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La retorica che va per la maggiore attualmente in Italia e in Europa, è che per uscire dalla crisi lo Stato deve investire, soprattutto in grandi infrastrutture, e in particolare in quelle di trasporto (vedi linea Torino-Lione, ma di opere simili ce ne sono sul tavolo una quantità, ognuna con i propri sponsor politici e industriali). Ora il prof. Prud’homme dell’Università di Lione ha fatto un’analisi del tutto indiziaria, su un numero limitato di paesi europei (8) e per un numero limitato di anni (5, dal 2000 al 2004 compresi). Sono anni abbastanza lontani da consentirci di vedere oggi gli impatti di quella politica, ma non così lontani da collocarsi in un contesto economico troppo remoto. Ha rapportato le spesa in investimenti in infrastrutture di trasporto (strade e ferrovie) con il Pil medio di quei 5 anni considerati. Cioè ha analizzato quanta parte della loro ricchezza hanno dedicato proprio ai grandi investimenti. La limitatezza dei dati e del campione non consente ovviamente altro che di avanzare dei dubbi, cioè di rendere assai meno solido il luogo comune che recita “più grandi investimenti in trasporti = più crescita economica”.

Chi vince, nell’ordine? Primo viene il Portogallo, poi la Grecia, poi la Spagna, poi l’Italia. Buona quinta la Francia, mentre Germania, Regno Unito e Svezia sono i fanalini di coda. Non occorre ricordare come sono andate le economie di questi Paesi, in particolare Spagna e Grecia, sia in termini di crescita economica che di debito pubblico. Ma c’è stato anche un celebre precedente in Giappone: negli anni Novanta quel paese spese un’enorme quantità di denari pubblici in infrastrutture per rilanciare la crescita economica, con risultati trascurabili, se non quello di una spettacolare crescita del debito (e, sembra, di livelli di corruzione altrettanto spettacolari). La retorica delle Grandi Opere si richiama a sproposito a Keynes, grande economista inglese, che però parlava di stimolare la crescita, in periodi di crisi, con spesa pubblica che aumentasse rapidamente i consumi e l’occupazione (“impiegare i disoccupati anche a scavar buche e riempirle” era il suo noto paradosso).

Le Grandi Opere sono certo spesa pubblica (soprattutto quelle ferroviarie, che, al contrario di quelle autostradali, gli utenti non pagano), ma mancano clamorosamente delle altre due caratteristiche: cioè creano poca occupazione, e non la creano rapidamente. Invece, è certamente vero che molte di queste abbiano la stessa utilità di scavar buche e riempirle (si è già citata la Torino-Lione, ma altre non scherzano). Creano poca occupazione, per ciascun euro pubblico speso, perché oggi nelle opere civili si fa quasi tutto a macchina (si pensi per esempio alle “talpe” per scavare tunnel). Il costo diretto del lavoro non supera il 25% dei costi totali. Non la creano rapidamente perché i cantieri durano 10 anni, e il “picco” di addetti necessari è spostato in là, quando si arriva ai lavori di finitura e messa in opera.

Questo approccio al rilancio economico mediante Grandi Opere, care al governo Berlusconi, sembrava molto indebolito, soprattutto per la scarsità delle risorse pubbliche. Tuttavia oggi nuove nubi si affacciano all’orizzonte, e questa volta arrivano dall’Europa, e sono fortemente caldeggiate dallo stesso governo Monti, e ovviamente da banche e grandi costruttori. Si tratta dei Project Bond e della cosiddetta “golden rule”. I primi sono di fatto garanzie europee sui prestiti (bond) che i privati possono fare per realizzare progetti. Ma ovviamente varranno per progetti europei, pensati prima della crisi, quindi di importo molto elevato e con orizzonti temporali molto lunghi. Cioè proprio Grandi Opere, e si ricorda che le Grandi Opere europee non sono altro che la sommatoria di quelle indicate dai diversi paesi, cioè per l’Italia quelle care al governo Berlusconi. Le garanzie europee sui prestiti dei privati, salvo un improbabile irrigidimento della Commissione europea, significano che se poi l’opera si rivela scarsamente utile e avrà poco traffico, l’Europa, cioè ancora le casse pubbliche, pagheranno. Un ulteriore debito pubblico, mascherato e rimandato nel tempo.

La “golden rule” significa che le spese per investimenti pubblici in infrastrutture non sarebbero più conteggiate nel debito nazionale. E il risultato sarebbe del tutto analogo a quello degli Project Bond: un forte incentivo a spendere in Grandi Opere di dubbia utilità. L’opposizione tedesca (e inglese) all’introduzione di questi strumenti, si badi, era proprio finalizzata a scoraggiare spese pubbliche clientelari e improduttive, che avrebbero pesato sui deficit per molti anni.

Angela Merkel ha fatto e continua a fare molti errori economici, ma in questo caso sembra difficile non solidarizzare, almeno un po’, con la sua visione rigorista, che appare certo più difendibile dell’allegro Keynesianismo di molti altri governi europei, supportati da interessi che con la crescita non hanno davvero nulla a che vedere.

L’autore è professore di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano

0 > Città e territorio > Temi e problemi > Consumo di suolo

Perdiamo terreno

Data di pubblicazione: 20.08.2012

Nell’inchiesta di Salari e il commento di Cianciullo, l’analisi della situazione italiana sul consumo di suolo a partire dal dossier di WWF e Fai “Terra rubata”. repubblica on-line, 20 agosto 2012 (m.p.g.)

Così stanno uccidendo l'Italia agricola. Quei 600 mila ettari rubati dal cemento

di Gabriele Salari

Una superficie artificializzata grande quanto il Friuli Venezia Giulia. Nonostante la stabilità demografica in 50 anni c'è stato un forte incremento del territorio urbanizzato: 8.500 ettari all'anno. Un aumento del 500% dal Dopoguerra ai primi anni Duemila. Siamo i primi produttori di cemento in Europa e il business alimenta anche la diffusione delle cave di calcare sui fianchi di colline e montagne.

Cinquecento per cento. Di tanto è aumentata la superficie impermeabilizzata dal cemento o dall’asfalto in Italia tra il 1956 e il 2001. Questo crescente consumo di suolo è avvenuto a prescindere dallo sviluppo economico o demografico. Il caso del Molise, la cui popolazione ha una consistenza numerica pressoché costante dal 1861, è significativo: la superficie urbanizzata è passata dai circa 2.316 ettari del 1956 ai 12.030 del 2002, con una variazione positiva quindi di circa 9.700 ettari, pari a un consumo giornaliero di circa mezzo ettaro. Lo stesso si può dire però per tutta l’Italia dove la stabilità demografica contraddistingue gli ultimi decenni, ma dove, tra il 1991 e il 2001, l’Agenzia Ambientale Europea rileva un incremento di quasi 8.500 ettari l’anno di territorio urbanizzato (il doppio della media europea) e l’Istat ben tre milioni di ettari di territorio, un terzo dei quali agricolo, perso tra il 1990 e il 2005. Gli ultimi anni non sono serviti affatto a invertire questa tendenza.

L’allarme, lanciato da Fai e Wwf nel recente dossier “Terra Rubata”, arriva in un momento in cui a livello globale si riscontra la stessa tendenza. La Cina, ad esempio, cerca di accaparrarsi terreni agricoli in Africa per sopperire alle proprie necessità di produzione alimentare. È il suicidio dell’Italia agricola, giardino d’Europa, che ha rinnegato le proprie origini per inseguire l’industrializzazione e che ora, nell’epoca postindustriale, continua a disseminare il territorio di capannoni, invece di recuperare le aree dismesse ed evitare nuovo consumo di suolo.

In Italia è praticamente impossibile tracciare un cerchio di 10 chilometri di diametro senza incontrare un nucleo urbano, con tutto ciò che ne consegue, sia per l’isolamento dei francobolli di natura rimasti che, guardando le cose dal punto di vista opposto, quanto a difficoltà di individuazione di siti idonei per impianti come le discariche che dovrebbero sorgere lontano da un centro abitato.

La nostra economia incentrata sul Pil ha visto nel settore delle costruzioni un suo punto di forza e l’ultimo decennio non ha fatto eccezione, anzi: il 2007 è stato il nono anno consecutivo di sviluppo del settore in Italia, qualificandosi come l’anno in cui i volumi produttivi hanno raggiunto i livelli più alti dal 1970 ad oggi.

Felici di coprire l’Italia di cemento quindi e pazienza se quel suolo è perso per sempre, non potrà più tornare ad essere suolo agricolo. In un’epoca in cui non si prevede crescita demografica e in cui il paesaggio è forse una delle risorse più importanti del Paese, una scelta poco sensata. Anche l’IMU, introdotta dal federalismo fiscale, si conferma come un introito per i Comuni ancora proporzionale in larga parte alla quantità di edifici senza, almeno per ora, vincoli particolari di utilizzazione e quindi del tutto analoga all’ICI negli effetti nefasti sulla trasformazione del suolo.

In uno studio che ha riguardato circa la metà del territorio italiano, si è visto che l’area urbana si è mediamente moltiplicata di quasi 3 volte e mezza dal Dopoguerra ai primi anni 2000, con un aumento di quasi 600.000 ettari in circa 50 anni, cioè una superficie artificializzata pari quasi a quella dell’intera regione Friuli Venezia Giulia.

Il business del cemento, del quale siamo i primi produttori in Europa, alimenta anche la diffusione delle cave di calcare per cementifici che infliggono pesanti ferite al paesaggio, visto che sorgono sui fianchi di colline e montagne, e risultano visibili a chilometri di distanza, assumendo il tipico aspetto di enormi cicatrici color bianco abbagliante. Eccezionale la situazione nel Casertano, con cave spesso fuorilegge a ridosso di centri abitati, come denuncia il dossier “Terra rubata”, che segnala come questo tipo di cave sia spesso in mano all’ecomafia.

La piaga dell’abusivismo edilizio nel Meridione amplifica a dismisura il fenomeno del consumo di suolo, sia in aree a forte vocazione agricola che in aree dove il buon senso (oltre che la legge Galasso) impedirebbe di costruire, come le pendici dei vulcani. Il Vesuvio è un caso emblematico anche perché a case e altri manufatti, si aggiunge la presenza di cave e discariche, a fronte di un territorio fertile in cui si coltivano diversi prodotti tipici.

Il sacrificio delle pianure dove costruire conviene

Gabriele Salari

Gli operatori immobiliari hanno meno vincoli urbanistici, edificare costa di meno e il diffondersi dei centri commerciali aiuta ad incentivare le lottizzazioni. La geografia dell'Italia è in rapido cambiamento: non più piccoli centri storici tra vigne e uliveti, ma campagne dentro le città. Degli effetti ce ne accorgiamo durante le alluvioni

Quasi il 60% delle aree urbanizzate è collocato in aree pianeggianti, indubbiamente più comode per ciò che riguarda i collegamenti e più vantaggiose in relazione ai costi di costruzione. Sono bastati alcuni decenni di crollo dell’agricoltura nelle più piccole pianure italiane per provocarne il sacrificio. In pratica, si è consumato più suolo e in modo più estensivo dove questa risorsa era più disponibile e dove costava meno, anche quando i suoli utilizzati erano ad alta vocazione agricola.

“La speculazione legata ai cambi di destinazione d’uso delle aree agricole e all’edificabilità dei suoli ha generato spesso un intreccio tra costruttori e Amministratori pubblici che ha in molti casi stravolto ogni tentativo di seria programmazione e gestione territoriale” spiega Franco Ferroni, responsabile biodiversità del Wwf Italia. “Gli interessi dei grandi costruttori sono molto spesso coincidenti con quelli fondiari, chi costruisce case da tempo compra le terre su cui edificare e non sempre le comprano con l’edificabilità già sancita nei piani regolatori. Il guadagno in questo caso si moltiplica, e di molto”.

Basti considerare che in un’area di fondovalle di Umbria o Marche i terreni ad alta vocazione agricola possono avere costi ad ettaro di 15.000 - 20.000 euro che salgono facilmente a 70.000 - 90.000 euro ad ettaro se il terreno diventa edificabile con un centro residenziale o commerciale che sostituisce i seminativi. O ancora, quanto può rendere di più un agrumeto della Costiera Amalfitana se invece che produrre il limone sfusato di Amalfi, il terreno viene impiegato come parcheggio dai turisti che affollano d’estate la località di mare?

Andando su e giù per lo Stivale si nota come si stia sfaldando il tessuto italiano fatto di piccoli centri storici immersi in orti e vigneti, campi e pascoli. I centri medioevali si svuotano di abitanti perché vengono considerati “scomodi” visto che spesso non si può posteggiare l’automobile sotto casa. Costruire su spazi verdi extra-urbani costa poi meno rispetto ai costi di recupero e di adeguamento del patrimonio immobiliare esistente e gli operatori immobiliari nei territori extra-urbani trovano minori vincoli urbanistici. Non solo, il diffondersi di grandi centri commerciali periferici incentiva ulteriormente la nascita di lottizzazioni extraurbane e l’uso dell’automobile. Più case isolate e più centri commerciali portano alla necessità di più strade e quindi a una crescita esponenziale del consumo di suolo.

“Un’altra causa del fenomeno è rappresentata dalla possibilità per i Comuni di utilizzare fino al 50% degli oneri di urbanizzazione per pagare le spese correnti. In carenza di altre risorse questa norma ha incentivato da parte delle amministrazioni locali il cambio della destinazione d’uso dei terreni agricoli in aree edificabili anche in assenza di un reale fabbisogno, per aumentare le entrate nei propri bilanci e mantenere i servizi essenziali” spiega Ferroni.

I dati a disposizione indicano che in Pianura Padana il 9,9% della superficie è occupato da opere d’urbanizzazione, cave e discariche, con punte del 12,5% nelle aree dell’alta pianura e del 16,9% in corrispondenza delle colline moreniche. In Versilia e nelle pianure interne della Toscana, Umbria e Lazio il consumo di suolo per attività extra-agricole raggiunge il 10,6% della superficie. Vi sono aree in cui l’urbanizzato copre addirittura il 50% del suolo ed è la campagna a trovarsi all’interno dello spazio urbano e non viceversa.

Accade per esempio nell’ampia regione che ha come vertici Bergamo-Lecco-Como-Varese-Milano oppure intorno a Bologna, da Parma a Cesena. “Negli ultimi 15 anni il diffondersi degli insediamenti si è proposto con forza anche in alcune zone della pianura irrigua che fino a un ventennio fa ne erano rimaste immuni e che da alcuni erano pensate come il possibile cuore verde della megalopoli padana” scrivono Stefano Bocchi e Arturo Lanzani in “Campagna e Città” (Touring Club Italiano).

Il problema è che stiamo assistendo a una “padanizzazione” delle nostre pianure in tutto il Paese. Nonostante già prima della crisi economica molti alloggi e molti capannoni industriali fossero vuoti, si continua a costruirne degli altri e ogni città si sviluppa ormai lungo le principali strade di comunicazione fino a saldarsi con la città successiva. Questo lo si percepisce chiaramente percorrendo la superstrada da Perugia a Spoleto, nella Valle Umbra, oppure la Pontina, da Roma a Latina. Difficile capire dove finisce un centro abitato e ne inizia un altro: è la cancellazione della campagna.

L’impermeabilizzazione delle pianure produce effetti di cui ci accorgiamo in occasione delle alluvioni, visto che l’asfalto limita le aree di espansione naturale delle piene. Servirebbero dunque vincoli sulle modificazioni d’uso dei terreni agricoli, ma anche incentivi per chi intraprende l’attività agricola. Nel 2009, secondo le stime dell’Unione europea, mentre il reddito reale per lavoratore nel settore è sceso in media del 12%, in Italia il calo è stato di oltre il doppio.

In Europa il suolo è un valore e si difende

Gabriele Salari

Mentre in Italia mancano i meccanismi di gestione e controllo del territorio, nel resto del Vecchio Continente si tenta di porre un limite al consumo del territorio. La prima è stata la Francia, con tre leggi negli anni 90. Poi la Gran Bretagna con le 'Green Belts', che impediscono alle città di saldarsi tra loro. La Germania si è posta un obiettivo: non più di 30 ettari al giorno entro il 2020.

La Germania è stato uno dei primi paesi che si è occupato della tutela del paesaggio e ha fissato un limite quantitativo al consumo di suolo, dopo aver rilevato nel 2002 un tasso di crescita di 129 ettari al giorno (in Italia siamo oggi a 75 ettari).

Il limite, da raggiungere entro il 2020, è di 30 ettari al giorno e si sta cercando di raggiungerlo con una politica di riutilizzo dei suoli già impermeabilizzati, ad esempio, prevedendo una diversa tassazione sugli immobili a seconda che siano realizzati o meno su aree già urbanizzate.

Nel 1999 è entrata in vigore una vera e propria legge per il suolo, che vede l’inserimento della tutela dei suoli in tutte le regolamentazioni e norme di settore e l’inserimento del principio di prevenzione. Un approccio normativo così completo e puntuale è stato portato avanti con una contemporanea attività di ricerca e analisi per la misurazione del fenomeno.

In Gran Bretagna, invece, si è riusciti a impedire che le città si saldassero tra di loro, grazie a un’intuizione del 1995: le Green Belts, le cinture verdi che circondano i centri urbani costringendoli in confini non valicabili per l’espansione edilizia. In quell’anno l’estensione delle Green Belts era di 1.556.000 ettari, circa il 12% del suolo inglese, mentre oggi siamo arrivati a una superficie di quasi 1.700.000 ettari. Un vero successo che ha consentito di proteggere la campagna e le attività che vi si svolgono, ma anche di conservare le caratteristiche specifiche delle città storiche con il loro contesto e aiutare la rigenerazione urbana, incoraggiando il riutilizzo di aree urbanizzate abbandonate.

Almeno il 60 % delle nuove abitazioni in Gran Bretagna devono essere realizzate su suolo già urbanizzato, intendendo aree ed edifici che sono stati abbandonati o sono in stato di degrado oppure utilizzati ma che potrebbero essere riqualificati. A sostegno di questa politica, il “National Land Use Database” viene aggiornato annualmente e contiene informazioni sui suoli già impermeabilizzati ed edificati in Inghilterra.

