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L’iniziativa è del Times di Londra. Si chiama "Città sicure per i ciclisti" e sulla rete impazza e si moltiplica come #salvaciclisti. Abbiamo deciso di sposarla e di rilanciarla perché ci sembra perfettamente in linea con lo spirito e la tradizione del nostro giornale e perché quattro mesi fa, il nostro collega Pier Luigi Todisco è morto a Milano, mentre veniva al giornale in bicicletta...

NEL NOME DI TOD — Qui sotto trovate gli 8 punti dell’appello che il Times ha lanciato all’amministrazione comunale londinese perché si organizzi al più presto con una serie di regole che rendano meno rischiose le città. Il quotidiano inglese lo ha fatto perché a novembre la giornalista Mary Bowers, 27 anni, è stata investita a pochi metri dalla redazione ed è ancora in coma. L’incidente è tutt’altro che raro visto che 1.275 ciclisti inglesi sono stato uccisi e oltre 25.000 severamente feriti sulle strade inglesi negli ultimi 10 anni. I dati italiani non sono migliori, visto che negli ultimi dieci anni i morti in bicicletta sarebbero 2.556. Tra questi, purtroppo c’è anche Pier Luigi Todisco, che aveva 52 anni, il nostro collega che lavorava nella redazione di Gazzetta.it. Tra qualche giorno, proprio sul nostro sito web nascerà un blog che tratterà i temi che erano più cari al nostro amico e collega, valorizzando le iniziative a favore degli ultimi.

ROSA E CICLISMO — La Gazzetta, fin dalla nascita nel 1896, si occupa con particolare attenzione di ciclismo e di gente che pedala. Siamo gli organizzatori delle più importanti corse italiane e sappiamo benissimo quanti e quali sono i pericoli delle strada. E’ ancora aperta la nostra ferita per la perdita di Wouter Weylandt. il venticinquenne olandese morto accidentalmente per una caduta in discesa durante il Giro. Da sempre ci battiamo per la realizzazione di piste ciclabili, per l’uso del casco, ma anche per il rispetto di chi pedala. Pensiamo ai corridori professionisti, ai cicloamatori della domenica e chi usa la bici per andare a scuola o per andare a lavorare. E sono sempre di più. Per tutti questi motivi abbiamo deciso di far nostro il Manifesto del Times "Città sicure per i ciclisti". E al nostro fianco c’è anche Rcs Sport che organizza il Giro d’Italia e ha deciso di essere in prima fila per questa campagna. Da oggi chiederemo ai più grandi campioni del nostro ciclismo, ma anche a tutti voi che ci leggete e avete a cuore questi argomenti, di firmare idealmente l’appello mandando un messaggio (dal pomeriggio) all’indirizzo mail salvaciclismo@gazzetta.it. E noi ci impegniamo a consegnare l’appello dei campioni che vorranno aderire e le vostre firme al governo e ai sindaci delle più importanti città italiane.

L'APPELLO — Ecco gli 8 punti dell’appello, che noi della Gazzetta e del Giro d’Italia sosteniamo.

1) Gli autoarticolati che entrano in un centro urbano devono, per legge, essere dotati di sensori, allarmi sonori che segnalino la svolta, specchi supplementari e barre di sicurezza che evitino ai ciclisti di finire sotto le ruote.

2) Gli incroci più pericolosi devono essere individuati, ripensati e dotati di semafori per i ciclisti e di specchi che permettano ai camionisti di vedere sul lato.

3) Indagine nazionale per determinare quanti vanno in bici e quanti vengono uccisi o feriti.

4) Il 2% del budget dell’ANAS dovrà essere destinato al piste ciclabili di nuova generazione.

5) Migliorare la formazione di ciclisti e autisti e la sicurezza dei ciclisti come parte fondamentale dei test di guida.

6) Limite di velocità massima nelle aree residenziali sprovviste di piste ciclabili a 30 km/h.

7) Invitare i privati a sponsorizzare la creare piste ciclabili e superstrade ciclabili prendendo ad esempio lo schema di noleggio bici londinese sponsorizzato.

8) Ogni città nomini un commissario alla ciclabilità per promuovere le riforme.

postilla

Forse inavvertitamente, forse consapevolmente (chissà) la Rosea Gazzetta importa in Italia una pur condivisibile campagna sulla sicurezza, che però non è certo “la campagna”, ma quella specifica del londinese Times, ispirata a quel tipo di cultura ciclistica che si è imposto nella capitale britannica dopo la vittoria del conservatore e appassionato di bicicletta Boris Johnson alle elezioni locali. Un orientamento senza dubbio meritevole perché appunto promuove misure favorevoli alla mobilità dolce e sostenibile, ma lo fa in una prospettiva non del tutto condivisibile, a carattere “segregazionista” ovvero anche attraverso le cosiddette autostrade ciclabili. Che, come hanno da tempo denunciato molti esperti, è in pratica una versione moderna e ambientalmente corretta della vecchia filosofia portante dell’era automobilistica: qui i veicoli veloci, lì quelli lenti, di là di sotto e di sopra pedoni e ciclisti. Il che, oltre a comportare investimenti in infrastrutture che spesso alla fin fine sono assai poco sostenibili in tutti i sensi, crea tendenzialmente universi paralleli e incomunicanti, ghetti felici per appassionati di settore. E non certo una città integrata, come quella faticosamente promossa dalla cultura degli spazi condivisi, dove invece di nasconderli sotto il tappeto della corsia riservata i problemi almeno si affrontano. Per la soluzione poi, vedremo (f.b.)

Il documento che segue fa il punto sullo “stato dell’arte” del corridoio tirrenico utilizzando analisi, studi e proposte avviati oltre vent’anni fa dalle Associazioni Ambientaliste. Attualmente il gruppo di lavoro è costituito da Maria Rosa Vittadini, Anna Donati, Edoardo Zanchini, Stefano Lenzi, Vittorio Emiliani e Valentino Podestà.

Le ampie e documentate osservazioni presentate da Legambiente, WWF, Rete dei Comitati per la Difesa del Territorio, Comitato Terra di Maremma, Comitato per la Bellezza nell’agosto 2011 al progetto definitivo SAT e le relazioni presentate al convegno del 22 ottobre a Capalbio hanno chiarito molti aspetti fondamentali. Anzitutto i flussi di traffico lungo il percorso Rosignano-Civitavecchia sono quanto mai variabili da zona a zona in relazione, evidentemente, al variare del trasporto locale: da punte di 33.000 veicoli al giorno ai minimi di soltanto 11-12.000. Ciò significa che creare, come si voleva - e come diverse istituzioni locali purtroppo chiedono ancora - una nuova autostrada in variante era una soluzione del tutto semplicistica, non corrispondente alla domanda di trasporto, oltre che devastante sul piano ambientale e paesaggistico.

Quindi il tipo di pedaggiamento sarà la chiave di tutto: non si può infatti pensare che il traffico attuale, per lo più locale, si trasferisca dall'Aurelia, sin qui gratuita, a strade complanari che non ci sono o che sono sostanzialmente strade della bonifica e che, se venissero trasformate o realizzate ex novo come strade di grande comunicazione, risulterebbero del tutto incompatibili con il territorio e il paesaggio. E' da sfatare anche il mito del "corridoio tirrenico di importanza europea" che in realtà non esiste perché provenendo da nord arriva a Fiumicino e poi devia su Roma, a differenza di quello adriatico che corre dalla Romagna alla Puglia.

Il fatto che l'ultimo progetto ricalchi in larghissima misura il percorso dell'Aurelia ci riporta alla impostazione del Progetto Anas del 2000, che tutte le Associazioni Ambientaliste e gli le amministrazioni pubbliche interessate hanno approvato, sia pur con osservazioni puntuali. Una impostazione che le Associazioni condividono, mentre hanno respinto in toto quella del progetto preliminare SAT approvato dal CIPE nel 2008 con 110 Km in variante da Civitavecchia a Grosseto, che pure era stato ed è tuttora sostenuto dalla Provincia di Grosseto e da molti Comuni perché li sgrava apparentemente del problema del traffico locale che sarebbe rimasto o rimarrebbe sull'Aurelia. Appare strano che tutti questi Enti non pensino alla devastazione che ne deriverebbe del più grande patrimonio, anche economico, della Maremma: ambiente e paesaggio, naturale e agrario. Un maggior approfondimento aderente alla specifica realtà territoriale e urbanistica richiede tuttavia il tracciato definitivo in comune di Orbetello che oggettivamente è quello più difficile da risolvere.

In conclusione le Associazioni ritengono il progetto definitivo un sostanziale passo avanti rispetto al progetto preliminare in variante del 2008 ma non ancora sufficiente, e sollevano diverse questioni critiche che non hanno ancora trovato una soluzione e su cui hanno presentato precise Osservazioni al Ministero per l’Ambiente, che sarà chiamato ad esprimere il parere per la Valutazione di Impatto Ambientale.

Partendo da questa impostazione, esaminiamo qui di seguito i nodi generali a nostro parere tuttora irrisolti del progetto definitivo SAT nel suo complesso.

Tre fattori sono strettamente interconnessi nel caso di una infrastruttura come il corridoio tirrenico:

Il tracciato e l’impatto ambientale

La fattibilità economico-finanziaria

Il ruolo territoriale dell’infrastruttura

L’abbandono del devastante progetto in variante tra Civitavecchia e Grosseto approvato dal CIPE nel 2008 è una precondizione necessaria a rendere accettabile la realizzazione dell’infrastruttura a patto che la trasformazione in autostrada a pedaggio non comporti un sistema di complanari e viabilità aggiuntiva insostenibile per il territorio.

Il sistema free flow multilane consente di ridurre sostanzialmente la necessità di complanari e di ridurre i costi di realizzazione. I veicoli sono identificati da portali automatizzati e da barriere, il passaggio dai portali e dalle barrire non implica l’arresto del veicolo, il pagamento del pedaggio può avvenire in forma differita.

Il sistema permette di semplificare l’infrastruttura con svincoli più semplici, minor numero di sovrappassi, minor occupazione di spazio e riduzione dei costi di investimento. Ciò rende possibile una selezione del traffico non solo in termini di percorso, ma anche in termini di soggetti, di attività, di caratteristiche specifiche di chi si muove, cosa che permette una “politica” di compensazione a favore dei residenti, soprattutto quelli “obbligati” anche attualmente all’uso dell’Aurelia dalla struttura territoriale.

Il traffico registra una forte prevalenza di brevi-medie percorrenze: gli attuali volumi di traffico sulla SS1 Aurelia sono stimati in 19.900 Veicoli Teorici Giornalieri Medi (VGTM). Le diverse tratte hanno livelli di traffico di punta molto diversi tra loro, il che significa che il traffico che percorre tutta l’autostrada è poco, mentre molto traffico percorre tratti brevi (vedi Allegato 1 nel .pdf sacricabile in calce))

Le nuove stime di traffico di lungo periodo riproposte da SAT, pur fortemente ridimensionate rispetto a quelle indicate nel progetto preliminare, sono comunque ancora ottimistiche. La crescita del traffico dopo il 2016 è quantificata in termini di veicoli-km/anno, che sconta l’assunzione delle tariffe presumibilmente necessarie a remunerare l’investimento per la concessionaria.

Al 2026 si prevede un TGM di 25.350 veicoli/g.

Al 2036 si prevede un TGM 28.300 veicoli/g.

Il ridimensionamento rispetto alle stime SAT del 2008 è fortissimo: oltre il 40% di traffico in meno dei 50.000 veicoli/g del 2030.

Soprattutto in una situazione non solo congiunturale di crisi l’itinerario tirrenico non attrarrà traffico da altri itinerari autostradali, e le obiezioni di allora delle Associazioni sulla sovrastima risultano oggi del tutto fondate.

Chi paga il pedaggio? Il 2016 è l’anno previsto di entrata in esercizio dell’autostrada con l’introduzione del pedaggio. Il traffico potenziale, ovvero quello che userebbe l’autostrada se non ci fosse il pedaggio, è maggiore del traffico pagante di circa il 25%. Il 25 % comprende: 11% di traffico senza pedaggio o a pedaggio “agevolato”, 14% di traffico deviato su viabilità alternative

La componente “agevolata” riguarda il traffico automobilistico dei residenti che effettuano tragitti inferiori a 20 km. La componente “non catturata” è quella “che effettua il by-pass delle barriere o che utilizza viabilità alternative non a pedaggio” (punto 6.17 pag 36 dello Studio del traffico SAT).

I livelli di traffico e pedaggio: nel 2016 su un traffico potenziale di 20.500 veicoli il traffico pagante è di 15.400 veicoli; aggiungendo a questi la quota di 2.255 veicoli di traffico “agevolato” (11% del totale) si ottiene il traffico medio presente sull’autostrada: 17.655 veicoli/g, meno di quelli che utilizzano l’Aurelia nella situazione attuale (19.900).

Meno viabilità alternativa e più utenti sull’autostrada. Circa 3.000 veicoli/g troverebbero conveniente usare l’autostrada se non ci fosse il pedaggio e sarebbero invece costretti a utilizzare la ben più fragile viabilità alternativa.

Nel progetto definitivo sono previsti oltre 134 km di viabilità alternativa, talvolta complanare di nuova realizzazione e talvolta ottenuta con l’allargamento di strade esistenti. Il traffico che pur potendola usare non usa l’autostrada e la lunghezza davvero rilevante di viabilità alternativa aumenta inutilmente gli impatti sul territorio, evitabili con il sistema free flow, rendono il progetto (e i livelli di pedaggio) inutilmente costoso e contraddicono profondamente la stessa impostazione del progetto (vedi Allegato 2).

Manca il Piano economico-finanziario. Al progetto definitivo non è allegato alcun Piano Economico e Finanziario complessivo. Il Piano economico e finanziario è assolutamente necessario per capire il problema dei costi, del pedaggio e quindi del ruolo territoriale dell’infrastruttura. La sfida progettuale proposta dalle Associazioni è stata raccolta solo in parte, bene il tracciato ma con qualche grave problema non risolto. Quali possibili servizi (ad esempio di trasporto pubblico) per i territori attraversati, quali connessioni con le attività strategiche locali?

Una analisi costi-benefici molto debole. Le uniche informazioni disponibili derivano da analisi costi-benefici parziali, dalle quali si deduce, solo per alcuni lotti, come, a fronte dei costi dell’intervento, le quantità di traffico stimato ed il pedaggio (elevato) siano in grado di remunerare l’investimento.

I benefici sono pressoché totalmente costituiti dai risparmi di tempo degli utilizzatori. Si assume che si passi dai 70 km/h sull’itinerario attuale ai 130 km/h sull’autostrada. E’ un differenziale di velocità troppo elevato soprattutto nelle tratte dove già oggi la Superstrada Aurelia permette velocità sicuramente superiori ai 100 km/h.

Alla probabile sovrastima del tempo risparmiato corrisponde una sicura sovrastima del valore di tale tempo. Si attribuisce un valore di 16 euro/h indifferentemente a tutto il traffico leggero, turisti e opzionali compresi: una quantificazione sicuramente inattendibile.

Per gli utenti che utilizzeranno l’autostrada è vero che l’aumento della velocità, permesso dalla trasformazione, diminuisce i costi generalizzati, ma tale diminuzione trova un limite ben pesante nella introduzione del pedaggio.

I volumi di traffico atteso sull’autostrada sono relativamente modesti e configurano livelli di servizio assai alti, mentre i livelli di servizio sulle viabilità alternative (di cui non si fa cenno) rischiano di essere bassi o bassissimi.

Occorre mantenere sull’autostrada tutto il traffico potenziale attraverso adeguate politiche tariffarie (comprese politiche di esenzione totale): quale risparmio consentirebbe una simile strategia in termini di minori investimenti e minori consumi di suolo per complanari e viabilità alternativa?

Occorre pertanto conoscere al più presto il piano economico e finanziario per poter valutare gli scenari di pedaggiamento e quindi il ruolo territoriale dell’infrastruttura e la reale fattibilità dell’intervento.

Gli allegati sono visibili nel fle .pdf allegato, scaricabile in calce

Il governo Monti non porta nessuna responsabilità diretta per le condizioni che hanno provocato le rivolte dei "forconi" in Sicilia, (pescatori e agricoltori, ma soprattutto autotrasportatori) e che hanno bloccato la distribuzione delle merci anche in tutto il resto del paese. Le condizioni che stanno mettendo alla fame molti di questi lavoratori e operatori risalgono al modo in cui i rispettivi settori sono andati organizzandosi nel corso del tempo, sotto molti dei precedenti governi. Va detto però che nessuna delle misure ora adottate (in particolare le presunte liberalizzazioni di autostrade, assicurazioni e distribuzione di combustibili) apporta a questi lavoratori il minimo sollievo, mentre il governo sembra orientato a cercare di pacificarli con una politica delle mance (sconto sulle tariffe autostradali e sulle accise sul carburante) già incorsa più volte in procedure di infrazione da parte della Commissione europea. Non è in questo modo, e gli autotrasportatori lo sanno, che si possono risolvere i loro problemi.

Il fatto è che l'autotrasporto è già un sistema completamente liberalizzato e che la condizione attuale della maggioranza degli autotrasportatori (dipendenti, autonomi e "padroncini") è l'epitome, la rappresentazione perfetta, di come i meccanismi di mercato operano nel polarizzare società e lavoro. Perché gli autotrasportatori - quelli che guidano un camion, o che gestiscono qualche camion guidato da altri, e per lo più guidano anche loro; e si tratta di un lavoro pesante e logorante e sempre meno remunerato - non sono che l'ultimo anello di una catena che vede al capo opposto poche grandi società multinazionali di spedizione, nessuna delle quali è più italiana; si tratta di operatori tedeschi, olandesi, cinesi, statunitensi o di Singapore che da anni hanno inglobato la totalità delle maggiori imprese italiane.

Quelle società controllano porti, flotte, vagoni, carghi, container, ma esercitano il loro ruolo grazie soprattutto alla loro potenza finanziaria, al controllo delle reti commerciali e ai software con cui mettono in contatto origini e di destinazioni delle merci e gestiscono l'intermodalità delle spedizioni.

Nessuna di loro, credo, dispone direttamente di mezzi per il trasporto su gomma. Le tratte percorse con autoveicoli vengono subappaltate a una serie di società di autotrasporto minori, per lo più di dimensioni regionali, che di mezzi peraltro ne hanno pochi anche loro e ricorrono sempre più spesso a ulteriori subappalti; a cui capita di ingaggiare a loro volta degli autotrasportatori "indipendenti". Accanto a queste imprese opera poi una serie di mediatori che non dispongono né di camion né di strutture e strumenti logistici (una vera porta aperta per la mafia), che reclutano, spesso "spot", cioè sul momento e sempre più raramente con programmi e percorsi fissi, le società minori o i singoli padroncini: sia per conto di spedizionieri che di produttori che hanno consegne dirette da effettuare.

