il manifesto, il Fatto Quotidiano, 19 e 17 agosto 2018. Articoli di Andrea Fabozzi e Peter Gomez. Autostrade non si scusa per il crollo del ponte. La sua strategia è quella di attendere i tempi della giustizia, forte di un contratto capestro, in parte ancora secretato. (m.p.r.)
il manifesto, 19 agosto 2018
AUTOSTRADE RISPONDE A CONTE
Per un governo che parla tanto, una controparte che misura le parole. Autostrade rifiuta di scusarsi per il crollo del ponte, lo fa solo per «essere apparsa distante» dopo, e si prepara a una lunga battaglia legale. La decadenza della concessione è più lontana di quanto Salvini, Di Maio e Conte sperano e raccontano. La lettera che il ministero delle infrastrutture ha spedito ad Autostrade, al di là dei toni drammatici imposti dalle dimensioni della tragedia, non è altro che l’attivazione della procedura, lunga ed eventuale, prevista dalla convenzione di concessione. La firma in calce alla lettera è quella del direttore del servizio di vigilanza sulle concessionarie autostradali, Vincenzo Cinelli. Il quale, fin dal decreto di nomina che è giusto di un anno fa, ha tra i suoi compiti quello di «vigilare sull’adozione da parte dei concessionari dei provvedimenti necessari ai fini della sicurezza».
La strategia di Autostrade, che ha messo in campo tre studi legali (civile, penale e amministrativo) e un consulente per la comunicazione, è chiaramente quella di affidarsi alle verifiche e ai tempi della giustizia. Cioè all’inchiesta penale già partita dove il governo ha detto di volersi costituire parte civile, quando però potrebbe essere tra gli indagati viste le responsabilità ministeriali. «È nostro interesse che la giustizia faccia il suo corso», ha affermato l’ad Castellucci che è sicuramente nella condizione – al contrario di quanto dichiarato dal premier Conte – di poter aspettare i tempi della giustizia. Se il presidente del Consiglio – da curriculum «esperto di diritto contrattuale» – ha spiegato ai colleghi di governo che la revoca può essere ottenuta anche fuori dalla convenzione, e quindi senza la clausola capestro che prevede l’obbligo per lo stato di indennizzare Autostrade per miliardi, del suo ottimismo c’è appena una traccia nella lettera ufficiale. Un inciso in cui il ministero «si fa riserva di esperire tutte le iniziative di tutela apprestate dall’ordinamento giuridico».
L’ipotesi allo studio è che, malgrado la convenzione, possa essere fatto valere l’articolo 1453 del codice civile che disciplina la risoluzione dei contratti per inadempimento (tra gli inadempimenti di Autostrade c’è, oltre a quello da dimostrare di avere tutta la responsabilità del crollo, quello certo di non garantire più il transito). Una causa civile però ha tempi molto più lunghi di quella penale. Ed è alternativa alla costituzione in giudizio come parte civile nel processo penale. Ben attento (e ben consigliato) a non concedere spazi sul versante dell’ammissione delle colpe, l’ad Castellucci ieri ha tenuto a precisare che il mezzo miliardo circa che Autostrade mette a disposizione è «totalmente indipendente da quello che verrà accertato». Malgrado Di Maio abbia subito detto che «lo stato non accetta elemosina», la disponibilità a costruire un altro ponte in acciaio (in otto mesi!) è precisamente quello che alla società è stato chiesto nella lettera del ministero, dove si parla di «iniziative di risarcimento anche in forma specifica».
Il governo intanto ha deciso di stanziare altri 28,5 milioni, prelevati dal fondo per le emergenze nazionali, per le prime necessità legate alla viabilità e all’accoglienza degli sfollati. Lo ha fatto al termine dei funerali di stato, in una riunione lampo del consiglio dei ministri in prefettura a Genova che era stata esclusa appena ieri da Di Maio. Ma che si è resa necessaria su pressione del presidente della regione Toti, visto che i 5 milioni del primo stanziamento erano del tutto insufficienti.
Anche il presidente della camera Fico ha convocato una riunione dei capigruppo a Genova, assai informale perché si sono riuniti i rappresentati dei partiti presenti in città. L’obiettivo era quello, richiesto da giorni dalle opposizioni, di portare il governo a riferire in parlamento oltre che sui social. Parzialmente centrato, visto che il ministro Toninelli ha respinto la richiesta di Pd, LeU, Fratelli d’Italia e Forza Italia di presentarsi subito alla camera, preferendo in questo caso prendersi più tempo «per l’istruttoria». È immaginabile che avrà bisogno di buoni argomenti per rispondere alle domande sulle responsabilità della vigilanza ministeriale, e così riferirà alle commissioni riunite il 27 agosto. E poi all’aula, ma a settembre.
il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2018
AUTOSTRADE, UN CONTRATTO CAPESTRO
C’è qualcosa di osceno nella protervia con cui Autostrade per l’Italia, davanti ai cadaveri, cita contratti e penali. L’idea che una società, miracolata da una concessione statale priva di senso economico e sociale, ricordi che in base ai documenti firmati avrebbe diritto a 20 miliardi di euro anche se venisse provata la sua responsabilità per i morti di Genova è un fatto che scuote le coscienze. Un accordo del genere (oltretutto in parte coperto da segreto di Stato) è un contratto capestro. Chiunque coltivi ancora in sé un minimo senso di giustizia può facilmente capire quale sia la truffa di quella concessione ultra decennale prolungata in tutta fretta.
Secondo il contratto anche in caso di accordo rescisso per colpa grave alla società controllata dalla famiglia Benetton spettano per anni versamenti miliardari. Non abbiamo idea del perché politici di diverso colore nel tempo abbiano accettato tutto questo. Sappiamo però che un accordo del genere autorizza le ipotesi peggiori. Che esulano dalla semplice incapacità e inettitudine di tanti governanti protagonisti dell’affare. Più volte in passato noi e altri giornalisti, a partire dai colleghi di Report, abbiamo denunciato e raccontato lo scandalo di queste concessioni. Ma quelle storie e notizie scomparivano presto dai media. Troppo potenti e ricchi i concessionari dello Stato, troppo importanti gli investimenti pubblicitari dei Benetton, perché editori e direttori ricordassero quale era il loro dovere.
Ora, dopo ridicoli tentativi di occultare la verità prendendosela con i No gronda (contrari a un’opera che quando sarà ultimata non porterà alla chiusura del ponte), la morte e la distruzione si occupano purtroppo di rimettere a posto le cose. Dal 2015 chi lavorava sotto il ponte era costretto a ripararsi dalla caduta di pezzi di ferro con delle reti. Le segnalazioni ad Autostrade erano rimaste senza seguito. E solo pochi mesi fa, con procedura d’urgenza, era stata indetta una gara per le riparazioni di piloni e tiranti. Questo basta per far comprendere che a Genova chi poteva e doveva intervenire non ha voluto farlo per tempo.
Noi non sappiamo come finirà questa storia. Sappiamo però che se vogliono avere ancora diritto di cittadinanza in questo Paese ex ministri, ex premier, ex sottosegretari protagonisti dell’affare e la famiglia Benetton devono presentarsi agli italiani per chiedere con umiltà perdono. Spetta invece al Parlamento il compito di trovare la strada legislativa e di diritto per annullare quella clausola sui soldi da versare ad Autostrade, in tutta evidenza vessatoria per i contribuenti. Sperando che questa volta i servi dei concessionari di Stato presenti in gran numero alla Camera e al Senato trovino la dignità di tacere. E che invece la stampa italiana ancora oggi impegnata in surreali acrobazie per non mettere nei titoli il cognome Benetton, trovi finalmente il coraggio di parlare.
il manifesto, il Fatto Quotidiano, la Repubblica, 18 agosto 2018. Articoli di Andrea Fabozzi, Stefano Feltri, Paolo Griseri. L'avvio dell'iter di revoca e il processo che ha portato alla privatizzazione. Con riferimenti. (m.p.r.)
«Strage di Genova. Il vicepremier Di Maio attacca «azzeccagarbugli e professoroni» che avvertono sui rischi del mancato rispetto delle procedure contro Autostrade per l'Italia, con il pericolo che lo stato debba pagare un indennizzo: «I 39 morti sono una giusta causa». Ma parte «formalmente» la lettera che avvia l'iter della decadenza»
Un’offensiva mediatica a 5 Stelle. Di fronte alle difficoltà della procedura di revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia, annunciata come cosa fatta il giorno dopo la strage di Genova e poi riportata tra le cose da fare, il governo riempie di annunci la vigilia dei funerali di stato. Ma cancella il consiglio dei ministri straordinario che avrebbe dovuto tenersi oggi a Genova per i primi provvedimenti.
In una gara interna all’esecutivo, il ministro delle infrastrutture e trasporti Toninelli brucia di qualche minuto il presidente del Consiglio, e alle 19.30 annuncia su facebook: «Ho una notizia importantissima da darvi». È la stessa già data con una nota stampa la sera prima, giovedì. La «comunicazione formale ad Autostrade per l’Italia chiedendo di far pervenire entro 15 giorni dalla data odierna una dettagliata relazione». L’avvio cioè della procedura di revoca come prevista dalla convenzione del 2007. Una lettera che solo ieri, informa subito dopo il presidente del Consiglio Conte, anche lui su facebook, è stata «formalmente inviata».
Anche i tempi sono indicati nella convenzione, e sono più lunghi di quelli che nel frattempo Salvini ha dato durante un comizio: «Alcune settimane, forse qualche mese». I mesi saranno cinque o sei. A meno che «il fatto non costituisca reato», e forse su questo inciso dell’articolo 7 lettera d) della convenzione che il governo intende far leva. Serve però una sentenza, servono «i tempi della giustizia». L’avvocato Giuseppe Conte, che ha detto di non poterli aspettare, scrive dunque che «il disastro è un fatto oggettivo e inoppugnabile e l’onere di prevenirlo era in capo al concessionario». Di Maio traduce: «La giusta causa per la revoca – scrive ai parlamentari M5S – non è da rintracciare in codicilli o commi da azzeccagarbugli, la giusta causa sono i 39 morti. E ogni volta che qualcuno come Consob o qualche professorone ci dirà che dobbiamo stare attenti ai mercati e agli iter burocratici, rispondetegli che se vogliono possono andarlo a dire alle famiglie delle vittime».
È evidente l’inseguimento nei toni alla comunicazione di Salvini. Nella sostanza il rispetto dell’iter burocratico è una garanzia che la procedura di revoca possa andare a buon segno. Evitando che si trasformi in un boomerang per lo stato, costretto a pagare penali. E non è da trascurare l’avvertimento dell’amministrativista Clarich, che ieri sul Sole 24 ore ricordava che la giustizia contabile può agire contro gli amministratori pubblici nel caso di danni all’erario. Ragionamenti da «professorone», secondo il lessico che Di Maio copia in questo caso a Renzi.
L’aggiotaggio invece non è un capriccio della Consob ma un reato previsto dal codice penale. Ieri in borsa la quotazione di Atlantia ha fatto ancora una volta su e giù al ritmo delle dichiarazioni dei ministri, chiudendo con un piccolo rimbalzo (+5,6%) dopo il tonfo di giovedì (-22%). Prima però degli annunci serali di Toninelli, Conte e Di Maio. Annunci accompagnati da impegni per i prossimi mesi, anzitutto «desecretare tutti i contratti dei concessionari autostradali», Di Maio lo ripete da tre giorni; di segreto ci sono alcuni allegati. Conte promette che sarà rafforzato il servizio ispettivo del ministero dei trasporti, impegno sacrosanto ma contraddittorio per chi ha già dato tutta la responsabilità dei mancati controlli ad Autostrade. Conte deve però constatare che «purtroppo arriviamo al governo un po’ tardi» e i contratti non si possono rivedere. «Man mano che scadono imposteremo queste operazioni sulla base di nuovi principi», peccato però che i principali contratti scadranno nel 2030, 2042 e 2050. Poi assicura che «d’ora in avanti tutti i concessionari saranno vincolati a reinvestire buona parte degli utili nell’ammodernamento delle infrastrutture». Sacrosanto, ma non è chiaro come.
Poi è Di Maio, non Conte, a scrivere che «se servirà» il Consiglio dei ministri (non oggi) farà un decreto legge speciale per Genova e la Liguria. Il vicepremier aggiunge un nuovo attacco al Pd anche se, non avendo trovato le prove, non insiste sui finanziamenti di Benetton al partito. «Molti dei personaggi politici che hanno permesso tutto questo oggi o lavorano per Autostrade per l’Italia o sono loro consulenti». Fa un solo nome «uno su tutti, Enrico Letta è passato per il cda delle autostrade spagnole comprate dai Benetton». Ieri lo aveva scritto questo giornale, alla disperata ricerca di appigli per le accuse del vicepremier, trascurando di precisare che Letta si è dimesso a maggio dal cda di Abertis.
L’operazione Atlantia-Abertis non è ancora perfezionata e non è escluso che, adesso, per il gruppo italiano sarà più difficile fronteggiare l’indebitamento necessario a concluderla.
il Fatto Quotidiano
COSÌ LA POLITICA HA REGALATO LE AUTOSTRADE AI BENETTON
Ancora in questi giorni qualcuno prova a spacciare quella di Autostrade per l’Italia come una storia economica, perfino imprenditoriale. Non è così, è una vicenda tutta politica, anzi, di un establishment ristretto che ha avuto tutti i ruoli nella vicenda. Gian Maria Gros Pietro e Pietro Ciucci sono il presidente e il direttore dell’Iri, la holding pubblica delle partecipazioni, che nel 1999 vendono la quota di controllo delle Autostrade di Stato alla società della famiglia Benetton. Pochi anni dopo li ritroviamo come presidente delle Autostrade privatizzate (Gros Pietro) e presidente dell’Anas (Ciucci), cioè della società pubblica che affida le strade in concessione ai privati. Enrico Letta era sottosegretario nel governo Prodi che nel 2006 – su iniziativa del ministro Antonio Di Pietro – bloccò la fusione tra Autostrade e la spagnola Abertis, oggi è nel consiglio di amministrazione di Abertis, entrato un attimo prima che ripartisse, nel 2017, il progetto di fusione.
Con la parziale eccezione del governo Monti, ogni esecutivo degli ultimi 25 anni ha fatto di tutto per consegnare a una famiglia – nota per il suo abbigliamento democratico e per le campagne fotografiche di Oliviero Toscani – la più grande rendita pubblica, quella della gestione di autostrade costruite con fondi pubblici. Dalla cessione di Autostrade l’Iri incassa 7 miliardi circa. Nel 2002 i Benetton salgono dal 30 a oltre il 60 per cento: si indebitano per 7 miliardi che poi scaricano subito sulla società, fondendo il veicolo finanziario con Autostrade. Tradotto: non gli costa un euro. I Benetton non hanno mai fatto aumenti di capitale, non hanno mai immesso risorse fresche nell’azienda e questo rende difficile classificarli come imprenditori. Eppure il valore è cresciuto. Nonostante il titolo sia sceso del 22 per cento dopo il disastro di Genova, oggi Atlantia (il gruppo che contiene Autostrade) vale in Borsa ancora 15 miliardi, il doppio di quello che lo Stato incassò 25 anni fa.
La spiegazione si trova in un libro che ha avuto una circolazione semiclandestina, I signori delle autostrade (Il Mulino), dell’economista Giorgio Ragazzi, collaboratore del Fatto. Scrive Ragazzi: “Ripensando alla privatizzazione, si può immaginare perché fosse stato difficile trovare investitori disposti a pagare un prezzo elevato per la Autostrade, gli investitori, soprattutto quelli esteri, percepivano il rischio che lo Stato avrebbe potuto essere poco accondiscendente in futuro, nella determinazione delle tariffe”. Quel rischio i Benetton lo hanno disinnescato in modi che sarebbero stati impossibili per un investitore straniero. Hanno presidiato quell’intreccio di scambi ricambiati che è stato nobilitato dall’etichetta di “capitalismo di relazione”.
La prova è a disposizione di tutti: controllate quanti giornali hanno scritto del più grave incidente stradale della storia d’Italia, 40 persone muoiono per un bus che finisce fuori strada vicino ad Avellino. Finiscono a processo con varie accuse tra cui l’omicidio colposo plurimo vari dirigenti di Autostrade, incluso l’amministratore delegato di Atlantia Giovanni Castellucci. I grandi giornali ignorano la vicenda, ci sono più articoli sulle dichiarazioni di rito dei politici dopo la strage che di cronaca giudiziaria sul processo.
