Ecco i veri quesiti che la popolazione della Valle si pone sulla costruzione della Tav e ai quali il governo Monti dovrebbe rispondere, se davvero vuole accettare un confronto circostanziato e documentato. Perché o si assume il metodo (giusto) usato per bocciare le Olimpiadi di Roma o quello (sbagliato) dell'alta velocità in Val di Susa
Il governo ha pubblicato in Internet e dato alla stampa un documento con cui spiega le sue ragioni sul treno ad alta velocità Torino-Lione. Ne ha tutto il diritto. Anzi, si tratta di una uscita attesa. Peccato solo che abbia scelto una strana forma di comunicazione "non tecnica", ammiccante e di comodo. La formula, infatti, vorrebbe assomigliare a quella spesso usata nella comunicazione aziendale: le "Faq", Frequently asked questions. È un modo svelto ed efficace per facilitare l'uso di un prodotto tenendo conto delle capacità di comprensione dei clienti/utenti. Una sorta di istruzioni guidate per l'uso. Ma c'è un'etica deontologica anche nella comunicazione commerciale: per funzionare davvero le questions devono essere le domande che realmente si pongono i clienti alle prese con un nuovo prodotto, non quelle che l'azienda si immagina o preferirebbe le venissero rivolte. C'è una bella differenza! Nel primo caso - Faq davvero utili - l'azienda raccoglie in modo obiettivo i quesiti e si mette in relazione di ascolto con il cliente per cercare di adeguare la propria azione ai suoi bisogni, nel secondo caso - Faq farlocche - si tratta di un penoso tentativo di manipolazione da marketing: far credere che ogni problema sia superabile. Insomma, se davvero il governo avesse voluto avviare una operazione di verità e trasparenza avrebbe dovuto limitarsi a raccogliere in modo scientifico le domande vere più frequenti che si fanno gli abitanti della Val di Susa sul Tav da ventidue anni e, a queste, rispondere. Se ne è capace.
Le 14 sedicenti domande sono una brutta caduta di stile per un governo sedicente tecnico. O si è tecnici o si è imbonitori. O si accetta un confronto circostanziato e documentato, o "si fa politica" alla vecchia maniera. O si assume il metodo (giusto) usato per bocciare le Olimpiadi a Roma o quello (sbagliato) del Tav in Val di Susa.
Vi ricordate quando un bravo giornalista de la Repubblica incalzava quotidianamente Berlusconi con la stessa serie di domande (ovviamente rimaste inevase) sui suoi comportamenti? Bene, sarebbe una bella dimostrazione di obiettività e di servizio pubblico se lo stesso metodo venisse usato anche nel caso del Tav. Provo ad elencare alcune delle domande vere che si fa la popolazione della Valle.
1. Perché non è stata elaborata una analisi comparata preliminare tra varie ipotesi progettuali alternative (tra cui l'ammodernamento delle tratte esistenti che potrebbero assorbire una crescita da 4 a 8 volte i volumi di traffico attuali)? In tutta Europa si fa e si chiama Vas: Valutazione ambientale strategica. Perché il governo non la prevede?
2. Come fa il governo ad essere così sicuro che l'opera verrà comunque realizzata e che non avrà impatti ambientali negativi (ma è verosimile?) se ancora non esiste un Progetto definitivo e tantomeno vi è stata una procedura di Valutazione di impatto ambientale integrale (richiesta dalle Direttive europee) sull'intera opera?
3. Perché il progetto è stato approvato dal governo prima ancora di una analisi economica costi/ricavi?
4. Quali priorità si è dato il governo nell'opera di ammodernamento delle linee ferroviarie italiane, considerando che non si è dotato di un piano nazionale della mobilità?
5. Per quali ragioni tutte le tratte per Tav realizzate fino ad ora in Italia hanno totalizzato, a consuntivo, aumenti dei costi di sei, otto, dieci volte?
6. Per quale motivo è venuto meno il finanziamento inizialmente promesso dai privati per il 60 per cento, tant'è che ora nessuno più propone il project financing?
7. Di quanto tempo sarà abbreviato il percorso con il Tav sulla tratta Milano-Parigi e, di conseguenza, quale dovrà essere il costo reale del biglietto per passeggero trasportato per raggiungere il pareggio di bilancio della linea (ammortamenti e costi di gestione)?
8. Identico ragionamento va riproposto per quanto riguarda le merci: tempo risparmiato, costo per collo trasportato.
9. Per quale motivo sono state scelte procedure "semplificate" nell'esecuzione dei lavori che non rispettano le normali procedure di informazione della popolazione interessata e nemmeno la normale tutela degli interessi dei proprietari dei terreni espropriati (occupati manu militari), evadendo persino l'applicazione di idonee misure di sicurezza del cantiere?
10. Quali sono i piani e i costi dettagliati per le indagini epidemiologiche, il monitoraggio e lo smaltimento dell'"amianto sporadico" presente fino al 15 per cento nel materiale di scavo ("smarino")? E quali procedure verrebbero adottate nel caso ci si imbatta in una vena significativa di materiale uranifero?
11. Quali misure saranno adottate per abbattere a zero l'inaccettabile aumento dal 10 al 20 per cento (previsto negli stessi studi dei proponenti) delle malattie cardiovascolari e respiratorie dovute agli anni di cantiere (come è già stato accertato in casi di lavori analoghi, per esempio al Mugello)?
12. In forza a quali regole di trasparenza e buona amministrazione i lavori per realizzare la nuova galleria geognostica di Chiomonte non sono stati assegnati con regolare gara, preferendo invece il vecchio raggruppamento di imprese sorto per realizzare la galleria di Venaus cancellata dopo il 2005, che era profondamente diversa nel tracciato e molto meno costosa?
13. Con quali risorse sarà possibile tenere aperta la ferrovia in quota (che serve i paesi e le località turistiche dell'alta valle) quando dovesse venire aperta la galleria di base (come dimostra ampiamente la sorte di treni pendolari, intercity e notturni cancellati dalla rete ordinaria per dare ossigeno all'attuale dorsale Tav)?
14. Perché il governo non adotta processi di democrazia partecipativa, sul modello del débat public francese o analogo public hearing anglosassone, e si rifiuta di istituire un tavolo di valutazione tecnico super partes (per esempio, composto da persone estratte a sorte, sul modello delle giurie popolari) a cui cedere il potere decisionale?
Fino a che il governo e i suoi sostenitori non vorranno rispondere a queste domande, i valsusini - e noi con loro - saremo autorizzati a pensare che le uniche vere ragioni per realizzare l'opera siano quelle delle lobby della movimentazione terra e del cemento.
MILANO — Il popolo svizzero ha messo un limite alla costruzione di case vacanza: non potranno superare il 20% del totale delle abitazioni e non potranno occupare più di un quinto dell'intera superficie abitata. Il referendum, lanciato dall'ecologista Franz Weber, è passato per poco: i «sì» hanno raggiunto il 50,6% delle preferenze, 15 i Cantoni favorevoli. Tra questi non c'è però il pezzo di Svizzera a noi più vicino, il Canton Ticino, dove anche tanti italiani hanno investito nel mattone.
I numeri elvetici ci dicono che le seconde case ai piedi del Gottardo sono il 40%, nelle valli più turistiche sfiorano il 60. Ma soprattutto, quei numeri, ci spingono a riflettere sul mercato nostrano dove si arriva a contare anche l'80% di case vacanza. La fotografia scattata nel 2011 dall'Agenzia del Territorio e dal Dipartimento delle Finanze ci dice che l'Italia è il Paese delle seconde case: sono 5 milioni e 782 mila, pertinenze incluse; rappresentano il 10,5% di tutte le abitazioni (al Sud il doppio, secondo Legambiente). Il 5% di tutte le transazioni. E ci dice anche che il numero di case rispetto a quello delle famiglie «è nettamente crescente passando dal Nord al Sud». Effetto del «maggior numero di seconde case per villeggiatura nel Sud e nelle Isole» ma anche dei «fenomeni di spopolamento delle aree depresse».
Di cinque milioni di seconde case parla pure Assoedilizia che mettendo in fila i numeri del rapporto case-abitanti stila la classifica delle regioni con più case vacanza: «Valle d'Aosta, Liguria e Puglia». Il presidente Achille Colombo Clerici commenta: «Un tetto serve. Ma da noi non si può pensare a un limite fisso: in certi casi non serve, in altri il 20 è già troppo. Attenzione però: le seconde case creano ricchezza. Con beni culturali e paesaggi rappresentano la forza della nostra attrattiva turistica. Case vacanze e... alberghi, certo».
In Svizzera il tetto è stato posto proprio per tutelare alberghi e territorio. «Lì già non è possibile trasformare un albergo in appartamenti, da noi succede anche a vecchi hotel fine '800», dice Oliviero Tronconi, responsabile del laboratorio Gesti.Tec del Politecnico. «Il comparto delle seconde case ristagna non tanto per crisi e Imu, quanto per il diverso modo di fare vacanza. In ogni caso la promozione del turismo non passa da lì: così non si crea ricchezza ma deserto sociale». Ne sa qualcosa Roberto De Marchi, sindaco di Santa Margherita Ligure: «Su 8000 abitazioni, 4000 seconde case (800 appartengono a 80 famiglie): per la maggior parte dell'anno vuote. Bisogna fermarle con politiche fiscali».
Ma anche Andora, nata con le seconde case, ha deciso di dire basta: «Vincolando le aree agricole», spiega il sindaco Franco Floris. Alberto Fiorillo, di Legambiente, distingue tra vecchie abitazioni trasformate in case vacanza e nuovi immobili: «Questi limitano la qualità del turismo, danneggiano il suolo, spersonalizzano i luoghi: paesi fantasma d'inverno diventano città ingovernabili d'estate con servizi (dai rifiuti alla depurazione, fino alle strade) sottodimensionati». Fin qui i problemi legati a quell'11,5% di seconde case legali: «Al quale va aggiunto un numero imprecisato di abusive (troppi pure gli affitti abusivi): ogni anno ne sorgono tra i 30 e i 40 mila. Molte le seconde case».
postilla
Visto che il Corriere si diffonde in percentuali, e i suoi interlocutori pure, vorrei ricordare qui un caso trattato anni fa, quello di Piazzatorre nelle valle bergamasche, dove quella percentuale si aggirava oltre la quota dell’80% e l’amministrazione (del resto imitando i comuni confinanti) aveva deciso di risolvere il problema … costruendo nuove seconde case al posto di obsoleti boschi di conifere e colonie vacanze per bambini. Proprio in questi giorni il blog Salviamo Piazzatorre ha reso disponibile online un bello studio di Emanuela Gussoni, che ho avuto il piacere di seguire come relatore per la tesi di laurea al Politecnico di Milano, dove si indica un possibile percorso alternativo di sviluppo urbanistico e socioeconomico locale. Percorso possibile naturalmente dopo aver intrapreso quello preliminare di trattamento psichiatrico obbligatorio degli sviluppisti a oltranza, senza se e senza ma (f.b.)
Fa discutere il sì della Camusso alla Tav – anche se è un sì che la stessa leader della Cgil ha precisato essere stato preso tempo fa durante il congresso del sindacato. Fa discutere soprattutto all'indomani della manifestazione della Fiom in cui sono state accolte le proteste del movimento anti alta velocità. E fa discutere anche a sinistra.
«L'opinione di merito sulla Tav non c'entra, ma sostenere come fa Susanna Camusso che una grande opera va realizzata non perché serve come infrastruttura ma perché porta lavoro significa attestarsi su una posizione archeologica». Lo affermano i senatori ecodem Roberto Della Seta e Francesco Ferrante. «Il lavoro si costruisce promuovendo l'innovazione, liberando l'economia dal peso di lobby e immobilismi, puntando su ricerca, scuola e ambiente che per un Paese come il nostro sono le principali materie prime - proseguono - Invece le infrastrutture almeno nei Paesi avanzati si fanno se sono utili a migliorare la qualità dei servizi, per esempio dei servizi di trasporto, nell'interesse dei cittadini e delle imprese. Questo è l'unico criterio accettabile su cui decidere anche nel caso della Tav Torino-Lione: va fatta se serve a rendere più moderno e sostenibile il trasporto delle merci, altrimenti è soltanto uno spreco».
«In Italia nel corso degli ultimi decenni sono stati sperperati miliardi e miliardi di soldi pubblici per fare opere inutili giustificate appunto con il fatto che 'portavano lavoro': così ci ritroviamo con poli industriali senza senso e senza futuro, con moltissime autostrade e pochissimo trasporto pubblico locale - concludono - È preoccupante che il più grande sindacato italiano difenda ancora questa logica».
Del tutto condivisibile la critica dei due parlamentari del PD alle dichiarazioni di Camusso. Una sola osservazione. Quando Della Seta e Ferrante definiscono “archeologica” la posizione del segretario della Cgil intendono “arcaica”, “superata”. Ma in realtà essa è davvero “archeologica”: come l’archeologia, aiuta a guardare indietro e a imparare dal passato, dalla nostra storia, nella storia del movimento sindacale italiano. E allora si scopre che in altri tempi il sindacato seppe cogliere l’occasione del lavoro per proporre una “modernizzazione” che era alternativa a quella che l’indirizzo liberal-liberista proponeva. Mi riferisco al “piano del lavoro” di Giuseppe Di Vittorio, il cui significato abbiamo ricordato in un eddytoriale, sollecitato da una posizione espress (quella volta da Rossana Rossanda) su un tema analogo a quello che ha sollecitato la dichiarazione della dirigente della Cgil. L’obiettivo della crescita indefinita di una produzione sempre più lontana dalle reali esigenze dell’umanità è una un mito al quale una parte troppo larga della sinistra rimane ancora subalterno. Ne è largamente permeato, del resto, lo stessa formazione politica in cui militano i due autori della critica a Camusso.
La parola alle nostre
Conferenze di produzione
di Guido Viale
I numeri del prof. Monti sono quelli del mago Otelma. Mettiamo noi in campo un progetto nuovo, credibile di sviluppo economico e sociale
Immaginiamo il prof. Monti travestito da studente (ovviamente fuori corso) che si presenta a un esame di economia alla Bocconi, di cui è stato anche Rettore; e che alla domanda: «Quando si presenta un'analisi costi benefici?» risponde «Dopo l'approvazione del progetto». Bocciato (sia Monti che il progetto) senza se e senza ma. Eppure è proprio questo che ha sostenuto Monti, vestito (e non travestito) da Presidente del Consiglio. Ma non è la sola insensatezza che ha detto sul Tav: c'è anche la promessa di viaggiare da Milano a Parigi in 4 ore (cioè, ad almeno 400 km/h tra Torino e Lione compresi i 57 e più chilometri di galleria); e l'improvvisa trasformazione in low-cost (a basso costo) dell'opera: grazie al rinvio sine die dei lavori per le tratte fuori galleria (ma chi ha detto che la Commissione Europea sia disposta a cofinanziare un affare simile?). Con questi assi nella manica il governo Monti ha annunciato una grande campagna di informazione (e di repressione) sul Tav. Complimenti!
Lo scontro sul Tav porta alla luce la vera natura di questo governo; un consesso di presunti tecnici che però non sa confrontarsi con quei 360 tecnici veri - praticamente tutti quelli che in Italia hanno una competenza in materia - che hanno chiesto un ripensamento su un progetto tanto inutile. D'altronde, per averne una conferma, basta pensare ai numeri di Monti sui futuri effetti dei primi decreti del Governo: PIL +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti +18 (e quando mai? Mai). Neanche il mago Otelma...
Il governo Monti ha sì una politica economica: quella di riportare in pari il bilancio a suon di tasse, tagli al welfare e svendita dei servizi pubblici (la polpa: il saccheggio dei beni comuni). E di affidare la cosiddetta crescita a qualche liberalizzazione pasticciata e marginale e al finanziamento di alcune Grandi Opere incluse nella legge obiettivo, senza neanche un criterio per definirne le priorità: il Tav Torino-Lione è l'emblema di questo modo di fare. Ma quello che al governo Monti è inviso e del tutto estraneo è il concetto stesso di politica industriale (che cosa, con che cosa, per chi, come e dove produrre). Cioè l'idea che per fare fronte alla crisi, alla disoccupazione, al degrado ambientale e sociale, ai cambiamenti climatici (a cui Monti non ha mai fatto nemmeno cenno: sono cose che per lui non esistono) occorra intervenire sia dal lato dell'offerta (promuovendo produzioni e soprattutto riconversioni produttive di imprese altrimenti votate alla sparizione), sia dal lato della domanda: creando o sostenendo il mercato delle produzioni che hanno un futuro. In entrambi i casi si tratta di settori decisivi per la riconversione ecologica del sistema produttivo e dei consumi, ma anche per difendere l'occupazione; per creare e sostenere impieghi di qualità, per valorizzare gli studi altrimenti sprecati di centinaia di migliaia di giovani senza prospettive e le competenze difficilmente recuperabili di lavoratori anziani o solo maturi espulsi dalle imprese insieme al loro bagaglio di esperienza.
I settori decisivi in questo processo sono quelli delle fonti rinnovabili, dell'efficienza energetica, dell'agricoltura e dell'industria alimentare ecologiche e di prossimità, del riciclo totale di scarti e rifiuti, della salvaguardia degli assetti idrogeologici, del recupero edilizio, della mobilità sostenibile e flessibile. Ma innanzitutto è essenziale un recupero di democrazia. Non è possibile - dicevano i sindacati firmatari del diktat di Pomigliano - difendere i diritti in fabbrica senza le fabbriche. Giusto. Ma è vero anche, e soprattutto, l'inverso: senza democrazia in fabbrica e nel paese le fabbriche scompaiono.
E infatti, mentre il governo e partiti che lo appoggiano si impuntano sul Tav, facendone la bandiera di un approccio senza futuro ai problemi dell'economia, dei territori e della convivenza, Marchionne fa capire (ammiccando e negando, come si conviene a chi procede per gradi su un cammino già tracciato) che trasferirà negli Usa la direzione e quel che resta del "cervello" della Fiat; che chiuderà uno a uno i suoi stabilimenti e che trasformerà in "fabbriche cacciavite" per il mercato americano (se, e solo se, laggiù la bonanza dura) gli impianti che restano; che dovranno comunque competere con quelli di Polonia, Turchia, Serbia e Brasile, dove i salari sono al minimo vitale, l'ambiente è alla mercé del profitto e lo Stato ci mette un mucchio di soldi. Poi vanno alla malora due dei gruppi residui del sistema industriale italiano (Finmeccanica e Fincantieri) travolti da ruberie impunite e da un'assoluta mancanza di progettualità. Chiudono a un ritmo sempre più rapido migliaia di fabbriche e di imprese piccole e medie, di cui nessuno parla, aggiungendo centinaia di migliaia di disoccupati a quelli già per strada e a quelli a cui sta scadendo la cassa integrazione.
Per questo lo scontro in atto sul Tav è l'emblema di un conflitto che riguarda tutto il paese e che mette una di fronte all'altra, da un lato, una politica economica rovinosa e inconcludente, che abbina uno spreco indecoroso di risorse pubbliche a un'avarizia distruttiva nella spesa per il sostegno al reddito, per l'istruzione, la cultura, la ricerca, i servizi pubblici. E dall'altro lato, la volontà di salvaguardare e valorizzare le competenze e la qualità delle risorse umane e del territorio che quella politica sta condannando a un esito greco.
Per questo la partecipazione del movimento NoTav alla manifestazione della Fiom di oggi non è un fatto marginale: è il riconoscimento della connessione indissolubile tra la lotta dei metalmeccanici - e di tutto il mondo del lavoro sotto attacco - e quella della Valsusa - e di tutti i territori su cui ha messo le mani la speculazione. Ma è anche la conferma di una estraneità ormai consumata tra l'universo politico e istituzionale italiano e tutto il resto della cittadinanza attiva di questo paese: dei suoi problemi, delle sue sofferenze, delle sue aspettative; e soprattutto dei progressi nella costruzione di un'alternativa concreta.
Ma a chi compete mettere in campo un progetto realistico di politica industriale, orientata alla conversione ecologica e innanzitutto alla riconversione produttiva delle imprese condannate a morte? Se il governo e i partiti che lo sostengono non dimostrano alcuna volontà, o capacità, o anche solo una vaga idea, di una impresa del genere, bisogna cominciare, e seriamente, dal basso: lavorando alla convocazione, in ogni territorio dove se ne presenti la possibilità, a partire da quelli - e sono ormai la maggioranza - dove la crisi sta mettendo alle corde un'intera comunità, di una serie di "conferenze di produzione". Comitati, movimenti, sindacati, associazioni, imprese pubbliche, private, cooperative o sociali, professioni e amministrazioni locali. Per mettere in campo idee, progetti, condizioni di fattibilità e promuovere la conversione ecologica del proprio territorio.
Certo, tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare; ma se non si comincia a dire - dopo aver studiato il problema (e nei territori le competenze tecniche per farlo certo non mancano) e dopo aver messo in chiaro le divergenze ed eventualmente separato le strade - a dirlo tutti insieme, resteremo per sempre nelle mani dei fautori del Tav.
Invece bisogna tradurre quelle idee e quei progetti in piattaforme rivendicative dettagliate nei confronti del governo - di qualsiasi governo - e poi esigere che su quei progetti vengano impegnati i fondi dispersi nelle Grandi opere, nelle spese militari, nei tesoretti della politica, nei contributi a pioggia questo e quello (e sono tanti!). Che cosa si farà alla Fiat quando Marchionne avrà abbandonato Mirafiori, o Pomigliano, o entrambi? Aspetteremo un produttore fantasma di Suv come a Termini Imerese o all'Irisbus? Non si può mettere in campo una produzione di microcogeneratori, come quelli che alla Fiat erano stati inventati quarant'anni fa e che la Volkswagen si è messa a produrre e a collocare l'anno scorso? Oppure produrre pompe di calore, rotori eolici, impianti solari termodinamici e simili (tutte cose per le quali non è difficile ricostruire un'impiantistica e un knowhow adeguati)? E che cosa si farà in Fincantieri quando la Costa non ordinerà più altri gerontocomi da crociera e lo Stato cesserà di far costruire navi da guerra? Non c'è forse un grande bisogno di trasferire su mare larga parte del trasporto di lunga percorrenza, costoso e inquinante, che corre da un capo all'altro della penisola? O di mettere in cantiere una produzione di pale eoliche di altura (due proposte che la Fiom aveva tentato di lanciare nel luglio scorso, senza che un solo sindaco, una sola associazione, e persino un solo sindacalista dei cantieri sotto scacco mostrasse il minimo interesse per la questione)?
