati del censimento. Eccoli qua, quei dati rielaborati dai ricercatori del Carsey Institute, per i tre Stati più tipici. Arizona, Florida, Nevada: per decenni furono le destinazioni di tanti americani decisi a "ripartire": nuovo lavoro, nuova casa, nuovi progetti.

Ebbene, l’Arizona che prima della crisi aveva un afflusso medio di centomila immigrati "domestici" (cioè americani) ogni anno, ora ne accoglie meno di cinquemila. La Florida è passata da oltre duecentomila arrivi annui, ad un saldo netto negativo: meno trentamila residenti. Il Nevada vedeva entrare in media cinquantamila nuovi abitanti all’anno, ora non arriva più nessuno.

Ci sono delle micro-eccezioni, come la Silicon Valley qui attorno a San Francisco, beneficiata dai buoni risultati di Apple, Google, Facebook, nonché dal recente boom di una nuova generazione di start-up legate a Internet, alle tecnologie verdi, alla biogenetica. Qui vicino, a Mountain View o a Cupertino, continuano ad arrivare giovani superlaureati in ingegneria, matematica, medicina. Ma sono piccoli numeri in un’oasi, forse anche una "bolla". La California nel suo insieme, invece, ha smesso di guadagnare popolazione da tempo. In parallelo, gli Stati del Nord-Est da dove si partiva in cerca di un futuro migliore, hanno visto crollare del 90% le loro uscite.

È la fine di un mito americano: le migrazioni interne hanno raggiunto il minimo storico da quando le autorità federali iniziarono a misurarle, cioè dalla seconda guerra mondiale. È uno degli effetti sconvolgenti della Grande Contrazione, la crisi eccezionalmente prolungata in cui ci troviamo dal 2008. Fino a quell’anno, l’America poteva vantare una superiorità su tutte le nazioni europee: la mobilità. Geografica e sociale. Perché le due cose sono strettamente connesse. Bisogna ricordarsi (o immaginarsi) un mondo in cui è facile "chiudere bottega" lì dove non hai avuto il successo sperato, vendere la casa con tutti i mobili, partire a qualche migliaio di chilometri e trapiantarti in un altro angolo del paese dove l’economia tira, ricominciare da zero: questa era l’America fino al 2007, l’ultimo anno prima del disastro. Era un mondo davvero diverso dall’Europa, grazie a tanti ingredienti.

Ricordiamoli. La flessibilità sul mercato del lavoro, dove non esiste differenza tra "precari e non": facile essere licenziati, facile ritrovare un posto. La fluidità del mercato immobiliare, dove si comprava e vendeva casa come si fa con l’automobile. Ovviamente, anche il fatto che gli Stati Uniti sono davvero "uniti": stessa lingua, stesse leggi (più o meno), pochissime barriere per inserirsi. Tutto questo era valido fino all’anno di grazia 2007. E faceva un oceano di differenza tra l’America e l’Europa: il Vecchio continente era per antonomasia il luogo di tutte le rigidità, i localismi, le barriere.

Ora quell’idea dell’America è stata spazzata via, sotto la pressione delle due principali manifestazioni della crisi. Da un lato si è paralizzato il mercato immobiliare: con cadute fino al 40% nel valore delle case, vendere significa impoverirsi, veder sfumare un bel pezzo dei propri risparmi. «Se nessuno può permettersi di vendere o comprare casa – osserva il demografo William Frey della Brookings Institution – la stagnazione è inevitabile». D’altro lato, ed è ancora più grave, c’è una disoccupazione stabilmente elevata, a livelli europei: è il 9% della forza lavoro in media negli Stati Uniti, se si contano solo i disoccupati ufficiali, ma sale fino al 15% effettivo se si includono gli "scoraggiati" che hanno smesso di cercare e quindi non figurano nelle statistiche, oppure hanno accettato lavori part-time insufficienti per mantenersi. Ancora più nuovo, rispetto alla tradizione americana, è il dato della disoccupazione giovanile salita ben oltre il 20%: un altro sintomo di "europeizzazione".

Questo ha effetti deprimenti sulla mobilità geografica, perché tipicamente i giovani erano i più disponibili a traversare l’America in cerca di una terra promessa, un Eldorado economico dove realizzare i propri sogni. Oggi, al contrario, fanno qualcosa di impensabile: restano, o tornano, in casa dei genitori. È il fenomeno dei "bamboccioni in America", recentissimo e sconvolgente. Sabato scorso il New York Times lo ha sbattuto in prima pagina, tanto è clamoroso – e traumatizzante – in una società dove l’addio dei giovani al focolaio dei genitori era un rito d’iniziazione molto precoce. Fino al 2007, in media ogni anno si formavano 1,3 milioni di nuovi nuclei familiari: giovani single, o giovani coppie che andavano ad abitare "altrove", quindi diventavano autonomi. L’anno scorso questo numero è sceso a 950.000, con una perdita netta del 30%. Ben 350.000 giovani americani hanno dovuto rinunciare all’indipendenza, e rassegnarsi a rimanere in casa dei genitori. Qui non li chiamano "bamboccioni", bensì "generazione boomerang": avevano lasciato casa per andare al college, ora tornano indietro.

E per forza: nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni solo il 74% ha un lavoro, un altro minimo storico. Il 14,2% dei giovani adulti è costretto a vivere in casa di mamma e papà, un fenomeno mai visto prima in America (ed è ancora più elevato tra i maschi: il 19%). Questo crea a sua volta una spirale perversa. Quando l’economia tirava, e i giovani uscivano di casa presto, per ogni nuovo nucleo familiare che si formava l’economia guadagnava 145.000 dollari: tutte le spese legate all’acquisto dei mobili ed elettrodomestici per la casa, l’automobile, ecc. Ora che quei giovani restano in casa dei genitori, la loro spesa è minima e contribuisce alla depressione dei consumi.

La fine della mobilità americana ci colpisce anzitutto per la sua dimensione geografica: abbiamo sempre associato questo paese a una grande libertà di movimento, spostamenti continui da una costa all’altra, dal Sud al Nord (nella prima industrializzazione) o viceversa (dagli anni Settanta in poi). Ma l’aspetto geografico ha il suo corollario sociale. Gli americani si "spostano" meno anche sulla piramide dei ceti e dei redditi. La mobilità da uno Stato Usa all’altro coincideva con una forte ascesa nella scala sociale: i figli degli immigrati più poveri arrivati dal Messico, avevano una fondata speranza di guadagnare molto più dei genitori. Ora anche questa mobilità si è fortemente ridotta. Il che dà ragione al movimento di Occupy Wall Street, ovvero del "99%".

Per la prima volta nella storia, l’America di oggi comincia ad assomigliare alle società europee sclerotizzate, oligarchiche. Lo conferma una fonte autorevole e indipendente, il bipartisan Congressional Budget Office: il famigerato "un per cento" della popolazione americana ha visto i suoi redditi aumentare del 275% negli ultimi trent’anni. Il fenomeno della dilatazione nelle diseguaglianze sociali quindi è più antico dell’ultima crisi, in una certa misura ne è la causa. Ma con esso si è progressivamente svuotato il contratto sociale che era all’origine di questa nazione. L’idea che puoi sempre ripartire, perché c’è sempre un "altrove migliore" che ti aspetta, in questa crisi sta diventando un’illusione.

Quella lunga corsa a Ovest di un Paese fatto di speranza

di Vittorio Zucconi

La sua traduzione pratica e industriale era stata non soltanto l’automobile e, ancor di più, il "pick-up", il camioncino che fino dagli anni della Grande Depressione e della siccità aveva trasformato stati come l’Oklahoma in immense conche di polvere. Su di esso, famiglie intere ritratte dai grandi fotografi e raccontate dai narratori della disperazione come Steinbeck, aveva caricato le miserabili masserizie e i rottami del proprio fallimento, per andare verso l’Oceano Pacifico e la frontiera dell’ultima speranza, oltre la quale c’erano soltanto migliaia di chilometri di acqua.

Quando, negli Anni ‘50 e sotto il pungolo della Guerra Fredda e del timore di un’invasione, il generale presidente Dwight Eisenhower aveva lanciato la costruzione delle autostrade interstatali, secondo i criteri strategici delle strade consolari romane, il continente si era trasformato in un piano inclinato sul quale tutto ciò che non fosse saldamente inchiodato o radicato ruzzolava verso Ovest.

Furono inventati i "caravan", furgoni per passeggeri e persone, eredi dei carri coperti che il signor Studebaker aveva costruito per i Pionieri del XIX secolo e i magnifici Winnebago di alluminio lucido come gli aerei, roulotte leggere da agganciare alle Chevy, alle Ford, alle Chrysler per trascinare vite oltre le Montagne Rocciose.

Fino agli Anni ‘80 e ai primi Anni ‘90, in coincidenza con la vittoria - forse pirrica - sul nemico "rosso", le statistiche dicevano che un americano medio cambiava 20 lavori, non soltanto "posti", ma proprio attività, e 25 indirizzi nella propria vita, a cominciare dai 17 anni quando figli e figlie dovevano lasciare il nido materno, i più fortunati per il "college", gli altri per un lavoro e dunque un proprio indirizzo. Potevano piangere agitando i fazzoletti, i genitori, ma erano loro per prima a sapere che quello di andarsene, di volare via, di rispondere al "destino manifesto" di muoversi e conquistarsi spazi e territori propri, era la condizione dell’essere americani.

Il vero carburante, ancora più della benzina a poco prezzo che alimentava la migrazione perenne dei "tumbleweed", dei cespugli rotolanti, era lo stesso che aveva mosso i padri, i nonni, i bisnonni generazioni prima: la speranza. Meglio, la certezza che oltre il profilo delle colline e delle montagna, prima dei bassi e facili Appalachi poi le durissime Rocciose seguite da deserti micidiali dove morivano pionieri a migliaia, c’era il futuro migliore al quale tutti aspiravano. Era stata una continua corsa all’oro, anche quando l’oro non c’era più, e al suo posto sorgevano gli stabilimenti aereospaziali, i fertilissimi campi della California, i giacimenti e le miniere che costruirono città come Denver. E non importava - perché quello era il diritto storico, il lascito del destino - se nel rotolare da Est a Ovest la migrazione che portò un’Italia intera dall’Atlantico al Pacifico nel dopoguerra, 60 milioni, e che prima aveva guidato i pionieri scortati dalle giubbe blu, avrebbe travolto i popoli che già abitavano quelle terre, niente affatto vuote.

Se oggi la lava si sta raffreddando è perché la speranza, la certezza del futuro migliore alla fine dei grandi cieli sono diventate merce più rara, mentre è cresciuta, con il prezzo della benzina, la paura di perdere quello che si ha, più che la libidine di conquistare quello che non si ha. Tornano sempre più al nido dei genitori i non più giovanissimi, i trentenni e qualcosa, che dopo il college, o il primo matrimonio fallito o i licenziamenti multipli divengono la "boomerang generation", la generazione che va e poi ritorna.

Soltanto un americano su tre pensa che i propri figli staranno meglio di loro e persino la California, la Terra Promessa che già nel 1849 spinse i disperati a morire nella Valle del Morte in Nevada pur di raggiungerla, è in crisi demografica, oltre che finanziaria. Se un flusso umano continua è quello che viene da Sud, dall’oltre "Frontera" quella del Messico.

Si vedono ancora, sulla autostrade, i "caravan", i pick-up, le mega roulotte e le case mobili che portano sulle rastrelliere le biciclette dei bambini o l’auto di famiglia, con il papà al volante della motrice, la mamma al fianco e i marmocchi sballottati dietro, ma sono quasi sempre i lavorati migranti, i carpentieri, gli elettrici, gli idraulici, i muratori che seguono come procellarie il corso degli uragani e dei tornado per andare dove c’è da ricostruire e da guadagnare per qualche settimana o mese. Il grido del «Go West young man», va a Ovest giovanotto è sempre più lo stai fermo dove sei, aggrappato a quello che oggi hai. Domani non è più necessariamente il primo giorno del resto della tua vita, come voleva il proverbio ottimista, ma potrebbe essere l’ultimo della vita che ora hai.

postilla

Richard Florida ieri, a proposito dei medesimi dati censuari commentati da Rampini e Zucconi, scriveva sull'Atlantic che "La proprietà della casa, un tempo segno di ricchezza, in molti casi è oggi un ostacolo. Si discute fra economisti su quanto esattamente essere bloccati da un immobile che non si riesce a vendere impedisca di cogliere nuove occasioni di vita e lavoro: i dati indicano che l'ostacolo è notevole".

Florida coglie forse di più, oltre le immagini se mi si consente un pochino retoriche dei nostri inviati speciali, un aspetto della faccenda che dovrebbe stare a cuore di chi si occupa di territorio, sviluppo, ambiente. Perché il portato di questa storica mobilità, legata a quadruplo nodo alla crescita economica, si chiama suburban sprawl, consumo di suolo, spreco energetico. Quello che tramonta non è tanto un sogno più o meno americano, o un mito della frontiera, quanto l'idea di un mondo vacca da mungere senza criterio.

Naturalmente ci sono tanti altri aspetti della questione, come quello dello stravolgimento sociale degli spazi della dispersione, di cui ho provato a trattare qualche giorno fa in un pezzo su Mall, ma avremo modo di tornarci in seguito (f.b.)

Damietta

Domenica 13 novembre, a Damietta, una città egiziana sul bordo orientale del delta del Nilo, a una cinquantina di chilometri dall’imbocco del canale di Suez, i violenti scontri tra polizia e gruppi di cittadini che reclamavano la chiusura di una fabbrica altamente inquinante hanno provocato almeno 1 morto e una dozzina di feriti tra i manifestanti.