Anche in Francia tre diverse leggi, entrate in vigore alla fine degli anni Novanta si occupano della gestione del territorio, mentre in Italia manca ancora questo tipo di meccanismi di pianificazione e perfino il Catasto delle aree percorse dal fuoco, previsto dalla legge quadro sugli incendi 353/2000, per impedire l’edificazione nei boschi dati alle fiamme, è uno strumento che molti Comuni non applicano, facendo mancare così un ulteriore argine al consumo di suolo.

Con villini e capannoni ci rimette la nostra storia

Antonio Cianciullo

La bellezza del nostro territorio rischia di essere cancellata da una sfilata di villini, strade e capannoni. Sono necessarie leggi più severe, ma soprattutto un'operazione strutturale che dia importanza ai piccoli centri. Dall'agricoltura multitasking al ribaltamento della centralità attraverso internet e la capillarità dei trasporti

Campi abbandonati, perché non più redditizi, riconquistati dal bosco. Una campagna accanto a una città, mangiata dalla lottizzazione. Sono due esempi molto diversi che spiegano perché è difficile leggere i numeri sulla perdita di suolo agricolo: un’interpretazione sbagliata rischia di offrire sintesi che non corrispondono alla realtà.

Diamo quindi al bosco quel che è del bosco e non calcoliamo come cementificate le aree abbandonate dall’agricoltura e restituite agli alberi o agli arbusti. Il dato che resta è comunque drammatico: la superficie annualmente coperta da cemento e asfalto si misura nell’ordine di qualche centinaio di chilometri quadrati l’anno.

Si tratta dunque di costruire dei paletti in grado di fermare la perdita di territorio che rischia di trasformare le pianure in un sfilata ininterrotta di villini, capannoni, svincoli, strade, fabbriche, centri commerciali: un unicum di asfalto e cemento che cancella la nostra storia e le basi della nostra cultura materiale. Su questo sono tutti, o quasi, d’accordo. Ma qual è il sistema più efficace per raggiungere l’obiettivo?

Molti insistono sulla necessità di leggi più severe. E questo è senz’altro necessario. Le green belt volute dai britannici a difesa delle loro città si sono rivelate uno strumento efficace. In Italia perfino la semplice applicazione di normative già esistenti ma spesso ignorate, come quella che vieta le costruzioni sulle aree devastate dagli incendi, potrebbe fare molto.

Ma anche le leggi più severe rischiano alla lunga di essere aggirate se non si compie un’operazione più strutturale capace di restituire valore alla cosiddetta Italia minore, che poi è l’Italia che fa maggiore il nostro appeal: un appeal basato sulla grande diversità della nostra cultura, sui mille campanili, sull’arte di godersi la vita che prende forme diverse provincia per provincia, città per città.

Difendere la vivibilità dei piccoli centri nelle aree interne e montuose significa costruire un sistema di trasporti moderno in grado di assicurare anche i collegamenti trasversali e minuti, non solo le grandi tratte dell’alta velocità. Significa garantire la possibilità di essere al centro del mondo abitando in un paesino sperduto grazie all’accesso al web ad alta velocità. Significa mettere in piedi l’Internet dell’energia trasformando milioni di case in punti di produzione di elettricità e calore in modo da rovesciare il concetto di centralità che ha governato il ventesimo secolo.

Difendere la vivibilità economica delle imprese agricole significa prima di tutto frenare la fuga dai campi, che è dettata principalmente da ragioni economiche e che in 10 anni ha portato all’abbandono di un milione e 800 mila ettari. In questa direzione va la proposta di un’agricoltura multitasking che permetta a chi vive nei campi di far quadrare i conti utilizzando, a integrazione del reddito, altri strumenti: dall’agriturismo ai piccoli o mini impianti di rinnovabili passando per una più corretta valutazione economica del lavoro svolto in termini di difesa idrogeologica.

Già oggi - ricorda Andrea Segré preside della facoltà di agraria di Bologna - le attività di servizio connesse al lavoro agricolo (compresa l’ospitalità negli agriturismi) valgono un quinto del fatturato delle aziende del settore. Senza calcolare i profitti derivanti dall’uso energetico degli scarti di lavorazione, dal mini eolico e dal solare.

“I residui delle colture agricole hanno un potenziale energetico quattro volte superiore a quello che l’agricoltura utilizza per le proprie attività”, aggiunge Giampiero Maracchi, docente di climatologia a Firenze.“Sole, vento, biomasse, biocombustibili, biogas sono tutte forme di energia che possono essere prodotte dalle attività agricole, dando al paese più del 30 % dell’energia di cui ha bisogno”.

Gli strumenti da utilizzare, come si vede, possono essere vari. Quello che conta è ribaltare la logica economica che finora ha premiato i Comuni per le attività più devastanti (gli incassi legati alla concessione di licenze edilizie) e trasformato in un costo le attività di difesa dell’ambiente e della bellezza del territorio

Con villini e capannoni ci rimette la nostra storia

Antonio Cianciullo

La bellezza del nostro territorio rischia di essere cancellata da una sfilata di villini, strade e capannoni. Sono necessarie leggi più severe, ma soprattutto un'operazione strutturale che dia importanza ai piccoli centri. Dall'agricoltura multitasking al ribaltamento della centralità attraverso internet e la capillarità dei trasporti

Campi abbandonati, perché non più redditizi, riconquistati dal bosco. Una campagna accanto a una città, mangiata dalla lottizzazione. Sono due esempi molto diversi che spiegano perché è difficile leggere i numeri sulla perdita di suolo agricolo: un’interpretazione sbagliata rischia di offrire sintesi che non corrispondono alla realtà.

Diamo quindi al bosco quel che è del bosco e non calcoliamo come cementificate le aree abbandonate dall’agricoltura e restituite agli alberi o agli arbusti. Il dato che resta è comunque drammatico: la superficie annualmente coperta da cemento e asfalto si misura nell’ordine di qualche centinaio di chilometri quadrati l’anno.

Si tratta dunque di costruire dei paletti in grado di fermare la perdita di territorio che rischia di trasformare le pianure in un sfilata ininterrotta di villini, capannoni, svincoli, strade, fabbriche, centri commerciali: un unicum di asfalto e cemento che cancella la nostra storia e le basi della nostra cultura materiale. Su questo sono tutti, o quasi, d’accordo. Ma qual è il sistema più efficace per raggiungere l’obiettivo?

Molti insistono sulla necessità di leggi più severe. E questo è senz’altro necessario. Le green belt volute dai britannici a difesa delle loro città si sono rivelate uno strumento efficace. In Italia perfino la semplice applicazione di normative già esistenti ma spesso ignorate, come quella che vieta le costruzioni sulle aree devastate dagli incendi, potrebbe fare molto.

Ma anche le leggi più severe rischiano alla lunga di essere aggirate se non si compie un’operazione più strutturale capace di restituire valore alla cosiddetta Italia minore, che poi è l’Italia che fa maggiore il nostro appeal: un appeal basato sulla grande diversità della nostra cultura, sui mille campanili, sull’arte di godersi la vita che prende forme diverse provincia per provincia, città per città.

Difendere la vivibilità dei piccoli centri nelle aree interne e montuose significa costruire un sistema di trasporti moderno in grado di assicurare anche i collegamenti trasversali e minuti, non solo le grandi tratte dell’alta velocità. Significa garantire la possibilità di essere al centro del mondo abitando in un paesino sperduto grazie all’accesso al web ad alta velocità. Significa mettere in piedi l’Internet dell’energia trasformando milioni di case in punti di produzione di elettricità e calore in modo da rovesciare il concetto di centralità che ha governato il ventesimo secolo.

Difendere la vivibilità economica delle imprese agricole significa prima di tutto frenare la fuga dai campi, che è dettata principalmente da ragioni economiche e che in 10 anni ha portato all’abbandono di un milione e 800 mila ettari. In questa direzione va la proposta di un’agricoltura multitasking che permetta a chi vive nei campi di far quadrare i conti utilizzando, a integrazione del reddito, altri strumenti: dall’agriturismo ai piccoli o mini impianti di rinnovabili passando per una più corretta valutazione economica del lavoro svolto in termini di difesa idrogeologica.

Già oggi - ricorda Andrea Segré preside della facoltà di agraria di Bologna - le attività di servizio connesse al lavoro agricolo (compresa l’ospitalità negli agriturismi) valgono un quinto del fatturato delle aziende del settore. Senza calcolare i profitti derivanti dall’uso energetico degli scarti di lavorazione, dal mini eolico e dal solare.

“I residui delle colture agricole hanno un potenziale energetico quattro volte superiore a quello che l’agricoltura utilizza per le proprie attività”, aggiunge Giampiero Maracchi, docente di climatologia a Firenze.“Sole, vento, biomasse, biocombustibili, biogas sono tutte forme di energia che possono essere prodotte dalle attività agricole, dando al paese più del 30 % dell’energia di cui ha bisogno”.

Gli strumenti da utilizzare, come si vede, possono essere vari. Quello che conta è ribaltare la logica economica che finora ha premiato i Comuni per le attività più devastanti (gli incassi legati alla concessione di licenze edilizie) e trasformato in un costo le attività di difesa dell’ambiente e della bellezza del territorio.

Su Roma una nuova pioggia di case
la campagna nelle mire dei palazzinari

Di Francesco Erbani

Due mila ettari di terreno lasceranno il posto a 66 mila case. Merito degli "ambiti di riserva", aree selezionate dal Comune per circa 200 mila abitanti. Tanti quanti quelli di Salerno o Brescia. Legambiente denuncia che nella Capitale già esistono più di 250 mila appartamenti vuoti. Alemanno promette che questi alloggi, fuori dal Piano Regolatore del 2008, saranno in parte destinati all'edilizia popolare. Ma è necessario costruire ancora?

ROMA - Il titolo è burocraticamente innocuo: "Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata". Il senso è un altro. Su Roma possono abbattersi 66 mila nuovi alloggi, cioè 23 milioni di metri cubi di appartamenti che si piazzeranno su 2 mila 400 ettari di campagna romana. Le lottizzazioni sono sparse per ogni dove nelle "erme contrade", come Giacomo Leopardi chiamava nella Ginestra la cintura agricola intorno alla città - e "erme" vuol dire solitarie.

Una campagna dove, nonostante tante aggressioni, si fa ancora molta agricoltura, dove fitta è la trama archeologica e altissimi i valori paesaggistici. Se in ogni appartamento andranno a vivere dalle due alle tre persone, ecco profilarsi, dentro il territorio comunale, una città dai 130 ai 200 mila abitanti. Grande quanto Salerno o quanto Brescia. Che viola persino il Parco dell'Appia Antica, ai bordi del quale potrebbe sorgere un bel quartiere con 3 mila abitanti. L'allarme è alto. Sono mobilitate le associazioni ambientaliste, i comitati di cittadini preparano barricate. Nei giorni scorsi si è svolto un sit-in davanti al Campidoglio. È intervenuto anche l'Istituto nazionale di urbanistica (Inu). E due deputati di Pd, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, hanno presentato un'interrogazione parlamentare.

Ma, prima di tutto: c'è bisogno d'altro cemento a Roma? Il Piano regolatore, approvato appena quattro anni fa dalla giunta di Walter Veltroni, prevede edificazioni per 70 milioni di metri cubi, un diluvio di calcestruzzo che sta inondando di gru, di villette e di palazzi la capitale in tutte le direzioni - la terribile "macchia d'olio" descritta cinquant'anni fa da Antonio Cederna -, ma che non trova giustificazioni nella crescita demografica: l'ultimo censimento inchioda la popolazione residente a 2 milioni 600 mila abitanti, appena 50 mila in più rispetto al 2001. I 66 mila nuovi alloggi sono proprio nuovi, cioè sono oltre quelli del Piano, molti dei quali appena costruiti giacciono lì, invenduti, a fare la muffa e a impensierire le banche che con i costruttori si sono esposte enormemente e ora vedono in pericolo i capitali anticipati, prefigurando scenari da bolla immobiliare spagnola. Si attendono i dati dell'ultimo censimento, ma nel 2001 risultavano 193 mila appartamenti inutilizzati che, secondo molti, è una cifra molto sottostimata. Legambiente calcola almeno 250 mila appartamenti vuoti a Roma.

Uno dei requisiti fissati dal Comune è proprio che i nuovi alloggi vengano costruiti in suoli che il Piano riserva come agricoli. Molto esplicita la relazione del Dipartimento urbanistica del Comune di Roma: "Le aree selezionate andranno ad aggiungersi agli Ambiti di Riserva a trasformabilità vincolata già individuati dal Prg vigente". Insomma è come se il Piano, abbondantemente sovradimensionato e sottoutilizzato, fosse già carta straccia. Inoltre, fa notare l'Inu, non vengono attuati 35 Piani di Zona già approvati per realizzare case popolari, cioè case di proprietà pubblica.

Per Gianni Alemanno e per il suo assessore all'urbanistica, Marco Corsini, arriva in porto una promessa fatta ai romani subito dopo l'insediamento in Campidoglio nel 2008 per fronteggiare l'emergenza abitativa, molto alta nonostante le troppe case che si costruiscono ma che restano inaccessibili ai ceti più deboli. I 66 mila appartamenti servono, dice il sindaco, perché destinati in parte ad housing sociale. Che vuol dire case ad affitti agevolati, realizzate da privati i quali ottengono in cambio licenze per costruire altre case da vendere a mercato libero. Sei euro al metro quadrato, assicurano al Comune, l'importo di un affitto agevolato, 420 euro per una casa di 70 metri quadrati, due stanze, doppio bagno, cucina e soggiorno. Ma su questa materia non esistono norme di legge, tutto dipenderà dalle convenzioni fra Comune e costruttori.

Appena eletto, Alemanno lanciò un bando per dare casa, diceva, a chi casa non se la poteva permettere - giovani coppie, single, studenti fuori sede, famiglie a basso reddito. Ma neanche poteva accedere alle liste per vedersi assegnato un alloggio popolare, che a Roma come in tutta Italia si costruiscono sempre meno. Sono arrivate 334 proposte. Una commissione le ha valutate e ne sono state selezionate 160 (che potrebbero forse scendere a 135: ma sono pur sempre 20 milioni di metri cubi). Il Comune sostiene che si tratta solo di una ricognizione. Mancano passaggi fondamentali, primo fra tutti l'approvazione di una variante urbanistica in Consiglio comunale, che ha tempi molto più lunghi di quelli che mancano alla fine della legislatura (primavera 2013). Ma non sfugge alle associazioni ambientaliste e ai comitati quanto la pubblicazione della lista sul sito del Comune generi aspettative sfruttabili elettoralmente, faccia sentire i proprietari selezionati in possesso di diritti e soprattutto inneschi meccanismi di valorizzazione fondiaria (un terreno edificabile vale enormemente di più rispetto a uno agricolo). Circolano depliant di cooperative edilizie, se ne parla sui social network.

Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la mappa degli "ambiti di riserva" che compare in rete è un florilegio di puntini neri sparpagliati dovunque, quasi un fiotto di coriandoli lanciati per aria e piovuti al suolo, senza nessuna logica di pianificazione. Senza nessun supporto del trasporto pubblico. Basti pensare che una delle prescrizioni imposte dal bando del Comune è che il terreno sul quale costruire sia a non più di 2 chilometri e mezzo da una fermata dell'autobus. Che comunque deve essere raggiunta in macchina.

I tagli dei terreni sono vari. Si va dai 2 ettari e poco più a Tor Vergata, dove si possono realizzare 82 appartamenti ai 90 ettari complessivi della società agricola Cornacchiola, dove di appartamenti se ne possono fare 2.500. Questo terreno, diviso in due parti, è il più grande degli insediamenti previsti in tutta Roma, ma non è solo questo il primato di cui può fregiarsi. Questi 90 ettari si stendono proprio al confine con il Parco dell'Appia Antica, zona con vincoli di ogni genere, archeologici e paesaggistici e che, nonostante tutte le norme impongono debba restare integra, potrebbe essere lo scenario di stupefacente bellezza sul quale affacceranno finestre, balconi e terrazzi di oltre cinquemila persone. Un vero sfregio per la Regina viarum, che si aggiungerebbe agli abusi che la vilipendono da decenni. Ma sono picchiettate di lottizzazioni zone adiacenti altri parchi, come quelli di Veio, della Marcigliana o la Riserva del Litorale.

"Dal bando per l'housing ci aspettavamo un disastro", sbotta Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio, "ma i risultati che Alemanno vorrebbe approvare sono peggiori di qualsiasi incubo. L'associazione dei costruttori aveva chiesto l'1 % del territorio e Alemanno ne elargisce quasi il 2 %. Una brutta ipoteca sul futuro, visto che il sindaco non potrà mai vedere attuata prima delle elezioni l'assurda variante generale al Piano Regolatore scritta sulla base dei risultati di un bando, ma rischia di generare diritti edificatori che non ci toglieremo più". Molto duro è anche il giudizio di Italia Nostra che si dice "assolutamente contraria a tale iniziativa perché porta ad una dispersione caotica dei nuovi insediamenti residenziali che non rispondono ad alcun progetto di città ma sono determinati casualmente in base alle offerte della proprietà fondiaria. Prima di pensare a nuove urbanizzazioni dell'Agro romano, sarebbe piuttosto necessario utilizzare le aree e i fabbricati dismessi o sottoutilizzati da censire immediatamente per trovare soluzioni alternative e più articolate all'emergenza abitativa".