E che cosa si può fare per risanare Finmeccanica? Concentrarsi sull'industria delle armi e svendere l'unica fabbrica di quei treni di cui c'è un disperato bisogno? E come rinnovare il parco dei mezzi pubblici? Di esempi se ne possono fare mille, ma fare proposte non tocca a me. Ma nemmeno solo alla Fiom, né solo agli operai delle fabbriche in crisi. E' alla convocazione delle conferenze di produzione che va lanciata la sfida (www.guidoviale.it)
Plano: incredibile che il mio partito non ci sia
«Il Pd deve almeno ascoltarci»
Daniela Preziosi intervista il presidente della comunità montana
Sandro Plano è il presidente della comunità montana Val di Susa e Val Sangone. È stato per due volte sindaco di Susa, è un ex dc, è fra i fondatori del Pd del Piemonte, è tutt'ora iscritto al Pd. Anche se nei confronti di quelli come lui il partito locale propone un'ineffabile campagna di 'detesseramento'. Al congresso ha votato per Bersani, che definisce «capace e intelligente». Plano oggi porterà, dal palco della Fiom, una testimonianza dalla Val di Susa. Alla fine di un corteo che i dirigenti nazionali del suo partito, anche quelli più vicini alla Fiom, diserteranno. Per non sfilare - e qui siamo in pieno Pirandello - accanto ai militanti No Tav. Come Plano. .
Presidente, perché ha ancora voglia di avere la tessera del Pd?
«È il mio partito. Sono orgogliosamente ancora iscritto.»
Vogliono 'detesserarla'. Ma che significa?
«Ufficialmente non ci hanno comunicato ancora niente. A noi iscritti Pd contrari al Tav hanno tentato di espellerci, ma per fortuna abbiamo un codice etico e uno statuto che non lo permette. Allora hanno provato a non rinnovarci le tessere. E anche qui non ce l'hanno fatta. Ma è una barzelletta. Non è una cosa seria.»
Alcuni dirigenti nazionali del suo partito, che volevano essere presenti al corteo Fiom, hanno deciso di non sfilare perché alla manifestazione ci saranno i No Tav, cioè voi.
«Sono del Pd con convinzione. Credo che i nostri valori siano il lavoro, la Costituzione, la democrazia - anche quella in fabbrica - la sanità e la scuola pubbliche. Sono dalla parte degli operai, degli impiegati, dei piccoli artigiani, non da quella delle banche e dei grandi industriali. Quindi sto dalla parte della Fiom.»
Ma i suoi dirigenti solidali con la Fiom ritengono incoerente sfilare con quelli come lei.
«È una cosa brutta. Io, a torto o a ragione esprimo i problemi di una comunità. Come minimo dovrebbero aver voglia di ascoltarci.
Forse temono un corteo 'movimentato'?
«Non credo. Comunque sanno che condanno la violenza. Ma la violenza, in questo momento, c'è da tutte le parti, ed è sintomo di una politica che non dà risposte. Ricorrere ai metodi forti è prendere un'aspirina per una gamba rotta.»
Qualche giorno fa i No Tav hanno occupato simbolicamente la sede Pd, il suo partito. Lei cosa direbbe oggi a Bersani?
«Lui è il segretario nazionale, io l'amministratore di una microvalle, non voglio perdere il senso delle proporzioni. Però vorrei dirgli che noi riteniamo che i problemi dell'Italia siano altri. Lui? Vorrei dirgli che fin qui qualche autocritica abbiamo già dovuto farla: ci siamo fatti trascinare sui referendum, sulle primarie le stiamo buscando. Forse qualche ripensamento sul partito va fatto. Non possiamo continuare ad essere additati come gli amici delle banche.»
Il governo ha reso pubblico un documento in 14 punti che contesta la 'controinformazione' del movimento. Lo ha letto?
«Potrei ribattere punto per punto. Ci sono mezze verità, vaghe promesse e vere bugie. Come il fatto che i comuni contrari all'opera siano solo due: falso, non c'è una sola delibera di un comune che dice sì. E invece ce n'è 23 che hanno detto no. Dicono che ci saranno 6mila nuovi posti di lavoro. Ma i nostri operai, impiegati e precari della scuola a spasso li ricollocheremo in miniera? Il traffico fra Italia e Francia è in calo, lo dice persino Marchionne. Ma allora a che serve la nuova linea? Come politico locale, più che delle 1500 persone che vanno ogni giorno da Torino a Lione, mi devo preoccupare per il trasporto quotidiano di migliaia di pendolari.»
I comuni che lei rappresenta chiedono la convocazione di un tavolo dei partiti. Perché?
«Siamo in una situazione di stallo. Il governo vuole andare avanti, i movimenti non vogliono permetterlo. Non contestiamo il diritto di andare avanti al governo. Ma diciamo si deve fare chiarezza. E un'analisi tecnica più attenta. Se ci dimostreranno che le ragioni ci sono, ne prenderemo atto. Una riflessione sull'utilità dell'opera, e una marcia indietro, c'è già stata, e infatti siamo passati da un progetto faraonico a quello che loro stessi chiamano low-cost. Si tratta di capire, in questo momento storico, in piena crisi, la ragione di queste grandi opere.»
Ma i partiti, a parte l'Idv e la sinistra fuori dal parlamento, sono pro Tav. A che serve un tavolo con loro?
«In questi giorni abbiamo visto in tv molti parlamentari che ammettono di non saperne un granché. Votino quello che vogliono, è legittimo. Ma saperne un po' di più dovrebbe interessare anche loro. »
Ma il governo ha già deciso che andrà avanti.
«Ripeto, ha il pieno diritto democratico di fare quello che crede. Ma noi abbiamo il diritto democratico di dire che è sbagliato. Il governo è tornato sui suoi passi sul Ponte sullo Stretto di Messina, sull'Olimpiadi di Roma, sul nucleare, sull'acqua. Può ancora ripensarci.»
Prove di dialogo col peggior sordo
di Luca Fazio
Ventitré sindaci della Val Susa scrivono una lettera ai segretari dei partiti per chiedere un tavolo istituzionale «partendo da posizioni non precostituite»
Sono davvero ostinati questi valsusini. Tutti gli chiudono le porte in faccia, da ultimo anche il presidente Napolitano, ma loro non hanno nessuna intenzione di mollare. La politica sembra aver già deciso, ma loro perseverano nel chiedere quel dialogo che in realtà non c'è mai stato. Anche a costo di passare per quelli che non ci sentono, perché in effetti sono anni che gli amministratori della Val di Susa chiedono un tavolo istituzionale per entrare nel merito del Tav. Con pazienza, l'hanno fatto di nuovo. Ventitre sindaci, rappresentati da Sandro Plano, presidente della Comunità montana Val di Susa e Val Sangone, hanno preso carta e penna rivolgendosi ancora una volta ai segretari delle forze politiche - viene da pensare che il primo destinatario sia Pierluigi Bersani. Si dicono «preoccupati del degenerare dell'ordine pubblico sul proprio territorio» e ritengono che «un confronto vero possa essere strumento di ammortizzazione del conflitto, facendolo entrare in un alveo fisiologico». E per questo, concludono i sindaci, le forze politiche dovrebbero «adoperarsi per l'apertura immediata di un tavolo istituzionale che permetta un confronto vero nel merito dell'opera, partendo da posizioni non precostituite». Detta così, sembrerebbe un appello fuori tempo massimo.
Ma sono anche tosti questi valsusini. Ogni giorno, anche quando non mettono in piedi il casino pacifico che tanto allarma l'accoppiata media & politica, sono in grado di impartire a tutti una lezione su come si resiste a un sopruso negli anni - e sono tanti i «movimenti» che in tutta Italia si stanno aggrappando alla Val di Susa per tornare a fare politica. Anche ieri, nella giornata in cui il governo ha lanciato la sua offensiva-spot per magnificare il Tav con una velina da distribuire ai giornali, i valsusini non sono rimasti con le mani in mano.
A Susa, per esempio, dove sta di casa Gemma Amprino, una sindaca pro Tav (sono ventitre quelli contro e non due come mente il governo), un centinaio di donne si sono presentate al municipio con in mano un mazzo di mimose speciali. Dei mazzolini di lacrimogeni dipinti di giallo. «Abbiamo deciso di consegnare al sindaco quest'opera d'arte - hanno spiegato le valsusine - dicendole che è la mimosa della valle di Susa e che è quello che le donne No Tav ricevono da mesi dalle forze dell'ordine». La sindaca ha anche ricevuto un mazzolino filo governativo di fiori metallici composti dai reticolati che da mesi ingabbiano la valle. In prima fila c'era anche una signora di San Giuliano che abita in una casa che verrà abbattuta dalle ruspe.
A Chiomonte, invece, davanti all'ingresso del cantiere presidiato dalla polizia, è andata in scena una vera e propria prova di forza. Una lettura non stop di 24 ore del libro 150 ragioni No Tav scritto da Mario Cavargna, presidente dell'associazione Pro Natura. I valsusini si sono alternati al megafono notte e giorno, e non per il beneficio di qualche telecamera, con un obiettivo ben preciso: «Siccome non l'hanno capito, spieghiamoglielo bene». Chissà, magari la prossima volta il reading lo organizzeranno davanti al Quirinale.
Il coordinamento dei Comitati, dopo la manifestazione della Fiom di oggi, nei prossimi giorni si riunirà con un dilemma quasi impossibile da sciogliere, e che non riguarda solo la lotta in Val di Susa. Come si resiste a un potere impermeabile che non vuole sentire ragioni e si appresta ad usare le maniere forti? Puntando sull'alleanza con gli altri movimenti, suggerisce qualcuno, anche se lontano dalla Val di Susa non sarà facile incontrare tanta determinazione disposta a durare nel tempo. L'incredibile muro opposto dal presidente Giorgio Napolitano è scoraggiante, eppure - lo dimostra proprio la lettera dei 23 sindaci - ci sono ancora voci ragionevoli che invitano alla discussione. E che non si fanno abbindolare dalle «compensazioni» promesse dal governo Monti (soldi in cambio del consenso). «Questo - ha spiegato uno dei 23 sindaci a Radio Popolare - è proprio il modo più vecchio per far approvare i lavori. Se l'opera è utile per il territorio non ha bisogno di compensazioni, la compensazione è nell'opera stessa».
Purtroppo il confronto ragionevole ormai sembra essere stato bandito da ogni discorso pubblico che riguarda il Tav. A fare notizia, tanto per non lasciare sguarnito il capitolo ordine pubblico, ieri è stata una scritta di solidarietà con i No Tav tracciata su un muro della Statale di Milano. A firmarla anche una stella a cinque punte (come tutte le stelle che si rispettano disegnate fin dai tempi dell'asilo) e poco ci mancava che scattasse la solita manfrina sulle brigate rosse e i tempi cupi che potrebbero tornare. Come se di questo presente fatto di mimose e lacrimogeni ci sia solo da rallegrarsi.
Mi ha fatto male, sinceramente, vedere il Presidente Napolitano a Torino, così blindato dentro e fuori. Senza la solita cornice di folla, in una piazza circondata da uno sproporzionato schieramento di polizia. Chiuso nel suo no al dialogo con i sindaci ribelli della Val di Susa (che pur rimangono l'espressione principe della rappresentanza popolare sul territorio) in nome di un indiscutibile ma fuori luogo nell'occasione «rifiuto della violenza», e tuttavia fotografato in Piazza Castello con alla destra il Governatore del Piemonte, considerato tra gli uomini della Lega più vicini al "capo" che appena il giorno prima aveva minacciato la vita del Presidente del Consiglio a nome di «tutto il nord» (sic!).
Considero quel rifiuto un atto politicamente miope, umanamente ingeneroso, culturalmente incomprensibile. Un gesto simbolico che non aiuta nella difficile soluzione del problema, confermando l'immagine sempre più diffusa di una crescente distanza, per usare un eufemismo, tra istituzioni e popolo. Di un'incapacità di ascolto fattasi ormai programmatica, e di un'autoreferenzialita irriducibile, tetragona, del ceto politico (anche ai rari livelli di eccellenza) paragonabile per certi versi a quella delle corti di ancien regime alla vigilia delle rivoluzioni moderne.
Eppure un minimo non dico di umiltà (difficile chiedere oggi umiltà a un politico di professione) ma di equanimità, imporrebbe di tributare alcuni significativi riconoscimenti alla gente della Val di Susa che si è opposta in questi ultimi vent'anni all' Alta Velocità. Per esempio oggi tutti riconoscono l'assurdità e l'insostenibilità economica e ambientale del primo progetto (quello che, sulla sinistra orografica della Valle, avrebbe dovuto forare, tra l'altro, il monte Musiné pieno di amianto e veleni con un costo complessivo di quasi 25 miliardi di euro). Quasi nessuno ricorda, però, che se quel progetto sconsiderato è stato fermato lo si deve ai "fatti di Venaus", dell'inverno 2005. E a quel gruppo di anziani montanari valsusini, picchiati a sangue, una notte, da un manipolo di agenti armati di ruspe e manganelli. Solo dopo quell'evento nacque l'oggi tanto celebrato Osservatorio, che almeno nella sua prima fase ha tentato di ricucire un dialogo.
Allo stesso modo nessuno, in alto, riconosce che il "secondo progetto" (partorito da quell'Osservatorio dopo l'epurazione della componente critica), oggi abbandonato per la sua conclamata insostenibilità finanziaria, era stato osteggiato, per quell'esatta ragione, proprio da quei comitati e quei sindaci che oggi si vuol far passare per visionari e prevenuti. Perché non dare loro, ora, un qualche credito quando sollevano obiezioni anche al terzo progetto, il cosiddetto low cost, visto che sui primi due ci avevano azzeccato? Perché non ascoltare almeno le loro osservazioni? Tanto più che intorno ai primi due progetti, oggi giustamente abbandonati, si erano schierati a suo tempo, entusiasticamente e come un sol uomo, tutti i decisori pubblici di allora - presidente della regione, sindaco di Torino, capo della provincia -, mai sfiorati da nessun dubbio. Pronti a «tirare dritto per la loro strada, anche se la strada non c'e», come recita una brutta pubblicità automobilistica.
Aggiungiamo ancora che la promessa, avanzata ieri, di attivare forme di controllo sistematico contro le infiltrazioni mafiose nei cantieri e negli appalti delle Grandi opere, arriva solo dopo la settimana di passione della Valle. Nessuno (nessuno!) dei tanti politici e amministratori fautori della retorica della legalità aveva mosso un solo passo concreto in questa direzione. C'e voluta la tragedia di Luca Abbà per arrivare a questo doveroso (anche se tardivo) provvedimento, per ripristinare un minimo di legalità nella jungla degli appalti sponsorizzati dalla politica.
Per questo il "gran rifiuto" di Torino suona così ingeneroso. E inopportuno, io credo, anche dal punto di vista di un freddo realismo politico. Il TAV non può essere ridotto a questione di ordine pubblico, come va ripetendo ormai fino alla noia chiunque abbia un minimo di buon senso. Su quel terreno il problema non ha soluzione: vent'anni di cantieri in un territorio militarizzato sono un incubo che nessuno può accettare. E dunque quei sindaci "diversi", che tuttavia condividono un comune sentire con i loro amministrati, sono una risorsa da non sprecare. Restano un sia pur tenue canale di comunicazione tra alto e basso. Non possono essere tenuti fuori dalla porta. Se non con un cavalierato (come meriterebbero) per lo meno con un'udienza devono pur essere riconosciuti.
Le mani della ‘ndrangheta sui cantieri Tav: la denuncia di Roberto Saviano è un grido d´allarme che costringe a ricondurre sul piano suo proprio, quello degli affari, ogni discorso sull´alta velocità. Gli affari sporchissimi (delle mafie) e quelli, si suppone puliti, delle imprese e delle banche.
Ma che vi siano fra gli uni e gli altri intrecci e convergenze di interessi non occorre dimostrare. La storia del riciclaggio di denaro sporco di tutte le mafie, in Italia e fuori, semplicemente non esisterebbe, se non si fosse trovata ogni volta l´impresa "pulita" ma disponibile a trasformare capitali sporchi in condominii, alberghi, autostrade.
Lo scontro pro e contro il progetto Tav in Val di Susa (ma anche altrove, come nel "passante" di Firenze) non si deve svolgere dunque solo sulla fattibilità dei percorsi o i volumi del traffico. Altrettanto importante è chi partecipa agli appalti, e se quel che intende guadagnare corrisponde alla legalità e al pubblico interesse. Ha troppa fretta chi considera i paladini pro-Tav come moderni alfieri dello Sviluppo, bollando i loro oppositori come arcaici cultori del Ristagno. Il volume degli affari qui in ballo (compresi quelli delle mafie) è tale che sulla stessa parola "sviluppo" pesa un gigantesco equivoco. Per sviluppo, infatti, dovremmo intendere il beneficio che deriverà al Paese e ai cittadini da una "grande opera" dopo che sia stata eseguita e sia entrata in funzione. Sempre più spesso, invece, si tende a considerare "sviluppo" l´opera stessa, la mera mobilitazione di banche e imprese, capitali (pubblici) e manodopera. Sterile progetto, se la "grande opera" si rivelasse inutile o producesse guasti ambientali e sociali.
La linea Tav già realizzata fra Bologna e Firenze è certo un vantaggio per chi la usa, ma ha provocato la morte di 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi e 5 acquedotti, inquinando con sostanze tossiche 24 corsi d´acqua. I responsabili delle imprese, condannati per disastro ambientale dal Tribunale di Firenze, sono stati poi assolti in appello: insomma, la strage ambientale c´è stata, ma nessuno è colpevole. Era possibile evitare lo scempio? Secondo Il Sole-24 ore, il costo per chilometro delle linee Tav in Italia è il quadruplo che in Francia: quanto di questo enorme divario si poteva spendere per salvare agricoltura e ambiente? Quanto, invece, hanno incassato le imprese interessate, e come lo stanno reinvestendo? Quale sviluppo, e a vantaggio di chi, hanno innescato quegli utili, mentre si devastavano valli e fiumi? Il loro reinvestimento sta contribuendo a risolvere la crisi senza dirottarne il costo sui più deboli e più giovani?
Tramontata ogni ipotesi di project financing sui progetti Tav, la Corte dei conti ha osservato che l´assenza di «una realistica analisi dinamica della copertura economica», ha provocato «un onere rilevantissimo per la finanza pubblica», a causa di «specifici comportamenti del management delle società in questione», nella «penombra che ha circondato importanti negoziazioni», con «decisioni irrazionali o immotivate» che hanno «inciso direttamente o indirettamente sul patrimonio pubblico». Nonostante questo, si è tirato diritto, sulla base di una «connotazione chiaramente apodittica». Anche in Val di Susa, pur senza un´attendibile analisi costi-benefici, la Tav è considerato ineluttabile. Ma il progetto ha oltre vent´anni, le previsioni di traffico su cui si basava si sono rivelate erronee e hanno obbligato a destinarlo principalmente al traffico merci, la condivisione dei costi con la Francia è svantaggiosa. Eppure su questi ed altri motivi di perplessità, a quel che pare, è vietato discutere. Si parla, per un futuro più o meno remoto, di consultazioni con le popolazioni del luogo: un obbligo della convenzione di Aarhus, ratificata dall´Italia nel 2001 ma finora disattesa. Ma più che alle convenzioni internazionali si dà peso agli impegni con le imprese, a costo di darvi corso manu militari.
In un racconto di Mario Soldati, Il berretto di cuoio (1967), il protagonista, Aduo, è «lo scemo del villaggio», che però «non era affatto uno scemo», era anzi «aperto, simpaticissimo, intelligente». Ma non lavorava, non aveva un mestiere; un caso, dicevano i medici, «di sviluppo arrestato». Finché, affascinato dal cantiere dell´autostrada Torino-Piacenza, scatta la scintilla: assunto come guardiano, «lavorò per dieci», senza limiti di tempo, dall´alba a notte fonda»; sempre «scrutando con rapide occhiate» i lavori dell´autostrada, felice e attonito, con «lo sguardo che avrebbe potuto avere un assoluto responsabile, unico appaltatore, unico progettista, unico azionista dell´autostrada». Quando l´autostrada è finita, il tracollo: Aduo non può vivere senza, non mangia e non beve, viene ricoverato. Una specie di "complesso di Aduo" sembra aver preso alla gola troppi italiani, che non sanno immaginare altro sviluppo che la cementificazione del suolo. Distraendoci da altri investimenti più lungimiranti e produttivi, questo modello di crescita alla cieca è, come quello di Aduo, uno "sviluppo arrestato" che inceppa il Paese.
Una risposta autoritaria non è accettabile. È necessaria una discussione aperta e radicale, tanto più in tempi di contenimento della spesa pubblica. È giusto spendere per la Tav, quando sono allo sfascio ferrovie minori e treni notturni, anche internazionali? Non sarebbe meglio potenziare le strutture esistenti, a cominciare dalla cintura ferroviaria di Torino? È meglio costruire nuove grandi opere o arrestare il degrado dei servizi sociali e della scuola? Viene prima la difesa del paesaggio, dell´agricoltura e dell´ambiente o la (presunta) convenienza economica della Tav?
Unica bussola per rispondere a queste domande, la Costituzione consacra la tutela del paesaggio e dell´ambiente: «La primarietà del valore estetico-culturale», anzi, non può essere «subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici», e pertanto dev´essere «capace di influire profondamente sull´ordine economico-sociale» (Corte Costituzionale, 151/1986). I portatori (sani?) del "complesso di Aduo" dicono il contrario: che le ragioni economiche sovrastano i principi del bene comune. Un "governo tecnico" dovrebbe avere la forza di aprire sul tema un vero tavolo di confronto. Parlare di "campagne d´informazione" a una direzione, il cui esito si dia per scontato, non ha nulla di "tecnico". Sarebbe un gesto politico: e non è di questa politica che il Paese ha bisogno.