Le Autostrade hanno finanziato per anni i politici, poi sono passate a metodi più indiretti, dal sostegno a varie iniziative politiche o editoriali (non mancano mai come sponsor a iniziative sulla sicurezza o festival editoriali: i soldi sono graditi a tutti). Il loro soft power ottiene come risultato una sorta di mimetismo: nessuno sovrappone le campagne dei Benetton (l’ultima sui migranti) al capitalismo della rendita di cui sono protagonisti; il responsabile delle relazioni istituzionali Francesco Delzio fa l’editorialista di Avvenire dove spesso denuncia lo strapotere delle lobby, le associazioni dei consumatori invece di protestare per i rincari sono coinvolte dall’azienda in una “Consulta per la Sicurezza e la Qualità del Servizio” così vengono sedate. E da 25 anni, come ricostruiamo qui accanto, Atlantia e i Benetton ottengono rincari e leggi su misura senza che (quasi) nessuno protesti. Salassi accolti come calamità naturali. Almeno fino ai 38 morti di Genova.
la Repubblica
BLITZ, PRESSIONI E FAVORI
Una lunga storia di blitz e pressioni, con un obiettivo principale: ridurre al minimo i bandi di gara. In sostanza trasferire il più possibile dal pubblico al privato il monopolio sulle autostrade che lo Stato aveva realizzato e gestito in proprio fino al 1999. In quasi vent'anni il sistema delle concessioni ha finito per rovesciare il rapporto fisiologico tra il proprietario di un'opera e chi ottiene il diritto allo sfruttamento. Con il secondo in grado (non sempre ma spesso) di dettare legge. Come se l’inquilino imponesse le sue condizioni al padrone di casa.
Ricordiamo un articolo del 2016 ripreso da eddyburg.it "Benetton, nelle carte segretate l’autostrada dalle uova d’oro" su come le concessioni autostradali siano sono state fonte inesauribile di trasferimento di ricchezza dai contribuenti alle società private.
Internazionale, 3 agosto 2018. E' l'emblema del turismo di massa e del conflitto tra turisti e abitanti, sul quale si stanno concentrando molte critiche. Un suo controllo è certamente indispensabile, ma non è l'unico aspetto da rivedere se non si vuole lasciare le città in balia della turistificazione. (i.b.)
Svegliarsi in un appartamento affittato su Airbnb può dare un senso di smarrimento. Dove siete? L’acciaio satinato, le lampadine a vista, l’arredamento anni cinquanta. Le pareti vivaci e la libreria (una guida per padroni di casa raccomanda di aumentare “la personalità, non gli oggetti personali”). La cartina plastificata del quartiere, l’inglese non impeccabile e infarcito di punti esclamativi. Il wi-fi eccellente. Potreste essere a Lisbona, ma forse siete a San Pietroburgo.
La rivista online The Verge descrive l’estetica di Airbnb come l’“allucinazione della normalità”, una frase presa in prestito dall’architetto olandese Rem Koolhaas. È per questo che può anche offrire al viaggiatore stanco l’impressione di una casa autentica.
Non tutti gli europei la pensano allo stesso modo. Quest’anno i visitatori che si preparano alla stagione delle vacanze potrebbero ricevere uno spiacevole benvenuto. Le proteste contro i turisti sono diventate, in alcune città, un rituale estivo. Nell’agosto 2017 duecento abitanti hanno occupato una spiaggia di Barcellona per dire ai visitatori di sloggiare (o perlomeno di alloggiare in albergo).
In varie città è emerso un genere di protesta ricorrente. I viaggiatori che usano Airbnb stravolgono alcuni quartieri e fanno arrabbiare i residenti. Gli alimentari e le biblioteche sono stati trasformati in caffè tutti uguali tra loro e in negozi di affitto delle biciclette per turisti. Mano a mano che gli affitti di case colonizzano nuove zone, gli abitanti vengono cacciati via (il 18 per cento degli alloggi nel centro di Firenze è affittato su Airbnb, secondo uno studio). Gli “oligarchi” di Airbnb accumulano alloggi e profitti. Mercati immobiliari già di per sé saturi come Amsterdam sono ulteriormente soffocati quando i proprietari ritirano dalla vendita o dall’affitto a lungo termine le loro case, riservandole ai turisti.
Non tutte queste affermazioni riguardano Airbnb, che però incanala più di tutti le paure delle città europee che si sentono assediate dal turismo di massa, e i politici hanno cominciato ad accorgersene. Nel 2015 Barcellona ha eletto una sindaca di sinistra che ha promesso di mettere un freno agli eccessi del turismo. Ha cominciato con Airbnb, multandola per aver messo in affitto proprietà immobiliari non registrate.
Se Uber è stato l’enfant terrible dell’economia della condivisione, Airbnb, che il prossimo mese festeggia il suo decimo anniversario, si è comportato come il suo fratello maggiore e più discreto. Uber ha predicato (e praticato) il cambiamento radicale e il caos, e ha generalmente perso la sua battaglia con le autorità in Europa. Ma Airbnb ha raccontato una storia più accettabile, parlando di turisti che rinunciavano all’anonimato degli alberghi a favore dell’autenticità dei quartieri oppure di padroni di casa che ricavavano qualche euro dai loro spazi vuoti.
L’improvvisata indagine effettuata su Facebook da parte di chi scrive ha rivelato un sorprendente grado di apprezzamento per Airbnb da parte sia dei padroni di casa sia dei visitatori.
Ma anche se la rivolta è iniziata negli Stati Uniti, dove è nato Airbnb, oggi è più forte in Europa, il suo principale mercato. Da Amsterdam a Berlino, passando per Madrid, le autorità cittadine stanno inasprendo le regole, limitando il numero di giorni nei quali un appartamento può essere affittato e comminando multe ai trasgressori.
Parigi, il gioiello europeo nella corona di Airbnb, gli ha fatto causa per non aver rimosso gli appartamenti non registrati dal suo sito (anche New York ha imposto l’obbligo di registrazione). La Commissione europea ha generalmente esitato a prendere posizione. Ma ha ordinato a Airbnb di rendere alcune delle sue tariffe più trasparenti minacciando azioni legali.
In parte si tratta di problemi che emergono quando le vecchie regole si scontrano con lo sviluppo di un’innovazione. Perfino il principale nemico di Airbnb, quel settore alberghiero gettato nello scompiglio dalla sua nascita, non ne auspica la scomparsa (almeno non in pubblico). Alcuni eccessi di severità da parte delle autorità si sono già ammorbiditi. Berlino, per esempio, non vieta più l’affitto di appartamenti su Airbnb tout court. Le autorità di Amsterdam hanno dichiarato che i loro limiti agli affitti hanno ridotto il numero di alberghi illegali in città.
Nuovi mercati
Regole più dure non sembrano aver messo in ginocchio Airbnb, almeno a giudicare dalle offerte presenti sul suo sito. Le città europee hanno un posto importante nella sua più recente lista di destinazioni “alla moda”. Eppure per alimentare ulteriormente la crescita nei prossimi due anni, che si annunciano incerti, dovrà esplorare nuovi mercati, per esempio quello dei viaggi di lavoro. Airbnb permette già ai suoi padroni di casa di vendere “esperienze” (cose come la cerimonia di vestizione del kimono oppure corsi di fotografia tradizionale). Una presenza più forte potrebbe portare a tensioni con i residenti.
Eppure sarebbe ingiusto accusare questa piattaforma di tutti i difetti del turismo di massa. Al contrario delle orde di turisti in crociera che hanno reso insopportabili il centro di Venezia e Dubrovnik, gli utenti di Airbnb rimangono, per definizione, in città. Ci sono alcune prove del fatto che Airbnb favorisca nuovi viaggi o perlomeno che allunghi quelli esistenti, il che suggerisce che i turisti spendano denaro che altrimenti sarebbe rimasto nel loro luogo di residenza.
Gli abitanti di città dell’Europa orientale come Varsavia e Zagabria sostengono che i visitatori di Airbnb migliorano gli standard della permanenza e alimentano un clima di amicizia. E per ogni viaggiatore consumato secondo cui Airbnb ha perso la sua vera anima, altri dieci apprezzano la varietà di scelta, la convenienza e la concorrenza che esso fornisce.
“I grandi alberghi sono sempre stati degli specchi delle società in cui operano”, ha scritto Joan Didion. Airbnb evidenzia una stranezza della nostra epoca, in cui il desiderio di autenticità può danneggiare proprio quegli abitanti del posto che in teoria dovrebbero fornirla. Forse una stretta delle autorità potrebbe riportare Airbnb alle origini, quelle di un servizio di affitto di spazi vuoti in casa, come vorrebbero molti funzionari europei. Chi scrive è tra quanti hanno deciso di rinunciare al surrogato di autenticità di Airbnb, preferendogli alberghi che non aspirano a essere altro rispetto a quello che sono.
Traduzione di Federico Ferrone da settimanale britannico The Economist.
Il 2017 è stato l'anno più luttuoso per l'attivismo in difesa dell'ambiente e della terra di comunità locali contro le espulsioni e lo sfruttamento delle grandi corporazioni, gruppi paramilitari e governi. Sono almeno 207 gli attivisti uccisi l'anno scorso, nella maggior parte associabili alle lotte contro l'agribusiness del caffè, olio di palma e piantagioni di banane. Non solo in Colombia, Filippine e Brazile, ma in tutto il mondo, è sempre più pericoloso mettersi contro i poteri dell'economia globale.
comune-info.net, 19 luglio 2018. Un atto d'accusa di Zanotelli contro Salvini e l'atavico razzismo italiano contro i Rom e Sinti, i popoli più maltrattati d'Europa. Per non rassegnarci a diventare barbari. (a.d.)
Non possiamo accettare questo razzismo di Stato così ben incarnato dal ministro degli interni, Matteo Salvini, contro i migranti. Ma Salvini si è scagliato con altrettanta forza contro i rom, che diventano il capro espiatorio per eccellenza. Le affermazioni del ministro a questo riguardo fanno veramente paura: ”Facciamo una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti sono, ripetendo quello che fu definito il censimento”. E poi, come noto, ha aggiunto qualcosa di ancora più pesante: “Sto facendo preparare un dossier al Viminale sulla questione dei rom. Quelli che possiamo espellere, facendo degli accordi con gli Stati, li espelleremo. Gli altri purtroppo ce li dobbiamo tenere”.
Sono parole pesanti dette da un ministro degli interni, parole razziste che ci riportano ai tempi del nazi-fascismo. L’onda nera della xenofobia e del razzismo che sta dilagando in Europa ha invaso ora anche il nostro paese. È mai possibile che ci sentiamo minacciati dai rom che non hanno mai avuto né una patria, né un esercito, né hanno mai fatto una guerra? In Italia sono circa 180.000 i rom residenti, dei quali solo 26.000 potrebbero essere espulsi perché non italiani e neppure comunitari.
Eppure Salvini, come ha fatto con i migranti, passerà dalle parole ai fatti mandando, come ha promesso, i bulldozer contro i campi rom. Siamo davanti a una “pulizia etnica”? “Capro espiatorio da secoli fino allo sterminio razzista del secolo scorso – afferma monsignor Nosiglia, arcivescovo di Torino – i rom e i sinti rivelano la disumanità di una convivenza, la nostra, che vuol dirsi civile, ma lascia nella miseria più nera e nell’emarginazione più amara’, figli del popolo più giovane d’Europa”.
Ho potuto toccare con mano in questi anni a Napoli quanto questo popolo viva nella “miseria più nera” e nell’emarginazione più amara. Solo nelle baraccopoli d’Africa, dove sono vissuto a lungo, ho trovato un tale degrado come l’ho trovato nei campi rom della metropoli campana. Per questo appena arrivato a Napoli, ho sposato la loro causa, insieme a padre Domenico Pizzuti, con il comitato campano con i rom perché sono gli ‘ultimi’ della società. Ho fatto mia la loro sofferenza ed emarginazione. Ho toccato con mano il razzismo nei loro confronti soprattutto nell’incendio dei campi rom di Ponticelli (scene vergognose!) e poi nelle minacce e insulti contro il campo rom di Via del Riposo da dove un centinaio di loro sono dovuti fuggire.
Tanti gli incendi dolosi come nell’insediamento di Viale Maddalena e di Casoria. Sono rimasto scioccato dallo sgombero, ordinato dalla Procura di Napoli, del campo di Gianturco, nel cuore di Napoli, dove vivevano oltre 1.300 rom, senza offrire loro un’alternativa. Abbiamo seguito poi il calvario di un gruppo di 250 di loro che hanno trovato rifugio nell’ex-Manifattura Tabacchi. Sgomberati da lì hanno trovato uno spazio nell’ex-Mercato Ortofrutticolo da dove oggi sono nuovamente minacciati di essere cacciati.
Stessa tragedia con i rom di Cupa Perillo a Scampia il cui campo è stato distrutto da un incendio doloso . Dopo tante dimostrazioni e proteste, dopo tante promesse del Comune, i rom di Cupa Perillo non hanno ancora trovato una soluzione. E ancora più drammatica per me è stata l’odissea dei rom di Giugliano: si tratta di oltre un migliaio di persone fuggite dalla guerra di Jugoslavia. Sono stati sgomberati dal loro insediamento dalla Procura di Napoli senza un’alternativa. Per anni hanno soggiornato per le campagne in uno squallore unico. Alla fine il Comune li ha posti nella zona ex-Resit, piena di rifiuti tossici! (Tanti deputati e senatori che hanno visitato quel luogo sono rimasti inorriditi, ma nessuno ha dato una mano!). Alla fine, il Comune li ha ricollocati in una conca fangosa e maleodorante indegna perfino per gli animali. E sono ancora lì. La tragica storia dei rom di Giugliano merita di essere portata in tribunale. La risposta a questa drammatica storia dei rom non può essere quella di Salvini, quella delle ruspe, dell’espulsione, ma quella di un serio esame di coscienza di come abbiamo trattato questo popolo, ma poi di serie politiche di inclusione, per far uscire questo popolo dalla miseria e dall’emarginazione.
Dobbiamo prima di tutto rimettere in discussione un razzismo atavico contro i rom che abbiamo tutti interiorizzato da secoli ed ora è cavalcato così abilmente da Salvini. Eppure il ministro degli interni ha giurato sulla Costituzione che obbliga lo Stato repubblicano a riconoscere e a garantire i diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2). Non dimentichiamo che le politiche contro i rom sono state uno dei pilastri del fascismo. Per questo la senatrice Liliana Segre, che ha visto tanti rom cremati ad Aushwitz, nel suo primo intervento in Senato, ha detto che sarà sua priorità la difesa della minoranza rom in quanto è compito di ogni persona far sentire la propria voce per fermare questa onda nera che minaccia di travolgerci tutti. È compito di tutti noi alzare la voce in difesa degli ultimi della nostra società in questo preciso momento in cui il razzismo della gente contro i rom è diventato razzismo di Stato.
Repubblica Ed. Roma, 24 luglio 2018. La deriva xenofoba della sindaca di Roma, che ben interpreta quello che sembra essere diventato un razzismo di stato. (a.b.)
Con un Ordinanza della sindaca Virginia Raggi del 13 luglio scorso l'amministrazione romana aveva predisposto lo sgombro di circa 350 persone rom, tra cui 150 bambini, residenti da 13 anni all’interno del Camping River di Roma. Questo è l'ultimo di una serie di provvedimenti presi dall'amministrazione che violano i diritti umani. Il 22 giugno scorso sono state distrutte 50 unità abitative, obbligando gli abitanti a sistemarsi alla belle e meglio all' aperto e senza l'accesso a servizi primari come acqua e servizi igienici. Erano state precedentemente offerte agli abitanti soluzioni alternative, ma economicamente impraticabili o imponendo tempi troppo ridotti.
L'associazione 21 luglio, ha lanciato il 18 luglio scorso un appello e sostenuto l'azione di ricorso di tre abitanti, che ha sortito l'intervento della Corte Europea dei diritti dell'uomo, che ha sollecitato il Governo Italiano a sospendere lo sgombro sino al 27 luglio e nel frattempo a presentare misure alternative. (a.b.)
La decisione della Corte è giunta in seguito al ricorso presentato da tre abitanti del campo supportati dall'associazione 21 luglio. La corte "ha deciso nell'interesse della parti e del corretto svolgimento del procedimento dinnanzi ad essa, di indicare al governo italiano, a norma dell'articolo 39 di sospendere lo sgombero previsto fino a venerdì 27 luglio 2018" e, nell'attesa, ha chiesto al governo italiano di indicare nelle prossime ore le misure alloggiative previste per i richiedenti, la data prevista per lo sgombero esecutivo e qualsiasi sviluppo significativo dello sgombero del Camping River.
Il Campidoglio ha offerto ai residenti del Camping River che si fossero presentati con un regolare contratto di locazione, un contributo mensile di 800 euro per l'affitto per la durata di due anni. Ma, sostanzialmente, nessun locatore si è rivelato disposto ad affittare a nuclei familiari ampi, spesso composti da disoccupati e nullatenenti. Altra soluzione proposta è stata il rimpatrio volontario nei Paesi di origine, dietro pagamento di una somma fino a 3 mila euro, formula accettata da appena 14 persone nel campo. Mentre nei casi di famiglie con minorenni sono state offerte soluzioni di accoglienza per le madri con i figli, a costo però di separare i nuclei familiari.