La fabbrica contestata si trova all’interno della locale Free Zone, uno dei 9 recinti egiziani finalizzati alla produzione di merci da esportazione, dove, per attrarre gli investitori stranieri, si offrono condizioni competitive quali “esenzione fiscale, assenza di diritti per i lavoratori e deroghe dalle norme ambientali”. Create a partire dai primi anni ’70, le 9 free zones occupano nel complesso più 10 milioni di metri quadrati e al loro interno sono impiegati circa 200.000 lavoratori.

Fin dal 2005, la presenza della fabbrica di fertilizzanti Agrium, di proprietà di un gruppo canadese, ha suscitato le proteste della popolazione. Proteste che sono riesplose nel 2008, dopo il rifiuto del governo di tener conto delle raccomandazioni contenute in un rapporto di tecnici che ne documentava l’impatto devastante sulla salute umana, nonché sull’economia locale. La fabbrica, infatti, immette scarichi nocivi nel fiume e nel Mediterraneo, con danni alla pesca e al turismo, e sottrae ingenti quantità d’acqua agli usi agricoli. Il governo, non solo non ha imposto la sospensione delle attività inquinanti, ma, dopo la fusione di Agrium con la Mopco (Mirs Oil Production Company) ha autorizzato l’espansione del complesso produttivo, limitandosi a promettere che «non avrebbe risparmiato sforzi per obbligare la compagnia a rispettare gli standard ambientali».

Ora, per placare la popolazione, le autorità hanno ordinato la temporanea chiusura dell’impianto «per verificarne la eventuale pericolosità». In assenza di garanzie, le proteste continuano ed i cittadini di Damietta hanno bloccato gli accessi al porto e alla free zone.

Vedi l'articolo Violence in Egypt for Environmental Justice sul sito Gulf Oil and Gas

Rocinha

Nella notte tra il 12 e il 13 novembre, 3000 uomini della polizia e dell’esercito brasiliano, appoggiati da 18 mezzi blindati in dotazione della marina e da 7 elicotteri da combattimento, sono entrati a, una favela nel cuore di Rio de Janeiro per liberarla dai narcos e dai criminali. Il megablitz, denominato “Choc di pace”, si è concluso con successo e la favela è stata «riconsegnata agli abitanti». Alcuni intervistati dopo la “liberazione” hanno detto di sperare che ora le autorità porteranno miglioramenti per quanto riguarda la raccolta dei rifiuti, le fognature, l’erogazione di acqua ed elettricità. Per il momento, l’unica misura certa è che, per garantire l’ordine, vi sarà installata la diciannovesima unità di “polizia pacificatrice”. Contemporaneamente, l’esercito è entrato anche nella vicina favela di Videgal.

Il comandante delle forze di élite che hanno condotto l'operazione ha spiegato che la Rocinha è uno dei più importanti punti strategici per la polizia per controllare Rio e che “la pacificazione della zona significa che le autorità hanno chiuso la morsa della sicurezza intorno alle aree che ospiteranno i mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016”.

Rocinha, spesso etichettata come la più grande baraccopoli dell’America latina, non è un insediamento precario. Per la sua dimensione demografica, oltre 150.000 persone, e soprattutto per la sua struttura fisica - edifici di 3 o 4 piani, negozi, 3 scuole, 3 asili, banche e farmacie - potrebbe essere definita una vera e propria città. Ma della città non ha né le infrastrutture né l’organizzazione, perché la sua esistenza non è mai stata riconosciuta ed il suo governo è stato coscientemente lasciato in mano alla criminalità organizzata.

Rocinha sorge sul fianco di una collina distante non più di un chilometro dalla spiaggia, e Videgal confina con Iparema. La loro contiguità con i quartieri più pregiati significa che la terra su cui sorgono questi recinti varrebbe/varrà moltissimo una volta liberata dai poveri.

Vedi gli articoli Rio to Pacify more Favelas ahead of World Cup su Google; e Maxi operazione di esercito e polizia per riprendere il controllo delle favelas a Rio, dal Sole 24 Ore (servizio fotografico)

Chiomonte

Nel decreto legge di stabilità finanziaria con maxiemendamento anticrisi approvato il 12 novembre dal Parlamento italiano, le aree ed i siti del comune di Chiomonte, individuati per l’installazione del cantiere della galleria geognostica e per la realizzazione del tunnel di base della linea ferroviaria Torino - Lione costituiscono “aree di interesse strategico nazionale”. Chi vi entrerà senza permesso sarà punito con l’arresto e la reclusione da 3 mesi a un anno. Oltre a rendere più pesanti le pene per i trasgressori, la militarizzazione dei cantieri ha almeno altre due conseguenze. Da un lato semplifica le procedure di esproprio per potersi impadronire dei terreni ancora non ceduti dai proprietari, dall’altro fa si che la roccia estratta dagli scavi, anche se piena di inquinanti, diventi materiale ordinario per legge.

Per rendere impenetrabile il recinto, l’attuale barriera di filo spinato sarà sostituita da un muro di cemento alto tre metri.

Vedi l'articolo Chiomonte sito strategico, i No Tav annunciano proteste, la Repubblica Torino

Sono 129 gli indagati, tra cui funzionari di Regione Puglia e Comune, responsabili di aver avallato la costruzione del complesso turistico con l'approvazione di una variante urbanistica dichiara illegittima. La struttura nata su una delle area più belle del Salento ha cambiato volto alla zona di Porto Cesareo

Un lussuoso resort da 50 milioni di euro con villette, alberghi, solarium, centri estetici, anfiteatro, discoteca, impianti sportivi e strutture commerciali. Una struttura ricettiva tra le più imponenti del Salento, affacciata - come si legge negli annunci sui siti di promozione turistica - "su un tratto di mare all’interno del Parco nazionale marino e nelle immediate vicinanze del Parco regionale di Porto Cesareo; in una delle più belle aree naturali della costa ionica del Salento, in località Torre Lapillo, a circa 10 km a nord di Porto Cesareo".

Un paradiso per turisti e per chi aveva lì comprato la casa al mare sequestrato dalla guardia di finanza per abusivismo: 129 le persone indagati per reati ambientali, tra cui i responsabili del Comune e della Regione che hanno rilasciato le autorizzazioni e i 120 proprietari di appartamenti. Un pezzettino di Puglia dall'inestimabile valore paesaggistico, che ha cambiato faccia dopo l'immensa colata di cemento arrivata con una variante urbanistica illegittima. Aree che avrebbero dovuto essere protette perché rappresentano la vera ricchezza del Salento e che, invece, sono state “devastate” come ha sottolineato il procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta. I 9 pubblici ufficiali coinvolti nello scandalo sono l’ex sindaco di Porto Cesareo Vito Foscarini, i 3 responsabili dell’epoca degli assessorati regionali all’Ambiente e all’Urbanistica (Luigi Ampolo, Giuseppe Lazzazzera e Luca Limongelli), 2 responsabili dell’Ufficio tecnico comunale (Cosimo Coppola e Giovanni Ratta), 2 progettisti (Claudio Conversano e Antonio Nestola) e il legale rappresentante delle società coinvolte (Franco Iaconisi).

La struttura turistica sequestrata oggi è il resort Punta Grossa di Porto Cesareo, di proprietà della società Fgci srl. Le indagini delle fiamme gialle hanno accertato che il villaggio è stato realizzato in seguito a una lottizzazione abusiva a scopo edilizio di terreni in località Serricelle, aree protette che per le loro caratteristiche paesaggistiche sono state dichiarate di notevole interesse pubblico. Tra queste le zone di Palude del conte, Duna di Punta Prosciutto e altre dichiarate riserve marine. La costruzione del complesso immobiliare che sorge su un'area molto vasta ha inoltre causato una rilevante trasformazione urbanistica delle aree interessate, sottoposte a vincoli ambientali e paesaggistici, anche in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti e delle normative edilizia, urbanistica ed ambientale.

In particolare va sottolineato che prima dell'edificazione del complesso turistico, il consiglio comunale di Porto Cesareo aveva approvato una variante urbanistica al piano regolatore generale, attribuendo ai terreni in località "Serricelle", precedentemente tipizzati come agricoli, specifica destinazione turistico-alberghiera. Tuttavia, l'intera procedura che ha portato alla variante urbanistica al piano regolatore è da considerarsi illegittima, in quanto basata su due conferenze di servizi, rispettivamente risalenti agli anni 2002 e 2006, di cui la prima annullata con sentenza del Tar Puglia, confermata dal Consiglio di Stato e la seconda indetta illecitamente. Inoltre, la suddetta variante urbanistica è stata approvata senza tener conto delle prescrizioni di non alterazione del paesaggio regionale esistente, previste dal Piano urbanistico territoriale tematico.

La realizzazione del complesso immobiliare sarebbe stata possibile grazie ad alcuni illeciti commessi dal sindaco pro tempore e dai responsabili pro tempore dell'Ufficio tecnico del Comune di Porto Cesareo nonché dai progettisti e direttori dei lavori per la costruzione del residence, indagati per reati contro la fede pubblica ed abuso d'ufficio, i quali avrebbero falsamente attestato, nei loro pareri e relazioni, che non esistevano altre aree urbanisticamente idonee alla realizzazione di strutture turistico-ricettive, riattivando il procedimento amministrativo che ha portato alla variante urbanistica del piano regolatore. Le fiamme gialle spiegano inoltre, che sono stati denunciati alla procura della repubblica presso il tribunale di Lecce i responsabili pro tempore degli assessorati all'Urbanistica e all'Ambiente della Regione Puglia per aver fornito pareri irregolari ed illegittimi, omettendo i controlli, obbligatori per legge, sulle attestazioni fornite dai funzionari comunali nonché sul rispetto dei vincoli paesaggistici ed ambientali. Tra i 129 indagati - residenti in tutta Italia e responsabili del reato ambientale di lottizzazione abusiva - ci sono I 120 proprietari di appartamenti adibiti a case-vacanza all'interno del villaggio vacanze.

Ma non è tutto, perché se nella realizzazione dell’enorme mostro di cemento, i militari hanno individuato una serie di illegittimità urbanistiche e ambientali, il prosieguo delle indagini ha poi permesso di scrivere un altro capitolo relativo a presunte violazioni relative all’organizzazione societaria delle due srl che hanno costruito e gestito il resort. Alla luce delle evidenti violazioni che avevano caratterizzato la costruzione del villaggio, infatti, risultava impossibile procedere ad una formale compravendita immobiliare, per cui sarebbe stata effettuata un’operazione di riorganizzazione societaria, realizzata attraverso il conferimento di un patrimonio immobiliare di 108 appartamenti, fittiziamente mascherata come cessione di ramo d’azienda, della fgci srl verso una multiproprietà azionaria, cretata ad arte ed avente la stessa compagine sociale, denominata punta grossa srl. Le quote sarebbero quindi state cedute a 120 soggetti che, in teoria acquistavano parte del capitale sociale, in realtà diventavano padroni degli appartamenti. Nel momento in cui i proprietari volevano vendere la casa, la società riscattava la quota di appartenenza e la cedeva ad un nuovo inquilino, che conquistava così il suo spazio vitale nel paradiso salentino. Oltre a configurare illeciti penali, tale operazione di gestione straordinaria ha consentito di evadere l’irap per 6 milioni e mezzo e l’iva per 2 milioni, come evidenziato dalle ispezioni tributarie che si sono concluse con il recupero di elementi positivi di reddito per 7 milioni e 200mila euro.

Il servizio con le foto è raggiungibile qui

Si racconta che lo stesso Ebenezer Howard avesse immaginato una specie di centro commerciale nel bel mezzo della sua città giardino, ma è una balla colossale. Vero, che Howard in qualche intervento parlava di un palazzo di cristallo in mezzo a un parco, dove si poteva anche comprare qualcosa e bere un caffè, ma ci vuole proprio una mente perversa a confondere un passeggio coperto semirurale con un tempio del tre per due dotato di comodo parcheggio.

Ma a quanto pare il progresso inarrestabile come al solito riguarda soprattutto le sciocchezze, a partire da un’idea di riqualificazione urbana alla milanese, ovvero aspettare come manna dal cielo qualunque progetto di riuso, anche quando c’entra col contesto come i cavoli a merenda. Il contesto è la centralissima via Sormani a Cusano Milanino, antico percorso da Milano verso l’area comasca, da più di un secolo attraversato dal tram extraurbano che fa capolinea a Desio, e su cui da quasi altrettanto tempo si affacciano le ultime propaggini della città giardino, “il Milanino”, voluta contemporaneamente ai primi esperimenti di Howard dalla cooperativa presieduta dal pioniere della casa per tutti Luigi Buffoli.

Giusto lungo il tracciato del tram, dentro a un tessuto urbano a dir poco consolidato e fitto, sta un classico rettangolone di area industriale dismessa ex Pirelli, da anni alla ricerca del ruolo perduto. Tra l’altro, fra le varie cose che hanno perduto un ruolo, c’è pure il tram extraurbano, da qualche mese “temporaneamente sospeso” ma, sospettano in parecchi, destinato a sparire definitivamente, per lasciar posto al solito dilagare di auto in fila. Un risultato visibilissimo dell’accantonamento del trasporto collettivo come struttura che definisce la forma urbana, lo si può vedere proprio a Desio, qualche chilometro più in là, dove affacciato sulla medesima arteria è stato costruito un Superstore Esselunga: massimo arretramento, parcheggi, pedonalità ridotta al minimo, una specie di colonia suburbana drive-in atterrata in area semicentrale. Per non parlar del traffico, delle corsie di accesso ecc. ecc.

Con qualche variante, ovvero pare di capire con parte dei parcheggi a due livelli nel corpo dell’edificio, non ci si può aspettare niente di troppo diverso dal progetto Esselunga presentato per Cusano Milanino, con l’aggravante di trovarsi in una zona molto più densa, con sezioni stradali tutto sommato piuttosto modeste, e con potenzialità che nulla hanno a che spartire con quel modello. Ma l’amministrazione forse ha la medesima sensibilità dell’ex giunta di centrodestra milanese: basta farsi un giretto nei nuovi quartieri “fiore all’occhiello” degli assessori all’urbanistica ciellini, per vederlo all’opera, il modello. Ovvero la scatola del supermercato con parcheggio (più o meno incorporato nel volume, of course, siamo esseri urbani del terzo millennio!) arretrata rispetto al resto del mondo, a fingere di definire una piazza inesistente.