A Roma Nord, nel XIX Municipio, calano 29 insediamenti, per un totale di 454 ettari e quasi 15 mila appartamenti. Un acquazzone cementizio anche nel confinante XX Municipio, 357 ettari compromessi da oltre 10 mila appartamenti. In questi due Municipi risiede il Parco di Veio, da dove sono arrivati alcuni capolavori archeologici ora custoditi nel Museo di Villa Giulia. Altri insediamenti per oltre 110 ettari si annunciano nella zona di Porta di Roma, sempre a Nord della città, dove sono stati costruiti negli ultimi sei anni quasi 3 milioni di metri cubi e dove la sera, se ci si aggira fra le palazzine tirate su da Caltagirone, dai fratelli Toti e da Mezzaroma, i grandi nomi dell'edilizia romana, sono pochissime le finestre illuminate in un desolato panorama di case vuote. In pericolo le aree verdi di Selva Candida e Villa Santa, la Cecchignola, Colle della Strega. E altre palazzine potrebbero prendere il posto degli ulivi secolari nei 30 ettari di una tenuta a pochi metri da Villa Segni, un edificio storico sull'Anagnina. Anche qui vincoli paesaggistici e vincoli archeologici non sono bastati: questo terreno è finito, insieme agli altri 159, nella lista che potrebbe sconvolgere gli assetti già molto precari di Roma.

16 luglio 2012

Il boom delle case non aiuta nessuno. Manca un’idea urbanistica di Roma

Giovanni Caudo intervistato da Francesco Erbani

"Costruire nuovi alloggi non basta a fronteggiare l'emergenza abitativa". Si allargherà il disagio delle famiglie e si abbasserà la qualità della vita nella Capitale. Ne risentiranno anche gli operatori immobiliari che ora credono di arricchirsi. Parla Giovanni Caudo, professore di Urbanistica a Roma 3

Giovanni Caudo insegna Urbanistica all'università Roma 3. Da anni studia le trasformazioni della capitale, in particolare il disagio abitativo che a Roma raggiunge livelli di emergenza e le politiche attuate per fronteggiarlo, compiendo raffronti con le principali realtà europee.

Professor Caudo qual è la logica urbanistica degli "ambiti di riserva"?

«Non c'è logica urbanistica. Da anni a Roma si fa urbanistica senza avere a cuore la cura per la città. Le scelte non incontrano i bisogni dei cittadini: si fanno più case, molte restano invendute, ma il disagio abitativo si allarga sempre di più».

Si può quantificare questo disagio?

«Sono 163 mila i romani che tra il 2003 e il 2010 hanno lasciato Roma per spostarsi nei comuni della provincia, si tratta della popolazione di una città come Cagliari. Sono gli stessi anni in cui si elaborava il Piano regolatore, con scelte urbanistiche presentate come "moderne" e "innovative"».

Che hanno prodotto quali effetti?

«Un urbanistica senza città e senza un'idea di città. Questo degli "ambiti di riserva", poi, è un provvedimento che ci allontana dalle altre città europee e ci avvicina a quelle del sud America, dove chi ha il suolo costruisce e il resto non conta».

Quale può essere l'effetto sull'emergenza abitativa?

«La prima conseguenza è sulle regole: viene affossato il Piano approvato appena nel febbraio del 2008. Un affossamento, va detto, programmato dagli stessi autori del Piano, che con un articolo delle norme di attuazione, il numero 62, hanno costruito il dispositivo che ne può scardinare il contenuto. Anche se le 160 proposte considerate compatibili non impegnano l'amministrazione, è altrettanto evidente che si alimentano delle aspettative che prima o poi peseranno».

Questo per le regole, e per le case a chi ne ha più bisogno?

«Il Comune con il Piano casa del marzo 2010 ha stimato il fabbisogno abitativo in 25.700 alloggi e ha deciso di utilizzare gli ambiti di riserva per collocarvi la quota di alloggi che non si riesce a reperire con altre iniziative. Non c'è un dimensionamento preciso, ma una stima prudente parla di 7 mila alloggi. Le 160 proposte compatibili portano però a un dimensionamento che è almeno dieci volte superiore».

Quindi l'obiettivo è altro?

«Bisognerebbe fare attenzione a usare il disagio abitativo. Per alcune famiglie è un dramma cresciuto negli stessi anni in cui a Roma si registrava un boom delle nuove costruzioni: dal 2003 al 2007 si sono costruiti quasi 52 mila alloggi, diecimila ogni anno. Un incremento percentualmente doppio di quello di Milano. Negli stessi anni il disagio abitativo è diventato insostenibile. Abbiamo visto quanti romani sono stati espulsi dalla città (il costo medio di un alloggio in provincia è del 43 per cento più basso rispetto alla media di Roma); gli sfratti eseguiti crescevano in un solo anno dell'8 per cento e quelli per morosità erano quasi l'80 per cento».

Ma le diverse amministrazioni hanno riflettuto a sufficienza su questi dati?

«L'espressione "emergenza abitativa" neanche compare nella relazione del Piano. Ripeto: crescevano le case costruite e aumentavano le persone senza casa. Alla Biennale Architettura del 2008, Francesco Garofalo dedicò il padiglione italiano al tema della casa: "Housing Italy. L'Italia cerca casa". In una mostra di architettura sostenevamo che costruire case non basta per contrastare l'emergenza abitativa, che c'è bisogno di politiche per la casa che toccano aspetti diversi e che ruotano attorno a una sola questione: aumentare la dotazione di case a costo accessibile, sia in affitto che per l'acquisto».

Non basta costruire.

«Occorre chiedersi per chi si costruisce, e il per chi si porta appresso il come, sia rispetto ai modelli costruttivi che a quelli della gestione degli immobili. In una parola bisogna fare delle politiche per l'abitare e non solo case. Roma avrebbe bisogno di un piano per "riabitare la città abitata", altro che cementificare l'agro romano».

Il sindaco Alemanno parla di housing sociale. «"Il cavallo di troia dell'housing sociale è ormai un gioco troppo scoperto perché qualcuno possa ancora abboccare. La sola cosa che sta a cuore a questa amministrazione è far costruire, non interessa dove purché sia».

Chi trae vantaggio da questa operazione?

«Gli operatori immobiliari, i proprietari del terreno che da agricolo diventa edificabile e che incassano incrementi di valore consistenti, le imprese che si sono assicurate la promessa di vendita del terreno nel caso che riescano a portare in porto l'operazione. Ma vorrei azzardare che si tratta di vantaggi apparenti, o per lo meno momentanei».

Che vuol dire?

«Nei momenti in cui il sistema economico produce ricchezza reale il settore immobiliare se ne avvantaggia perché patrimonializza quella ricchezza. E questo è stato anche l'uso anticiclico che si è fatto del settore edilizio in Italia. Tutto questo ormai appartiene a un'altra epoca, al secolo scorso. Oggi che il nostro sistema economico è in difficoltà strutturale, che ricchezza da patrimonializzare ce n'è sempre meno ci si illude di poterla inventare costruendo. Il sindaco Alemanno nella sua relazione al seminario sulle varianti urbanistiche dell'aprile scorso l'ha proprio teorizzato questo approccio quando ha parlato di "moneta urbanistica"».

Moneta urbanistica? La città come una banca dalla quale si incassa rendita?

«Più che una banca, direi che Roma diventa una zecca: non possiamo più stampare la lira e allora a Roma stampiamo metri cubi. Le centralità definite dal Piano regolatore, già cariche di cubature, in alcuni casi vedono raddoppiate le previsioni edificatorie; il bando sugli ambiti di riserva; i milioni di metri cubi promessi al privato in cambio della costruzione della metropolitana; le valorizzazioni dei depositi ATAC; poi le caserme e le altre iniziative di questo tipo: si rischia di inflazionare la "moneta urbanistica" e di produrre una perdita di valore complessivo. Gli alloggi invenduti sono il segnale che non basta fare leva sull'offerta; come dire: è inutile portare il cavallo a bere se non ha sete.»

Pubblichiamo il capitolo introduttivo del Rapporto. In allegato il dossier completo.

Il problema

L’Italia sta perdendo terreni agricoli in un trend negativo e continuo. Secondo l’ISTAT, dagli anni ’70 del secolo scorso ad oggi l’Italia ha perso una superficie agricola (Superficie Agricola Utilizzata – SAU) pari a Liguria, Lombardia ed Emilia Romagna messe insieme. Perché? E cosa ne è del territorio sottratto all’agricoltura?

Le molteplici variabili che incidono sulla perdita di superficie agricola possono essere ricondotte a due macro fenomeni: l’abbandono dei terreni da parte degli agricoltori e l’avanzamento delle aree edificate. Attualmente l’abbandono riguarda la porzione più ampia dei terreni sottratti all’agricoltura. Tuttavia, la cementificazione, o impermeabilizzazione del suolo per utilizzare la terminologia scientifica1, è il fenomeno che desta maggiori preoccupazioni. Essa, infatti, oltre ad essere irreversibile e con un elevato impatto ambientale, interessa i terreni migliori sia in termini di produttività che di localizzazione: terreni pianeggianti, fertili, facilmente lavorabili e accessibili quali, ad esempio, le frange urbane, le aree costiere e quelle pianeggianti. Al contrario, l’abbandono riguarda i terreni meno fertili, spesso situati in aree montane e/o a bassa infrastrutturazione. Si tratta, inoltre, di un fenomeno potenzialmente reversibile che, nonostante influisca sull’organizzazione e sulla gestione del territorio e del paesaggio, non impedisce lo svolgimento delle funzioni naturali ed ecologiche del suolo, quali l’assorbimento dell’acqua piovana, la produzione di biomassa e la sua capacità di immagazzinare CO2.

La cementificazione, al contrario, non solo insidia l’organizzazione del territorio, del paesaggio e degli ecosistemi in maniera irreversibile ma erode anche la sicurezza alimentare sottraendo all’agricoltura i terreni maggiormente produttivi.

Finora la globalizzazione ha mitigato, nei Paesi di prima industrializzazione, il problema della sicurezza alimentare consentendo, attraverso il mercato, un agile approvvigionamento dei beni di consumo non disponibili all’interno dei confini nazionali. Il sistema, tuttavia, si regge sull’assunto che qualcuno su scala globale sia in grado di produrre indefinitamente surplus agricolo da immettere sul mercato: un assunto fragile messo in crisi dall’incremento demografico, dalla crescita del potere d’acquisto dei Paesi emergenti e dell’avanzare della cementificazione.

Secondo l’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Ricerca Ambientale, ogni giorno in Italia vengono impermeabilizzati 100 ettari di terreni naturali e poiché il fenomeno esula dai confini nazionali le sue conseguenze non possono essere ammortizzate su scala globale.

Questo dossier ha lo scopo di descrivere il problema della cementificazione e le sue conseguenze sul comparto agricolo e sulla sicurezza alimentare del nostro Paese affrontandone le cause, gli effetti e le possibili strade da intraprendere per limitare l’avanzata della cementificazione.

E' con stupore che il Comitato Notunneltav ha appreso delle denunce nei confronti di alcuni partecipanti alla manifestazione che si tenne il 1 marzo 2012 a sostegno dei cittadini della Valle di Susa.

Fu una manifestazione pacifica, non accadde nulla che potesse offendere anche le più delicate sensibilità perbeniste.

Stride fortemente la distanza tra la violenza che fu agita in quei giorni nei confronti dei cittadini piemontesi (inseguiti fin dentro le case e i negozi per essere manganellati) e il “reato” di aver bloccato per qualche minuto il traffico fiorentino, del quale sono accusati alcuni attivisti politici.

La tattica comunicativa adottata dalla politica a favore delle grandi opere inutili è monotona e ripetitiva:

Nei corridoi ministeriali, il piano casa della Regione Lazio presentato un anno fa, milioni di metri cubi di cemento, cavallo di battaglia di Renata Polverini, era soprannominato “discesa”. Notavano, gli ispettori del ministero dell’ambiente, una certa predilezione per le nuove piste da sci del Terminillo, per l’ampliamento esponenziale delle metrature del nuovo aeroporto e, più in generale, un’attitudine alla cementificazione selvaggia e alla speculazione edilizia in una prospettiva in cui l’emergenza abitativa risiedeva all’ultimo posto delle priorità. Con la rissa di ieri tra il ministro Ornaghi (già duro sull’ipotesi a dicembre) e la Regione (“inesattezze”) e dopo due distinti pareri del governo sull’incostituzionalità del piano casa legata “alla pianificazione paesaggistica” datati 13 febbraio e 30 aprile 2012 in cui si bocciava duramente il progetto parlando di “escamotage terminologici”, “vizi di fondo legati alla condonabilità degli abusi”, “formulazioni ambigue e disordinate”, si è capito perché. Tre giorni fa, per mano di Luciano Ciocchetti, assessore all’urbanistica, dell’Udc, la giunta ha presentato nottetempo un maxiemendamento al piano capace di provocare la rivolta dei Radicali e l’uscita di Verdi, Pd e Idv e dall’aula. Emendamento che, diceva Ciocchetti, superava i conflitti relativi all’epoca Galan (l’ex titolare del dicastero, che bocciando il piano casa originario aveva minacciato il riscorso alla Corte Costituzionale) e abbracciava in pieno, dopo opportuno confronto, il gradimento di Ornaghi. Tutto falso secondo l’ex rettore della Cattolica, indignato al pari del ministro del turismo Gnudi, furibondi contro il golpe alla amatriciana di Ciocchetti. Un caos che nel pomeriggio dà vita a una quadriglia di dichiarazioni che portano in prima pagina una partita davanti alla quale Polverini e i suoi, in vista delle elezioni, non possono permettersi arretramenti.

Il governo tuona contro il “falso ideologico”, la Regione parla di inesattezze negando (per la prima volta, un inedito) che ci sia bisogno di un parere del Ministero per procedere e gli ultrà della curva, a iniziare da Teodoro Buontempo, azionano la grancassa delle retorica demagogica utile allo spottone: “Con il nuovo piano casa tutelati i diritti di 1.600 famiglie”. Ora con il caso esploso e non più tenuto nei binari della dialettica civile, si attendono altri interventi, a cominciare da quello della Corte dei Conti. Chi ha incontrato Renata Polverini, ieri, la descriveva terrea. Sul Piano, milioni di euro di investimenti, appalti, indotto, centri commerciali (che c’entrano con il Piano casa?) aveva giocato carte per lei decisive. Non si aspettava sbarramenti. Sono arrivati sulla tutela del paesaggio. Il Ministero, salvata Villa Adriana, aveva già mostrato scarsa inclinazione alla sua devastazione. Con buona pace dei tanti palazzinari che a Roma e sul litorale da decenni, mettono le loro mani avide. Verdi e i Radicali si rivolgeranno al tribunale. Non sono gli unici a ritenere insopportabile che gli enti religiosi abbiano ottenuto l’ennesimo privilegio: la possibilità di edificare nei dintorni di chiese e luoghi di culto anche uffici, case e centri commerciali, in deroga al piano regolatore. Concessioni che secondo Radicali e Verdi “toglieranno terreno utile per la costruzione di scuole, asili e presidi sanitari”. Amen.

Facce serie. Giacche abbottonate. Sguardi proiettato al futuro. Il “gioco” è grande, enorme: vale 12 miliardi di euro, quanto due ponti di Messina. Quanto mai nessuna opera in Italia. È il raddoppio delle scalo aereo di Fiumicino, presentato ieri nella Capitale da Aeroporti di Roma. Ma la condizione affinché possa decollare “è avere il contratto di programma, altrimenti saremo costretti a bloccarlo”, spiegano i vertici della società di gestione aeroportuale, presieduta da Fabrizio Palenzona. Tradotto: un adeguamento delle tariffe. Maggiori costi. Parliamo di circa tre euro a biglietto, moltiplicati per gli attuali 35 milioni circa di passeggeri, fanno oltre cento milioni di euro l’anno. “Il progetto per la realizzazione della nuova struttura aeroportuale prevede un incremento della capacità ad oltre 100 milioni di passeggeri annui e gli investimenti che verrebbero attivati sarebbero sostenuti per il 50% da vettori e da passeggeri esteri”, sostengono da Adr.

Peccato che alcune cose non tornano. Primo: lo scalo londinese di Heathrow, tra gli hub più grandi al mondo, ha lo stesso numero di piste del Leonardo da Vinci. Ma gli inglesi non intendono raddoppiarle. Secondo: molte aziende stanno spostando il proprio business verso vettori più grandi. Quindi minori decolli e atterraggi. Terzo: per realizzare l’opera sono necessari 1.300 ettari, la maggior parte dei quali sono di proprietà della azienda agricola Maccarese spa, colosso di proprietà della famiglia Benetton, acquistata dall’Iri per circa 93 miliardi. Adesso sono agricoli, coltivati, riforniscono la Capitale e la provincia di frutta e verdura, impegnano mano d’opera. Sono ossigeno per il territorio. In caso di esproprio la famiglia trevigiana vedrà riconosciuto un indennizzo pari a 20 euro a metro quadrato per circa 1000 ettari. Ottima plusvalenza.

Due anni fa il Fatto si è occupato della vicenda, con i cittadini preoccupati per la propria salute, visti i continui episodi tumorali. Mancavano i numeri, i dati. Ancora non esistono, ma qualche indicazione in più arriva dalla Lombardia: una nota inedita del ministero dell’Ambiente, pubblicata per la prima volta sul nostro giornale, ha rivelato che Malpensa, negli ultimi dodici anni, ha registrato un aumento per mortalità legate alle malattie respiratorie, pari al 54 per cento e un balzo nei ricoveri del 23,8 per cento, contro una media della provincia del 14 per cento. Eppure da Adr parlano solo di presunto sviluppo e di presunta mano d’opera. Oltre ai soldi necessari per realizzarla.

È STATO presentato un rapporto ufficiale con statistiche eloquenti e, un po’ a sorpresa, un disegno di legge «in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo» che, tra le altre cose, propone con grande coraggio l’abolizione dell’uso da parte dei Comuni degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente.

Il suolo è un bene comune. Una volta cementificato perde fertilità in maniera irreversibile, smette per sempre di produrre cibo, bellezza, cultura. Tre elementi che sono le nostre migliori ricchezze, che continuiamo a sperperare senza ritegno. A tal proposito, sia sufficiente una citazione attribuita all’economista John K. Galbraith: «Penso alla vostra patria, alla bellezza del suo paesaggio, alle vestigia storiche, alla sua agricoltura, al suo turismo. Se voi oggi siete in crisi è colpa vostra».