Da tempo, poi, il mercato europeo e italiano è stato invaso da operatori dell'Europa dell'Est che fanno concorrenza a quelli locali sia in ingresso che in uscita dai confini nazionali - e a volte anche al loro interno - e che praticano prezzi di dumping resi possibili da tre fattori: i loro mezzi non rispettano gli standard di sicurezza richiesti ai veicoli immatricolati in Italia; la loro guida è molto più spericolata sia per velocità che per durata; la remunerazione degli autisti è molto più bassa. Per godere di questi vantaggi molte società di trasporto già nazionali hanno trasferito la loro sede legale in qualche paese all'Est europeo, pur operando prevalentemente in Italia. Le tariffe dell'autotrasporto in conto terzi sono regolate per legge entro una forcella che prevede un massimo e un minimo in base alla consistenza del carico e alla lunghezza del percorso; ma gli sconti che vengono imposti vanno ben al di sotto del minimo consentito. Di fatto, attenersi alla normativa su tariffe, limiti di carico, durata della guida, velocità consentita e minimi contrattuali vuol dire uscire dal mercato. I controlli sono facilmente eludibili non senza - secondo quanto riportano molti operatori - connivenze della polizia stradale. Schiacciati tra i costi crescenti dei fattori produttivi, le tariffe in continua diminuzione e una rilevante riduzione dei traffici, le condizioni dei lavoratori e dei piccoli operatori del settore sono tra quelle che maggiormente risentono della crisi.

Tutto questo è noto e viene di quando in quando riportato dai media, peraltro senza molte indagini sulle cause né proposte per porvi rimedio. In realtà la situazione richiederebbe un'analisi più approfondita perché costituisce uno degli esempi più vistosi e chiari del modo in cui l'organizzazione di un intero settore produttivo si è strutturato per scaricare il rischio di impresa verso il basso, cioè sui lavoratori. La maggior parte dei lavoratori dell'autotrasporto non è costituita da dipendenti salariati ma da "padroncini". Anche quando lavorano alle dipendenze di altri, se l'impresa è piccola i lavoratori sono indissolubilmente legati alle sue sorti, ai suoi alti e bassi, ai tempi sempre più lunghi dei pagamenti, che si riflettono direttamente sul modo e sui tempi con cui vengono remunerati. È lo stesso processo con cui in altri settori molto lavoro impiegatizio è stato sostituito da lavoratori precari ("a progetto" o a partita Iva) "esternalizzati". Ma, a differenza di altri settori tipici del precariato, nel settore dell'autotrasporto l'investimento è consistente (un autoarticolato non costa meno di 200mila euro) e le imprese di spedizione, siano esse grandi gruppi o operatori intermedi, si liberano tanto dell'onere dell'investimento quanto del rischio di avere mezzi fermi, scaricando entrambi - oneri e rischio - direttamente sui lavoratori.

Un processo analogo lo riscontriamo in molti altri settori, da quello dell'edilizia e dei grandi lavori - il paradigma qui è il Tav, su cui Ivan Cicconi ha scritto testi fondamentali - alla cantieristica. Insomma, l'autotrasporto non presenta affatto un assetto arcaico in attesa di una "modernizzazione" che solo il mercato potrà sviluppare, emarginando progressivamente la piccola impresa inefficiente a favore di strutture capitalistiche ben organizzate. La "modernizzazione" è già qui e il modello di impresa del liberismo è questo: e infatti il settore delle spedizioni presenta un grado di strutturazione e di concentrazione a livello internazionale da fare invidia a quelli energetico e alimentare; ma convive con - anzi, ha prodotto - l'estrema frammentazione del lavoro autonomo, che peraltro non è "lavoro autonomo di seconda generazione" (c'è il navigatore e c'è la scatola nera, ma i camion si guidano più o meno allo stesso modo di cent'anni fa).

Che fare? È chiaro che i problemi degli autotrasportatori - e delle altre categorie di lavoratori autonomi di prima generazione in lotta - non possono essere risolti con decreti dall'alto e meno che mai con delle mance che rischiano non solo di perpetuare, ma di approfondire, tutte le contraddizioni che li stanno trascinando verso la miseria. Devono essere i lavoratori stessi, dipendenti e autonomi, a coalizzarsi in strutture non solo rivendicative, come quelle attuali, ma operative: cioè in cooperative che affianchino al possesso e alla guida dei mezzi una parte consistente della gestione logistica, recuperando valore aggiunto al loro lavoro. Ed è chiaro che un processo del genere deve avere una interlocuzione con i governi sia nazionali che regionali perché mettano a disposizione le risorse e gli strumenti per operare questo passaggio; e soprattutto perché introducano forme di tutela adeguate contro la concorrenza selvaggia (altro che "liberalizzazioni").

Ma è altrettanto chiaro che una conversione del trasporto su gomma deve fare i conti con processi - in parte in corso; in parte da promuovere - destinati a incidere profondamente sul numero e sul ruolo degli operatori del settore; processi a cui è vano contrapporre una mera resistenza e che occorre invece mettersi in condizione di assecondare. Il combustibile sarà sempre più caro; i costi dell'inquinamento e della congestione sono destinati a crescere; l'epoca del trasporto a basso costo sta per finire e le spedizioni transcontinetali e di lunga percorrenza dovranno ridimensionarsi a favore di una rilocalizzazione di molte produzioni - a partire, ma non solo, da quelle agricole e alimentari - in prossimità dei punti di smercio. Il trasporto su gomma dovrà convertirsi ai percorsi brevi e molto articolati e integrarsi con quello su ferro e via mare con sistemi intermodali che evitino la duplicazione dei vettori (su questo punto potrebbero essere le associazioni stesse dei trasportatori a farsi parte diligente di una proposta che solleciti, insieme alle altre categorie interessate, nuove forme di mobilità intermodale delle merci; e i relativi investimenti).

Sono tutti problemi che non possono essere lasciati sulle spalle degli autotrasportatori; la conversione ecologica del trasporto merci, come di tutte le altre forme di mobilità e quella delle principali attività produttive deve essere presa in carico dall'intera comunità; a partire dal governo del territorio e dalle amministrazioni locali. Alcune delle quali oggi si riuniscono a Napoli per cominciare ad affrontare i termini e le condizioni di questo percorso.

Oggi Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano (Milano) e membro del Comitato direttivo dell’Associazione Comuni Virtuosi, riceverà il Premio Personaggio Ambiente 2011 a Roma, presso Palazzo Valentini in via IV Novembre.

Domenico Finiguerra l’ho conosciuto attraverso una video intervista, abbastanza improbabile nei colori e nel volume, ormai diversi anni fa, in cui parlava di questo comunello di 1.800 abitanti alle porte di Milano dove, con assoluta naturalezza e semplicità, gli amministratori avevano scelto di interrompere la folle spirale del consumo di suolo e delle speculazioni edilizie, dicendo, improvvisamente, basta.

A volte accade, se si è abbastanza fortunati e ostinati, di incontrare persone così. Che prima ancora di essere ottimi amministratori e servitori dello Stato (quello Stato che ti fa sentire orgoglioso e fiero una volta tanto) sono persone perbene, piacevoli, con cui vale la pena scambiare idee e riflessioni, ma anche chiacchiere e sorrisi, davanti a un bel bicchiere di vino.

Quella scelta, che oggi è adottata e imitata in tutta Italia ed è diventata portatrice di movimenti, campagne, iniziative pubbliche di ogni sorta e grado, ha squarciato in un momento il muro dell’ipocrisia di gran parte della politica parolaia di destra e di sinistra, che per anni ci aveva ripetuto (e ancora ci ripete) i soliti ritriti ritornelli: “Non si può fare, non è possibile, non possiamo fermare il progresso, dobbiamo costruire per far viaggiare l’economia…”

La scelta di Cassinetta è dunque diventata il simbolo di un possibile cambiamento generale, condivisa con le centinaia di esperienze virtuose che come Associazione dei Comuni Virtuosi abbiamo in questi anni cercato faticosamente di far emergere, coltivare, valorizzare e diffondere. Noi non ci siamo limitati a dire dei no, in questi anni ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo sperimentato, costruito e adottato un paradigma altro di comunità: rifiuti zero, indipendenza energetica, democrazia partecipativa, nuovi stili di vita, mobilità sostenibile.

Domenico è stato ed è per tutti noi un esempio da imitare e un portavoce a cui affidare le nostre convizioni, in questa specie di staffetta del buon senso con la quale cerchiamo di illuminare giorno per giorno ciò che funziona, nonostante tutto, nelle nostre trasandate istituzioni pubbliche.

Un abbraccio dunque al buon Domenico, alla splendida Cassinetta di Lugagnano, con la speranza che sempre più persone, movimenti, reti, vogliano condividere il pezzo di strada che stiamo facendo!

La scomparsa delle sale d'attesa: le stazioni come aeroporti

di Alessandra Mangiarotti

Il caso Venezia è solo l'ultimo in ordine di tempo: la stazione di Santa Lucia è sotto restauro e quando si presenterà con un nuovo volto agli 80 mila passeggeri che ogni giorno lì salgono o scendono da un treno lo farà senza sala d'aspetto. Così è successo a Roma e Milano, dove al posto di un'unica sala sono stati piazzati sedili in tutta la stazione. Così sarà nel giro di uno-due anni a Verona, Firenze, Bologna, Genova. E poi in tutte le tredici «grandi» italiane. Perché la strada è segnata: addio sale d'attesa (in principio ce n'erano addirittura tre: di prima, seconda e terza classe), le stazioni ferroviarie assomiglieranno sempre più agli aeroporti. Con punti ristoro, negozi e poltroncine sparse nelle aree strategiche. Davanti ai tabelloni con gli orari o ai bar dove mentre si beve un caffè ci si potrà connettere alla rete wi-fi o ricaricare il telefonino. Le uniche a resistere saranno, come appunto negli aeroporti, le salette vip delle singole «compagnie», da Trenitalia a Ntv, fino a Deutsche Bahn.

A Venezia le proteste aumentano in modo inversamente proporzionale alle temperature: più fa freddo più salgono i toni della polemica. Perché lì la sala d'aspetto è già stata chiusa per lasciar spazio ai cantieri e i sedili sono stati distribuiti in aree di passaggio non riscaldate. Così che qualcuno, pensando anche al futuro, dalle parole è già passato ai fatti presentando un esposto alla Regione. Mentre i pendolari denunciano ancora una volta la diversità di trattamento tra passeggeri di serie A («i soliti dell'alta velocità) e B («noi comuni viaggiatori»).

In Italia ci sono 5.000 stazioni. Fabio Battaggia è l'ad di Grandi Stazioni — società controllata al 60% da Ferrovie e al 40% da Benetton, Caltagirone, Pirelli e dalla francese Société Nationale des Chemins de Fer — che gestisce le tredici «grandi» e sta portando avanti un progetto di recupero per 400 milioni di euro. «A Venezia — spiega — ci sono disagi perché il 70% della superficie è cantiere. Al termine dei lavori sarà come a Milano dove i posti a sedere (in due isole, davanti ai pannelli con gli orari e sparsi) sono quasi triplicati (da 150 a 400): non un'unica sala d'attesa (troppo a rischio degrado), ma più sedute distribuite nelle aree coperte e in piccole isole con bar e negozi, come alla Union Station di Washington o alla Grand Central di New York. Servizi moderni in stazioni storiche». Nel dettaglio: «Debutteranno poltroncine ergonomiche. E come negli aeroporti si creeranno isole vicino ai servizi dove sarà garantito un collegamento wi-fi».

Per i passeggeri a ridotta mobilità c'è sempre la Sala Blu: «È prevista dalla legge. E ogni operatore avrà la sua Sala club, come negli aeroporti».

Un sistema che non piace a Sonia Zarino, portavoce dei pendolari liguri: «Le ferrovie devono essere di tutti, non possono esserci passeggeri di serie A e B. Impariamo dalla Svizzera». E da architetto aggiunge: «Trasformati in centri commerciali (dove con la crisi si fatica ad affittare spazi) le stazioni stanno diventando un non luogo, non più il biglietto da visita». Concorda Cesare Carbonari, voce dei pendolari piemontesi, che prendendo a modello stazioni Usa e aeroporti va oltre: «L'ingresso va riservato solo ai passeggeri».

La direzione è segnata: «Con la riduzione dei contributi pubblici (tutti usati a far marciare i treni) si cerca di far fruttare ogni metro quadro delle stazioni, veri monumenti il cui restauro è costosissimo», afferma Oliviero Baccelli, vicedirettore del Centro di economia regionale trasporti e del turismo dell'Università Bocconi. «La promozione del modello (globale) c'è ma con due materie da recuperare: la limitazione della pubblicità e la creazione di isole di servizi. Se si vogliono usare la Grand Central o e i grandi aeroporti come modello lo si faccia fino in fondo. Il vero problema è però il destino delle piccole stazioni».

«Gli incontri possibili sostituiti dallo shopping»

Intervista a Gae Aulenti, di Stefano Bucci

Di stazioni trasformate Gae Aulenti, uno dei grandi nomi dell'architettura e del design made in Italy (la progettista della lampada Pipistrello ha appena compiuto 84 anni lo scorso 4 dicembre), se ne intende. E non solo perché tra i suoi progetti realizzati ci sono l'ingresso (lato Fortezza da Basso) alla Stazione di Santa Maria Novella di Firenze (1990) e quello della facciata del palazzo delle Ferrovie Nord di Milano (1998-2000). Ma ancora di più perché è lei ad aver firmato (tra il 1980 e il 1986) la mutazione della parigina Gare d'Orsay, ex stazione ferroviaria della linea Parigi-Orleans costruita per l'Esposizione universale del 1900, in qualcosa di inaspettato: il museo per eccellenza degli Impressionisti, due milioni e mezzo di visitatori all'anno, il Musee d'Orsay appunto.

Forse anche per questo l'idea delle grandi stazioni che cambiano faccia non è per la Aulenti così scandalosa:

«Far sparire le sale d'attesa — dice — rientra in una filosofia che oggi vuole fare assomigliare sempre più questi spazi a veri e propri centri commerciali, dove più che partire si deve prima di tutto comprare, luoghi di passaggio come il "corso" di un vecchio paese, pieno di negozi di ogni tipo, in cui però ci scontra solo con i carrelli, senza mai incontrarsi davvero».

Ma questa mutazione non servirebbe ad annullare il degrado?

«Più che altro così le stazioni finiscono per perdere uno dei loro compiti originari, quello dell'accoglienza e dell'incontro. Perché nelle vecchie sale d'attesa qualche brandello di conversazione si riusciva comunque ad intrecciarlo, magari anche solo per chiedere a che ora partiva un certo treno».

Eppure stazioni come quella romana di Termini sono rinate dopo questi ammodernamenti:

«Ma non sono più vere stazioni: la libreria nell'atrio di Termini è bellissima, ma utilizza l'atrio puntando su una struttura commerciale e non di accoglienza». Anche se, aggiunge l'architetto, «quella libreria è almeno più facilmente individuabile della nuova Feltrinelli alla Centrale di Milano».

La Aulenti propone un ulteriore motivo (o modello) per questa mutazione:

«Le stazioni stanno sempre più assomigliando agli aeroporti, i primi luoghi di viaggio ad essere diventati centri commerciali». Il tema delle stazioni è dunque affascinante ma difficile: «Belle stazioni? Subito mi vengono in mente la Centrale a Milano, Porta Nuova a Torino e tra le più recenti quella di Zurigo. Ma la più bella di tutte resta ancora quella di Firenze e mi appare difficile immaginare un progetto di ammodernamento che possa migliorarla, a cominciare da quella galleria che serviva di passaggio e di ingresso alla città, costruita appunto per evitare ogni possibile degrado».

Da sempre la stazione di Firenze (inaugurata nel 1935, progettata dal Gruppo Toscano guidato da Giovanni Michelucci) è considerata una sorta di museo a cielo aperto (il recupero dovrebbe concludersi a primavera, 19 milioni di euro il costo annunciato). Vicino forse alla mutazione imposta dalla Aulenti alla Gare d'Orsay ma lontano dal comune sentire dei viaggiatori di oggi:

«Chi passa ora dalla stazione? — si chiede l'architetto —. Sono i pendolari e chi deve rapidamente cambiare treno o destinazione. Nessuno di loro ha voglia di perdere tanto tempo. L'unica cosa che può succedere è comprare. E allora a cosa serve la sala d'attesa?».

Noi e la crisi da questa parte; le opere inutili, i politicanti, i professori e i banchieri del governo dall'altra.

Ancora arresti, ancora provvedimenti ad orologeria, 2 giorni prima di una manifestazione NO TAV che si svolgerà sabato 28 nella città di Torino per informare sulla truffa colossale del TAV, fonte inesauribile di nuovo debito pubblico, per noi, nuovo mangime per la pappatoria della politica (citazione del Giudice Imposimato), per quelli che stanno dall'altra parte.

Una ferrovia da 130 milioni a km a preventivo, 1300 a centimetro, un colossale spreco di risorse pubbliche per un'opera che non serve e che è già tecnicamente obsoleta anche se viene maldestramente venduta come icona della modernità dai faccendieri, lobbisti e corte politica.

La madre di tutte le truffe, capace di infiltrare non solo la politica corrotta, ma anche gran parte della carta stampata e alcuni settori dell'industria, generando contemporaneamente illusioni in tanti piccoli padroncini e tanti disoccupati. Una truffa che ha una sponda irresponsabile nella UE che promette briciole di finanziamento. Un'opera in grado di muovere più denaro che terra, di cui le grandi banche sono i principali beneficiari dal momento che i capitali dati in prestito produrrebbero enormi interessi con rischio pari a zero visto che i capitali utilizzati sono i nostri depositi bancari e a garantire le banche ci sarebbe lo Stato, cioè sempre gli stessi, noi contribuenti, coi nostri risparmi che copriranno i loro interessati debiti.

Una torta spartita tra chi ha la pancia già piena che se la ride pensando ai cittadini che la finanziano e ne pagheranno i costi per decenni. Diciamocelo, pagare non sarebbe neppure un dramma, ma un conto è pagare per avere servizi efficienti, un altro se dobbiamo pagare lo spreco studiato compiutamente a tavolino, un colposo tentativo di drenare risorse togliendole a scuola, sanità, trasporti, pensioni per fregare noi che lavoriamo che stiamo di qua e arricchire loro di là... Un piano delinquenziale che mira semplicemente a trasferire risorse dentro le tasche delle banche, dei Contraenti generali e loro amici, nelle saccocce delle imprese mafiose, sicuramente in quelle di molti politicanti corrotti.

Ormai sappiamo che i politici in buona fede favorevoli all'opera non esistono.

LA POLITICA E' UN'ALTRA COSA.

Sia chiaro, non c'è nulla di politico in queste nostre considerazioni, il concetto è troppo semplice: quando ti viene un ladro in casa e ti ruba tutto non stai a guardare se era di destra o di sinistra. E' un ladro, un malvivente. Si tratta di un'opera pubblica di cui non si sa ancora nulla, neppure se è realizzabile, e nel caso non prima del 2030. Un'opera da 10, 20, 30, forse 40 miliardi di Euro (80.000 miliardi di lire)che invece di creare benessere provocherà ulteriore debito pubblico. Non si tratta solo di truffa e furto, ma di un'organizzazione delinquenziale specializzata che ha lo scopo di prolungare il furto nel tempo. Semplifichiamo per analogia: è come per la Salerno Reggio Calabria, dove a nessuno importa nulla dell'opera e della sua utilità, ma ai soliti noti interessa solo che i finanziamenti pubblici, pagati dai cittadini si prolunghino all'infinito. Il Professor Angelo Tartaglia ha chiarito con una battuta: “Vogliono solo aprire il rubinetto, e tenerlo aperto all'infinito”. La “Salerno - Reggio Calabria del Nord”....

NON SI PUO' APPROVARE UN SIMILE PROGETTO.

C'è molto di politico quando invece si parla di “prescrizioni”. Le prescrizioni ad un progetto come quello della tratta internazionale della Torino Lyon hanno due particolarità: 1) Evidenziano gravi mancanze progettuali causando una enorme lievitazione dei costi. 2) Vengono richieste dagli organi di controllo tecnici e ribadite dai decisori politici. Ognuno ha fatto formalmente il suo compito, ma nessuno controlla che le prescrizioni vengano rispettate. Controllori e controllati sono lo stesso soggetto, coincidono con i costruttori... Un bel timbro e via? Come se non bastasse la Magistratura può intervenire solo a “danno conclamato”, non prima.