A prescindere dalle operazioni di sgombero di domani la questione rom nella Capitale sembra destinata a tenere banco per tutta l'estate, nonostante si tratti di un tema che riguarda 4500 persone, tante ne ha censite il Campidoglio all'inizio dello scorso anno, e che anche contando sacche di irregolari non sembra arrivare nemmeno al doppio delle persone. Proprio per parlare della situazione domani è atteso l'incontro tra la sindaca e il ministro dell'Interno Matteo Salvini, che ha confermato la sua intenzione di "arrivare a zero campi rom, con le buone maniere, educatamente, rispettosamente, ma arrivare a quota zero". Il vicepremier ha anche definito la situazione dei rom nella Capitale "un casino totale".
Quella di oggi "è una vittoria pratica ma soprattutto politica. Questa risposta della Corte Europea di Strasburgo dice che il piano rom della giunta Raggi e nello specifico il Camping River, sta violando i diritti umani. Inizia oggi un contenzioso e vedremo dove ci porterà" dichiara il presidente dell'associazione 21 luglio, Carlo Stasolla, che oggi si recherà in Campidoglio per consegnare alla segreteria della sindaca Raggi la risposta della corte di Strasburgo e le centinaia di firme raccolte per chiedere la sospensione dello sgombero. "Ora Roma Capitale - ha aggiunto Stasolla - dovrà spiegare alla corte in poche ore, visto che la scadenza è domani alle 12, quale sarà la soluzione abitativa per queste persone".
Nell'attesa del vertice di domattina, intanto, oggi alle 15.30, una delegazione di Associazione 21 luglio si recherà in Campidoglio per consegnare, presso la segreteria della Raggi, la risposta della Corte e le centinaia di firme raccolte in questi giorni nella mobilitazione on line organizzata per chiedere la sospensione delle azioni di sgombero.
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.
Ispra ambiente, 17 luglio 2018. E’ uscito il rapporto ISPRA 2018 sul consumo di suolo. Il documento ci informa sul fenomeno attraverso dati e una serie di approfondimenti, dedicati a casi e temi particolari, predisposti da ricercatori delle università e delle istituzioni locali. Con riferimenti (m.b.)
Il rapporto, pubblicato con cadenza annule, da cinque anni, offre un panorama completo e dettagliato dove, volendo, si possono trovare tutte le informazioni che servono per decidere. E qui sta il punto. Quanto tempo occorre per decidere, e che cosa vogliamo fare? Della legge sul consumo di suolo si discute da più di un lustro, e questo problema fu sollevato pubblicamente - anche grazie al contributo di eddyburg - da più di un decennio. Qui un articolo "Eddyburg e le norme del consumo di suolo" che riassume le posizioni e le proposte di eddyburg sulla questione.
Finora il Parlamento ha scelto di non decidere nulla e, di fatto, ha lasciato l’iniziativa alle regioni. Ma se anche si approvasse il disegno di legge attualmente in discussione (ci riferiamo alla proposta a firma di quattro illustri esponenti di Liberi e uguali: Loredana De Petris, Vasco Errani, Pietro Grasso e Francesco Laforgia) nulla cambierebbe, per le ragioni che abbiamo ampiamente spiegato, per esempio nell'articolo "Vogliamo fermare davvero il consumo del suolo" di Vezio de Lucia.
Vogliamo invece portare l'attenzione su una proposta di legge seria "Norme per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati" del 31 gennaio 2018, promossa dal Forum Salviamo il paesaggio, con la quale si potrebbe davvero salvare ancora qualche pezzo del territorio italiano. Vi rimandiamo all'articolo recentemente pubblicato "La legge di iniziativa popolare per arrestare il consumo di suolo" di Vezio De Lucia e Edoardo Salzano.
Qui il link al rapporto dell'ISPRA.
il Manifesto, 8 luglio 2018. Chiunque vive a Kibera viene ancora considerato un abusivo. Molto conveniente in quanto permette di sfrattare gli abitanti per fare posto alle infrastrutture e case per una città di "prima classe". Con commento (i.b.)
La Costituzione del Kenya del 2010, una delle più avanzate costituzioni sinora redatte nel mondo, sancisce il diritto alla casa come uno strumento per l'implementazione dei diritti socio-economici. Si pensava che questo avrebbe facilitato il riconoscimento dei quartieri informali e finalmente e definitivamente fermato gli sfratti di migliaia di persone da quartieri come Kibera.
Ma il neoliberalismo e voglia di modernità non si fermano neanche davanti alla costituzione. Kibera è troppo vicina al centro della città per lasciarla abitare dai poveri, e allora si invoca l'abusivismo, l'occupazione illecita di suolo pubblico. A Nairobi gli abitanti abusivi rappresentano ancora la stragrande maggioranza della popolazione, ma occupano uno spazio assai risicato della superficie della città. Fintanto che si trovano ai margini e in terre che non interessano alla speculazione i loro diritti vengono rispettati, ma se si trovano su suolo appetibile anche la Costituzione viene ignorata.
Vi rimando ad alcune pagine di diario che ho tenuto nel 2010, quando sono stata a Nairobi per condurre il lavoro sul campo della mia tesi di dottorato: "La Nairobi che ricordavo" e "Nairobi città divisa".
Per coloro invece che preferisco un testo scientifico e in inglese vi rimando a un articolo scritto nel 2015: "Production of Hegemony and Production of Space in Nairobi". (i.b.)
A Nairobi lo slum di Kibera sotto sfratto. Un’altra volta
di Fabrizio Floris
Per gli abitanti della grande baraccopoli di Kibera a Nairobi si torna a parlare di sfratto. L’avviso è stato affisso mercoledì e dà ai residenti 12 giorni di tempo per liberare lo spazio per la costruzione della Kibera-Kungu-Lang’ata, una strada che dovrebbe alleggerire il traffico sull’affollatissima Ngong Road.
Secondo il responsabile del settore infrastrutture Nyakongora, «sono presenti strutture illegali che devono essere rimosse. Pertanto abbiamo dato il preavviso dopodiché procederemo con la rimozione coatta».
Già all’inizio di giugno centinaia di famiglie sempre di Kibera sono rimaste senza casa per la costruzione della ferrovia. Può sembrare una questione semplice e lineare: c’è da costruire un’infrastruttura utile una strada o una ferrovia, un bene pubblico, che deve avere la priorità su interessi «privati», quindi deve avere spazio; inoltre in tale spazio c’è chi ha edificato abusivamente quindi non può avere nulla da eccepire. Ma non è così semplice.
In primis si tratta di abitazioni, ma dove non c’è una divisione tra spazio domestico e luogo di lavoro, nelle case si cuce, si produce, si cucina, lo spazio adiacente è il luogo di vendita: con la demolizione non si priva solo la gente della casa, ma anche del lavoro.
Secondo, non è l’abusivismo «italiano»: qui le persone sono arrivate prima delle infrastrutture. Kibera deriva da kibra che in arabo significa foresta: il terreno su cui sorge venne consegnato dall’esercito inglese ai Nuba che avevano servito la corona britannica.
Gli African King’s Rifles ricevettero agli inizi del secolo scorso i 250 ettari di terra dove vivono oggi i circa 800mila abitanti di Kibera, ma tuttora i certificati di proprietà sono incerti: nell’Africa orientale e in generale in tutta l’Africa subsahariana, nonostante le rilevanti differenze esistenti tra le popolazioni, la proprietà della terra si basava sul concetto di proprietà comune. Inoltre, nel periodo coloniale non era permesso agli africani di essere proprietari di terreni né di costruire case.
Nelle città gli africani non potevano essere proprietari dell’abitazione così che una volta terminato il periodo di lavoro si fosse sicuri che sarebbero ritornati al villaggio. I residenti in città potevano possedere un permesso di occupazione del suolo per un tempo definito, un permesso di abitazione revocabile in ogni momento non trasferibile o ereditabile con cui era possibile costruire con materiale non permanente.
Nacquero così gli speciali «insediamenti indigeni», diventati oggi gli slums. Con la fine dell’epoca coloniale c’è stata una fortissima pressione migratoria verso le città perché lì tutti gli investimenti pubblici si sono concentrati puntando sulla presunta vocazione industriale dell’Africa
Sono arrivate migliaia di persone, senza un posto di lavoro ad attenderle; sono nate città che nel loro perimetro hanno case di fango e grattacieli, campi da golf e interi quartieri senza una pianta, buchi per le strade, nei bilanci, nei canali fognari e negli acquedotti, nelle mani dei donatori internazionali e nelle vene dei malati di Aids così come nella cultura: incapace di creare una sintesi tra istanze differenti.
Ma il «buco» più vistoso è nella storia. Si è pensato di far crescere questa città, modificarne cultura e tradizioni come un bambino che tira una pianta per farla crescere più in fretta. La terra, la sua distribuzione, la proprietà, la città di diritto e la città di fatto sono rimaste un nodo psicologico ed economico che impedisce alla vita di scorrere.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
La città invisibile, 12 luglio 2018. Un altro servizio per il consumatore globale, e un altro passo verso la trasformazione di Firenze da città a Mall. (i.b.)
Firenze. Cinquantotto corse dirette collegano giornalmente la stazione ferroviaria di Santa Maria Novella con il centro commerciale The Mall, il «luxury outlet» (nel comune di Reggello) che conta più di due milioni e mezzo di visitatori l’anno.
Il servizio è garantito da due società di trasporti, che operano in concorrenza. L’una (più o meno) pubblica: BuSitalia Sita Nord (del gruppo FS). L’altra privata: Firenzi Servizi. Sì, avete letto bene: Firenzi. Un bel gioco di rimandi: Fi come Firenze, Renzi come Renzi. Un’assonanza (del tutto casuale, ci mancherebbe) che riporta alla mente le indagini giudiziarie che vedono coinvolti i Renzi, genitori di Matteo da Rignano, in una vicenda di fatture false, inerenti proprio al centro dell’outlet di lusso, nato sotto le insegne di Gucci.
Vediamo da vicino le due “offerte” ai plotoni di turisti, pazzi per il made in Italy.
1) La società del gruppo Ferrovie dello Stato, BuSitalia – attiva anche nel turistico City Sightseeing con bus rossi a due piani – impiega, esclusivamente per la tratta in questione, quale «servizio a mercato», una flotta di pullman neri col logo del Mall a caratteri cubitali. Propaganda su gomma. Dal canto suo, Trenitalia fornisce, sul sito ufficiale, il “servizio integrato” di vendita del biglietto (7 euro) unitamente a tratta ferroviaria. 17 corse al giorno in andata e 19 di ritorno. Nell’orario estivo si contano 36 corse in totale dalla stazione Santa Maria Novella a quella “Firenze The Mall” (così nel sito di Trenitalia). La fermata Firenze The Mall è in località Leccio, a due chilometri e mezzo dalla stazione ferroviaria di Rignano sull’Arno. Poteva dunque bastare una navetta. E invece si è preferito investire nell’acquisto di pullman lussuosi, «al top dell’offerta nella categoria in termini di comfort». Così nel febbraio 2016 BuSitalia Sita Nord acquista – per lo svolgimento di questo servizio – cinque mezzi Setra, 14 metri, due piani, 84 posti a sedere, «tetto panoramico». Costo totale 2,2 milioni di euro.
2) L’offerta ad uso esclusivo degli shopping tourists è raddoppiata dalla Firenzi Servizi S.r.l., «da anni nel settore trasporto di persone», al servizio dei «moderni touristic trend». Dal gennaio 2016 il servizio è attivo, autorizzato dalla Città Metropolitana presieduta da Dario Nardella, sindaco di Firenze. Gli autobus sono bianchi, privi stavolta del logo, ma con esplicite iscrizioni sulle fiancate, in inglese, giapponese e cinese. 22 corse in totale (biglietto a 5 euro, 2 in meno del servizio “pubblico”) partono e arrivano a piazzale Montelungo, a 100 m dalla stazione di SMN dove gruppi di giovani hostess propongono, sorridenti, un viaggio che promette sicura soddisfazione ai fanatici dell’acquisto. La Firenzi offre anche un servizio navetta che recupera i più pigri direttamente in albergo.
Un impeccabile – e iperdimensionato – servizio al consumatore globale. Un altro passo verso la trasformazione della città in un gigantesco centro commerciale, la cupola brunelleschiana ridotta a immagine pubblicitaria al centro di una rete di terminal del consumo, dai Gigli al the Mall. E un’insostenibile aggiunta di carico per una città già asfissiata dal traffico su gomma e dai pulmann a servizio del turismo globale.
Per i “cittadini” vale sempre di più il vecchio detto: Lavora Consuma Crepa.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
Greeenreport.it, 6 luglio 2018. Le regioni non possono sminuire l’efficacia anche deterrente del regime sanzionatorio dettato dallo Stato. La Campania ci ha provato, ma la Corte l'ha censurata. (m.b.)
Con la sentenza N. 140/18 depositata ieri (si può scaricare qui, nella pagina delle notizie del sito regioni.it - ndr), la Corte Costituzionale stabilisce che «Gli immobili abusivi, una volta entrati nel patrimonio dei comuni, devono essere demoliti e solo in via eccezionale, attraverso una valutazione caso per caso, possono essere conservati». Una sentenza che «Alla luce di questo principio fondamentale del “governo del territorio”, contenuto nel Testo unico sull’edilizia, ha dichiarato «incostituzionali le disposizioni della legge della Regione Campania n.19/2017 sulla conservazione degli immobili abusivi acquisiti al patrimonio dei comuni, là dove consentivano ai comuni stessi di non demolire questi immobili – in particolare locandoli o alienandoli anche ai responsabili degli abusi – senza attenersi al principio fondamentale del Testo Unico sull’edilizia».
Infatti, secondo la Corte, «Il legislatore statale, “in considerazione della gravità del pregiudizio recato all’interesse pubblico” dagli abusi urbanistico-edilizi, ne ha imposto la rimozione – con il conseguente ripristino dell’ordinato assetto del territorio – “in modo uniforme in tutte le Regioni”. Quanto alla possibilità di locare o alienare gli immobili acquisiti al patrimonio comunale a seguito dell’inottemperanza all’ordine di demolizione – qualunque sia il soggetto destinatario (occupante per necessità oppure no) –, l’articolo 2, comma 2, della legge Campania n. 19/2017 la rendeva un “esito normale”, ma così facendo violava il principio fondamentale della demolizione nonché quello della conservazione, in via eccezionale, soltanto se, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, vi sia uno specifico interesse pubblico prevalente rispetto al ripristino della conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia, e sempre che la conservazione non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico».
Nella sentenza si legge anche che «Il “disallineamento” della disciplina regionale rispetto al principio fondamentale della legislazione statale (che individua nella demolizione “l’esito normale” dell’edificazione di immobili abusivi acquisiti al patrimonio comunale) finisce con intaccare e al tempo stesso sminuire l’efficacia anche deterrente del regime sanzionatorio dettato dallo Stato all’articolo 31 del Dpr n. 380/2001” incentrato sulla demolizione dell’abuso, “la cui funzione essenzialmente ripristinatoria non ne esclude l’incidenza negativa nella sfera del responsabile”».
La Corte Costituzionale ha fatto notare che «L’effettività delle sanzioni risulterebbe ancora più sminuita nel caso di specie, in cui l’interesse pubblico alla conservazione dell’immobile abusivo potrebbe consistere nella locazione o nell’alienazione dello stesso all’occupante per necessità responsabile dell’abuso. In tal caso, l’illecito urbanistico-edilizio si tradurrebbe in un vantaggio per il trasgressore».
Esulta Il Wwf che aveva immediatamente contestato la legge regionale 22 giugno 2017, n.19 ritenendola «un pericolosissimo passo indietro sul cemento illegale». L’Associazione ambientalista evidenzia che la sentenza della Corte Costituzionale che «ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme campane che consentivano ai comuni di non procedere alle demolizioni e di affittare o addirittura alienare l’immobile abusivo allo stesso costruttore abusivo, non solo rappresenta un successo per tutti coloro che si battono contro l’abusivismo edilizio e per curare le ferite del territorio ma è una vittoria della legalità e del buon senso. La sentenza della Corte Costituzionale conferma e rafforza un elemento di chiarezza sull’abusivismo edilizio che, in quanto reato penale, riguarda tutti i cittadini di tutte le regioni, senza alcuna distinzione. Ne consegue, quindi, che la competenza sull’abusivismo edilizio non può che essere statale come il Wwf aveva segnalato nelle argomentazioni inviate prima alla Regione Campania e poi al Governo per chiedere che fosse impugnata la legge regionale».
Il Wwf è convinto che le norme della Regione Campania dichiarate incostituzionali «rischiavano di essere un pericolosissimo precedente dando un possibile avvio a sanatorie regionali “fai da te”, incentivando inevitabilmente nuovi abusi per dinamiche a tutte note e stradocumentate. Con la sua decisione, la Corte Costituzionale non solo ha introdotto un elemento di tutela per il territorio campano, già ampiamente devastato dal cemento illegale e criminale ma lancia un forte monito per tutte le altre regioni rispetto alla gestione del territorio e alla necessità di azioni di contrasto all’abusivismo “in considerazione della gravità del pregiudizio recato all’interesse pubblico”»
comune-info.net, 27 giugno 2018. Anche i campi nomadi sono forme di "apartheid". In italiano si traduce in "separazione", ed è appunto quello che facciamo con gli "zingari" e con tutti quelli diversi che non riusciamo a ridurre uguali a noi. (i.b.)