È colpa nostra bruciare risorse uniche: secondo il rapporto del ministero dal 1971 al 2010 abbiamo perso il 28% della superficie agricola utilizzata, un’area grande come Lombardia, Liguria ed Emilia- Romagna. Ogni giorno si cementificano 100 ettari di suolo e l’agricoltura italiana soddisfa soltanto più l’80% del nostro fabbisogno alimentare.Se per alcuni decenni l’agricoltura hasopperito alla diminuzione dei terreni con l’incremento delle rese delle coltivazioni, oggi ciò non è più possibile per motivi strutturali e di sostenibilità ambientale. L’agricoltura industriale non può andare tanto oltre quanto non si sia già spinta. Intanto il sistema di produzione del cibo soffre profondamente.

Scarsa remunerazione ai contadini, una filiera iniqua che penalizza soprattutto gli agricoltori e una mancanza cronica di giovani che rigenerino le nostre campagne sono un perfetto apripista per la perdita dei nostri terreni fertili, sia per cementificazione, sia per abbandono. La crisi del mondo agricolo è la prima causa del male, perché se distruggiamo i presidi principali del territorio, ovvero le persone che lo lavorano e lo curano, non ci sarà più speranza. Per ritrovarla servono nuovi paradigmi, creatività, nuove priorità. Ciò che giustamente Catania vuole incentivare: «Serve una battaglia di civiltà, per rimettere l’agricoltura alcentro del modello di sviluppo che vogliamo dare al nostro Paese. Immagino uno Stato che rispetti il proprio territorio e che salvaguardi le proprie potenzialità. Noi usciremo vincenti da questacrisi se lo faremo con un nuovo modello di crescita».

Dalla buona agricoltura non si prescinde, e quindi non si deve prescindere dalla tutela dei terreni. Il disegno di legge presentato ieri è un primopasso importante. Intanto perché è una novità assoluta, che recepisce una sensibilità sempre più diffusa tra la società civile. Sono tante le associazioni già al lavoro, e ricordo che è partita la campagna per un “Censimento del Cemento” da parte del Forum Nazionale “Salviamo il Paesaggio – Difendiamo i territori”: è stata spedita a tutti i Comuni d’Italia una scheda per censire gli edifici costruiti e inutilizzati, ma in pochi hanno già risposto. Che si diano da fare però, perché avere dati certi è una base indispensabile per lavorare a una legge più giusta possibile. Intanto il ministero, attraverso il metodo della concertazione, ieri ha saggiamente invitato le associazioni ambientaliste, degli agricoltori e tutte le altre istituzioni a pronunciarsi sul disegno di legge, suggerendo modifiche e migliorie al testo (che potete scaricare dal sito www.slowfood.it). Questo è incoraggiante, a prescindere da alcuni limiti che l’attuale stesura contiene.

Nel disegno di legge c’è però una proposta quasi rivoluzionaria: l’ultimo articolo del testo propone di abolire l’uso degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente dei Comuni. Ciò significa spezzare il secondo meccanismo principale che porta alla sciagurata cementificazione del nostro Paese: la continua emergenza economica degli enti locali che quasi non possono più esimersi dal sacrificare le proprie terre fertili per fare cassa. Andranno sicuramentepreviste delle compensazioni, perché è arduo pensare di togliere una risorsa così importante mentre si fa fatica a garantire i servizi essenziali, ma il meccanismo prima o poi si dovrà rompere: è un po’ come se durante un inverno freddissimo, quando non funziona più il riscaldamento di casa, iniziassimo a bruciare tutti i nostri mobili. Alla fine rimarremmo senza mobili e intanto il freddo non sarebbe passato: un lentissimo doppio suicidio. È invece necessario puntare alla vita, che può essere ben rappresentata dall’immagine di un suolo fertile che produce cibo, bellezza, piacere e, ve l’assicuro, potenzialmente così tanta nuova economia da riuscire a sovvertire anche lacrisi più nera.

Qui di seguito una “scheda” del disegno di legge dal sito http://www.casaeclima.com

“Ogni giorno 100 ettari di terreno vanno persi, negli ultimi 40 anni parliamo di una superficie di circa 5 milioni. Siamo passati da un totale di aree coltivate di 18 milioni di ettari a meno di 13. Sono dati che devono farci riflettere sul fatto che il problema del consumo del suolo nel nostro Paese deve essere una priorità da affrontare e contrastare”.

Lo ha dichiarato il ministro delle Politiche agricole, Mario Catania, nel corso dell'incontro "Costruire il futuro: difendere l'agricoltura dalla cementificazione", organizzato dal Mipaaf presso la Biblioteca della Camera dei Deputati a Palazzo San Macuto.

Durante il convegno il ministro Catania ha presentato il “Disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo”, che detta principi fondamentali per la valorizzazione e la tutela dei terreni agricoli e per contenere il consumo di suolo. Catania ha spiegato che questo ddl rappresenta una “bozza aperta”, aperta quindi ai suggerimenti da parte delle associazioni agricole e di tutti.

Estensione massima di superficie agricola edificabile

Il disegno di legge prevede, all'art. 2, che con un decreto del ministro delle Politiche agricole, d'intesa con quelli dell'Ambiente e delle Infrastrutture, sia determinata l'estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale. Con atto della Conferenza delle Regioni e delle provincie autonome, la superficie agricola edificabile sul territorio nazionale è ripartita tra le diverse Regioni, le quali a loro volta la definiscono su scala regionale e la ripartiscono tra i Comuni.

Congelamento della destinazione d'uso per 10 anni

All'articolo 3 del ddl viene stabilito che i terreni agricoli in favore dei quali sono stati erogati aiuti di Stato o aiuti comunitari non possono avere una destinazione diversa da quella agricola per almeno 10 anni dall'ultima erogazione. Questo vincolo deve essere espressamente richiamato negli atti di compravendita dei terreni, pena la nullità dell'atto. In caso di trasgressione al divieto è prevista una sanzione amministrativa da 5.000 a 50.000 euro, e la sanzione accessoria della demolizione delle opere eventualmente costruite e del ripristino dello stato dei luoghi.

Incentivi, monitoraggio e registro dei Comuni

Previste anche (art.4) misure di incentivazione per chi realizza il recupero di edifici nei nuclei abitati rurali; l'istituzione di un comitato con la funzione di monitorare il consumo di superficie agricola e il mutamento di destinazione d'uso dei terreni agricoli; l'istituzione di un registro in cui sono indicati, su richiesta, i Comuni che adottano strumenti urbanistici che non prevedono l'ampliamento delle aree edificabili; l'abrogazione della norma concernente gli oneri di urbanizzazione che permette ai comuni di “fare cassa”.

Nel Diciottesimo secolo se aveste voluto entrare a Londra da ovest sareste dovuti passare attraverso la porta con pedaggio di Kensington. Arrivando da est, invece, vi sarebbe stato chiesto di pagare il pedaggio a Whitechapel. Erano quelle barriere a segnare i confini occidentali e orientali della metropoli. Oggi ne abbiamo un equivalente moderno. A ovest e a est i confini della Londra consumistica sono contrassegnati da due enormi centri commerciali, di proprietà di una società australiana che si chiama Westfield. Il primo — quello leggermente più piccolo tra i due — si trova a Shepherd’s Bush, incuneato all’incrocio tra West Cross Road e Uxbridge Road. Il secondo è tra la Great Eastern Road, a Stratford, e il nuovo Parco olimpico londinese.A rigor di termini, non è più obbligatorio versare un pedaggio fisso passando in macchina all’ombra di queste due moderne barriere a pagamento. Tuttavia, qualora la curiosità dovesse obbligarvi a fare una sosta e a dare un’occhiata all’interno, è improbabile che ne uscireste senza aver speso almeno qualcosa. Questi due grandiosi monumenti al consumismo suonano per certi versi come una sorta di altrettanti rintocchi funebri per i tradizionali quartieri londinesi dello shopping: indubbiamente, andarsene a passeggio tra la folla di acquirenti ipnotizzati, sulla scintillante superficie dei vasti ambienti a forma di cattedrale di Westfield, è un’esperienza di gran lunga più gradevole che trascinarsi faticosamente su e giù lungo i marciapiedi sempre più malmessi e trascurati di Oxford Street.

Westfield Stratford City — come ormai viene chiamato il più recente dei due shopping centre — è soltanto il più appariscente delle varie strutture architettoniche che hanno portato la nuova Londra olimpica al centro di un’accalorata polemica. La questione più dibattuta è lo status assunto da Westfield di “accesso” allo Stadio Olimpico: in pratica, il settanta per cento degli spettatori che si recheranno ad assistere a un evento olimpico si avvicineranno al Parco percorrendo tragitti pedonali che passano letteralmente attraverso il centro commerciale stesso. In altre parole, sarà impossibileassistere a un evento olimpico senza ritrovarsi sottoposti a enormi pressioni per sborsare, lungo il tragitto, parte dei propri contanti. Da questo punto di vista, quindi, il centro di Stratford Westfield è in senso proprio una barriera con pedaggio. L’ideale olimpico di spirito sportivo e fraternità tra le nazioni è stato messo in linea di collisione diretta brutale — e intenzionale — con la nuova etica consumistica.

La parola più in voga che si sente pronunciare tutto intorno ai nuovi edifici olimpici è “Legacy”, eredità. Esiste perfino un’organizzazione denominata Olympic Park Legacy Company. “Legacy”in questo contesto è una di quelle parole altisonanti e flessibili alle quali nessuno può attribuire un significato inequivocabile. Volendo darne in ogni caso l’interpretazione più benevola, “legacy” esprime la determinazione da parte dei progettisti olimpici a far sì che le nuove grandi e costose strutture realizzate negli ultimi anni costituiscano un beneficio duraturo per questa parte dell’East End, storicamente svantaggiata e trascurata. Saranno molte le persone che vigileranno da vicino che questa promessa non vada infranta. Dopo tutto, quando un paese si trova sull’orlo della recessione e il suo primo ministro, laureatosi a Eton, dice alla popolazione che «ci troviamo tutti sulla stessa barca», è un momento davvero insolito perspendere 9,3 miliardi di sterline per un evento sportivo della durata di due settimane. (E che per altro pare diventare sempre più costoso col passare dei giorni: è stato annunciato da poco che il budget per garantire la sicurezza ai Giochi olimpici è stato quasi raddoppiato, passando da 282 milioni di sterline a 533).

Un gran numero di residenti è piuttosto scettico riguardo ai promessi miglioramenti a lungo termine. Le comunità britanniche urbane — delle quali quella londinese è naturalmente la più grande e la più in vista — un tempo si fondavano su qualcosa di solido: l’industria manifatturiera, per esempio. Westfield Stratford City è stata costruita proprio dove un tempo c’era la Stratford Railway Works, dallaquale uscirono 1.682 locomotive e 5.500 carrozze ferroviarie. Quella fabbrica chiuse i battenti oltre venti anni or sono, e gli industriali contemporanei invece di costruire treni provvedono soltanto a soddisfare l’enormeappetitocheilpubblicohaperibeni di consumo venduti al dettaglio.Gli insoddisfatti residenti dell’East End hanno trovato un portavoce nello scrittore Iain Sinclair, che ha trascorso buona parte degli ultimi cinque anni a documentare la propria costernazione nei confronti dei lavori olimpici e per le modalità con le quali i cantieri hanno cancellato con insolenza secoli di storia locale e di edilizia popolare. Sinclair ha dedicato il suo ultimo libro, intitolato Ghost Milk, alle «baracchette dei Manor Garden Allotment», con riferimento a quel patchwork di orti e giardini urbani che un tempo assicuravano nutrimento e svago a centinaia di abitanti dell’East End e che ora sono stati spianati e spazzati via, scivolando nell’oblio, per lasciare posto al Parco Olimpico. Sinclair considera il cuore di quel Parco una mostruosità uscita dritta dritta dalle pagine di un catalogo Ikea — lo chiama il «flatpack stadium», lo stadio componibile. Secondo Sinclair, l’intero progetto olimpico è un atto di arroganza distruttiva: dice che gli architetti, gli organizzatori e gli sponsor vivono in uno «stato psicotico di smania progettuale», e che il motore trainante di tutto ciò, naturalmente, non è lo spirito comunitario o il senso della storia, bensì il denaro.

Vivo ai margini di Chelsea, lontano dal Parco Olimpico, e quindi a fungere da barriera a pedaggio per la mia zona è il più occidentale dei due centri commerciali. Quella è anche la meta preferita di mia figlia adolescente, che vi trascorre ore spensierate in compagnia dei suoi amici, permettendo alle prime simpatie della sua vita di sbocciare e mettere radici mentre passeggia tra i negozi al dettaglio e i vari fast food. La zona nella quale vivo — a circa due miglia da Westfield — è una delle meno multiculturali di Londra, ma ha una prospera comunità di banchieri di investimento europei ed è quindi un buon punto di osservazione per seguire come gli incessanti afflussi e reflussi di capitali internazionali abbiano un impatto sulla vita quotidiana della capitale. Tra i super-ricchi di Kensington e Chelsea (che sembrano arricchirsi di giorno in giorno, mentre il resto di noi si dibatte con le conseguenze della loro crisi finanziaria) sta dilagando una nuova mania: scavare nel sottosuolo. Londra è una città gremita di persone, lo spazio vitale è prezioso e le amministrazioni comunali stanno dando un giro di vite ai permessi concessi ai residenti per espandere le proprie case verso l’alto o verso il largo. Il che lascia un’unica direzione per espandersi e costruire: verso il basso. E questo è quanto stanno facendo coloro che se lo possono permettere.

Questa è una «smania progettuale» su scala più casalinga rispetto alla follia delle Olimpiadi, ma ciò nonostante mette in evidenza le medesime qualità di arroganza ed eccesso. Abbondano le voci di leggendarie stravaganze: non è chiaro quante di esse siano veritiere, ma per le mogli dei banchieri nelle caffetterie eleganti, come pure a tavola nei ristoranti all’ora di pranzo, costituiscono un ottimo argomento per spettegolare. Si parla, per esempio, di un banchiere londinese che ha scavato un enorme showroom sotterraneo per mettere in mostra la sua collezione di Ferrari. O di uno scavo sotto Pembridge Square a Notting Hill profondo non uno, non due, non tre, ma ben quattro piani, così che qualcuno nella propria piscina sotterranea possa installare anche un trampolino. E ancora, si racconta di sotterranei crollati in piena fase di scavo, e della morte di operai (polacchi, naturalmente). E tutto ciò solo perché gli ultra-ricchi possano imporre alla Londra affollata e sovrappopolata un nuovo movimento architettonico, quello che il giornalista Simon Jenkins ha chiamato «architettura Emmental».

Londra ha una grande capacità di reinventarsi, e una passione sfrenata e incontenibile per tutto ciò che è nuovo. Ma è anche uno spazio circoscritto, ed esistono limiti alle modalità con le quali si può indulgere in tale passione, persino per i suoi cittadini più ricchi e più potenti. In superficie progetti grandiosi come il Parco Olimpico e templi del capitalismo come i centri commerciali Westfied possono essere creati soltanto a spese di comunità più piccole e spontanee che hanno impiegato secoli a evolversi. Mentre nel sottosuolo i segreti luoghi di svago dei super-ricchi stanno erodendo il terreno e l’argilla sui quali sono erette le abitazioni dei loro vicini. In entrambi i casi questi progetti — per quanto capaci di colpire l’immaginazione — assai difficilmente porteranno vantaggi a lungo termine alla maggior parte dei londinesi. Al contrario, molti di questi ultimi potrebbero arrivare a sostenere che stanno minando le fondamenta stesse, spirituali efisiche, sulle quali si regge la loro città.

© , 2012 (traduzione Anna Bissanti)

La grande Tav europea perde pezzi: via Lisbona e via Kiev, niente Slovenia, Ungheria e Polonia, la Spagna non ha soldi. E l'alta velocità si conferma per Madrid il più grosso fattore di default producing. Solo in Italia c'è ancora chi, nel Pd, teorizza la formazione di capitale finanziario a debito

La Spagna non resta al centro dell'attenzione per i cento miliardi di euro di "soccorso europeo", che ovviamente non vanno agli spagnoli, ma alle banche del paese, piene di poste insolvibili, di debito pubblico e privato. Ma cosa hanno finanziato negli anni scorsi con capitale che adesso si è liquefatto? A cosa sono dovuti i titoli tossici che oggi il grande management politico - finanziario si affanna a voler rimuovere? Al finanziamento di un modello di sviluppo vacuo, fasullo e dispendioso, che nel recente passato ha posto la Spagna in perfetta linea con l'iperconsumismo folle e dannoso che ha caratterizzato praticamente tutto il sistema economico occidentale; fino a sprofondare nella crisi attuale.

Si sono allora favoriti anche in quel paese mutui privati per prime, seconde e terze case, villaggi turistici, alberghi, esercizi e centri commerciali. Mentre si spingeva il settore pubblico "verso l'Europa", con un'inflazione di grandi opere: l'unica direttrice di mobilità iberica che avrebbe giustificato l'alta velocità (il più grosso fattore di default producing , come ammesso dallo stesso Zapatero) era la Barcellona- Madrid. Invece di limitarsi alla realizzazione di quella linea, gli spagnoli si sono fatti travolgere dall'arrogante, quanto stupida ed interessata, retorica delle grandi opere per modernizzare il paese, collegarsi al continente e simili panzane che ascoltiamo quotidianamente anche dalle nostre parti. Si sono così realizzate cinque tratte di alta velocità, aprendo una voragine di risorse pubbliche; all'inizio coperte dall'azione degli istituti bancari e finanziari, ma che lo stato oggi non riesce a rifondere.

Tra le altre si è realizzata la discutibile linea Barcellona -Lione, che dovrebbe adesso proseguire con la Torino-Lione, una direttrice la cui domanda di traffico non giustificherebbe neppure i lavori di ristrutturazione della vecchia linea storica, ma che trova invece massimo sponsor nella fondazione Banco San Paolo,una struttura in grado di condizionare molta governance, il cui vicepresidente è oggi l'ex "bravo sindaco" di Torino, Chiamparino, da sempre un ultrà della Tav in Val Susa.