Alcuni abitanti di Cusano però hanno un’idea diversa: attività economiche, residenza anche sociale, commercio, spazi pubblici, servizi. Questo si merita un’area centrale, inserita in un contesto di valore storico, non un capannone con appesi i festoni colorati delle insegne e delle offerte speciali, a orientamento automobilistico, che alla città offre il suo classico standard di ¾ di pareti cieche e aree carico-scarico. Come sempre la questione non è il supermercato, la grande distribuzione cattiva contro il piccolo esercente sincero, il carrello invasore contro la massaia con la sporta … ma quel formato organizzativo indiscutibile che gli operatori buttano sul tavolo di qualunque trattativa come variabile indipendente. E che in questo caso copre, e come li copre, 2.500 metri quadrati.

Insomma un caso interessante, sia dal punto di vista del merito che del metodo, il quale metodo è un referendum consultivo di cui potete leggere tutti i particolari QUI.

I democratici: "Approvato per creare lo scontro" - Confindustria e Legambiente chiedono all´Ars di votare contro il provvedimento - Cracolici: "Faremo di tutto per non farlo passare"

Aspra, asprissima [sic], praticamente una bocciatura con tanto di sondaggio. L´ennesima sanatoria edilizia sarebbe «una vergogna per il 70 per cento degli italiani secondo i dati Ipsos». È il giudizio di Confindustria Sicilia e di Legambiente Sicilia sull´approvazione della commissione Territorio e Ambiente all´Ars [Assemblea regionale siciliana] del disegno di legge salva-coste del deputato regionale Paolo Ruggirello (Mpa), lui stesso proprietario di una casa abusiva che verrebbe sanata dalla norma. Una vicenda che sembrava caduta nel dimenticatoio, dopo le polemiche degli ambientalisti e della stessa Sala d´Ercole, ma tornata alla ribalta dopo il voto della commissione. A tenere alto lo scontro è sempre Confindustria, che ieri sera ha diffuso con Legambiente un appello ai deputati siciliani: «L´unico effetto concreto delle tre sanatorie edilizie nazionali - scrivono - è stata una violenta recrudescenza dell´abusivismo senza tenere conto che la gran parte degli abusivi che hanno usufruito dei precedenti condoni, non ha completato il pagamento dell´oblazione. Per questo chiediamo a tutti i deputati di votare contro questo ddl».

Richiesta che fa sua il capogruppo del Pd all´Ars, Antonello Cracolici, che si dice pronto insieme al suo partito a fare di tutto per bloccare il ddl. E Cracolici si spinge oltre: «Qualcuno - dice - sta tentando di fare giochetti politici». Per il capogruppo Pd dietro all´approvazione del ddl ci sarebbe una questione politica. Il dito è puntato verso i deputati del Pdl, ma soprattutto del Terzo Polo, che avrebbero sostituito i loro colleghi in commissione, tra questi Pippo Limoli (Pdl), Nino Dina (Udc), Pippo Currenti (Fli). «Il Pdl ha sostituito dei deputati per raggiungere il numero legale - dice Cracolici - e il Terzo Polo si è presentato per garantire la sua presenza in commissione. Era tutto funzionale per aprire un conflitto con il Pd, anche da parte del Terzo Polo».

Per quanto riguarda il ddl (che potrebbe arrivare in aula anche a dicembre, se la conferenza dei capigruppo del 22 novembre deciderà di aprire una finestra nel Bilancio) sempre secondo Cracolici, è improbabile un´approvazione in aula: «Ha evidenti profili d´incostituzionalità». Una norma per cui Ruggirello aveva preconizzato un appoggio bipartisan («Vedrete quanti la voteranno» aveva detto), e che, tiene a precisare, «non è una sanatoria».

In commissione, Currenti del Fli ha votato a favore, anche se per Livio Marrocco, suo capogruppo, si tratta di scelta personale: «Parlerò al più presto con lui. Noi siamo contrari a questa sanatoria e non la voteremo». Nell´Udc, Nino Dina si schermisce, lui che si è astenuto «per insufficienza di elementi», anche se auspica in aula un confronto. Così come Francesco Musotto, capogruppo dell´Mpa (colui che aveva ritirato la firma dal ddl) che illustra la posizione del suo partito «senza ipocrisie»: «Noi dell´Mpa lasceremo libertà assoluta ai colleghi, tra di noi sono molti coloro che non sono d´accordo. Eppure c´è un atteggiamento da struzzi. Non mi sembra che ci siano ruspe in giro a distruggere ecomostri. Voi ne vedete? Toccherà all´Assemblea trovare la soluzione migliore».

Si dice contro Fabio Mancuso (Pdl), e rigetta le accuse di aver favorito l´approvazione in commissione con la sua presenza: «Non la voteremo, ci vuole un riordino globale e non occuparsene soltanto con un articolo». E non vuole passare per una a favore dell´abusivismo, Marianna Caronia del Pid: «Ho votato con la speranza che in aula si possa discutere di queste case ridotte in un limbo».

Per inaugurare questo blog (mai ne ho fatti prima), vorrei anticiparne un po’ i temi, che poi spero saranno specificati e approfonditi dai lettori interessati. Tratterà principalmente di trasporti e mobilità (cose che conosco), ma non solo. Mi avventurerò, con prudenza, in altri settori dell’azione pubblica, sempre con un taglio economico, ma certo non accademico: città, agricoltura, mercato del lavoro, servizi pubblici locali in generale.

Ma veniamo ai trasporti, innanzitutto per sfatare alcuni solidi miti (o “leggende metropolitane”).

Molte cose vanno male nei trasporti italiani, ma non tutto. Per esempio, non ci sono gravi insufficienze nelle infrastrutture, se non intorno alle grandi città. La notizia è stata messa in giro con forza da ben riconoscibili interessi costituiti.

Poi, gli utenti dei trasporti pubblici hanno, è vero, servizi modesti, ma pagano molto meno degli altri viaggiatori europei, il che non è cosa da poco, soprattutto per quelli meno ricchi.

I trasporti nel complesso sono una manna per le casse dello Stato: quelli stradali, dominanti, gli rendono 50 miliardi all’anno, che sono un sacco di soldi. Per le imprese, il trasporto merci è molto meno importante di quanto vogliono far credere: l’incidenza del costo del trasporto per l’industria italiana, che produce cose di alto valore, è in media basso. Non è così ovviamente per beni “pesanti”, come grano o minerali o legname, ma noi ne produciamo pochi. Diverso è il problema della logistica, cioè dell’organizzazione complessiva della movimentazione delle merci, ma di cui il trasporto è solo una componente.

Anche il ruolo dei trasporti per l’ambiente è sopravvalutato: tutte le emissioni che fanno male alla salute sono molto migliorate (nelle grandi città rimangono un problema, anche se minore di quanto si creda). E’ invece aumentata la quantità di CO2 (che genera il riscaldamento globale) emessa dai trasporti, che però sono il settore che ne emette di meno: industria, energia, riscaldamento ecc. sono responsabili per il 75% di queste emissioni, e costa meno diminuirle in questi settori che nei trasporti.

Una persistente “leggenda metropolitana” è che si possa, e si debba spostare grandi quantità di merci e di passeggeri dalla strada alla ferrovia (o al trasporto pubblico). Certo che si può spostare una quota del traffico, ma tutte le esperienze e gli studi dimostrano che questo spostamento potenziale è molto piccolo. Poiché la strada muove circa il 90% del traffico, e la ferrovia il 10%, si potrebbe al massimo (ma è molto difficile) arrivare a un 5% di spostamento. Il che vuol dire che comunque l’85% del traffico rimarrà sulle strade, ed è su questo 85% che occorre concentrare gli sforzi per ridurne i costi sociali (es. ambiente) e privati (es. congestione).

Cosa va invece davvero male, e occorre migliorare urgentemente? Innanzitutto le politiche pubbliche: non solo si costruiscono infrastrutture di dubbia o nessuna utilità invece di quelle che servono, ma queste infrastrutture costano allo stato, o a chi le usa, molto di più di quanto dovrebbero costare. Costa troppo anche produrre i servizi di trasporto pubblico: se costasse di meno, si potrebbe fornirne di più dove servono, o diminuire le tariffe, o finanziare altri servizi più urgenti, o diminuire le tasse.

Emerge un quadro complicato, che ha poco senso guardare “dall’interno”: per capire i problemi, e discutere ragionevoli risposte con gli (eventuali) lettori (eventualmente) interessati, occorrerà tenere in evidenza il poco allegro contesto politico ed economico in cui ci troviamo.

L'AQUILA - Nuovi impianti da sci, alberghi, residence, piscine e campi da golf in una delle più vaste e preziose aree naturalistiche protette d'Europa. Il governo e un'ampia pattuglia di sindaci bipartisan della provincia dell'Aquila sono convinti che sia questa la strada migliore per risollevare l'economia delle aree colpite dal terremoto dell'aprile 2009 e lo hanno messo nero su bianco nel Protocollo d'intesa1siglato a Palazzo Chigi lo scorso febbraio. Un testo contestatissimo sul quale i lettori ci hanno chiesto attraverso il sondaggio suRepubblica.it di svolgere un'inchiesta. Il documento promosso dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, otto pagine in tutto, come è ormai abitudine, è poco più di un lungo elenco di cose che si vorrebbero fare, ma non contiene impegni precisi, scadenze e - soprattutto - riferimenti a come reperire i fondi necessari.

I tre progetti più temuti.

Tanto è bastato però a far coalizzare un vasto movimento di opposizione messo in allarme da quelli che il consigliere regionale di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo definisce "progetti che, ignorando i vincoli ambientali, incidono irreparabilmente sulle ricchezze ecologiche delle aree di maggior pregio ambientale della Regione". Tra le opere suggerite dal Protocollo quelle che suscitano l'allarme maggiore sono tre. La prima è la costruzione di sei o sette nuovi impianti di risalita in grado di collegare il comprensorio sciistico di Campo Felice a quello di Ovindoli. La seconda è la costruzione, alle porte del Parco nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga, di una "cittadella della montagna" da oltre mille posti letto per ospitare a Fonte Cerreto i turisti richiamati dalla realizzazione di nuovi collegamenti tra Montecristo, Campo Imperatore e la Scindarella. La terza, infine, è la creazione di campi da golf ai Piani di Pezza, in pieno Parco regionale del Velino-Sirente.

Il precedente.

Progetti che Wwf, Lipu, Cgil, Rifondazione, Sel e una manciata di altre associazioni civiche e ambientaliste abruzzesi sono convinti non abbiano alcuna necessità e possibilità di essere realizzate. "Ci hanno già provato anni fa sul Monte Greco, per collegare Roccaraso con Barrea passando da una zona di ripopolamento dell'orso, un Sic, un sito di interesse comunitario, ma gli abbiamo fatto saltare una speculazione da oltre 80 milioni di euro", racconta Antonio Perrotti, uno degli instancabili animatori della protesta.

"Pentitismo" bipartisan.

Il problema è piuttosto più vasto e riguarda quello che Perrotti chiama "il pentitismo" al quale sarebbe in preda il ceto politico abruzzese. "Nel Pdl come nel Pd c'è una spinta fortissima - spiega - a rivedere il vecchio piano paesistico che ha garantito sino ad oggi la tutela del territorio, facendo dell'Abruzzo la regione dei parchi naturali". Il corollario è che a confrontarsi sono due differenti visioni dello sviluppo e quindi del futuro. L'accusa più forte al Protocollo Letta è proprio quella di aver ritirato fuori vecchi progetti di cementificazione rimasti bloccati da oltre 30 anni nei cassetti. "Sotto l'ombrello del Protocollo e dietro l'emergenza del sisma - denuncia Dante Caserta del Wwf - si vuole far passare una miriade di piccole micro opere ferme da tempo, legate a un modello fallimentare che non è più proponibile". "Ma ormai - denuncia ancora Perrotti - tra Ici sulle seconde case, oneri di urbanizzazione e tassa sui rifiuti, i comuni riescono a fare cassa solo con l'edilizia".

Ambiente o lavoro?

"Ma non si sono accorti - ironizza sempre Perrotti - che in tutto il mondo la gente è scesa in piazza per dire basta a questa malattia della crescita ad ogni costo? Che le persone cercano altro, che l'unico sviluppo possibile passa per una microimprenditorialità diffusa che valorizzi il territorio, che bisogna puntare sui sentieri, i percorsi da mountain bike, le gite a cavallo, i prodotti tipici...". E se questo è un tema su cui di solito ambientalisti e sindacati si sono trovati su fronti opposti, stavolta in Abruzzo le cose stanno diversamente. I contenuti del Protocollo, accusa Mimì D'Aurora della Cgil, sembrano "configurare un consapevole abbandono del progetto strategico che faceva del sistema dei parchi abruzzesi un volano di sviluppo regionale" grazie anche al contributo dato negli anni '80 dal sindacato "raccogliendo ben 30 mila firme per l'istituzione del Parco nazionale del Gran Sasso, vincendo l'idea del conflitto perenne tra ambiente e lavoro".

L'ira del sindaco.