LE PRESCRIZIONI, ESPRESSIONE DI UN DISASTRO ANNUNCIATO.

A nessuno deve sfuggire che la Commissione VIA ha dato parere favorevole al progetto sulla tratta tra Chiusa San Michele ed il confine di Stato condizionandolo all'ottemperanza di 63 prescrizioni e 6 raccomandazioni di tipo ambientale. Lo strano è che nella fase successiva di approvazione la regione Piemonte ha approvato lo stesso progetto condizionandolo a oltre 150 prescrizioni. Tante prescrizioni equivalgono ad un progetto fatto coi piedi, per legge andrebbe rifatto, ma cosa fa il CIPE (Comitato Interministeriale Programmazione Economica che deve stanziare le risorse necessarie)? Approva il 3 agosto 2011 lo stesso progetto preliminare, ma con 222 prescrizioni e 5 raccomandazioni “proposte dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti”.

222 prescrizioni, come a dire che quel progetto preliminare ha lacune terribili, forse insanabili... ma approvano. Perché? semplice, se non approvassero la UE bloccherebbe la procedura di finanziamento, le famose briciole. Sta scritto proprio nella delibera CIPE... “al fine di evitare il definanziamento del contributo comunitario assegnato all'opera in esame, si rende necessaria la sollecita approvazione del progetto in esame”.

Possiamo dire che il progetto è da rifare e che chiedere il finanziamento sulla base di queste carte è una truffa? Possiamo ribadire che l'opera non è necessaria visto che la linea attuale è utilizzata al 30%? Possiamo definire questa procedura un grande Bluff?

Ma c'è una terza truffa in questa faccenda. E' facile verificare e lo ha spiegato benissimo Ivan Cicconi, esperto di appalti pubblici: i debiti del TAV sono fuori dalla contabilità nazionale anche se lo Stato viene regolarmente chiamato a ripianarli. Una truffa contabile sconosciuta alla UE. Si tratta di tanti debiti, roba da far accapponare la pelle, ma vengono contabilizzati a parte. Famosa in tal senso la denuncia della Corte dei Conti che metteva in guardia da questa procedura... Tutto documentato da tempo.

Orbene, sapete che c'è di nuovo? Il Professor Monti, bocconiano doc, professionista politico travestito da tecnico, Presidente del Consiglio di uno “strano governo” fatto di banchieri per nulla pentiti, ha già la soluzione in tasca. I prossimi debiti per infrastrutture cercheremo di finanziarli con Bond europei... almeno così ha detto in TV intervistato da Fabio Fazio alcune settimane fa. Le banche li piazzeranno, come al solito guadagnandoci una bella commissione. E i cittadini sottoscriveranno (se ci sarà ancora liquidità...).

Siamo alla frutta? Forse se la sono già mangiata, ma non disperiamo, continuiamo a ragionare con la nostra testa opponendoci pacificamente ma con fermezza, come sempre, diffondiamo per quanto possibile le nostre ragioni... spieghiamo cosa rappresenta la militarizzazione di Maddalena... spieghiamo perché i pensionati, gli artigiani, i giovani, i contribuenti attenti girano con le bandiere NO TAV. Prima o poi qualche giudice come Falcone e Borsellino risorgerà. Non c'è verso! Comunque la truffa TAV di qui non passerà. Non c'è verso! Lo sanno, perciò vanno in giro nelle case dei contribuenti a perquisire ed arrestare... Nessuno che indaghi sui lacrimogeni sparati in faccia alla gente! SARA' DURA, ma di qui non passeranno.

ambientevalsusa

Per costruire una strada larga due metri e mezzo, destinata a raggiungere una baita da ristrutturare a quota 1.600, hanno abbattuto alberi, sbancato e spianato quasi un chilometro di terreno nel parco ultra protetto delle Orobie, in alta val Brembana. Un «intervento agrosilvopastorale integrato» da 300 mila euro, finanziato all'80% dalla Regione Lombardia e regolarmente autorizzato dal Parco, su cui ora indaga la Procura di Bergamo. Tutto inizia nello scorso mese di agosto, quando un milanese che da decenni frequenta quella zona, l'avvocato Armando Salaroli, insospettito da quello scempio nel Parco, decide di andare a fondo e chiede l'accesso agli atti del comune di Carona, del Parco delle Orobie Bergamasche e della Comunità montana.

Vengono così a galla alcune anomalie e il Parco blocca subito i lavori perché non è stato rispettato il progetto originario. «Quello che doveva essere il semplice allargamento di un sentiero — dice Salaroli — è diventata una strada larga quasi tre metri che è stata prolungata oltre quanto autorizzato». Doveva infatti raggiungere la baita da ristrutturare, ma — così si difende il Comune di Carona — si è scoperto che lì c'era il rischio di valanghe e si è pensato di riattare un altro rudere più avanti. Ma poi si è deciso che costava meno costruirne uno ex novo lì vicino («senza permessi» dice Salaroli, «tutto in regola» per il Comune). Il sospetto dell'avvocato milanese è che, con la scusa dell'intervento agrosilvopastorale, si sia voluto realizzare una strada che — una volta prolungata nella zona non più protetta come ZPS e SIC — permetta di raggiungere le cascate della Val Sambuzza dove dovrebbe essere realizzata una centrale idroelettrica.

Dopo la scoperta delle irregolarità, il Comune ha chiesto l'autorizzazione per le varianti già attuate. Ora tutta la questione è al vaglio della magistratura che sta esaminando anche alcuni documenti non chiari, mentre della questione è stata interessata anche la Soprintendenza che dovrà esprimere il proprio parere ma che non potrà comunque autorizzare sanatorie ma soltanto, nel caso fossero accertate le violazioni, ordinare il ripristino.. Il sindaco di Carona, Giovanni Alberto Bianchi, respinge tutte le accuse e i sospetti. «Il nostro scopo — spiega — e solo quello di far vivere gli alpeggi. Con quell'intervento salviamo il lavoro di 3-4 persone che d'estate vivono sui pascoli e fanno il formaggio da portare subito a valle. Qualcuno crede che la Regione possa aver finanziato un progetto inutile?»

«Sì, è vero — aggiunge il sindaco — la variante l'abbiamo fatta, ma solo per evitare una zona umida e non danneggiare le rane». Quanto alla possibilità della costruzione di una centrale idroelettrica vicino alle cascate che anni fa pubblicizzavano in tv un noto bagno schiuma, il sindaco non ha dubbi: «Se ci costruiscono le strade per raggiungere altri pascoli non avremo dubbi nel concedere le autorizzazioni che ci competono».

Se proviamo ad interrogare il sito-database gestito dall’ong Grain (http://farmlandgrab.org), utile a monitorare le operazioni di acquisizioni di terra in corso, in giro per il mondo, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte ad una partita a risiko lasciata a metà. Ma questo non è un gioco da tavolo, è piuttosto il “risiko della terra” (Roiatti F., 2009, Il nuovo colonialismo, Università Bocconi editore, Milano). E soprattutto, non sono i dadi a decidere la sorte dei concorrenti e perciò dei rispettivi territori, bensì il denaro. Il denaro usato dai paesi più ricchi, per sfruttare il suolo-merce dei paesi più poveri, che proprio in virtù di questa condizione sono costretti a privarsene. Il fenomeno è detto land grabbing (“appropriazione dei terreni”). Nel dettaglio si tratta di una pratica basata sull’acquisto, o ad ogni modo l’affitto a lungo termine (dai 40/50 e fino a 99 anni), di grandi estensioni di terreni in paesi poveri con lo scopo di adibirli a coltivazioni agricole. Ma, punto essenziale, le relative produzioni sono essenzialmente destinate all’esportazione intercontinentale. I paesi costretti ad appendere il cartello "vendesi" sulle proprie terre per privarsi del suolo, la più basilare delle risorse, in molti casi rappresentano le emergenze umanitarie del pianeta, e la maggioranza dei contratti finisce per coinvolgere i governi compresi nella lista dei paesi più corrotti (perciò nella sostanza più deboli) elaborata dall’ ong Trasparency International. Le multinazionali che ridisegnano la mappa del mondo acquistando, fanno invece capo a Stati Uniti ed Europa, ed in modo particolare ai paesi emergenti dell’Asia, Medioriente ed America Latina.

Proviamo a vedere i numeri di questa partita. Il recente report della International Land Coalition (Anseeuw W., Alden Wily L., Cotula L., Taylor M., 2012, Land Rights and the Rush for Land: Findings of the Global Commercial Pressures on Land Research Project, ILC, Roma) parla chiaro. Facendo riferimento agli anni compresi fra il 2000 ed il 2007 il fenomeno è lentamente cresciuto, facendo registrare alla fine del periodo contratti che hanno assorbito 10,4 mln di ettari di suolo. Il fenomeno ha poi subito un’impennata improvvisa, nel triennio 2008-10, che ha fatto registrare cessioni per ben 44,3 mln di ettari (Grafico 1).

Ad oggi sarebbero circa di 203 mln gli ettari di terra venduta, o ad ogni modo ceduta, per questa pratica (tabella 1)

Tabella 1. Acquisizioni di suolo al 2012 (per continenti)

Africa: 134,5 mln Ha; 66,49%

Asia: 43,5 mln Ha; 21,50%

America:18,9 mln Ha; 9,34%

Europa: 4,7 mln Ha; 2,32%

Oceania: 0,7 mln Ha; 0,35%

Fonte: ns. elaborazione su dati di Anseeuw et. al. 2012

La brusca crescita del fenomeno è collegata a tre ordini di questioni. La sicurezza alimentare, nel senso che la domanda mondiale di cibo si estende quantitativamente e si articola qualitatativamente, mentre le superfici coltivabili sono più o meno sempre le stesse, l’impennata dei prezzi delle commodities agricole del 2008 legata alla debordante finanziarizzazione del loro mercato, ed indirettamente la produzione dei biocarburanti soggetta alle direttive americane ed europee che impongono alle multinazionali del petrolio la vendita di quote fisse di questo tipo di carburanti, incentivandone la produzione (Grafico 2).

Secondo stime del Global Land Tool Network attraverso questa pratica circa 5 mln di persone in media ogni anni subiscono conseguenze legate agli espropri di terra (GLTN, 2008, Secure Land Rights for All, UN-HABITAT, Nairobi). Ma questo non è tutto. Sono piuttosto le conseguenze indirette a risultare più preoccupanti. Infatti attraverso questa pratica viene negato il pubblico accesso alle risorse che presuppongono una detenzione, un utilizzo e una gestione collettiva. Le popolazioni insediate si trovano costrette ad allontanarsi dalla loro terra, consentendo l’eliminazione del “controllo sociale” sullo sfruttamento delle risorse che caratterizza ogni gestione collettiva del suolo. Tende a scomparire l’agricoltura differenziata di carattere storico (che provvedeva a molteplici esigenze e rivestiva diverse funzioni), sostituita con le monocolture intensive, utili a soddisfare unicamente le richieste del mercato in termini di materie prime e di beni commerciabili. Più in generale si consolida un immaginario egemonico, che spinge verso il rifiuto a riconoscere l’esistenza di qualsiasi pratica d’uso del suolo esterna al mercato, e la sostituzione degli “interessi individuali” a ogni forma di “interesse comune”.

Dunque, il suolo. Un concetto che viene da lontano e che nasconde, dietro molteplici declinazioni disciplinari, una storia in gran parte sconosciuta (Bevilacqua P., 2004, “Il suolo: una storia sconosciuta”, in I frutti di Demetra, n. 4), e soprattutto un’ideologia che ha saputo imporsi. In riferimento all’ambito disciplinare dell’urbanistica, la maschera mimetica del concetto di suolo che rinvia continuatamene ad altro da sé (territorio, ambiente, paesaggio, etc.), ha permesso di celare la sua consolidata figura di “bene di mercato”; così, esso finisce per essere il più vago e incerto fra i termini centrali nel lessico urbanistico, nonostante continui a rappresentare il principale elemento concettuale ed operativo posto alla base dell’epistemologia disciplinare. A mio avviso, troppo spesso le molteplici linee di elaborazione sul tema evitano di porre la questione di fondo che riguarda la sua attuale piegatura ideologica e culturale, la sua “essenza” cioè di mero elemento passivo, di banale merce; e, di conseguenza, rinunciano ad ogni obiettivo teso a scardinare i processi che hanno contribuito a determinarla. E questa tendenza fatta da un lato di inconsapevolezza e dall’altro di accettazione della visione dominante del mondo rende immanente e naturalizza, l’attuale stato delle cose. Fino al grottesco.

Attraverso la recente inchiesta “Corsa alla terra” di Piero Riccardi per Report (Riccardi P., 2011, “Corsa alla terra”, in Gabanelli M., condotto da, Report, Rai Tre, puntata trasmessa il 18 dicembre), scopriamo il punto di vista di Klaus Deininger (capo economista di Banca Mondiale) riguardo alla pratica del land grabbing «[…] rispetto a 3 o 5 anni fa, prima di questa ondata di investimenti nessuno era realmente interessato all’agricoltura. Era un’industria al tramonto, un’attività considerata poco sexy. E’ cambiato molto da allora. E penso che sia uno sviluppo davvero positivo, perché saremo in grado di aiutare in maniera significativa i poveri». Ma è questa una scelta, camuffata dalla presunta necessità di risolvere il problema della fame nel mondo, che proprio non mi convince. A mio avviso occorre porre a corollario di ogni prospettiva politica la necessità di indicare il superamento da una parte della nozione di sviluppo inteso come incremento indefinito della mercificazione, e dall’altra della stessa nozione di crescita intesa, di fatto, come uno stato naturale e positivo. Ciò è tanto più urgente nella misura in cui si ha a che fare con un Terzo mondo, già messo in ginocchio dalla fame, e che peraltro in termini culturali risulta legato all’idea del limite e della sussistenza, piuttosto che a quella di crescita indefinita (Figura).

Fonte: Cartografare il presente, http://www.cartografareilpresente.org (Nives Lòpez Izquierdo, Terra e povertà in Africa, 2009)

In questo senso occorre porre al centro delle elaborazioni e delle pratiche urbanistiche un punto di vista fondativo: la concezione del suolo come bene comune. Un’istanza questa dei beni comuni che, ancorché “tecnicamente amorfa” (Mattei U., 2001, Beni comuni. Un manifesto, Laterza Roma-Bari), dovrebbe costituire un nodo centrale nel dibattito sui “destini” dell’urbanistica e, più in generale, sui nuovi paradigmi per una società autenticamente consapevole e autodeterminata. Questa prospettiva di ricerca del suolo come bene comune ci permette invece di innescare una dinamica tesa a sottrarre il suolo alle logiche di mercato che hanno determinato negli ultimi decenni non solo una inesorabile e progressiva cannibalizzazione del suolo, ma anche una completa espropriazione di ogni significato “collettivo”. Ciò comporta dare centralità alle relazioni di prossimità tra abitanti e risorse locali, ricostruire matrici identitarie, mettere in primo piano il valore costitutivo, etico dei rapporti sociali e della solidarietà, lavorando per riaffermare una progettualità collettiva in grado di ridefinire il futuro del proprio lavoro e del proprio abitare.

Oggi il dibattito sui beni comuni è sicuramente più maturo. Il tema della “tutela dei beni comuni” ossia quell’insieme di pratiche legate ad interpretare criticamente questioni come la privatizzazione delle risorse naturali, la progressiva erosione dei beni e dei servizi pubblici, l’indebolimento dei meccanismi democratici di controllo, le restrizioni legali sul diritto d'autore sui brevetti e marchi commerciali informano il dibattito scientifico nazionale ed internazionale. Ed in particolare la questione del suolo come bene comune, e per traslato l’interpretazione in termini strategici del suo controllo (dal punto di vista della sua produzione e della sua riproduzione) entra a pieno titolo fra i termini del dibattito urbanistico (Caridi G., 2012, Suolo. Bene comune vs merce, Città del Sole, Reggio Calabria). Ciò vale, in qualche modo, anche in relazione alle recenti posizioni in merito espresse anche dall’INU che fanno riferimento alla “mancata acquisizione dal vigente sistema normativo del significato di ‘bene comune’ che il suolo indubitabilmente assume” (AA. VV., a cura di 2011, Rapporto sul consumo di suolo 2010, Inu edizioni, Roma). Questa prospettiva di ricerca permette di assicurare alle comunità insediate un controllo consapevole e democratico del suolo, con l’intenzione di rimuovere le disuguaglianze legate al suo accesso/controllo. Mentre la Banca Mondiale continua ad affermare che questo “interesse crescente per le terre agricole” (World Bank, 2011, Rising Global Interest in Farmland, Washington D.C) non costituisce un vero e proprio problema gli indignados della terra di Africa, Asia ed America latina continuano ad organizzarsi e a lottare per difendere il proprio suolo, e con esso i diritti al lavoro, al cibo ed alla sopravvivenza. La realtà è cruda ed occorre conoscerla per modificarla, se vogliamo modificarla.

Giuseppe Caridi è architetto, dottore di ricerca in “Pianificazione e progettazione della città mediterranea”

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La bassa lodigiana evoca aromi di latte, lontane cascine, la linea bluastra del primo Appennino che si staglia oltre il Po, e magari è anche come la percepiscono i suoi abitanti. Invece, pur con le complessive basse densità edificate, il carattere dominante è identico a quello metropolitano: nelle abitudini dei tempi, nell’uso degli spazi, e soprattutto nella mobilità automobilistica che tutto domina. Succede che nell’ahimè usuale trambusto dei veicoli carico-scarico bambini davanti a un asilo, uno di questi piccoli finisca sotto le ruote di un Suv, e tutti naturalmente sconvolti, a “chiedersi il perché”, amministratori in testa (vedi articolo riportato sotto).

Come sempre e come ovvio, la risposta non è solo una, categorica, e impegnativa per tutti come diceva quel tizio quando i treni arrivavano in orario. Però tra le variabili in campo una di sicuro spicca, e suona sotto forma di domanda retorica: che ci fanno tutte quelle macchine davanti a un edificio scolastico? Ci fanno quello che vediamo ogni giorno, là davanti, ovvero un guazzabuglio indecente, in cui si mescolano tutti i peggiori tic della nostra convivenza sociale quando non siamo regolamentati da qualcosa di insito o di esterno. Ed è qui che torna in ballo la pubblica amministrazione, che oltre a “chiedersi il perché” sarebbe anche quella che poi prova a dare delle risposte. Torna in ballo, uno dei feticci della nostra epoca, tanto decantato nelle campagne elettorali quanto ignorato nella pratica: il cosiddetto quartiere a misura d’uomo.

Curioso, che tra i non moltissimi pilastri su cui si regge l’urbanistica moderna, ci sia proprio questo dell’elemento costitutivo base della città. Che nasce in forma spontanea quando Raymond Unwin, davanti alle leggendarie calamite dello stenografo di tribunale Ebenezer Howard diventato alfiere di riforma socio-spaziale, si pone una questione: come unire lo spazio del villaggio rurale tradizionale, dell’aia diremmo magari noi, o comunque la piccola piazza del centro minore, ai servizi e aspettative di una società tendenzialmente metropolitana? Anche sulla base delle sue riflessioni, una piccola manciata di anni dopo, Frederick Law Olmsted Jr. prova a interpretare in un altro contesto il medesimo tema nel suburbio sperimentale di Forest Hills Gardens, e in uno di quei villini immersi nel verde, ma organizzati per gruppi attorno a spazi comuni, si trasferisce la famiglia del giovane Clarence Perry.