Nonostante la crisi, nonostante la stretta del credito e la generale freddezza del mercato immobiliare, gli immigrati comprano alloggi. E se per gli italiani nell’ultimo anno i rogiti sono diminuiti del 6,5 per cento, per gli stranieri è vero il contrario: loro hanno preso casa più dell’anno scorso, sono il 10,5 per cento dei nuovi proprietari (acquisti aumentati dell’1,5 per cento). Il rapporto 2012 dell’Osservatorio nazionale dell’istituto di ricerca Scenari immobiliari racconta che nel 2011, nel nord Italia, i cittadini stranieri hanno acquistato circa 43mila abitazioni: il 70 per cento delle compravendite concluse a livello nazionale da parte di famiglie extracomunitarie. Di queste, un quinto sono state definite in Lombardia.
Il rapporto spiega che il 63 per cento dei residenti stranieri vive in affitto, ma chi ha un progetto migratorio a lunga scadenza, chi abita in Italia da oltre dieci anni, si mette in moto per acquistare l’alloggio. Ormai un immigrato su cinque vive in appartamento di proprietà, con un aumento di mezzo punto rispetto a un anno fa. Tra il 2004 e il 2008, inizio della crisi economica, gli immigrati erano protagonisti del boom immobiliare, essendo passati dal 12 al 17 per cento degli acquisti. Ma dalla crisi, il mercato si è bloccato anche per la contrazione del credito bancario - fondamentale per chi ha pochi risparmi, pochi contanti e non altra fonte di finanziamento oltre al proprio reddito da lavoro - e quindi gli acquisti degli immigrati hanno perso progressivamente peso rispetto al volume complessivo degli scambi, scendendo di nuovo fino al 9 per cento del totale nel 2010. Nell’anno successivo comunque si sono visti segnali di risveglio e gli immigrati sono tornati a comprare il 10,5 per cento del totale delle case vendute.
Scenari Immobiliari, attraverso interviste ad agenti immobiliari, ha calcolato che la spesa media per abitazione nell’ultimo anno è stata di 105mila euro, con un calo di quasi 2 punti percentuali rispetto al 2010. I prezzi delle case sono infatti un po’ diminuiti, inoltre i lavoratori stranieri hanno comprato case più piccole e periferiche. Le banche concedono mutui a chi ha un lavoro stabile da più tempo e a chi risiede da almeno dieci anni. La decisione di passare dall’affitto alla proprietà è un segnale di forte desiderio di radicamento e di un progetto migratorio allargato alla famiglia.
Circa la metà dei contratti viene firmato da cittadini dell’est europeo, dato ovvio considerando che solo i romeni sono oltre un milione in Italia, oltre 200mila fra romeni e albanesi sono i residenti dell’est in Lombardia, le due comunità più numerose. Gli asiatici dell’area indiana e cinese assieme conquistano un altro quarto del mercato immobiliare, mentre sono in calo (dal 15 al 7 per cento dal 2005 a oggi) gli acquisti da parte dei nordafricani, forse anche perché residenti da più tempo e quindi ormai già stabilizzati in case di proprietà.
Le case acquistate sono nell’85 per cento dei casi in condomini residenziali di tipo economico, con uno stato di conservazione discreto, dal costo compreso fra 90 e 140mila euro. Si tratta quindi di bilocali, più raramente di trilocali. La superficie media acquistata è passata da 44 a 46 metri quadrati nel giro di un anno. Gli alloggi si trovano in periferia (34 per cento) o meglio ancora in provincia: 46 per cento), dove i prezzi scendono e l’offerta è più abbondante. «Nell’ultimo anno - si legge nel rapporto - gli agenti immobiliari riferiscono che la domanda è stata più orientata all’alloggio in affitto, ma anche questa soluzione comporta problemi notevoli per la difficoltà di reperimento degli alloggi (anche a causa dei pregiudizi), per i canoni elevati (spesso ritoccati verso l’alto per gli immigrati), per i contratti irregolari e la scarsa qualità degli immobili».
postilla
Riassunto: una buona notizia, una così così, una potenzialmente molto incoraggiante se si coglie l’occasione. La buona notizia è quella di cui si occupa sostanzialmente l’articolo, ovvero che pian piano avanza l’integrazione dei nuovi cittadini, anche dal punto di vista dell’impegno economico e degli interessi personali “ancorati” al territorio, contribuendo fra l’altro a tenere a galla un settore particolarmente colpito dalla recessione. La notizia così così è che il nostro mercato della casa in affitto continua a non rispondere minimamente alla richiesta del mercato, se anche nuclei familiari più mobili ed economicamente un po’ meno solidi della media nazionale decidono di optare per l’acquisto, probabilmente dopo aver vissuto gli infiniti disagi e forse soprusi delle case in affitto. Ma c’è un aspetto forse ancor più interessante per il futuro del nostro territorio, che emerge solo se si leggono le percentuali: decisamente incoraggiante quell’85% di appartamenti, se studiato e interpretato adeguatamente.
Fra gli effetti territoriali più perversi di uno sviluppo a bassa densità assai poco sostenibile c’è infatti il meccanismo del cosiddetto “mutuo virtuale differito”, ovvero di quella quota, a volte gigantesca, del costo reale dell’abitazione che si scarica da un lato sulle spese familiari per i trasporti, e dall’altro sulla collettività in termini di inquinamento, consumo di suolo, costi economici infrastrutturali. L’attuale tendenza spontanea dei nostri immigrati a preferire, nonostante tutto (nonostante nuclei familiari mediamente più ampi ad esempio), quartieri densi alla dispersione, va sicuramente compresa meglio e sostenuta con adeguate politiche. Almeno se si vogliono evitare per il futuro prossimo le orribili e problematiche “villettopoli etniche” dove il degrado, oltre ad essere sostanzialmente identico a quello dei quartieri urbani ghetto che già conosciamo, è pure nascosto e diluito tanto quanto i metri cubi, ma non per questo meno pernicioso (f.b.)
In molti ricordano come una doccia fredda le parole che Napolitano pronunciò durante una visita a Venezia nel 2007: “Pare anche a me incontestabile l’importanza – in una visione unitaria responsabile delle priorità da osservare e delle scelte da compiere sul piano nazionale, in materia di grandi opere e di trasporti – del corridoio autostradale Civitavecchia-Venezia come naturale integrazione del corridoio europeo numero 5 da Lisbona a Kiev. Il progetto, anche come project financing, che è stato apprestato, merita una tempestiva valutazione di impatto ambientale, cui consegua senza indugio un avvio dei lavori”.
Insomma, anche la Mestre-Civitavecchia ottenne l’appoggio del Capo dello Stato addirittura con un invito alla valutazione di impatto ambientale e l’indicazione che doveva conseguirne l’avvio dei lavori. Mattia Donadel dei Cat, Comitati Ambiente e Territorio del Veneto, non nasconde la sua perplessità: “A Torino il presidente della Repubblica ha fatto un richiamo al rispetto della legge. Ci chiediamo se ci sia altrettanta attenzione alle regole da parte di chi realizza i grandi progetti”.
La Mestre-Civitavecchia sembrava destinata a restare nei cassetti, complice la crisi economica. Ma ecco che, con l’arrivo del governo Monti, ritorna sulla cresta dell’onda. Nelle prossime settimane il Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) dovrebbe approvare il progetto preliminare. Donadel spiega: “L’autostrada ha già superato l’esame della Via, la Valutazione di Impatto Ambientale. Ma il comitato ha chiesto che diversi punti siano riesaminati. Secondo noi, questo vuol dire che l’opera, con le necessarie modifiche, dovrebbe ripassare l’esame della Via. Invece, approderà lo stesso al Cipe. Questo significa rispettare le regole come chiede Napolitano?”, si domandano i Cat.
La Mestre-Civitavecchia toccherebbe mezza Italia: si parte dal Veneto, sfiorando Laguna di Venezia e Riviera del Brenta. Poi giù a due passi dal Delta del Po, attraversando l’Emilia Romagna, toccando Marche e Toscana, in alcune tra le zone più belle del Paese. Siamo a una manciata di chilometri dalla Valmarecchia cantata dal poeta Tonino Guerra. Quindi l’Umbria. Qui, secondo uno studio del Wwf, 37 siti archeologici sarebbero a meno di mezzo chilometro dall’autostrada. Tanto che il Wwf sostiene: “Il progetto, almeno nel tratto umbro, non pare conforme alla legge Galasso”. Ma i comitati indicano un altro elemento che lega la Tav con la Mestre-Civitavecchia: l’appoggio bipartisan dei partiti. Il progetto, come ha scritto Il Sole 24 Ore, è firmato da Vito Bonsignore che guida una cordata di imprese. Bonsignore è un eurodeputato Pdl noto per la sua fortuna imprenditoriale. Il suo nome ricorreva nelle intercettazioni Antonveneta: una in particolare tra Massimo D’Alema e Giovanni Consorte (numero uno di Unipol, travolto dallo scandalo).
E il centrosinistra? Pierluigi Bersani ha guidato l’Associazione Nuova Romea che si batte per l'opera. Il 28 ottobre 2008, il segretario Pd ha presentato un’interrogazione alla Camera. Un atto che pare preso con il “taglia incolla” da un dossier della Fondazione Nord-Est di Confindustria (ammesso che non sia accaduto il contrario). Bersani spiega: “La vecchia Romea ha un tasso di mortalità di 97,22 morti ogni mille incidenti… In cinque anni si contano 5.950 feriti e 37 persone che hanno perso la vita. È la strada più pericolosa d'Italia”. I comitati replicano: “Vero, ma perché costruire un’autostrada invece di renderla più sicura? Con quei 10 miliardi si potrebbe risolvere il problema della sicurezza stradale in tutta Italia”.
Caro presidente Monti, l’8 gennaio a Che tempo che fa le ho donato una copia del mio libro Prepariamoci e Lei, squisitamente, mi ha stretto la mano e detto “Ne abbiamo bisogno”. Un mese dopo assieme ad alcune centinaia di docenti di atenei italiani, ricercatori e professionisti (inclusi Vincenzo Balzani, Luciano Gallino, Alberto Magnaghi, Salvatore Settis) firmavo un appello per sollecitare una Sua riconsiderazione delle argomentazioni tecnico-economiche a supporto della linea ad alta capacità Torino-Lione, che da anni risultano non convincenti. A tutt’oggi non solo non è giunto un Suo cenno di considerazione, quanto piuttosto la perentoria affermazione che i dati sono definitivi e invarianti, le decisioni sono assunte, il progetto deve andare avanti anche manu militari. Non mi aspettavo una tale chiusura, ora fonte di una profonda spaccatura in una parte del mondo intellettuale e scientifico italiano.
Il dialogo, soprattutto tra rappresentanti dell’ambito della ricerca usi ad argomentare secondo il metodo scientifico, non si dovrebbe mai negare nei paesi democratici, a maggior ragione allorché la controversia assume vaste proporzioni coinvolgendo l’ordine pubblico e sollevando una quantità di dubbi, ambiguità e contraddizioni che invitano a un’ulteriore dose di prudenza e approfondito riesame. Ciò non è purtroppo avvenuto, ed è motivo di profonda frustrazione da parte di molti di noi. A nulla è servita la lucida presa di posizione di Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino, già membro dell’Osservatorio tecnico, sui vizi procedurali del processo decisionale tanto difeso come il migliore possibile, a nulla la precisazione di Monica Frassoni dei Verdi europei sulla labile politica comunitaria dei trasporti ancora tutta da consolidare e sbandierata invece come patto d’acciaio da rispettare senza se e senza ma. L’elenco di atti e studi incongruenti, unito a un insopportabile tasso di menzogne mediatiche, è così lungo che da solo basterebbe a fermare, vieppiù in questo momento di crisi, ogni decisione su questo fronte, a favore di altre priorità che non pongono dubbi di sorta: ammodernamento della rete ferroviaria esistente, cura del dissesto idrogeologico, riqualificazione energetica degli edifici, arresto del consumo di suolo, riduzione dei rifiuti, restauro del patrimonio culturale, estensione capillare della connettività Internet, garanzie di assistenza sanitaria e didattica pubblica, per perseguire le quali non si sono mai visti blindati e manganelli! Un mito aleggia sopra quel tunnel impedendo a politici, giornalisti e cittadini di alzare il velo e chiedersi come stanno veramente le cose, anche in Francia dove i lavori non sono affatto iniziati. È forse il mito futurista della velocità sferragliante, peraltro sorpassato dall’aereo e dal bit, unito all’illusione che da quel buco, e solo tra vent’anni, defluiscano da ovest prosperità e progresso? Eppure già oggi chiunque voglia andare a Parigi o alle Maldive lo può fare quando e come desidera! Ma la mancanza di quel tunnel sotto il massiccio dell’Ambin, infrastruttura rigida e obsoleta nelle sue finalità, foriera di debiti insanabili come dimostrato dalla Corte dei Conti su progetti analoghi, vorace di energia e prodiga di emissioni climalteranti, sembra privi tutti di un talismano viscerale. Personalmente, come ricercatore e giornalista, il rifiuto a discutere l’estrema complessità di questo progetto, mi avvilisce, e mi annienta come cittadino. Faccio mia l’accurata analisi sociologica di Marco Revelli confermando che in me il patto civile con lo Stato sta andando in frantumi. La fiducia nelle istituzioni, da me sempre onorata – dal servizio militare (alpino, ovviamente!) al pagamento delle imposte – sta venendo meno e ora un grande vuoto alberga in me. Non resta che un grido di disperazione di fronte a tanto disprezzo e a tanta arrogante violenza fisica e ancor più psicologica esercitata dalle istituzioni su una comunità. Violenza silente, della quale non si parla mai perché offuscata dalle sassaiole, ma dimostrata in questi casi dai lavori del geografo Francesco Vallerani e dagli psicologi Roberto Mazza dell’Università di Pisa e Ugo Morelli dell’ateneo bergamasco. Quel grido chiede ascolto, e ovviamente discussione argomentata e rigorosa. Invece ci si sente dire: rispettiamo chi ha posizioni contrarie, ma andiamo avanti lo stesso con le ruspe, applicando “un mix di dissuasione e repressione”. Ma allora a cosa serve esprimere posizioni contrarie se non vengono discusse le ragioni del no? Mauro Corona la chiama “democratura”. Al liceo, Silvio Geuna, medaglia d’argento al valor militare, ci diceva che alla sua età avanzata aveva solo il ruolo di plasmare i valori della futura classe dirigente. Oggi a 46 anni, noto che il mio futuro continua a essere determinato da anziani signori con idee molto diverse dalle mie e quindi dichiaro fallito l’investimento culturale e civile su di me da parte della nazione.
Peggio ancora si sentono i giovani ricercatori della generazione che mi segue che vedono sbarrate le possibilità di indirizzare il loro futuro in direzioni differenti da quelle oggi dominanti e perniciose. Come diventerà dunque la nostra società che annienta i germi di riflessione sull’avvenire proprio quando l’instabilità epocale alla quale andiamo incontro richiederebbe il massimo della cooperazione di saperi e proposte non convenzionali? Avremo quel buco, forse, tra tanti anni, ma che ne sarà del resto attorno? Il governatore Cota si è chiesto da dove prendono i soldi i No-Tav: da migliaia di ore di lavoro volontario, sottratto a svago e famiglia, si chiama partecipazione civile. Con molta amarezza rifletto dunque se sia utile impegnarsi per la difesa dei beni comuni o se sia meglio spendere la propria esistenza in occupazioni più divertenti. Se arriverò a quell’ultima conclusione, restituirò la mia qualifica di cittadino e opererò soltanto per mio bieco interesse.
«Soldi spesi finora? Chi lo sa…». Basta la risposta di Fabrizio Barca, il ministro delegato al problema, a dare il quadro, agghiacciante, di come è messa l'Aquila quasi tre anni dopo il terremoto del 2009. Nel rimpallo di responsabilità ed emergenze, dopo gli squilli di tromba iniziali, s'è perso il conto. Un numero solo è fisso: lo zero. Quartieri storici restaurati: zero. Palazzetti antichi restaurati: zero. Chiese restaurate: zero. Peggio: prima che fossero rimosse le macerie (zero!), è stata rimossa l'Aquila. Dalla coscienza stessa dell'Italia.Il Ministero dei Beni Culturali di Mario Serio e quello odierno.
È ancora tutto lì, fermo. Le gonne appese alle grucce degli armadi spalancati nelle case sventrate, i libri caduti da scaffali in bilico sul vuoto, le canottiere che, stese ad asciugare su fili rimasti miracolosamente tesi, sventolano su montagne di detriti e incartamenti burocratici. Decine e decine di ordinanze, delibere, disposizioni, puntualizzazioni, rettifiche e precisazioni che ammucchiate l'una sull'altra hanno fatto un groviglio più insensato e abnorme di certe spropositate impalcature di tubi innocenti e snodi e raccordi che a volte, più che un'opera di messa in sicurezza, sembrano l'opera cervellotica di un artista d'avanguardia. Ti avventuri per le strade immaginandoti un frastuono di martelli pneumatici e ruspe e betoniere e bracci di gru che sollevano cataste e carriole che schizzano febbrili su e giù per le tavole inclinate. Zero. O quasi zero. Tutto bloccato. Paralizzato. Morto. Come un anno fa, come due anni fa, come tre anni fa. Come quando la protesta del popolo delle carriole venne asfissiata tra commi, virgole e codicilli.
«Noi sottoscritti ufficiali di Pg... riferiamo di aver proceduto, alle ore 10.20 circa odierne, in corso Federico II, di fronte al cinema Massimo, al sequestro di quanto in oggetto indicato perché utilizzato dal nominato in oggetto per una manifestazione non preavvisata...». Trattavasi di «una carriola in pessimo stato di conservazione con contenitore in ferro di colore blu con legatura in ferro sotto il contenitore e cerchio ruota di colore viola» oltre a «una pala con manico in legno».
Sinceramente: se lo Stato italiano avesse affrontato il problema della ricostruzione con lo stesso zelo impiegato nel reprimere l'esasperazione sacrosanta degli aquilani, saremmo a questo punto, trentacinque mesi dopo? Quaranta persone che quel giorno entrarono nella zona rossa per portare via provocatoriamente le macerie sono ancora indagate. Quanti soldi sono stati spesi per questo procedimento giudiziario surreale, oltre al tempo gettato inutilmente per compilare verbali e riempire i magazzini di grotteschi corpi di reato? Boh!
Si sa quanto fu speso per gli accappatoi dei Grandi nei tre giorni del G8: 24.420 euro. Quanto per ciascuna delle «60 penne in edizione unica» di Museovivo: 433 euro per un totale di 26.000. Quanto per 45 ciotoline portacenere in argento con incisioni prodotte da Bulgari per i capi di Stato: 22.500 euro, cioè 500 a ciotolina. Quanto per la preziosa consulenza artistica di Mario Catalano, lo scenografo di Colpo grosso chiamato a dare un tocco di classe, diciamo così, al summit: 92 mila euro. Quanto è stato speso in tutto, però, come detto, non lo sanno ancora neanche gli esperti («Avremo le idee chiare a metà marzo», confida Barca) messi all'opera da Monti.
Intanto il cuore antico dell'Aquila agonizza. E con L'Aquila agonizzano i cuori antichi di Onna e Camarda e gli altri centri annientati dalla botta del 6 aprile 2009. Ridotti via via, dopo le fanfare efficientiste del primo intervento («Nessuno al mondo è stato mai così veloce nei soccorsi!») a un problema «locale». Degli abruzzesi. E non una scommessa «nazionale». Collettiva. Sulla quale si gioca la capacità stessa dello Stato di dimostrarsi all'altezza. In grado di sanare le ferite prima che vadano in putrefazione. Chiusa la fase dell'emergenza l'Abruzzo è piombato nel dimenticatoio. Come se la costruzione a tempo di record e al prezzo stratosferico di 2.700 euro al metro quadro dei Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili, le famose C.a.s.e. dove sono state trasportate 12.999 persone, avesse risolto tutto. «Adesso tocca agli enti locali», disse Berlusconi. E dopo il G8 e la passeggiata con Obama non si è praticamente più visto. Rarissime pure le apparizioni di altri politici. Mentre il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci metteva come al solito una pezza: tre visite.
Cos'è rimasto, spenti i riflettori, di quella generosa esibizione muscolare sulla capacità di «fare bene, fare in fretta»? Le cose fatte nei primi mesi. La riluttanza di Giulio Tremonti ad aprire i cordoni della borsa. L'addio di Guido Bertolaso. La disaffezione del Cavaliere che, osannato dalle tivù amiche per le prime case donate a fedeli in delirio, si è via via disinteressato del centro storico, che secondo la «leader delle carriole» Giusi Pitari avrebbe visto «solo due volte, nei primi due giorni».
Resta una rissa continua, estenuante, sul cosa fare «dopo». Travasata via via nelle campagne elettorali per le provinciali, per le europee e oggi per le comunali. Di qua la destra, di là la sinistra. Di qua il governatore berlusconiano Giovanni Chiodi, commissario straordinario per la ricostruzione, di là il sindaco democratico del capoluogo (ora ricandidato dopo le primarie) Massimo Cialente.
Il primo picchia sul secondo: «Lo stallo è frutto della saldatura di interessi locali, dai professionisti alle imprese, che hanno sbarrato la porta a competenze esterne. Avevo raccolto le disponibilità di un trust di cervelli bipartisan, da Paolo Leon a Vittorio Magnago Lampugnani, ma non li hanno voluti. Un atto di arroganza. Il fatto è che la politica locale non ha esercitato la leadership».
Il secondo, che fino al momento in cui fece sbattere la porta era vicecommissario, spara sul primo: «A parte il fatto che lui sta a Teramo, a Roma o da altre parti e all'Aquila lo vediamo raramente, è stato un muro di gomma». Un esempio? «La ricostruzione degli alloggi periferici. Per sei mesi si è dovuto attendere il prezziario regionale, con il risultato che nessuno ha potuto presentare i progetti». E mostra una lettera spedita a Chiodi per sollecitare un contributo di 630 mila euro destinato a Paganica: «È un mese e mezzo che lo tiene fermo sul tavolo. Gli ho scritto: "Questi non sono i tempi di un commissario ma i tempi, forse, di un piantone"».