Si parla e si scrive di loro, “gli zingari”, ogni volta che rientrano nelle “preoccupazioni” di chi parlando di altre cose e portando avanti altri interessi, indica gli “zingari” come una criticità incancrenita, perenne e da “risolvere” con mezzi drastici e con l’uso di una certa violenza. Una violenza alla quale siamo “costretti”, vista l’impossibilità di risolvere la loro immodificabilità e adeguamento sociale.
Il campo “nomadi” di per sé è violenza. La sua istituzionalizzazione e permanenza è violenza. Si tratta di una particolare ed esclusiva abitazione pubblica che genera esclusione, stigma, separazione, povertà relazionale, razzismo e razzismo istituzionale differenzialista. Il campo “nomadi” in tutte le sue formerappresenta l’apartheid destinato agli “zingari”, divide e disgiunge persone, famiglie e comunità rom dalle comunità e società circostanti. Scompone e spezza relazioni, possibilità e opportunità di chi ne è collocato, cristallizzando in forme folcloristiche chi, per appartenenza, è indentificato come nomade. Il binomio Zingaro uguale Nomade ha impostato, guidando, le politiche e le politiche sociali per decenni. L’Italia è il Paese dei campi, e con questa caratterizzazione è indentificata a livello internazionale ogni volta che si approcci alla questione “zingara”. Ovviamente si tratta di una caratterizzazione piena di aporie, stupore e in netta contrapposizione con i processi di deistituzionalizzazione, come per esempio quelli avuti luogo in ambito psichiatrico e con le disabilità e che, all’estero (forse più dell’Italia), si conoscono, si studiano e si ripropongono.
I campi “nomadi” sono stati creati in situazione di povertà economica e relazionale da una piccola parte della popolazione romani e successivamente sono stati istituiti e ufficializzati dagli Enti Locali, accompagnati con la costruzione di Leggi Regionali fondate sulla tutela del nomadismo, inteso come caratteristica prioritaria e unica di quella popolazione chiamata “zingara”. Il campo è un terreno alla periferia della città, dotato di opere urbanistiche e servizi igienico-sanitari per poter essere abitato da persone in stato di povertà e di cultura differente. È una situazione abitativa particolare per dare risposte istituzionali di domicilio a un bisogno di tipo abitativo espresso da persone che sono concepite a partire non dalla considerazione delle loro somiglianze ma dalla considerazione delle loro differenze. Nel campo la povertà relazionale ed economica colloca famiglie, gruppi e individui in una condizione di estremo degrado, nonché di estremo bisogno. Condizione che si autoalimenta poiché l’eccezionalità del campo è la sua “eterna provvisorietà”.
L’interiorizzazione dello sguardo altrui
Un campo concentra una categoria di persone. Il criterio omologante è quello della categoria etnica: Il campo è omoetnico. Un campo “nomadi” nella sua modalità è di fatto un campo di concentramento. Il campo è una situazione eccezionale, straordinaria ed è concepito per dare risposte a una categoria inventata: i nomadi.
Il campo “nomadi” genera etichettamento per lo “zingaro” e passa soprattutto dal suo risiedere nel campo, stigma al quale si aggiunge l’auto-stigmatizzazione, l’interiorizzazione dello sguardo altrui, che lo giudica e lo fa sentire inadatto, inadeguato al mondo.
Abbiamo un deficit di conoscenza, che non ci permette leggere una situazione difficile e complessa, i campi “nomadi”. Conoscenza intesa come relazione diretta con chi collocato nei campi li abita e come processo di indifferenza che avvolge, travolgendo, le interazioni sociali e si estende, caratterizzandola, all’azione pubblica, alle sue politiche sociali, abitative, occupazionali e scolastiche. Abbiamo un deficit di conoscenza che non affrontiamo e che rafforza un’intenzionale ignoranza, eremica, attorno all’apartheid dei campi.
I termini che usiamo, “aree sosta” “micro aree”, “campi rom”, ecc. e il pensiero, meglio dire il non pensiero, dentro al quale nascono e di cui diventano piena espressione, nascondono abilmente costruzioni sociali e istituzionali prive di riscontro nelle “soluzioni”, che di volta in volta affiorano e che si propongono come la soluzione definitiva, descritte come La Soluzione Finale, di una criticità–problema che si ingrandisce con il passare degli anni, nelle “retoriche” securitariste e del ricercato consenso dei politici. Contribuendo così alla stabilizzazione del problema stesso, il “problema” si istituzionalizza. Il suo perdurare richiede continuamente interventi sugli interventi precedenti, non si risolve, si prolunga e diventa pretesto nonché motto perpetuo di repressioni “giustificate” Il “problema” consolida l’allontanamento dall’idea che si potrà, forse, affrontare anche istituzionalmente le differenze sociali e culturali senza l’apartheid, con proposte di eguaglianza non omologanti, non soffocanti le differenze stesse. Certamente il posizionamento istituzionale sui temi della convivenza interculturale si estende dai campi “nomadi” e diventa proprio delle realtà di “proposta” trattamento e affronto delle migrazioni e delle profuganze, delle migrazioni forzate ovvero verso a tutte le realtà che, con la loro presenza, contribuiscono e di fatto hanno strutturato, in questo Paese, una realtà multi-culturale.
Nomade è chi risiede in un campo “nomadi”
Abbiamo un deficit di conoscenza che non ci permette, e non ci permette pure istituzionalmente, di capire e comprendere che il “problema” è aggrovigliato dentro un paradosso ossimoro: Nomade è chi risiede in un campo “nomadi”. Abbiamo un deficit di conoscenza che diventa arroganza, insolenza, autoreferenzialità che condiziona la conoscenza, spesso è paura e le paure condizionano maggiormente la conoscenza. Gli “zingari” in situazione di campo sono considerati dalle istituzioni come “nomadi” solo quando perdono la capacità e la possibilità di spostarsi, cioè il loro “nomadismo”, esasperando analisi e prassi della contraddizione, Nomadismo/Stanzialità che fa cambiare e forse miracola i nomadi, gli “zingari”, silenziando ogni ricerca, segno e sapere che cerca di problematizzarlo, ogni domanda, dubbio e costatazione che potrebbe incrinarlo. Soffermarsi e spiegare La contraddizione si scopre che il nomadismo rom storicamente e attualmente, è prassi di resistenza, della loro resistenza per evitare la violenza subita da parte del bianco, dell’europeo. Violenza estrema, omologatrice e fisica, spesso violenza finalizzata all’eliminazione e allo sterminio. In questo va cercata la prospettiva che, rovesciando le letture ne crea altre reimpostando la contraddizione Nomadismo/Stanzialità e trovando significazione in quella di Fuga/Tregua. Ci si ferma se la violenza del bianco è gestibile, di basso profilo oppure nulla, ci si sposta anticipandola, per non subirla. Una resistenza, r-esistenza.
Abbiamo un deficit di conoscenza che non ci permette di affrontare lo straordinario che nasce generando odio e decliniamo spesso questo nostro opporsi in spettacolo, cronaca effimera, dicotomia. Il deficit di conoscenza è un deficit di progettualità, è un andare contro che pur avendo bisogno di trovare le sue forme e risultati, andrebbe rivisto. I riferimenti alla Costituzione, alle Leggi, all’Etica che trovano spazio esclusivo nell’emergenza, limitano gli orizzonti del resistere, affaticano il divenire progetto. Non è lo straordinario che certamente combatto che mi preoccupa, ma l’ordinario che lo nutre e lo tesse e che lo porta ad essere una espressione eccezionale, una emergenza, creando quel consenso che permette la devastazione.
Abbiamo un deficit di conoscenza e non siamo in grado di fare politica, affermare la pluralità delle esistenze umane e la progettazione della loro possibile convivenza nelle differenze. Non siamo in grado di fare politica impostando relazioni che disconfermano, non il conflitto, ma la violenza.
Place. 13 giugno 2018. Lungo il confine tra USA e Mexico vivono due dozzine di tribù di indiani d'America. Il muro di Trump, oltre a non essere la risposta all'immigrazione, è un attacco ai diritti e sovranità di questi popoli, a cui è impedito l'accesso alla loro terra ancestrale. (i.b.)
AMERICAN INDIANS FEAR US-MEXICO
BORDER WALL WILL DESTROY ANCIENT CULTURE
Ellen Wulfhorst
EL PASO, Texas - To the Ysleta del Sur Pueblo Indians, the water of the Rio Grande that divides the United States and Mexico sanctifies religious rites and purifies their hunts.
Indian communities living miles away use the river to send messages to fellow tribes downstream, tribal chief Jose Sierra told the Thomson Reuters Foundation.
"They put messages in the river that come to us through the water."
Rene Lopez, a member of the Ysleta Traditional Council, said if the chief asked tribal members to knock down the wall, "we'll do it. That's how deeply it means to us."
For while Trump and his supporters say a security wall is necessary to stop drug smuggling and illegal immigrants from Mexico, Indian leaders say otherwise.
"Back off, Trump. Let us be," said Sierra, whose ancestors settled in Texas in 1682 after being forced out of New Mexico during violent conflicts with Spanish settlers.
But experts say the likelihood of stopping the wall with claims of Indian sovereignty or freedom of religion is unlikely, even though for some its impact could be dramatic.
Cut off from land
The Tohono O'odham people in southern Arizona live on a reservation that straddles the border and would be cut in two.
"It would be just devastating," said Verlon Jose, vice chairman of the Tohono O'odham, told the Foundation.
"Walls are not the answer to the issues that we face ... Walls have never solved problems, whether that's in terms of immigration, in terms of militarization."
Border security could be boosted with more hi-tech tower systems that provide long-range surveillance, tracking and detection and by immigration reform allowing more migrants to work temporarily in the United States without having to sneak in, Jose said.
Native people globally have been blocked from sacred grounds, burial places and ancestral migration routes by borders and walls, said Christopher McLeod, director of the California-based Sacred Land Film Project who has documented sacred sites.
A study by U.S. geographer Reece Jones from the University of Hawaii found that in 1990 there were 15 border walls in the world — but now there are almost 70.
"When people are cut off from their land, from their sacred lands and their ceremonies, then the culture dies. Their spiritual vitality is weakened," McLeod told the Foundation.
"A border and a wall are not just symbols. They're very physical insults."
Many Ysleta, a tribe of about 4,200 members, live in low mudbrick houses on a dusty west Texas reservation, already rankled at needing the U.S. government's permission to visit the river.
Fencing guarded by U.S. Border Patrol agents divides Ysleta land from Mexico and from the river bed, and agents must unlock secured gates to let tribal members through. The fencing dates back to a previous U.S. border security effort in 2006.
"We've been doing that for 350 years, and now they want us to ask for permission? It's like you asking permission to go to church," said Sierra.
But arguments of religious and cultural freedom are not likely to hold much weight against the wall, said Gerald Torres, an expert on federal Indian law and a professor at Cornell Law School in Ithaca, New York.
Legal rights
A 1988 Supreme Court ruling allowed the U.S. Forest Service to build a paved road on land that had historically been used by American Indians for religious rituals, Torres said.
The ruling said the government could not operate if it had to "satisfy every citizen's religious needs and desires."
"Tribes' interest in religious ceremonies can't be used to stop the federal government from pursuing its objectives," Torres told the Thomson Reuters Foundation.
Some advocates have argued that Indian tribal rights under the 2007 United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Peoples would be violated.
Members of other border-area tribes - such as the Cocopah, the Fort Mojave and the Pasqua Yaqui in Arizona and the Kickapoo who run a casino in Eagle Pass, Texas - have also spoken out against the wall.
Even the Carrizo/Comecrudo tribe, which has neither a reservation nor official recognition, says it would be harmed.
Carrizo/Comecrudo members lived at the river centuries ago before they were dispersed by war and forced migration, Tribal Chairman Juan Mancias told the Foundation.
"We have songs we sing to that river," said Mancias, who lives 200 miles northeast of the river in Floresville, Texas.
"With the border wall, they're disrespecting who we are."
About 700 miles of fencing and wall exist, built as part of the 2006 Secure Fence Act under former President George W. Bush.
But so far no funding for the entire wall is in place. A measure by Congress two months ago provided $1.6 billion for six months work on the wall. Trump asked for $25 billion.
The Trump administration has waived two laws concerning American Indians so it can build part of the wall in California.
One law protects the rights of tribes to human remains, sacred burial objects and other historic items, and the other law protects their religious and cultural practices.
Javier Loera, who holds the title of Ysleta War Captain, said the river has sustained his people for centuries.
"The river is like the veins of our mother earth. Sever those veins, and it's catastrophic", he told the Thomson Reuters Foundation.
[Funding for this story was provided by the International Women's Media Foundation].
opendemocracy.org. 9 June 2018. L'importanza della qualità dello spazio, e di come povertà, stigmatizzazione e ghettizzazione sono responsabili nello scatenare forme di trasgressione, anche di fanatismo religioso. (i.b.)
THE JIHADOGENOUS URBAN STRUCTURE
Farhad Khosrokhavar
These individuals feel coerced by the predicament of being neither French nor Arab, neither Pakistani nor English... they bear the stigma of double ‘non-identity’.
By jihadogenous urban structure I mean an urban setting that is the venue for jihadist callings, at a much higher rate than in the other districts of the city.
In Europe, one of the significant and even essential factors of jihadist radicalization is the city. Not any city. But a type of district within the city that we may call the jihadogenous urban structure.
In almost all European countries there are neighborhoods where the number of young people leaving for Syria (foreign fighters) as well as the number of followers of internal jihadism (homegrown jihadists) are much higher than the national average. The trial of the survivors of twenty young people who joined Syria between 2013 and 2015 from the southern French town of Lunel is a case that is replicated in other European countries in more or less similar forms. In Lunel, it is the social housing district of Abrivados, in which a significant number of young people were indoctrinated by the extremist Islamic holy war ideology.
Jihadist concentration in some neighborhoods may be due to two distinct types of effects:
- because, within these neighbourhoods, young people have known each other through formal or informal networks, friends, or members of the same family and their ties; the district may be that of the middle classes, without any apparent sign of disadvantage among candidates for the holy war; this type of neighborhood and the calling of the middle classes towards Jihadism are largely in a minority in Europe.
- because of the specificity of the urban structure: the concentration of young people of similar ethnic origin (in France, North Africa, Great Britain, Pakistan and Bangladesh, in Belgium, Morocco ...) in areas with the following characteristics: stigmatization and anger among a part of the population; ghettoisation and the development of an underground economy (which attracts a part of the youth and predisposes them towards any form of transgression in contrast to the norms in force); a much higher unemployment rate than the national rate (in Lunel, around 20% and double this rate for young people of immigrant origin); a very high school drop-out rate; a delinquency rate well above the national average; a feeling of high stigmatization among young boys, mostly of immigrant origin; a fragmented family structure: decapitated patriarchal families, single-parenthood and family instability, with the development of violence within the family and the children's homes (the Merah and Nemmouche families in France shared these characteristics); a strong sense of stigma, largely based on everyday life experience, amplified by the "aggressive" behavior of excluded youth who feel themselves victims of society; the isolation of the neighborhood which is more or less separated from the city for objective reasons (the absence of subway or bus lines) and partly imaginary (a line of mental demarcation often separates the stigmatized neighbourhood from other areas awakens in these young people the feeling of a dichotomous humanity where communication between the two is impossible).
This type of urban structure shapes the identity of those who are socially excluded, and culturally stigmatized. They internalize social exclusion and make it an identity principle as well as a way of life. In turn, victimization accentuates exclusion and becomes an aggravating factor insofar as the individual separates himself from society and no longer tries to enter it through normal channels.
In the majority of cases, this type of individual is of immigrant origin with a background that makes him a social reject or someone who suffers from "relative deprivation" (especially in the Scandinavian countries) or poverty and is at the same time treated as culturally inferior. They are often economically marginalized, and they internalize this predicament and define themselves in an antagonistic manner towards society. To ensure their social promotion they become deviant, members of gangs or more or less outlaw groups. In France, most of these districts are in the suburbs and are called “(poor) suburbs” (banlieues). Sometimes, the segregated district is not outside the city but part of it (like the “Northern districts” that are part of the city of Marseille or Neuhof, part of Strasbourg).
The suburban structure or that of isolated, poor and "segregated" neighborhoods within the big city (as in Waltham Forest in London) or in the small town where exclusion and stigmatization are even more accentuated (Lunel) in many cases promotes jihadism. This model is not only French. It is less common, it is true, in Germany (one finds it in the Lohberg district of the city of Dinslaken), Sweden (Malmö in his district of Rosengärd ...), Belgium (Molenbeek and Vilvoorde ...), Denmark (in Copenhagen the district of Mjolnenparken and Norrebro...), in Holland (in Amsterdam, Omertoomseveld district ...) ...