Cresciuto e diventato ricercatore sociale, Perry non si scorda i tanti spunti positivi dell’adolescenza in quel quartiere appunto a misura d’uomo, e per conto della Russel Sage Foundation (la stessa che aveva costruito Forest Hills Gardens) darà forma compiuta alla formula della neighborhood unit, o quartiere autosufficiente: numero di abitanti, servizi essenziali, organizzazione spaziale, e soprattutto rapporti organici con la città di cui dovrebbe essere la componente base. Ma è accaduto qualcosa di sostanziale, fra le prime riflessioni dei socialisti fabiani britannici sulla comunità di quartiere e quelle più mature del ricercatore newyorkese. È successo che tale Henry Ford abbia cominciato a invadere il mondo con la sua vetturetta a motore di massa, mezzo di spostamento comodo, veloce, ma anche da trattare con tutte le cautele: una tonnellata di lamiera è sempre pericolosa, si sa.

Il quartiere autosufficiente, come si capisce benissimo leggendo la relazione di Clarence Perry allegata al Regional Plan di New York, dal punto di vista socio-spaziale ha due elementi portanti irrinunciabili, il rapporto con la rete della mobilità e quello coi servizi. Il resto, tutto il resto, viene poi. I margini del quartiere sono, appunto, segnati dagli assi di mobilità, quelli pensati espressamente per le automobili, o adattati ad esse dai grandi viali ottocenteschi. Il centro del quartiere è un nucleo di servizi dominato dalla scuola dell’obbligo. Questo rapporto fra centro e margini, fra scuola e automobile potremmo anche dire, determina tutto il resto, è una invariante. I margini non possono essere troppo lontani dal centro, perché un bambino deve poter andare a scuola a piedi, e un abitante magari a far spesa nel negozietto affacciato sul medesimo slargo della scuola. Perché il bambino possa andare a piedi in tutta sicurezza, magari anche da solo se è cresciutello, non ci devono essere rischi, a partire appunto da quelle tonnellate di lamiera che si aggirano in città. A tenerle lontane non ci pensa un poliziotto, un anziano volontario, un ausiliario della sosta, ma la forma stessa del quartiere.

Del resto, che senso ha raggiungere un luogo come la scuola materna o dell’obbligo, un servizio eminentemente locale, di piccola scala e raggio, con un mezzo di trasporto progettato per distanze medio-lunghe come l’automobile? Perché, questo lo capiscono benissimo tutti i progettisti appena si pongono il problema, dare spazio all’automobile significa togliere spazio a tutto il resto. È il modello della neighborhood unit ad essersi affermato in quasi tutto il mondo quando si tratta di calcolare certi rapporti fra abitazioni e servizi, come nei complessi di case popolari, o in forma più compiuta nelle new town britanniche del secondo dopoguerra. Ma uno degli assunti irrinunciabili, ovvero quello della pedonalità come base della socialità nella sicurezza, oltre che elemento distintivo dello spazio del quartiere parzialmente autosufficiente dal resto della città, è andato via via scemando, di fronte a discutibilissime soluzioni a carattere ingegneristico e norme sugli standard, dei parcheggi per esempio.

Così invece di spazi pedonali, o condivisi ma ad elevata prevalenza di orientamento pedonale e ciclabile, si sono spesso sostituite soluzioni “tecniche” come separazione, sovra o sottopassi, semaforizzazioni, corsie riservate. E fuori dai sistemi urbani centrali, pure peggio: le automobili hanno colonizzato preventivamente lo spazio suburbano-rurale, dove di fatto gli edifici (è quasi impossibile parlare davvero di quartieri in senso proprio) si posano dentro una griglia in tutto e per tutto stradale, al massimo attenuata localmente dalla classica organizzazione a cul-de-sac. E nello stesso modo in cui in queste strade a fondo cieco con inversione di marcia abbondano gli incidenti in area industriale, fra mezzi pesanti o muletti da carico, sono ovviamente a rischio anche tutti gli altri spazi di manovra, inclusi gli accessi alle scuole da cui era partito tutto.

Che il sistema originario sia stato totalmente dimenticato, travolto dall’ignoranza forse incolpevole, salta ad esempio all’occhio anche in due specifici casi italiani piuttosto noti, da storia dell’architettura per intenderci. Il primo è il Villaggio San Marco, unità di quartiere su impianto di Giuseppe Samonà e Luigi Piccinato nella terraferma veneziana, la cui integrità è stata troncata da un asse di attraversamento trasversale multicorsia progettato credo negli anni ’80. Il secondo è il QT8 di Milano con impianto di Piero Bottoni, dove lo stravolgimento è stato evitato negli anni recenti, ma come spesso accade solo per preoccupazioni di carattere formale-artistico, più che funzionali e sociali.

E del resto spesso anche nei progetti migliori il rapporto con le quattro ruote (complici norme e adeguamenti alla domanda) è gestito con strumenti diversi dall’organizzazione generale, come sensi unici, o barriere, o proprio nulla di speciale. Figuriamoci nei piccoli centri, dove anche gli interventi di case economiche non hanno mai raggiunto la massa critica sufficiente a definire un quartiere, e quelli privati spesso ostentano orgogliosamente la totale assenza di spazio pubblico, marciapiedi, percorsi ciclabili ecc. E adesso, proviamo a ripetere la domanda: incidente, fatalità? I responsabili scolastici e amministrativi che si stracciano le vesti disperati, e gli stessi genitori commossi ma saldamente col volante in pugno dal cancelletto di casa a quello dell’asilo, forse dovrebbero riflettere un po’. E noi con loro.

Caterina Belloni, Ucciso dal Suv davanti all'asilo, Corriere della Sera, 12 gennaio 2012

BORGHETTO LODIGIANO (Lodi) — La mamma Lidia lo ha stretto tra le braccia e cullato. Anche se Cristiano aveva già smesso di respirare. Anche se subito, quando la ruota anteriore destra del Suv lo ha travolto fino a spezzargli la scatola cranica, s'è capito che per suo figlio non c'era nessuna speranza.

Aveva 5 anni Cristiano Pezzini. È morto nel parcheggio dell'asilo travolto da un fuoristrada guidato da un giovane papà che stava portando il figlio alla scuola materna. È morto sotto gli occhi della madre Lidia, 40 anni, arrivata dalla Moldavia e che qui, tra i 4 mila abitanti di Borghetto Lodigiano, aveva messo su famiglia con Carlo Pezzini che di professione aggiusta trattori e mietitrebbia. Conosciuto e indispensabile in questa terra agricola come il sindaco o il prevosto.

E tutti ieri sono andati davanti alla materna comunale dedicata alla santa Gianna Beretta Molla per capire come, in un parcheggio da 21 posti proprio di fronte ai cancelli, sia potuto succedere tanto. «Hanno portato via il mio angelo», ha ripetuto papà Carlo. Lacrime mischiate a rabbia, come quelle della compagna Lidia, che Cristiano se l'è visto volare via davanti agli occhi. Erano le 9.20. I figli dovevano essere in classe già da 20 minuti. La casa dei Pezzini dista 300 metri dall'asilo di via Lago. Ma insieme a Cristiano c'era anche la sorella di due anni più piccola e per la madre usare l'auto è stata una scelta inevitabile. Era in ritardo anche il figlio di Cristian F., 30 anni, famiglia di imprenditori da sempre a Borghetto. È stato il caso a far sì che le loro auto si incrociassero in quel parcheggio.

Per prima è arrivata la Bmw 320 guidata da mamma Lidia. Cristiano è schizzato giù mentre lei prendeva la più piccola sul seggiolino. «Fermo. Attento alla macchina», la frase urlata quasi in automatico. Perché neppure lei aveva notato, alle sue spalle, l'arrivo del Suv Journey Chrysler. Il fuoristrada ha svoltato dal vialetto per entrare nella zona di parcheggio proprio nel punto in cui c'era il piccolo Cristiano. L'urlo disperato della madre: «Spostati, hai schiacciato mio figlio». Il trentenne alla guida ha ingranato la retro. Sull'asfalto il corpo già senza vita. «Non l'ho visto. Sono distrutto», ha detto ai carabinieri di Lodi prima di essere ricoverato sotto choc in ospedale e denunciato per omicidio colposo. L'auto viaggiava lentamente, forse l'altezza del muso ha coperto la sagoma del piccolo Cristiano. «È una tragedia enorme», ripete il sindaco di Borghetto Franco Rossi.

Quel piccolo parcheggio protetto dalle aiuole era stato aperto sette anni fa proprio per evitare che i bimbi corressero rischi in strada. Ora, sotto il tronco di un salice piangente, ci sono una rosa rossa, un mazzo di fiori e un biglietto: «Addio Cristiano, piccolo angelo».

Migliaia di sottotetti trasformati in appartamenti da un giorno all’altro. In tutta la Lombardia. E’ quello che potrebbe accadere se il Consiglio regionale approverà il nuovo piano casa della giunta guidata da Roberto Formigoni. Per la gioia di quegli imprenditori che hanno realizzato immobili già predisposti per lo sperato regalo. E con un’insidia, nascosta tra le righe della norma: il rischio di un condono mascherato e gratuito per i sottotetti resi abitabili in modo illegale. Come nel caso di diversi condomini da poco costruiti a Bormio, dove la procura di Sondrio ha predisposto ispezioni che hanno riscontrato presunti abusi. E dove, nel settore immobiliare, fa affari anche la General project & contract di Giorgio Pozzi, consigliere regionale del Pdl e presidente della commissione Territorio del Pirellone. Dove proprio in questi giorni è in discussione la nuova legge regionale.

“Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia”. Si chiama così il progetto di legge proposto dalla giunta lombarda. Una sorta di piano casa bis, di cui ha tracciato le linee guida il decreto sviluppo approvato dal governo Berlusconi lo scorso maggio. Nella versione lombarda si parla di interventi di recupero edilizio, incrementi volumetrici, riqualificazione energetica ed edilizia residenziale sociale. Fino all’articolo 8. Che, attraverso la modifica di una legge regionale già in vigore (la numero 12 del 2005), prevede il recupero a fini abitativi di tutti i sottotetti realizzati entro il 31 dicembre 2010. Di fatto si rendono abitabili dall’oggi al domani tutti quei solai e mansarde che, in base alla precedente normativa, avrebbero potuto essere trasformati in alloggi solo dopo cinque anni dalla costruzione dell’edificio.

Per Legambiente Lombardia la legge consentirà “una nuova ondata di manomissioni di sottotetti trasformati in piani abitabili”. Ma c’è un pericolo in più: “La possibilità di condono gratuito degli abusi realizzati negli ultimi cinque anni”. I furbi che dal 2005 al 2010 hanno già reso abitabili i sottotetti senza rispettare la legge vedrebbero regolarizzata la loro posizione. E tutto questo grazie a un colpo di spugna che rischia addirittura di cancellare le eventuali conseguenze penali degli abusi commessi.

E, di abusi, negli ultimi anni ne sono stati fatti. Questo almeno il sospetto della procura di Sondrio, che ha già eseguito alcune ispezioni in Alta Valtellina con l’ausilio del Corpo Forestale. Le prime verifiche, secondo quanto riportato dal quotidiano La Provincia di Sondrio, hanno evidenziato abusi in quei sottotetti che dovevano essere semplici solai, ma sono stati venduti come locali abitabili di alloggi su due piani, o addirittura come appartamenti a sé stanti. Nel mirino degli inquirenti ci sono parecchie centinaia di abitazioni. Un business illecito per le imprese a cui potrebbero avere contributo amministratori, politici e notai compiacenti.

A Bormio, e nelle vicine Valdisotto e Valfurva, l’edilizia è stata rilanciata negli ultimi anni grazie ai mondiali di sci del 2005. Schiere di condomini sorti tra le Alpi, là dove prima c’erano prati. Nuovi appartamenti eleganti. E costosi, vista la vicinanza con gli impianti di risalita e con le terme. Come quelli del complesso “il Forte”, realizzato dalla General project & contract, società di Mariano Comense, il cui 95% è in mano a Giorgio Pozzi, che a Bormio è stato pure capo cordata nell’operazione Sottovento Luxury Hospitality, l’hotel di lusso inaugurato nell’aprile 2011 alla presenza, tra gli altri, dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Daniela Santanchè.

Il nome di Pozzi è legato anche alla società Il Pellicano, fallita e poi finita nelle carte dell’inchiesta sulle bonifiche del quartiere milanese Montecity-Santa Giulia, di cui condivideva le quote con Massimo Ponzoni, ex assessore regionale, Massimo Buscemi, attuale titolare della Cultura nella giunta Formigoni, e Rosanna Gariboldi, moglie del deputato del Pdl Giancarlo Abelli. Grazie a diverse società che operano in più parti del territorio lombardo, gli interessi di Pozzi vanno al di là dell’Alta Valtellina. E ora potrebbero trarre vantaggio dal nuovo piano casa regionale, al momento in discussione proprio nella commissione Territorio da lui presieduta. Con il sospetto che quello tentato dalla maggioranza sia un colpo di spugna.

Per l’assessore regionale a Territorio e Urbanistica, il leghista Daniele Belotti, sostenere che la norma ha lo scopo di rendere vana l’inchiesta della procura di Sondrio equivale a scrivere “una fantasiosa sceneggiatura da film giallo”. Nessun condono nascosto, assicura Belotti. Ma ora il Pd vuole vederci chiaro e giovedi scorso in commissione ha richiesto a Pozzi il parere scritto dell’avvocatura del Consiglio regionale: “L’articolo 8 sui sottotetti – spiega il consigliere Franco Mirabelli – nato come norma straordinaria per sanare alcuni spazi inutilizzati degli edifici, così come formulato rappresenta una vera e propria sanatoria permanente”.

Titolo originale: Shopping centre tracking system condemned by civil rights campaigners – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Le nuove tecnologie che seguono il consumatore mentre si sposta nei centri commerciali, rilevando il segnale dal telefono cellulare, sono entrate nel mirino delle associazioni per i diritti civili.

Con questi sistemi la direzione può acquisire dati su quanto a lungo ci si ferma nel centro, quali sono gli spazi preferiti o i percorsi per spostarsi dall’uno all’altro. Gli operatori rispondono che con queste tecnologie ci guadagnano sia il consumatore che i commercianti, ribadendo che non esiste alcun problema con la privacy dato che i dati sono anonimi.

Le associazioni replicano che però il consumatore non ha altra scelta se non quella di essere seguito continuamente. Nick Pickles, di Big Brother Watch, spiega: “L’unico modo per uscirne è quello di spegnere l’apparecchio. E non viene chiesto nulla sulla eventuale volontà di uscire dal sistema”.

Pickles aggiunge che ovviamente va bene se il singolo consumatore resta anonimo, però “Si ritiene automatico che lo shopping center abbia il diritto di seguire sempre i cellulari: secondo me è sbagliato”.

Con la tecnica FootPath ci sono una serie di apparecchiature di rilevamento sparse nel centro commerciale. Ciascuna raccoglie il segnale dei telefonini abilitati e può stabilire la posizione del cliente in un raggio di due metri. I dati raccolti vengono accumulati, elaborati, continuamente aggiornati.

Secondo la Path Intelligence, compagnia con sede in Hampshire che gestisce FootPath, con queste informazioni la gestione dei centri commerciali riesce a valutare quale composizione di esercizi funziona meglio, se e quanto le promozioni influiscono sul numero dei clienti, e calcolare al meglio gli affitti a metro quadrato delle superfici più redditizie. Può anche approfondire le conoscenze sulle migliori localizzazioni dei servizi di ristorazione, o dei bagni, ed è di aiuto nei casi di emergenza.

I rilevatori non sarebbero in grado di leggere i numeri telefonici, intercettare le chiamate, i messaggi, individuare gli utenti. La Path Intelligence spiega di essersi consultata con le autorità di controllo per verificare che non si violi la privacy. Però rifiuta di rivelare quanti e quali siano i centri commerciali del paese che hanno adottato il sistema. Si limita a specificare che esiste in sette paesi diversi. Ma uno dei centri che lo hanno adottato è Princesshay a Exeter [per inciso un centro a localizzazione in centro storico molto innovativo ideato da Thomas Sharp nel 1946, il nome deriva dalla allora “principessa” Elisabetta, n.d.t.], dove un piccolo cartello recita: “Per migliorare il servizio alla clientela seguiamo l’uso dei telefoni cellulari, che ci aiuta a capire come viene utilizzato il centro. Non si raccolgono dati personali”.

Ma la clientela non si fida. Dave Jones, in giro per saldi, spiega: “Mi pare una invasione della privacy, qualunque cosa dicano sull’anonimato. Non mi piace l’idea di qualcuno che rileva il segnale del mio telefonino mentre me ne vado per i fatti miei. Dà qualche brivido”. Wayne Pearce, direttore del centro, replica: “I dati anonimi che raccogliamo ogni settimana ci aiutano a seguire i flussi delle presenze, i tempi di permanenza, i modi d’uso del centro commerciale. Il che rende poi possibile decidere su eventuali modifiche nella composizione dell’offerta, migliori servizi, uso mirato del personale addetto per rispondere al cliente, a evitare punti di congestione e migliorare la sicurezza per tutti”.

Gus Hosein, direttore responsabile di Privacy International, osserva infine: “Il solo fatto di notificare che il cliente è seguito in ogni suo spostamento non assolve certo la Path Intelligence e le direzioni dei centri commerciali che hanno installato il sistema. Si tratta di un grave attentato alla privacy, almeno finché non sarà introdotta la possibilità di sconnettersi dal sistema”

Titolo originale: Mega mall opens in Casablanca – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Inaugurato dalla popstar Jennifer Lopez davanti al meglio della società marocchina, il primo mega-centro commerciale di Casablanca, dotato anche di acquario su due livelli, sgocciola ovunque lusso e glamour. I costruttori ne parlano come di una tappa che avvicina il Marocco alle nazioni più sviluppate, e i critici temono invece che si tratti solo di boriosa vanità, difficile da sostenere in un paese che oscilla sull’orlo della crisi economica. Quella del Marocco pareva una scelta curiosa, per localizzare il sedicente centro commerciale più grande dell’Africa. Perché già c’erano quei rinomatissimi e tradizionali bazaar che offrono ceramiche e tappeti, e attirano turisti da tutto il mondo.

Il regno nordafricano è anche la patria dei più vistosi squilibri sociali nel mondo arabo, e adesso ci arrivano i negozi di Louis Vuitton, Gucci, Dior e Ralph Lauren, o i magazzini Galeries Lafayette in questo mall, struttura futuristica a forma di bulbo affacciata sulla costa, davanti alle onde dell’Atlantico. Simbolo brutale in un paese con 8,5 milioni di persone in stato di povertà, al 130° posto nella classifica ONU di 186 nazioni, per quanto riguarda lo sviluppo umano, ma dove si tengono anche spettacoli estivi di Shakira o Kanye West. Basta farsi i venti minuti in macchina lungo la costa, dal centro di Casablanca – la più grande città del paese – al centro commerciale, per vedere uno spaccato di tutta questa complessità, con gli slum nascosti alla vista da alte pareti, i cantieri di strutture commerciali, le ville e i locali notturni per ricchi.