Ma che questo conflitto esista eccome ne è convinto Massimo Cialente, sindaco Pd dell'Aquila. "Purtroppo il Protocollo Letta è completamente bloccato. Il potenziamento degli impianti del Gran Sasso - dice - se avessi i soldi lo metterei in appalto già la prossima settimana. E' inserito in un Piano d'Area approvato da anni con il consenso dell'Ente parco. Il Gran Sasso dopo il terremoto è rimasto la nostra unica risorsa e le nuove funivie sono indispensabili per rilanciare il turismo. Chi si oppone lo fa per ragioni ideologiche. Questi che protestano sono dei garantiti, degli eco-chic che poi vanno a sciare sulle Dolomiti. A guardare gli uccellini ci puoi stare un giorno, poi la gente si stufa e io gli devo offrire dove dormire e qualcosa da fare. Ora vengono solo i romani con il panino da casa, usano i bagni e ci lasciano i rifiuti da smaltire. L'Abruzzo nel 2009 era al 17esimo posto nella classifica regionale delle preferenze dei turisti, ma di che cosa parlano allora questi signori?".

Gli alberghi chiedono infrastrutture.

Lo sfogo del sindaco è lo stesso degli albergatori. "Bisogna mettere in cantiere infrastrutture, creare attrattive: esercizi, piscine, centri benessere, campi sportivi, piste da pattinaggio. Ora nella zona del Gran Sasso non c'è neppure un tabaccaio, gli ambientalisti bloccano tutto e a noi resta solo il turismo mordi e fuggi. Noi non vogliamo annullare le aree protette, ma servono delle aperture", dice la vicepresidente di Federalberghi L'Aquila, Mara Quaianni. "Unire le zone attorno a Campo Imperatore, con i nuovi collegamenti e piste poste a quote diverse, permetterebbe di rendere il turismo più flessibile anche davanti all'insidia dei repentini cambiamenti del meteo - aggiunge il direttore degli impianti Marco Cordeschi - e se è vero che lo sci non basta, il suo effetto traino rimane indispensabile".

Una società in rosso.

Chi si batte contro il Protocollo resta però convinto che l'idea di fare del Gran Sasso un'alternativa da offrire ai patiti della neve di Roma e Napoli sia una follia, non solo per via dell'innevamento sporadico a capriccioso, ma anche alla luce dei dati nazionali 3 che registrano il turismo di montagna in lento ma chiaro declino. "Ma chi vuoi conquistare con qualche nuova pista da pochi metri di dislivello da percorrere in pochi secondi a fronte di lunghe attese per risalire?", lamenta ancora Perrotti.Una cosa è però certa. La situazione così come è ora non può andare avanti a lungo. Il Centro turistico del Gran Sasso, la municipalizzata del Comune dell'Aquila che grazie a una trentina di dipendenti gestisce gli impianti è in profondo rosso. Ogni anno le perdite (interamente di denaro pubblico) oscillano tra i 200 e i 300 mila euro e il passivo accumulato è arrivato ormai attorno ai 10 milioni. Attualmente vengono staccati più o meno 70 mila biglietti l'anno per circa 630 mila euro di incasso, ma solo per pareggiare le uscite (senza contare i soldi necessari a investire in migliorie) queste cifre dovrebbero raddoppiare.

la Repubblica ed. Milano

"Salviamo il territorio" appello del forum verde per una legge sul suolo

di Anna Cirillo

Sono arrivati da 17 regioni per riunirsi sotto gli alberi del parco dai colori autunnali di Cassinetta di Lugagnano e ascoltare, tra gli altri, Carlo Petrini, patron di Slow Food, e Giulia Maria Crespi, fondatrice e presidente onorario del Fondo per l’Ambiente Italiano. Nella cornice romantica di uno dei più bei borghi dell’area milanese c’è stato il primo forum nazionale «Salviamo il paesaggio - Difendiamo i territori», che riunisce i movimenti per la salvaguardia della terra. E non a caso la riunione è avvenuta nel primo comune italiano a crescita zero, già con il piano regolatore del 2007: il suo sindaco, Domenico Finiguerra, è stato tre anni fa il promotore della campagna «Stop al consumo di territorio». Ovvero, basta con il cemento e con il meccanismo perverso per cui i comuni si finanziano con gli oneri di urbanizzazione delle nuove costruzioni e sì, invece, alla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente.

Il forum ha un obiettivo molto concreto, fermare il consumo dei suoli fertili e la rovina del paesaggio con l’elaborazione di una proposta di legge di iniziativa popolare da portare in Parlamento. La legge al primo articolo recita: «Nuove occupazioni di suolo sono consentite qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti». Ma si propongono anche un censimento in tutti i comuni degli immobili vuoti e non utilizzati, e una campagna di comunicazione e sensibilizzazione.

Il dibattito è stato in alcuni momenti molto acceso. Applausi hanno accolto l’intervento di Giulia Maria Crespi. Si è appellata alla società civile, «in cui ho molta fiducia», e ha criticato il piano territoriale della Provincia che rinuncia a fissare vincoli su 47 mila ettari di zone agricole nel Parco Sud. «Podestà - ha detto - è venuto meno alle grandi speranze che il Fai aveva in lui. Io continuerò a battermi».

Per l’assessore alla Cultura di Milano Stefano Boeri «quella di Cassinetta è una rivoluzione culturale che dobbiamo introdurre nella politica italiana e del Pd». Per Carlo Petrini «con pazienza questo movimento si può radicare in tutto il territorio nazionale, il referendum sull’acqua è stato la dimostrazione tangibile di quanto si possa diventare incisivi, e la proposta di legge che vogliamo lanciare deve essere formulata in maniera chiara e precisa». Petrini ha poi spiegato che l’Expo «aveva l’obbligo di parlare di alcune cose», del consumo di territorio, dell’agricoltura, dello spreco di cibo, della fame e delle logiche di consumo, della distruzione del paesaggio. «Doveva parlare di queste enormi contraddizioni. E invece tutti si sono concentrati sul terreno strapagato per costruire padiglioni. Manca l’anima, e dovrebbero dire "lasciamo perdere". Capisco le difficoltà del sindaco Pisapia, alle prese con questa patata bollente».

Il sindaco di Cassinetta "Noi pionieri del consumo zero"

Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano, lei è stato portato come esempio da imitare da Maria Giulia Crespi per il suo impegno contro il consumo di suolo. Che effetto le fa?

«Mi fa molto piacere, è il riconoscimento da parte della presidente onoraria del Fai di un lavoro fatto con estrema fatica, nel mio comune e in Italia, con le campagne «Stop al consumo di territorio», partite tre anni fa, nel gennaio 2009».

Come le è venuta l’idea?

«Nel 2007 qui a Cassinetta abbiamo adottato un piano regolatore senza espansione urbanistica. Dal nostro caso è partito un tam tam sulla rete e ho visto che l’idea del fermare il consumo di suolo la condividevano in tanti. Così siamo arrivati alla campagna nazionale».

È difficile non consumare suolo?

«È difficile se non si ha il coraggio di uscire da un modo di pensare dato per scontato dai comuni che utilizzano gli oneri di urbanizzazione delle costruzioni per fare utili e pareggiare i bilanci».

Voi, che non avete voluto costruzioni nuove, che cosa vi siete inventati per pareggiare il bilancio?

«Abbiamo lavorato di fantasia, i matrimoni a mezzanotte, per esempio. Poi usato il buon senso, utilizzando le energie rinnovabili e i pannelli fotovoltaici sui tetti, tagliando le consulenze e alzando un po’ le tasse, dal 6 al 7 per mille, sulle seconde case e le attività produttive».

Siete riusciti a pareggiare?

«Da cinque anni abbiamo il bilancio che sta in piedi senza oneri di urbanizzazione. E vorrei chiarire che noi abbiamo detto stop al consumo di territorio, non all’edilizia. Abbiamo avuto decine di cantieri in questi anni, ma per riqualificare il patrimonio esistente, creando nuove abitazioni in case, comprese ville del ‘700, che già esistevano. E tutelando anche il paesaggio».

Qual è l’obiettivo della vostra proposta di legge?

«La terra come l’acqua è un bene comune e va tutelato. Chi ci sta a tutelarlo attraverso una legge? O si vuole il grana padano o i capannoni, e con questa legge si dice se si sta da una parte o dall’altra. La politica dovrà prendere una posizione e manifestare il suo vero pensiero».

Corriere della Sera

Il patto di 350 gruppi per conservare i paesaggi d'Italia

di Paola D’Amico

MILANO — Alla fine il «Messia», come qualche oppositore politico ha pensato bene di soprannominare il sindaco di Cassinetta di Lugagnano, Domenico Finiguerra, ce l'ha fatta e ha messo d'accordo tutti. Lasciati sfogare in mattinata gli animi degli oppositori più accesi all'Expo, i partecipanti al forum «Salviamo il Paesaggio» arrivati da tutta Italia ieri pomeriggio si sono seduti a scrivere il progetto di legge di iniziativa popolare a tutela del suolo e del paesaggio, che si prefigge di bissare il risultato ottenuto dai comitati referendari per l'acqua pubblica. Un progetto che, innanzi tutto, promuove un censimento a tappeto di ogni edificio e capannone vuoto presente nel Paese e una moratoria dei piani regolatori. La crociata contro la cementificazione selvaggia passa da qui. E la raccolta di firme (50 mila) è già cominciata.

Finiguerra da un palco singolare, ricavato nel parco pubblico, perché i partecipanti alla convention avevano superato ogni aspettativa e lo spazio comunale non era in grado di ospitarli, ha lanciato un messaggio politico: «Chiediamo ai partiti e alla politica di assumersi le loro responsabilità. Bersani si levi dalla testa di arrivare agli ultimi 100 metri per raccogliere i frutti della maratona del lavoro degli altri, come ha fatto per l'acqua. Bisogna scegliere. Non si può andare al mattino al convegno di Slow Food e al pomeriggio a quello di Confindustria a parlare di grandi opere. Questo è il territorio che l'Expo 2015 lo vive sulla propria pelle e sarebbe una vera rivoluzione avere almeno una parte di Expo a cemento zero».

A Cassinetta, ieri, c'erano oltre seicento rappresentanti di 350 associazioni ambientaliste, Italia Nostra, Legambiente, Fai, Europa Nostra, Wwf e Lipu, sindaci di destra e di sinistra. C'erano l'assessore all'Urbanistica di Napoli Luigi De Falco, che ha aderito al Forum invocando l'«obiezione di coscienza al piano casa», e l'assessore alla Cultura e all'Expo del capoluogo lombardo, Stefano Boeri, che ha chiarito cos'è per la giunta di cui fa parte l'Expo, cioè «un modo di trasformare Milano in una grande metropoli agricola». Costruire in città sarà ancora possibile «solo rigenerando gli spazi vuoti». Tra i testimonial della battaglia ambientalista è arrivato anche Roberto Ronco, assessore all'Ambiente della provincia di Torino, che ha vinto la battaglia con la catena Ikea, intenzionata a raddoppiare gli spazi a sud della città del Lingotto.

Un tema, quello della salvaguardia del suolo, che più attuale non si può: è da tempo all'ordine del giorno della Commissione europea, dai cui studi emerge che ogni anno, in Europa, una superficie equivalente a un'area più estesa di Berlino cede il passo all'espansione urbana e a infrastrutture di trasporto. Per chi preferisce raccontarlo con i numeri ciò equivale a 275 ettari di terreno erosi ogni giorno, per mille chilometri quadrati all'anno. La metà di questa superficie è irrimediabilmente impermeabilizzata da edifici, strade e parcheggi.

La parola d'ordine è «usare meno, vivere meglio», ha detto Giulia Maria Crespi, presidente onoraria del Fai, invitando le diverse anime del mondo ambientalista e della società civile a non a farsi la guerra e, invece, a unirsi: «Se c'è una speranza di salvare questo Paese è la società civile. Dall'altra parte c'è moltissima gente che non capisce, che ignora. Quelli che hanno fabbricato le loro case nel greto dei fiumi — ha aggiunto Crespi — secondo me non erano coscienti del pericolo. La gente deve essere informata, deve conoscere». Sacrosanto, ha concluso, chiedere il censimento degli stabili vuoti. «Ma per procedere dobbiamo prendere degli esempi. Uno lo abbiamo in Cassinetta e in questo sindaco che ha dato il là, è riuscito a guadagnare la fiducia dei suoi cittadini e adesso ci proverà ad Abbiategrasso».

Salvare il paesaggio, difendere i territori equivale «a conservare né più né meno una civiltà», aveva scritto nel suo messaggio al Forum il giurista Stefano Rodotà. Mentre Carlo Petrini, presidente di Slow Food, (contestato da una frangia più estremista) ha confessato di «vivere un sentimento di impotenza. La parte più debole del Paese sono i contadini, quelli veri. Non si esce dalla crisi tornando a consumare. Dobbiamo, invece, tornare alla terra».

Ora è ufficiale. Dopo quanto anticipato da Repubblica, che già un mese fa aveva rivelato le obiezioni di costituzionalità mosse dall’ufficio legislativo dei Beni culturali al Piano Casa del Lazio e l’intenzione di Giancarlo Galan di chiederne l’impugnazione, è lo stesso inquilino del Collegio Romano a confermarlo dalle colonne del Corriere della Sera. «Non sarò certo io il ministro che permetterà abusi sul paesaggio senza controlli» ha affermato, minacciando le dimissioni.

Ma a questo punto i tempi sono strettissimi. Se infatti il consiglio dei ministri non approverà la proposta entro dopodomani, il Piano Casa del Lazio non potrà più essere impugnato per scadenza dei termini. Ecco perché, ragionano nel Pdl, Galan ha deciso di forzare con quell’uscita sui giornali. Circostanza che, al contrario, spiega come mai finora non sia stata calendarizzata la discussione a Palazzo Chigi: rischia di aprire più d’una crepa (fra favorevoli e contrari alla Polverini) in seno a una maggioranza già spappolata. Nel frattempo le opposizioni attaccano. «Il centrodestra ha varato un piano devastante, che noi cercheremo di fermare» annuncia il commissario del Pd Chiti. Rincara il senatore Zanda: «Le osservazioni di Galan rendono chiaro come la Polverini sia stata sorpresa con le mani nella marmellata».