Veleni. Che sgocciolano su tanti episodi. Come quei 3 milioni di euro stanziati dall'ex ministro Mara Carfagna per un centro antiviolenza, che invece sarebbero stati dirottati un po' per i lavori della Curia e un po' per la struttura della consigliera di parità della Regione. O ancora i due milioni messi a disposizione dall'ex ministro della Gioventù Giorgia Meloni per un centro giovani, milioni che secondo il sindaco sarebbero chissà come evaporati.
Per non dire delle chiacchiere intorno a una struttura nuova di zecca tirata su mentre tanti edifici d'arte sono ancora in macerie: il San Donato Golf Hotel a Santi di Preturo, pochi chilometri dal capoluogo. Sessanta ettari di parco in una valletta verde, quattro stelle, conference center, centro benessere... Inaugurato a ottobre con la benedizione di Gianni Letta, ha scritto abruzzo24ore.tv, «è meglio noto come l'hotel di Cicchetti». Vale a dire Antonio Cicchetti, ex direttore amministrativo della Cattolica di Milano, uomo con aderenze vaticane, stimatissimo da Chiodi e Letta nonché vicecommissario alla ricostruzione.
Ma il resort è qualcosa di più d'un albergo di famiglia. Nella società che lo gestisce, la Rio Forcella spa, troviamo parenti, medici di grido, uomini d'affari. E molti costruttori: il presidente dell'Associazione imprese edili romane Eugenio Batelli, Erasmo Cinque, la famiglia barese Degennaro... Ma anche la Cicolani calcestruzzi, fra i fornitori di materiali per il post terremoto e una serie di imprenditori locali. Come il consuocero di Cicchetti, Walter Frezza, e suo fratello Armido, i cui nomi sono nell'elenco delle ditte impegnate nel progetto C.a.s.e. e nei puntellamenti al centro dell'Aquila: per un totale di 23 milioni. Appalti, va detto, aggiudicati prima della nomina di Cicchetti. Però... Né sembra più elegante la presenza, tra i soci del resort, dell'ex vicepresidente della Corte d'appello aquilana Gianlorenzo Piccioli, nominato un anno fa da Chiodi consulente (60 mila euro) del commissariato.
L'intoppo più grosso però, come dicevamo, è il groviglio di norme, leggi e regolamenti. Gianfranco Ruggeri, titolare di uno studio di ingegneria, li ha contati: 70 ordinanze della Presidenza del Consiglio, 41 disposizioni della Protezione civile, 96 decreti del commissario. Più 606 (seicentosei!) atti emanati dal Comune dell'Aquila. Senza contare una copiosa produzione di circolari interne. Massa tale che a volte una regola pare in plateale contraddizione con l'altra. Un delirio.
Non bastasse, c'è la «filiera». Una specie di cordata para-pubblica che gestisce le istruttorie. I progetti si presentano a Fintecna, società del Tesoro. Poi vanno a Reluis: la Rete laboratori universitari di ingegneria sismica, coordinata dalla Federico II di Napoli. Quindi al Cineas, consorzio di cui fanno parte 46 soggetti, dal Politecnico di Milano a compagnie assicurative quali Generali e Zurich, che si occupa dell'analisi economica delle pratiche. A quel punto il percorso per avere il contributo erogato dal Comune è completo. Teoricamente, però. Nella sostanza non capita quasi mai al primo colpo. E la pratica rimbalza dentro la filiera come una pallina da flipper.
La Cineas ha valutate positivamente 4.163 delle 8.722 pratiche per le abitazioni periferiche? Ebbene, il Comune ha emesso contributi per sole 2.472 di loro, a causa di vari motivi. Per esempio il fatto che ben 1.138 riguardano singoli appartamenti, ma siccome manca la pratica condominiale a chiudere il cerchio, il finanziamento non può scattare. E nemmeno i lavori. Perché allora non prevedere una pratica unica per ogni condominio? Misteri...
Il risultato di tanti impicci è paradossale: in una città da ricostruire i costruttori mettono gli operai in cassa integrazione e licenziano i dipendenti. E quello che doveva essere il motore della ripresa è fermo. L'opposto esatto di quanto accadde in Friuli, esempio accanitamente ignorato a partire dal coinvolgimento dei cittadini. Il Friuli si risollevò per tappe: prima in piedi le fabbriche, poi le case, poi le chiese. Qui le fabbriche non hanno visto un euro, il miliardo promesso per rilanciare le attività è rimasto in cassa e l'economia è allo stremo. Si è preferita la strada della Protezione civile, del commissario, degli effetti speciali assicurati dalle C.a.s.e. spuntate come funghi dopo il sisma. Quelle con le «lenzuola cifrate e una torta gelato con lo spumante nel frigorifero». Peccato che adesso, dopo le fanfare e i tagli dei nastri, stiano saltando fuori anche le magagne. Alcune ditte che le hanno costruite sono fallite e non si sa chi deve risolvere certi guai. Come a Colle Brincioni, dove dopo le nevicate di febbraio si è dovuta puntellare una scala.
Sarebbe ingeneroso dire che sia stato tutto un fallimento. Ma dopo la fase dell'emergenza serviva un colpo di reni degno di questo Paese. E quello no, non c'è stato. A tre anni dal terremoto ci sono ancora 9.779 aquilani in «autonoma sistemazione». Persone che hanno perduto la casa e si sono arrangiate. Qualcuno di loro magari pregusta un appetitoso minicondono per le casette che hanno potuto costruire nel giardino dell'abitazione crollata. Nelle aree del terremoto ce ne sono la bellezza di quattromila. Ma è una magra consolazione. Anzi, rischiano alla lunga di essere, con l'attesa sanatoria, una ferita in più nella immagine della città antica da ricostruire.
Per le «autonome sistemazioni» lo Stato continua a pagare 100 mila euro al giorno. Una quarantina di milioni l'anno, a cui bisogna aggiungere la spesa per i 383 abruzzesi ancora in alberghi o «strutture temporanee» come la caserma delle Fiamme Gialle di Coppito, dove sono in 147. Il tutto va a sommarsi al totale, come dicevamo ignoto, sborsato finora. Una cifra nella quale ci sono i costi delle famose C.a.s.e. (808 milioni), dei Map, i Moduli abitativi provvisori che ospitano fra L'Aquila e gli altri Comuni ben 7.186 persone (231 milioni), dei Musp, i Moduli a uso scolastico provvisorio (81 milioni) e dei Mep, Moduli ecclesiastici provvisori (736 mila euro). Ma anche dei puntellamenti dei centri storici: solo per L'Aquila 152 milioni. Più i soldi per la prima emergenza (608 milioni) e i contributi già erogati per la ricostruzione delle case private: un miliardo e 109 milioni. Nonché i compensi della «filiera»: altri 40 milioni l'anno. E le opere pubbliche, le tasse non pagate, i costi delle strutture commissariali e dei consulenti... Il conto è salatissimo, ed è destinato a crescere esponenzialmente. Basta dire che per le sole abitazioni periferiche si dovrebbero spendere 1.524 milioni. E almeno il doppio per quelle del centro. Poi le chiese, le fabbriche, i ponti, le strade...
Ma L'Aquila vale il prezzo. Qualunque prezzo. È inaccettabile che si vada avanti così, navigando a vista, mentre uno dei centri storici più belli d'Italia si sbriciola, popolato soltanto di rari operai ai quali fanno compagnia ancora più rari cani randagi. Case disabitate, chiese vuote, negozi chiusi. Non si può accettare che il terremoto diventi solo il pretesto per far circolare del denaro, foraggiando una burocrazia inefficiente e strapagata, stormi di consulenti famelici, campioni del mondo di varianti in corso d'opera e revisioni prezzi, con l'unico obiettivo di impedire che la giostra infernale si fermi.
Un secolo e mezzo fa, scrivono Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise nello studio Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni, la nuova Italia savoiarda commise un errore storico ignorando la tragedia del sisma catastrofico avvenuto nel 1857 in Basilicata ai tempi in cui era sotto i Borboni: «La sfida delle ricostruzioni fu forse una delle prime perse dal nuovo regno». Se lo ricordi, Mario Monti: la rinascita dell'Aquila è una sfida anche per lui.
Caro Signor Presidente, mi permetta di appellarla così, forte del fatto che sono tra i molti italiani che hanno tirato un sospiro di sollievo quando si è formato il suo Governo.
Proprio per le grandi speranze di rinnovamento del costume politico che Lei ha saputo suscitare sono rimasta fortemente delusa dalla Sua dichiarazione a proposito della Linea ferroviaria Torino-Lione: il Governo tirerà diritto sul progetto così com’è. Un atteggiamento che, forse al di là delle intenzioni, trasforma la vicenda nel simbolo della difesa dell’autorità delle Stato contro il variegato insieme degli oppositori, accomunati, a parte la diversa propensione alla violenza, dal fatto di non comprendere l’assoluta strategicità dell’opera per non staccarci, ancorché “dolcemente”, dall’Europa.
E’ proprio una questione mal posta. Ai tempi della firma del primo trattato italo-francese, nel 2000-2001, svolgevo per il Ministero dell’ambiente la funzione di responsabile del Gruppo di Lavoro “Ambiente e territorio”, uno dei tre GdL (gli altri due riguardavano gli aspetti ingegneristici e gli aspetti economico finanziari) che dovevano integrare la Commissione Intergovernativa al fine di fornire ai due Stati un parere sulla fattibilità della linea. Dal Rapporto consegnato nel 2000 nacque il trattato italo-francese firmato nel 2001 per parte italiana dall’allora Ministro dei trasporti on. Bersani. Le preoccupazioni circa l’inutilità del quadruplicamento ad alta velocità erano ben presenti in quel Rapporto dove le stime indipendenti mostravano la debolezza della domanda passeggeri e merci e l’insussistenza della sottrazione di traffico alla strada. Il traffico merci “catturato” dalla nuova linea era infatti già ferroviario e sarebbe stato sottratto ai valichi svizzeri. Il Rapporto concludeva che la linea era certamente fattibile dal punto di vista ingegneristico, presentava notevolissimi ma non irresolvibili problemi di impatto ambientale da affrontare insieme alla popolazione locale, ma avrebbe avuto bisogno, per essere utile, di una nuova politica dei trasporti fortemente contro tendenziale. Una politica normativa e tariffaria prima che infrastrutturale, rivolta alla strada prima ancora che alla ferrovia, senza la quale l’ingentissimo investimento si sarebbe tradotto in un ingentissimo spreco di denaro. La formula diplomatica assunta per scongiurare tale concreto pericolo fu di stabilire che la nuova linea avrebbe dovuto essere realizzata “quando fosse stata satura la linea esistente”.
Non solo oggi non sussistono segni di saturazione, ma neppure sussiste alcun segno di quella nuova politica, mentre sono ben chiari i guasti che il Governo precedente al Suo ha messo in campo con la Legge Obiettivo e le sue svelte modalità di decisione degli investimenti infrastrutturali. La Legge Obiettivo ha trasformato il paese in un immenso campo di scorribanda per cordate di interessi mosse dal puro scopo di accaparrarsi risorse pubbliche. Un numero imbarazzante di infrastrutture (oltre 300) è stato etichettato come “opera di preminente interesse nazionale” e come tale ha ricevuto incaute promesse di finanziamento da parte del CIPE. Si tratta di una impressionante congerie di infrastrutture prive di qualunque disegno “di sistema” nazionale, di qualunque valutazione d’insieme, di qualunque ordine di priorità. Come stupirsi se ciascuna di esse dà luogo ad opposizioni, comitati, resistenze più o meno accese?
Con la Legge Obiettivo lo Stato ha dato prova di voler rinunciare al suo compito istituzionale di definire una prospettiva condivisa di “bene comune”, da costruire insieme alle Regioni e alle collettività locali, da cui far discendere una accettabile ripartizione delle risorse scarse. Un quadro di senso nel quale dovrebbero essere bilanciate le legittime aspirazioni delle diverse aree del paese, le riforme per la rimozione delle incrostazioni monopolistiche ancor oggi dominanti, le lunghe distanze, con eque condizioni di accessibilità per il Nord e per il Sud, e le brevi distanze con il miglioramento delle condizioni di vita dei pendolari e dei trasporti per le città e le aree metropolitane. Compresa quella realizzazione dei servizi ferroviari regionali in cui davvero abbiamo decenni di ritardo rispetto agli altri paesi d’Europa. Sono tutti problemi stra-noti, ma che ad oggi non hanno trovato alcuna risposta da parte di uno Stato che ha rinunciato a qualunque funzione programmatica, affidando alla iniziativa del “promotore” di turno e ai suoi interessi aziendali le proposte infrastrutturali, le logiche territoriali, le conseguenze anche sociali delle opere proposte. Tutto a spese nostre.
Oggi la situazione è ancora più grave, come dimostra la Sua presenza al Governo. Oggi occorre valutare e stabilire un ordine di priorità. Se le cose da fare sono tante e le risorse sono poche occorre che lo Stato riprenda in mano un vero Piano dei trasporti, costruito e condiviso con le Regioni, con un coinvolgimento “vero” delle collettività locali, che sono assai più attente, informate e ragionevoli di quanto si voglia far credere. Un Piano di politiche e di regole, oltre che di infrastrutture, capace di dar corpo insieme ad obiettivi di funzionamento del sistema dei trasporti, di competitività, di equità territoriale e di sostenibilità ambientale. Su questi obiettivi si potranno coinvolgere anche interessi privati, ma in base ad un Piano che giustifichi l’interesse collettivo del fare. Poi, con una capacità progettuale adeguata, con gli strumenti di valutazione economica, finanziaria ed ambientale troveremo le soluzioni migliori. Ma solo dopo aver messo in ordine di priorità le cose da fare. Temo che in quell’elenco la nuova linea ferroviaria Torino-Lione occuperà un posto molto basso.
E’ opinione largamente condivisa che la revisione degli sciagurati meccanismi della Legge Obiettivo debba necessariamente far parte di un Governo serio come quello da Lei promessoci. Mi permetto dunque di sperare che il Suo Governo possa e voglia rapidamente avviare strategie di valutazione e revisione anche delle opere già iscritte negli elenchi della Legge Obiettivo, in modo da costruire il quadro di priorità oggi indispensabile. Tale ripensamento dovrebbe riguardare, ovviamente, anche la Torino-Lione: un progetto di cui al momento è deciso qualche sondaggio, ma siamo ben lontani dalla ratifica parlamentare dell’Accordo, da una attendibile stima dei costi e dall’assegnazione degli appalti. Dunque c’è ancora molto spazio per riconsiderare le cose alla luce del nuovo quadro programmatico. Non volendo abbandonare la speranza che il suo Governo saprà tener fede alla asserita volontà di far bene nell’interesse del paese Le auguro buon lavoro e Le porgo i miei più rispettosi saluti.
La legge marziale dell'1%
di Paolo Cacciari
Non servono solo ai finanziamenti o alle infrastrutture ma a un'idea puramente militare e di classe della politica - Per 300mila passeggeri Tav già spesi 98 miliardi, per 2.600.000 pendolari solo 4.
Si fa fatica ad usare le parole quando a prevalere è l'irragionevole. E' già stato scritto che sulla vicenda del progetto Tav c'è una asimmetria delle forze in campo (massmediatiche, politiche, militari) tale per cui le argomentazioni razionali vengono totalmente sommerse, annullate, violentate. Ciò è accaduto perché si è prodotto uno scarto tra la cosa in sé e il significato che le viene attribuito dai promotori.
Il Tav va fatto a prescindere. Va fatto per tautologia: perché è stato deciso di farlo. Va fatto perché si deve fare. Va fatto «per il bene dei nostri figli». Va fatto a qualsiasi costo, in senso proprio: a costo di svuotare ancora di più le casse dello stato e di passare sui territori e sui corpi degli abitanti. Non è poi una grande novità, è ciò che succede con le grandi dighe in Cina, con gli impianti petroliferi in Nigeria, con la messa a coltura industriale delle terre in Africa, con gli espropri in India, con il disboscamento dell'Amazzonia... Ovunque il progresso termo-industriale avanza, contadini, indigeni, abitanti vengono espropriati, umiliati, impoveriti, spinti a resistenze disperate, indotti al suicidio.
La pervicacia con cui il «partito unico del progresso» sostiene certi mega investimenti non contempla contraddittori alla pari sulla base di confronti tra progetti alternativi, non contano le argomentazioni concrete: quanto costa, chi lo paga, chi lo ripaga, quali le ricadute economiche, quali i danni ambientali, quali devono essere le priorità degli investimenti nel campo dei trasporti e, in generale, della spesa pubblica. Tutte queste domande appaiono ininfluenti e banali, sollevate da pedanti spaccaballe, di fronte alla magnificenza della Grande Opera. Le grandi opere «trainano», ci mettono in relazione con l'Europa e il Futuro.
Che senso ha invocare ad ogni piè sospinto «austerità» e tagli alla spesa pubblica e poi inneggiare a un'opera che indebiterà ogni anno, per decenni quanto una manovra finanziaria (non dimentichiamo che la Tav Spa era tecnicamente fallita già nel 2006 e che i libri in tribunale non furono portati solo per un regalo di 13 milioni di euro di Di Pietro e Padoa Schioppa nella finanziaria del 2007)? Che senso ha costruire una nuova linea se quella esistente potrebbe sopportare il doppio, il triplo della domanda esistente? Che senso ha raccontare bugie sugli impatti ambientali alla gente che vive sul posto quando non vi è neppure una Via? Che senso ha modificare le leggi, abrogare i diritti costituzionali, sospendere le regole democratiche e militarizzare un'area geografica per realizzare un cantiere edile? Nessuno, ovviamente.
La questione è un'altra. In gioco non c'è una linea ferroviaria, non c'è un gruzzolo di quattrini, non c'è nemmeno la vivibilità di una valle: c'è il principio d'autorità giocato su una ben definita scala di valori. Forse che quando si va alla guerra ci si chiede quanto costerà, quanto terreno verrà bruciato, quanti dovranno morire? La posta in palio è la vittoria. In gioco c'è l'insindacabilità delle istituzioni statali puntata su valori-simboli del nostro tempo, inculcati nella testa della gente: la tecnologia, la velocità, il lusso.
Quando Eugenio Scalfari (la Repubblica del 4 marzo) non si sa spiegare come la «gioventù» possa «odiare la velocità» è pervaso da una estetica futurista che fa un po' ridere nel pieno della crisi epocale che sta vivendo l'occidente industriale. Non si accorge che in realtà sta sponsorizzando tecnologie a dir poco «mature», velocità taroccate e lussi per parvenu. Ai fautori delle magnifiche e progressive sorti del capitalismo «casereccio» (dei De Benedetti e dei Caltagirone, dei Montezemolo e della LegaCoop...) non rimane molto con cui alimentare l'idolatria della crescita infinita, la passione produttivistica e consumatrice, l'ossessione del fare privo di senso e di utilità sociale.
Chi viaggia in Tav ha una saletta riservata in ogni Grande Stazione, ha il biglietto rimborsato dalla ditta, dal giornale, dall'amministrazione. Chi viaggia nelle «frecce» paga; quindi pensa di potersi permettere benefìci che altri non hanno. Pensa che gli altri si debbano fare da parte per lasciarlo passare, perché il suo tempo vale più di quello degli altri. Lui è al vertice della piramide sociale. E' l'1% della carne trasportata ogni giorno dalle ferrovie (per la precisione 300mila passeggeri usano il treno per le tratte a lunga percorrenza servite dall'alta velocità, contro i 2 milioni 600 mila che usano i treni a breve percorrenza, sotto i cinquanta chilometri), ma può pretendere il 99% degli investimenti ferroviari. Le cifre vere non sono poi così distanti: per i treni ad alta velocità sono stati spesi 98 miliardi contro i 4 miliardi per tutto il resto della rete. Chi può usare le «frecce» è l'ideal-tipo umano vincente, colui che ha il diritto (sancito dal denaro necessario per comprare un biglietto) di pretendere di viaggiare comodo. Poco importa se nuoce al prossimo o se la sua libertà di movimento rovina la vita ai valsusini (e non solo). Lui può attingere quanto gli pare alle casse dello stato, perché è lui che le riempie. Lo stato è suo.
Se le cose stanno così, se in corso c'è una guerra di principio (cioè; su quali sono i valori morali e le gerarchie sociali da rispettare), ho l'impressione che alle opposizioni del Tav non sia sufficiente vincere il confronto sul merito dell'opera in sé (questo è già stato vinto), ma anche sul significato che ha assunto nel discorso politico comune.
Il «modello Tav-Grandi Opere» (istituzionalizzato dalla Legge Obiettivo e realizzato con gli «affidamenti negoziali» e il «dialogo competitivo» tra oligopoli imprenditoriali e concessionari compiacenti) non è solo una modalità con cui si presenta «l'economia della truffa» (per usare una vecchia espressione di Galbraith), ma un modello politico-sociale compiuto, invasivo, performante tutte le relazioni di potere e le forme di organizzazione della società. La «dichiarazione di interesse pubblico» con cui le screditate e compromesse autorità pubbliche centrali (governi e parlamenti) auto-certificano gli interessi delle imprese e delle banche come «bene generale» e cercano così di metterlo al riparo dalle contestazioni delle popolazioni, si è trasformata in una «dichiarazione di guerra», in sospensione dei diritti individuali e costituzionali, in legge marziale.
I No Tav non chiedono solo un altro modello di mobilità, di uso del territorio e della spesa pubblica, ma anche altre modalità decisionali, trasparenti e partecipate, un altro modello di democrazia.