“É un onore per il Marocco ospitare un progetto di queste dimensioni” ha dichiarato Salwa Akhannouch, responsabile di Aksal principale promotore del centro, alla cerimonia di inaugurazione. Ma saranno pochi i marocchini che ci faranno shopping. Il paese ha uno dei più alti tassi di analfabetismo, di disoccupazione, di squilibrio dei redditi, di tutto il Medio Oriente e il nord Africa, secondo i calcoli del coefficiente Gini, un metodo statistico di misura usato dagli economisti per valutare la diseguaglianza. E la disparità cresce di anno in anno. Nelle settimane successive all’apertura, il centro è stato invaso dalla folla, a passeggiare in quelle gallerie illuminate dal sole, ammirare l’acquario, i 350 negozi. Regolarmente, animatori dai vestiti colorati, alcuni arrivano sin dall’Europa Orientale, si lanciano in sfrenate danze accompagnate dal rullo di tamburi.

Si sono visti pochi sacchetti pieni di acquisti, però, la maggior parte delle persone pareva solo curiosa di vedere finalmente questo monumento dello shopping di cui tanto si era parlato per anni, costato 200 milioni di euro per la costruzione. “C’è un abisso fra ricchi e poveri, coi ricchi che lo diventano sempre di più, e i poveri pure: il mall è un simbolo” commenta Hassan Ali, quarantacinquenne artigiano del cuoio che vende giacche di pelle nella sua bottega della vecchia Casablanca. Nei programmi del centro commerciale il turismo occupa una parte essenziale, secondo l’amministratrice Jenane Laghrar, che valuta al 20% dei complessivi 12 milioni annui di presenze i visitatori dall’estero. E le vendite almeno per la prima settimana sono state quelle degli obiettivi prefissati. Secondo Laghrar la speranza è di attirare clienti dal resto dell’Africa, chi passa dall’aeroporto di Casablanca diretto in Europa.

Per ora dall’Africa però i turisti in Marocco sono solo il 5%, la maggioranza viene dall’Europa. Il che potrebbe diventare un problema con l’attuale crisi del continente, secondo l’economista Najib Akesbi, anche in termini di economia complessiva del Marocco, fortemente intrecciata a quella dei vicini nel Mediterraneo. La principale fonte di liquidità sono investimenti stranieri, turismo, rimesse degli emigranti, soprattutto dall’Europa. Il 20 dicembre il governo ha rivisto le previsioni per il 2012 dello 0,5% in vista della crisi europea. I responsabili del centro commerciale rispondono indicando la crescita nazionale, fra il 4 e il 5% negli ultimi anni, in grado di sostenere questo tipo di commercio di lusso. Anche con la crescita comunque non si creano posti di lavoro, la disoccupazione sta almeno all’8%, e per chi ha meno di 34 anni a uno spaventoso 30%.

postilla

Difficile non dar ragione a tutti i dubbi sul senso non elitario e speculativo dell’operazione mega-mall di Casablanca, del resto così chiaramente esposti dall’articolo. Resta però almeno un aspetto chiave, lasciato in sospeso forse proprio per la rassegnazione al “modello globalizzato” che si finisce per subire: quello territoriale, che al tempo stesso peggiora il quadro, ma avvicina la questione a problemi e potenzialità nel resto del mondo. Di passaggio si parla dei “venti minuti in macchina dal centro lungo la costa ” necessari a raggiungere la cittadella dello shopping. Vale a dire che, pure al netto del modello commerciale odioso ed esclusivo adottato, il contributo della trasformazione alla città è pari a zero, anzi probabilmente negativo visto che occupa pure una striscia di costa dell’Atlantico. Quando fra XVIII e XIX secolo dopo le varie rivoluzioni popolari i cittadini comuni iniziarono a poter entrare nelle tenute della nobiltà, le trasformarono nei grandi parchi urbani che ancora oggi sono il vanto delle nostre (di alcune almeno) metropoli. Immaginarsi una primavera araba che irrompe fra le scansie di Louis Vuitton e l’acquario, a una trentina di chilometri almeno dalle piazze urbane, risulta comicamente sinistro, e malaugurante da tanti punti di vista, ambiente in primis. La presa della Bastiglia, nel XXI secolo, sta iniziando ad assumere prospettive inquietanti, o quantomeno problematiche (f.b.)

C’è un imprenditore agricolo, il più grande d’Italia, che rischia di vedere espropriati oltre 1000 ettari della sua tenuta. A regola dovrebbe incatenarsi al trattore, aggrapparsi agli alberi, scavare simbolicamente una fossa nella terra. Tutto il contrario: è pronto a stappare la migliore delle sue bottiglie di champagne per l’affare che gli risolverà molte rogne. Lui, anzi loro, è Benetton. La tenuta è la “Maccarese spa”. La questione è il raddoppio dell’Aeroporto di Fiumicino, opera madre di tutte le colate di cemento che a breve-lungo termine asfalteranno il nostro Paese. In ballo ci sono affari, affaristi, grandi imprese, costruttori, mezzi di comunicazione, una piccola comunità che protesta e, ovvio, miliardi. Tanti. Come mai se ne sono visti: ben dodici, esattamente il doppio di quanto previsto per l’immaginifico Ponte di Messina.

Fase uno: la storia non parte da molto lontano, dal quel 1998, quando i Benetton acquistano dall’Iri 3.300 ettari di Agro Romano, “l’orto” della Capitale con appena 93 miliardi di lire. Per l’affare il gruppo di Treviso batte colossi nazionali (e romani) come Cragnotti e Caltagirone, senza che nessuno punti il dito su un palese conflitto di interessi: la tenuta è a ridosso del Leonardo Da Vinci, e gli “United colors” sono anche nell’azionariato dell’aeroporto, e in maniera preponderante.

La seconda. Nel 2008 i Benetton entrano a far parte di quel gruppetto di “eroi” pronti a salvare l’Alitalia, subito dopo l’appello di Silvio Berlusconi: entrano con l’8,85 per cento delle quote, in compagnia di partner diversamente interessati. Tra questi Air France (25 per cento), Fire spa (10,62), ma soprattutto Banca Intesa con l’attuale ministro Passera come protagonista (8,86) e Acqua Marcia finanziaria (1,77). Quest’ultima società è tra le big nel settore infrastrutture, è di proprietà di Caltagirone Bellavista, e nella cittadina di Fiumicino è già impegnata nella costruzione del porto, altra opera faraonica bloccata per assenza di fondi.

Terza fase, quando tre punti vari diventano un triangolo equilatero. La società aeroporti di Fiumicino presenta all’Enac un piano per raddoppiare la struttura, da tre a sei piste, con l’obiettivo di passare dagli attuali 30 e rotti milioni di passeggeri l’anno, ai 60 del 2020, fino al massimo di 100 per il 2040. Come? “Il 50 per cento si finanzierà con gli introiti derivanti dalle tariffe aeroportuali – spiega il presidente di Adr, Fabrizio Palenzona – in gran parte pagate da soggetti stranieri”. Insomma, la richiesta rivolta all’Ente di Stato è di aumentare il costo del passaggio per il Leonardo da Vinci di almeno tre euro a persona, meglio se sono cinque. Conti alla mano parliamo di 90-150 milioni l’anno, con una concessione di oltre trent’anni.

Conclusione: per fare tutto questo bisogna allargarsi, crescere. Espropriare. Appunto. E qui rientra in campo Benetton. Nei piani presentati, la zona interessata è quasi tutta la sua (1000 ettari su 1300), e secondo le tabelle, potrebbe incassare almeno duecento milioni di euro (20 euro al metro quadro), ai quali vanno aggiunti i danni riconosciuti in caso di strutture già presenti.

Ecco il triangolo: il Benetton imprenditore sottrae al Benetton agricoltore per avvantaggiare anche il Benetton investitore dei cieli. Roba da far girare la testa. “Sì, la testa e anche qualcos’altro – interviene Andrea Guizzi del Comitato Fuoripista –. Siamo preda di una lobby romana, composta da politici come Alemanno e Polverini, giornali di proprietà di grandi costruttori come Messaggero e Tempo e imprenditori privi di scrupoli pronti a vendere quello che non c’è. Chi ci rimette siamo noi, vada a vedere gli indici tumorali, e poi ne riparliamo”. Eccoli qua: secondo i rapporti della Asl competente c’è un aumento dei ricoveri tra il 18 e il 24 % dei bambini tra i 0 e i 14 anni, un terzo dei ricoveri è per malattie dell’apparato respiratorio, altri per tumori maligni e insufficienza renale cronica. “Tutto questo – continua Guizzi – per fare un favore ad alcuni. Guardi lo scalo di Hethrow, a Londra, ha il doppio dei passeggeri di Fiumicino e le stesse piste. Hanno semplicemente riorganizzato il sistema di atterraggio e decollo”. Troppo semplice, forse. O troppo poco remunerativo, per alcuni.

Al mercato dei treni prezzi di favore

per Montezemolo & c.

di Ronny Mazzocchi

La possibilità di comunicare all’interno di un Paese e verso l’esterno nel modo più razionale possibile è sempre di più una delle condizioni essenziali per non essere esclusi dal club delle nazioni che ambiscono a ricoprire un ruolo di primo piano nello scacchiere mondiale.

Che la partita dei trasporti sia centrale per il nostro futuro lo hanno capito in molti. Attorno a questo grande osso si agitano infatti lobbies, imprenditori, banche e società di assicurazioni, tutti interessati a consolidare il loro giro d’affari in una partita assai redditizia. Si tratta di una operazione perfettamente legittima, a patto però che vi sia qualcuno che si preoccupi di discriminare fra guadagni privati e interessi collettivi, dato che i due di rado tendono a coincidere spontaneamente. Purtroppo in questi ultimi vent’anni complice l’invadente retorica sulla necessità di privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazioni non si può certo dire che il filtro sia stato efficace.

Il caso del trasporto ferroviario e dell’alta velocità è in tal senso emblematico. L’iniziale volontà del legislatore di far partecipare alla partita anche il capitale privato aveva spinto ad affidare la gestione del servizio in regime di monopolio alle Ferrovie dello Stato, in modo da garantire una adeguata remunerazione dell’investimento. In verità di soldi privati, alla fine, se ne videro pochi. Ma, come spesso accade nel nostro Paese, al momento di lucrare i profitti si sono materializzati in molti. Se non ci saranno altri rinvii, a marzo dovrebbe partire l’avventura della Nuovo trasporto viaggiatori (Ntv), società italo-francese costituita da Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle nel dicembre di cinque anni fa con un capitale iniziale di solo 1 milione di euro.
Pur essendo una azienda di nuova costituzione, totalmente priva di esperienza e senza dipendenti, la Ntv è riuscita nel giro di pochi mesi ad ottenere la licenza per l’esercizio dei servizi ferroviari. Questo autentico miracolo è stato possibile grazie all’intervento del governo che, modificando quanto imposto da una vecchia legge (166/2002), ha eliminato l’obbligo di gara per l’assegnazione di un servizio pubblico fornito su infrastruttura pubblica (159/2007). All’azienda di Montezemolo veniva così concesso di poter scegliere fasce orarie e tratte fra le più redditizie, contro il pagamento di un canone annuo di 11 euro a chilomentro la metà di quanto previsto in Francia insufficiente a garantire la manutenzione delle stesse infrastrutture che rimarrà per buona parte a carico dello Stato (una vicenda che, purtroppo, ricorda sinistramente cosa è accaduto con la mancata asta per l’assegnazione delle frequenze televisive).

Ottenute le licenze e firmati i redditizi contratti, la Ntv si è arricchita di nuovi soci, fra cui Intesa San Paolo, le Assicurazioni Generali e la Société Nationale des Chemins de fer Français, posseduta al 100% dallo Stato francese. Con tutti questi innesti il patrimonio netto della società è lievitato così fino a raggiungere i 300 milioni di euro. Non è tutto: in attesa del debutto su rotaia la Ntv ha stipulato pure un accordo con Alstom, società transalpina in stretti rapporti con lo Stato francese, per la costruzione di 25 treni dal costo complessivo di 650 milioni di euro, ottenuti attraverso un prestito di Intesa San Paolo. Dei 25 treni, però, solo 8 sono stati prodotti nello stabilimento italiano di Savigliano, un tempo di proprietà di Fiat Ferroviaria, ex-produttrice dei famosi Pendolini. Una scelta che ha fatto infuriare i sindacati, subito pronti però, nel luglio di quest’anno, a stipulare con la Ntv un assai discutibile contratto di lavoro, al punto che l’amministratore delegato di Fs Mauro Moretti ha minacciato la disdetta del contratto nazionale se non verranno applicate eguali condizioni anche a Trenitalia.

Il rischio, infatti, è che il dumping contrattuale finisca per penalizzare l’azienda di Stato, così come è accaduto in passato al trasporto aereo con Alitalia e a quello marittimo con Tirrenia. Le polemiche, però, non si sono limitate a questo. In questi mesi Montezemolo e Della Valle hanno più volte lamentato boicottaggi da parte delle Fs dai test del materiale rotabile alle attività di marketing volto a ritardare l’inizio dell’attività commerciale. Moretti, dal canto suo, ha ricordato non solo come la sua azienda, a causa di un ricorso al Tar della Alstom, abbia subito il blocco di una ricca commessa da 1,54 miliardi di euro al consorzio italocanadese Ansaldo-Breda-Bombardier per la produzione di nuovi convogli, ma anche la disparità di regole sul mercato ferroviario europeo che penalizza le aree più deregolamentate come l’Italia.

Forse la migliore chiave di lettura di tutta la vicenda l’ha fornita proprio Montezemolo: «Siamo la prima compagnia ferroviaria privata dell’alta velocità in Europa». Se negli altri Paesi difendono il monopolio delle compagnie statali, dall’energia ai trasporti, forse un motivo ci sarà. ❖

Trasporto locale, ultimi in Europa

Colpa dei pochi fondi

di Massimo Franchi

Pochi fondi e pochi treni. Trenitalia si difende: non dipende da noi. Il governo Monti ha rimpinguato gli stanziamenti alle Regioni. Ceccobao (Toscana): noi investiamo. Vetrella: fiscalizzazione ci permetterà di fare gare vere.

Su un dato sono tutti d’accordo: il trasporto locale su ferro in Italia non funziona. Dalle tantissime associazioni che rappresentano i 3 milioni di pendolari, a Legambiente che con il rapporto Pendolaria lo monitora ogni anno, alle Regioni che questo servizio lo gestiscono, a Trenitalia che è il committente quasi monopolistico il coro è unanime: il servizio è scadente, pochi treni, vecchi e sporchi, tanti ritardi e soppressioni.

Su motivi, colpe e responsabilità il quadro è più complicato. Il principale indiziato, Trenitalia, ha gioco

facile a chiamare in correo il governo. Quello Berlusconi in particolare: dei 2 miliardi strombazzati da Matteoli da mettere a bando per i treni locali sono stati stanziati solo 500 milioni, mentre i tagli al finanziamento del Trasporto pubblico locale (Tpl) su ferro per il 2012 sono stati tagliati con la mannaia, passando dai 2.055 milioni del 2010 alla penuria di 400 milioni. Per fortuna il governo Monti ha dimostrato più sensibilità e, grazie alla pressione delle Regioni, in extremis il 21 dicembre ha aumentato lo stanziamento a 1.748 milioni.

«Il 2012 sarà un anno di transizione spiega Sergio Vetrella, coordinatore Trasporti della Conferenza delle Regioni e assessore della Campania ma la vera rivoluzione arriverà nel 2013 quando partirà la fiscalizzazione del servizio: non avremo più soldi a mozziconi ma un finanziamento preciso derivante dall’aumento delle accise sulla benzina. Così continua Vetrella avremo più responsabilità, ma potremo anche chiedere gare europee autentiche per mettere a bando i servizi: basta al monopolio pubblico spinto, ma gare in cui oltre ai binari potranno essere affittati i treni, non dovendo aspettare i 3-4 anni che una nuova azienda deve attendere per essere competitiva. E di certo non penso a Ntv, ma alle tante realtà europee molto più grandi».

ESEMPIO TOSCANO

Il compito più vicino che attende Vetrella è quello di “spartire” entro febbraio i finanziamenti strappati al nuovo governo. «Noi si prenota l’assessore toscano Luca Ceccobao ci aspettiamo almeno 180 milioni». Lui può parlare con cognizione di causa: la Toscana è una delle poche regioni salvate dal rapporto Pendolaria: «La più costante nella politica di sviluppo del trasporto su ferro». I motivi sono presto detti: «Ci eravamo già impegnati a trovare risorse per tagliare di soli 12 milioni, da 216 a 204, il budget regionale, in più abbiamo lanciato con le Province il Bacino unico regionale: progetto innovativo che ci permetterà di evitare sovrapposizioni dei servizi».

Trenitalia da parte sua rispedisce al mittente le critiche ribadendo che i prezzi dei servizi sono un quinto di quelli tedeschi e che basterebbe alzare di un centesimo il costo passeggero/km per avere un miliardo di investimenti in più. Il piccolo sforzo del governo Monti comunque dovrebbe portare qualche frutto. Dal mese di gennaio arriveranno le 350 nuove carrozze a doppio piano e nuovi locomotori “464”, mentre dovrebbero essere riaperte le gare di bando per 40 (più 20) treni diesel e 70 (più 20) treni elettrici sospese da Trenitalia il 28 ottobre a causa dei tagli.

La verità sui colpevoli di questa situazione comunque si evince benissimo dai dati pubblicati dalla Direzione generale trasporti dell’Unione europea sul periodo 2000-2009: siamo il solo paese del continente che ha registrato un calo del traffico passeggeri (meno 3%, contro il +14% tedesco, il +23% francese e il + 37% inglese) dovuto ad un netto taglio dell’offerta di treni (-32% nel triennio 2007-2010 sui servizi con Stato o Regioni). In cima alle colpe c’è quindi il governo Berlusconi che, mentre il resto del mondo investe sul ferro, ha sistematicamente tagliato. E al solito i primi ad essere colpiti sono i più deboli: i 3 milioni di pendolari che ogni giorno sono costretti a viaggiare «da ultimi in Europa», Pendolaria dixit.

Questo il testo della lettera trasmessa oggi al premier Mario Monti da Sandro Plano, presidente della Comunità Montana Valle Susa e Val Sangone, e Girolamo Dell’Olio, presidente dell’Associazione di volontariato Idra.

Signor Presidente, alla vigilia della seduta del Consiglio dei Ministri che ha all’ordine del giorno, riferiscono le cronache, anche il tema delle scelte in materia di grandi infrastrutture, Le rinnoviamo l’appello a considerare con ogni possibile attenzione le circostanze che un mese fa le abbiamo sottoposto – la scrivente Comunità Montana della Val di Susa e Val Sangone, che raccoglie 43 Comuni della provincia di Torino, e la scrivente Associazione di volontariato Idra di Firenze – in relazione al progetto TAV/TAC Torino-Lione e al progetto del Nodo ferroviario TAV di Firenze.

Grande è la Sua responsabilità di fronte alla Nazione in questo momento economico delicatissimo, come Ella ha avuto più volte occasione di ricordare. Le condizioni di emergenza in cui versa il Paese hanno spinto la maggior parte delle forze politiche a superare le divergenze in talune materie, e a sostenere in Parlamento la Sua azione di governo. Sono tuttavia le stesse, o eredi delle stesse, che negli ultimi decenni, in varia misura e con differenti alleanze, hanno contribuito ad accumulare il debito al quale Ella è chiamato oggi a far fronte. Testimonia plasticamente la loro improvvida cultura di governo e di gestione della spesa pubblica la voragine erariale che i precedenti governi hanno contributo a scavare attraverso i cosiddetti project financing e le architetture contrattuali fondate sui cosiddetti general contractor.

Ne abbiamo scritto a Lei nella lettera che qui Le rialleghiamo.