In subbuglio la Pisana. «Dopo l’appello del ministro, il governo non può più far finta di niente» avverte il capogruppo di Sel Nieri. «Il provvedimento è incostituzionale perché viola leggi urbanistiche e piani regolatori dando il via a una deregulation che ferisce profondamente il territorio regionale» gli fa eco il pd Montino. E mentre Foschi parla di «scempio ambientale» invitando la Polverini a ripensarci, il verde Bonelli plaude all’iniziativa di Galan. Ma il Pdl fa quadrato, bollando come «strumentali» le polemiche. «Il Piano Casa dovrebbe essere preso a esempio, non criticato» taglia corto il segretario romano Sammarco. «È un fiore all’occhiello, voluto fortemente da Berlusconi», incalza il vice del Lazio Pallone. Con il sottosegretario Giro che tenta di minimizzare: «È prerogativa del ministero verificare i requisiti di costituzionalità di una legge regionale. Su quella del Lazio è in corso un confronto sereno e costruttivo: una procedura assolutamente normale».

Postilla

Premessa: il Piano Casa della Regione Lazio fa schifo. E’ probabilmente il peggiore dei consimili provvedimenti finora approvati.

E quindi benissimo ha fatto Galan a chiederne l’impugnazione. Meno bene quando ha specificato che la sua non è contrarietà a priori sui piani casa che, anzi, in Veneto, nel suo ruolo di presidente della Regione, ha sostenuto con ogni mezzo.

Come i nostri lettori sanno bene, eddyburg ha costantemente denunciato l’incredibile massacro del territorio perpetrato dalla presidenza Galan. Ma noi di eddyburg siamo inguaribilmente ottimisti e ci auguriamo seriamente che col cambio di giacchetta il ministro abbia operato anche un’insperata capriola ideologica e sposato, doverosamente, la causa della tutela del paesaggio, così come gli impone la Costituzione sulla quale ha giurato.

Contiamo quindi che, non solo mantenga la promessa di impugnazione in Consiglio dei Ministri nonostante i tempi quasi proibitivi, ma che perseveri coerentemente nella lotta contro ogni tipo di condono edilizio, mascherato o palese, regionale o nazionale: abbiamo il sospetto che la sua tempra di difensore del paesaggio sarà messa a dura prova fin dai prossimi giorni…(m.p.g.)

Si chiama «progetto di piantagioni di nuova generazione», ma il nome è ingannevole. Si tratta del progetto promosso dagli enti forestali di alcuni governi (Cina, Svezia e Regno unito), un pool di aziende internazionali del settore (Forestal Mininco/Cmpc, Masisa, Fibria, Mondi, Portucel, Sabah Forestal Industries, Veracel, Stora Enso, Upm-Kymmene), e sostenuto anche dal Wwf, una delle più note organizzazioni ambientaliste internazionali. Il Ngpp (acronimo di «new generation plantation project») consiste nel definire «pratiche sostenibili» per la gestione di piantagioni, e promuoverle presso le aziende forestali, le autorità governative, gli investitori per «promuovere l'adozione delle migliori pratiche nelle piantagioni forestali»: così si legge sul sito del Wwf. Che argomenta: le piantagioni intensive sono controverse perché distruggono le foreste originarie e altri ecosistemi naturali, oltre ad avere impatti sociali, calpestare i diritti delle comunità locali, e così via, ma non è necessario che sia così, se si adottano pratiche di «foresteria sostenibile».

Il progetto però è contestato da alcune grandi reti ambientali e sociali latinoamericane. Con il progetto delle nuove piantagioni «credono o fanno credere che per magia si risolveranno le contraddizioni intrinseche alla foresteria industriale: accaparramento e concentrazione di terre, espropriazioni delle comunità locali ed esclusione di altre forme produttive già esistenti, dell'esaurimento delle acque e del suolo», si legge in un comunicato della Rete latinoamericana contro la monocultura degli alberi (Recoma), creata durante il Forum sociale mondiale del 2003 (ha rappresentanti in Argentina, Brasile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Messico, Paraguay e Uruguay). Questa rete si batte per limitare l'espansione delle monocolture a favore di specie locali adattate al clima e al terreno, di multiuso e a beneficio delle popolazioni locali, con sistema produttivi agroforestali regionali. Insomma: non si coltivino alberi solo per produrre legna e cellulosa per le grandi aziende, olio di palma, biodiesel - o per essere monetizzati sul nascente «mercato del carbonio». Le grandi corporations, conclude il Recoma, «hanno sempre cercato di ridipingere di verde le loro attività commerciali».

Con una conferenza stampa tenuta di recente a Buenos Aires, altre tre reti latinoamericane - la Federazione argentina degli Amigos de la Tierra, il Foro Boliviano Ambiental e la Red de Alerta Contra el Desierto Verde brasiliana - hanno criticato il progetto Ngpp. Sostengono che punta ad aprire le porte del settore forestale al mercato energetico e del carbonio, permettendo così che ancora più terre fertili vengano accaparrate dai grandi gruppi agroindustriali. Fanno notare ad esempio che il sito web del Ngpp cita nove esempi di piantagioni forestali industriali sostenibili che avrebbero «aiutato a proteggere e ampliare la biodiversità»: peccato che cinque di questi casi corrispondano a zone dove le comunità locali e indigene hanno presentato denunce per espropriazioni indebite, distruzioni ambientali e assenza di studi preventivi di impatto ambientale: si tratta delle monocolture «verdi» dell'impresa Upm in Uruguay, della Vercael/Stora Enso in Brasile, della Masisa in Argentina e delle Cmpc/Forestal Mininco in Cile. Il Wwf si sforza di sostenere i «benefici economici e eco-sostenibili» di queste monocolture arboree, che giustifica perché parte del mercato delle commodities (materie prime) - ribattono le tre reti latinoameticane - è proprio questo sistema di produzione industriale che perpetua modelli insostenibili per gli ecosistemi, per le biodiversità, e per gli umani che di queste risorse vivono. Dimenticando che una piantagione forestale non è ne sarà mai un bosco.

Una buona notizia arriva da Bruxelles: il ponte sullo Stretto di Messina non è inserito nell'elenco delle opere infrastrutturali prioritarie europee, per il settore dei trasporti. L'elenco complessivo delle 15 opere più importanti verrà ufficializzato oggi dalla Commissione europea che specificherà anche i parametri che dovranno essere rispettati per beneficiare dei finanziamenti comunitari.

Il piano da attuare tra il 2014 e il 2020, prevede la distribuzione di fondi Ue per circa 31,7 miliardi di euro e il lancio di project bond, cioè spiegano dalla Commissione, strumenti finanziari innovativi che grazie alle garanzie comunitarie, potranno raccogliere sul mercato le altre risorse necessarie per completare le grandi reti di comunicazione del vecchio continente.

Per quanto concerne il ponte sullo Stretto di Messina la Commissione europea ha specificato che «se l'Italia vorrà portare avanti il progetto dovrà trovare da sola i soldi per realizzare l'opera». Chi come greenreport pensa che questa opera non costituisca una priorità per l'Italia (il Sud solo per fare un esempio rimanendo nel settore dei trasporti è dotato di ferrovie non degne di un paese tra i più industrializzati al mondo) può tirare un sospiro di sollievo, anche se il ministro dei trasporti Altero Matteoli si è impegnato a trovare i finanziamenti e l'elenco pare che possa essere modificato e aggiornato anche successivamente.

Ma i tempi saranno comunque stretti perché i fondi assegnati saranno persi se la realizzazione del progetto non sarà stata avviata entro un anno dalla data prevista al momento della concessione del finanziamento.

Per quanto riguarda invece le opere "promosse" da attuare su territorio italiano, è previsto l'inserimento nel corridoio Baltico-Adriatico dei collegamenti ferroviari e delle piattaforme multimodali di Udine, Venezia e Ravenna e dei porti della stessa Ravenna, di Trieste e di Venezia.

Al Nord confermata poi la priorità assegnata alla Torino-Lione (notizia che ha già fatto alzare la "temperatura" in Val di Susa dove domenica è prevista una manifestazione dei No Tav), al tunnel del Brennero e al collegamento ferroviaro Genova-Milano-Svizzera. Per quanto riguarda il Sud Italia sarà potenziata la ferrovia Napoli-Reggio Calabria, e la tratta Napoli-Bari. E' stata poi anche ribadita la disponibilità a sostenere il miglioramento del collegamento tra Messina e Palermo.

«Non inserendo il ponte sullo Stretto nell'elenco delle opere strategiche l'Unione europea ha ancora una volta sconfessato il governo italiano- hanno commentato gli europarlamentari del Pd David Sassoli e Rita Borsellino- A causa dello scarso peso del nostro governo nelle scelte di Bruxelles non solo abbiamo rischiato di perdere l'asse tra Napoli e Palermo, ma non è stato possibile completare il quadro degli interventi di cui il nostro Paese ha bisogno, a partire da una maggiore interconnessione tra il Mezzogiorno e il resto d'Europa e da un ulteriore potenziamento dei collegamenti ferroviari interni».

Considerato che prima o poi andremo a nuove elezioni, anche l'opposizione dovrà chiarire quali sono i punti fermi nel campo dei trasporti (e non solo) su cui puntare, avendo come stella polare, auspichiamo, lo sviluppo sostenibile del Paese.

Con la finanziaria di mezza estate approvata dal parlamento (legge del decreto legge 112/2008, legge di conversione 133/2008) sotto il titolo “misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico” (articolo 13), il governo propone un piano di alienazione, o meglio di svendita, di quel patrimonio. Se questa previsione dovesse realizzarsi sparirebbe il patrimonio di edilizia residenziale pubblica necessario per dare una risposta a chi non potrà mai soddisfare la propria domanda di casa rivolgendosi al mercato e produrrebbe incomprensibili iniquità-

La svendita del patrimonio altrui

Le nuove norme affidano ad accordi tra gli i Ministri dei trasporti e infrastrutture e per i rapporti con le regioni, da un lato, e le regioni e gli enti locali, dall’altro, la definizione delle procedure per la vendita degli alloggi pubblici. Gli accordi dovrebbero rispettare questi requisiti: a) i prezzi di vendita dei singoli alloggi devono essere proporzionati ai canoni pagati dai rispettivi assegnatari in locazione; b) agli assegnatari, che non siano già in possesso di un’altra abitazione e morosi nel pagamento del canone, è riconosciuto un diritto di opzione all’acquisto; c) i proventi delle alienazioni devono essere impiegati per finanziare interventi per alleviare il disagio abitativo.

Proprietari degli alloggi sono gli istituti autonomi case popolari, nella gran parte dei casi, e gli enti locali, in qualche regione. Non sono mai le amministrazioni statali. Il governo promuove, quindi, l’alienazione di un patrimonio che non è suo e regolamenta una materia sulla quale la corte costituzionale ha già ritenuto illegittimo l’intervento dello stato. Occorre ricordare, infatti, che l’articolo 13 del D.L. 112/2008 ha la stessa struttura ed anche gli stessi contenuti dei commi 597-598 della legge 266/2005 (legge finanziaria per 2006, approvata dal precedente governo Berlusconi), dichiaratati illegittimi dalla corte costituzionale con la sentenza 94/2007.

E occorre anche ricordare che molte regioni hanno già regolamentato l’eventuale vendita di alloggi pubblici, stabilendo condizioni che sono molto più eque ed efficaci di quelle previste dal governo.

Beneficio chiama beneficio

La finalità dell’alienazione del patrimonio di alloggi pubblici, dovrebbe “favorire il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi” (articolo 13, comma 1). Verosimilmente si pensa di perseguire questo obiettivo costruendo nuovi alloggi con i proventi delle alienazioni (il criterio c degli accordi). Ma quella che viene proposta, solo in misura molto contenuta può essere considerata una misura di politica per la casa con cui contribuire a risolvere i problemi dei soggetti in condizione di disagio abitativo di origine economica generato dall’inadeguatezza dei loro redditi a sostenere i prezzi di mercato dei contratti di locazione o vendita.

La proposta ha, però, una indubbia impronta politica, che evoca la parola d’ordine della ownership society, lanciata nella seconda campagna elettorale di Bush, che però non gli portato molta fortuna. Essa va incontro all’aspirazione della gente a diventare proprietari della casa, per ragioni simboliche e materiali.

In questo caso, però, la diffusione della proprietà non aiuta a restringere l’area del fabbisogno abitativo, come, invece avviane, con i programmi di edilizia agevolata che incentivano l’acquisto della prima abitazione in proprietà da parte di famiglie che non hanno ancora potuto soddisfare la loro domanda di servizi abitativi. Il piano di alienazione che il governo intende realizzare si rivolge, infatti, a soggetti ai quali le politiche di welfare nel settore della casa hanno già risolto il problema; nella stragrande maggioranza dei casi in maniera definitiva, poiché sono rari quelli in cui l’inquilino di un alloggio pubblico decade dall’assegnazione. L’attenzione è rivolta agli “inclusi”, che il problema della casa lo hanno già risolto, piuttosto che agli “esclusi”, che da soli non hanno i mezzi per risolverlo.

Le condizioni di acquisto previste sono talmente vantaggiose per gli inquilini che di fatto essi beneficiano di una di prestazione agevolata che si aggiunge a quella consistente nel pagamento fino a quel momento di canoni molto al di sotto di quelli di mercati.

È scritto valorizzazione si legge svendita

La previsione di determinare il prezzo di vendita di ogni alloggio in “proporzionale al canone” pagato dal suo inquilino, rischia di rendere i risultati del piano economicamente risibili. Questo meccanismo di determinazione è tra i più iniqui ed anche il meno efficace, ai fini della valorizzazione economica del patrimonio e del soddisfacimento del fabbisogno abitativo.