Se si vanno invece a verificare la condizioni del famoso corridoio 5 Lisbona - Kiev, in nome della cui urgenza si bastonano i valsusini, si scopre che quasi non esiste, neppure nella pianificazione ufficiale Ue, al di là di qualche schema di massima e delle note stampa. Dal punto di vista dell'attuazione reale si è davvero in alto mare: il tratto portoghese è stato cancellato ufficialmente da quel governo; del tratto spagnolo oltre Barcellona, l'attuale governo iberico non vuole neppure sentire parlare (ovvio per un'economia già affogata da grandi opere); poi c'è il citato tratto Barcellona - Lione, quindi il contestatissimo segmento fino a Torino -per la gioia dei valsusini- e quello fino a Milano, realizzato, ma tuttora non usato (ad oggi l'alta velocità passa per la linea storica). Il tratto Milano - Brescia dovrebbe essere almeno progettato con la prossima cascata di miliardi promessa da Passera. Per il resto della tratta italiana non c'è neppure il progetto di massima. Usciti ad est dall'Italia, della linea non esiste praticamente nulla: la Slovenia ha addirittura interrotto i collegamenti storici con Trieste, in Ungheria e Polonia non sanno di cosa si parla, l'Ucraina chiede un sistema di collegamenti moderno per l'area metropolitana di Kiev, non l'AV.

In Italia invece sembra di essere ancora nello scorso decennio, se non nel novecento. Non solo in Val Susa, ma anche a Firenze, dove istituzioni locali e Rfi insistono nel volere attraversare la città con un megatunnel ed una stazione sotterranea ad altissimi impatti e costi, litigando anche con l'università che rilancia il semplicissimo passaggio di superficie.

In questo Bassanini e Violante teorizzano ancora la formazione di capitale finanziario a debito, mirato alle grandi opere per l'Europa, la modernità, la crescita, e amenità varie, condizionando tuttora la dirigenza del Pd ed evidenziando ancora -ove ce ne fosse bisogno- i legami tra apparati di partito e imprenditoria finanziaria e immobiliare. Rischiando però su questo di acuire uno dei fronti di crisi più aspri per qualsiasi potenziale coalizione politico elettorale di centro- sinistra (a meno di voler rinunciare alle grandi soggettività che hanno permesso di vincere, oltre al referendum, le amministrative di Milano, Napoli e Cagliari prima, di Palermo e Genova più di recente). E Grillo incombe.

Già, perché l'idea della centralità delle strutture finanziarie bancarie è contestata, oltre che da parti rilevanti della sinistra istituzionale e radicale (da Idv a Sel a Fds) certamente dai rappresentanti dei movimenti, compresa la neonata "Alba", che richiedono la priorità di politiche sociali (lavoro) a forte connotazione ambientale (beni comuni).

Il Pd dunque deve riuscire a fare i conti realmente con la fase attuale, e assumere la centralità di temi come lo stop alle grandi opere e al consumo di suolo, la necessità di una green economy territorializzata a base locale, la creazione di lavoro su istanze socialmente innovative di cui il paesaggio fornisca limite e cifra, qualitativi, quantitativi ed eco morfologici. Oppure è bene che quel partito segua il suggerimento di D'Alema, E lasci provare ad una nuova classe dirigente realmente democratica e progressista di candidarsi a governare l'Italia in nome degli interessi della società presente e futura e non delle lobby.

Zero dubbi, zero ripensamenti. Chi ce li ha se li scordi. Si va avanti, lo spettacolo dell'alta velocità deve continuare. Così è per il governo italiano. Il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, ne è certo: non c'è nessuna ipotesi di modifica da parte della Francia nella realizzazione della Torino-Lione.

«Ho parlato con il ministro dei Trasporti Frédéric Cuvillier e mi ha confermato l'importanza del progetto, che è totalmente confermato da parte nostra e dai francesi. Eventuali dubbi - ha poi spiegato il ministro parlando dei francesi - riguardano solo i progetti non ancora definiti, mentre quello della Torino-Lione è definito e avviato, sancito da accordi internazionali tra i due Paesi».

Il giorno dopo le indiscrezioni, riportate da Le Figaro, sull'intenzione di Parigi di riesaminare ed eventualmente rinunciare a diverse tratte ad alta velocità, l'esecutivo italiano prova a mettere una toppa alle perplessità e lo fa in modo deciso. La Francia conferma l'importanza del progetto: «La Tav - sottolinea un portavoce del ministero francese dei Trasporti - si farà», ma, vista la crisi economica, «è necessario stilare un nuovo accordo tra Roma e Parigi che tenga conto dei finanziamenti disponibili a livello europeo». Ecco, però, palesarsi una nuova variabile nel solco delle ostentate certezze. Da Bruxelles, il commissario europeo ai trasporti Siim Kallas frena sulla richiesta: «L'opera è principalmente un progetto franco-italiano e i fondi devono arrivare soprattutto da Italia e Francia, il ruolo della Commissione europea può essere modesto. Non possiamo distribuire soldi che non abbiamo». Le incertezze dunque permangono.

La recente riflessione francese sull'utilità del Tav (costi e strategie) è stata ovviamente ben accolta in Val di Susa. «Sono gli stessi argomenti che noi sosteniamo da anni», ha detto Guido Fissore, consigliere comunale a Villar Focchiardo, uno dei 46 indagati per gli scontri della scorsa estate. Per Ezio Locatelli, segretario Prc Torino, «l'ostinazione del governo Monti è segno di ottusità e subalternità al blocco politico-affaristico dell'alta velocità».

E mentre continua l'udienza preliminare, gli indagati denunciano un «accanimento punitivo» nei confronti di tre di loro, ancora in carcere. Giorgio Rossetto ha, infine, lanciato un appello perché si faccia chiarezza su cosa è accaduto a un coindagato, Matteo Schiaretti, 32 anni di Parma, scomparso ad aprile dopo aver lasciato un biglietto in cui annunciava la volontà di togliersi la vita.

Ieri i giornali di informazione hanno enfatizzato oltre i limiti del ridicolo il «piano città» del ministro Passera e del viceministro Ciaccia. Di fronte alle carenze strutturali e allo stato di abbandono delle nostre città che non riescono a competere con le città dell'Europa, in tutti i titoli si leggeva che erano stanziati niente meno che 2,1 miliardi di euro. Lavoce.info - sempre puntuale e preziosa - ha dimostrato che i 224 milioni, gli unici veri della partita perché il resto sono anticipazioni della Cassa depositi e prestiti, non sono neppure tutti nuovi perché verranno dai tagli di interventi di edilizia già programmati. Ma fermiamoci sulla cifra stanziata. Sono 20 le città con popolazione superiore o vicina ai duecento mila abitanti. A ciascuna di esse toccherà poco più di un milione di euro di finanziamento e circa 80 milioni di prestito. Cifre ridicole come si vede, indegne di un paese serio. E invece di sottolineare la sua miope miseria, quel finanziamento è stato presentato come il pilastro della ripresa, con le solite cifre sparate a casaccio: addirittura 100 mila nuovi posti di lavoro!

A questo punto, pare di sentirlo, scatta puntuale il refrain: che volete, non ci sono risorse. Il ministro Passera ha rifinanziato appena due settimane fa l'ennesimo piano delle grandi opere inutili con 100 miliardi destinati a tacitare le voraci grandi imprese che assediano il governo. Il vice ministro Ciaccia si era peraltro occupato di esse con un altro ruolo, quello di amministratore delegato della banca BIIS del gruppo San Paolo Intesa.

Ricapitoliamo, dunque. Nello stesso mese di giugno 100 miliardi sono stati assicurati alle lobby del cemento e dell'asfalto. Al sistema urbano nel suo complesso andranno 2 miliardi fatti in gran parte di prestiti! Ha ragione su queste colonne Sandro Medici a denunciare (ieri, 26 giugno) che manca ancora l'assunzione della centralità del tema della riqualificazione urbana. Questo governo, al pari dei precedenti, non comprende che soltanto finanziando il rinnovo urbano e non la crescita, la creazione di sistemi di trasporto non inquinanti e non ulteriore asfalto, la messa in sicurezza dei servizi, delle abitazioni e dei corsi d'acqua, si potranno creare le premesse per una nuova fase economica che privilegia imprese che adottano nuove tecnologie.

E anche in termini di efficienza della spesa deve essere ricordato che nel 2005 l'Associazione nazionale dei Costruttori edili aveva calcolato che il 53% dei progetti di grandi opere avevano trovato difficoltà operative ed erano stati costretti a varianti progettuali. Ma di questo non si parla: la palla al piede dello sviluppo sono i vincoli, i sindacati e i lavoratori, mica chi sbaglia progetti lautamente pagati.

Il finto piano città svela ancora una volta che il governo dei «tecnici» si limita ad assicurare ai poteri forti un altro fiume di denaro pubblico senza avere una proposta convincente per il sistema paese. Un governo prigioniero dei legami che alcuni dei suoi uomini avevano stretto in anni passati e non consentono oggettivamente di cambiare musica. Ciaccia è stato anche presidente di Arcus, la società nata dal ministero dell'Economia per finanziare i beni culturali. Arcus era assurta agli onori della cronaca per il caso del palazzo di Propaganda Fide restaurato con i nostri soldi per la felicità della cricca. Era ministro Lunardi, c'era il cardinale Sepe e De Lise era uno degli esponenti di quel gruppo di potere. Oggi non c'è più Lunardi, ma De Lise resta nel ruolo di arbitro delle infrastrutture generosamente finanziate da Passera-Ciaccia.

Il presidente Monti ha affermato che deve assolutamente portare la cancellazione dei diritti dei lavoratori nel prossimo vertice internazionale. Con qualche sforzo potrebbe portare anche il segnale di una rigorosa pulizia della macchina statale di cui c'è immenso bisogno. Ma non lo farà. Aspettiamo impazienti che richiami con gli onori che meritano Balducci e Bertolaso.

Introduzione all’argomento


Il suolo, come lo conosciamo oggi nella sua molteplicità, esiste da circa diecimila anni,
e si formò dopo l’ultima era glaciale. Ai Colloqui di Dobbiaco 2012 vogliamo analizzare
i pericoli che incombono sempre più pesantemente su questo sottile strato del
Pianeta, nella sua funzione di habitat, fonte di nutrimento e di risorse. È sempre più
evidente che la cementificazione, compattazione, contaminazione, erosione e
depredamento del suolo sono un pericolo per la vita sulla Terra. Al momento, questa
minaccia grava soprattutto sul Sud del mondo, ma è chiaro che la distruzione, i
conflitti d’interesse per l’utilizzo del suolo (nutrimento, energia, edificazione) e la
carenza crescente di terreno fertile, in previsione di un aumento della popolazione
mondiale nei prossimi decenni sono una minaccia per tutto il Pianeta. Se negli anni
Sessanta ogni abitante della Terra poteva contare, in media, su 0,4 ettari di suolo
coltivabile, nel 2050 ne avrà a disposizione solo 0,16, tanto che ormai, parafrasando il
“picco del petrolio”, si parla di “picco del suolo”.
I relatori e il pubblico dei Colloqui di Dobbiaco 2012 si confrontano sul futuro del suolo
e della vita che si sviluppa sopra e sotto di lui, del terreno che sta sotto i nostri piedi,
della politica del suolo nei paesi alpini e di altri argomenti correlati. Quali opportunità
e prospettive si aprono nella lotta al consumo del suolo? Come si possono difendere i
diritti delle popolazioni rurali dalla corsa all’accaparramento di appezzamenti enormi
da parte delle multinazionali, soprattutto in Africa? Quale contributo può dare una
politica attiva per la difesa del suolo allo sviluppo di filiere produttive ed economiche
più ecologiche e sostenibili?

Colloqui di Dobbiaco

Nella località di Dobbiaco, punto di incontro tra due culture, dal 1985 al 2007 i
“Colloqui di Dobbiaco” - ideati e organizzati da Hans Glauber - affrontarono ogni anno
le tematiche ambientali di maggior rilievo proponendo di pari passo delle soluzioni
concrete. Col passare degli anni i Colloqui di Dobbiaco si sono rivelati un prestigioso
laboratorio d'idee per una svolta ecologica nell'arco alpino e non solo. Dopo la
prematura scomparsa di Hans Glauber, il ruolo di “curatore” dei Colloqui di Dobbiaco è
stato assunto da Wolfgang Sachs, dapprima con l'edizione 2008, intitolata “La giusta
misura – La limitazione come sfida per l'era solare” e poi con l'edizione 2009 dedicata
al tema “Osare più autarchia – Energie distribuite per le economie locali post-fossili”.
Nel 2010 è stato affrontato il tema “Il denaro governa il mondo – ma chi governa il
denaro? Percorsi per una finanza eco-solidale” e nel 2011 “Benessere senza crescita”.
In piena continuità con lo spirito di Hans Glauber convinto fautore della nuova era
solare come nuovo progetto di civiltà, i Colloqui di Dobbiaco nel 2012 vengono diretti
da Wolfgang Sachs e da Karl-Ludwig Schibel con il tema “Suolo: la guerra per l'ultima
risorsa”.

Il rapporto Foreign Investment in Agricultural Land Down from 2009 Peak del Wordwatch Institute, stima che da 2000 al 2010 nel mondo siano stati venduti o affittati a investitori privati e pubblici 70,2 milioni di ettari di terreni agricoli. Si tratta di un'estensione di terra enorme, più o meno delle dimensioni del più grande Paese dell'Africa, la Repubblica Democratica del Congo, più di 20 volte la superficie dell'Italia, l'1,4% di tutte le terre agricole del mondo. Il rapporto spiega che «La maggior parte di queste acquisizioni, che sono chiamate "land grabs" da alcuni osservatori, ha avuto luogo tra il 2008 e il 2010 (l'anno più recente per il quale sono disponibili dati), con un picco nel 2009. Anche se i dati per il 2010 indicano che la quantità di acquisti è scesa notevolmente dopo il picco del 2009, rimane ancora ben al di sopra dei livelli pre-2005».

Si chiami "land grabbing" o "land deal" si ci riferisce sempre alle acquisizioni su larga scala di terreni agricoli da parte degli investitori stranieri, inoltre in questa cifra non sono compresi i contratti di locazione o gli acquisti che coinvolgono compagnie locali. Ad aprile 2012, il Land Matrix Project, una rete globale di ricerca che riunisce 45 organizzazioni della società civile, ha presentato la più grande banca dati esistente di questi tipi di offerte di territori, mettendo insieme 1.006 offerte che coprono 702.000 km2 una superficie grande quanto il Texas (più del doppio dell'Italia che arriva a 301.308 km2). Ma mancano ancora molti dati, visto che è disponibile solo una quantità limitata di informazioni, quindi queste statistiche sono certamente molto "prudenti".

Per quanto riguarda i dati generali del decennio, il rapporto sottolinea che «Di alcune offerte si sa ben poco (per esempio, i dati relativi alla data del contratto sono disponibili solo per 54,7 milioni di ettari di acquisizioni di terreni). Inoltre, i Paesi che hanno un governo aperto e trasparente possono essere sovrarappresentati nel database e il declino delle offerte dopo il 2009 potrebbe riflettere sia gli investimenti ridotti che il calante interesse dei media a tracciare i land grabs».

Dal rapporto emerge anche un crescente land grabbing sud-sud, con l'accaparramento delle terre dei Paesi più poveri da parte dei Paesi emergenti. L'altra tendenza è quella dei Paesi molto ricchi ma con poca terra coltivabile, come le monarchie petrolifere mediorientali, che stanno acquistando terreni nelle nazioni a basso reddito, «Soprattutto in quelli che sono stati particolarmente vulnerabili alle crisi finanziarie e alimentari degli ultimi anni», spiega l'autore del rapporto, Cameron Scherer.

L'80% dei terreni acquistato da soggetti stranieri è in Africa, e costituiscono quasi il 5% della superficie agricola totale del continente. Questo accaparramento avviene sempre più a spese delle comunità locali che si vedono spesso estromesse dalle loro terre ancestrali sulla quali non possono vantare titoli di proprietà, creando così conflitti per la terra e peggiorando la povertà e la fame in Paesi già poveri.

La maggior parte dei terreni fertili viene venduta a Paesi extra-africani e sono sempre più attivi Stati come il Brasile, l'India e la Cina, che hanno acquistato il 24% delle terre censite nel rapporto. Gli altri grandi investitori comprendono altri tre Paesi asiatici: Indonesia, Malaysia e Corea del sud.

Il rapporto del Worldwatch conclude che questi "land deals" di solito provocato l'espulsione dei piccoli agricoltori per impiantare la grande agricoltura industriale, quell'agribusiness delle multinazionali e dei capitalismi di Stato che ha gravi impatti ambientali e che in alcuni Paesi africani ormai interferisce direttamente con le grandi migrazioni dei mammiferi erbivori e quindi anche con la presenza dei grandi predatori simbolo del continente.

Nota: sono passati anni dalla prima presa di coscienza occidentale, ma la situazione pare immutata; si veda una delle prime denunce del fenomeno che abbiamo pubblicato

Ci sarebbe di che rallegrarsi, all'annuncio che il governo ha deciso di stanziare un paio di miliardi da spendere per una serie di progetti urbani, deviando per una volta dai consueti foraggiamenti alle banche. Un lampo di keynesismo che illumina il fosco panorama monetario e che lascia intravvedere un po' di sano e concreto strutturalismo economico. Se non fosse che il modello individuato è desolatamente il solito, sviluppo edilizio e poco più: tondini e calcestruzzo, betoniere a pieno regime, ruspe e sbancamenti, travi e pilastri. Siamo sicuri che è così che si rilancia un'economia in crisi, siamo sicuri che il ciclo del mattone sia la molla che slancia crescita e occupazione e che, soprattutto, sia utile allo sviluppo metropolitano delle nostre anemiche città?

La domanda è insomma la seguente. Si può continuare a ritenere che la spesa pubblica d'investimento debba concentrarsi sul solo sostegno all'industria edilizia, a riproposizione dell'eterno modulo invasivo che consuma territorio, deposita immobili senza qualità e spesso neanche riqualifica l'assetto urbanistico? Napoli, Genova, Roma, Bologna e le altre città che beneficeranno di queste risorse hanno davvero bisogno di nuove forse inutili edificazioni, seppur mimetizzate da progetti di risanamento e/o di pubblica necessità?