Gli effetti collaterali dell'alta velocità
diPaolo Berdini
Quando negli anni ’90 si decise la realizzazione dell’alta velocità ferroviaria tra Firenze e Bologna i sindaci del Mugello -in prevalenza contrari alla grande opera- furono piegati sulla base dello slogan «da Roma si arriverà in tre ore a Milano. L’economia ripartirà: chi è contro si oppone al progresso». Il professor Monti nella sua conferenza stampa di venerdì scorso non ha dunque inventato nulla quando si chiede retoricamente se c’è qualche primitivo (i valsusini, ovviamente) che vuole impedire di arrivare da Torino a Parigi in quattro ore.
Purtroppo per lui, i venti anni trascorsi hanno reso esplicito l’imbroglio che è stato perpetrato ai danni delle popolazioni del Mugello e dell’intero paese. E’ infatti vero che oggi si impiegano tre ore per collegare le due maggiori città italiane, ma con tre gravissime conseguenze. La prima riguarda il fiume di soldi speso per raggiungere l’obiettivo: oltre 50 miliardi di euro che hanno tolto risorse preziose al resto della rete ferroviaria nazionale e allo stesso sistema del welfare.
La seconda riguarda lo scempio ambientale dell’intero Mugello. 28 fiumi, per oltre 57 chilometri di percorso, cancellati, 37 sorgenti disseccate, 3 acquedotti fuori uso, popolazione che si rifornisce con autobotti. Il movimento no-tav della val di Susa lo richiama in continuazione, ma a che vale la sua voce contro quella dei responsabili di quella vicenda, e cioè il consorzio Cavet in cui erano rappresentati Impregilo, Generali, Banca Popolare di Milano, Fondiaria Sai, Autostrade e l’immancabile cooperativa? Nulla: sono infatti essi a controllare la grande informazione.
Ma ancora più importante è la terza conseguenza. Chi si opponeva all’avventura Tav criticava alla radice il modello territoriale che si voleva perseguire. Era infatti chiaro che privilegiando il collegamento tra le aree urbane forti del centro nord si lasciava indietro tutto il resto. Un’intera nazione non può competere sullo scacchiere internazionale se si limita a potenziare le aree già forti: così incrementa gli squilibri territoriali. Un mese fa una nevicata abbondante non ha scalfito il funzionamento della linea tra Roma e Milano, ma la rete nazionale si è bloccata proprio in conseguenza dei tagli di spesa causati dall’emorragia di finanziamenti spesi per quella grande opera.
Nella stessa conferenza stampa, il presidente del Consiglio ha anche utilizzato l’immagine di un paese le cui possibilità di collegamento con l’Europa dipendono niente meno che dalla Torino Lione. Qualche giorno fa in sede di conversione del “Decreto Monti”, è stata reintrodotta la possibilità di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione da parte del titolare del permesso di costruire. Fino ad un importo di 4 milioni e 845 mila euro i proprietari immobiliari potranno realizzare opere pubbliche derogando dall’obbligo della gara di evidenza pubblica come nell’Europa civile. L’Ance ha salutato con giubilo la norma e viene naturale una domanda.
Restiamo ancorati all’Europa se sperperiamo altri 18 miliardi di euro devastando la val di Susa o se ripristiniamo le regole di trasparenza della spesa pubblica che vengono calpestate quotidianamente per soddisfare gli appetiti dei poteri forti? Ci aspettiamo una risposta anche breve. Che potrebbe essere argomentata in sua vece dal sottosegretario Catricalà che ieri è entrato pesantemente nella partita o, ancora in sua vece, dall’ex sottosegretario Gianni Letta.
«L 'America è laland of the free: la terra degli uomini liberi. Che devono essere liberi anche da tutte le ingerenze di uno Stato che pretende di dirci cosa mangiare, a quale finanziaria chiedere il mutuo; e che ora vorrebbe stabilire anche quale auto dobbiamo comprare», scandisce il candidato repubblicano Rick Santorum davanti ai Christian Warrior, i combattenti cristiani della Dayton Christian School di Miamiburg, in Ohio. Ovazione di centinaia di famiglie e anche di studenti conservatori che di ambientalismo e auto elettriche, evidentemente, non vogliono sentir parlare.
Perché è di questo che parla Santorum in quest'infuocata vigilia delle primarie (l'Ohio vota oggi): mentre, infatti, in Europa la stampa dei motori incorona Auto dell'Anno la Chevrolet Volt (chiamata nella Ue «Ampere» e venduta col marchio Opel), negli Usa la General Motors annuncia la sospensione della sua produzione perché i piazzali sono pieni di queste vetture elettriche invendute. Uno smacco per Barack Obama che solo una settimana fa, incontrando gli operai dell'Uaw, il sindacato dell'auto, nel giorno delle primarie repubblicane in Michigan — lo Stato delle «big three» di Detroit — aveva parlato del veicolo elettrico della GM come dell'auto dell'avvenire: «Comprerò una "Volt" fra cinque anni, quando non sarò più presidente».
Un sogno infranto dopo appena quattro giorni: la sospensione della produzione dovrebbe durare poche settimane, ma il licenziamento dei 1.300 dipendenti della linea di montaggio è permanente e per adesso non c'è niente che faccia pensare che il pubblico americano si stia affezionando alla «Volt» e alla «Leaf», l'altra vettura tutta elettrica, prodotta dalla Nissan. Certo, sulla «Volt» pesa il sospetto che le batterie abbiano una pericolosa tendenza a prendere fuoco, ma sono problemi emersi nelle ultime settimane, mentre le vendite hanno deluso già l'anno scorso: 7.700 vetture assorbite dal mercato di 320 milioni di abitanti invece delle previste 15 mila. Poco meglio ha fatto la «Leaf»: 9.674 esemplari venduti negli Usa nel 2011.
«Government Motors ha fatto flop» titolano, soddisfatti, i giornali e i siti di destra rinfacciando al presidente Usa non solo il salvataggio del gruppo di Detroit da parte del governo federale (che è ancora suo azionista), ma anche il massiccio sostegno dato allo sviluppo dei modelli elettrici coi soldi dei contribuenti. Mentre nell'Europa della «coscienza ecologista» per il secondo anno consecutivo si premia l'auto elettrica (l'anno scorso era toccato alla «Leaf»), in America questi prodotti non sfondano, nonostante un incentivo di 7.500 dollari per ogni veicolo venduto e i 250 milioni di dollari spesi dal governo solo per sostenere lo sviluppo delle batterie della «Volt».
Quelli che in Europa sono considerati lungimiranti investimenti sul futuro, qui passano per manifestazioni di dirigismo energetico messe a carico del «taxpayer». Un punto di vista sostenuto con veemenza dai conservatori che vedono pericoli di «Stato balia» dappertutto, anche nella pressione perché le industrie alimentari riducano sale e zuccheri nelle bibite e merendine per i ragazzi. Ma il fastidio per la fallimentare incentivazione dell'auto elettrica si va estendendo oltre i confini repubblicani.
Altri produttori quest'anno metteranno sul mercato vetture elettriche. E «Leaf» e «Volt», magari, si riprenderanno. Forse è solo una tecnologia non ancora matura. Ma la Casa Bianca ha già dovuto frenare: i criteri per la concessione degli incentivi sono divenuti più restrittivi (troppo per la Chrysler di Marchionne che li ha rifiutati), mentre alla Fisker, un nuovo entrato nel mercato, le sovvenzioni sono state negate perché ha mancato gli obiettivi di produzione e vendita che aveva fissato.
Forse il vero "sogno infranto" non è quello dell'auto elettrica, ma quello di una informazione meno trasandata e potenzialmente fuoriviante. Aiuterebbe un pochino se il nostro inviato in prima linea nella land of free ricordasse il dibattito, pure vivissimo e molto free anche da quelle parti, sul modello di mobilità e sostenibilità in cui si inserisce, o si dovrebbe inserire, l’automobile che funziona senza bruciare localmente petrolio e farcene respirare i fumi. Forse però è chiedere troppo, sia a Santorum che a Gaggi, e allora ricordiamolo qui: come tutte le soluzioni da tecnologo specialista, anche quella dell’auto elettrica non ha né capo né coda avulsa da un sistema organizzativo e sociale, non basta mettere una batteria sotto il cofano. Esattamente come per tutte le altre innovazioni, specie quando comportano grandi investimenti, bisogna partire da un’idea più generale, o almeno tenerla ben in mente in tutti i passaggi intermedi. Anche senza arrivare all’idea di città e di convivenza (che è la vera leva su cui batte e ribatte il reazionario Santorum, e Gaggi lo sa benissimo ma ci ritiene troppo scemi per capirlo) sottesa alle critiche radicali ad alcuni evidenti difetti della situazione attuale, è ovvio come la nuova auto sia solo UNO dei componenti di una mobilità integrata, innanzitutto non più auto-centrica. E poi allontanarsi dal monopolio del modello proprietario diffuso, che forse fa tanto comodo al mercato nei suoi assetti attuali, ma ha fatto e continua a fare un sacco di danni al pianeta e allo spreco di risorse non rinnovabili. Ancora una volta, forse, la “colpa” principale davanti a certe indebite semplificazioni del nostro giornalismo è di chi le cose le sa, e quando parla si spiega male, più per trasandatezza che per vere intenzioni perverse (f.b.)
ACCUSE IN BELLAVISTA
L’imprenditore fermato mentre era dal sindaco. I pm: illeciti nella costruzione del porto di Imperia. Indagato Scajola
di Ferruccio Sansa
Doveva incontrare il sindaco di Imperia. Ma ad accoglierlo ha trovato anche la Polizia Postale che lo ha arrestato. Parabola amara per Francesco Bellavista Caltagirone, patriota della cordata Alitalia: anni fa nel Ponente ligure era visto come il salvatore, l’uomo che aveva realizzato il porto voluto da Claudio Scajola. Ieri è uscito dal Comune in compagnia degli investigatori. Un terremoto per il regno di Scajola, “u ministru” come continuano a chiamarlo qui. Un epilogo, però, non inatteso: il porto di Imperia da due anni è sotto inchiesta, con costi lievitati da 80 a 200 milioni.
Insieme con Caltagirone Bellavista è finito in prigione Carlo Conti, ex direttore della Porto d’Imperia spa (pubblico-privata) considerato vicino a Scajola. L’accusa per entrambi è truffa aggravata. Indagati anche Paolo Calzia, già direttore generale del Comune di Imperia, Delia Merlonghi, legale rappresentante di Acquamare (società di Caltagirone), Domenico Gandolfo, ex direttore della Porto di Imperia e Beatrice Cozzi Parodi. Sì, la compagna dell’immobiliarista, soprannominata “nostra signora dei porticcioli” perché impegnata da sola o con Caltagirone nella realizzazione e nella gestione di 5 scali imperiesi. Uno scandalo che mette in discussione il sistema di porticcioli che hanno ricoperto le coste liguri di moli e cemento, con la benedizione di centrodestra e spesso centrosinistra.
Truffa aggravata, quindi. Si tratta della pista finanziaria della più ampia inchiesta sul porto che vede indagato in un altro filone anche Scajola. Secondo i pm imperiesi, l’ex ministro sarebbe tra gli ispiratori di un’associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta (per l’aggiudicazione non ci fu bando di gara). Ma questa è un’altra storia. Al centro dell’ordinanza che ha portato agli arresti di ieri c’è il contratto di permuta con cui le società costruttrici in cambio della realizzazione del porto hanno ottenuto la concessione su gran parte delle opere. Lasciando, sostiene l’accusa, il socio pubblico a becco quasi asciutto: secondo gli accordi, ricostruiscono Polizia Postale e Finanza, i privati avrebbero ottenuto il 70% dell’opera. Alla società Porto di Imperia spa (di cui il Comune detiene appena un terzo) sarebbe rimasto il restante 30%.
Racconta Beppe Zagarella (Pd), una delle poche voci critiche: “Le società realizzatrici hanno ottenuto l’85% della parte residenziale del progetto, alla Porto di Imperia sono restati i capannoni per la cantieristica e una discoteca. Poi c’è il porto: ai privati sarebbe andato il grosso dei posti barca, mentre al pubblico restano i moli per le imbarcazioni in transito e quelli per la nautica sociale”. Non basta: i pm si sono anche concentrati sui costi del megaprogetto . Si è passati da 80 a 200 milioni. C’è poi il capitolo legato al mutuo da 140 milioni ottenuto dalle società realizzatrici (oggetto di polemiche politiche, ma non ancora di formale indagine). Ricorda Zagarella: “Finora le rate non sono state pagate. Gli istituti hanno concesso una proroga”. Il finanziamento è garantito con un’ipoteca da 280 milioni, ma i creditori cominciano a essere impazienti. Tra le banche interessate all’operazione la parte del leone spetta alla Cassa di Risparmio di Genova e Imperia (Carige). L’opposizione ricorda che il vicepresidente è Alessandro Scajola, fratello dell’esponente Pdl, mentre nella fondazione siede Pietro Isnardi (consuocero di Alessandro Scajola). Il vice-presidente è Pierluigi Vinai, uomo stimato dagli Scajola e appena scelto come candidato sindaco del centrodestra a Genova.
È il 2003 quando le cronache cominciano a parlare del porto. Mancano ancora anni all’aggiudicazione della concessione, ma Caltagirone Bellavista già vola sopra Imperia in elicottero sognando affari. Con lui ci sono Claudio Scajola e Gianpiero Fiorani che in Liguria sogna di reinvestire i soldi delle sue operazioni finanziarie. Alla fine ecco il via libera: 1440 posti barca più capannoni e residenze. Presto, però, cominciano i guai: i costi crescono, le magistrature indagano. Oltre alla Procura di Imperia c’è anche quella di Sanremo che teme il coinvolgimento di imprese in odore di ‘ndrangheta nei subappalti per la bonifica e il movimento terra dei porti di Imperia e Ventimiglia (inchieste, va sottolineato, alle quali Caltagirone Bellavista, Cozzi, Scajola e le persone citate in questo articolo sono estranei).
Ma chi osa avanzare perplessità viene messo a tacere. Come Claudio Porchia, all’epoca segretario Cgil di Imperia: “Tu sei il capo di un gruppo parassitario che non conta un tubo e non prende un voto”, replica Scajola.
Adesso l’aria sembra cambiata. E l’eco dell’inchiesta arriva in mezza Italia. Perché le società di Caltagirone Bellavista dominano il mercato dei porticcioli. Dal litorale laziale, Civitavecchia e Fiumicino, ancora con benedizione bipartisan, alla Sicilia (Siracusa). Ma per il futuro si parla di Toscana e Dalmazia.
L’AMICO DI FIORANI
MATTONE, SALOTTI E INCHIESTE
di Stefano Feltri
Per lui Maria Angiolillo, l’animatrice del salotto romano più ambito, era “Amica. Sorella. Compagna”, come fece scrivere nel suo necrologio. Perché Francesco Bellavista Caltagirone (doppio cognome perché nato illegittimo da Ignazio Caltagirone e poi riconosciuto), 73 anni, arrestato ieri a Imperia, è molte cose, ma soprattutto è un uomo di relazioni. É più facile ricostruire la sua rete di relazioni che l’assetto proprietario del suo gruppo, l’Acqua Marcia, che si perde tra Lussemburgo e Malta, dove c’è l’ultima scatola, l’oscura Ignazio Caltagirone Trust.
Le sue donne sono tante, decisivo un matrimonio con Rita Rovelli, figlia del finanziere Nino. Le sue frequentazioni sono molte: Marcello Dell’Utri, Sergio D’Antoni, Marcello Pera, l’ex comandante della Finanza Roberto Speciale, l'ex presidente di Confcommercio Sergio Billè. E ovviamente Claudio Scajola. Fino a qualche anno fa prestava i suoi aerei privati a Gianpiero Fiorani, fino al 2005 arrembante banchiere della Popolare di Lodi. Nei primi mesi dell’anno dei “furbetti del quartierino” Bellavista usa una società delle Isole Vergini, la Maryland, per aiutare l’amico Fiorani: finanziato dalla Popolare di Lodi, rastrella azioni di Antonveneta (che la Bpl stava scalando), all’insaputa dei piccoli azionisti e della Consob. Con il più famoso cugino Francesco Gaetano Caltagirone, immobiliarista , editore e finanziere, non è in rapporti. E l’Ingegnere, come si fa chiamare il Caltagirone potente, è assai infastidito dall’omonimia.
Anche perché il gruppo Acqua Marcia non se la passa affatto bene da alcuni anni. Nel 2009 i debiti ammontavano già a 650 milioni, troppi a fronte di un fatturato di 260. Nel giro di due anni i debiti salgono ancora fino a 900 milioni. E Bellavista discute con le 16 banche creditrici, con l’intermediazione di Rothschild, un piano di cessioni per ripianare almeno parte dell’indebitamento. L’eterogeneo gruppo Acqua Marcia ora rischia lo spezzatino. Si parla della cessione del settore turistico-alberghiero e dei servizi aeroportuali.
Quando nel 1994 Bellavista rileva la “Società dell’Acqua Pia Antica Marcia”, questa è soprattutto un’azienda immobiliare con una lunga storia. Recita il sito web: “Con oltre 140 anni di storia l’Acqua Marcia rappresenta oggi la più antica società immobiliare italiana, una società non solo di costruttori ma anche di realizzatori di grande opere e di interventi di recupero e riqualificazione di complessi industriali di pregio storico”. Negli anni diversifica, pur mantenendo una presenza solida nell’immobiliare, tra Milano, Roma e il Veneto. A Milano la magistratura ha sequestrato un’area di 300 mila metri quadri di proprietà dell’Acqua Marcia e della Residenza Parchi Bisceglie. Quei terreni, dove si stavano costruendo alcuni palazzi, erano niente altro che una discarica bonificata (secondo l'accusa) solo in parte.
Bellavista controlla alcuni degli alberghi più esclusivi d’Italia, in Sicilia: Villa Igiea e Des Palmes, a Palermo, il San Domenico a Taormina, l’Excelsior di Catania. Il Molino Stucky di Venezia è il pezzo pregiato della lista visto che, come si legge sul sito, è “il più grande albergo 5 stelle della laguna”. Me è nelle infrastrutture che Bellavista è più attivo: oltre al porto di Imperia, affare per il quale è stato arrestato ieri, ci sono i lavori per la costruzione dei porti di Fiumicino e Siracusa. E poi il business dei servizi di terra in aeroporto, con le controllate Ata Handling e Ali: dalla gestione dell’aeroporto privato di Linate a Malpensa, Bologna, Catania, Venezia. Comprensibile che un imprenditore così esposto verso la politica e interessato al settore aereo nel 2008 venga incluso da Bruno Ermolli tra i patrioti dell’Alitalia: un gettone quasi simbolico, l’1,77 per cento. Giusto per esserci, nonostante i debiti.
Rischio amianto e rischio radiazioni”. È scritto nero su bianco nella delibera del Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) che di fatto dà il via al progetto della Lione-Torino [nato come “alta velocità” per i passeggeri, trasformato in “alta capacità” per le merci, che non ci sono – n.d.r.]. Nelle carte allegate ai progetti della società Ltf. E in tanti studi universitari, come quelli del Politecnico di Torino.
Per affrontare tutti i nodi legati al Tav non bisogna guardare soltanto a valle, dove si consumano gli scontri, le polemiche. Bisogna alzare lo sguardo e guardare la roccia che domina la valle, quella pietra che le trivelle dovrebbero penetrare per 57 chilometri. È una terra fine, rossastra, perché contiene ferro. Ma non solo. La Val Susa è terra di amianto. E di uranio.
Se ne sono accorti gli ingegneri che, in vista delle Olimpiadi invernali del 2006, cominciarono a scavare per realizzare la pista di bob a Salice e dovettero fermarsi per colpa di quel maledetto minerale: l’amianto. Niente da fare. Stessa sorte quando si trattò di scavare una galleria per la circonvallazione di Claviere, al confine con la Francia: di nuovo amianto. Di nuovo uno stop per le ruspe. E anche la cava di pietra di Trana (vicino a Giaveno) fu bloccata quando ci si accorse che oltre alla pietra la montagna sputava fuori amianto.
“Un bel guaio, soprattutto, in una valle ventosa come la nostra dove le polveri rischiano di sollevarsi e arrivare lontano, di infilarsi nei polmoni della gente”, racconta il meteorologo Luca Mercalli, da sempre contrario al Tav. Un problema noto da decenni. Ma che gli stessi ingegneri impegnati negli studi del progetto hanno sollevato. Soprattutto quando hanno analizzato la zona dove sbucherebbe il tunnel, non lontana dagli abitati: “Gli studi precedenti hanno messo in evidenza come in alcuni campioni di roccia prelevati in superficie siano state riconosciute mineralizzazioni contenenti amianto con caratteristiche asbestiformi”. Si parla di una zona superficiale di ampia circa cinquecento metri.
Da anni in valle si sta cercando di monitorare i casi di mesotelioma, ma studi compiuti su solide basi scientifiche non ci sono. La delibera del Cipe contiene oltre 220 osservazioni che dovranno essere rispettati da chi realizzerà l’opera. Ben nove riguardano il “rischio amianto”. Si chiede un “efficace controllo sulla dispersione di fibre connessa all’attività” di cantiere. Un monitoraggio indipendente, chiede il Cipe, compiuto da un ente terzo. Se verranno superati i valori previsti, avverte senza mezzi termini il Cipe, “dovranno essere interrotte le attività lavorative”. Ancora: in presenza di amianto, vietato l’uso di esplosivi. Il progetto definitivo del tunnel dovrà adottare adeguate misure per proteggere i lavoratori e per lavorare il materiale.
Insomma, elementi di cautela per gli abitanti, ma anche per chi lavora nei cantieri. Ma non c’è soltanto l’amianto. Nella delibera del Cipe si parla anche di presenza di uranio. Non è una novità: nel 1977 l’Agip chiese l’autorizzazione per compiere sondaggi in nove comuni della valle convinta di poter estrarre il minerale: ecco Venaus, Chiomonte e altri comuni interessati dai lavori per la Lione-Torino. Amianto e uranio, ma il pericolo è stato adeguatamente affrontato? I tecnici di Ltf sono convinti di sì: “Con le più avanzate tecniche di scavo si possono lavorare sia l’amianto che l’uranio senza rischi per la popolazione. Mentre si scava si annaffia costantemente l’amianto in modo da rendere impossibile una sua dispersione nell’aria. Poi si utilizzano imballaggi stagni caricati su camion anch’essi annaffiati e lavati”. Ma dove sarebbero smaltiti i materiali pericolosi? “Noi li metteremo dove ci indicheranno, garantendo la massima sicurezza, nell’interesse anche dei nostri lavoratori”.