Non-citizenship
In everyday language a whole vocabulary is found in Europe to emphasize the non-citizenship of these sons or grandsons of immigrants (girls and granddaughters are perceived differently and generally behave differently): they are modestly called in Sweden "non-ethnically Swedish" individuals, much like the "French on paper" in France, "Passdeutschen" in Germany (those who have a German passport – but are not genuine Germans) and even more pejorative in England the "Pakis" (of Pakistani or more largely Southeast Asian origin, with a strong depreciative nuance), in Denmark the "Perker" (with the same pejorative as the Paki in English), "Arab", "Bougnoul", "Bicot", "Beur”, pejorative expressions in France...
Mirror game
These individuals feel coerced by the predicament of being neither French nor Arab, neither Pakistani nor English... they bear the stigma of double “non-identity” (in France they are “dirty Arabs”, in Algeria, they become “dirty, arrogant Frenchmen”). They find a substitute identity in Islam, and by espousing it they put an end to their dual non-identity.
In response, they develop characteristics that accentuate their non-citizenship through aggression, a gesture perceived as threatening by others, ways of being that are considered provocative. In terms of language they develop their own slang about the locals they do not belong to as "babtou" (the white), "gaouri" in France ... Racism and counter-racism inextricably mix in a mirror game. The transition to jihadism of a small minority of them restores, on the imaginary plane, pride, even dignity in opposition to society, legitimizing blind violence against it.
Hotbeds
Poor districts in a large global city can become “hotbeds” (1) of Jihadism: East London, in which Tower Hamlets, Newham and Waltham Forest have concentrated half of Jihadists in London is a case in point.
On the whole, in Great Britain, more than three quarters of the jihadist acts have been perpetrated by individuals coming from poor districts and almost half of the jihadist acts have been committed by people living in the poor districts (2).
Sometimes the association of two cities or a city and an agglomeration in another city promotes jihadism : one can quote several cases of this nature in France like Toulouse-Artigat and Cannes-Torcy.
Often the proximity of a poor and a rich neighborhood can give rise to forms of frustration and indignation favoring jihadism. There is certainly no strict causality, but this urban phenomenon is found in many European cities where jihadism has developed. This is the case of North Kensington, where Grenfell Tower caught fire on June 14, 2017, causing at least 79 deaths. This district is part of the 10% of the poorest neighborhoods in England but at the same time rubs shoulders with wealthy neighborhoods where luxury hotels are bought up by foreign owners who rarely live there. This is also the case of social housing in Parisian districts in the process of gentrification, such as the nineteenth district, where members of the network of Buttes-Chaumont also live, for the most part in public housing areas. This is also the case of the young people of Molenbeek in Belgium: in this district, poverty is adjacent to other neighborhoods in the process of gentrification. We find these same phenomena in the city of Nice in France (the district of Ariane).
The history of the last half a century can also play a significant role. In Nice, the establishment of the members of the FIS (Islamic Salvation Front) and, later, the GIA (Armed Islamic Group) in the 1990s after the military coup in Algeria that ousted the Islamic group, the Islamic Salvation Front, had a significant impact on the indoctrination or even the radicalization of a part of the population of immigrant origin in the following decade.
Even if the city does not explain everything, most European jihadists come from areas, cities or regions relatively well circumscribed in space, mostly poor, stigmatized and inhabited by sons and grandsons of immigrants.
jihadists can also be recruited in middle-class neighborhoods, but here it is the malaise of middle-class youth, the absence of utopia, the fear of social downgrading and an often atomized and anomic individualism that are at the origin of radicalization for a youth that can no longer refer to the ideals of the extreme left. In the latter case, the urban structure does not play the same role as in the case of poor neighborhoods. Still, the latter case is by far the majority among European jihadists.
In short, Europe is sick of its enclaved and impoverished neighborhoods where young people, mostly of immigrant origin and economically marginalized, are locked up. Not knowing how to integrate them, and as long as this urban structure is not challenged, we can expect either jihadism or a frenzied delinquency in an enclosed environment where at the same time we have the development of a puritanical and sectarian religiosity, a pietist Salafism.
10 giugno 2018. Il padiglione di Israele alla Biennale di Architettura non solo solleva indignazione per l'arrogante e propagandistico occultamento dello spazio negato ai palestinesi, ma anche per il consenso che la Biennale sembra esprimere. (i.b.)
«Free space» è il titolo quest'anno per la 16° mostra internazionale di architettura La Biennale di Venezia. Nell'intenzione dei curatori spetta all'architettura progettare lo spazio libero e gratuito, lo spazio della condivisione e della socialità. Essa è «espressione della volontà d'accoglienza» - scrive il direttore Paolo Baratta - «progetto ispirato da generosità (…) la quale non può essere solo auspicata (..) ma promossa». Bellissime parole che incoraggiano il visitatore alla riflessione e all'esplorazione dei singoli padiglioni.
Grande è stata la mia sorpresa entrando nel padiglione di Israele. Gli architetti israeliani propongono come esempi di condivisione le città occupate dal loro esercito. Sogno o son desta?
Gli esempi di questa «splendida condivisione» si riferiscono tutti a città palestinesi: Al -Kalili (Hebron), Betlemme, Gerusalemme est. Ma perché non condividiamo Tel Aviv o Haifa dove ai Palestinesi è negato l'accesso? - mi domando - Sono forse entrata nel padiglione palestinese?
No, mi trovo nel padiglione di uno stato colonialista che considera sua proprietà un paese che non gli appartiene.
Salendo al piano superiore scopriamo cosa è successo là dove sorgeva la Tomba di Rachele presso la città palestinese di Betlemme. Un santuario venerato da tutte e tre le religioni «negli ultimi tempi è stato drasticamente trasformato» scrive la didascalia. Certo: qualcuno gli ha costruito attorno un muro alto 8 metri, ha incorporato i terreni palestinesi circostanti, ha tagliato le strade di accesso e vietato l'ingresso ai non ebrei: «il sito mostra come il paesaggio divenga mezzo di scambio tra il territorio e gli eventi che lo modellano» ci spiegano gli architetti. Parole vuote per nascondere la violazione del diritto. Il muro dell'apartheid lungo 800 km, in costruzione dal 2002, è dichiarato illegale dall'ONU.
Sulla strada per la Tomba di Rachele. Foto di Gili Merin. [presa dal dépliant del padiglione] |
Un altro paradigma affascinante di free space è illustrato dal caso del quartiere arabo di Al-Buraq, raso al suolo in una sola notte nel giugno del 1967 per permettere agli ebrei di accalcarsi numerosi sotto il Muro del Pianto. Non che prima fosse inagibile tale muro, ma serviva più spazio. «Una tabula rasa aperta all'interpretazione» così scrive il testo sotto la foto di una ruspa che demolisce case palestinesi. Ed ora sotto il Muro del Pianto c'è così tanto spazio (a percorrerlo sembra un parcheggio) che da 50 anni si discute che farne senza sapersi decidere: tali incertezze riflettono – scrive il depliant del padiglione – «il conflitto per la definizione del carattere e dell'identità nazionale nello stato di Israele post-1967».
Demolizione del quartiere dei Mugrabi. Giugno 1967. Foto di David Rubinger. [presa dal dépliant del padiglione] |
La mostra prosegue con altri edificanti esempi del genere, tutti comunque incentrati sui luoghi di culto; la propaganda nazionalista israeliana preferisce presentare la guerra contro i palestinesi come una guerra di religione e tace dell'esproprio di terra, risorse idriche e sbocchi commerciali ai danni del popolo autoctono. Tace delle demolizioni di case e quartieri arabi, tace della costruzione di migliaia di alloggi per soli ebrei su terreno palestinese. Abbiamo provato a sollevare qualche dubbio con la vigile guardasala ma lei, in tutta tranquillità, ci ha risposto: «la Palestina non esiste: che problema c'è?». Insomma i lavori esposti nel padiglione di Israele sono un'offesa all'intelligenza dei visitatori, nonché un insulto all'istituzione stessa de La Biennale.
Un'istituzione culturale che si professa libera, aperta e all'avanguardia, che si offre come laboratorio di idee innovatrici e democratiche, e che invita artisti ed architetti a porre le proprie opere al servizio del benessere dell'umanità, non dovrebbe accettare nei suoi spazi opere di pura propaganda.
«In Statu Quo» è il titolo del lavoro esposto nel padiglione: la politica dello status quo è quella che permette al governo israeliano di mantenere da decenni una delle più brutali occupazioni che la storia ricordi senza rendere conto a nessuno dei suoi crimini. Infatti come sottotitolo a «In Statu Quo» troviamo la definizione «Structures of Negotiation», quando è palese a tutti che le negoziazioni sono ferme da decenni e che questa situazione di stallo giova solo a Israele che espande sempre più i suoi confini in terra palestinese. In calce al titolo, i curatori citano Giulio Cesare, l'autore della frase latina che in italiano si legge: «nello stato in cui le cose erano prima della guerra». Ma di quale guerra stiamo parlano? La Grande Guerra che vide crollare l'impero ottomanno? Oppure quella del 1948 dopo la proclamazione dello stato di Israele, o quella del 1967 che ha prodotto l'invasione della Cisgiordania? O forse di quella permanente che sconvolge la Palestina da quando ha preso forma il progetto di insediamento coloniale ebraico? Da quale status vogliamo partire per ricostruire la pace?
The conversation. 7 maggio 2018. Un altro dato allarmante sulla turistificazione: il turismo globale produce complessivamente circa l'8% delle emissioni globali di gas serra. (i.b.)
The carbon footprint of tourism is about four times larger than previously thought, according to a world-first study published today in Nature Climate Change.
Researchers from the University of Sydney, University of Queensland and National Cheng Kung University – including ourselves – worked together to assess the entire supply chain of tourism. This includes transportation, accommodation, food and beverages, souvenirs, clothing, cosmetics and other goods.
Put together, global tourism produces about 8% of global greenhouse gas emissions, much more than previous estimates.
Tourism is a trillion-dollar industry, and is growing faster than international trade.
To determine the true emissions produced by tourism, we scanned over a billion supply chains of a range of commodities consumed by tourists. By combining a detailed international trade database with accounts tracking what goods and services tourists bought, we identified carbon flows between 160 countries from 2009 to 2013.
Our results show that tourism-related emissions increased by around 15% over that period, from 3.9 gigatonnes (Gt) of carbon-dioxide equivalent (CO₂-e) to 4.5Gt. This rise primarily came from tourist spending on transport, shopping and food.
We estimate that our growing appetite for travel and a business-as-usual scenario would increase carbon emissions from global tourism to about 6.5Gt by 2025. This increase is largely driven by rising incomes, making tourism highly income-elastic and carbon-intensive.
In the study, we compared two perspectives for allocating responsibility for these emissions: residence-based accounting and destination-based accounting. The former perspective allocates emissions to the country of residence of tourists, the latter to the country of destination. Put simply, are tourism-related carbon emissions the responsibility of travellers or tourist destinations?
If responsibility lies with the travellers, then we should identify the countries that send the most tourists out into the world, and find ways to reduce the carbon footprint of their travel.
On the other hand, destination-based accounting can offer insights into tourism spots (like popular islands) that would benefit most from technology improvements and regulations for reducing the carbon footprint of tourism.
Tracking emissions under destination-based accounting over a specific period could help researchers and policymakers to answer questions about the success of incentive schemes and regulations, and to assess the speed of decarbonisation of tourism-related sectors.
So how do countries rank under the two accounting perspectives? The United States is responsible for the majority of tourism-related emissions under both perspectives – many people travel both from and to the US – followed by China, Germany and India.
But on a per-capita basis, the situation looks rather different. Small island destinations have the highest per-capita destination-based footprints. Maldives tops the list – 95% of the island’s tourism-related emissions come from international visitors.
Tourists are responsible for 30-80% of the national emissions of island economies. These findings bring up the question of the impact of tourism on small island states.
Small islands depend on income from tourists. At the same time, these very tourists threaten the native biodiversity of the islands.
Small island states typically do not have the capacity to embrace technology improvements due to their small economies of scale and isolated locations.
Can we lend a helping hand? Directing financial and technical support to these islands could potentially help with efforts to decarbonise their infrastructure. This support would be a reflection of the share of consumer responsibility, especially from developed nations that are “net travellers”.
Maldives, Mauritius and other small islands are actively exploring ways of building their renewable energy capacity to reduce the carbon intensity of local hotels, transport and recreational spots.
We hope that our study provides a starting point for conversations between the public, companies and policymakers about sustainable tourism.
Ultimately real change will come from implementing regulations and incentives together to encourage low-carbon operations. At a personal level, though, it’s worth looking at the carbon-cost of your flights, choosing to offset your emissions where possible and supporting tourism companies that aim to operate sustainably.
infoaut.org, maggio 2018. Un dossier sulle molteplici trasformazioni e ristrutturazioni urbane dovute al turismo - "l'industria pesante del nostro secolo" - spiegate in otto punti in cui teoria, inchiesta, casi studio e indicazioni politiche sono articolate assieme. (i.b.)
Il concetto di touristification, reso in lingua italiana con turistificazione, è salito in maniera rapida all'onore delle cronache nostrane negli ultimi tempi, grazie all'evidente impatto che l'industria turistica sta avendo nel ridefinire le nostre città in parallelo alla diffusione sempre più forte dell'utilizzo, come ospite o come ospitante, di portali come Airbnb, piuttosto che dei voli offerti da compagnie aeree low-cost come RyanAir. Tuttavia, la turistificazione è ancora qualcosa di difficilmente afferrabile in tutte le sue sfaccettature.
Una prima definizione minima potrebbe essere quella di concetto che racchiude al suo interno la molteplicità delle conseguenze del turismo di massa sulla ristrutturazione degli spazi urbani o di alcune loro sezioni. Indubbiamente molto vago: siamo ancora sprovvisti di una definizione utile a individuare, collegandole in un quadro interpretativo unico, tutte le tematiche che potrebbero essere riferite a una parolina sempre più in voga.
Di conseguenza, ed è questo che ci interessa in maniera particolare, l'impatto del turismo in quanto fenomeno di massa è elemento da cogliere per poter innovare teoria e prassi politica dei movimenti sociali sul tema dell'urbano, della contesa dei suoi spazi, allargando e rinnovando quanto spesso espresso con l'etichetta "diritto alla città". Per evitare analisi troppo astratte, che rischiano di scadere in una generalizzazione slegata dalla dimensione reale, abbiamo provato ad affrontare il tema prendendo in esame alcuni casi specifici di processi di turistificazione. Partire da alcuni casi specifici è utile anche a costruire una definizione più ampia del concetto, tenendo in considerazione allo stesso tempo le peculiarità dei singoli contesti urbani e la riproposizione di alcune invarianti all'interno di questi.
Obiettivo di questo dossier è quello di verificare alcune ipotesi di ricerca sul tema dell'impatto del turismo di massa sulle trasformazioni dello spazio urbano, attraverso la discussione critica di saggi, articoli di giornale e di interviste raccolte con alcuni attivisti e/o docenti di diverse città europee come Atene, Barcellona, Berlino, Lisbona, Marsiglia e Parigi.
Tesi 1: La turistificazione non e' un processo omogeneo
Da un lato il turismo si afferma come flusso stagionale di possibili profitti, dall'altro come flusso permanente. La distinzione non è di poco conto: la sostituzione di un'organizzazione economica di un territorio complessa in favore di una in cui domina una sola prospettiva di sviluppo rischia di innescare dinamiche in cui una economia basata pienamente o quasi sul turismo può divenire di fatto, con una metafora agricola, una monocultura, la quale elimina tutto ciò che non si adegua ad essa o che con essa non è compatibile. La problematicità di questo aspetto è che una crisi economica, oppure eventi come attentati e crisi politico-amministrative, possano avere un effetto simile come quando nel mercato agricolo viene a cadere il prezzo di una materia prima, facendo scoppiare la "bolla" e mandando nel panico un'intera città.
Il caso di Parigi ad esempio è peculiare e differente rispetto alla maggioranza delle città che vedono in recenti processi di turistificazione una rivoluzione copernicana del proprio assetto. Prendiamo la questione abitativa, uno dei temi cardine su cui si focalizza l'analisi dei processi di turistificazione. Nella capitale francese la rendita immobiliare produce da parecchio tempo un effetto di svuotamento dei quartieri, che si sono progressivamente caratterizzati con affitti a canoni altissimi, attivati per brevi periodi di tempo. Eppure, secondo i dati del sito Insideairbnb, per quanto da scorporare per zona, gli affitti medi di interi appartamenti gestiti attraverso Airbnb sono di tre mesi. L'algoritmo non gira certo dunque sul "turismo di massa" di brevissimo periodo, come ad esempio registrato a Lisbona o Marsiglia o Berlino, quanto piuttosto su una soggettività che vive il territorio urbano e i suoi quartieri in modo saltuario e per periodi medio-brevi.