I canoni degli alloggi sono determinati, sulla base delle normative delle singole regioni, considerando anche il reddito di ogni singolo assegnatario. Se non è proprio proporzionale al reddito, il canone è comunque da esso influenzato. Ad alloggi aventi le stesse caratteristiche possono essere, pertanto, applicati canoni diversi. Di conseguenza due alloggi aventi esattamente le stesse caratteristiche potranno avere prezzi di vendita anche molto differenti l’uno dall’altro e due soggetti con lo stesso reddito possono diventare proprietari dei rispettivi alloggi aventi valori di mercato diversi l’uno dall’altro.

I canoni sono in genere molto bassi, a livello nazionale in media intorno ai 1.000 euro all’anno. Il decreto non lo specifica, ma, verosimilmente, il prezzo di vendita dovrà essere un multiplo del canone. Per valutare gli effetti del meccanismo, ipotizziamo che sia un multiplo molto alto, per esempio 40 . Chi paga un canone annuo di 1.000 euro potrà acquistare l’appartamento per 40 mila euro. Detto diversamente si può ipotizzare che il prezzo di vendita dell’alloggio sia pari all’importo corrispondente a 40 anni di canoni. Questo numero di anni è già molto elevato: per chi paga canoni tanto bassi, più si eleva il numero di anni e meno conveniente, sul versante finanziario, diviene acquistare l’alloggio.

Se questo prezzo fosse “ammortizzato” pagando mensilmente il canone attuale, la “valorizzazione” sarebbe nulla o molto ridotta, poiché si otterrebbero dei ricavi di ammontare e con profili temporali simili a quelli dei canoni. In questo caso, se si vendessero proprio tutti gli alloggi, si potrebbe, in via ipotetica, ottenere un risparmio pari alle spese di gestione degli alloggi stessi (e quindi alle spese di funzionamento degli Iacp o delle strutture che ora svolgono questa funzione, e che in seguito non avrebbero più ragione di esistere). Questo in via teorica: di fatto non sarebbe così, a meno di non licenziare il personale addetto a tale compito.

Se l’intero prezzo fosse pagato in un’unica soluzione, al momento del trasferimento della proprietà dell’alloggio, per ottenere le risorse necessarie alla costruzione di un nuovo appartamento occorrerebbe venderne almeno 4 o 5 dei vecchi.

Questo risultato, sebbene contenuto, non è, tuttavia, assicurato. Va infatti osservato che qualora fosse attribuito ai singoli assegnatari la facoltà di acquistare o meno gli alloggi abitati (e, d’altra parte, a nessuno di essi può essere imposto di acquistare), una parte degli alloggi posti in vendita potrebbe non essere acquistata. Si creerebbero così “condomini misti”: una parte degli alloggi continuerebbe ad essere di proprietà pubblica ed una parte sarebbe di singoli privati (come insegna l’esperienza dei precedenti piani di alienazione ex legge 560/93). Nei casi in cui questi ultimi detengono la maggioranza delle quote condominiali, potrebbero procedere a ristrutturazioni delle parti comuni degli immobili, alle spese per quali il proprietario pubblico non può sottrarsi. È allora molto probabile che una parte rilevante dei proventi delle vendite debba essere investita non per la realizzazione di nuovi alloggi, ma per ristrutturare quelli di cui il settore pubblico ha conservato il possesso. Con la conseguenza che potrebbero anche evaporare del tutto le risorse per nuovi appartamenti.

Dire che le Ferrovie non vanno d’accordo con le stazioni sembrerebbe un nonsenso. Sarebbe come sostenere che un chirurgo non fa le operazioni perché non riesce a trovare il bisturi giusto. Eppure è così. Da più di un decennio è variabile, spesso tendente a burrasca con episodiche schiarite, il rapporto tra le Ferrovie dello Stato e Grandi Stazioni, la società mista pubblico-privato che ha come missione la ristrutturazione e la gestione dei 13 maggiori scali nazionali. Con l’arrivo di Mauro Moretti alla guida delle Fs cinque anni fa, questa altalenante relazione si era addirittura complicata e ulteriormente guastata. Come se non bastasse, di recente ci sono stati annuvolamenti perfino tra Fs e Centostazioni, l’altra società mista pubblico-privati che ha il compito di curare gli scali meno grandi e delle città di provincia. L’origine delle frizioni in questo caso è la stazione romana di Ostiense, quella scelta da Ntv di Luca Cordero di Montezemolo come quartier generale della propria compagnia ferroviaria che farà concorrenza alle Fs sulle tratte dell’Alta velocità.

Nella testa di Moretti ora sarebbe arrivato il momento di vendere le stazioni maggiori, cioè sarebbe opportuno che le Ferrovie dello Stato cedessero il loro 60 per cento della società ai privati che hanno il 39 per cento, diviso in tre parti uguali tra Benetton, Pirelli e Caltagirone, mentre il residuo 1 per cento è in mano a Sncf-Société nationale des chemins de fer, le ferrovie francesi a loro volta azioniste dell’azienda di Montezemolo con circa il 20 per cento.

In un’intervista al Corriere della Sera l’amministratore delle Ferrovie italiane ha annunciato che passerebbe volentieri il pacchetto di maggioranza Fs ai privati, ma non a Sncf, spiegando la scelta con la considerazione che Grandi stazioni è una gallina dalle uova d’oro.

Una motivazione sorprendente. Per due motivi. Il primo è che se Grandi stazioni è diventata un affarone come sostiene Moretti non si vede perché le Ferrovie pubbliche dovrebbero privarsene proprio ora. Il secondo elemento di sorpresa è che con questa decisione Moretti ribalterebbe di 360 gradi le scelte assunte non molto tempo fa, quando volle impegnarsi in prima persona come presidente di Grandi stazioni dopo aver ingaggiato un lungo braccio di ferro con i privati che avevano nominato l’amministratore Fabio Battaggia. Moretti allora si lamentò molto dei privati accusandoli, sostanzialmente, di comportarsi come azionisti inconcludenti.

I fatti in quel caso davano ragione all’amministratore Fs. Nata addirittura nel 1996 per rilanciare i maggiori scali nazionali, Grandi Stazioni per quasi un quindicennio era riuscita a stento a ristrutturare Roma Termini per il Giubileo del 2000 accontentandosi poi di lucrare sulla gestione degli spazi commerciali ricavati. Gli altri interventi erano tutti al palo, e cioè Torino, Milano, Napoli, i due scali di Genova, Venezia Santa Lucia, Mestre, Verona, Bologna, Firenze, Bari e Palermo. Negli ultimi tempi la situazione è un po’ migliorata con l’ultimazione dei lavori a Torino, Milano e Napoli. La vera novità ora è l’entrata in esercizio di Tiburtina a Roma la cui inaugurazione resta ufficialmente fissata per la fine dell’anno nonostante il disastroso incendio di alcuni mesi fa. A Tiburtina in futuro si attesteranno i treni veloci delle Fs e quindi dal punto di vista commerciale e del business è questa la vera gallina dalle uova d’oro dei binari che farà inevitabilmente decadere Termini verso una funzione subordinata e secondaria. Non è ancora chiaro chi riuscirà a mettere le mani su Tiburtina. La gara per l’affidamento della struttura è stata bandita e le Ferrovie hanno fatto sapere che Grandi stazioni non può vantare un diritto di prelazione.

Nel frattempo si sta complicando la faccenda di Ostiense per due motivi. Il primo è che a pochi mesi dalla partenza dei treni veloci di Montezemolo, gli adiacenti parcheggi dell’ex Air Terminal sono occupati dalle tende di centinaia di profughi afghani e le Fs sembrano non preoccuparsene. Le stesse Fs che a Termini e in altre stazioni hanno opportunamente istituito help center per gli emarginati insieme alla Caritas e lanciato il progetto “Un cuore di stazione” insieme all’Enel. L’altro elemento di complicazione sono i lavori di ristrutturazione che da tre anni Centostazioni (60 per cento Fs e 40 diviso tra Save, Manutencoop e Banco Popolare) vorrebbe effettuare, ma che sono rimasti al palo perché mancava l’assenso proprio delle Ferrovie. In questo momento il colonnato e la storica facciata di lastre di marmo sono ingabbiati dalle impalcature e resteranno così per anni.

Ancora non è stata neppure lanciata la gara per l’aggiudicazione dei lavori, poi sarà necessario avviare concretamente gli interventi e se tutto andrà bene ci vorranno mesi se non addirittura anni, appunto, per finire l’opera. É quindi molto probabile che Ntv sia costretta a partire con l’handicap della sua stazione principale fasciata dai ponteggi.

postilla

Esemplare il caso della stazione ferroviaria di Venezia S. Lucia e dell’impero Benetton. Vedi in proposito i due documentati saggi della collana “Occhi aperti su Venezia”, Corte del Fòntego editore, Il ponte di debole costituzione di Nelly Vanzan Marchini e Benettown di Paola Somma

Il lettore rilegge il titolo, tre volte, incredulo, fino a dovere riconoscere che quanto legge non è illusione. La cover story dell’ultimo numero di Agricoltura, il mensile dell’Assessorato regionale dell’agricoltura titola, esattamente, Il consumo del suolo è una minaccia inarrestabile. I dati con cui il solerte redattore dimostra la drammaticità del fenomeno sono obiettivamente inquietanti: conquistando un ambito primato nazionale, la regione Emilia Romagna avrebbe coperto di cemento, nell’arco temporale compreso tra il 2003 e il 2008, dieci ettari di suoli agricoli ogni giorno. E’ sufficiente una semplice moltiplicazione per verificare che il dato corrisponde alla sottrazione, alla sola agricoltura emiliana e romagnola, ogni quattro anni, della potenzialità produttiva di un milione di quintali di frumento. Siccome il pane quotidiano degli italiani corrisponde al fabbisogno di 70 milioni di quintali annui, e la sottrazione del suolo agricolo ha privato l’agricoltura nazionale, negli ultimi venti anni, della superficie equivalente a 60 milioni di quintali (che, per non rinunciare a colture diverse, l’Italia sarà per sempre costretta a importare), il contributo emiliano romagnolo alla distruzione della risorsa necessaria alla prima esigenza di qualunque società umana è palese e inquietante. Se consideriamo la travolgente rivoluzione imposta ai mercati mondiali delle derrate dalla nuova domanda asiatica, e dalla decisione americana di convertire in carburante un quarto della propria produzione cerealicola, dobbiamo riconoscere di essere di fronte a un autentico delitto contro le generazioni future.

Misurata l’entità della minaccia incombente sugli italiani di domani, il lettore del foglio regionale torna al titolo e l’incredulità si converte in un sentimento diverso. Il periodico ufficiale dell’Assessorato all’agricoltura della Regione proclama che la conversione dei campi sarebbe una minaccia inarrestabile, che significa tale che nessuno potrebbe arrestarla. Rilegge il titolo, verifica, in prima pagina chi diriga la pubblicazione, constata che è lo stesso autorevole assessore all’agricoltura. L’incredulità si converte in sconcerto, lo sconcerto assume le connotazioni dello sgomento. L’assessore, erede di una lunga successione di “ministri” che da un trentennio assicurano gli elettori che il “modello di sviluppo” cui conformano la politica regionale dell’ambiente sarebbe “sostenibile”, sottoscrive l’allarme per un processo che condannerebbe alla fame gli italiani di domani, definendolo inarrestabile, cioè fuori da ogni possibilità di controllo da parte di chi governa la società e l’economia regionale. Ma allora ci si domanda: lo sviluppo regionale è processo di cui è possibile il controllo, ed è legittimo che vi sia chi proclama di indirizzarlo secondo i criteri della “sostenibilità”? O invece è fenomeno che si sottrae ad ogni umano potere, soggetto alle influenze di astri malevoli? Si dica però agli elettori che non esiste assessorato regionale in grado di controllare il divenire dell’ambiente, e si riconosca, per coerenza, che chi si proclama tutore dello sviluppo “sostenibile” gioca sul soddisfacimento dei bisogni essenziali delle generazioni future.

Ma è mai possibile che l’assessore di oggi, e, prima di lui, i predecessori nella pratica dello “sviluppo sostenibile”, non abbiano percepito che l’entità della progressiva sottrazione dei suoli agricoli in Emilia Romagna costituisce un autentico delitto verso la sicurezza delle generazioni future? Che la minaccia inarrestabile fosse ignota non sembra credibile. Nel 2003 il presidente dell’Associazione regionale delle bonifiche spiegava alla stampa che negli ultimi tredici anni nella nostra regione erano stati sottratti all’agricoltura 157.000 ettari, l’equivalente dell’intera provincia di Ravenna (la più piccola della Regione, ma è una consolazione?). Poteva forse essere forse ignorato il dato proclamato urbi et orbi da uno degli organismi più autorevoli che condividono con la Regione la gestione del territorio dell’Emilia Romagna? Pubblicato questo dato, chi governa l’agricoltura regionale ha il dovere di farsi promotore della revisione di tutti i piani comunali di sviluppo edilizio. Potrà allora a buon diritto proclamarsi paladino della “sostenibilità”!

Una postilla è d’obbligo sulla tessera della agricoltura regionale costituita dalla provincia di Modena, la cui Giunta ha proclamato, in circostanze diverse, la propria ferma determinazione a arrestare la conversione in cemento dei suoli agrari, pubblicando che quella conversione si misura, sul territorio provinciale, in 350 ettari all’anno (2005), entità enorme per un territorio in parte rilevante montagnoso, nel quale i suoli di reale valore agrario costituiscono peculio tanto minore, e tanto più prezioso. Se sono lodevoli i proclami, attraversare le campagne modenesi su una qualsiasi delle strade che le solcano impone la domanda sulla coerenza di chi li emana. Percorriamo la Fondovalle Panaro: un piccolo borgo quale Marano ha sepolto, con una sola operazione edilizia, i meravigliosi terreni su cui fiorivano orti e frutteti e così ha raddoppiato il proprio insediamento urbano. Come è stata possibile una simile impresa dopo il solenne impegno degli amministratori provinciali a frenare la distruzione del territorio agricolo? O coloro che governano quel paese sul Panaro hanno violato regole che lo vincolavano, o chi, a Modena, ha proclamato l’arresto dell’urbanizzazione selvaggia non diceva sul serio.