Ecco l’altra preoccupazione dei No Tav: “Le zone di smaltimento non sono ancora state individuate. Non è un dettaglio. E poi servono zone sicure al cento per cento, al riparo anche dai rischi idrogeologici”.
Corridoi europei, strategie di trasporti, il tunnel più lungo del mondo. La Lione-Torino (ecco il vero nome, non è una linea ad Alta Velocità) è questo. Ma anche un affare da miliardi su cui puntano molti occhi. Normale, ma siamo in Italia dove le inchieste per l’Alta Velocità non si contano. E siamo in Val di Susa, territorio ad alta penetrazione della ‘Ndrangheta (Bardonecchia fu il primo comune del Nord sciolto per mafia).
L’aperitivo era stato servito nel 2005 quando la Procura di Torino indagò l’allora viceministro delle Infrastrutture, Ugo Martinat, numero due di Pietro Lunardi (sponsor dell’opera). L’accusa: turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Oggetto: gli appalti, tra l’altro, per la galleria di Venaus (opera preliminare della Torino-Lione). Emersero consulenze a imprese vicine a personaggi di governo, contatti con politici e imprenditori di primo piano: il processo di primo grado si è concluso con 8 condanne tra cui Giuseppe Cerutti, presidente della Sitaf, la società dell'autostrada del Frejus, e Paolo Comastri, direttore generale di Ltf (Lyon Turin Ferroviaire, la società madre della Tav, controllata con quote del 50% dall’italiana Rfi e dall’omologa francese Rff). Martinat e l’imprenditore Marcellino Gavio nel frattempo sono morti.
Il boccone grosso degli appalti è ancora nel piatto: parliamo del tunnel di 57 chilometri tra Francia e Italia. Fonti Ltf raccontano: “Nel 2012 sarà ultimato il progetto, nel 2013 toccherà alle procedure autorizzative e nel 2014 ci sarà la gara. I lavori partiranno entro il 2014”. Valore: 8,5 miliardi se passerà l’ipotesi “minimalista”, fino a 20 miliardi in caso di completamento dell’opera.
I giochi sono ancora da fare, ma i grandi costruttori stanno già elaborando le loro strategie. Così anche le imprese minori destinatarie di ambiti subappalti milionari, sottoposti a controlli meno stringenti.
La prima fetta, però, è aggiudicata: “Sono 93 milioni per la galleria esplorativa”, racconta François Pellettier di Ltf. Aggiunge: “L’opera sarà realizzata da Cmc”. La Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna è un colosso del settore, con un fatturato di 805 milioni e 8.500 persone. Cmc è uno dei fiori all’occhiello del mondo cooperativo dei costruttori una volta detti “rossi”. Un’impresa che in portfolio vanta grandi progetti nei cinque continenti, ma anche opere contestate come il Quadrilatero autostradale delle Marche e la base Dal Molin di Vicenza. Un’industria leader, non solo in Italia; potente, in passato guidata da un signore del cemento: Lorenzo Panzavolta, poi passato al gruppo Ferruzzi e quindi toccato da Mani Pulite.
Cmc è finita nel mirino dei No Tav che avanzano domande maliziose: “Le cooperative per tradizione sono vicine a una parte politica, forse anche per questo il centrosinistra sponsorizza la Tav?”. Ma Cmc ha conquistato appalti a Singapore dove i partiti italiani non mettono becco. E non c’entra sicuramente nulla che, come ricordano i No Tav, “Cmc risulti tra gli inserzionisti della rivista Italianieuropei della fondazione di Massimo D’Alema”.
L’appalto da 93 milioni ha dato vita a numerosi subappalti, ambìti dalle società della valle. Una in particolare, la Italcostruzioni, che si occupa delle recinzioni dei cantieri odiate dai manifestanti. E l’impresa è finita nel mirino dei No Tav: “Sono stato aggredito, mi hanno spaccato un braccio. I nostri mezzi sono stati bruciati”, racconta Ferdinando Lazzaro, che pur senza cariche è una delle figure chiave della società (“ho una consulenza”).
Anche Italcostruzioni ha una storia da raccontare. Negli anni ’70, il capostipite Benedetto Lazzaro, emigrato dalla Sicilia e vicino alla Dc, fonda una piccola impresa che presto diventa un impero in valle. Racconta il nipote Ferdinando: “Abbiamo lavorato duro”. Guai giudiziari? Le cronache parlano di inchieste per problemi fiscali: “Mio padre fu chiamato in causa in un’indagine sul caporalato, ma venne assolto”. Tutto qui? “No, nel 2002 insieme a decine di imprenditori locali sono stato arrestato in un’inchiesta detta ‘appaltopoli’. Emerse una rete non per ‘truccare’, diciamo per ‘tenere’ gli appalti. Fui condannato a 8 mesi per turbativa d’asta”. Ma la famiglia Lazzaro va per la sua strada. E nasce Italcoge: “Alla guida c’era mia sorella Laura. Insieme con un’altra società abbiamo ottenuto un primo subappalto da 2 milioni per i cantieri Tav”. Ed ecco un intoppo: “Italcoge è fallita. Non eravamo stati pagati per lavori sulla Salerno-Reggio”, racconta Lazzaro. Italcoge fallisce nell’agosto 2011, ma i suoi camion lavorano per la Tav. Com’è possibile? “È nata una nuova società”. Chi sono gli amministratori? Non più le sorelle Lazzaro, ma “i loro mariti”, conferma Lazzaro. Stessa famiglia, stessi uffici, stesso stemma. Perfino stessi mezzi: “Li abbiamo affittati dal fallimento”. Di più: “Italcostruzioni, nata sulle ceneri di Italcoge, dopo il fallimento ha ottenuto un altro appalto da due milioni per la Tav”. Notizie di cronaca sostengono che tra i vostri dipendenti vi sarebbe stato il capo della “locale” della ‘Ndrangheta di Cuorgné? “Falso. Mai conosciuto”, assicura Lazzaro. Aggiunge: “La mia famiglia non ha niente a che fare con ambienti criminali. Non siamo mai stati indagati per questo, non ci possono accusare solo perché siamo siciliani”. Domanda: non le sembra, però, singolare che dopo una condanna per turbativa d’asta e un fallimento la società che fa riferimento alla vostra famiglia continui a ottenere appalti per la Tav? “No, noi lavoriamo bene. Ma qui chi tocca la Tav è come morto”.
Mentre un giovane uomo agonizza fra la vita e la morte in una camera di ospedale, né i lavori fasulli volti ad ingannare l'Europa né il dispositivo mediatico volto ad ingannare il paese hanno il buon gusto di arrestarsi almeno per un po' a riflettere. Il buon senso indica dove stia la responsabilità per la caduta di Luca Abbà. Da una parte duemila agenti armati ed equipaggiati di tutto punto, pronti ad ogni violenza di Stato pur di imporre il dispositivo della legalità illegale, che occupano manu militari, al di fuori da qualunque ritualità giuridica ed ordine costituzionale, ingenti appezzamenti di proprietà privata e comune. Dall'altra, non più di una ventina di coraggiosi militanti No Tav che gli apparati repressivi dello Stato volevano, ancora una volta, schedare ed umiliare, come già avvenuto a Torino in stazione sabato sera. Sabato sera gli apparati repressivi dovevano offrire a quelli mediatici qualche immagine di scontro dopo il bellissimo corteo Bussoleno-Susa ed è per questo che hanno impedito a chi voleva semplicemente scendere da un treno di farlo liberamente, costruendo un pretesto per cariche del tutto gratuite.
Che cosa volevano offrire lunedì mattina gli apparati repressivi a quelli mediatici? Forse solo un inseguimento assurdo, condotto da un rambo da strapazzo, vittima a sua volta di quell'ideologia poliziesca che in questo paese post-fascista porta il capo della polizia a guadagnare il doppio del presidente Obama e quasi dieci volte il suo omologo francese! La caduta di Luca Abbà, "evento" effettivamente offerto al carrozzone mediatico, per un giurista va considerato quanto meno causato da una "condotta" posta in essere con "dolo eventuale". L'esito potenzialmente infausto se non direttamente voluto è stato (e da molto tempo) certamente accettato, forse da qualcuno perfino desiderato, per poter accusare i cattivi maestri (così ha fatto l'ex Fronte della Gioventù e oggi deputato Pdl Agostino Ghiglia) o per continuare a descrivere con tono tetro un movimento che dalla pratica del No Tav come bene comune trae invece alta legittimazione di popolo per un modello di sviluppo nuovamente sintonico con la nostra Costituzione, nata appunto dalla Resistenza.
Tuttavia, me lo si lasci dire senza alcuna superbia accademica, Ghiglia non è un mio "pari" mentre purtroppo lo è Carlo Galli che su Repubblica pubblica un fondo che ho dovuto leggere due volte, incredulo che un maestro che ho sempre ammirato potesse far da grancassa per un tale insieme di banalità, luoghi comuni (termine che utilizzo qui nella invalsa accezione negativa) e falsità (riprodotte nelle schede offerte in altra parte dello stesso giornale). Secondo l'autorevole politologo, il governo tecnico dovrebbe proprio ora indossare i panni della politica per dire chiaramente ad un popolo disorientato che "indietro non si torna!" rispetto a decisioni prese in sede parlamentare e di trattati internazionali. Indietro non si torna, in particolare, per non ledere la dignità d'Italia rispetto all'Europa che, generosamente, finanzierebbe l'opera. Siamo al giolittiano "ca custa lon ca custa" (in piemontese, parlato anche in Val Susa: costi tutto ciò che deve costare, inclusi i caduti) inciso sulla ferrovia Asmara-Massaua da un Italia coloniale che appunto non doveva perdere la faccia con le potenze rivali nella corsa al saccheggio dell' Africa!
Chi a differenza di Galli conosce la questione da vicino anche dal punto di vista giuridico potrà forse ammettere l'esistenza di tale volontà Parlamentare mentre semplicemente non è vero che esistano due «trattati internazionali» che ci vincolerebbero al Tav. L'ultimo accordo sottoscritto con la Francia un paio di settimane orsono non solo singolarmente dichiara al primo articolo di non essere un protocollo di intesa. I civilisti direbbero che non è neppure un "contratto preliminare" ma una mera "puntuazione", priva di valore vincolante e comunque in attesa di ratifica parlamentare. Se è vero che soltanto i cretini non cambiano mai idea sarebbe forse il caso che la "politica" invocata da Galli riflettesse sul fatto che la "decisione" fu "presa" oltre vent'anni fa in un momento nel quale sicuramente le condizioni economiche erano meno drammatiche di adesso ed in cui soprattutto si ignoravano ancora interamente gli immensi costi economici, politici umani e sociali che tale grande opera inutile avrebbe inflitto alla società, non certo soltanto Valsusina, ma italiana tutta.
La verità è che, come avviene sempre nei casi delle grandi opere che espongono la collettività a spese e rischi ingenti, una scelta politica ponderata avviene in modo graduale, adattandosi alle contingenze che variano nel tempo. La buona politica, quella che non si pone al soldo degli interessi ingentissimi che le grandi opere generano, accompagna le scelte nel corso di questi lunghi processi, registrando con umiltà e rispetto le nuove conoscenze acquisite.
Accusare cripticamente il movimento No Tav di leghismo, non dire che le grandi opere generano comparativamente assai pochi posti di lavoro, utilizzare un linguaggio ambiguo sui costi, facendo intendere che il grosso dello sforzo lo farà l'Europa, tacere delle illegalità create cambiando il progetto in corso senza addivenire a nuove gare d'appalto, costituisce una strategia argomentativa che ha come unico scopo l'appoggio ad un'ideologia dominante già fin troppo letale. Il popolo che si è raccolto intorno al movimento No Tav è quello dei beni comuni, che vuole ridiscutere alla luce di questa alternativa di sistema sul se e non soltanto sul come di ogni grande opera che si vuole intraprendere. Galli, che cita la Grecia, dovrebbe sapere che la trappola del debito scatta proprio inducendo gli Stati a grandi spese insostenibili, costruendo dolosamente come decisioni già prese progetti di cui occorre discutere a fondo, soprattutto dato il mutare delle circostanze.
La Tav non è stata mai decisa definitivamente né dalla Francia né dall'Italia né dall'Europa. Non è questione di democrazia. Non è onesto né degno di uno studioso della fama di Galli, occultare questa realtà, scomoda soltanto per gli affaristi e gli apparati mediatici che da anni li sostengono.
La Repubblica, 28 febbraio 2012
Il dovere della politica
di Carlo Galli
LA POLITICA, assieme all´angoscia per la sorte di Luca Abbà, bussa alle porte della Valsusa. E attraverso il conflitto, il rischio, la violenza, sembra voler presentare un conto sgradito e inaspettato – in ogni caso molto caro – a un governo "tecnico", che trae la propria legittimità materiale e contingente dal farsi portatore di istanze "oggettive", di imperativi sistemici decisi da poteri diversi dalla sovranità del popolo italiano. Ed è invece evidente che la politica non si lascia sostituire dalla tecnica, e che al governo Monti, e al ministro Passera, spettano ora misure politiche in senso proprio. Nell´ambito dell´ordine pubblico, in primo luogo, ma soprattutto – e ciò ha valore ancora più apertamente politico – nell´ambito di una franca chiarificazione davanti al Paese di che cosa sia in gioco, ora, intorno alla vicenda della Tav.
Si tratta di una partita di grande spessore. La linea ad Alta Velocità che deve unire Torino e Lione è già stata approvata da due parlamenti nazionali, quello italiano e quello francese, e da due Trattati internazionali. È una struttura strategica che viene finanziata con denaro europeo: è una fonte di lavoro per migliaia di operai e tecnici: è una promessa di sviluppo per il complesso del Paese. Il tracciato è stato modificato da un Osservatorio a cui hanno partecipato i territori, che ha discusso per tre anni. È, insomma, una partita a più livelli – europeo, nazionale, locale – in cui la politica si è messa in gioco attraverso procedure democratiche, sia partecipative sia rappresentative: in cui lo sviluppo economico e le sue esigenze è stato mediato, interpretato, incanalato, sui binari della politica.
Ora, a questa politica – imperfetta, ma non truffaldina – se ne oppone un´altra, fatta anche di violenza (i fatti dell´estate scorsa) a cui non possono non seguire azioni della magistratura, com´è normale in uno Stato di diritto. E questa politica che si oppone alla politica democratica non è solo violenza, certo, ma neppure la ripudia apertamente. Ma soprattutto è una politica che sta trasformando la Val di Susa, e i disagi dei suoi abitanti, in uno spazio politico che vuole essere alternativo rispetto all´assetto della politica contemporanea.
Accanto all´ambiguità delle forze politiche di centrosinistra che a Roma approvano la Tav e nei territori vi si schierano contro, per ottenere consenso – e questa è la pratica, non nuova né rivoluzionaria, dell´opportunismo politico – , c´è infatti la lotta dei territori contro un modello di sviluppo e che sconvolge gli equilibri della vita collettiva locale – e questa è la pretesa dell´ecologismo in una sola vallata, peraltro oggi certamente non "vergine" – ; c´è, poi, la spregiudicatezza delle forze di sinistra, che paiono volere abbracciare ogni causa per tentare di rientrare in gioco, assecondando ogni protesta contro le contraddizioni del capitalismo traballante, che oscilla fra il gigantismo e la crisi – contraddizioni che ci sono, certo, ma che in questo caso hanno pesato meno delle affermazioni e delle procedure della democrazia, che troppo disinvoltamente vengono considerate carta straccia.
E c´è, accanto a queste, un´altra prospettiva, ancora più radicale. Quella di fare della Val di Susa il punto di coagulo di tutte le forze – in realtà delle debolezze, delle disperazioni, della mancanza di fantasia, della sfiducia nella democrazia – che non vogliono il riequilibrio dell´Italia, il suo rientro nella normalità, e che puntano su una situazione "greca" per innescare un conflitto delegittimante; che vogliono fare della Val di Susa l´incubatoio di altre rivolte nel Paese, che dimostrino l´impopolarità delle politiche che il governo sta attuando, con il consenso della stragrande maggioranza del Parlamento.
Alla strategia dell´emergenza, alla retorica dell´iperbole che vede ovunque omicidi di Stato (o del Capitale, o della Grande Finanza), a questa contrapposizione fra maggioranza legale e minoranze ultra-conflittuali, è quanto mai opportuno che il governo apertamente opponga la forza tranquilla di una democrazia "normale": non una risposta reazionaria, quindi, e neppure burocratica, ma una risposta politica che spieghi al Paese che ciò che è stato democraticamente deciso va mantenuto; che l´Italia sta oggi in un contesto europeo con pieno diritto e piena dignità e che non vuole sottrarsi agli impegni liberamente assunti e ratificati, che i nostri partner stanno già eseguendo; che la contestazione del modello di sviluppo è, ovviamente, sempre lecita, ma non può bloccare il funzionamento di quella stessa politica democratica che l´ha resa possibile; che non si può, mentre si discute "come" fare una cosa, tornare a mettere in dubbio "se" farla; che c´è una radicale differenza fra violenza, da una parte, e conflitto politico, dall´altra; che l´Italia non vuole essere la Grecia (con tutto il rispetto per un Paese in una situazione ben più difficile della nostra).
Sono, queste, considerazioni politiche che spettano al governo, insieme alle azioni che ne conseguono; ma altre se ne possono aggiungere. Ovvero, che si può anche scommettere contro l´Italia (lo fa la Lega, ad esempio) ma che questa posizione non fornisce particolari credenziali di affidabilità né di acume, e che da forze di sinistra che si candidano a governare questo Paese ci si attendono comportamenti più equilibrati. Che, giocando contro la democrazia per inseguire ogni estremismo, la sinistra non esce dalla propria crisi ma la dimostra e la aggrava. E che, insomma, dalla Val di Susa viene lanciata una sfida che non può essere ignorata: la sfida delle responsabilità e della maturità di tutti, ciascuno per la sua parte.
Non avevamo pubblicato l'articolo di Carlo Galli perchè ci sembrava singolarmente (dato il consueto rigore dell'Autore) disinformato, e meramente ripetitivo di luoghi comuni che in modo convincente erano stati smentiti da argomentate e documentate analisi, riprese da eddyburg (e.s.)
La decisione presa all'unanimità: "Sospensioni in via cautelativa almeno fino a quando non saranno terminate le indagini tecniche sulla frana e quelle penali". Per Autostrade la strada adesso si fa difficile
I lavori di scavo della galleria Val di Sambro, quella che sta provocando la frana del paese di Ripoli, sull’Appennino bolognese, potrebbero subire uno stop che i cittadini del paesino pensavano impossibile. Oggi infatti il consiglio regionale dell’Emilia Romagna, all’unanimità, ha impegnato la Giunta guidata da Vasco Errani “a chiedere ad Anas e alla società Autostrade la sospensione cautelativa dei lavori fino alla conclusione delle indagini”.
Si attendono insomma le inchieste tecniche e quelle giudiziarie aperte dalla Procura di Bologna sulla frana causata dai lavori per la Variante di Valico all’altezza della frazione di San Benedetto Val di Sambro. Appena un mese fa, il prefetto, Angelo Tranfaglia, sulla scorta dei dati forniti da un collegio di tecnici nominato sull’onda del clamore, aveva detto che non c’era pericolo per l’incolumità delle persone. I lavori potevano andare avanti. Una settimana fa però, il panorama cambiava: Andrea Defranceschi, consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, pubblica dei dati, non esposti al collegio dai consulenti di Autostrade. La frana si era mossa ancora così tanto da rompere gli strumenti di misurazione . Questo ai tecnici, e di conseguenza al Prefetto, non era stato riferito. Tranfaglia, intervistato da ilfattoquotidiano.it, aveva subito chiesto chiarimenti e si era detto pronto a riconsiderare il suo nulla osta al proseguimento degli scavi.
Ora la svolta politica, con un Partito democratico “accerchiato” in aula e costretto a votare una mozione all’unanimità pur di non andare sotto in consiglio. L’assemblea infatti ha deciso, approvando in modo sofferto, una risoluzione presentata ed emendata da Federazione della sinistra e da Sinistra ecologia e libertà-Verdi, che chiede la sospensione dei lavori “di scavo della galleria al fine di accertare conclusivamente” se “la loro prosecuzione possa garantire le condizioni di sicurezza o se invece sia necessario individuare una variante plano-altimetrica del tracciato della galleria in contesti geologici stabili”. Insomma la prospettiva di una galleria alternativa, non costruita ai piedi di una frana dormiente, prende piede.
Il voto di oggi segna tuttavia anche una frattura politica tra la maggioranza in assemblea legislativa e la giunta. Bocciata soprattutto la linea dell’assessore ai trasporti del Pd, Alfredo Peri, che non aveva mai chiesto ad Autostrade uno stop e aveva creato il già citato collegio tecnico, per monitorare la frana e la situazione. Ma di stop agli scavi, nemmeno l’ombra.
Ora, obtorto collo, la giunta dovrà quanto meno chiedere. Non è detto che Anas e Autostrade rispondano per forza sì. Ma è molto probabile. E visto il peso politico della Regione, anche il sindaco Pd di San Benedetto Val di Sambro, Gianluca Stefanini, e il prefetto stesso, potrebbero virare verso una posizione più vicina alle posizioni dei ripolesi.
“Per noi è una bella vittoria”, commenta a caldo Marco Ricci, che con suo padre Dino da un anno guida il comitato contro quella galleria che fa venir giù le case e ha costretto già allo sgombero di diverse di esse. Anche Dino Ricci parla, raggiante: “L’onestà intellettuale ha vinto per una volta sulla politica
Il loro comitato strappa oggi dal consiglio regionale anche un’altra vittoria. La risoluzione chiede infatti che il gruppo di cittadini sia coinvolto nei lavori del collegio dei tecnici, come da tempo chiesto inutilmente dagli stessi ripolesi, e come finora era stato negato. Il paesino di 500 anime intanto è a rischio estinzione: moltissime case sono puntellate, molte altre ancora monitorate ogni giorno dai tecnici. A nessuno cadrà la casa in testa, ma molte altre famiglie ancora potrebbero essere costrette ad abbandonare la loro casa. A meno che i lavori non si fermino. Per questo ora arriva un punto a favore, forse il più importante da quando la notizia lo scorso autunno, è venuta a galla.