Con il tempo ci si è accorti che questo genere di progettazioni urbane, tranne alcune (poche) eccezioni, finiscono per rivelarsi perniciose e addirittura devastanti. Non solo perché, essendo bisognevoli di cofinanziamenti privati, si portano dietro generosissime concessioni affaristiche e speculative, che sovraccaricano e a volte vanificano gli obiettivi di partenza. Ma soprattutto perché corrispondono a una strategia di sviluppo ormai del tutto esausta, obsoleta nel metodo e arcaica negli obiettivi, una prospettiva che sempre più rischia di disattendere le intenzioni originarie, e in alcuni casi perfino tradirle.

Questo nostro paese non ce la fa più a sostenere processi di sfruttamento territoriale, grandi opere, infrastrutturazioni invasive e deturpanti, soffocanti plateatici cementizi. E' tempo di smetterla con queste scelte distruttive, che da decenni stressano coste e città, monti e campagne, compromettendo equilibri naturali e sociali. Le proposte di Monti e Passera sono solo vecchiume politico, immobiliarismo sfiorito al servizio di rendite e profitti. Non rilanceranno un bel niente e ci lasceranno ancor più appesantiti e incrostati.

Al contrario, ci sarebbe bisogno di un keynesismo leggero e intelligente, multiforme e incoraggiante, che sfugga alla rituale dialettica pubblico/privato, favorisca la micro-impresa, la cooperazione, il no-profit e s'incentri sull'autogoverno di processi produttivi né pubblici né privati. Una prospettiva d'intervento rivolta all'unica grande opera di cui l'Italia ha bisogno: la propria manutenzione, la propria valorizzazione. E' nel risanamento urbano e territoriale che è necessario investire per creare nuove economie e nuova occupazione, salvaguardando l'ambiente fino a trasformarlo in risorsa strategica, riconvertendo l'esistente dismesso per offrire servizi, e lasciando che a gestire tutto ciò siano nuove forme collettive di ricerca e manifattura.

C'è da riavviare un grande programma di risanamento della terra, lasciandola respirare e (ri)utilizzandola per la produzione agricola, per le coltivazioni di pregio, quelle stesse per cui il mondo apprezza il nostro stile alimentare, e per la loro trasformazione virtuosa, in uno sforzo d'integrazione agro-urbana.

I soldi pubblici vanno spesi per rigenerare il nostro immenso patrimonio artistico e culturale, strappandolo dall'immiserimento in cui le politiche di tutti i governi l'hanno condannato, lasciandolo deperire saccheggiare. Da questa inestinguibile miniera si può estrarre tutto il necessario per sviluppare lavoro e ricchezza, energia e salute, piacere e conoscenza. Si tratta di mettere a valore la nostra storia millenaria, l'archeologia, le arti figurative, l'architettura, l'espressività, la contemporaneità; ma anche la grazia e il garbo del paesaggio, il nostro straordinario ecosistema, il magnifico mare, le splendide montagne.

Quando si ragiona di queste cose, tornano alla mente le parole di Robert Kennedy a proposito di modelli economici. Egli spiegava che tra i coefficienti che determinano il calcolo del Pil mancano proprio quelli che riguardano il benessere degli uomini e delle donne. Che è un po' la riproposizione dell'odierna protesta contro la dittatura finanziaria, laddove si sostiene che una persona è più importante di una banca. Una vigna di malvasia puntinata è più importante di un edificio abitativo, un reperto archeologico è più importante di un centro commerciale. Monti e Passera non lo sanno (o non vogliono saperlo), ma il guaio è che questa loro ignoranza per noi diventa una condanna.

Nel decreto Sviluppo è prevista la realizzazione di un piano nazionale per le città, per riqualificare le aree urbane. Ancor prima di vederne i dettagli, s’impongono due questioni. La prima è il filo diretto con i comuni e il ruolo marginale assegnato alle Regioni: una scelta che potrebbe rivelarsi poco opportuna. La seconda riguarda il finanziamento del progetto. Già di per sé piuttosto modesto, sorgono alcuni dubbi sulla sua effettiva disponibilità. Perché si tratta di risorse dirottate da altri piani di spesa. E alcune sono già state impiegate.

Il decreto legge sullo sviluppo, dopo qualche falsa partenza, è finalmente in carreggiata di marcia. Prevede anche la realizzazione di un piano nazionale per le città, per riqualificare le aree urbane, particolarmente quelle degradate; dovrebbe tradursi nella realizzazione di nuove infrastrutture, in interventi di riqualificazione urbana, nella costruzione di parcheggi, case e scuole. Una cabina di regia sovrintenderà alla sua attuazione, che necessiterà, verosimilmente, di atti amministrativi specifici.
In attesa che la fisionomia del piano si delinei con più precisione, è comunque opportuno soffermarsi su due questioni rilevanti per il suo successo.



UN FILO DIRETTO STATO-COMUNI?



Lo strumento al quale si prevede di ricorrere per attuare il piano è il “Contratto di valorizzazione urbana”, con il quale vengono definiti e disciplinati gli impegni di tutti i soggetti, pubblici e privati, che realizzano interventi in una determinata area. Il piano nazionale per le città è costituito dall’insieme dei contratti di valorizzazione promossi dai singoli comuni e selezionati dalla cabina di regia.
Il baricentro delle decisioni è perciò individuato nelle amministrazioni comunali, mentre diventa marginale il ruolo delle Regioni, che invece finora ha prevalso nelle politiche relative all’edilizia e alla riqualificazione delle città. Per esse è prevista la sola partecipazione alla cabina di regia di un rappresentante della loro conferenza. È un orientamento dovuto, forse, alla convinzione di accelerare per questa via i tempi del piano, e non costituisce una novità assoluta. Già il governo Prodi nel luglio 2006 finanziò, con 99 milioni di euro, direttamente 13 comuni metropolitani per realizzare interventi per ridurre il disagio abitativo. Prima di puntare di nuovo così decisamente sui soli comuni, converrebbe forse capire quale è lo stato di attuazione di quel programma .
Né ci sarebbe da stupirsi se la sottovalutazione del loro ruolo in un piano di tale importanza spingesse le Regioni sulla strada di un contenzioso costituzionale. E potrebbe anche valere la pena di interrogarsi sull'opportunità di rigenerare e riqualificare grandi ambiti urbani senza coinvolgere il livello istituzionale che definisce i contesti di programmazione territoriali e settoriali di ampia scala: è una scelta che farà pendere la bilancia più dal lato dei benefici o da quello dei costi?



NOZZE CON I FICHI SECCHI?



Gli interventi da realizzare con il nuovo piano devono essere, si legge nel decreto, “di pronta cantierabilità”. Condizione, questa, indispensabile per un’iniziativa che vuole contribuire a invertire il ciclo congiunturale negativo e rilanciare l'economia. Non solo l’obiettivo non è supportato da un adeguato finanziamento, ma la distribuzione temporale di quest’ultimo non è coerente con l’intenzione di un rapido avvio degli interventi. Nel complesso, lo stanziamento, modesto, è di 224 milioni di euro (che confluiscono in un apposito fondo istituito presso il ministero delle Infrastrutture e trasporti), diluito nei sei anni dal 2012 al 2017: quest'anno sono disponibili 10 milioni di euro, 24 il prossimo, 40 nel 2014 e 50 per ognuno dei successivi tre anni.
Prescindendo dal loro ammontare, sarebbe, però, opportuno accertare la loro effettiva disponibilità. La quasi totalità, 219,5 milioni di euro, proviene dalle economie dell'articolo 18 della legge 203/1991 (che finanziava la costruzione di alloggi da assegnare agli appartenenti alle forze dell'ordine) “già destinate all'attuazione del piano nazionale di edilizia abitativa” (specifica il decreto sviluppo), promosso dall'articolo 11 della legge 133/2009; questa cifra dovrebbe, quindi, essere “libera”, nel capitolo del bilancio statale sul quale sono allocate le risorse di quel piano. Non sembra, però, sia così.
Per il piano dell’edilizia sono stati stanziati 844 milioni di euro. Cifra, questa, racimolata tra economie e residui di precedenti leggi e per circa 550 milioni di euro revocando i finanziamenti assegnati alle Regioni per la realizzazione di un programma di edilizia residenziale pubblica, in qualche caso già in fase di attuazione al momento della revoca. Un'indagine della Corte dei conti evidenzia che, al 20 dicembre 2011, degli 844 milioni di euro ne erano già stati impegnati 728; i 116.228.083 euro ancora disponibili a quella data sono stati ripartiti tra le Regioni con il decreto 19712/2011 del ministero delle Infrastrutture (non furono allora censiti come impegni dalla Corte dei Conti, che registrò il decreto nel gennaio 2012).
Il piano per l’edilizia abitativa non sembra, dunque, avere risorse libere da travasare in quello per le città. Per liberarle occorrerebbe revocare finanziamenti già assegnati a programmi che sono in avanzata fase di progettazione o anche di realizzazione. Ma se ciò dovesse verificarsi sarebbe come richiamare in vita le vacche che Benito Mussolini spostava da una fattoria all'altra man mano che si procedeva alla loro inaugurazione.

Postilla

Le preoccupazioni di Lungarella sono ragionevoli, ma non sono le uniche né, forse, le peggiori, se teniamo conto del clima e dei precedenti. Il primo segnale di pericolo è nel titolo del nuovo strumento: “Contratto di valorizzazione urbana”. Sappiamo fin troppo bene che, quando si parla di “valorizzazione” nelle politiche urbane e territoriali ci si riferisce all’aumento della rendita urbana e della quota di essa che ne viene a quelli che una volta si chiamavano speculatori, e oggi “investitori immobiliari. Sappiamo che dal pensatoio (si fa per dire) dal quale emergono questi strumenti, sono nati e proliferati quei progetti speciali, battezzati con accattivanti denominazioni, tutti orientati a facilitare gli affari degli “investitori immobiliari derogando dalle regole di una corretta pianificazione urbanistica e di un’adeguata partecipazione sociale. A chi serviranno i pochi spiccioli sottratti ad altri programmi pubblici. A migliorare la qualità dei quartieri investiti dalla valorizzazione” per i loro attuali abitanti, ad accrescere la quota dello stock di edilizia residenziale utilizzata da chi non può accedere al “mercato”? o a migliorare il “portafoglio titoli” dei soli noti. Vigilate, genti, vigilate.

Alcuni giorni fa sono arrivato alla stazione Centrale con il Frecciarossa da Roma all'una di notte con un ritardo di circa un'ora e un quarto (dovuto a problemi tecnici); da conoscitore della stazione mi sono avviato verso una delle uscite laterali tramite la scalinata (e non seguendo il lungo percorso dei nuovi tappeti mobili) ma con grande sorpresa ho scoperto che le uscite verso via Andrea Doria erano sbarrate e così pure quelle vicine alla biglietteria. Era ancora aperta un'unica porta centrale presidiata da un poliziotto privato.

Il taxista mi ha poi spiegato che da tempo la stazione Centrale viene chiusa la notte per problemi di sicurezza; a mio parere non è corretto che la tutela della sicurezza sia fatta causando disagi ai cittadini o agli ospiti stranieri: mi sono immaginato qualche anziano oppure turista mentre vagava per la stazione alla ricerca dell'uscita, perché, ed è questo l'aspetto sconcertante, non vi era alcuna informazione visibile riguardo alla chiusura delle porte; e sarebbe semplicemente bastato un annuncio a bordo del treno!

E a proposito di informazione, quando arrivano a notte fonda treni con questi ritardi, non sarebbe giusto da parte di Trenitalia (o di GrandiStazioni) avvisare la centrale dei taxi che è in arrivo una grande quantità di passeggeri? Lo stesso taxista mi ha detto infatti che dopo una certa ora, difficilmente si trovano auto pubbliche fuori dalla stazione.

Enrico Grisanti

Informazioni ci vorrebbero, su questo non ci piove. Annunci sui treni o anche soltanto scritte in stazione, bene in vista. Per avvisare della chiusura ma, anche, come giustamente lei suggerisce, per allertare le centrali dei taxi di eventuali grandi ritardi. Sarebbe un servizio ai passeggeri non così gravoso, mi sembra: basterebbe che i responsabili tentassero, ogni tanto, di mettersi davvero nei panni di chi viaggia. Quanto alla chiusura in sé di quasi tutti gli ingressi, da frequentatrice abituale della Centrale devo dire che ne riconosco bene la necessità.

Da quando, infatti, alla funzione di capolinea dei treni vi si è affiancata quella di centro commerciale a tutti gli effetti, con negozi di ogni genere che, in verità, poco hanno a che fare con il viaggio, c'è una gran massa di mercanzia da proteggere nelle ore notturne, e con tutti gli ingressi aperti sarebbe molto più difficile. Ma conoscendo un poco l'ambiente che circonda la stazione, immagino che anche la sicurezza dei passeggeri possa, in effetti, venire garantita meglio a porte chiuse. E mi scuso se ho citato prima quella delle merci, ma così, purtroppo, mi pare vada la vita.

Isabella Bossi Fedrigotti

postilla

Abuso indebito di posizione dominante: in questi giorni si discute per altri motivi delle nomine dell’autorità antitrust, ma anche questa faccenda delle stazioni meriterebbe in teoria uno sguardo più attento. Il ruolo particolare e privilegiato di tutto ciò che è di pertinenza ferroviaria nelle città, deriva storicamente come noto dalla funzione pubblica svolta da questo genere di trasporto, oltre che dalla originale proprietà pubblica dell’ente e degli immobili. Però, come senza troppi giri di parole ci conferma anche il dialogo fra il lettore Enrico Grisanti e la signora Bossi Fedrigotti, la funzione trasporto collettivo non è più quella determinante nell’uso degli spazi, e lo è invece quella commerciale. Organizzata, come ormai ben sappiamo tutti, in quella logica gaglioffa che i creativi dell’architettura qualche anno fa avevano battezzato della “città temporanea”, ma che risponde tutto sommato al vecchio e autoritario modello dello shopping mall introverso, scaraventato in un ambiente centrale urbano. E una volta appurato questo aspetto, sorge spontanea la domanda: che diritto ha un gigante commerciale di occupare militarmente per fatti suoi ampie porzioni urbane, producendo automaticamente e prevedibilmente degrado, pericolo, insicurezza, forse anche crollo di alcuni valori immobiliari (di sicuro dell’abitabilità) dei quartieri? La risposta teorica ce l’hanno già data decine di studiosi, da Jane Jacobs a Anna Minton solo per citare una delle prime e una delle più recenti. Quella operativa la stiamo ancora aspettando, ma di sicuro non arriverà da certi centellinatori sottobanco di peso relativo dei cosiddetti stakeholders: mentre stiamo cercando sul vocabolario cosa diavolo voglia dire, qualcuno ci sta già chiudendo un’altra uscita di sicurezza (f.b.)

«A i cittadini dovevamo dare questa risposta perché qui si trattava di una situazione di diritti negati». Ha detto proprio così il sindaco di Vibo Valentia Nicola D'Agostino felice per avere portato a termine un'operazione che in un altro Paese civile sarebbe stata impossibile: l'acquisto da parte del Comune, dal demanio, dei terreni sui quali, una dopo l'altra, per decenni, sono state costruite centinaia di case abusive. Ma così abusive da non poter approfittare né del primo condono del 1985, né del secondo del 1994 né del terzo del 2003.

Il problema degli abitanti fuorilegge di località Pennello, un tratto di costa calabrese stuprato da orrende palazzine costruite spesso praticamente sulla spiaggia e senza alcun rispetto per ogni norma idrogeologica (basti ricordare lo straripamento di vari torrenti ostruiti da costruzione demenziali e la conseguente alluvione del 3 luglio 2006 costata la vita a tre persone) è sempre stato quello: era impossibile condonare le loro schifezze di cemento.

In un Paese serio, il primo cantiere abusivo aperto su terreno demaniale, cioè appartenente a tutti i cittadini italiani, sarebbero arrivati i vigili urbani. E dopo i vigili i carabinieri. E dopo i carabinieri le ruspe. Per anni e anni, invece, decisi a non rischiare di perdere il voto degli abusivi alle elezioni, sindaci e amministratori hanno fatto finta di non vedere. Spingendo la gente a pensare che fosse loro consentito tutto. E il problema è andato in cancrena.

Cosa fare? La soluzione individuata dall'amministrazione è stata quella di convincere il demanio a cedere al municipio i 150.550 metri quadrati di terreni pubblici (un'«opera di ingegneria giuridica», secondo laGazzetta del Sud) sui quali sorgono le palazzine fuorilegge. E il demanio, dopo lunghe resistenze, non solo ha ceduto, ma dopo avere concordato un prezzo di 2 milioni di euro ha chiuso giorni fa facendo un mega sconto. Prezzo finale: un milione e 200 mila euro. Tirati fuori per metà dagli abusivi, che versando 20 euro al metro quadrato (20 euro!) adesso sono certi che il nuovo proprietario del terreno non romperà più le scatole in tribunale contro di loro, e in parte dal Comune che ha utilizzato i fondi Pisu, Progetti integrati di sviluppo urbano. Soldi appartenenti a tutti cittadini italiani. E soprattutto anche a quelli di Vibo Valentia che hanno sempre rispettato la legge e che si ritrovano nella parte dei cornuti.

Una soluzione dopo tanti decenni andava trovata? Certo. Ma è insopportabile, agli occhi degli italiani che seguono le regole e non costruiscono su terreni altrui, è quella affermazione del sindaco sui «diritti negati» agli abusivi. E più ancora l'esultanza di un parlamentare della Repubblica italiana, il pidiellino Francesco Bevilacqua che a dispetto del suo ruolo e della sua professione (insegnante!) è arrivato a dire che «la zona che adesso è nel degrado dovrà tornare al suo splendore». Splendore? Dopo quella violenza cementiera? Ma la domanda più urgente è un'altra: il catasto e la Corte dei conti sono d'accordo con questa soluzione?