Un fenomeno tipico delle grandi metropoli globali, almeno quelle egemoni sul mercato mondiale, che non si riproduce nello stesso modo in città che hanno subito una recente accelerazione di processi di turistificazione. In merito ai quali non si può negare l'importanza delle relazioni internazionali. Il turismo ha svolto un ruolo centrale nella trasformazione della città di Lisbona, non casualmente nel periodo seguente alle imposizioni al Portogallo della Troika. La strategia utilizzata per uscire dalla "crisi" e ripagare i prestiti senza rinunciare alle misure di austerità divenne trasformare il Portogallo in una destinazione turistica economica e a basso costo, ricalcando quindi quanto avvenuto per la Grecia e calcando ulteriormente la linea divisoria tra chi “subisce” la crisi e chi invece può permettersi di “governarla”. Le differenze nei processi di turistificazione tra città come Berlino e Lisbona, che affronteremo via via proseguendo, la dicono lunga.
In generale, come ricorda Clara Zanardi nel testo pubblicato sull'ebook “Città, spazi abbandonati, autogestione” (pubblicato da InfoAut nel gennaio 2018) bisogna evitare narrazioni troppo semplificate di questi processi, ricorrendo ad un modello troppo lineare di interpretazione, secondo cui il turismo avrebbe effetti su realtà locali intese in senso statico. "E' necessario evitare di ridurre ad un semplice determinismo causale quella fittissima rete di azioni e retroazioni che al contrario caratterizza i processi di turistificazione". Molto spesso il turismo non è causa unica di un dato sviluppo urbano, ma "uno dei fattori di un processo di trasformazione socio-economica assai ampio ed articolato, dove la località stessa si costituisce come esito perpetuamente dinamico e rinegoziabile di trasformazioni al tempo stesso endogene ed esogene".
Tesi 2: Non c'e' turistificazione senza “grandi opere”
La dimensione quantitativa del turismo come fenomeno sociale è in ultima istanza relativa alla possibilità di spostamento, ai vincoli economici e tecnologici alla mobilità delle persone. Ne deriva il fatto che le rivoluzioni logistiche e comunicative che stanno caratterizzando l'ultimo ventennio vanno prese come punto dirimente di un percorso di analisi della questione. In tutti i casi oggetto di attenzione, la costruzione di grandi infrastrutture logistiche, la loro ristrutturazione o il loro migliore collegamento con le altre infrastrutture si sono rilevati motore di avviamento di processi di turistificazione ed intensificazione dell'impatto turistico sulla città o su suoi determinati quartieri. Il nuovo aeroporto internazionale di Atene, in funzione dal 2001, ne è un esempio, così come lo svuotamento del porto di Marsiglia da attività di tipo industriale a beneficio di quelle del tipo crocieristico, con banchine di proprietà di imprese come Costa Crociere.
Tesi 3: Stato e mercato sono entrambi decisivi per la turistificazione
Tesi 4: Il ruolo di airbnb nella turistificazione non riguarda solo il diritto all'abitare
Tesi 5: La turistificazione e' un processo a somma zero
Ironia della sorte, molto spesso i processi di turistificazione, oltre ad essere narrati come a beneficio dell'interesse generale di una città, hanno anche l'effetto di fomentare divisioni interne alla popolazione. Nel caso di Marsiglia ad esempio, la volontà é stata quella di "riconquistare" il centro storico, "renderlo ai marsigliesi", come se gli attuali abitanti delle classi popolari non lo fossero. Finanziamenti e sgravi fiscali sono stati resi possibili a norma di legge per promuovere l'accesso alla proprietà immobiliare a classi sociali più agiate, iniziative come "Euroméditerranée" o "Opération Grand Centre Ville" hanno permesso di acquisire interi isolati e ristrutturarli (o più spesso per demolirli e poi ricostruire), con la volontà di ampliare il centro città. Ovviamente il processo non è neutro: ristrutturare spazi pubblici serve a renderli più adatti alle esigenze del turista che alle attività sociali esistenti, spesso classificate come "devianti" quando sono semplicemente alternative ad una indiscriminata messa a profitto del territorio.
Tesi 6: La turistificazione e' (anche) una questione di narrazione
Tesi 7: la turistificazione intensifica il controllo poliziale degli spazi
Tesi 8: La colpa della turistificazione non e' del turista
Come dare una lettura critica a questi processi? La risposta non è semplice. Inanzitutto vanno definiti i punti focali. Il primo che viene in mente è chiaramente il diritto all'abitare, messo sotto pressione in maniera evidente dai processi che abbiamo descritto. A Marsiglia sul tema del diritto all'abitare pensato in senso allargato come diritto alla non-espulsione dai propri quartieri oltre che dalle proprie case, si puo citare le attività dell'associazione "Un centre ville pour tous", che ha agito al fianco e in difesa degli abitanti espulsi dai loro alloggi negli ultimi dieci-dodici anni e che ora ha aperto una sorta di osservatorio permanente sul nuovo "Plan local d'urbanisme intercomunale" che è il progetto con il quale le istituzioni cittadine stanno immaginando ulteriori progetti di ristrutturazione della città.
Interessi economici e politica di breve respiro trionfano su cinquant'anni di impegno per coordinare le scelte sull'area metropolitana di Firenze. Amare considerazioni di un sindaco che si è opposto al declino e all'arroganza dei tempi. (m.b.)
Potrebbe concludersi nell’indifferenza generale del mondo politico, sociale ed ambientale la lunghissima battaglia per lo sviluppo a Nord Ovest di Firenze.
L'area fu interessata prima da un grande confronto urbanistico e d’idee tra i redattori del Piano Regolatore Fiorentino e le amministrazioni fiorentine dei primi anni ottanta e poi da un gigantesco scontro politico che vide scendere in campo urbanisti, movimenti, politici, giovani per affermare il diritto ad una pianificazione trasparente della più grande area libera rimasta a Firenze.
L’idea originaria delle giunte di pentapartito era un'espansione di 186 ettari con 3 milioni di mc edificati per l’area Fondiaria a Castello, proprietà della compagnia di assicurazioni fiorentina in mano a Raul Gardini, e l'area Fiat a Novoli con un'espansione prevista di 32 ettari con 1,1 milioni di mc. Mi ricordo all'epoca si parlava di metri cubi superiori a quelli della Piramide di Cheope.
Quell'idea di sviluppo fu contrastata, tra gli altri, da Giovanni Astengo, che considerava raggiunta la massima espansione del comune di Firenze "compatibile con l'invaso geografico del sito" e che fosse "quasi impossibile un'ulteriore crescita nella parte piana poiché l'espansione urbana ad occidente aveva quasi raggiunto i confini comunali ed era indispensabile salvaguardare una cornice ambientale" divenne oggetto di dibattito e scontro in città e tra le forze politiche.
Il Pci, che, tornato al potere con la Giunta Bogiankino, aveva sostanzialmente condiviso l'ipotesi di variante a Nord Ovest, si trovò di fronte all'opposizione netta della sua componente giovanile che ostacolava la cementificazione, la speculazione privata e l'espansione dell'aeroporto (sic!) la quale, sottovalutata, riusciva a ottenere il consenso dela maggioranza nel Congresso Provinciale del marzo 1989 (c'ero anch'io e votai l'ordine del giorno Giovacchini per bloccare la variante) aprendo una crisi politica formidabile a sinistra. La decisione portò rapidamente al dissolvimento dell'esperienza amministrativa e del gruppo dirigente del Pci fiorentino in anticipo rispetto alla "svolta" della Bolognina ma non riuscì a consolidare una nuova classe dirigente in rottura netta con il passato. Molti, come me, erano convinti che Firenze, e non da sola, avesse bisogno di un grande e trasparente dibattito culturale sulla propria vocazione nei decenni futuri e, piuttosto che norme e varianti ad hoc, di forti idee generali.
Da allora intorno alle aree Fiat e Fondiaria si sono intrecciati interessi e iniziative prive della necessaria pianificazione e di una visione strategica dello sviluppo toscano e dell'Area Metropolitana Fiorentina per decidere di produzione, di quali servizi, di quali funzioni pubbliche, di quali trasporti essa avesse bisogno.
Quanto fu in seguito realizzato (sia nell'area ex-Fiat di Novoli sia in quella di Castello) e le ulteriori previsioni di espansione abitativa, direzionale, commerciale e di servizi pubblici, non trovi né grandi idee, né quel necessario coinvolgimento che lo Schema Strutturale della Regione Toscana per l'Area Metropolitana Firenze-Prato-Pistoia (1) aveva auspicato sul fronte della viabilità, dell'infrastrutturazione del territorio, dell'allocazione di funzioni pregiate pubbliche e private per raggiungere una co-pianificazione sulle grandi linee di sviluppo. Esemplare l'iter negativo del Progetto Direttore del Parco della Piana (2), mai partito e sistematicamente disatteso da tutte le scelte conseguenti, dai grandi insediamenti commerciali, alla pianificazione degli impianti per lo smaltimento dei rifiuti, al mancato completamento del Polo Scientifico Universitario, al declassamento del cd "Asse attrezzato Firenze-Prato" allo stupro della nuova pista di Peretola (3) e così via.
La polarizzazione ä avvenuta prima intorno al Termovalorizzatore di Case Passerini e, una volta che questo non ha suscitato i necessari interessi privati, sul nuovo Aeroporto di Peretola. Lo schema fiorentino ä restato sempre lo stesso: centralità dell'interesse privato, retrocessione del coinvolgimento pubblico, modesta pianificazione economica ed urbanistica, stravolgimento della vocazione del territorio della Toscana centrale "a tavolino". Le modeste ambizioni di una classe dirigente, legata al Pd, priva di visione strategica ha barattato un consenso "ora e subito" con un mondo dell'impresa di scarso peso nazionale ed internazionale per dirigere su un'infrastruttura privata e quotata in borsa un numero di risorse mai visto nella nostra Regione. Di contro: Alta Velocità in alto mare, Mezzana Perfetti Ricasoli ferma, terza corsia autostradale al palo, collegamento Firenze-Prato fermo, realizzazione del polmone verde e del segno paesaggistico pensato per decenni come marchio per l'area tra Firenze e Prato cancellata, Arno ancora da mettere in sicurezza, Polo Scientifico Universitario incompleto. La "firenzina" dei bottegai non c'ä più ma, anche se ha lasciato il passo ai format delle grandi firme uguali in tutto il mondo, determina con un presentismo esasperato il blocco delle idee e delle visioni più moderne.
Dulcis in fundo si ä aggiunto il nuovo Stadio della Fiorentina. Disdegnata la possibilità di realizzarlo in una grande area dismessa e a destinazione commerciale alle porte di Firenze a causa della "maledizione del 50019" (il codice di Sesto Fiorentino) la nuova amministrazione fiorentina si ä ingegnata per cacciarlo all'interno di un centro urbano già congestionato attraverso una difficile e costosa riallocazione dei Mercati Generali escludendo (come per il Polo espositivo) il coinvolgimento dell'area metropolitana ristretta o allargata che sia, rafforzando la scelta della concentrazione solitaria di funzioni a saturazione del territorio libero di Firenze alla faccia del ruolo di Sindaco metropolitano, ex lege, del Sindaco di Firenze.
Nonostante le vicende giudiziarie, poi sfociate in una bolla di sapone, legate allo sviluppo del Pue di Castello il passaggio nel 2013 de "La Fondiaria Sai", già fuggita da Firenze con la gestione Ligresti, nelle mani di Unipol sembrava poter riaprire un ragionamento su di una diversa pianificazione di quel grande spazio ancora libero.
Purtroppo, UnipolSai ha preferito abbandonare Firenze vendendo alla società dell'Aeroporto e monetizzando una storia economica legata al ruolo storico di Fondiaria in città. Meglio pochi e subito che un contenzioso con il comune sull'esproprio, con il risultato di ridurre il contraddittorio ad un solo affare di denaro e di potere politico.
Un epilogo amaro dopo 50 anni di discussione sullo sviluppo a Nord-Ovest. La triste storia potrebbe finire, con la realizzazione di tutto ciò per il quale molti, come il sottoscritto, si sono battuti, nel vuoto che attraversa la politica e la cultura dell'area fiorentina e toscana.
Anche se i recenti risultati politici dovrebbero almeno far riflettere sul perché la torsione neoliberista del Pd toscano non abbia trovato il richiesto consenso popolare e come sia urgente un forte ripensamento rispetto al campo sociale dove collocare ex novo la sinistra nella nostra regione. Purtroppo, se si esclude qualche sindaco isolato e una minoranza di persone e gruppi, né partiti, né giovani, né urbanisti, né ambientalisti, né sindacati si sono riappropriati del concetto di sviluppo compatibile e del suo limite, della qualità dello stesso e della vocazione per la Firenze del terzo millennio.
Gianni Gianassi
Sindaco di Sesto Fiorentino dal 2004 al 2014.
Note.
(1) Lo schema strutturale ä uno strumento di coordinamento di area vasta, promosso dalla Regione Toscana negli anni ottanta, redatto sotto il coordinamento di Giovanni Astengo, e approvato nel 1990.
(2) Il "progetto direttore", previsto dallo Schema strutturale, consiste in una proposta di assetto del parco della piana, con l'indicazione delle condizioni per la fattibilità degli interventi e la gestione delle funzioni e delle attrezzature, dei requisiti ed dei riferimenti necessari per la progettazione architettonica e per la progressiva costruzione dei grandi spazi aperti.
(3) La nuova pista aeroportuale di Peretola, collocata a fianco dell'autostrada, con le sue strutture, la nuova viabilità, le opere di regimazione idraulica e le infrastrutture di contorno, oblitera l'intero parco della piana di Sesto, esteso su cinquecento di ettari.
Riferimenti.
Su eddyburg, tra gli altri, si vedano gli articoli di Paolo Baldeschi e Ilaria Agostini che raccontano gli aspetti salienti dell'oscura storia della nuova pista aeroportuale, con i suoi intrecci economici e di potere, le sue ricadute nefaste sul territorio e il metodo con il quale viene imposta attraverso forzature degli strumenti di piano, delle valutazioni ambientali e nella sostanziale indifferenza verso tutte le osservazioni pervenute.
Altreconomia, 1 marzo 2018. Altri modelli di turismo e di economia sono possibili: vengono dal basso, ambiscono a creare nuove relazioni, sono sostenuti dal rispetto per il territorio dove si vive e si ha voglia di cambiare (i.b.)
A Cerreto Alpi, un paesino in provincia di Reggio Emilia, non nascevano bambini da almeno sei anni. Una sessantina gli abitanti registrati all’anagrafe, la maggior parte anziani e le loro badanti. Alle spalle una storia di oltre mille anni (Cerreto viene nominato in un documento datato 835 ed è uno dei territori comunali più ricchi di storia dell’intero Appennino emiliano) e davanti a sé un futuro incerto.
Un piccolo paese che come tanti rischiava di scomparire, svuotato. Fino a quando un gruppo di ragazzi, poco più che ventenni, hanno deciso di riscrivere questo destino. “L’ultimo bar aveva chiuso nel 1995 -ricorda Erika Farina-. Eravamo un gruppo di amici nati e cresciuti a Cerreto, ci univa l’amore per questo paese e per il territorio. Non volevamo trasferirci in città”. Così nel 2003, con una piccola quota di 100 euro a testa, hanno fondato la cooperativa di comunità “Briganti del Cerreto” che oggi conta dieci dipendenti, di cui sette a tempo indeterminato. Le risorse vengono dal turismo (circa 1.500 pernottamenti in antiche strutture recuperate), eventi (tra cui il “Campionato mondiale del fungo” che attrae visitatori anche dal Giappone) e attività di forestazione e cura dei boschi. “L’obiettivo era fermare lo spopolamento di Cerreto. Credo che siamo riusciti ad arginare il fenomeno: alcuni sono tornati, sono nati dei bambini. D’estate il paese esplode: tanti che avevano qui delle seconde case le hanno ristrutturate”, dice Erika.
Esperienze come quella di Cerreto possono essere un modello positivo per altri territori che si trovano nella stessa situazione. Valli montane lontane dal turismo di massa, territori distanti dalle grandi città e dalla costa. Aree fragili dove la mancanza di servizi e di lavoro ha spinto nel tempo sempre più persone a partire, per trovare impiego e migliori opportunità nelle città.
Ma questi modelli non possono essere calati dall’alto: ricopiare uno statuto e mettere a disposizione dei fondi non basta. “Nel deserto non si semina. Servono una buona comunità, una minoranza visionaria, folle e sognatrice che sappia riconoscere le potenzialità di un luogo. Oltre a un contesto istituzionale favorevole che accompagni il percorso”, spiega Giovanni Teneggi, responsabile del progetto “Cooperative di comunità” di Confcooperative.