Leggiamo che ancora oggi le forze politiche che sostengono il Suo governo ribadiscono la volontà di imporre al Paese investimenti in grandi infrastrutture segnati dalle pesanti criticità indicate, come fossero fattori di crescita.

Ci permettiamo quindi di ribadire la nostra convinzione, suffragata dall’opinione di esperti di rango, che perseverare nell’adozione di quel modello nefasto di investimenti capital intensive e a sviluppo fuori controllo non soltanto non gioverebbe alla creazione di occupazione quantitativamente significativa, qualitativamente sana e duratura, ma produrrebbe al contrario un’ulteriore crescita del già gigantesco debito pubblico, senza peraltro giovare alla soddisfazione di alcune delle vere esigenze nazionali: il trasporto pubblico di massa su ferro, la manutenzione delle infrastrutture, la difesa idrogeologica del territorio, la miriade di piccole opere ad alta intensità di lavoro necessarissime.

Confidiamo nella Sua attenzione.

I lavoratori di Wagon Lits licenziati accusano le ferrovie: "Per mesi hanno tolto la possibilità di prenotare i posti online per le cuccette, così da poter sbandierare dati sullo scarso utilizzo del servizio". Il responsabile trasporti di Legambiente parla di "strategia che condanna a costi elevati passeggeri e contribuenti, soprattutto i pendolari". Marco Ponti: "Moretti punta a fare profitti con un servizio che rende. Mentre per tutto il resto conta sui contributi statali"

I tre lavoratori della ex Wagon Lits che da due settimane occupano una torre al binario 21 della Stazione Centrale di Milano non demordono. L’impegno di Ferrovie dello Stato al ricollocamento non li convince: “Siamo stati boicottati”. Oltre al lavoro, chiedono il ripristino delle linee notturne sulle quali operavano. Ma nei piani dell’ad di Trenitalia Mauro Moretti le priorità sono altre. L’Alta Velocità drena gran parte delle risorse e i Frecciarossa invadono ogni tratta. Una strategia che frena la concorrenza e condanna a costi elevati passeggeri e contribuenti. E tra i colpevoli, ancora una volta, c’è la politica.

“Ferrovie dello Stato assume fin d’ora l’impegno di garantire, entro i prossimi 24 mesi, la progressiva ricollocazione mediante appalto di attività”. E’ questa l’offerta di Ferrovie ai lavoratori della Servirail Italia ex Wagon Lits, che a Milano come a Roma protestano contro la dismissione del servizio notturno e il licenziamento di 800 lavoratori. Un’offerta che però non convince. “Perché non si dice nulla del ripristino dei treni notte, che il gruppo ha soppresso per intralciare Montezemolo e Della Valle sull’Alta velocità”, accusa Angelo Mazzeo, che a Milano presidia il binario 21 dove tre suoi colleghi occupano la torre faro. Secondo i licenziati della Servirail, molte delle tratte orarie cancellate vengono sostituite dai Frecciarossa, “così la Ntv di Montezemolo e soci non avrà spazi”. Trenitalia parla di razionalizzazione di un servizio dove la domanda era ormai in calo, ma al binario 21 vedono le cose diversamente. Denunciano manipolazioni nei database che gestiscono le prenotazioni, già dal 2008: “Era impossibile prenotare online, i posti risultavano tutti pieni. Ma sul treno il posto c’era eccome, e i controllori non applicavano maggiorazioni a chi voleva fare il biglietto a bordo perché sapevano bene come stavano le cose”. E c’è dell’altro: “La manutenzione era ai minimi, così da degradare la qualità del servizio e allontanare gli utenti”. Una strategia vincente? Pare di no. Gli ex dipendenti mostrano i dati di alcune linee notturne. E i numeri del 2010 sono addirittura in crescita rispetto a quelli del 2009. “Altrimenti i pullman che partono dalla Stazione Centrale per il Sud Italia non sarebbero così pieni”, fanno notare. Per le feste di Natale, infatti, i posti sono esauriti da settimane.

“Le compagnie aeree low cost hanno reso i treni Nord-Sud meno strategici. Ma toglierli tutti è assurdo.” La pensa così Dario Balotta, responsabile trasporti per Legambiente in Lombardia, che ricorda come Ferrovie dello Stato sia responsabile anche del servizio universale, per il quale lo Stato versa ogni anno miliardi di euro a sussidio delle tratte che i ricavi dei biglietti non coprono del tutto. “Moretti non può puntare tutto sull’Alta velocità”, sostiene Balotta, “che copre appena 685 chilometri su una rete nazionale che ne conta più di sedicimila”. A confermare che la direzione intrapresa dall’ad di Trenitalia è sbagliata, ci sono i dati degli ultimi dieci anni. Balotta spiega che a fronte di una crescita del servizio Alta velocità del 111%, e della flessione del 16% nel servizio tradizionale, l’exploit dell’Italia è in rosso del 5% rispetto, ad esempio, a Francia e Spagna, dove la performance è positiva (+23% e +14%). “Dovremmo interessarci alle reti regionali”, avverte Balotta, “dove gli utenti sono cresciuti del 7,8% in soli due anni, rappresentando da soli oltre la metà della domanda nazionale”. I dati sono quelli del rapporto di Legambiente sul servizio ferroviario rivolto ai pendolari, dove per garantire almeno i treni in circolazione mancano ancora 400 milioni sui bilanci regionali del 2011 e 200 milioni per l’anno prossimo.

“Questo in un Paese dove l’83% dei passeggeri compie un percorso sotto i 50 chilometri”, aggiunge Ivan Cicconi, ingegnere esperto di infrastrutture e lavori pubblici e autore de “Il libro nero dell’Alta velocità”. “Sono dieci anni che parte dei fondi destinati al servizio universale passano all’Alta velocità”, sostiene Cicconi. Il fatto è che l’Alta velocità ha costi elevati. La linea dove passano i Frecciarossa ha infatti un costo di manutenzione fino a quindici volte superiore a quello della linea storica. Eppure Trenitalia e Ntv pagano solo 11 euro per la concessione di transito, mentre in Francia il costo è addirittura doppio. “Nel frattempo”, continua Cicconi, “Moretti spende mezzo miliardo per fare il restyling delle carrozze”. L’annuncio è di due settimane fa: “A partire dalla fine dell’anno supereremo le tradizionali prima e seconda classe portando tutto a quattro livelli di servizio”, ha spiegato Moretti, “da quello per il trasporto ferroviario, senza particolari richieste, fino a un treno di lusso”. “Inoltre”, conclude Cicconi, “c’è la pubblicità, i club Frecciarossa, e le nuove stazioni fatte apposta per l’Alta velocità. Dove pensate che prenderanno i soldi?”

“Moretti agisce così perché la politica glielo permette”, attacca Marco Ponti, docente di Economia al Politecnico di Milano, già consulente della Banca Mondiale in materia di trasporti. “Moretti punta su un servizio – l’Alta velocità – che dei ricavi li concede”, premette Ponti, “per tutto il resto conta sullo Stato che spende troppo e male”. E allora? “Bisogna fare i bandi di gara”, risponde, “invece hanno appena prolungato di 12 anni la possibilità per le regioni di evitare le gare. “In Germania”, racconta Ponti, “hanno risparmiato fino al 25%”. In Italia ci sarebbe l’esempio del bando lanciato dall’ex presidente del Piemonte Mercedes Bresso. “Un buon esempio”, commenta Ponti, “peccato che il centrodestra l’abbia immediatamente cancellato, dopo che l’ex ministro Sacconi e lo stesso Moretti avevano fatto il diavolo a quattro”. Insomma, se Moretti e Trenitalia si comportano da monopolisti è grazie ai favori della politica. E i nuovi arrivati? “Il rischio è che Moretti tagli la gola alla società di Montezemolo”, dice Ponti. I licenziati della ex Wagon Lits non sono infatti gli unici a ritenere che la cancellazione di tratte a lunga percorrenza serva a liberare slot in favore dei pendolini, così da non lasciare spazi alla concorrenza di Ntv. Ma se così non fosse, “è facile che si mettano d’accordo”, conclude Ponti: “Se non altro perché Ntv deve pagare il servizio al suo concorrente”.

È ormai consolidata opinione del sottoscritto, spero condivisa con qualche sparuto e sparso gruppetto, che i grandi principi vivano esclusivamente ad alta quota, dove si respira l’aria e la vita non è vuota. Sotto ci stiamo noi, che però siamo egualmente importanti, diciamo anche qualcosina di più che egualmente: perché senza di noi non ci sarebbe alcun grande principio. Accade anche nel caso di quella complessa affascinante macedonia che gli anglosassoni chiamano communities, e che a suo tempo il nostro Adriano Olivetti tentò di importare, declinare, migliorare. Ovvero l’impasto fra spazio, società, economia, egoismi e solidarietà che la vulgata attuale spesso chiama “territorio”.

Più o meno contemporaneamente all’utopia olivettiana, un altro pioniere dell’innovazione nazionale importava da oltre oceano, con ben diverso successo, un altro modello di vita. Sembrava a prima vista una sciocchezza, mettere gli scaffali del negozio dietro al banco anziché davanti, e applicare quattro rotelle alla borsa della spesa, e invece fu proprio quello a sconvolgere la città, la comunità, con buona pace di chi stava scrutando forse con troppa attenzione l’empireo dei grandi principi. Quel pioniere si chiama Bernardo Caprotti, e un paio di anni fa ci ha raccontato a modo suo in un libro autobiografico, Falce & Carrello, sino a che punto fosse lui, e non certi idealisti pirlacchioni, ad aver interpretato davvero destino e ambizioni dell’umanità terrena. Che voleva posti puliti e illuminati bene, facili da raggiungere, dove si consumava a poca spesa e senza certe fumose ideologie egualitarie, come il quartiere, o la solidarietà, dietro cui stavano sempre nascoste idee autoritarie.

Anche se, come ben sappiamo, le idee dominanti sono sempre quelle dei vincitori, è difficile dargli torto all’alba del terzo millennio. Tanto più difficile perché i nemici ideologici di un tempo si sono messi a scimmiottarlo, prima avvitando sopra l’ingresso delle cooperative di consumo la nota insegna al neon (rigorosamente rossa) e sotto la borsa della spesa le rotelle di ordinanza. Poi in un certo modo scavalcando a destra il pioniere, verso la nuova frontiera dello shopping mall suburbano all’italiana, tempio del consumo e dello spazio pubblico taroccato a pagamento, al centro della desolazione indotta di villette, capannoni e svincoli della superstrada. Lo scavalcamento è arrivato al punto di rottura, appunto denunciato da Caprotti nel libro Falce & Carrello, quando il gigante Coop si è fatto monopolista, grazie alla connivenza di pubbliche amministrazioni partigiane infedeli al mandato democratico, occupando militarmente il territorio con le proprie insegne.

La magistratura, tirata in causa, prima ha deciso di ritirare il libro dal mercato, e poi lo ha provvisoriamente rimesso sugli scaffali (vedi articolo dal Corriere della Sera in calce). E sarà un tribunale a decidere se e in che misura hanno ragione l’uno o l’altro, nell’interpretare in modo legalmente ineccepibile i principi della libera concorrenza sul territorio. Ma siamo in un periodo in cui si discute molto dei privilegi delle corporazioni, e sarebbe forse utile tornare sul tema che già avevo toccato recensendo a suo tempo il libro: Esselunga difende la sua posizione di attore del libero mercato, Coop pure, ma la pubblica amministrazione può fare altrettanto? Non mi riferisco qui alle solite (ahimè, solite) storie di malaffare, tangenti, o anche solo scorrettezza formalmente ineccepibile, ma esattamente all’idea olivettiana di comunità, per quanto edulcorata e adattata, che oggi forse qualche assessore magari chiamerebbe “città a misura d’uomo”. E che è ben diversa dallo strattonarsi di lobbies e corporazioni, tutti inclusi.

Non esprime alcuna idea di città, ovviamente, chi dice di ispirarsi a principi di libera concorrenza quando per abbassare i prezzi si va a mettere con un enorme scatolone a dieci chilometri da dove abitano i suoi clienti, al tempo stesso tagliando fuori chi non ha libera disponibilità dell’auto, e desertificando i quartieri. Per non parlare del fatto che il consumatore poi in benzina e manutenzione spende molto più di quanto ha risparmiato su tonno e zucchine. Ma non esprime alcuna idea di città anche chi, pur appellandosi a parole al proprio storico ruolo sociale e urbanistico, vive di artificiosi sostegni pubblici senza dare di fatto nulla in cambio. Mi riferisco alle posizioni più frequenti delle associazioni di esercizi urbani nei confronti di traffico, ambiente, pedonalizzazioni, o anche scelte di trasformazione più strategiche. E al sostegno spontaneo che spesso trovano tra i cittadini: il negoziante piccolo è buono per definizione, di fronte al grande e spersonalizzato capitale dello scatolone a neon. Leggere Caprotti, e il suo quasi ghost-writer Emanuela Scarpellini (La spesa è uguale per tutti, Marsilio 2007), aiuta a capire che non è proprio così.

Resta il ruolo della pubblica amministrazione: riesce ad esprimere un’idea di città qualsivoglia? L’impressione è che quella misura d’uomo tanto spruzzata dal podio delle campagne elettorali finisca per non misurare alcunché. Negli anni ’60 in cui i luccicanti supermercati di Caprotti, sostenuti in un primo tempo da finanziamenti americani, facevano intravedere potenziali luminosi futuri sociali e urbani, pareva che anche la cultura delle città avesse un proprio progetto, magari discutibile e discusso, ma di progetto si trattava: la mitica casettina in periferia, con la mogliettina giovane e carina proprio come piace a me … Man mano quella utopia si realizzava, tra appartamenti con acqua calda corrente e garage con tavernetta per le festicciole, emergevano anche le rogne del modello, come ben sanno sia gli addetti ai lavori che i comuni cittadini. E però, nello stesso modo in cui si affrontano tante altre questioni, le risposte paiono più guardare acriticamente al passato che riflettere davvero sul problema.

Che vuol dire, fare i partigiani del supermercato capitalista, della cooperativa finto-solidaristica, o degli esercenti di vicinato buoni in quanto tali? Non vuole dire nulla, salvo comportarsi automaticamente in modo corporativo, come ad esempio è successo negli ultimi giorni con gli edicolanti (difesi da una parte della sinistra) e i farmacisti (sostenuti da sedicenti ondivaghi ex paladini del liberalismo). Un punto di vista diverso potrebbe essere, appunto, quello di chiedersi che ruolo sociale svolgono negli equilibri attuali, nel territorio attuale, nella comunità attuale, e provare a capire come e dove intervenire a eliminare solo gli aspetti corporativi, conservando il bambino nell’acqua sporca, quando il bambino esiste. C’è un punto di equilibrio fra la comodità e modernità della grande distribuzione organizzata, e il ruolo sociale e spaziale del negozio di quartiere? È quello da cercare, non lo schieramento sull’uno o l’altro fronte.

Emanuele Buzzi, Nuova sentenza: «Falce e carrello» torna in libreria, Corriere della Sera 24 dicembre 2011



MILANO — Torna tra gli scaffali il pamphlet Falce e carrello, scritto dal patron di Esselunga Bernardo Caprotti. E si riaccende la polemica per quello che è stato un caso economico-letterario-politico degli ultimi mesi, poi sfociato in una vicenda giudiziaria. Il libro, pubblicato nel 2007, racconta la competizione con la Coop, denunciando un presunto ostruzionismo delle amministrazioni locali e degli operatori economici delle regioni «rosse» rispetto all'espansione della catena Esselunga.

A settembre la prima sezione civile del tribunale di Milano aveva accolto il ricorso presentato da Coop Italia contro Caprotti e il suo saggio, ordinando (oltre a un risarcimento di 300 mila euro) anche la sospensione della distribuzione del pamphlet. Il motivo? La «pubblicazione, diffusione e promozione degli scritti contenuti nel libroFalce e carrellointegrano un'illecita concorrenza per denigrazione ai danni di Coop Italia». Ora, nuovo round, nuovo atto. La prima sezione civile della Corte d'Appello di Milano ha ordinato la sospensione dell'esecutività della sentenza di primo grado. Di conseguenza il libro può tornare liberamente sul mercato in attesa della decisione di secondo grado, prevista in primavera. Nell'ordinanza, firmata dal giudice Giuseppe Patrone, la sospensione della distribuzione viene indicata come «un provvedimento cui non sembra agevole, per l'attualità degli effetti, negare una sostanziale valenza di sequestro e censura».

E proprio sul valore censorio della sentenza di primo grado a settembre si era scatenata la bagarre politica, con il centrodestra pronto a sollevarsi contro quello che veniva bollato come «un autentico scandalo». Una bagarre culminata con l'intervento in prima persona, sulle pagine delCorriere, dello stesso Caprotti, che ironizzava così sulla vicenda: «Io sono soltanto sleale, cioè "unfair", subdolo e tendenzioso. Un niente, di questi tempi! Quasi un gentiluomo. E per i danni subiti da Coop per questa sleale concorrenza ha accordato 300 mila euro invece dei 40 milioni richiesti! Il libro? Non si ordina neppure di bruciarlo sulle pubbliche piazze».

Coop Italia, al tempo stesso, aveva espresso soddisfazione nel vedere condannata «un'aggressione violenta e lesiva che noi non ci saremmo mai sognati di fare nei confronti di un concorrente», prendendo anche le distanze da ogni tipo di polemica: «La suddetta sentenza non ha nulla a che fare con la pretesa di mettere al rogo i libri, anche se falsi e diffamatori, né ci siamo mai espressi in tal senso».

Era solo il primo atto della battaglia legale milanese. Una delle molte che vedono fronteggiarsi Caprotti e le Coop in tutta Italia.

Nell'aprile 2010 il patron di Esselunga ha vinto nei confronti di Coop Liguria, nella primavera del 2011 ha vinto contro Coop Estense, poi c'è stata la decisione del tribunale di Milano. Nel 2012 sarà la volta della sentenza d'appello a Milano e del primo grado della causa con Coop Adriatica.

Nei trasporti ci sono tante cose utili da fare. Oggi, però, le scelte in questo campo devono guardare anche ai contenuti occupazionali e al contenimento del deficit. Per le ferrovie, servirebbero piccoli interventi, rapidamente cantierabili, che mirino a risolvere i problemi locali. Invece, si continuano a preferire opere ad alta intensità di capitale, con periodi di completamento molto lunghi e incerti. E allora è urgente una spending review del settore, che segni discontinuità con il passato.

È certo presto per valutare la politica infrastrutturale del governo Monti. Dunque è presto anche per giudicare di quanto si discosta dall’approccio del governo passato, caratterizzato da elenchi di “grandi opere” mediaticamente visibili, ma in generale scarsamente meditate e soprattutto mai seriamente valutate.