Titolo originale: Le paysage français, grand oublié des politiques d'urbanisation – Traduzione di Fabrizio Bottini
Come spesso accade, ancora una volta Nicolas Sarkozy non ha usato certo mezze misure. Nel suo intervento trasmesso contemporaneamente da dieci canali televisivi domenica 19 gennaio, Il Presidente della Repubblica ha annunciato il progetto di aumentare del 30 % la possibilità di edificare, "su ogni terreno, edificio, immobile. Incrementando così straordinariamente le possibilità di lavoro per il settore edilizio”. E poi “per aumentare notevolmente la disponibilità di case, influenzandone il prezzo. Sia per l’acquisto sia per l’affitto". Una scommessa sull’immobiliare in grado di accontentare poi un po’ tutti? Prima di essere adottato dall'Assemblée nationale il 22 febbraio, il progetto di legge ha sollevato notevole ostilità. I promotori prevedono una impennata di prezzi dei terreni, gli agenti immobiliari uno sconvolgimento del mercato, i costruttori di case economiche si sentono trascurati. Quanto alle amministrazioni locali, che dovranno rilasciare le licenze e istruire nuovi piani regolatori, si sentono un po’ scavalcate dal nuovo testo.
Ma soprattutto, la legge pare tacere su uno degli aspetti essenziali per le trasformazioni edilizie in Francia: il paesaggio. Gli anni dalla ricostruzione ai ’70 sono stati caratterizzati dai grands ensembles, mentre gli ultimi tre decenni hanno visto il trionfo delle casette unifamiliari, che oggi rappresentano i due terzi degli alloggi a livello nazionale. Le torri e i casermoni delle città sfigurano oggi il paesaggio della valle della Senna o le alture del marsigliese. Ma da ora in poi saranno lottizzazioni di casette e edifici isolati a colonizzare la Francia delle valli e delle coste, delle pianure e dei boschi. Le identità locali cancellate, confini comunali che sfumano l’uno nell’altro. Le insegne dei supermercati a sconciare gli ingressi in qualunque centro abitato. Non c’è più campagna e non ci sarà mai città, né urbano né rurale.
Suolo: “Una risorsa non rinnovabile”
Sicuro, il progetto di legge esclude tutte le zone tutelate in quanto patrimonio naturale, o classificate come bene storico. Ma anche escluse queste aree salvaguardate, quali effetti ci saranno sul paesaggio? Si rallenterà o accelererà il degrado? Che tipo di situazione si vuole affrontare? Su quali principi ci si basa? A quest’ultima domanda il ministro delegato per la casa Benoist Apparu ha una risposta semplice: “Non vogliamo più consumare spazi naturali, non possiamo più continuare a coprire superfici agricole, ma vogliamo costruire case, quindi occorre densificare”.
Densificare: la parola d’ordine è vaga. Da dieci anni fa litigare tutti contro tutti nel paese. Salvo qualche urbanista, tutti reclamano “spazio”. Spazi verdi nelle città, abbattere le torri nelle periferie, migliorare il traffico per avvicinarle al centro, ampliare i quartieri … “Oggi tutti possono constatare le devastazioni del paradosso francese, abbiamo consumato molto più territorio degli altri, ma c’è tragica carenza di alloggi”, spiega il paesaggista Bertrand Folléa. Si "artificializzano" da 60.000 a 70.000 ettari l’anno, praticamente tutti terreni agricoli. L’equivalente delle superficie di un Dipartimento ogni sette anni. Per fare un confronto, la Germania consuma 20-30.000 ettari. I francesi vogliono la casetta unifamiliare? Si è fatta la scelta della dispersione urbana, dimenticandosi che il territorio è una risorsa non rinnovabile”. Per cercare di capire come ci si è arrivati, Bertrand Folléa propone alcune spiegazioni. Innanzitutto “il mito del castello familiare”. “Si è cercato di democratizzare il modello borghese, senza capire che cambiandone la scala si cambiava anche il modello”. “Poi un’organizzazione urbana ereditata dal medio evo. Nuclei di villaggio molto densi e definiti, tutt’attorno le terre agricole che danno da mangiare alle famiglie. Nel momento in cui l’agricoltura diventa meno essenziale,si costruisce su questi terreni in modo rado..."
Michel Lussault, professore di geografia urbana all'Ècole normale supérieure di Lione, va un po’ più in là,indicando una "cultura nazionale urbano-scettica, il mito campagnolo”."In Italia, la città è ovunque. Anche il centro più piccolo ha caratteri urbani. In Francia succede il contrario, e anche alcune grandi città sono campagnole. Tutto è villaggizzato. Pensiamo ai nostri presidenti, tutti immediatamente ad affermare il proprio legame di villaggio”. Il suo collega all’Ècole, lo storico Jean-Luc Pinol, ci aggiunge la qualità “mortifera” che da tanto tempo si attribuisce alle città: “La densità determinava la trasmissione dei miasmi, e si invidiava Londra che con le sue case di tre piani, tanto meno densa di Parigi. D'altra parte Parigi nel corso del XX secolo ha continuato a diminuire di popolazione, passando da tre a due milioni di abitanti. Tra le due guerre si sono costruite villette nella cintura interna, spesso a basso costo. Poi sono arrivate le città dormitorio, poi i grands ensembles. Alla fine le lottizzazioni realizzate fuori dalla città".
Un insediamento a misura d’automobile
L'architetto e urbanista David Mangin ha analizzato in modo approfondito quest’ultimo fenomeno nel suo libro La Ville franchisée. Vecchi miti, tradizione, storia, tutto è stato trascinato via dalla rivoluzione tecnologica con l’avvento del'automobile.“Tutto è cambiato: modelli di vita, modelli edilizi, organizzazione urbana, ma anche economia, servizi, e naturalmente il paesaggio". Incaricato dalla città di Nizza di riorganizzare la pianura del Var,ne ha rilevato l’organizzazione spaziale. "Più del 40 % di questo straordinario paesaggio è occupato dalle macchine: ci sono i parcheggi dell’aeroporto o dei supermercati, i noleggi, i garage, gli sfasciacarrozze. Non ha senso”. Certo si tratta di una situazione estrema. Ma accade ovunque, anche se in modo meno spettacolare, in base alla medesima logica.
Un intero territorio riorganizzato in funzione dell’auto. A partire dalla rete stradale. La maglia delle arterie veloci che secondo Charles Pasqua, ministro per la pianificazione del territorio dal 1986 al 1988, doveva assicurare a tutti “al massimo venti minuti per arrivare in autostrada”. Poi le casette unifamiliari, che da trent’anni rappresentano i due terzi degli alloggi costruiti."I grands ensembles hanno fallito, ma le amministrazioni dovevano salvare scuole e servizi, e così si sono realizzati delle specie di grands ensembles in orizzontale, monofunzionali. I genitori portano i figli a scuola in macchina, e poi la usano per andare a comprare il pane. È del tutto anti-ecologico e però ci si sente vicini alla natura ... Il tutto con la benedizione dei pubblici poteri che volevano allontanarsi dal modello delle abitazioni collettive".
Terzo anello della catena, la grande distribuzione. Terreni a buon mercato, bacini di popolazione cresciuti: “I grandi marchi hanno visto l’occasione, secondo il modello importato dagli Stati Uniti: niente parcheggi niente affari. E hanno calcolato la superficie per la sosta sul traffico della vigilia di Natale. Con le tangenziali, le grandi superfici commerciali sono in effetti molto accessibili per tutti. Hanno svuotato i centri, sfigurato gli ingressi alle città, aperto alla costruzione di nuove case … che attirano altre superfici commerciali. Un circolo vizioso, per però va bene a molti. Ivi compresi i contadini, dato che il prezzo di un terreno agricolo esplode quando diventa edificabile. Cosa che vale in tutto il paese. Piante calcoli e foto alla mano, David Mangin lo dimostra: attorno a Dinan, Bretagna, così come a Chalon-sur-Saône, in Borgogna, fra glia ni ’60 e gli anni ’90 l’ambiente urbano ha sostituito quello rurale.
La casetta “con un piccolo giardino attorno”
Tutta colpa della casetta unifamiliare? L’economista e direttore di ricerca al CNRS, Vincent Renard, ribatte deciso: "non mi piace questo disprezzo, questo razzismo contro chi si è costruito una casa. Il problema non è la casa, ma il sistema".Jean Attali, filosofo e professore di urbanistica all'Ècole nationale d'architecture Parigi-Malaquais, rincara la dose : "Quando gli amici architetti criticano la casetta unifamiliare, si dimenticano di citare un aspetto di questa critica, ovvero che quello delle casette è un mercato che li scavalca. In Francia non è obbligatorio ricorrere a un architetto sotto i 170 m2. Sono sempre un po’ a disagio quando li ascolto prendere in giro le casette individuali". Anche David Mangin aggiusta il tiro: “Non si tratta della casetta individuale, ma del lavaggio del cervello che i promotori hanno fatto a tutti i francesi, secondo cui l’unica soluzione possibile è quella casa peripatetica: isolata, su un poggio, con un piccolo giardino tutt’attorno".
Continua l'urbanista Philippe Panerai:"Anche olandesi e inglesi hanno fatto la scelta della casa individuale, ma nel contesto di un’altra storia, di un’altra organizzazione. Gli olandesi avevano strappato la terra al mare, e non potevano certo sprecarla; gli inglesi attraverso un prodotto industriale standardizzato, e senza la proprietà della terra. Quindi le case sono state realizzate fianco a fianco, col giardino sul retro, una soluzione molto più economica in termini di spazio". Risparmiare spazio. Cosa un tempo sconosciuta in Francia, l’idea a poco a poco si è fatta strada. Prima nelle riflessioni dei ricercatori e dei paesaggisti. Poi, dopo dieci anni, nelle sedi di dibattito istituzionale, come le convenzioni sull’ambiente alla Grenelle o il concorso Grand Paris. "Si è presa coscienza degli aspetti economici, sociali, ambientali della dispersione urbana”, specifica Jean Attali. “In termini di mobilità, saturazione dei trasporti collettivi, congestione, danni all’ambiente. Anche da parte degli abitanti, che sognano un modo di vivere migliore, vicino alla natura, e che oggi ne scoprono aspetti negativi".
Vincent Renard continua su questo tema: "Si è assorbito il contraccolpo della politica dei grands ensembles, ma non ancora quello delle lottizzazioni. Con la crisi economica e l’aumento dei prezzi dei carburanti, che è solo cominciato, scatta la trappola. Qualcuno se ne sta accorgendo ".
"Soprattutto, i prezzi troppo alti hanno bloccato il sistema e interessano tutti” dice David Mangin. “Finché la cosa interessava solo i più poveri non ci badava nessuno. Oggi anche le fasce superiori faticano a trovar casa per i figli. E si spera in una presa di coscienza..."
Densificare
Gli urbanisti propongono i propri modelli. Qualcuno auspica un ritorno alla città tradizionale e alla mobilità pedonale, altri ipotizzano nuovi sistemi di circolazione per una “città fluida”. Secondo il pensiero dell’olandese Rem Koolhass, altri ancora chiedono di liberarsi da ogni vincolo e far ricorso al genio dell’architetto per ricostruire la città. Infine, che chi come Bertrand Folléa insieme alla compagna Claire Gautier cerca di inventare una “città sostenibile”. Complessivamente emerge comunque una convinzione, quasi una parola d’ordine: bisogna densificare. Densificare i centri, dove ci sarebbe tanto spazio in cui costruire. Fabbriche, caserme, ospedali, trovano oggi nuove funzioni. "Dopo vent’anni hanno demolito la biscotteria Lu di Nantes” osserva Jean-Christophe Bailly, professore all'Ecole nationale supérieure de la nature et du paysage di Blois. “E ci dovrebbero fare il parcheggio di un supermercato, magari un po’ di verde? Il comune ha scelto di farci un polo artistico, Le Lieu unique. Non tutto è perduto".Densificare anche i grands ensembles"perché contrariamente a quanto si pensa di solito quei quartieri sono a bassa densità, a causa delle norme sulle distanze fra edifici, sui parcheggi, su quegli pseudo spazi verdi”.
Piuttosto che cedere alla moda di distruggere semplicemente torri e stecche, architetti e urbanisti propongono di sostituirle con unità più piccolo, introdurre attività commerciali e studi professionali. A Rennes, Grenoble o Strasburgo si è intrapresa questa strada. Densificare e riqualificare rapidamente le città per risparmiare spazio, o sfruttare nuove tecniche più sicure per edificare in aree a rischio inondazione. "Però le soluzioni semplici non esistono” avverte David Mangin. “Il capannone che si vuole demolire per costruirci case magari è una attività importante per la città. SI tratta sempre di operazioni complesse, delicate, lunghe, che richiedono compromessi".
Il ruolo degli abitanti
E in tutto questo dove si colloca il 30 % tanto caro a Sarkozy? Una scelta “elettorale”, "brutale", "demagogica", sostengono in coro tutti i nostri interlocutori. "Potrebbe avere qualche senso in una logica di revisione del sistema di pianificazione, imponendo ai terreni il loro valore reale, delegando la responsabilità delle trasformazioni alle associazioni intercomunali e non ai municipi”sospira l'economista Vincent Renard. “Ma in questo modo è assurda". Tutti riconoscono alla proposta due meriti: quello di mettere il dito su una piaga della nostra epoca, ciò che il geografo Michel Lussault chiama “la proceduralizzazione della città, l’insieme di leggi, regolamenti, vincoli, che finiscono per soffocare ogni dinamica urbana. E anche il merito di porre la questione del ruolo dei singoli cittadini nella costruzione della città. La loro capacità di inventare ciò che poi a distanza di secoli potrà apparire pittoresco. Ma anche il diritto a riflettere, concepire, decidere sui modi dell’abitare.
Prosegue Michel Lussault: "Ieri la città-rete, oggi quella sostenibile, densificata, senza emissioni, si tratta di modelli che lasciano fuori gli abitanti. Non dobbiamo mai dimenticarci che sono i francesi ad aver scelto in tutta autonomia la città poco densa, grazie alle automobili e con la benedizione delle autorità. E non solo per il rifiuto di una certa composizione sociale, ma anche sfuggendo ai problemi della densità mal concepita. Perché oggi possa riuscire l’idea della densificazione, perché non sia vissuta come una sofferenza, occorre ripensare le forme architettoniche". La torre Bois-le-Prêtre, a Parigi (nel diciassettesimo arrondissement), riqualificata da Lacaton et Vassal, dimostra che si tratta di un obiettivo raggiungibile. Ma si può essere più ambiziosi. Invitando architetti, urbanisti, sociologi, giuristi, economisti, a cambiare natura: "Non devono più pensarsi come dei domatori che entrano nell’area a spiegare alle belve che è sbagliato ruggire, ma come levatrici di un processo di autocostruzione".
In altre parole, "Vanno riviste le forme della democrazia urbana. Non il genere di democrazia partecipativa che è diventato la foglia di fico della nostra incapacità di far evolvere la città. È l’insieme delle procedure che va rivisto, dalle concessioni edilizie ai piani urbanistici. Lo si fa nei contesti di scarsa presenza del potere pubblico, che siano le baraccopoli dell’India, dell’America del Sud, o anche negli Stati Uniti, come a Seattle. Ma anche in paesi di tradizione democratica, dalla Svizzera alla Scandinavia”.
È un progetto da candidato alle elezioni presidenziali? "Direi piuttosto un progetto per il nuovo millennio " , conclude il professore con un sorriso.
Qui il testo del progetto di legge approvato dall'Assemblea nazionale
Il comma 16 dell’articolo 29 del D. L. 29 dicembre 2011, n.216, Proroga di termini previsti da disposizioni legislative, ha spostato in avanti di un anno (al 31 dicembre 2012) l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili destinati ad abitazione. La proroga degli sfratti fu chiesta dai sindacati degli inquilini per evitare che famiglie a basso reddito e in condizioni di particolare di disagio sociale restassero senza una casa. Date le particolari situazioni di difficoltà familiari che devono verificarsi affinché essa possa essere applicata, questa norma non avrà un impatto quantitativamente significativo.
I sindacati chiesero anche la sospensione degli sfratti per i "morosi incolpevole" , come possono essere definiti gli inquilini che smettono di pagare l'affitto a causa di una riduzione di reddito per la perdita del posto di lavoro o per la collocazione in cassa integrazione (se lavoratori dipendenti) o per la cessazione dell’attività (se lavoratori autonomi). Il governo non esaudì la richiesta dei sindacati, anche se con l’avanzare della crisi economica e dell’occupazione cresce il numero di famiglie che ha perduto o sta perdendo la casa. Ma un’estensione della sospensione degli sfratti ai morosi incolpevoli può essere proposta senza una sua eccessiva (nonché temporanea) gravosità sui conti pubblici.
I beneficiari della proroga
La proroga si applica solo agli inquilini per i quali ricorrono le condizioni oggettive e soggettive definite dalla legge 9/2007. Le abitazioni devono essere localizzate nei comuni capoluoghi di provincia e in quelli o ad essi confinanti con più di 10.000 abitanti oppure classificati ad alta ten-sione abitativa; gli inquilini devono avere un reddito imponibile annuo familiare non superiore a 27.000 euro ed avere nel proprio nucleo un ultrasessantacinquenne, un malato terminale, un por-tatore di handicap invalido almeno al 66% oppure figli fiscalmente a carico. La proroga si applica solo ai casi di finita locazione dell'immobile, con esclusione degli sfratti per morosità; durante il periodo di sospensione di esecuzione dello sfratto l'inquilino deve corrispondere il canone maggiorato del 20%.
Il numero di inquilini sfrattati che versa in condizioni di così grave disagio non è (fortunatamente) eccessivamente elevato: la relazione tecnica alla norma che introduce la nuova proroga li stima in 1.300. Poiché è previsto che i proprietari degli immobili non dichiarino al fisco, durante il periodo di sospensione, il reddito da canone, la stessa relazione tecnica stima, nel 2013, minore entrate per 3,38 milioni di euro, con un costo fiscale unitario per sospensione di 2.600 euro. Con un'aliquota Irpef media del 33%, questo risparmio d'imposta unitario lo si ottiene applicandolo ad un cannone medio 9.300 euro all'anno circa (circa il 40% di ciò che resta di un imponibile di 27.000 euro dopo l'Irpef). Tra l'incremento di canone, pagato dall'inquilino durante il periodo di sospensione dello sfratto, e lo sconto fiscale, il proprietario viene "risarcito" con una premio di circa 4.500 euro su base annua per il ritardo con il quale è costretto ad entrare in possesso del suo immobile.
La crescita degli sfratti per morosità
Nel 2010 (ultimo anno per il quale si dispone del dato rilevato dal ministero dell'interno) sono stati emessi circa 65 mila provvedimenti di sfratto. Nel 2008, invertendo la tendenza alla contra-zione del fenomeno che aveva caratterizzato i tre anni precedenti, il numero di provvedimenti emessi superò le 52 mila unità, con un aumento di quasi un quinto rispetto all'anno precedente; nel 2009 divennerò circa 61.500 (+17,6%). Questo aumento numerico è interamente spiegato dalla crescita del numero di sfratti per morosità: da 33.500 del 2007 si passa ai 41.000 circa del 2008 per crescere a 51.600 nel 2009 e superare i 56.000 del 2010. Dalla fine del regime contrat-tuale dell’equo canone la morosità è sempre stata la causa relativamente prevalente di sfratto. Nella media del triennio 2008-2010 il mancato pagamento dei canoni ha motivato l’83% del nu-mero totale di sfratti, contro il 75% del triennio precedente. In alcune delle province più indu-strializzate questa percentuale ha superato, nel 2010, il 90%: Brescia e Vicenza quasi il 95%, Modena il 94%, Torino il 92% . I sindacati degli inquilini collegano l'aumento del numero delle famiglie che ha smesso di pagare l'affitto all'aggravarsi della crisi economica e occupazionale, con conseguente crescita di quella che essi classificano come morosità incolpevole.
Un’ipotesi di lavoro
Possiamo formulare un’ipotesi finanziariamente non velleitaria per una temporanea sospensione dell’esecuzione degli sfratti dei morosi incolpevoli. Il loro numero può essere quantificato nell'intero aumento del numero di sfratti per morosità del triennio 2008-2010: per approssima-zione in media 7.000 all'anno, che possono diventare 10.000 con il perdurare della crisi; ipotiz-ziamo che il canone medio sia di 8.000 euro, che diventano 6.320 euro netti nel caso di tassazione con cedolare secca 21%.
Condizione necessaria per la sospensione dello sfratto è che il proprietario riceva il canone al netto dell’imposta e che il nucleo familiare moroso si impegni a pagarlo. Poiché il moroso incol-pevole non è in grado di pagare il canone, deve farlo lo Stato al suo posto (almeno come antici-pazione); per non più di due anni, in modo da contenere il rischio che scatti la trappola della po-vertà. L'intervento potrebbe essere previsto in via sperimentale per cinque anni (la nottata dovrà pur passare!). Per aiutare 10.000 famiglie ogni anno (50.000 nel quinquennio), l’onere per il bi-lancio statale sarebbe di 63,2 milioni di euro il primo (e il sesto) anno e di 126,4 a partire dal se-condo fino al quinto.
Cifra non trascurabile, ma sopportabile per il bilancio statale se spalmata nel tempo. Ai proprie-tari degli alloggi andrebbe riconosciuto per cinque anni un credito d'imposta pari ad un quinto dell'importo del canone spettante al netto dell'imposta (cioè 1.264 euro), con una perdita di getti-to che cresce progressivamente in ragione annua di 12,64 milioni di euro l'anno, fino a raggiungere il massimo di 63,2 milioni il quinto anno dall'avvio dell'intervento, riprendendo successivamente a calare fino a tornare a 12,64 milioni al nono anno dall’inizio dell’intervento. Il costo complessivo dell’intervento, ripartito su 9 anni (e non su 5), sarebbe relativamente contenuto nei primi, che sono quelli più prossimi in cui il bilancio statale continuerà ad accusare maggiori sofferenze.