Come tutti gli anni, il 16 ottobre, la Fao ci chiama a riflettere con la Giornata Mondiale dell´Alimentazione. Ciclicamente, purtroppo solo per un attimo, torniamo a prendere atto che fame a malnutrizione non spariscono dalla faccia della Terra neanche per sbaglio. Tra i tanti, è questo il vero, più serio e potente motivo per sentirsi indignati oggi.

Anche se grazie alla ricorrenza si spendono fiumi di parole, purtroppo soltanto quelli, si spendono. Gli Stati e gli organismi internazionali non mantengono le promesse che fanno in tema di aiuti allo sviluppo e quasi sempre, quando ci provano davvero, finiscono con il far "costare più la salsa che il pesce". Nel 2000, con la Dichiarazione del Millennio dell´Onu, ogni Stato ricco promise di aumentare gli aiuti pubblici allo sviluppo per lo 0,7% del proprio Pil entro il 2015. Pochissimi Stati hanno già superato la soglia, la maggioranza no: la media oggi è poco più alta dello 0,3%. L´Italia, per non farsi mancare niente, si distingue tra quelli in fondo alla classifica: siamo allo 0,1% e negli ultimi anni abbiamo continuato a tagliare in maniera importante questi aiuti, nel nome della crisi. Leggere il nuovo rapporto di Action Aid Italia uscito a settembre, dovrebbe farci vergognare per come siamo indietro su tutti i fronti. Intanto, nonostante la crisi, non smettiamo di costruire caccia bombardieri e partecipare a missioni di guerra costosissime: quei soldi basterebbero e avanzerebbero di molto per fare la nostra parte negli aiuti promessi.

Le notizie che quest´anno sono arrivate dal Corno d´Africa (con una carestia che ha coinvolto 13 milioni di persone soprattutto in Somalia, Kenya, Etiopia, delle quali decine di migliaia sono già morte e 750.000 a rischio di morte nei prossimi mesi) non sono di nuovo state sufficienti a smuovere le coscienze in maniera generalizzata. La cosa sconvolgente è che il problema del miliardo circa di persone che soffrono di malnutrizione e fame è, tra tutti i problemi che ha oggi la comunità mondiale, uno di quelli di più facile soluzione: sarebbe sufficiente averne la volontà. Al limite, basterebbe anche soltanto qualche rinuncia, meno avidità, meno colonialismo economico e culturale. Invece, per citare Ghandi a pochi giorni dall´anniversario della sua nascita, «nel mondo c´è abbastanza per i bisogni dell´uomo, ma non per la sua avidità».

Forse l´unica soluzione è cominciare a fare propria questa battaglia a livello personale, ognuno di noi. Ma come possiamo fare, pur carichi di sana e giusta indignazione? Intanto, iniziamo dallo spreco. Secondo i dati di Last Minute Market sprechiamo 20 milioni di tonnellate di cibo ogni anno, soltanto nel nostro Paese. Sarebbero sufficienti a sfamare 40 milioni di persone: siamo distratti, non siamo sensibili, è un po´ colpa nostra ma in un certo senso siamo vittime di un sistema che per così com´è strutturato non diventerà mai virtuoso, nemmeno sotto i colpi della crisi. È un sistema economico iniquo, che fa dei rifiuti la sua stessa ragione di esistenza. Quei 20 milioni di tonnellate di cibo buttate via ogni anno in Italia lo alimentano: un consumismo spietato dove tutto si brucia e va sostituito al più presto, anche il nutrimento. Allora dobbiamo cominciare a rivoluzionare in casa nostra, se vogliamo coltivare la speranza che anche in Africa le cose si rivoluzionino.

Cambiare qui per cambiare l´Africa: ecco uno slogan, se ce n´era bisogno. Mai nella storia dell´uomo abbiamo avuto così tanta quantità di cibo a disposizione per l´umanità e mai nella storia abbiamo sprecato così tanto. Oltretutto, come spiega una recente ricerca storiografica che sta per essere pubblicata in Usa, nonostante le guerre in corso il mondo non è mai stato in pace come in questa epoca. Lo spreco di fronte alla fame è la vera anomalia dei nostri tempi.

Il sistema avido in cui siamo immersi ha trasformato il cibo in una merce, l´ha spogliato dei suoi valori mentre l´unico valore che resta è il prezzo. Siamo tutti obbligati a comprare, a consumare, a un determinato prezzo. Non coltiviamo più, abbandoniamo l´agricoltura e intanto chi non ha soldi non può mangiare perché non può acquistare cibo: è il sistema che sta condannando milioni di africani. È ciò che va scardinato con le nostre azioni quotidiane: non sprecando e rieducandoci al cibo e ai suoi valori, anche quelli dell´agricoltura. È ciò che più immediatamente possiamo fare, formando nuove generazioni che non vogliano più stare a questo gioco al massacro.

Lasciatemi dire che con Slow Food stiamo raccogliendo fondi da dare alle comunità per realizzare mille orti in Africa nel corso del prossimo anno. È una goccia nel mare, perché ce ne vorrebbero un milione, ma è pur qualcosa. Un orto per una comunità è un ritorno alla terra, alla dignità del coltivare il proprio cibo, una garanzia di autosostentamento, attraverso le tecniche e le sementi locali: da parte nostra c´è solo aiuto a distanza, in risorse e in semplici migliorie tecniche non invasive. Per fortuna non siamo gli unici.

L´auspicio è che la politica ponga tutti questi problemi tra le sue priorità, ma se non si rinuncia a quel sistema economico-finanziario che in realtà la foraggia e che lei sostiene; se non si guarda a nuove vie e nuovi paradigmi per il futuro, a una vera rinascita dell´agricoltura (ovunque), allora sarà molto più dura. Noi iniziamo con la reciprocità, a donare e a far girare i doni in quest´economia malata, partendo anche dal sostegno ai nostri stessi contadini, con acquisti diretti di cibo locale, perché pure loro iniziano a subire gli effetti disastrosi di un sistema incompatibile con la natura, che li sta schiacciando. I contadini, insieme alle associazioni della società civile, uniti nel Cisa (Comitato Italiano per Sicurezza Alimentare), in questi giorni stanno facendo sentire la loro voce a Roma, proprio davanti alla Fao: ascoltiamoli, appoggiamoli. Io credo veramente che non sprecando, aiutando le economie agricole locali in ogni angolo della terra, regalando qualcosa per far rinascere le singole comunità africane nel nome della loro produzione alimentare, potremo dare il via a un nostro cambiamento profondo, che infine cambierà anche l´Africa. Ma sempre e solo grazie agli africani: bisognerà pur dargliene la possibilità, smettendola di far pagare soprattutto a loro le nostre condotte scellerate e ormai decisamente impazzite.

postilla

Il suolo non serve solo per costruire. Dal suo uso dipende anche la fame nel mondo: oggi nel Terzo, domani forse anche nel Primo. Non sono soltanto lo sprawl e l’urbanizzazione immotivata le cause del consumo di suolo destinato all’alimentazione: anche la riduzione del terreno utilizzato dall’agricoltura e – nell’ambito di quello che rimane coltivato – la sostituzione di colture industriali a quelle desinate all’alimentazione delle popolazioni che nel territorio abitano. C’è una catena causale che lega i diversi mondi nella corsa comune verso la distruzione. Lo sprawl e il "land grabbing" sono parti del medesimo meccanismo economico. Il primo, battezzato nei paesi della civiltà nordatlantica, esprime il primato della rendita sul lavoro e sul profitto, il secondo è la forma neocolonialista dello sfruttamento dei paesi appartenenti alle altre civiltà: sottrarre terreno alle comunità locali, sostituire l'agricoltura di sostentamento con le grandi colture industriale, esporre alle crisi sistemiche della globalizzazione dei mercati le economie locali e distruggerle.

L’articolo di Carlo Petrini induce a ricordare le parole di Enrico Berlinguer sull’austerità come leva dello sviluppo. Parole dense di verità; oggi più attuali che mai, ove si sappiano scorgere in esse significati dversi da quelli che hanno assunto sia l’una (“austerità”) che l’altra (“sviluppo”) nel linguaggio e nell’ideologia divenuti egemonici.

Sei milioni di italiani vivono in 1,7 milioni di alloggi tirati su abusivamente. “Case della domenica”? Nel dopoguerra, negli anni ’50 e ’60. Poi soprattutto case, ville, villone, lottizzazioni, interi quartieri, per esempio a Casalnuovo di Napoli, denunciati dalla trasmissione Rai “Ambiente Italia”. Finanziati sovente con soldi “sporchi”. “Il trionfo del ‘Paese fai da te’ ha portato alla cancellazione di fatto dello Stato in Italia”. Lo sostiene Paolo Berdini autore della recente, documentata “Breve storia dell’abuso edilizio in Italia” (Donzelli).

Eppure Silvio Berlusconi riparla di condoni e quindi anche di condono edilizio.“Per i piccoli abusi”, minimizza lui. In realtà per venire incontro alle attese elettorali del popolo inesausto degli abusivi, degli evasori di ogni regola e legge (“Così rivinceremo le elezioni”). E solo parlandone ridà fiato ai fuorilegge del mattone, alla speranza che quei loro nuovi cantieri rientreranno in una prossima sanatoria. Il centrodestra sembra diviso fra il sì e il no. Lo è pure il governo: contrario il leghista Calderoli, favorevole La Russa che, senza arrossire, definisce il condono “un antibiotico forte” per l’Italia malata. E chi si oppone invocando l’etica pubblica? Per Cicchitto e Boniver è “un Savonarola”. Del condono fiscale si è già detto tutto il male possibile. Quello edilizio è, chiariamolo, un regalo sciagurato alla illegalità criminale e un delitto contro ambiente-paesaggio- difesa del suolo. Quando si costruisce una villa abusiva, tutto è “in nero”: niente oneri di urbanizzazione; nessun rispetto dei vincoli idrogeologici e altro; illegali le imprese di trasporto e costruzione; niente contratti, né contributi per i lavoratori, e così via.

Quindi, sono, già in partenza, una raffica i danni assicurati al bene primario e collettivo “paesaggio”. Ma, almeno, il condono edilizio frutta incassi immediati? Di voti sì, di denari no. Secondo la Corte dei conti, nel 2008 restavano da incassare ancora 5,2 miliardi di euro previsti col condono del 2003-2004, quattro o cinque anni prima, cioè il 20 % del gettito previsto. Ma vi sono ancora aperte pratiche del primo condono, quello voluto, con l’intento in parte sincero, di “chiudere per sempre la partita dell’abusivismo edilizio” dal governo Craxi nel 1984. Una pia illusione, nel migliore dei casi. E sì che il condono berlusconiano del 2003 (il secondo del Cavaliere, dopo quello del 1994) era stato edilizio e ambientale e sanava pure guasti avvenuti in aree protette. Addirittura in aree in parte demaniali. Come del resto è successo per decenni in Sicilia dove la colata di cemento si è riversata a filo di arenile, cioè in buona parte su aree demaniali. Abusi di per sé insanabili. Che da decenni non hanno più nulla a che fare con l’edilizia illegale “di necessità”.

Dunque, il condono edilizio non fa incassare denari a breve. Anzi, ne fa spendere allo Stato: 500 euro ogni 100 incassati, sostiene l’urbanista Berdini. Per portare servizi pubblici essenziali. Oggi esso unisce in un solo fronte contrario i costruttori veri che si oppongono e chiedono (Paolo Buzzetti, presidente dell’ANCE) norme per riqualificare il patrimonio edilizio degradato, i Comuni (“una istigazione a delinquere”, tuona il sindaco di Piacenza, Roberto Reggi), associazioni come FAI e Wwf. Rianima l’edilizia? No, deprime slealmente quella che c’è. E allora, perché inserirlo in questa manovra? Per ragioni sfacciatamente pre-elettorali che riguardano soprattutto il Mezzogiorno dove si concentrano da sempre (record in Sicilia e Campania) i due terzi dell’edilizia fuorilegge. Sono ricorrenti le istanze per una sanatoria speciale dedicata alla Campania, sempre più imbruttita e sfregiata, dove l’abusivismo (inquinato dalla camorra) ha devastato costa, interno e splendide isole come Ischia ormai in costante pericolo di sfacelo. All’inizio della sua “discesa in campo” Berlusconi proclamò: “Ciascuno è padrone a casa sua”. Era l’invito al “fai-da-te” più totale e sfrenato dei padroncini. E alla parallela distruzione di ogni nozione di interesse generale o collettivo, di controllo dello Stato. Peggio del fascismo? Alla fine, probabilmente sì.

Ogni giorno in Italia vengono cementificati 130 ettari di terreno fertile. Sviluppo necessario? Non sempre, visto il gran numero di aree dismesse destinate a restare inutilizzate. Ma allora perché le misure a salvaguardia del suolo continuano a incontrare tante ostilità?

La Provincia di Torino ha appena approvato un piano di governo del territorio che introduce per la prima volta, all’articolo 1 e come principio cogente per i Comuni, «il contenimento del consumo di suolo». E dunque: stop alle edificazioni indiscriminate su aree libere, riuso di quelle già compromesse. Una rivoluzione, in un territorio in cui le nuove costruzioni in quindici anni hanno occupato un’area vasta quasi quanto Torino, mentre la popolazione rimaneva invariata. La frantumazione dei nuclei familiari (il 53% ha meno di tre componenti), che aumenta la domanda di nuovi alloggi, giustifica solo in parte il fenomeno. Infatti nell’ultimo decennio in Italia sono state costruite 4 milioni di case, ma ce ne sono 5,2 milioni vuote solo nelle grandi città.