NON È UNA SPESA ANTICICLICA



I primi segnali di politica infrastrutturale sembrano per ora confermare il passato, il che nel brevissimo periodo è probabilmente inevitabile. Ma in genere le “grandi opere” sono state caratterizzate da costi stratosferici per l’erario, di cui nessuno in questi anni ha dato conto, con poche scelte funzionalmente felici (la linea alta velocità Milano-Roma), altre di dubbia utilità (la linea alta velocità Roma-Napoli) e altre ancora catastrofiche (la linea Milano-Torino sopra tutte).
Ma erano comunque altri tempi. Ora, gli aspetti finanziari e quelli anticiclici incombono. E le grandi opere finanziate dall’ultimo Cipe sembrano davvero molto discutibili da entrambi questi punti di vista. Si tratta principalmente di nuove tratte ferroviarie di alta velocità (la Milano-Genova e la Napoli-Bari), molto costose e con ritorni finanziari probabilmente nulli. (1)
Anche gli aspetti anticiclici lasciano perplessi: si tratta di opere ad alta intensità di capitale, con periodi di completamento molto lunghi e incerti. Esattamente il contrario di quello che serve oggi per la crescita a breve dell’occupazione e della domanda interna.
Cosa si potrebbe fare per accentuare il carattere anticiclico della spesa? Ovviamente, opere rapidamente cantierabili, piccole e che mirano a risolvere i problemi locali. Tra l’altro, la letteratura internazionale mostra che anche dal punto di vista funzionale le manutenzioni e le piccole opere “mirate” tendono ad avere redditività economica più elevata, contenuti anticiclici a parte. (2)



GRANDI OPERE E AMBIENTE



Anche la decisione di investire in opere che gli utenti non sono disposti a pagare, come quelle ferroviarie per le relazioni di lunga distanza, dovrebbe far riflettere sulla loro priorità. Vengono spesso addotte motivazioni ambientali per giustificare tali scelte, nell’assenza di altre argomentazioni. Ma studi recenti hanno evidenziato che le emissioni di gas serra nella fase di costruzione di grandi opere ferroviarie ne vanificano gran parte dei possibili benefici ambientali netti. Diverso sarebbe il risultato spendendo le stesse risorse per il potenziamento tecnologico delle infrastrutture esistenti, stradali e ferroviarie. Rimanendo per esempio in campo ferroviario, le cose più utili (lo ha dichiarato più volte lo stesso amministratore delegato di Ferrovie) sono le opere che riguardano la capacità dei grandi nodi (Torino, Milano, Genova, Roma e Napoli), assai più critica anche per i servizi locali che non le tratte esterne, spesso sottoutilizzate. Tra l’altro, spesso si dimentica che anche l’ad ha sollevato in pubblico forti perplessità sulla logica di alcune “grandi opere” ferroviarie oggi sul tavolo.
Alla luce della nuova situazione finanziaria, appare davvero urgentissima una spending review che segnali una forte discontinuità con le logiche dal governo precedente.



E MANCA LA VALUTAZIONE



Le considerazioni finali del governatore Mario Draghi a maggio 2011 e una corposa ricerca della Banca d’Italia dell’aprile 2011 hanno messo in luce come la totale assenza di una prassi di valutazione economica, trasparente, comparativa e “terza”, sia uno dei fattori della scarsa funzionalità della politica infrastrutturale dell’Italia. D’altronde, le politiche anticicliche richiedono necessariamente tempi brevi di attuazione, mentre le “grandi opere” hanno tempi molto lunghi di avvio, di realizzazione e di messa in servizio. E l’apertura immediata e “incauta” di molti cantieri per opere su cui sussistono dubbi funzionali, e anche incertezze sui fondi per portarle a termine, può dar luogo a notevoli sprechi di risorse scarse.
Il caso del tormentato (e assai dubbio) progetto della linea Torino-Lione è emblematico: in seguito a una serie di perplessità sulla sensatezza di questa spesa, espresse anche su lavoce.info, il progetto è stato trasformato radicalmente e ora si parla di una realizzazione “per fasi”, in funzione della crescita reale della domanda. Non sarebbe forse una logica da estendere a tutte le “grandi opere”? Non è una “buona pratica” da generalizzare con un approccio molto più attento agli aspetti funzionali e finanziari degli interventi, invece che a quelli mediatici?
Le cose utili da fare nei trasporti sono moltissime, ma oggi devono essere direttamente connesse anche ai contenuti occupazionali e al contenimento del deficit, altrimenti ci troveremo presto, anzi ad alta velocità, in Grecia.



NOTE

(1) Diciamo costi finanziari “probabilmente” nulli perché non è dato conoscere i piani finanziari delle opere, cioè il rapporto costi-ricavi. Di analisi costi-benefici nemmeno parliamo, per carità di patria.


(2) Vedi l’inglese “Piano Addington” e gli studi della Banca Mondiale.

La pianura padana, con le sue fertili terre, rappresentava il luogo dove si produceva gran parte del nostro cibo. Ora invece il cibo lo importiamo e le terre agricole le stiamo abbandonando. Ogni giorno che passa in Veneto e in Lombardia perdiamo terreno coltivabile equivalente a 7 volte piazza del Duomo. Per farne cosa? Cementarlo o asfaltarlo. Ormai coltivare non conviene più. E i nostri agricoltori vanno a produrre all’estero, dove costa meno.

Ma la concorrenza per accaparrarsi la terra è spietata. Perché? Che c'entra per esempio il fallimento di Lehman Brothers con la sorte di qualche centinaio di contadini di un villaggio sperduto del Mali? O ancora, cosa lega la direttiva europea sui biocarburanti con la morte di tre pastori nel nord del Senegal? In un viaggio che va dagli uffici di Washington della Banca Mondiale fino a una rivolta contadina nel cuore dell'Africa Occidentale, la puntata di domenica 18 dicembre cerca di percorrere i fili intrecciati di finanza, politica e modelli di sviluppo economico che stanno muovendo una corsa globale all'accaparramento di terra.

Il termine inglese è land grabbing e i principali “accaparratori” sono europei, cinesi, indiani, americani. Il terreno di conquista più propizio è l'Africa dove governi compiacenti aprono le porte a investitori intenzionati a fare profitto nel più breve tempo possibile. Poco importa se milioni di contadini verranno espropriati delle loro terre come lo furono gli indiani d'America ai tempi del conquista del West. Per la Banca Mondiale, così come per molti investitori, si tratta del prezzo da pagare per ottenere il tanto agognato sviluppo. Ma per altri autorevoli osservatori questo è soltanto il preludio di una nuova strategia di conquista della risorsa più preziosa: l'acqua.

Qui il testo integrale del servizio. E qui .

E’ passato solo un mese dalla pubblicazione dello studio dell’Osservatorio sulle Politiche Abitative della Provincia di Pordenone che ha pubblicato senz’ombra di dubbio uno studio di grande valore oggettivo sul problema abitativo del territorio. E oggi, 10 dicembre, ci troviamo di fronte alla notizia che anche nel nostro Ambito si deve registrare un aumento degli sfratti. Un grave e amaro paradosso: da un lato 1650 abitazioni libere a Sacile e dall’altro, famiglie che l’abitazione la devono abbandonare. SPS intende facilitare ai cittadini la lettura dello studio (il link alla fine) e ha estrapolato in questo articolo le parti riguardanti nello specifico il nostro Comune.

Ad oggi comunque non è apparso nessun commento da parte della nostra Amministrazione. In quale misura intendono tenere conto di questo studio? Nessun apprezzamento per un lavoro finalmente di rigore scientifico che dovrebbe, in quanto tale, essere alla base delle future scelte urbanistiche in provincia? Eppure proprio la nostra città, proprio Sacile, emerge nello studio in modo significativo per svariati aspetti – purtroppo tutti negativi – cosa che dunque a maggior ragione dovrebbe essere oggetto di attenta analisi da parte di chi questo territorio lo deve amministrare nell’ottica del bene comune.

Il documento pubblicato nell’ottobre 2011 dall’Osservatorio sulle Politiche Abitative della Provincia di Pordenone ha preso in considerazione il periodo intercorso tra il 2001 e il 2009.

Si parte dal dato inequivocabile che il patrimonio abitativo in questi 8 anni è considerevolmente cresciuto: a livello provinciale si registra un +18,4% delle abitazioni, equivalenti a 25.400 abitazioni e 8,4 milioni di metri cubi. Gli ambiti socio – economici che presentano livelli di crescita più accentuata, maggiore della stessa Pordenone, sono quelli del Sacilese e del Sanvitese: infatti, se PN registra un tasso di crescita del 10,14%, proprio il Sacilese si piazza al primo posto con un aumento di volumetria del +25,0% ed un aumento di abitazioni di +24,8% (che ha portato alle attuali 44.485 abitazioni – delle quali 1650 non utilizzate).

Nel suo complesso in provincia la quota maggioritaria di abitazioni, cioè il 65%, ha un patrimonio edilizio superiore a 30 anni.

Anche questo deve farci riflettere: se la nostra città possiede un patrimonio edilizio già superiore in media a 30 anni e una considerevole parte di questo patrimonio attualmente è, e probabilmente continuerà ad esserlo, non utilizzato, sarà un patrimonio in decadimento perché inutilizzato. E più passerà il tempo, più aumenteranno i danni e i costi per riqualificarlo. Andremo verso una città Dr. Jekill e Mr. Hyde, da un lato nuove edificazioni (non dimentichiamo che si vuol cambiare la visuale panoramica di Sacile con le prime due torri a dieci piani), dall’altro condomini datati mezzi vuoti e casette unifamiliari abbandonate – una visione che già oggi si coglie.

Lo studio sentenzia poi molto chiaramente che l’intensa attività edilizia tuttavia non ha prodotto alla fine alcuna facilitazione in termini di buona politica abitativa: ad oggi nell’intera provincia esiste un eccesso di offerta pari a 7.300 nuove abitazioni che, non avendo trovato riscontro nella domanda abitativa, ha aggravato il patrimonio sfitto/sottoutilizzato.

In tutta la provincia si sono costruite in media negli ultimi dieci anni 1,4 abitazioni per ogni nuova famiglia, nel Comune di Sacile per ogni nuova famiglia ci sarebbero teoricamente a disposizione 1,34 abitazioni.

Questo fervore nel costruire può aver fatto la felicità della speculazione edilizia anni fa, ma ora torna indietro come un boomerang. Nemmeno al mercato immobiliare questo surplus di cementificazione sta portando bene: l’ambito che attesta il maggior calo di intensità del mercato immobiliare, oltre alla Montagna, e alla pedemontana Maniaghese, è ancora una volta il Sacilese, nonostante il suo record di aumento del cemento. Le tre realtà complessivamente attestano un calo immobiliare notevole, del 23% - 30%.

Il dato più eclatante dello studio è la conclusione che il patrimonio esistente sul territorio e non occupato nel 2009, pari a 30.000 abitazioni, sarebbe in grado di coprire l’intera domanda aggiuntiva espressa dalle famiglie fino al 2020!!!

In questo ritaglio di grafico vedete in blu la quota di case sfitte al 2009 e in azzurro il previsto incremento delle famiglie al 2020. Si vede chiaramente che nemmeno per quella data Sacile avrebbe ancora occupato tutto l’attuale patrimonio già oggi esistente! Figurarsi aggiungendo le nuove previsioni! Fino al 2020 dunque, l’intera domanda delle nuove famiglie (incremento previsto dall’ISTAT) sarebbe soddisfatta semplicemente attraverso il riutilizzo dell’attuale eccesso di patrimonio.

Ma le speranze che i nostri politici e amministratori riescano a cambiare prospettiva e trovare una nuova modalità di governare in modo virtuoso, lungimirante ed efficace questo fenomeno ci paiono deboli. Sul fronte della capacità di gestire il fabbisogno abitativo, sempre secondo lo studio, si evince che:

- le politiche pubbliche sono residuali ed in costante diminuzione sia per quanto concerne l’offerta di alloggi che sotto il profilo dei finanziamenti erogati;

- il contesto sociale è in progressiva precarietà economica, tanto che le richieste di sfratti, soprattutto quelle per morosità, sono aumentate in provincia di +99%.

Ovvio che il diritto alla casa è ancor più in pericolo dove i prezzi al metro quadro sono maggiori.

In riferimento al valore sul mercato la provincia di Pordenone presenta una netta prevalenza di comuni i cui immobili hanno un valore di mercato medio compreso tra 600 e 900 €/mq.

Oltre al capoluogo, dove i valori superano i 2.600 euro/mq, tra le città di maggiori dimensioni si individuano due livelli di mercato:

1) livello medio caratterizzato da valori tra 1.300 – 1.500 (Casarsa e Spilimbergo)

2) livello alto con valori oltre 2.000 (Porcia e, guarda caso, Sacile).

Ma lo studio adotta anche un descrittore ancor più avanzato: incrociando i valori del reddito con quelli degli alloggi, lo studio rivela che il Comune di Sacile vanta il triste primato del tempo più lungo (10 anni) per l’acquisto di una casa. E con le attuali condizioni economiche questo lasso di tempo aumenterà. Calma piatta dunque sul mercato immobiliare a Sacile e, per le stesse ragioni contenute in questo studio, nel resto del territorio.

Ora, la speculazione edilizia è stata per decenni impietosa con i cittadini, in particolare con i giovani, quindi non proviamo certo compassione per questa stasi, ma l’aspetto che emerge in tutta la sua gravità è il fallimento della politica che, legata a doppio filo con gli interessi della cementificazione, non ha voluto arginare questo fenomeno che adesso travolge tutti.

Qui è possibile scaricare il documento Le dinamiche insediative del comparto residenziale

Il commento è pubblicato sul sito Sacile partecipata e sostenibile curato da Rossana Casadio che ha fatto proprie le parole dell'antropologa Margaret Mead: "Mai dubitare che un gruppo seppur piccolo di cittadini attenti e risoluti possa cambiare il mondo. Anzi, è la sola cosa che avviene sempre."

La critica, a volte anche giustificata, a certe idee di sviluppo sostenibile locale, è quella di essere passatiste, reazionarie, e pure un po’ stupidotte. Stupidotte perché negano l’evidenza: ve ne state lì nel vostro paesello a vantarvi di non consumare suolo agricolo per case e capannoni, ma poi da lì prima o poi dovete e volete uscire, magari anche in macchina, a consumare quello altrui: quando entrate nei capannoni a lavorare, a fare shopping, a divertirvi ecc. Il che, pur detto spessissimo in malafede, è abbastanza difficile da negare, visto che “agire globalmente” non è proprio cosa alla portata della casalinga o dello studente comune. Chissà se, messi concretamente di fronte al modello di vita in spartano stile Transition Town coerente con questi presupposti, gli elettori oggi favorevoli a certe politiche non cambierebbero completamente idea. La debolezza implicita delle petizioni di principio, si sa.

Se lo chiedono da tempo ad esempio gli operatori delle trasformazioni edilizie e urbanistiche su larga scala, ovviamente legate a filo doppio sia agli stili di vita che al modello di sviluppo che li affianca. O almeno alcuni di questi operatori, quelli che cercano nuovi percorsi di mercato coerenti con gli orizzonti delineati dalla scienza, quelli sì e per forza identici ai presupposti di Transition Town: il riscaldamento globale, l’esaurimento delle scorte petrolifere, non sono una profezia di Nostradamus, e anche se dovesse arrivare la bacchetta magica di qualche rivoluzionaria scoperta tecnologica, di sicuro dovremo rivedere la nostra vita, o meglio riorganizzarla completamente. Gli spazi delle attività economiche, ad esempio. Ovvero proprio quelli verso cui si dirigono ogni giorno, incoerenti e peccaminosi, gli abitanti dei comuni a crescita zero.

Una risposta interessante ci arriva in questi giorni dalla California. Lo stesso posto in cui un secolo fa scoccava la scintilla del modello di sviluppo socioeconomico territoriale a base automobilistica, con l’edilizia da un lato, le autostrade pubbliche dall’altro, e sul versante produttivo l’agricoltura industrializzata e le imprese più innovative, come quelle informatiche. Ancora oggi quel modello sembra trionfare vistosamente con l’eredità urbanistica di Steve Jobs via Norman Foster: la nuova sede centrale della Apple a Cupertino, office park suburbano del tutto autonomo, astronave atterrata in un bosco raggiungibile solo in auto, dove tutti i quadri dirigenti della multinazionale convergono ogni mattina dalle villette sparse, a raccogliersi attorno alla direzione di impresa. Pare un film anni ’50, e probabilmente lo è, ma pone un problema: se lo fanno loro, a maggior ragione non c’è via d’uscita? L’unico modo per sopravvivere è segare il ramo su cui stiamo seduti (perché questo, ci dicono, stiamo facendo)? Ecco, dalla California uno studio Urban Land Institute ci risponde forse no.

Firmato dall’urbanista Arthur Nelson per conto di quella che tutto sommato è una associazione di costruttori edilizi, il rapporto The New California Dream vuole in tutto e per tutto inserirsi nel mercato, ma farlo individuando una nuova potenziale domanda da parte delle famiglie e delle imprese più innovative, ovvero quelle che hanno colto davvero le prospettive indicate dalle leggi statali. Quelle leggi che, prendendo piuttosto sul serio i temi energetici e climatici, stanno iniziando a definire il modello di sviluppo caratteristico della prossima generazione. Gli spazi produttivi per esempio: conti alla mano, le destinazioni d’uso già deliberate a livello delle principali aree metropolitane (che pesano per l’80% e oltre del totale), insieme agli ambiti già materialmente occupati da manufatti e servizi industriai, commerciali ecc. SONO ABBONDANTEMENTE SUFFICIENTI A COPRIRE LA DOMANDA PER MEZZO SECOLO.

Non si tratta, è il caso di ricordarlo, delle proiezioni di un’associazione ambientalista, o di un accademico interessato soprattutto a pubblicare e farsi notare, ma di uno studio che mette al centro gli interessi dei costruttori, e dice quanto ci sia da lavorare, per un paio di generazioni, esclusivamente per il cosiddetto retrofit edilizio, ambientale, urbanistico delle zone industriali in senso lato. Ovvero inserendo sia l’adeguamento dei fabbricati in quanto tali, sia la ricostruzione e cambio di destinazione, sia infine i grandi interventi integrati e compartecipati, dal parco scientifico su area dismessa alla riconversione multifunzionale interi di settori urbani. Come si intuisce, sta proprio qui la chiave per il contenimento del consumo di suolo: nel recepire e indicare un modello progressivo e progressista, in cui alla quantità si sostituisce la qualità.

Con osservazioni apparentemente banali ma che non lo sono affatto se osservate in termini strategici, come la miniaturizzazione di tante apparecchiature, o la pura riduzione dei volumi corrispondenti a ciascun posto di lavoro grazie all’innovazione tecnologica, per non parlare di altre varie forme di innovazione organizzativa, come il telelavoro che trasforma spazi fissi in zone a rotazione. C’era qualcosa di intuitivamente profetico, nelle immagini patinate della creative class sempre intenta a digitare su portatili dai tavolini di un bar vista mare. Mancava però del tutto il contesto in cui quel piccolo gruppo elitario potesse fare filiera, ovvero un territorio socialmente sostenibile abitato anche da impiegati, studenti, immigrati, e abitato a basso impatto ambientale senza che questo significasse sottosviluppo. L’immagine dello zero consumo di suolo dell’Urban Land Institute, accoppiata alla montagna di lavoro per la trasformazione dell’esistente, pare davvero una quadratura del cerchio.

Però si dimentica apparentemente un aspetto, quello della pura speculazione che sta a sostenere ormai tutti i modelli divoratori di territorio a vanvera. Lo stesso che con la scusa dei posti di lavoro fa spuntare in tutta la pianura padana (e in tante altre parti del mondo) selve di capannoni qui, mentre se ne svuotano in contemporanea altri già esistenti a pochi chilometri di distanza. E il medesimo discorso si potrebbe fare per gli insediamenti commerciali e assimilati. La creazione di posti di lavoro non ha nulla a che vedere con l’occupazione di nuovo spazio. Almeno su quello, si dovrebbe essere d’accordo, invece purtroppo, complice una politica confusa e conformista, si finisce per subire ricatti squallidi e di corto respiro. Corto respiro sempre nostro, ahimè. Qualcuno ci aiuta a tirare il fiato?