Il proprietario dell’immobile riceve in cinque anni l'importo netto del canone che avrebbero diritto di ricevere in un anno, ma conserva un inquilino che fino a quel momento aveva corrisposto puntualmente l’affitto, e che, superato il momento di difficoltà riprenderà, verosimilmente, a far-lo.
La perdita di gettito che il bilancio statale deve sopportare potrebbe essere temporanea e recupe-rabile. I beneficiari della sospensione degli sfratti, dovrebbero, infatti, impegnarsi a restituire allo stato gli importi anticipati. Ogni nucleo familiare inizierebbe a farlo dal momento in cui recupera il suo livello di reddito di pre-morosità, rinunciando alle detrazione Irpef che il vigente regime di tassazione dei redditi accorda ai diversi tipi di redditi da lavoro. Questa rinuncia dovrebbe pro-trarsi per il numero di anni necessari a saldare quello che diverrebbe un “debito d’imposta”, e impegnare tutti i membri maggiorenni del nucleo familiare.
Alla fine il partito trasversale animato dai politici casertani si è imposto. L’aeroporto di Grazzanise s’ha da fare. Lo afferma il consiglio regionale della Campania che ieri ha approvato due risoluzioni, una del Pd e una del Pdl, che in sostanza chiedono al Governo Monti di riconfermare la riconversione dell’ex aeroporto militare in aeroporto internazionale. Costerebbe almeno un miliardo di euro e sarebbe il terzo in meno di cento chilometri, insieme a quelli di Napoli Capodichino e Salerno Pontecagnano (per quest’ultimo meno di 50 passeggeri al giorno). Ma a dispetto dei dati sul traffico aereo, degli studi che scoraggerebbero un’impresa dalle spese titaniche e dell’alto rischio di infiltrazioni camorristiche negli appalti, centro-destra e centrosinistra campani sono sostanzialmente uniti nel promuovere la realizzazione dell’opera.
Vi. Iu.
Di questi tempi accade spesso che buone iniziative, spesso elaborate in anni migliori, vengano ripresentate in una logica, e per motivi, cattivi o pessimi. I media distratti, o complici con i nuovi presentatori, le ignorano o le lodano, quelli critici ne presentano solo il lato scandalistico, che è quello dell’attualità. Ci vogliamo sforzare – quando ne abbiamo gli elementi – non tanto di separare il grano dal loglio quanto di raccontare lo spessore e le “buone ragioni” iniziali di certe iniziative. Per evitare che con l’acqua sporca si getti anche il bambino, e che il modo arraffone con cui esse vengono riproposte le cancelli del tutto e per sempre. E’ il caso della proposta dell’aeroporto campano di Grazzanise.
La trasformazione dell’aeroporto militare di Grazzanise in aeroporto civile non è una novità, se ne parla da almeno quarant’anni. Da quando, nel piano regolatore di Napoli, si decise di dismettere l’aeroporto di Capodichino e di sostituirlo con quello di Grazzanise. A Capodichino, al posto dell’aeroporto, il piano regolatore, quello del 1972 e quello del 2004, prevedono un parco di nuovo impianto, una specie di grande central parck a servizio della sterminata e disastrata area metropolitana. Grazzanise, perciò, non sarebbe il terzo aeroporto della Campania in 100 chilometri come scrivono il Corriere della sera, Il Corriere del Mezzogiorno e il Fatto quotidiano, ma dovrebbe essere l’unico, Pontecagnano sarebbe giusto chiuderlo. Ma, come al solito, i piani regolatori, tamquam non essent. Devo aggiungere che Capodichino è fra i più pericolosi aeroporti del mondo, gli aerei in atterraggio sfiorano la reggia di Capodimonte (in alternativa, il Vesuvio), credo che sia l’unico aeroporto del mondo limitrofo a un centro storico, con un impatto acustico infernale sugli attigui quartieri fittamente abitati, che inutilmente protestano. Un parco pubblico al posto di un aeroporto è una cosa inconcepibile per la cultura politica italiana che ha l’horror vacui. Lo hanno fatto i tedeschi a Monaco, ma non sono questi gli esempi tedeschi che interessano. Infine, Grazzanise è già aeroporto e non ci sarebbe se non un limitatissimo consumo aggiuntivo di spazio aperto (ampiamente compensato dalla trasformazione a parco di Capodichino), è molto ben connesso alla rete su ferro, potrebbe addirittura essere l’unico aeroporto d’Italia connesso alla rete dell’alta velocità (che i geni delle FFSS hanno concepito alternativa al trasporto aereo e non integrata, come in Francia, Germania, eccetera).
Dispiace che Sergio Rizzo, sempre attento e ben documentato, queste cose non le sappia e dia conto solo di quanti intendono arraffare di tutto di più, Capodichino più Grazzanise più Pontecagnano. (v.d.l.)
Titolo originale: Driverless Car Could Defy Sprawl Rules – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Da molte notizie pare proprio che l’auto che non ha bisogno di guidatore, un tempo relegata nei libri di fantascienza, si affacci alla realtà del trasporto. Settimana scorsa il Nevada per primo ha approvato regole statali riguardanti i veicoli senza pilota, che a parere di un responsabile sarebbero “certamente il futuro dell’automobile”. Ci sono state parecchie ipotesi sugli effetti di questa tecnologia sul nostro modo di usare l’auto, sulla sicurezza, sulla responsabilità. Ma invece: come cambierà la città americana? Ad esempio, magari così gli automobilisti potrebbero mettersi a fare più strada, comodamente, e accelerare la dispersione urbana.
È questa la prima conclusione logica a cui si potrebbe arrivare. Negli ultimi cent’anni e oltre, qualunque salto tecnico nel campo dei trasporti, che siano le ferrovie, i tram a cavallo, l’automobile o l’aeroplano, ha accresciuto la mobilità, e parallelamente prodotto sistemi insediativi più dispersi in ogni regione urbana del mondo. Non si tratta però di un fatto inevitabile. Riflettendo sui trasporti spesso ci si basa su convinzioni superate. Una è l’idea del determinismo tecnologico: introducendo una innovazione ci sono una serie di conseguenze sulla società. Quando in realtà ciascuna delle innovazioni, qualunque avanzamento umano, produce risultati straordinariamente diversi.
Il caso delle ferrovie
Ad esempio la ferrovia del XIX secolo è stato il fattore determinante dell’accumularsi di popolazione e attività nelle grandi città industriali, mentre si consentiva in contemporanea a una notevole percentuale di popolazione urbana di risiedere nel suburbio un po’ più esterno. E anche se la crescita delle automobili è avvenuta in un periodo di marcato decentramento urbano e calo delle densità,non si tratta per nulla di un risultato inevitabile. Le regioni urbane di Phoenix o Los Angeles dipendono in gran parte dal trasporto automobilistico, ma negli ultimi decenni hanno incrementato notevolmente la propria densità. Altro ostacolo a una riflessione obiettiva sui trasporti, è l’orientamento a credere che esista qualche profonda differenza fra mobilità pubblica e privati – ad esempio automobile contro autobus – e che si tratti di modelli diversi in concorrenza uno contro l’altro. È articolo di fede, fra coloro che auspicano scelte contro l’automobile e a favore dei trasporti pubblici per combattere la congestione, i consumi petroliferi e le emissioni di gas serra.
Ma viste le innovazioni tecniche più recenti non è affatto detto che i treni, e soprattutto gli autobus, siano ancora più efficienti per unità di distanza percorsa, rispetto all’automobile. Per la stragrande maggioranza degli spostamenti sono molto più lenti. Nei casi migliori, anche le più avanzate scelte per spingere all’uso dei mezzi pubblici a spese dell’auto comportano dei sacrifici. E oggi l’auto senza pilota potrebbe alterare gli equilibri fra pubblico e privato, individuale e collettivo. Le scelte sui trasporti non sono mai state così nette come parrebbero suggerire certe polemiche. Ad esempio il taxi possiede le caratteristiche di entrambi gli aspetti. Negli ultimi anni poi la divisione fra mobilità pubblica e private si è ulteriormente ridotta coi progetti Zipcar o Super Shuttle, o altri tipi di veicoli a noleggio individuale pronto per l’uso come Personal Rapid Transit, automatizzato e che corre su una linea propria. C’è un ottimo esempio pionieristico di questi PRT realizzato negli anni ’70 e ancora in funzione a Morgantown, in West Virginia.
Sistemi flessibili
Ciò in cui l’auto senza autista potrebbe riuscire, è assottigliare ancora queste differenze. Pensiamo al chiamare uno dei veicoli a richiesta – ad esempio uno piccolo come quelli che si usano oggi sui campi da golf per commissioni in città, oppure una cosa più spaziosa per un gruppo di persone che si sposta verso un’altra città – e che quel veicolo possa effettivamente andare dal punto di partenza alla destinazione finale. La grande flessibilità di sistema offerta ridurrebbe di molto la spinta a possedere un’automobile, che deve appunto poter svolgere molti compiti diversi, è costosa all’acquisto e nella manutenzione, e di solito sta per gran parte della propria vita in un parcheggio o in un garage. Se l’auto senza pilota può ridurre la congestione massimizzando l’uso delle reti stradali esistenti, spostando passeggeri in tutta comodità, si potrebbe certo arrivare a un sistema insediativo ancora più disperso. Oppure no: l’effetto potrebbe essere opposto.
Vista la gran quantità di spazio oggi riservato a strade e parcheggi dalle città americane, anche un piccolo incremento nell’uso collettivo dei veicoli potrebbe far diminuire la necessità di nuove superfici asfaltate, e far crescere le densità residenziali e commerciali. Confermando così una tendenza già rilevabile oggi, quando i nuovi insediamenti che si realizzano ai margini estremi delle regioni metropolitane sono molto più densi che in passato, e quando dentro le città e nei sobborghi di prima fascia si lavora a incrementare le densità esistenti. Certo di sicuro anche l’auto senza autista porterà moltissimi problemi nuovi, come avviene sempre con le innovazioni tecnologiche, ma potrebbe anche contribuire alla soluzione di quelli attuali provocati dall’automobile, prima di tutto gli incidenti e la congestione. E un primo passo importante per aumentare gli effetti positivi e ridurre quelli negative sarebbe smetterla di pensare automaticamente come oggi fanno certi esperti di pianificazione e trasporti.
Si potrebbe partire dalla diffusa quanto discutibile convinzione secondo cui le città dovrebbero essere pensate secondo un certo sistema di mobilità. A sostegno di autobus e treni c’è molta gente che vorrebbe far tornare indietro le lancette dell’orologio, riproponendo il tipo di tessuto urbano denso che era forse indispensabile per la città industriale del XIX secolo. Nulla di sbagliato in questo modello abitativo, se fosse liberamente scelto da chi ci abita. Ma dopo l’avvento dell’automobile i cittadini si sono potuti permettere più mobilità e flessibilità nella scelta di dove risiedere, spesso con risultati radicali, e certo unire alcune caratteristiche dell’auto con quelle dei trasporti collettivi, consentirà una maggiore scelta nei modelli abitativi, che siano quello compatto ad alta densità, o disperso a bassa densità (chiamatelo pure sprawl, se vi piace). Più probabilmente, entrambi.
Dice il saggio: tutto è bene ciò che finisce bene, e l’ultimo chiuda la porta. Peccato che il sedicente saggio professor Bruegmann, pur maneggiando molto meglio di altri (del resto è il suo riconosciuto mestiere di accademico) gli strumenti della tesi antitesi sintesi riesca a convincere solo della solita cosa: le argomentazioni delle campagne anti-sprawl devono piantarla con certe semplificazioni. Se proviamo a rileggere l’articolo infatti cercheremmo inutilmente qualunque riferimento ai temi energetici, sociali, o alle vere motivazioni complesse che hanno condotto alcune generazioni a lanciarsi nell’avventura contraddittoria dello sprawl novecentesco. C’è solo una superficiale presa d’atto (e presa a prestito ad esempio da alcuni passaggi descrittivi di Fishman) di quanto avvenuto dalle “profezie” di Henry Ford in poi. Come del resto nelle descrizioni di altri benintenzionati ambientalisti compaiono solo gli orrori suburbani, figuriamoci oggi col degrado di interi quartieri pignorati e semi-abbandonati. E tutto per far cosa? Per avvisarci che non dobbiamo, noi idioti passatisti, secondo Bruegmann, fare gli scongiuri e metterci di traverso davanti a qualunque innovazione tecnologica. Ok professore, ci hai convinti: da domani tutti sull’automobilina automatica, ma cosa c’entri col risparmio energetico, le città sostenibili, una migliore qualità sociale, dovremo scoprircelo da soli. In definitiva, come succede ormai da qualche anno, le dissertazioni dell’accademico di successo servono soprattutto in negativo, a far riflettere sulla debolezza delle argomentazioni opposte. Grazie molte, alla prossima (f.b.)
Caro direttore, in Italia sta accadendo qualcosa di grave, ma pochi ne parlano. Ci sono delle imprese che, dopo aver sloggiato centinaia di cinema dai centri urbani, stanno emarginando migliaia di cittadini soprattutto adulti, meno propensi a mettersi in auto per andare a cercare un film nei multiplex metropolitani. Il fiorire delle multisale, diventate il tempio del divertimento giovanile, si accompagna all'emarginazione dei film meno commerciali, privando così gli stessi ragazzi di un confronto con titoli importanti che puntano su impegno e qualità. Da notare che queste sale godono di finanziamenti a fondo perduto e non pochi benefici fiscali dallo Stato. In cambio di cosa? Certo il cinema, incluso quello dei grandi autori, è anche industria. Tuttavia se a dettare legge è solo il lato commerciale, sarà un guaio per tutti. Dichiaro subito di essere interessato perché sta per uscire un mio film e non posso non essere preoccupato. Ci sono nel cinema operatori ai quali poco importa del valore di un film, gente che misura a spanne le pellicole in rapporto ai soldi che possono fare.
Sigmund Freud diffidava proprio di costoro. A Hollywood gli avevano chiesto più volte di lavorare per loro. Non accettò mai perché riteneva il lato commerciale estraneo alla cultura. Lo disse chiaro e tondo a Samuel Goldwyn, fondatore della Metro Goldwyn Mayer, quando nel 1924 attraversò l'oceano per convincerlo a scrivere «una grande storia d'amore per il cinema». Da allora le cose sono peggiorate. Se all'inizio gli artisti prevalevano sui finanziatori (la United Artists nacque per volere di quattro attori e registi: Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e David W. Griffith), col tempo le cose si sono capovolte. Oggi il potere sta in mano solo a chi controlla il denaro.
Nell'industria del cinema c'è una lobby potente, che il pubblico non conosce. È quella degli esercenti. Questa categoria ha l'ultima parola sulla «tenitura» di un film, quanto tempo resterà in sala, dunque quanto incasserà. Il guaio è che se un film non monetizza sin dal primo weekend, può anche essere un capolavoro, ma la sua sorte è segnata. Non era così un tempo, quando l'esercizio partecipava ai costi di produzione e aveva tutto l'interesse a difendere lo sfruttamento sino all'ultimo centesimo. Sembra incredibile, ma il luogo principale dove si consuma il «bene» cinematografico non di rado è il più insensibile alla circolazione dei film migliori. Si tratta di una dicotomia insolubile. Ricorda certe storture dell'amore: «Né con te né senza di te».
Per molti autori la dura legge dell'esercizio sta diventando un'ossessione. I nemici del cinema, dicono, sono gli esercenti. Molti registi arrivano al punto di preferire Internet, pensando di trovarvi più libertà che in sala. Ma è un'illusione. Nulla in contrario al proliferare del successo di commedie, anche se sgangherate. Servono pure quelle. Ma può un Paese vivere solo di risate? Che circolazione avrebbero oggi capolavori comeUmberto D.di De Sica oProva d'orchestradi Fellini, stando al «gusto» prevalente delle multisale? Che cosa sta facendo il cinema italiano per impedire che il consumo uso e getta impedisca l'accesso a chi non vuole ridere soltanto?
Pongo il quesito soprattutto a chi impiega il denaro pubblico. Di fronte alla «dittatura» dei multiplex, il cinema pubblico (tra cui Rai e Cinecittà) dovrebbe occupare il terreno rafforzando la suamission. Il che significa dare un segnale forte per essere presente alla pari, offrendo agli spettatori le stesse opportunità dei film più commestibili. Lapar condiciovale solo per i politici? Basta fare un paragone con un Paese vicino. In Francia, dove la cultura è tenuta in massima considerazione, un film difficile ma importante comeUna separazione, in odore di Oscar, è stato visto da 846 mila spettatori in tutte le sale. Da noi solo da 77 mila in poche sale: i francesi sono undici volte più intelligenti di noi o c'è qualcosa che non va nella nostra distribuzione?
È la riprova che scommettendo su un buon film non si fa solo cultura: ci si può anche guadagnare. Il famigerato I soliti idiotipiazza sul mercato centinaia di copie? Fa benissimo. Ma perché non fare altrettanto con film meno consumabili, capaci di arricchire la mente dei ragazzi? Un'azienda pubblica deve certo guardare al mercato, ma anche porsi il problema di orientarlo, non di subirlo. Il principio vale per il grande come per il piccolo schermo. È come se in tv trionfassero solo i realitye venisse abolito tutto il resto. Speriamo che Mario Monti, nel mettere mano alla riforma, non cada ancora una volta nell'errore di pensare alle pedine e non ai contenuti.
Il furto più grave viene commesso proprio ai danni dei giovani. Di questo passo la legge dell' audienceinvaderà anche le scuole e le università. A furia di pensare solo a far ridere i ragazzi non finiremo per crescere una marea di italiani un po' troppo tristemente allegri?
Inutile girarci tanto attorno: la questione posta da Faenza dal punto di vista socio-spaziale è perfettamente identica a quella della grande distribuzione commerciale, e in quanto tale deve essere considerata. Scatoloni organizzativamente e culturalmente autoritari che risucchiano vita e attività dalle zone urbane, trascinando persone e sensibilità verso una specie di limbo. Senza contare naturalmente sia il contesto auto-orientato che i fattori di esclusione (ma anche, ahimè, di relativa inclusione e accessibilità che a volte, spesso, mancavano alla rete di esercizi tradizionali). In questo, come in tutti gli altri casi, la questione si pone in modo duplice: da un lato verificare cosa in effetti si debba e possa ragionevolmente conservare, delle attività economiche sociali e culturali, dall’altro a quali spazi esse debbano corrispondere, e a quali soggetti delegare la gestione: pubblici, privati, misti. Sinora la smisurata fiducia nelle capacità del mercato di autoregolarsi ha prodotto gli squilibri urbani, territoriali, socioeconomici che ben conosciamo, ma al tempo stesso l’auspicio che spesso emerge, al ritorno a forme che i nostri stessi comportamenti reali e consapevoli hanno respinto (dai consumi alle aspettative culturali e di relazione), pare non solo debole, ma ridicolmente regressivo. Una questione del tutto aperta, e che di nuovo rilancia l’idea di una gestione urbana assai più integrata e condivisa fra i vari approcci scientifici, tecnici e amministrativi. Neppure il cinema è più solo cosa da cinematografari o cultori, insomma (f.b.)
Titolo originale: La deuxieme vie des malls - Traduzione di Fabrizio Bottini
Nel comune di Voorhees, New Jersey, il municipio è praticamente dismesso. Ormai per accedere ai servizi pubblici gli abitanti vanno … al centro commerciale! È in questo gigantesco spazio, da 105.000 metri quadrati, che si sono da qualche mese insediati gli uffici locali. Costruito negli anni ‘70, l'Echelon Mall era abbandonato. Nel 2005 il 75 % della superficie commerciale risultava inutilizzato. Così il comune ha dovuto trovare una soluzione alternativa. Basta col mall, ecco a voi il Town Center. Una parte della galleria è stata demolita per far posto a un percorso all’aperto, su cui si allineano ristoranti, botteghe, sportelli bancari, fontane. Ci ha trovato posto anche la scuola di estetica e per infermiere. Su parte dell’immenso parcheggio sono state costruite case private e uffici. E per la prima volta a Voorhees esiste un vero e proprio centro cittadino.
Ovunque negli Stati Uniti stanno sparendo centri commercial. “Secondo i miei calcoli degli 11.000 esistenti un terzo sono del tutto chiusi o sul punto di chiudere” racconta Ellen Dunham-Jones, professoressa di architettura al Georgia Tech. “Non se ne realizzano più di nuovi dal 2006”. Il motivo è sia internet con la sua offerta di shopping online, sia la crisi “che ha accelerato il fenomeno”. E poi i consumatori, che non ne possono più di quei centri commerciali extralarge, consacrati a shopping e ristorazione veloce. Una disaffezione che mette in imbarazzo le amministrazioni locali, prive di mezzi sia per demolire che convertire quei complessi, spesso su superfici di oltre 50.000 metri quadrati. In qualche caso c’è un piano B, come a Cleveland, Ohio, dove la Galleria at Erieview ha ormai solo qualche insegna accesa, quando negli anni ‘80 ce n’erano oltre cinquanta.
Sull’orlo della chiusura definitiva, si è trasformato in un “Lifestyle center”. Offre un passaggio coperto con mercato ortofrutticolo, centro studi sulla produzione agricola locale, saloni per feste matrimoni compleanni. “Alla fine è stata una bella idea” giudica Vicky Poole, direttrice del marketing de la Galleria. “Utilizzare in modo innovativo e diversificare gli spazi”. Ci si trovano anche scuole, ambulatori medici, biblioteche, anche chiese. Sono decine quelli che hanno proprio dovuto chiudere, ma altri hanno saputo approfittare delle possibilità di cambiamento. Come il marchio Jump Street, che in questi nuovi spazi installa giganteschi trampolini. “È ora che la periferia americana abbia dei veri centri di attività” conclude Ellen Dunham-Jones. “Un pochino all’europea”.