Ingredienti che si trovano anche a Dossena, 921 abitanti in provincia di Bergamo, un’area nota fin dall’antichità e sfruttata dal 1800 per l’estrazione di minerali ferrosi. Proprio attorno alle miniere ormai abbandonate, si è sviluppato il progetto di rilancio del paese portato avanti da un gruppo di ragazzi. Un percorso avviato nel 2014, con i primi interventi di pulizia delle miniere abbandonate e che ha portato, l’anno successivo, alla fondazione dell’associazione “Miniere di Dossena”. “Nel 2017 abbiamo portato a Dossena circa 2.800 visitatori con le visite guidate”, spiega Paolo Alcaini che, con i suoi 32 anni, è uno dei volontari più anziani.
Ma i giovani di Dossena non si sono fermati qui e nel 2016 hanno dato vita a una cooperativa di comunità (“I raìs”, le radici). “Facciamo manutenzione del verde, pulizia degli spazi comunali, consegna pasti a domicilio -racconta Paolo-. E abbiamo attivato un bar negli spazi di un albergo abbandonato da una decina d’anni. Complessivamente diamo lavoro a cinque persone”. Negozi di comunità, attivazione di servizi di base per i residenti, promozione del turismo sostenibile sono alcuni degli ingredienti del progetto “AttivAree” promosso da Fondazione Cariplo per “riattivare le aree marginali di riferimento della Fondazione” in Lombardia e nel Verbano-Cusio-Ossola. Dieci milioni di euro messi a disposizione dal 2016 al 2018 per contenere lo spopolamento delle aree interne dell’Oltrepò Pavese (con il progetto “Oltrepò biodiverso”), della Val Trompia e della Val Sabbia (“Valli resilienti”), creare una rinnovata identità locale, offrire servizi alla popolazione e promuovere il turismo sostenibile. “La Val Trompia e la Valle Sabbia hanno una vocazione industriale e agricola nel fondovalle, al confine con Brescia”, spiega Giulia Corsini, responsabile della cooperativa “Andropolis” e coordinatrice dei “Negozi di vicinato” del progetto “Valli resilienti” in 25 Comuni della zona. Per contrastare lo spopolamento, si è deciso di investire sulle botteghe “che nei borghi di montagna spesso sono l’unico punto d’incontro comunitario -spiega Corsini-. Da qui l’esigenza di offrire una pluralità di servizi all’interno di un singolo spazio”. La bottega di Livemmo a Pertica Alta e la formaggeria Trevalli a San Colombano di Colio sono i primi due negozi dove si sperimenterà il progetto. Oltre alla rivendita di prodotti alimentari e di consumo, saranno offerti diversi servizi come il ritiro delle ricette mediche e dei farmaci o il disbrigo di piccole commissioni. Il tutto attraverso un’app.
E non c’è paese che si rispetti senza un bar. Ma a Lavenone (BS), l’ultimo aveva chiuso i battenti nel 2016. A prendere il suo posto è stato il bar “Co.Ge.S.S.” (gestito dall’omonima cooperativa sociale), dove lavorano persone con disabilità: “Siamo diventati l’unico punto di aggregazione per la comunità, poco più di 500 abitanti. E siamo parte del tessuto sociale: tanti cittadini del paese si sono attivati per aiutare i nostri ragazzi”, spiega Alessandra Bruscolini, referente della cooperativa, che dopo il bar ha avviato anche la gestione dell’ostello di Lavenone.
La biodiversità, invece, è al centro del progetto promosso da Fondazione Cariplo nelle aree interne dell’Oltrepò Pavese, che coinvolge 19 enti no profit e altrettanti Comuni. Sono previste diverse azioni: dal recupero delle terre abbandonate alla tutela di coltivazioni pregiate, dall’incremento della qualità dei pascoli all’allevamento dell’unica razza bovina autoctona della Lombardia.
“Invertire la tendenza non sarà facile, c’è un po’ di rabbia per questo. Ma ci sono anche la passione e la determinazione a non mollare”. Gianni Andrini è il sindaco di Valverde (PV), uno dei Comuni coinvolti nel progetto dell’Oltrepò dove -grazie al contributo di Fondazione Cariplo- è stato possibile aprire il “Sentiero delle farfalle”, in un’area dove se ne contano oltre 60 specie. “La nostra è una bella zona, ricca di biodiversità. L’obiettivo è attirare il turismo proponendo escursioni e attività di butterfly watching -spiega il sindaco-. Ma il turismo si può fare solo tenendo la gente sul territorio ed evitando la fuga dei contadini che presidiano la montagna. E offrendo servizi”.
Uno di quelli proposti è il maggiordomo rurale. Un factotum che si mette a disposizione degli abitanti per una serie di azioni quotidiane: andare a fare la spesa, prenotare visite in ospedale, consegnare medicinali o recuperare i bambini al doposcuola. “Abbiamo pensato a questa figura e a questo tipo di servizio da un questionario agli abitanti -spiega Valeria Colombi-. Avevamo notato l’esigenza della popolazione di avere servizi integrativi rispetto alla città. In corso d’opera abbiamo aggiunto altri servizi, come l’aiuto agli anziani a spalare la neve, riordinare la legnaia e sistemare l’orto. Azioni semplici, ma molto utili in un territorio dove i collegamenti sono difficili”.
Più a sud, nel 2013 Slow Food ha convocato gli “Stati generali delle comunità dell’Appennino”. Agricoltori, allevatori, artigiani e rappresentanti di consorzi che, l’anno successivo, si sono dati un manifesto con obiettivi chiari: lanciare una nuova stagione di rinascita sociale, economica e di riconquista del tessuto culturale e delle tradizioni dell’Appennino. “Oltreterra – Nuova economia per la montagna” è il progetto di Slow Food Emilia Romagna che promuove, tra l’altro, un servizio per portare il cibo delle piccole aziende agricole locali nelle mense scolastiche dei Comuni del Parco delle Foreste Casentinesi. “L’economia della montagna può ripartire solo dalle sue origini e per farlo serve una gestione consapevole del patrimonio boschivo, anche da un punto di vista economico”, spiega Gabriele Locatelli di Slow Food Emilia Romagna. E all’indomani del terremoto del 2016, Slow Food ha lanciato un progetto per tutelare quelle aree già fragili e colpite dal sisma: “La filiera agroalimentare di qualità è sostenuta dal turismo. Ma il sisma ha portato un calo del 30% delle presenze”, spiega Ugo Pazzi, presidente di Slow Food Marche. È stato quindi fatto un percorso per dare vita a una cooperativa di comunità ed è stato avviato il progetto “La buona strada”, che prevede l’acquisto e l’allestimento di furgoncini che d’estate porteranno le eccellenze alimentari delle Marche verso le località turistiche della costa. Inoltre è stato creato il “Mercato della terra” di Comunanza (AP), per dare una volta al mese una nuova opportunità di vendita ai produttori locali. “È una dichiarazione d’amore per il nostro territorio. Un modo per dire che lottiamo per rimanere”, conclude Pazzi.
il manifesto, 16 maggio 2018. Un riepilogo delle battaglie contro la devastazione del territorio che M5S aveva ingaggiato per difendere la salute e il benessere degli abitanti e che adesso tradisce per un po' di poltrone. Di Maio peggio di Renzi e Berlusconi?
Grandi opere. Dalla Tav in Val Susa al Mose di Venezia, dal Terzo valico ligure fino al Tap pugliese«Dimostriamo che le grandi opere si possono realizzare». Con queste parole Virginia Raggi sabato scorso ha tagliato il nastro della stazione San Giovanni della Linea C della metropolitana di Roma.
La sindaca ha annunciato il cambio di rotta dell’amministrazione capitolina targata Movimento 5 Stelle su quella che viene considerata la grande opera più corrotta della storia della repubblica. Quando era all’opposizione il M5S chiedeva che le talpe sotterranee fermassero i motori. Adesso si apprende che la linea della metropolitana proseguirà come da progetto iniziale fino al lato nordovest della città. Il presidente della commissione mobilità Enrico Stefàno, che solo qualche anno fa aveva firmato la mozione per bloccare i lavori, ha detto di aver «cambiato idea» in seguito ad «approfondimenti e studi». Del resto, i 5 Stelle romani hanno «cambiato idea» anche a proposito della grande opera chiamata eufemisticamente «Stadio della Roma». L’impianto sostenuto dalla giunta sarà accompagnato da una colata di cemento che delinea l’operazione cementi stico-finanziaria che l’ex assessore Paolo Berdini definisce «la più grande speculazione edilizia della storia recente».
Nelle ore in cui gli sherpa grillini erano seduti al tavolo con quelli leghisti per scrivere nero su bianco l’ormai celeberrimo «contratto di governo», Luigi Di Maio ha rilanciato su Facebook le parole di Raggi che sdoganano la grande opera. L’accordo sta incagliandosi proprio sul tema del consumo di territorio, dei cantieri a grande impatto e della difesa dell’ambiente. Ci sono differenze strategiche difficili da superare. Il capitolo in questione è uno di quelli che gli addetti alla trattativa definiscono come «segnati in rosso» perché ancora insoluti. Nodi che si spera di sciogliere alle ultime battute, ancora non si sa bene come. Se ne dovrebbe discutere da questa mattina. A cominciare dalla Tav, che è uno dei temi paradigmatici del M5S: laddove il territorio veniva minacciato da opere considerate dannose e inutili dai cittadini, con la sinistra di governo incapace di mettere in discussione il modello di sviluppo, i pentastellati hanno cominciato a mettere radici.
Beppe Grillo in persona ha sempre sostenuto la lotta dei valsusini contro la linea ad alta velocità, si è preso anche una condanna a 4 mesi per la violazione dei sigilli del cantiere di Chiomonte. Dopo anni, il rapporto tra M5S e No Tav è ancora stretto, anche se i comitati hanno sempre mantenuto la loro autonomia. Non gradendo, ad esempio, la scelta dei 5 Stelle di presentare in Valle liste alle elezioni amministrative, violando di fatto l’accordo non scritto che punta a non dividere le liste No Tav allo scopo di conquistare più sindaci possibili. La sindaca Chiara Appendino ha ritirato l’adesione della città che amministra dall’Osservatorio sulla linea Torino-Lione. Più di recente il M5S, però, ha cambiato idea sul grande evento (con corollario di grandi opere) delle Olimpiadi invernali torinesi. I No Tav, che nel 2006 a Susa bloccarono il passaggio della fiaccola olimpica, non hanno gradito l’inversione di marcia.
Dai comitati contro la Gronda di Ponente, la nuova autostrada che si dipana da Genova, e il Terzo Valico ferroviario, nacque lo zoccolo duro del grillismo ligure. Molti di quegli attivisti storici hanno abbandonato un M5S genovese falcidiato da epurazioni e rotture, ma quelle battaglie sono nel Dna pentastellato. Il fatto che questa come altre opere (come la Valtrompia e la Pedemontana in Lombardia o l’autostrada Tirreno-Brennero) siano cavalli di battaglia delle amministrazioni regionali a trazione leghista del nord rende complicata la mediazione.
Edoardo Rixi è il leghista che è stato assessore alle attività produttive in Regione Liguria e che sta tentando di convincere i potenziali alleati. Operazione impervia: Di Maio nel corso della campagna elettorale è venuto a nordovest per dire che «il Terzo Valico va messo da parte» e per prendere l’impegno di definanziare la Gronda autostradale.
In Veneto, a dividere leghisti e grillini c’è il Mose, il sistema costoso e di dubbia efficacia che dovrebbe arginare l’acqua alta a Venezia che il M5S, assieme ai comitati che da anni vi si oppongono, definisce un «modello di illegalità diffusa».
Più a sud c’è un altro cantiere circondato da filo spinato e assediato da manifestanti: si trova a Melendugno, nel leccese. Serve a costruire il Tap, gasdotto che dovrebbe collegare il Mar Caspio all’Italia. Le denunce del M5S hanno portato al sequestro dell’area per violazione della procedura di Valutazione d’impatto ambientale. Salvini prima delle elezioni aveva l’obiettivo di sfondare la linea gotica e radicarsi al sud, quindi da queste parti si è mostrato più dialogante. Disse qualche mese fa: «Bisogna ascoltare le popolazioni e trovare soluzioni alternative»
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Focus, 9 maggio 2018. Non sbaglia chi definisce il turismo sregolato di massa "la peste dei nostri tempi". Studi recenti rivelano la sua perniciosa influenza anche sull'effetto serra. (m.p.r.)
È un messaggio che va un po' in controtendenza, in questo periodo di prenotazioni compulsive: il nostro sacrosanto desiderio di viaggiare potrebbe avere tuttavia un impatto ecologico più pesante di quanto credessimo. Secondo uno studio pubblicato su Nature Climate Change, il turismo è cresciuto a tal punto che è oggi responsabile dell'8% delle emissioni globali di gas serra, un'impronta quattro volte più ingombrante del previsto.
Le nuove stime. Arunima Malik e i colleghi dell'Università di Sydney, Australia, hanno stimato le emissioni annuali di gas serra legate al turismo di 160 Paesi, e concluso che il settore emette ogni anno circa 4,5 gigatonnellate di CO2 equivalente (la CO2 equivalente è una misura che permette di considerare in un unico gruppo anche emissioni di gas serra diversi, con differenti effetti sul clima). Una gigatonnellata (Gt) corrisponde invece a un miliardo di tonnellate.
I costi nascosti. Stime precedenti parlavano di 1-2 gigatonnellate all'anno. Perché si è arrivati a risultati così diversi? Se i calcoli passati consideravano soprattutto l'impatto degli inquinanti viaggi in aereo (responsabili da soli del 12% delle emissioni totali del settore), i nuovi modelli hanno incluso fattori come l'edificazione e la manutenzione degli hotel, i cibi poco a chilometro zero che ci concediamo nei buffet degli alberghi, i souvenir acquistati dai turisti... insomma, le emissioni necessarie a viziare i fortunati - ed esigenti - viaggiatori.
In salita. Anche la crescita delle emissioni sembra crescere in modo allarmante: si è passati dalle 3,9 gigatonnellate del 2009 alle 4,5 del 2013. Se continuiamo a questo ritmo, arriveremo a 6,5 gigatonnellate entro il 2025. A incidere di più sono le emissioni dovute alla scelta di mete esotiche, preferite da ricchi cittadini delle solite economie forti (USA, Cina), ma anche da una fetta crescente di turisti da Paesi emergenti, come India e Brasile.
Anno di ricorrenze, questo 2018. In estate saranno quarant’anni esatti dall’entrata in vigore, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, della legge 457 sull’edilizia residenziale e della legge 392 sull’equo canone. Il 9 dicembre, saranno vent’anni dall’approvazione della legge 431 che ha liberalizzato il mercato dell’affitto e l’ultimo giorno dell’anno ricorreranno vent’anni dall’abrogazione del contributo GESCAL, che ha segnato la fine dell’impegno dello stato nel settore dell’edilizia pubblica.
Quarant’anni sono anche il periodo coincidente con la vita lavorativa di Giancarlo Storto, già direttore generale delle Aree urbane e dell’edilizia residenziale presso il Ministero dei Lavori pubblici, che una volta in pensione ha deciso di ripercorrere criticamente la lunga stagione di cui è stato testimone diretto. Il suo libro La casa abbandonata, uscito in questi giorni per Officina Edizioni, offre una prospettiva storica e un inquadramento complessivo al susseguirsi di provvedimenti e iniziative che hanno progressivamente smantellato l’intero settore delle politiche abitative pubbliche. E per questo risulta particolarmente prezioso.
Le conseguenze negative della disarticolazione del progetto riformatore iniziale e della scomparsa - anche lessicale - dell’edilizia residenziale pubblica, le difficoltà di gestione del patrimonio realizzato, la dialettica con la pianificazione urbanistica, la mancata integrazione con le politiche sociali, l’accondiscendenza verso il settore edilizio privato e gli intrecci con la rendita immobiliare, il primato attribuito alla proprietà della casa a discapito dell’affitto, le ripercussioni della mancata riforma istituzionale e della contraddittoria ripartizione di competenze fra stato, regioni ed enti locali: tutti i nodi critici della questione della casa sono affrontati con riferimenti precisi accompagnati da chiare sottolineature, come questa: “Non pare vi sia consapevolezza nelle istituzioni” che la gestione sia parte integrante dei piani e dei programmi e “appare essersi radicata negli uffici una sorta di accettazione passiva sull’ineluttabilità delle disfunzioni”. Come dirlo meglio e come non convenire sul fatto che la sottovalutazione di questi aspetti si sia rivelata esiziale perché ha accreditato la propaganda contro la burocrazia che alimenta il circolo vizioso in cui siamo tuttora intrappolati?
Dobbiamo a Giancarlo Storto anche un doveroso riconoscimento per aver ideato e sostenuto, alla fine degli anni novanta, i Contratti di quartiere, un’iniziativa di carattere sperimentale rivolta agli insediamenti di edilizia residenziale pubblica. L’unico tra i programmi complessi che non ha fatto affidamento sulla leva immobiliare. Nel libro si sottolinea che dagli esiti positivi di questa vicenda, così come dai difetti e dai limiti riscontrati sul campo, si sarebbe potuto imparare molto per definire i contenuti di una rinnovata stagione di politiche pubbliche intersettoriali, inclusive e abilitanti e per riorganizzare e rivitalizzare, conseguentemente, la macchina amministrativa. Nulla di tutto ciò è accaduto, come ben sappiamo, a dispetto del profluvio di proclami spesi sulle periferie e sulla rigenerazione urbana.