Mi sono detta che bisogna andare all’Aquila, per vedere attraverso questa lente speciale come l’Italia rischia d’affrontare i disastri: il disastro che colpisce oggi l’Emilia, ma tante altre sventure. Andare all’Aquila è scoprire che storia sciagurata c’è dietro l’oggi, se non schiviamo tutti assieme il baratro in cui è stata gettata la bellissima capitale dell’Abruzzo, dopo la scossa che l’ha frantumata il 6 aprile 2009 alle 3 e 32 di notte. Mi sono accinta dunque a una sorta di archeologia del presente: per giudicarlo nelle sue stratificazioni, per non scordare l’Aquila pensando l’Emilia. Perché di questo muore ogni giorno di più la capitale abruzzese, e i 56 Comuni franati con lei: di una diffusa amnesia, di un’ipnosi senza fine.

L’Operazione Aquila è stata questo, e se non vai e non vedi continuerai a credere nella favola raccontata per tre anni da Berlusconi, scortato da un’avida schiera di affatturatori: da Guido Bertolaso al Tg1. Da gennaio le cose sono in mano al ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca, ma non è chiaro se lo scempio iniziale - l’esautorazione di poteri locali e sovrintendenze da parte della Protezione civile, la verità occultata - sia davvero combattuto. Gli affatturatori hanno ottenuto che nelle teste degli italiani (ma non più in quelle abruzzesi) la menzogna attecchisse: l’Aquila rinata, la catastrofe vinta.È il più gigantesco teatro d’illusioni che l’ex premier abbia apprestato, nella sua storia politica e prima ancora.

Far vivere gli italiani nell’illusione fu sempre il dispositivo centrale della sua macchina (Milano2 nacque negli anni ‘70 con lo stesso proposito: incapsulare gli abitanti in una specie di supercondominio, non esposto agli infiniti azzardi delle metropoli) e ogni illusionismo politico secerne l’osceno. Siamo abituati a chiamare osceni i festini di Berlusconi. Ma la vera pornografia è qui, nel cratere sismico dell’Aquila. Difficile descrivere diversamente un cataclisma trasformato prima in show dell’illusionista, poi in planetario spettacolo al G8 del 2009, poi in affare e malaffare. Questo è infatti pornografia: rappresentare in maniera compiaciuta, ossessiva, soggetti e immagini ritenuti sconci per stimolare eroticamente chi guarda. Qui si trattava di stimolare la stasi dei cervelli, seducendo non solo gli abruzzesi ma tutti noi con immagini che adulterassero la rovina, la sottraessero alla vista, offrissero calmanti anziché rimedi agli abbandonati e umiliati.

La pornografia suscita all’inizio eccitazione e sfocia presto in noia, quindi oblio: questo è accaduto nel cuore d’Abruzzo. La manovra è pienamente riuscita perché proprio oggi, che in Emilia bisognerebbe far memoria dell’Aquila e salvare l’una e l’altra, quasi nessuno nomina l’Abruzzo, confermando così che l’inferno di nuovo incombe. In una rappresentazione teatrale allestita in aprile da Antonio Tucci e Tiziana Irti (Mille giorni-racconti dal disastro dell’Aquila) la protagonista prima finisce in un accampamento, poi in una delle New Town pomposamente sparse attorno al capoluogo. Dice, accovacciata nella sua tenda blu: «Noi, qua, stiamo come dentro una bolla, e ci galleggiamo... Che fine faremo? Secondo me, prima o poi... Bum! scoppia!».

È veramente scoppiata, quando Berlusconi se n’è andato ed è subentrato Monti? Di certo son cambiati gli uomini: Fabrizio Barca difficilmente accetterà l’andazzo degli affatturatori. Ma se vai all’Aquila, nei borghi ormai invasi dall’erba, nelle città satellite, ti rendi conto che tutto è fermo, che l’operazione-depistaggio non è correggibile se non la denunci a chiare lettere. Che la devastazione è lì, cadavere inalterato che s’aggiunge ai 309 morti del 6 aprile. Esattamente come la descrive nel 2010 Sabina Guzzanti, nel film Draquila. Esattamente come la raccontano Salvatore Settis (Repubblica, La Pompei del XXI secolo, 7-4-12) o Tomaso Montanari, professore di storia dell’arte a Napoli (Il Fatto, 16-3-12), o il giornalista Giustino Parisse (sul quotidiano Il Centro), da quando nella sua Onna perse il padre e due figli.

Ogni atto di seduzione si prefigge di creare mondi artificiali: nel mito, è talento demoniaco. L’Aquila che ho visto è questo artificio, che dà il capogiro. È un enorme buco nero, un luogo di non-vita dove tutto è restato allo stadio di detrito, di avanzo. Esito, come davanti a un corpo vivisezionato, a elencare quel che s’intravvede negli squarci dei muri: una moka rimasta sui fornelli, le piastrelle illese d’un bagno, una foto appesa alla parete. L’antropologo Antonello Ciccozzi, dell’Università aquilana, spiega il naufragio della sua città, nel bel documentario di Luca Cococcetta e Iginio Tironi (Radici-L’Aquila di cemento): «Mentre in una situazione normale esiste un nucleo abitativo e un anello di circolazione, all’Aquila si è prodotto un anello abitativo e un nucleo di circolazione». La città com’era prima (come dovrebbe essere ogni pòlis) è cancellata, non solo dal terremoto: la sua metamorfosi in centro commerciale è possibile. L’Operazione Aquila è stata una macchina mobilitata contro l’idea stessa di città, di democrazia cittadina.

L’invenzione seduttiva di Berlusconi aveva questa diffidenza come fondamento: la diffidenza per la città che si fa comunità, che non è un mucchio di alloggi e individui ma relazione fra cittadini, spazio pubblico, incontro ineluttabile, e fecondo, con il diverso. Quando atterrò all’Aquila l’8 aprile 2009, e incontrò il sindaco Cialente, il Premier offrì subito un rimedio rivoluzionario che conosceva bene, dai tempi di Milano2. La soluzione erano le New Town, poi le casette o i cosiddetti Map, Moduli abitativi provvisori. Le New Town avrebbero regalato quel che i terremotati, secondo Berlusconi, amavano di più: non la pòlis, ma la tana casalinga. Le tane sarebbero nate presto: entro sei mesi, sotto la guida colonizzatrice della Protezione civile.

Son dunque andata a vedere le New Town: a Bazzano, Paganica, Onna. A volte sono immensi caseggiati spalmati su piastre antisismiche, rette da pilastri. Ce ne sono 19. Qualcuna è colorata di giallo-marrone, altre sono biancastre e paiono carceri. Quasi ogni borgo distrutto ha, accanto, uno di questi abitati paralleli. Altre volte sono casette, allineate come loculi. Le ho osservate a Paganica: vedo tendine, stradine, fazzolettini d’erba davanti alle porte, e nient’altro. Ogni diminutivo ha dietro di sé una ferocia, sempre.

Nulla accomuna le tane a una città, nulla accomuna le persone spossessate che incontro a cittadini. Il primo gesto di verità dovrebbe consistere nell’abbandono di queste parole - città, cittadini - per salvarle. Perché non c’è civiltà urbana senza piazza, chiesa, servizi comuni, luoghi di ritrovo. Senza quelle che Leopardi, nella Ginestra, chiama le conquiste dell’uomo: riconoscere l’immane danno che può nascere dalla natura, e per questo confederare gli uomini, stringere «i mortali in social catena», dar vita al conversar cittadino, diffidare di chi annuncia magnifiche sorti e progressive, e stipa l’umana gente in New Town attizzando oblio e paura: paura di riprendersi la città, di non superare il trauma, di sapere.

Le New Town sono anti-città: sono dormitori, fanno pensare all’autistico rinchiudersi in casa che i giapponesi chiamano hikikomori. Sono un’insidia perversa, inoltre. In pratica sono regalate, in comodato gratuito: il comodante le consegna al comodatario perché se ne serva per un tempo determinato, con l’obbligo di restituirle intonse. Non puoi portare mobili della tua casa. «La gratuità è un disincentivo a riappropriarti della vecchia abitazione - mi dice Luisa Ciammitti, aquilana, direttore della Pinacoteca Nazionale di Ferrara - blocca ogni rapporto tra pari». Se hai paura di nuove scosse, se non vuoi spendere, vivacchi senza comunità, ma vivacchi almeno. Naturalmente se sei solo e anziano, o non hai l’automobile, sei perduto: chi farà la spesa per te, nei lontani centri commerciali?

È vero quel che disse Berlusconi, quando fece il miracolo di casette e New Town: il panorama è fantastico, a Paganica vedi il Gran Sasso, il verde, gli alberi. E se non vai in estasi guardando dalla finestra, volti le spalle ed ecco l’altro panorama, più vero ancora del vero: il fluorescente rettangolo della TV. Da 40 anni, è il fulcro delle città berlusconiane. Già nel 1977, parlando con Camilla Cederna, un Berlusconi «con faccino tondo, nemmeno una ruga, un nasetto da bambola», s’apprestava a trasmettere la sua Telemilano (futuro Canale 5) che avrebbe irrigato Milano2. (Serve una città? Chiama il Berlusconi - Espresso, 10-4-1977)

È strana, la storia delle New Town. I ministri di Monti farebbero bene a studiarla, visto che chiedono meno spese. I costi delle Città Nuove per lo Stato sono stati smisurati: ben 2800 euro il metro quadro. Le abitazioni sono perfettamente antisismiche, è vero. Ma chi sogna la ricostruzione dell’Aquila e dei borghi (una decina ridotti in polvere) ha idee ben diverse. Si poteva risparmiare molto, mi dice Mario Ciammitti, un ingegnere che ristruttura edifici distrutti nella zona. L’alternativa c’era: i container hanno dato ottime prove nell’80 in Irpinia. «Oggi ce ne sono di molto accoglienti. Costano circa quattro volte meno delle New Town (800 euro il metro quadro) ed essendo davvero provvisori spingono a ricostruire la città perduta, e non modificano il paesaggio in modo definitivo».Quanto tempo si resterà invece nelle New Town? Quanto durerà quella che tanti, qui, chiamano «deportazione»? Una signora dislocata nelle tane di Bazzano con marito e due figlie mormora che la voglia di ritorno è grande, ma lo è anche il vantaggio della rinuncia: «E poi il terremoto ci ha cambiati dentro. Di continuo ci snerviamo, ci spazientiamo». Le New Town sono sedativi potenti, e questo spiega forse l’inane spreco. Non meno inane l’aeroporto di Preturo, inaugurato da Berlusconi il 2 luglio 2009 («Sarà il punto di partenza della rinascita dell’Abruzzo e della sua economia!»). È stato usato per i viaggi del Premier, poi per una visita di Paolo Barilla nell’agosto 2009. Costo: 30 milioni di euro. Dice ancora Mario Ciammitti: «Con quei soldi si potevano rifare almeno 100 abitazioni in Aquila centro». Lo stesso si dica per le operazioni-spettacolo: il G8, e ben tre auditori tra cui quello di Renzo Piano (costo: 6 milioni). Anche qui, Eventi e Show hanno ignorato i bisogni dei cittadini-non più cittadini.E L’Aquila vera, e i borghi? Fasciati in scatole di ferro, le case se ne stanno buie, scheletriche: insensate e dispendiose scatole, visto che tanti palazzi occorre abbatterli per rifarli. Giri nel centro dell’Aquila e senti un silenzio come in un non-luogo: non utopia ma distopia, mondo indesiderabile sotto tutti i punti di vista. Dagli spiragli dei portoni escono folate di freddo, eppure è quasi estate. Si capisce che da tre anni non sono abitate da calore. Ancor peggio a Onna, ma Onna ha avuto una fortuna in mezzo alla sfortuna. È quanto confida un dirigente della Proloco: «Senza l’aiuto dei tedeschi e del comune di Trento non ce l’avremmo fatta a ottenere le casette qui accanto, dove gli onnesi son restati vicini, i nuclei familiari non sparpagliati come in genere è avvenuto». Con gratitudine si evoca una persona, in particolare: l’ex ambasciatore Michael Steiner, che adottò il borgo dissolto. Che ha vegliato, puntiglioso, sulla sopravvivenza del sentimento di comunità. Che ha insistito perché nel villaggio artificiale ci fosse una chiesa di legno dove gli onnesi resuscitano una parvenza di conversar cittadino. Un eccidio avvenuto l’11 giugno 1944 - furono fucilati 17 abitanti - è all’origine di questa solidarietà. «La strage ha creato un legame», dice un onnese. Gli occhi gli si riempiono di lacrime, non sa come continuare. La gratitudine, il ricordo di chi si spese aiutando e sorreggendo: è una stampella che tiene in piedi quasi più dei ponteggi. Ovunque, sulle mura di case e palazzi, i vigili del fuoco hanno lasciato tracce del loro passaggio. Angeli, li chiamano qui.Ma la riscossa c’è. È scattata subito dopo la lettura delle intercettazioni sulla cricca che profittò del terremoto. Ricordo quando Carlo Bonini, su Repubblica, pubblicò la famosa conversazione fra Piscitelli, direttore tecnico dell’impresa Opere pubbliche, e il cognato Gagliardi, la notte del sisma («Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto»). Era l’11 febbraio 2010. Il 14 febbraio, a san Valentino, centinaia di aquilani sfondano le transenne della zona rossa presidiata dai militari, si mettono a raccogliere e catalogare detriti, ricominciano la città. Nasce il popolo delle carriole. È l’equivalente delle Trümmerfrauen («donne dei ruderi») che nel dopoguerra tedesco ricostruirono le città bombardate. Dice Eugenio Carlomagno, del comitato Centro storico da salvare: «Chiusi nelle case antisismiche, nei moduli abitativi provvisori, abbiamo capito che non sapevamo dove andare: non c’è un teatro, non c’è una biblioteca, non ci sono più i bar del centro. Ci siamo accorti di essere persone che debbono solo comprare cibo al supermercato, mangiare e guardare la televisione. Abbiamo detto basta». Speriamo che la loro battaglia sia ascoltata, a Roma. Solo così rinascono le civiltà, e il conversar cittadino.

Titolo originale:Target Looking at Downtown Denver Sites for Urban Store– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Target sta mettendo gli occhi sul centro di Denver per realizzare un suo negozio, nel quadro della migrazione del marchio verso le zone urbane. La compagnia di Minneapolis seconda una fonte informata del settore, sta già anche discutendo di questa possibile area a Denver. Il primo di questi punti vendita urbani di nuova concezione, chiamati City Target, si inaugurerà il mese prossimo a Chicago nel centrale Loop. Ne sono in calendario altri per Los Angeles, Seattle, San Francisco e Portland, Oregon. La Target ufficialmente non conferma né smentisce il progetto per Denver. “Per quanto riguarda Denver, non ho informazioni particolari" ha dichiarato la portavoce Molly Snyder.

Ma alcune fonti locali che seguono gli scenari immobiliari commerciali del centro spiegano che sono in corso negoziati. Una delle aree prese in considerazione sarebbe l’isolato fra la Quindicesima, la Sedicesima e le perpendicolari Welton e California; ottima posizione fra Denver Pavilions e Hyatt Regency Denver al Colorado Convention Center. “Non posso sicuramente parlare in modo preciso di cosa sta succedendo” commenta Jim Kirchheimer, vicepresidente della Downtown Denver Partnership. “Ma stiamo discutendo, e l’interesse è reciproco. Ci piacerebbe molto avere un marchio del calibro di Target in centro a Denver”.

Il formato City Target è un po’ più piccolo del corrispondente suburbano, dai 6.000 ai 9.000 metri quadrati rispetto agli oltre 12.000 dei normali negozi Target. Anche l’offerta commerciale è diversa. Nei City Target ci sono meno prodotti e con una composizione più mirata all’abitante urbano e ad altri che frequentano quel luogo per altri motivi. “Per esempio invece di proporre l’arredo giardino da sei pezzi si trova quello da tre per spazi più piccoli” spiega Snyder. “la confezione di carta igienica invece che da 24 rotoli è in pacco da sei”. È almeno da 2004, che la Target sta discutendo di questa localizzazione centrale a Denver e soprattutto per l’isolato fra le vie Welton e California. Ma va detto che in generale la spinta di Target verso le zone urbane si deve alla parallela tendenza all’incremento residenziale nei centri.

A Denver questa popolazione centrale oggi è di 63.000 abitanti con un incremento del 60% dal 2000. In centro lavorano anche 110.000 persone, e ogni anno ci vengono anche 12,8 di turisti e frequentatori di convegni, secondo i calcoli della Downtown Denver Partnership. “Credo che in centro Target possa riuscire benissimo” commenta l’esperto immobiliare Stuart Zall della sede della Zall Co. Di Denver. “Occupa un vuoto. Col tipo di densità residenziale attuale, a cui si aggiungono turismo e convegni, un negozio Target attira le masse”. I City Target comprendono anche un supermercato alimentare, servizio che da lungo tempo sia spettava in centro. “Denver potrebbe essere una scelta importante per Target” commenta Paul Washington, direttore esecutivo del Denver Office of Economic Development, “specie considerando la crescita di popolazione, la composizione demografica, e il fatto che si tratta di una delle città più vivaci del paese”.

postilla

Anche se ovviamente il marchio Target non è presente in Italia, e alcuni aspetti, contesti e meccanismi sono diversi dai nostri, anche di molto, l’articolo richiama almeno un aspetto che ci riguarda da vicino: lo strapotere della grande distribuzione nel determinare assetti urbani. E non mi riferisco alla sola prepotenza dei ricatti “variante urbanistica in cambio di posti di lavoro” ben nota a chiunque abbia vissuto o studiato tanti casi, ma anche agli effetti striscianti, forse inconsapevoli da parte degli operatori. Ovvero la suburbanizzazione della città, prima con lo strumento diretto della pressione da traffico automobilistico, poi con quello meno diretto ma altrettanto potente della trasformazione dei consumi di spazio-tempo, e infine con l’affermazione graduale di un modello di vita tale da azzerare alcuni modelli di interazione urbana, o confinarli nelle riserve indiane delle zone pedonali in centro storico, col saxofonista a gettone e i negozi griffati. È questo il genere di trasformazione strisciante di molte periferie, e avviene con la solita allegra ignoranza di una intera classe politica e amministrativa, tutta intenta a riempirsi la bocca di sciocchezze e banalità. Per non parlare del vuoto culturale di chi, davanti all’invasione degli ultracorpi, spesso (magari in ottima fede, ma senza speranza: studiate la storia!) evoca improbabili ritorni a modelli improponibili o caricaturali, a partire dal centro storico delle botteghe tradizionali, sperimentatamente incompatibile con gli stili di vita attuali e i rapporti casa-lavoro-tempo libero. La risposta, come sempre, non è una ricettina della nonnina, ma discutere, anche aspramente, di idea di città, e provare anche a guardarsi attorno, nel frattempo (f.b.)