«Il consumo di suolo è la grande emergenza del nostro Paese», spiega il presidente della Provincia di Torino Antonio Saitta. «Io non sono un talebano, ma non si può più consumare il futuro». In Italia si cementificano ogni giorno circa 130 ettari di suoli fertili. Si tratta di una stima, perché lo Stato non si è mai occupato del problema e ogni Regione fa a modo suo (solo cinque hanno banche dati), quindi ci si affida ai dossier di associazioni ambientaliste e professionali o a studiosi appassionati tra cui Andrea Arcidiacono, Paolo Berdini, Vezio De Lucia, Georg Josef Frisch, Luca Mercalli, Paolo Pileri, Edoardo Salzano, Salvatore Settis, Tiziano Tempesta.

Dal 2000, con la possibilità di spendere gli oneri urbanistici liberamente, è stata data ai Comuni la licenza di svendere il territorio: con gli incassi si tamponano le falle nei bilanci. Altri Paesi hanno preso sul serio la faccenda. La Germania si è ripromessa di dimezzare i 60 ettari consumati ogni giorno. La prima legge in tal senso fu promossa negli Anni 80 da Angela Merkel, all’epoca ministro dell’Ambiente. Inoltre ha stanziato 22 milioni di euro per ricerche, mentre in Italia l’ultima finanziata con denaro pubblico risale agli anni ‘80. In Gran Bretagna, ogni anno il premier stila un documento sul suolo consumato: quanto, come e perché, ettaro per ettaro, considerando che la legge obbliga a costruire per il 60 per cento su «brownfield sites» (aree già edificate).

In Italia il ministero dell’Ambiente non ha nemmeno un osservatorio. Il suolo è prezioso per diverse ragioni: garanzia di sovranità alimentare, come dimostra l’accaparramento delle terre a opera delle economie emergenti; antidoto al dissesto idrogeologico, in un Paese a rischio per due terzi; serbatoio di anidride carbonica; formidabile riciclatore di rifiuti. «Insomma il suolo è il fegato dell’ecosistema terra», sintetizza l’agronomo Antonio Di Gennaro, autore del libretto «La terra lasciata» (Clean Edizioni). Non solo. La pellicola di suolo formatasi in processi millenari si distrugge facilmente e in modo irreversibile.

A metà del secolo scorso, l’Italia aveva il massimo della superficie coltivata. Poi è cominciata l’edificazione di massa, che negli ultimi decenni si è concentrata sul 20 per cento di territorio pianeggiante, cioè più fertile e delicato. Contemporaneamente, l’abbandono della montagna causava un aumento dei boschi per 80 mila ettari. Notizia solo apparentemente positiva: la montagna senza manutenzione rovescia acqua sulla pianura inflazionata. Seguono disastri. Che fare? Negli ultimi anni, qualcosa si è mosso: dal piano regolatore di Napoli, elaborato ai tempi della prima giunta Bassolino dai «Ragazzi del piano» (titolo di un libro dell’urbanista Vezio De Lucia, Donzelli) a quello della Provincia di Foggia, firmato da Edoardo Salzano, fondatore del sito web eddyburg.

In Lombardia, che ha il record di 15 ettari consumati ogni giorno, Domenico Finiguerra, giovane sindaco della minuscola Cassinetta di Lugagnano, è diventato portabandiera dell’urbanistica a consumo zero di suolo. Per ovviare agli incassi ridotti, ha creato un business dei matrimoni attirando turisti fin dalla Russia: dopo i primi contrasti, è stato rieletto a furor di popolo e ora gira l’Italia a raccontare la sua esperienza. Successo inaspettato ha ottenuto Nicola Dall’Olio, autore del documentario fai-da-te «Il suolo minacciato» sulla pianura padana sepolta dai capannoni vuoti. A Milano la ricerca «Spazi aperti», promossa dalla Fondazione Cariplo e realizzata dal Politecnico, ha monitorato la corona di comuni intorno all’area dell’Expo: in soli otto anni più di mille ettari di campi, prati e boschi sono stati persi «con il rischio che gli appetiti sollecitati dal grande evento spazzino via gli ultimi spazi liberi».

Due anni di lavoro e settemila fotografie sono diventati una mostra alla Triennale con 5 mila visitatori in due settimane. Movimenti e comitati si moltiplicano in tutta Italia e due mesi fa Slow Food ha lanciato un appello con il network «Stop al consumo di suolo», proponendo una moratoria per legge sulle aree non edificate. Proprio quello che ha deciso di fare la Provincia di Torino. Per lunghi anni (e in molte parti d’Italia ancora oggi) questi piani provinciali sono serviti solo a elargire laute consulenze, producendo libroni di vaghi e inattuati precetti. In realtà, possono essere importanti.

La Provincia di Torino lo ha elaborato proprio nel pieno della polemica sul nuovo megastore Ikea. Lo stesso Saitta aveva bocciato il progetto della multinazionale del mobile low cost: un nuovo megastore su una zona agricola nell’hinterland torinese. Saitta aveva obiettato: con tante zone industriali dismesse, non è il caso di compromettere un’area libera. L’azienda aveva già da tempo opzionato i suoli, il cui valore nel frattempo si era moltiplicato da 4 a 16 milioni di euro, impuntandosi: o lì o niente investimento. E così è nato un braccio di ferro. Lo scontro ideologico sull’Ikea avrebbe potuto mandare all’aria il piano del territorio, che negli stessi giorni giungeva a conclusione di un lungo iter.

Invece è accaduto il contrario: è stato approvato rapidamente sia in Provincia (maggioranza di centrosinistra) che in Regione (centrodestra) e condiviso con gran parte dei 315 sindaci del territorio. Ora Ikea sta trattando con le istituzioni una diversa collocazione del megastore, su un’area industriale dismessa. Se l’accordo andasse in porto, un capannone abbandonato sarebbe riutilizzato e oltre 150 mila metri quadri di terreno agricolo (un’area pari a venti campi di calcio) sarebbero salvi.

Nota: per chi volesse saperne di più, di seguito le Norme Tecniche del Piano Territoriale della Provincia di Torino citato nell'articolo

I calcoli più prudenti dicono che nell'ultimo decennio sono stati realizzati almeno 30 mila alloggi abusivi ogni anno. Nove milioni di metri cubi di cemento che distruggono l'ambiente, le città e i territori. Che sfuggono alla legalità, non pagano un euro di imposte, maestranze impiegate al nero, cantieri senza sicurezza.

Quei nove milioni sono lo specchio amaro del declino italiano. Sono la denuncia della distanza che ci separa dal mondo civile. In nessun altro paese occidentale si conosce l'abusivismo. Esiste lo Stato che fa rispettare le regole e tutela gli interessi dei cittadini onesti. Da noi ha trionfato l'Italia fai da te. In queste ore, tutte le giustificazioni con cui tentano di approvare il quarto condono edilizio sono state demolite una dopo l'altra dai migliori osservatori della realtà italiana. Eppure vanno avanti lo stesso.

«Con il condono edilizio si incassano preziose risorse». Ieri sul Corriere della Sera, Gian Antonio Stella dimostrava il carattere truffaldino di questa affermazione. I condoni servono spesso per ottenere una legittimazione formale. Si paga la prima rata e poi si rientra nell'illegalità. Di legalità avremmo invece un bisogno estremo. Enrico Fontana nei preziosi volumi Ecomafia di Legambiente ha dimostrato che gran parte degli abusi edilizi commessi negli ultimi decenni servono alla criminalità organizzata per riciclare denaro. Possibile che non lo sappiano ministri e dirigenti del Pdl? No, non è possibile, lo sanno eccome. La questione non è evidentemente giudicata importante.

«Con il condono almeno si incassa qualche risorsa, tanto nessuno demolirebbe nulla». E chi l'ha detto? Se è vero che la filiera dell'abusivismo è in mano alle organizzazioni criminali è giunto il momento di far vedere che esiste un paese che vuole la legalità. Approvi dunque il Parlamento non il quarto condono, ma un provvedimento che affida ai Prefetti e alla Magistratura il compito di eseguire le demolizioni. E se la maggioranza ha già dimostrato come la pensa, sospendendo le demolizioni che dovevano essere eseguite in Campania, perché l'opposizione non delinea con chiarezza che c'è un'alternativa al baratro che ci sta inghiottendo?

Perché la posta in gioco è proprio il futuro dell'Italia. Dopo tre condoni edilizi, se arrivasse anche il quarto nessuno potrebbe più parlare di regole, di legalità, di sviluppo ordinato del territorio, di rispetto dell'ambiente. Saremmo un paese che dichiara fallimento e ciascuno si sentirà in diritto di fare ciò che vuole: costruire dovunque, inquinare le acque, cancellare il paesaggio.

Battere i malfattori del cemento e i loro protettori politici è dunque l'ultima occasione per tentare di rilanciare il paese. La Comunità europea afferma che nel 2020 l'80 per cento della popolazione dei paesi membri vivrà in ambiente urbano. La sfida per la ripresa economica e per il futuro delle nuove generazioni passa nel saper adeguare le città alle sfide di un futuro di innovazione tecnologica, di risparmio energetico, di qualità dell'aria.

Gli altri paesi europei stanno investendo sistematicamente in questo orizzonte. Le loro città vengono dotate di reti tecnologiche; demoliscono autostrade urbane per costruire reti di trasporto su ferro; avviano processi di riconversione ecologica. In Italia, di fronte alle periferie più brutte e disordinate d'Europa, vogliono approvare il quarto condono edilizio! Non saremo più competitivi e perderemo investimenti preziosi.

Se il governo venisse sconfitto da una battaglia limpida su una questione così importante, l'opposizione dimostrerebbe di saper interpretare le diffuse energie che in questi giorni si esprimono contro il condono. Sarà difficile: Sesto San Giovanni è infatti l'altra faccia dell'abusivismo: Anche lì attraverso l'urbanistica contrattata si cambiavano regole e si aumentavano a piacere le volumetrie da realizzare. Molti hanno fatto credere in questi anni che cancellando regole ne avremmo giovato tutti. La crisi in atto dimostra il contrario. E' ora di prendere atto dell'errore. E' ora di chiudere la fase dell'illegalità: basta con i condoni e con la truffa dell'urbanistica contrattata. Solo le regole potranno salvarci dal declino.

Sul promontorio di Capo Vaticano, che Giuseppe Berto definì «uno dei luoghi più belli della Terra», svettano due ville «transgeniche». I proprietari hanno scavato due enormi buche, ci hanno costruito dentro il pavimento e le pareti e chiesto il condono: vasche di irrigazione. Poi, tolta l'acqua, rimossa la terra intorno, aperte le finestre, ci hanno piazzato sopra un tetto et voilà: due ville.

Uno Stato serio le butterebbe giù con la dinamite: non prendi per il naso lo Stato, nei Paesi seri. Da noi, no. Anzi, nonostante sia sotto attacco da anni l'unica ricchezza che abbiamo, cioè la bellezza, il paesaggio, il patrimonio artistico, c'è chi torna a proporre un nuovo condono edilizio. L'ha ribadito Fabrizio Cicchitto: «Se serve si può mettere mano anche al condono edilizio e fiscale. L'etica non si misura su questo ma sulla capacità di trovar risorse per la crescita». Ricordare che lui e gli altri avevano giurato ogni volta che sarebbe stata l'«ultimissimissima» sanatoria è inutile. Non arrossiscono. Ma poiché sono trascorse solo sei settimane dalle solenni dichiarazioni berlusconiane di guerra all'evasione (con tanto di spot) vale almeno la pena di ricordare pochi punti.

Il primo è che la rivista «Fisco oggi.it» dell'Agenzia delle Entrate, al di sopra di ogni sospetto, ha calcolato che dal 1973 al 2003 lo Stato ha incassato coi condoni edilizi, tributari e così via 26 miliardi di euro. Cioè 15 euro a testa l'anno per italiano: una pizza e una birra. In cambio, è stato annientato quel po' che c'era di rispetto delle regole. Secondo, il Comune di Roma, per fare un esempio, dai due condoni edilizi del 1985 e del 1994 ricavò complessivamente, in moneta attuale, 480 milioni di euro: 1.543 per ognuna delle 311 mila abitazioni sanate. In compenso, fu costretto per ciascuna a spenderne in opere di urbanizzazione oltre 30 mila. Somma finale: un «rosso» di 28.500 euro ogni casa condonata. Bell'affare…

Terzo: la sola voce di un possibile condono, in un Paese come il nostro, dove secondo gli studi dell'urbanista Paolo Berdini esistono 4.400.000 abitazioni abusive (il che significa che una famiglia italiana su cinque vive o va in ferie in una casa fuorilegge) scatena febbrili corse al mattone sporco. Ricordate le rassicurazioni dopo l'ultima sanatoria? Disse l'allora ministro Giuliano Urbani che il condono era limitato a «piccolissimi abusi, finestre aperte o chiuse, che riguardano la gente perbene». Come sia finita è presto detto: dal 2003 a oggi sono state costruite, accusa Legambiente, almeno altre 240.500 case abusive. Compreso un intero rione, vicino a Napoli, di 73 palazzine per un totale di 450 appartamenti.

Non bastasse, tre condoni hanno dimostrato definitivamente un fatto incontestabile: tutti pagano l'obolo iniziale per bloccare le inchieste e le ruspe, poi la stragrande maggioranza se ne infischia di portare a termine la pratica nella certezza che la burocrazia si dimenticherà di loro. Solo a Roma i fascicoli inevasi delle tre sanatorie sono 597 mila. Di questi 417 mila giacciono lì da 25 anni.

E vogliamo insistere con i condoni? Piaccia o no a chi disprezza i «moralisti», salvare ciò che resta del paesaggio d'Italia non è solo una questione estetica ma etica. E visti i danni già causati dagli abusivi al patrimonio e al turismo, anche economica.

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