Come mostrano questi due piccoli esempi, nonostante l’autore non rinunci ad esprimere giudizi severi, La casa abbandonata sfugge ai cliché dell’indignazione e della denuncia, così come a quelli del fallimento e della sconfitta. È invece un testo rigoroso e meditato, cosa rara in questi tempi sguaiati. Per questo lo possiamo inserire tra i libri indispensabili. Quelli che si consultano quando serve un riferimento affidabile, ma nei quali troviamo le parole giuste per interpretare e raccontare le questioni che ci stanno a cuore.
Giancarlo Storto, La casa abbandonata, Officina edizioni, Roma, 2018
Riferimenti
il Salto, 27 aprile 2018. Sabato un corteo aperto da un trattore ha attraversato Firenze e l' Oltrarno per difendere Mondeggi dalla vendita, attraverso una gestione civica basata su progetti agricoli, lavoro collettivo, manutenzione, assemblee, una scuola e un teatro contadino. con riferimenti (i.b.)
«Siamo ribelli perché la terra è ribelle se c’è chi la vende e la compra come se la terra non fosse terra e come se non esistessimo noi che siamo del colore della terra»
subcomandante Marcos
A giugno dello stesso anno, durante una tre giorni di convivialità e dibattiti politici, un presidio contadino formato da una ventina di persone si stabilisce nelle case coloniche di Cuculia e Ranieri. Ha così inizio un nuovo cammino: quello di “Mondeggi Bene Comune- Fattoria Senza Padroni”. «Il mondo contadino non appartiene al passato», ha raccontato Andrea di Genuino Clandestino ai microfoni di radio Città Futura: «Difendere il libero accesso alla terra è necessario, e Mondeggi Bene Comune è simbolo della lotta e della riappropriazione delle terre».
Oggi, grazie al progetto MO.TA (Mondeggi Terreni Autogestiti) almeno 300 persone custodiscono parte delle olivete; mentre i terreni sono tornati a produrre frutta, ortaggi, uva e cereali, zafferano secondo le tecniche dell’agricoltura contadina. Ai lavori agricoli si uniscono anche le autoproduzioni: miele, pane, prodotti erboristici, birra sono alcuni dei prodotti reperibili presso lo Spaccio Autogestito della Fattoria, nei vari circuiti contadini ed estranei alla Grande distribuzione organizzata. «Perdere Mondeggi significherebbe far cessare un processo di trasformazione sociale ormai avviato in questo contesto», commenta Alessio, uno dei ragazzi seduto vicino all’entrata della sala riunioni, dove si sta tenendo una delle tante lezioni libere e gratuite dei corsi tenuti dalla Scuola Contadina. «Questa esperienza è un’opportunità per l’intero territorio su cui ci troviamo: 200 ettari di lotta attraversati da chi vuole offrire un futuro diverso a questa zona. Non è possibile rispondere con la vendita a ogni fallimento di gestione pubblica della terra. Su questi poderi potrebbero trovare lavoro oltre cento persone».
Il movimento contadino non è morto, dicevamo. Non si vedeva un’occupazione delle terre da oltre cinquant’anni, in Italia. Le ultime risalgono agli anni del Secondo Dopoguerra quando, specie al Sud Italia (ma anche sul delta Padano e in alcune zone della Sardegna e della Toscana) i contadini e le contadine, stremati da fame e miseria, si riprendevano ciò che i grandi proprietari terrieri continuavano a tenere per sé: la terra. La rivolta di Melissa e le braccia incrociate sull’altipiano silano; lo sciopero di Avola e Portella della Ginestra in Sicilia ci raccontano della lotta contadina italiana e di chi è caduto sotto i colpi esplosi da uno Stato che negava terra, libertà e cibo. Adesso i tempi sono cambiati ma, ora come allora, la disoccupazione morde. Beni comuni e ambiente, vengono calpestati come il diritto di chi vorrebbe dedicarsi alla vita agricola, finendo alla mercè dei possessori di grossi capitali da investire nella speculazione sui territori.
«Sappiamo di percorrere una strada lunga e difficile, ma abbiamo bisogno di vincere questa sfida», dice ancora il giovane attivista. Nel corso di questi anni, la costante partecipazione alla vita della fattoria e la concreta sperimentazione di un laboratorio di autogestione e di democrazia diretta dal basso, hanno portato allo sviluppo di una “comunità diffusa”. «Mondeggi è l’unico soggetto informale in grado di custodire la tenuta», aggiunge Roberto mentre ricorda che agli uffici della città metropolitana di Firenze è stata presentata, e protocollata, una “Dichiarazione per la gestione di un bene civico”. Un atto redatto sulla falsariga di altre esperienze che presso le diverse amministrazioni – Casa Bettola a Reggio Emilia, Ex Asilo Filangieri a Napoli – hanno trovato un riconoscimento legale. Un’apertura istituzionale invece assente nella città di Firenze, che lo scorso novembre ha raccolto cinque manifestazioni di interesse all’acquisto di Mondeggi. Al “sondaggio”, lanciato dall’ente in attesa del prossimo bando per l’asta, hanno risposto gli attuali custodi, un privato cittadino e tre imprese. Due di queste, la Bl Consulting e la My Group, si occupano di lussuose ristrutturazioni. L’altra, la Chianti Ruffino, è un’impresa vitivinicola collegata alla multinazionale Constellant Brands, un colosso mondiale proprietario di oltre cento marchi di alcolici (fra cui la birra Corona).
Intanto, appellandosi alla presunta illegalità di chi riprende in mano i beni comuni, lo scorso 10 aprile si è aperto il processo contro 17 degli occupanti. Le accuse sono furto di energia elettrica e invasione di edifici e terreni. Parte civile si è costituita la città metropolitana, intenzionata a chiedere un risarcimento per danneggiamento. Bisognerebbe comprendere, però, cosa intenda la giunta fiorentina per “danni”, se centinaia di persone hanno rimesso in sesto un luogo altrimenti inutilizzato.
«Scenderemo in piazza per rivendicare che Mondeggi è un Bene Comune e va difeso dalla proposta di vendita dell’amministrazione pubblica», si legge in un comunicato diffuso dalla rete di Genuino Clandestino, che proprio presso la Fattoria senza Padroni terrà il suo incontro questo fine settimana. «Siamo convinti che per i movimenti contadini ed ecologisti sia fondamentale creare legami transnazionali per costruire insieme una prospettiva globale di lotta», chiude la nota.
Sabato 28 aprile, un corteo vivace e colorato sarà aperto da alcuni trattori e attraverserà le vie di Firenze «contro la svendita dei beni comuni, per l’autodeterminazione dei territori attraverso esperienze di vita agroecologiche. Per costruire un futuro fertile, sosteniamo le Resistenze contadine e cittadine difendendole dalle privatizzazioni, dall’avvelenamento e dalle devastazioni», si legge sul volantino diffuso per invitare alla manifestazione. L’appuntamento è in piazza San Marco alle 17.30.
Di fronte al disagio abitativo, la violazione dei diritti e i danni ambientali provocati dalla crescente ascesa dell'industria turistica, una rete di movimenti del Sud Europa ha creato un manifesto per cominciare ad opporre resistenza. con riferimenti (i.b.)
In molte città del Sud Europa stanno nascendo movimenti di resistenza ai processi di turistificazione che le stanno investendo. Associazioni e collettivi di alcune di queste (Venezia, Valencia, Siviglia, Palma, Pamplona, Lisbona, Malta, Malaga, Madrid, Girona, Donostia/San Sebastian, Canarie, Camp de Terragona, Barcellona) si sono incontrati nel corso dell’ultimo anno in diverse occasioni, con l’obiettivo di condividere e scambiare esperienze e conoscenze.
Anche se ognuna di queste città presenta problemi specifici legati a questo fenomeno, alcuni sono senza dubbio comuni a tutte loro:
Di fronte a questi e altri conflitti, la popolazione locale ha iniziato a organizzarsi per difendere i suoi diritti sociali, primo fra tutti, il diritto a un alloggio dignitoso e accessibile e il diritto alla città. Il lavoro collettivo che nelle nostre città stiamo realizzando spesso comincia dalla messa in evidenza di questi conflitti e dall’acquisizione di una maggiore consapevolezza, passando per la critica al modello turistico e la denuncia delle sue conseguenze, e continuando con la proposta di vie alternative.
Esempi di queste ultime, sono la richiesta di imposizione di limiti all’industria turistica, la deturistificazione dell’economia della città, o la decrescita turistica accompagnata da politiche di stimolo di altre economie più eque dal punto di vista sociale e ambientale. Il grado d’incidenza di questi problemi nelle diverse città non è affatto omogeneo, anzi molto variabile, giacchè spesso dipende direttamente dal grado di turistificazione che le colpisce. Così ci sono stadi più avanzati e gravi, ad esempio Venezia, Palma o Barcellona, dove è evidente la necessità di un cambio di modello e altre, come Valencia, Madrid o Lisbona che, nonostante si trovino immerse in rapidi processi di turistificazione, possono ancora aspirare a politiche di prevenzione o freno.
Su questi e altri argomenti, in queste e in altre città abbiamo trovato molti punti in comune, elogicamente abbiamo iniziato a pensare all’opportunità e necessità di creare una rete internazionale di città colpite dall’industria turistica.
L’obiettivo, oltre al supporto e al confronto reciproci, è di estendere questa lotta ad altre città e territori, creando una voce plurale e potente di critica al modello turistico attuale che si alzi dal Sud Europa. Questo manifesto è il primo passo per la internazionalizzazione della lotta alla turistifcazione delle città e dei territori, attraverso il quale continuiamo il dibattito, la riflessione e la mobilitazione comune.
Riferimenti
Il manifesto della rete SET (Sud Europa contro la Turistificazione) è stato presentato pubblicamente il 24 Aprile in tutte le città coinvolte. Nato sotto la spinta di una serie di organizzazioni e movimenti spagnoli, ha cercato sin dall'inizio di coinvolgere altre realtà europee, soprattutto dei paesi mediterranei, più fragili ambientalmente e più aggrediti dal turismo di massa, diventato oramai la nuova forma di colonizzazione, che relega ai margini - fisici, economici e sociali - i residenti delle città turistiche.
Qui potete accedere al video della rete e alla pagina facebook.
Segnaliamo alcuni dei numerosi articoli sugli effetti dannosi del turismo raccolti in eddyburg. Intramontabile l'articolo di Luigi Scano del 2006 sul Turismo insostenibile, che già allora sosteneva come il turismo minaccia di devastare Venezia. Un breve, ma significativo estratto del libro di Marco d’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, dove si spiega come il turismo non solo devasta le città a causa per la sua invadenza nella vita quotidiana dei residenti, ma la uccide in modo più sottile, svuotandola di vita, privandola dell’interiore, proprio come nella mummificazione, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica.
Su Venezia, consigliamo il testo di Clara Zanardi Non solo navi. Sull'impatto antropico sul turismo contenente una profonda analisi dell'impatto del business croceristico sulla città. L'intervista al sociologoveneziano Giovanni Semi, Venezia stregata dal turismo urge rompere l'incantesimo sul nuovo capitalismo finanziario che attraverso la monocultura turistica accelera i meccanismi di espulsione e di disuguaglianza abitativa. Dalla penna di Paola Somma si legga Bella gente, sulla quale il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro focalizza le sue politiche urbane, moltiplicando i favori all' industria del turismo e regalando sostanziosi incentivi agli sviluppatori immobiliari che stanno distruggendo il territorio lagunare.
Su Firenze, segnaliamo gli articoli di Ilaria Agostini Firenze. Il turismo consuma il diritto alla casa, che spiega come politiche mercantilistiche hanno cambiato la natura antropologica della residenza, e di Paolo Baldeschi Firenze. La movida, il turismo e la città desiderata, con un ampia analisi dei problemi derivanti dal turismo sregolato di massa e la svendita della città al turismo "ricco".
il manifesto, 28 aprile 2018. A sei anni dall'inizio del processo, la sentenza della Cassazione ha annullato le condanne inflitte dalla Corte di appello di Torino ai manifestanti NO TAV degli scontri in Val di Susa nel 2011, con postilla (i.b)
La sentenza della Cassazione che ha annullato pressoché in toto le pesanti condanne inflitte dalla Corte di appello di Torino nel maxiprocesso per gli scontri in Valsusa nel 2011, è una smentita senza precedenti dei teoremi di Procura e giudici torinesi nei confronti dei No Tav.
Non è certo la prima. Basta ricordare, per limitarsi ai casi più noti, la caduta rovinosa dell’imputazione di terrorismo nel processo per il danneggiamento di un compressore e l’annullamento di numerose misure cautelari. Ma questa volta la smentita è, se possibile, ancora più significativa. Per coglierne il senso conviene ripercorrere la vicenda.
I fatti risalgono all’estate del 2011 e si verificano alla Maddalena di Chiomonte dove, all’esito di numerosi ripensamenti, si è deciso di cominciare lo scavo del tunnel geognostico propedeutico alla costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione. Lì si organizza l’opposizione della Valle con un presidio di migliaia di persone che, il 27 giugno, vengono sgomberate, con inaudita violenza e con un uso massiccio di lacrimogeni, da reparti di varie polizie in assetto di guerra. Allo sgombero fa seguito, il 3 luglio, un imponente corteo di protesta all’esito del quale si verificano pesanti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Sei mesi dopo il gip di Torino emette 41 misure cautelari nei confronti di attivisti No Tav imputati di violenza pluriaggravata a pubblico ufficiale e di lesioni.
La lettura del provvedimento dimostra un inedito salto di qualità dell’intervento giudiziario che, da mezzo di accertamento e di perseguimento di responsabilità individuali, si trasforma sempre più in strumento di tutela dell’ordine pubblico.
Le misure cautelari, pur facoltative, vengono emesse per reati che consentono, con il bilanciamento di aggravanti e attenuanti, la sospensione condizionale della pena e vengono giustificate tra l’altro, con la singolare considerazione che «i lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati».
La motivazione si concentra, più che sulle condotte individuali, su una ritenuta responsabilità collettiva sino all’affermazione che «è superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano».
La pericolosità degli imputati viene desunta essenzialmente da rapporti di polizia e, per uno di essi, addirittura dal fatto che «nel 1970 è contiguo ai movimenti della sinistra extraparlamentare «Lotta Continua» e «Potere operaio» e partecipa a una manifestazione non preavvisata» (sic!). Il seguito è coerente, all’insegna di quello che è stato definito il «diritto penale del nemico». Il procuratore della Repubblica interviene di continuo sulla stampa affermando in modo tranchant che «a operare sono squadre organizzate secondo schemi paramilitari affluite nella Valle da varie città italiane ed europee per sperimentare metodi di lotta incompatibili con il sistema democratico».
I vertici degli uffici giudiziari torinesi non consentono lo svolgimento a palazzo di giustizia di un convegno sul tema organizzato dai Giuristi democratici. Il processo è sostenuto in modo acritico da un’alleanza di ferro tra fautori dell’opera, Partito democratico e media locali e nazionali. Interviene persino il presidente della Repubblica che «rinnova l’apprezzamento per come magistratura e forze dellordine stanno operando in quella tormentata area della Valsusa»).
In questo clima, e in aule presidiate da forze di polizia come se fossero campi di battaglia, si svolgono i dibattimenti di primo e di secondo grado che si concludono con pesanti condanne di gran parte degli imputati. Ebbene, oggi, sei anni dopo l’inizio del processo, la Cassazione riconosce l’inconsistenza e la forzatura di questa operazione.
Certo, occorre aspettare le motivazioni. Ma, intanto, alcune cose sono chiare già dal dispositivo: che le motivazioni delle condanne non sono congrue (tanto da imporre un nuovo processo per quasi tutte le posizioni), che alcuni dei reati contestati semplicemente non esistono (tanto da determinare l’annullamento della sentenza sul punto), che la sostituzione della responsabilità individuale con una inedita responsabilità collettiva a titolo di concorso non può avere cittadinanza nel nostro sistema, che alcune delle pene inflitte sono eccessive. È quanto basta per dire che è necessaria una completa rilettura della vicenda.
postilla
E' una buona giornata per chi lotta contro gli scempi compiuti da classi dirigenti che nella migliore delle ipotesi sono semplicemente incapaci di governare i nostri territori e nella peggiore sono solo interessati ad ottenere benefici personali alle spalle del paese e dei suoi abitanti, nascondendosi dietro la retorica del progresso, della modernità e dello sviluppo economico. Gli unici che in queste opere traggono beneficio sono le imprese che costruiscono opere inutile e dannose e i politici che in cambio di approvazioni e assensi ricevono favori. Sull'argomento vedi in eddyburg gli articoli di Marco Aime No Tav. Fuori dal tunnel, e di Tomaso Montanari Vuoi grandi opere?