(sul rapporto ULI, ho fatto altre considerazioni a proposito della parte residenziale, nonché allegato l’originale; leggibile in Mall)

Titolo originale: You can do anything in a department store these days – including eat. But it doesn't mean you should – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Vicino all’appartamento in cui sono cresciuta a New York c’era una grande magazzino Woolworths, e spesso il sabato mia nonna mi ci portava a pranzo. Si passeggiava per le scansie di dolcetti e cancelleria, annusando l’odore di caffè fresco. Poi ci sedevamo. La cameriera prendeva nota con una matita che teneva dietro l’orecchio, scarabocchiando su un blocchetto. “Cosa vi diamo oggi?”. Io ordinavo sempre la stessa cosa. Formaggio alla piastra e frappe al cioccolato. I bei tempi quando ancora tolleravo il lattosio.

Negli anni settanta non importava più niente a nessuno di cose appena preparate. Neppure a me. Forse non esisteva più nemmeno una vera e propria cucina, non ne sono sicura. Le focacce che si vedevano nelle scatole avevano strutto a sufficienza per conservarle in eterno. Lo strutto era un po’ come oggi il Botox della chirurgia plastica. Gli addetti preparavano solo i panini a richiesta, tutto il resto si scaldava alla piastra o nella friggitrice. Il bancone aveva la forma di un nodo gigante, e così potevamo in contemporanea guardare loro che giravano abilmente le polpette, mentre la clientela del negozio si sceglieva retine per capelli o calze.

Quando sono diventata grande, la catena Woolworths era quasi sparita, e a mangiare andavamo invece da Saks sulla Quinta Strada o da Bloomingdales. La nonna adorava mangiare nei grandi magazzini. Forse per via della comodità di poter fare contemporaneamente le sue due cose preferite: spendere e mangiare. Io l’ho sempre trovato claustrofobico, mangiare in un ristorante che sta vicino al reparto biancheria. E non mi godo il cibo se mancano le finestre. Poi, non essendo affatto una devota dello shopping, trovo la cosa stressante. Di solito entro, prendo quel che mi serve, e esco. Quanto shopping dovrà mai fare chi deve addirittura fermarsi un attimo a fare il pieno?

Certo, lo so che è molto diffuso far di tutto in un solo posto, e che si tratta di una tendenza che non accenna a diminuire. In America, Wal-Mart ha eliminato del tutto la necessità di uscire. Ci si può far visitare dal dottore, cenare, comprare arredi da giardino e biscotti. Al Mall of America in Minnesota, ci si può sposare, o si può divorziare, far battezzare il bambino, la dimostrazione che si può anche passare tutta la vita lì dentro.

Oggi che pure le farmacie stanno diventando come i grandi magazzini, è solo questione di tempo prima che comincino a offrire pranzi. Ma io non ho nessuna voglia di mangiare un panino nello stesso posto in cui qualcun altro si sta comprando una crema per le emorroidi. E poi quei panini preconfezionati. A casa, te lo prepari e poi lo mangi. Non c’è nessuno che se li prepara e li mette via con giorni di anticipo. Peggio ancora, il sushi preconfezionato. Certo è piuttosto improbabile che esista un cuoco specializzato in sushi nei profondi meandri di un negozio Boots ad affettarvi tonno fresco. Cioè, quella roba è stata preconfezionata in una fabbrica da qualche parte nel Galles. In definitiva si tratta di un sushi che migra molto più del salmone dell’Atlantico.

Questa storia della comodità ci sta levando ogni tipo di esperienza culinaria. La gente oggi fa spesa al distributore di benzina. Certo, molto bene comprare localmente ciò che si mangia, però li avete mai visti i filari di pomodori dietro il garage? Quarant’anni fa, a meno di abitare in una comune hippy, non importava a nessuno se il cibo era biologico. Adesso invece abbiamo un palato più esigente. Ma c’è sempre qualcosa che non va, vedendo un ananasso sugli scaffali dell’edicola. Anche se mia nonna, ovviamente, ne sarebbe stata entusiasta.

Sono stato invitato per la prima volta a parlare del Tav in Val di Susa nel 1997. Ci sono ritornato altre decine di volte, ogni volta con un bagaglio arricchito di conoscenze, saperi e amicizie. Ci ritornerò il 14 di dicembre, ad Avigliana, per parlare come sempre delle ragioni scientifiche ed economiche del no a un’opera inutile, nella totale assenza di chi, schierato per il sì, senza alcuna motivazione tecnica, si nasconde dietro il paravento delle presunte violenze del movimento No Tav, che solo l’occultazione della verità e la disinformazione può tenere in piedi.

Ci tornerò per ringraziare migliaia di cittadini e decine di sindaci che da circa 20 anni si oppongono non solo a un’opera che rischia di devastare la loro terra, ma che hanno, fino a oggi, impedito che si consumasse l’ennesimo saccheggio del futuro del nostro Paese. Per denunciare la menzogna e l’irresponsabilità dei governi che si sono succeduti in questi anni e del governo tecnico, oggi degno erede dei bugiardi e irresponsabili che lo hanno preceduto.

Ricorderò che con il comma 966 dell’unico articolo della legge n. 296/2006, la Finanziaria per l’anno 2007, si è sancito che: “Gli oneri per capitale e interessi dei titoli emessi e dei mutui contratti da Infrastrutture Spa fino alla data del 31 dicembre 2005 per il finanziamento degli investimenti per la realizzazione della infrastruttura ferroviaria ad alta velocità “Linea Torino-Milano-Napoli”, nonché gli oneri delle relative operazioni di copertura, sono assunti direttamente a carico del bilancio dello Stato”. Che con questa norma si prendeva atto che il “finanziamento privato” per la realizzazione delle infrastrutture per il treno ad Alta velocità, era in realtà, una pura e semplice bugia. Che l’importo del “finanziamento privato” diventato “debito pubblico” è esattamente di 12.950 milioni di euro. Che dopo il 2005 nulla è cambiato, altri presunti finanziamenti privati si sono aggiunti e prima o poi finiranno nel debito pubblico.

Ricorderò quello che i Valsusini misurano da anni sulla loro pelle: tutta la gestione del progetto Tav è stata accompagnata da atti, comunicazioni, contratti, pareri che si sono caratterizzati per la loro opacità quando non esplicitamente falsi. A partire dal falso più clamoroso, che ha consentito alla Tav Spa di costruire un’architettura contrattuale che con il cosiddetto project financing ha millantato un finanziamento privato mai esistito.

Parlerò del project-financing senza rischi per i privati e delle “società di diritto privato” con proprietà pubblica replicati dallo Stato e dagli Enti Locali, grazie a norme sui contratti pubblici (in contrasto o derogatorie rispetto a quelle contenute nelle direttive europee) e alle politiche di privatizzazione dei servizi pubblici (senza liberalizzazioni e con Spa pubbliche). Di un fenomeno straordinario, scarsamente analizzato dagli economisti, letteralmente sconosciuto nel confronto fra le forze politiche, promosso e alimentato dai tecnici al soldo delle banche d’affari, del tipo, guarda caso, di Corrado Passera.

Segnalerò al Governo dei tecnici e all’opposizione distratta e ignorante che nel debito pubblico dell’Italia, pari al 120% del Pil, non sono considerati i debiti delle “società di diritto privato” con capitale pubblico e quelli delle società con capitale privato per i project-financing totalmente garantiti da soggetti pubblici. Che, in entrambi i casi, si tratta di debiti pubblici a tutti gli effetti nascosti nella contabilità privatistica o di società con capitale pubblico o di società con capitale privato. Che la cifra esatta di tale debito, essendo nascosta nella contabilità di società di diritto privato, non è stata calcolata da alcun organo dello Stato, ma può essere stimata fra il 15 e il 20% del Pil e la sua emersione porterebbe il debito effettivo del Paese fra il 135 ed il 140% del Pil.

Segnalerò al Parlamento Europeo che fra gli impegni che l’Italia sta assumendo in queste ore per fronteggiare la grave crisi dei conti pubblici, non figura alcun provvedimento né per rimuovere questa clamorosa omissione né, soprattutto, le cause che consentono di costruire questo debito occulto e che dunque è destinato ad aumentare. Che, al contrario, sia nell’ultima manovra del Governo Berlusconi, sia nel Decreto del Governo Monti che il Parlamento si appresta ad approvare, proprio queste modalità di investimento sono quelle che vengono rafforzate ed incentivate.

Ringrazierò i No Tav valsusini per il loro tenace, straordinario ed essenziale contributo per impedire che la menzogna e l’ignoranza dei vassalli e paladini del modello Tav trascinino l’Italia e l’Europa verso una catastrofe dei conti pubblici ben più pesante di quella oggi minacciata per imporre sacrifici ai soliti noti.

Per andare in treno da Matera a Potenza, 102 chilometri, un´ora e ventinove minuti in auto, servono sette ore e due cambi. Bisogna transitare in Puglia, cambiare a Bari, quindi a Foggia e rientrare in Basilicata. Si sale e scende tra regionali e nazionali. La velocità media del trasferimento è di 14,5 chilometri orari. Un fondista con tempi da Olimpiade, correndo tra i due capoluoghi, impiegherebbe un´ora in meno. L´alternativa per il Matera-Potenza è un regionale su binario unico con cambio ad Altamura: impiega dalle tre ore alle quattro e quaranta, ma in "orario da pendolare" ne passa soltanto uno al giorno.

Da Cosenza a Crotone (110 chilometri tutti in Calabria e un cambio) si impiegano tre ore. Per coprire Ragusa-Palermo (250 chilometri tutti in Sicilia, tre cambi) i convogli regionali di Trenitalia hanno bisogno di sei ore e dieci minuti. L´orario invernale prevede due treni, tutti e due a ridosso dell´ora di pranzo. O a Ragusa becchi questi o cerchi un pullman o fai l´autostop. La littorina è così lenta, poi, perché non è stata progettata per affrontare le curve del percorso: se aumenta la velocità, deraglia. Ma lo "slow train" non è solo un problema da profondo Sud. Per coprire la distanza da Acqui Terme a Genova (74 chilometri) ci vuole un´ora e mezza e si viaggia a 50 l´ora. Mauro Moretti, l´amministratore delegato del risanamento e rilancio delle Ferrovie di Stato, in questi giorni sta presentando i vagoni del silenzio sui nuovi Frecciarossa, annuncia un "Roma-Parigi" tutto coperto con la luce del giorno. Lo scorso maggio, a Piacenza, sul treno pendolare destinato a Fiorenzuola un impiegato bancario di 55 anni è dovuto uscire dal finestrino. Le porte del treno erano bloccate, quasi tutte.

Treni lenti, sporchi, in ritardo. E sempre di meno. Della Ferrovia Porrettana - il primo collegamento attraverso l´Appennino tosco-emiliano, dal 1864 scavalca la dorsale collegando Bologna a Pistoia - sono rimaste sei coppie di treni. Carrozze eliminate, la Rete ferroviaria italiana (ancora Fs) ha rimesso su strada 24 pullman. E in Calabria è dato in via d´estinzione un altro storico treno per pendolari, il "Tamburello" che collega Melito di Porto Salvo a Reggio Calabria quindi a Rosarno. Le politiche ferroviarie di questi tempi si possono osservare in maniera chiara nel Tigullio ligure: sono saltate diverse fermate per i treni a servizio universale, i rivieraschi devono prendere altrove freccerosse più care a cui poi mancano le coincidenze per tornare a casa. Su questo tratto di costa a forte richiamo turistico due Intercity non si fermano più, altri due non si fermeranno nel 2012. È per questo che i pendolari occupano i binari? È per questo che dal Veneto alla Puglia si assiste alla rivolta degli abbonati?

MENO CARROZZE, BIGLIETTO PIÙ CARO

Quarantaquattro "comitati contro" in nove regioni non sono nati a caso. Sul Lecco-Milano il gestore Trenord - il dieci per cento delle tratte regionali è gestito da imprese locali, il resto da Trenitalia - ha tolto 880 posti, il 20 per cento, e aumentato del 20 per cento il costo del biglietto. Tutti i giorni, e tutte le sere, la metà delle carrozze è senza luce. Sul treno diretto per Tirano delle 18,20, lo scorso 22 ottobre Trenord ha deciso di togliere quattro carrozze in male arnese. I pendolari della Valtellina hanno lasciato la banchina della Centrale di Milano occupando tutti i vagoni, anche quelli vietati. «Hanno chiamato un plotone di polizia per sgombrarci», racconta Giorgio Dahò del Coordinamento lombardo, «la maggior parte delle persone ha deciso di attendere il successivo e il treno sgombrato è partito semivuoto». Il Piacenza-Milano è stato bocciato dal 98 per cento dei clienti che l´hanno utilizzato: bagni rotti, sbarrati, così sporchi da essere inutilizzabili. Su ritardi e sporcizia una pendolare di Lodi ha vinto una causa contro Trenitalia per i suoi viaggi da San Zenone alla stazione Lambro: 500 euro di risarcimento dell´abbonamento e 2.000 euro per danni morali.

L´arretratezza del servizio è da allarme rosso. L´Aosta-Torino è percorsa da treni alimentati a diesel: non possono più entrare nella nuova stazione sotterranea di Porta Susa e i pendolari devono affrontare un nuovo cambio a Chivasso. Dei 29 treni regionali Rimini-Bologna, in media sedici sono inaccessibili per sovraffollamento: alcune carrozze vengono chiuse per non rischiare soffocamenti. Chi sale a Faenza può solo sostare davanti alle porte, a Imola i convogli sono così affollati che non può scendere chi è rimasto a metà vagone. Per tre anni consecutivi la Borgo San Lorenzo-Firenze è stata proclamata la tratta peggiore della Toscana: le carrozze sono vicine al collasso. Sull´Arezzo-Firenze i sei vagoni utilizzati si presentano con le porte rotte, le poltrone con la gomma piuma esondante, un riscaldamento da sauna estate e inverno, i finestrini bloccati, i cavi delle prese di collegamento tra le gambe dei passeggeri. Nessun appoggio per una bibita o il computer.

«Ogni mattina a Zagarolo restiamo a terra in centinaia», raccontano i gruppi organizzati attorno al disastro della Frosinone-Roma. I vandali contribuiscono all´opera di disfacimento sul Viterbo-Roma: l´ultima volta hanno spaccato 40 vetri, 25 mila euro e quattro giorni di stop per le riparazioni. Il conteggio dal 2 al 7 novembre ha messo in fila trentacinque fra finestrini e porte infrante, due estintori scaricati, sei sedute divelte, otto sedili tagliati e graffiti su tutto un convoglio. Un danno di 40 mila euro. Le stazioni della Val di Susa - servono il Torino-Modane - sono senza biglietterie: Chiomonte, Meana, Susa e Condove. A Ponte di Brenta, vicino a Padova, il degrado è salito al punto di favorire aggressioni e rapine. I chioschetti con i biglietti uno dopo l´altro spariscono dalle piccole stazioni dell´Alpago, nel Bellunese, e dalla provincia di Rovigo. Alla stazione Nomentana di Roma non c´è biglietteria né erogatrice, non ci sono servizi di ristoro, mai visto un controllore né una latrina. Dalle banchine d´attesa dell´hinterland napoletano hanno già tolto ventidue punti-vendita. In Sicilia la Barcellona-Castroreale, seconda stazione per bacino d´utenza della provincia di Messina, è semplicemente abbandonata. C´è una spiegazione a questa moria di stazioni, carrozze, servizi, riparazioni?

PENDOLARI ABBANDONATI

La manovra Monti ha previsto due miliardi di prossimi investimenti sui treni ad alta velocità. Sulla Milano-Genova (in tutto ne vale sei, si farà in vent´anni) e sulla Brescia-Treviglio (tratta, questa, della più ampia Milano-Verona). Sono nodi irrinunciabili, assi strategici. Per i treni a servizio universale - gli Intercity, i notturni e in generale la lunga percorrenza - mancano invece 134 milioni (sono i ricavi sui biglietti del 2011, Trenitalia non li ha realizzati e adesso taglia). Ancora, ai regionali dopo un serrato dibattito il governo ha scelto di togliere 800 milioni (su un miliardo e nove). L´Italia proiettata su un 2012 recessivo investe sui treni profit, comprime tutto quello che è un servizio.

Il trasporto pubblico locale su rotaia in Italia è un sistema iperstressato. Perde pezzi ovunque, soprattutto al Sud e nella capitale. Lo stato dei trasporti di Roma è utile per capire disagi e carenze strutturali di cui soffre tutto il sistema. Trecentocinquantamila pendolari ogni giorno raggiungono Roma sui 900 treni che viaggiano su otto linee regionali delle Ferrovie dello Stato. La Viterbo-Roma è una di queste, la più trafficata. E peggiora ogni stagione. «Nel Lazio non esiste materiale rotabile di riserva», spiega Valeria Mascoli, responsabile regionale Filt-Cgil, «non ci sono convogli che possano sostituire quelli che hanno bisogno di manutenzione e ripulitura. I 900 treni a disposizione sono sempre in circolazione, quando se ne rompe uno, scatta subito la soppressione e questo crea disagi sull´intera linea». È una carenza comune a tutti i grandi centri urbani dove si concentra il pendolarismo, Roma, Milano, Torino, Napoli. Ma nel 2012 che cosa succederà? Sono previste altre riduzioni?

I TAGLI LINEARI

La prossima stagione, sì, sarà peggiore. L´insieme dei contratti di servizio che Trenitalia ha stipulato con le Regioni, validi fino al 2014, vale 2 miliardi l´anno. È molto probabile che le amministrazioni regionali non riusciranno a mantenerli. Il decreto del luglio 2011 del Governo Berlusconi aveva tagliato 1,6 miliardi, lasciando un fondo di 400 milioni per il 2012. In queste ore sono stati recuperati 800 milioni. Il taglio finale, per l´anno prossimo, è di 800 milioni. Una cifra notevole, che inciderà proprio sull´elemento debole del sistema: il trasporto dei pendolari. Si rischia una soppressione di treni dal 10 al 20 per cento.

«È troppo presto per delineare un quadro preciso - spiega l´amministratore delegato di Trenitalia, Vincenzo Soprano - ma se ci saranno tagli, non dipenderanno da una nostra scelta industriale. A noi dallo Stato direttamente non arriva niente, i trasferimenti vanno alle Regioni che ci comprano il servizio». Servizio che per i pendolari lascia a desiderare. «Cosa ci possiamo fare se i treni hanno in media 30-35 anni di età e si rompono? Non ci sono risorse per rinnovarli. In Germania e in Francia il materiale rotabile è comprato direttamente dallo Stato. Da noi no. E poi parliamo delle nostre tariffe, le più basse in Europa. Ricaviamo 0,12 euro per passeggero/km, in Germania ricavano 0,2, in Gran Bretagna addirittura 0,5. Abbiamo già tagliato 1,6 miliardi di costi, non ci sono altri sprechi da eliminare». Si finisce sempre lì. Per avere un servizio migliore da Trenitalia con questo sistema servono più soldi. O dalle Regioni o dagli utenti (alzando il prezzo dei biglietti). Oppure si deve cambiare il sistema.

«Il vero scandalo italiano», sostiene Marco Ponti, professore di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano, «è che non si fanno le gare pubbliche per l´affidamento dei servizi di trasporto regionali. Non le vogliono le Regioni, né i fornitori, né i sindacati. Negli ultimi anni ne sono state fatte soltanto due, in Friuli e in Emilia Romagna. Ed erano finte. Si è presentato un solo concorrente, Trenitalia». In Germania i servizi di trasporto locale assegnati con gara hanno consentito di ridurre i sussidi statali del 20 per cento.

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