Basta girare con gli occhi aperti per il nostro Paese, anche e soprattutto nelle sue parti più popolose, per accorgersi di quante costruzioni (capannoni, industrie, palazzoni, caserme, magazzini, eccetera) risultino inutilizzate, sottoutilizzate o più frequentemente abbandonate al degrado.

La natura «rubata»

Se poi consideriamo, nella ricorrenza di oggi della Giornata Mondiale dell'Ambiente e a pochi giorni dalla Conferenza Rio +20, la situazione planetaria, vediamo che, se nel 1700 il 95% dell'intera biosfera si trovava in condizioni di naturalità e solo il 5% mostrava i segni delle trasformazioni apportate dall'uomo, oggi la maggioranza delle terre emerse risulta interessata da aree agricole e urbanizzate, meno del 20% si trova in uno stato seminaturale e solo un quarto può essere considerato ancora in uno stato di naturalità.In Italia — con una densità di 200 abitanti al chilometro quadrato assiepata soprattutto nelle scarse aree pianeggianti — il fenomeno della trasformazione cementizia e asfaltica del suolo (che secondo una ricerca del FAI e del WWF invade 33 ettari al giorno) oltre a divorare aree naturali e agricole, disperde sul territorio le scorie di un irrazionale e bulimico sviluppo edilizio.

Il progetto

Per affrontare questo inaccettabile spreco di risorse e di suolo, il Wwf lancia oggi, con l'aiuto di docenti universitari ed esperti, la campagna «Riutilizziamo l'Italia», invitando cittadini e «addetti ai lavori» a segnalare un'area o un edificio dismessi o degradati da recuperare a fini sociali e ambientali. «Lo scopo di questa iniziativa — dichiara l'architetto Adriano Paolella, direttore generale del WWF Italia — è di avviare il più grande processo di recupero del territorio italiano, dopo quello che nel Dopoguerra ha interessato positivamente i centri storici salvandoli dal degrado che in altre nazioni ne ha devastato le fisionomie in nome di uno sviluppo disordinato e insensibile».

Il patrimonio «inutilizzato»

I dati sul patrimonio inutilizzato o abbandonato che potrebbe essere recuperato con vantaggi incalcolabili sull'occupazione e sulla crescita sostenibile, sono impressionanti.Su 29 milioni di abitazioni, quasi 5 milioni risultano non occupate o case di vacanza sottoutilizzate. Solo a Milano sono 3,5 i milioni di metri cubi di edifici pubblici o privati non più in uso (ex fabbriche e scali ferroviari, cascine abbandonate, cabine elettriche) di cui 880.000 sono uffici sfitti.Sono 6.977 in Italia i chilometri di ferrovie chiusi e abbandonati con tutte le infrastrutture connesse (caselli, stazioni e relativi parcheggi, depositi e binari di deposito).Nell'immenso universo nazionale di strutture militari non più in uso, solo in Sardegna ci sono aree e edifici demaniali per 144.230 ettari, per una superficie costruita di 467.000 metri quadrati e un volume di circa 4,5 milioni di metri cubi.

Infine, i capannoni al centro delle polemiche legate ai disastri del sisma. Nel nostro Paese, secondo l'Agenzia del Territorio, esistono 701.978 capannoni che coprono con le loro pertinenze (annichilendo aree rurali e paesaggi di pregio) 2.000 km quadrati, 17 volte l'estensione della città di Napoli, soprattutto in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. In un nuovo e rivoluzionario quadro di sviluppo sostenibile, il recupero e riutilizzo di queste entità partendo dal basso e da iniziative spontanee, potrebbe avere grandi effetti di incentivazione dell'occupazione giovanile e di freno al debordante consumo di suolo.

I casi virtuosi

Campania: a Napoli, il Parco «Lo Spicchio» trasformato dal WWF con un cofinanziamento del Comune, da «discarica urbana» a laboratorio didattico. Nel cuore del quartiere Vomero, 14.000 mq dell'ex gasometro si trovano in via di riqualificazione per creare un Parco Agricolo.

Emilia: a Reggio Emilia il complesso Ex Polveriera, riconvertito da area militare in parcheggio, sede di associazioni cittadine e un centro per disabili.

Friuli Venezia Giulia: grazie ai fondi di un progetto Life dell'Ue, il Comune di Rivignano (Udine) sta ricostruendo l'antico habitat della pianura friulana, creando 32 ettari di foresta planiziaria con essenze autoctone su un'area sovra-sfruttata dall'agricoltura intensiva.

Lazio: l'ex mattatoio posto nel centro storico di Roma, inattivo dagli anni ‘70,ospita oggi la «Città dell'altra economia», il museo di arte contemporanea MACRO, la facoltà di Architettura di Roma Tre e un centro sociale.

Lombardia: il Parco delle Noci a Melegnano (Milano), nato su un'area prima agricola, poi trasformata in industriale e infine abbandonata al degrado e alle discariche, è oggi uno spazio verde con stagni, piantagioni di alberi e ambienti naturali padani, dedicato all'educazione ambientale. A Trezzo sull'Adda, nell'Oasi WWF Foppe di Trezzo ricavata su una ex cava di argilla, si è ricostituito l'ambiente originario della Pianura Padana con tutta la flora e la fauna originaria.

Toscana: sottratta al degrado e all'avanzata di un caotico sviluppo urbano, l'Oasi WWF Stagni di Focognano nella piana di Firenze, è divenuta un punto di eccellenza per la sosta e la nidificazione di molti uccelli migratori, soprattutto aironi di varie specie, oltre che punto di ritrovo e studio per i ricercatori.

Veneto: i 48 ettari dell'antico Forte Marghera presso Venezia, non più militare dal 1966, ospitano attività artigianali e le sedi di numerose associazioni. Attualmente questo spazio rischia di essere oggetto di velleità speculative che ne altererebbero l'attuale funzione pubblica.

Sotto il Vesuvio non ci vogliono pensare, agli scenari da incubo disegnati dagli esperti e a tutti i discorsi di questi giorni sulla prevenzione contro i disastri. Peggio: in Regione stanno discutendo su come rimuovere un po' di vincoli nella «zona rossa». Bollata da qualche sindaco come «una legge criminale che ha ucciso l'economia».È dal 19 marzo 1944 che il vulcano appare a riposo. Quando la statua di San Gennaro, racconta l'ufficiale inglese Norman Lewis nel libro «Napoli 1944», fu portata nella cittadina di San Sebastiano al Vesuvio nascosta sotto un lenzuolo, di riserva, pronta a fermare la lava, come avvenne, nel caso non fosse bastato l'intervento del santo patrono ufficiale, appunto San Sebastiano.

Fino ad allora, dall'Unità d'Italia il Vesuvio aveva già brontolato più o meno spaventosamente nel 1861, 1867, 1872 (quando era stato distrutto lo stesso paese di San Sebastiano), 1891-95, (quando si era formato il colle Margherita, 1895-99 (quando era nato il colle Umberto) e poi ancora nel 1906, quando era stata devastata Boscotrecase e infine nel 1929. Quelli che nel 1944 erano bambini, se lo ricordano bene, l'incubo. Ma lo hanno rimosso. E nonostante gli spaventi del sisma in Irpinia e del bradisismo a Pozzuoli, troppa gente vive da decenni il Vesuvio come se non fosse un vulcano, ma una montagna.

E vive dunque i vincoli imposti ai 18 comuni della «zona rossa» come un'angheria imposta alla povera gente dalla «politica». C'è un condono? Non si può usare. Ne arriva un altro? Non si può usare. Col risultato che un pò di politici ha individuato nella guerra alle regole antisismiche una strategia per andare a batter cassa dagli elettori. Come il sindaco di Sant'Anastasia, Carmine Esposito, che da anni si è auto-nominato nemico numero uno della «truffa confutabile a livello scientifico» e qualche settimana fa si è spinto ad affiggere manifesti che dicevano: «Zona rossa, finalmente si cambia». Posizione condivisa da qualche parlamentare come il senatore pidiellino Carlo Sarro che a fine marzo tuonò: «Quello che si sta consumando in Campania è un dramma culturale, una vicenda segnata da una profonda ingiustizia. Ci sono 67.000 sentenze di demolizione e questo fa capire come sia drammatica la situazione».

Tutte case abusive. Ma «le associazioni spesso continuano a diffondere l'idea che l'abusivismo è uguale a criminalità, ma è una mistificazione gigantesca. Dietro la scelta forzata di costruire case abusive ci sono sacrifici, investimenti frutto del lavoro di famiglie». Sono in zone ad altissimo rischio sismico? E vabbè… Ed ecco che proprio in questi giorni, come denuncia l'ex l'assessore Marco Di Lello, autore del progetto «Vesu-via» che dava 30mila euro a chi se ne andava comprando casa fuori dalla «zona rossa» e tolse tutti i benefici fiscali così da rendere più cari gli affitti e fare invecchiare il patrimonio edilizio e buttò giù qualcuna delle migliaia di opere abusive dentro il parco, in Regione discutono di un disegno di legge che spazzerebbe via una serie di vincoli.

Una leggina stupefacente. Soprattutto di questi tempi di lutti e macerie in Emilia. Non solo rimuove il vincolo di inedificabilità assoluta nella fascia di rispetto di un chilometro intorno all'antica Velia, nel parco del Cilento. Non solo stravolge il Piano Urbanistico Territoriale della penisola sorrentina limitando i vincoli alle spalle della Costiera Amalfitana nonostante sia un'area a forte rischio idrogeologico teatro di tragedie come qualche anno fa la frana di Nocera Inferiore. Ma, accusa Di Lello, deforma pesantemente «la legge regionale 21 del 2003 che sancisce il divieto assoluto di rilascio di titoli abilitativi (permessi a costruire, Scia e Dia) a fini abitativi nella zona rossa vesuviana così come perimetrata dalla Pianificazione d'emergenza della Protezione Civile». Per capirci, prendiamo le parole proprio di Carmine Esposito che si vanta del successo: «Non vogliamo aumentare il carico abitativo. Questo però non vieta la possibilità di fare nuove abitazioni nel rispetto idrogeologico del territorio» Sic… Di che genere di territorio si tratti lo lasciamo dire al vulcanologo Franco Barberi: «Non esiste al mondo una località a più alto rischio vulcanico, considerando l'abnorme concentrazione edilizia spintasi fino a poche centinaia di metri dal cratere».

Sostengono gli scienziati che da molti anni il vulcano è «tranquillissimo» ma «prima o poi dovremo fare i conti con una nuova eruzione». Il materiale incandescente se ne sta pressato a una profondità di otto chilometri. Questo sarebbe un bene e un male: prima di spingere forsennatamente verso l'alto per cercarsi una via d'uscita il magma dovrebbe dare dei segnali via via più chiari dando qualche tempo per l'evacuazione che, stando al piano della protezione civile del 2004, dovrebbe portar via 12 giorni. Basteranno? Erosa la spinta, lo strato di lava «salterebbe come un tappo di champagne».«Una volta aperto il condotto», scrive il vulcanologo Gianni Ricciardi dell'Osservatorio Vesuviano in un saggio che sta per essere pubblicato, «si formerà una colonna eruttiva che potrà raggiungere un'altezza di oltre dieci chilometri. La parte alta della colonna pliniana, meno densa, sarà spinta secondo la direzione dei venti prevalenti d'alta quota e da essa si avrà caduta di particelle al suolo. La parte bassa della colonna, più densa, collasserà generando correnti piroclastiche, che scorreranno, seguendo la morfologia, lungo i fianchi del vulcano, a grande velocità e con elevato potere distruttivo.

Probabili piogge indotte dalle perturbazioni delle condizioni atmosferiche causate dall'eruzione, potranno mobilizzare il materiale piroclastico depositato lungo le pendici del vulcano, provocando colate di fango e alluvionamenti durante e anche a eruzione finita».Un'apocalisse. La «zona rossa» dei 18 comuni circumvesuviani «è soggetta a distruzione pressoché totale, a causa dello scorrimento di correnti piroclastiche, colate di fango e alla ricaduta imponente di ceneri, bombe e lapilli». La «zona gialla», un migliaio di chilometri quadrati comprendenti 96 comuni di cui 34 della provincia di Napoli, 40 di quella di Avellino, 21 di quella di Salerno ed 1 della provincia di Benevento «potrebbe essere interessata da un'importante ricaduta di cenere e lapilli, con carichi superiori a 200 kg/m2». Da brividi.

Eppure, spiega lo scienziato nel suo lavoro intitolato «Le eruzioni del Vesuvio dal 1861 al 1944. Cosa ci aspetta?», quella «zona rossa» così pericolosa ha visto aumentare, incredibilmente, la sua popolazione. Lo scriveva già lo storico vesuviano Silvio Cola nel 1958: «Dopo l'ultima eruzione del 1944, il Vesuvio non ha dato più segno di attività, lasciando in una perfetta calma gli abitanti dei Paesi nascenti alle sue falde, i quali, per nulla preoccupati delle sorprese che potrebbe dare il terribile vulcano, quasi dappertutto, fanno sorgere, continuamente, grandi fabbricati e magnifiche ville».

Al primo censimento del 1861 la popolazione vesuviana era di 107.255 persone, concentrate quasi tutta sulla costa. Dieci anni fa, al censimento del 2001, erano 530.849. Oggi, secondo Ricciardi (anche se i dati provvisori dell'Istat non concordano) sarebbero 580.913. Hanno sotto gli occhi le rovine di Pompei, Ercolano, Oplontis. Hanno conosciuto dai nonni i racconti delle grandi paure di qualche decennio fa.Guardano il vulcano, sospirano e fanno spallucce.

Il ministro Corrado Passera ha annunciato che, con l’intervento dei privati, si potrà arrivare a investimenti di 100 miliardi nei prossimi anni. Tantissimi soldi, ma ricordano quelli per le “grandi opere” di Berlusconi, mai concretizzatisi. Tuttavia un certo numero di “grandi opere”, oltre la Torino-Lione, stanno per davvero per essere avviate dal governo Monti. L’attenzione si è spesso concentrata sul tunnel della Val di Susa, ma è forte il rischio che questi altri investimenti possano rivelarsi, nel complesso, un affare anche peggiore per il Paese. Alcune sono già finanziate in parte, altre hanno passato la cruciale soglia dell’approvazione del Cipe.

SI TRATTA DEL TUNNEL ferroviario del Brennero, della linea ferroviaria Milano-Genova (nota come “terzo valico”, essendocene già due, sottoutilizzati), la linea Alta velocità Treviglio-Brescia-Padova, le nuove linee ferroviarie Napoli-Bari e Palermo-Catania, che non sono ad alta velocità ma costano come se lo fossero, e il miglioramento della linea ferro-viaria Salerno-Reggio Calabria (forse, tra queste, la più sensata). Vi è anche un’intesa politica “bipartisan” per la nuova linea Av Venezia-Trieste, mentre non è chiaro al momento il destino del Ponte sullo Stretto di Messina. Il costo totale preventivato supera i 27 miliardi di euro (e chissà poi il consuntivo). Circa l’auspicato e generoso intervento dei privati, in questo settore in generale si tratta di “prestiti mascherati”, in cui i privati, forse anche a ragione, in realtà non rischiano nulla. L’esperienza dell’Alta velocità dovrebbe insegnare: la Commissione europea costrinse lo Stato a versare 11 miliardi “cash” alle Fs, perché non riconobbe alcun reale rischio privato nell’operazione. Ma la memoria è labile quando si tratta dei soldi dei contribuenti.

Quali caratteristiche hanno in comune le opere sopra elencate? Non sono stati resi pubblici i piani finanziari: cioè non è noto quanto sarà a carico dei contribuenti e quanto a carico degli utenti. La cosa sembra inquietante in un periodo di grande scarsità di soldi pubblici. Non sono in generale note nemmeno analisi costi-benefici comparative di tali opere, per determinarne la priorità in funzione del benessere sociale che creano (o distruggono). I finanziamenti non sono “blindati” fino a garantire il termine dell’opera. La normativa recente che consente di realizzarle “per lotti costruttivi”, invece che “per lotti funzionali” rende possibili cantieri di durata infinita. 4) Sono tutte opere ferroviarie, ed è noto che la “disponibilità a pagare” degli utenti per la ferrovia è molto bassa, tanto che se si impongono tariffe che prevedano un recupero anche parziale dell’investimento, il traffico tende a scomparire, al contrario che per le autostrade. Questo aspetto rende discutibile la scelta di privilegiare le ferrovie, quando i soldi sono così scarsi. In effetti, i benefici ambientali delle ferrovie sono indiscutibili. Ma non è più così in caso di linee nuove: le emissioni “da cantiere” rendono il risultato ambientale molto dubbio. Il contenuto occupazionale e anticiclico di tali opere appare modesto: si tratta di tecnologie “ad alta intensità di capitale” (in media, solo il 25% dei costi sono di lavoro).

Vediamo ora i pochi aspetti specifici che sono noti di alcune di queste opere. La debolezza delle informazioni di cui si dispone è un problema politico in sé: investimenti pubblici di questa portata dovrebbero essere documentati in modo trasparente. Sul “terzo valico” l’Ing. Mauro Moretti, ad di Fs, si è espresso più volte mettendone in dubbio la priorità, tanto da dover essere ripreso con una lettera al Sole 24 Ore dall’ex ministro Lunardi. L’analisi costi-benefici della linea Av Milano-Venezia, è stata dimostrata inconsistente su lavoce.info. Per il tunnel del Brennero, gli austriaci da tempo esprimono dubbi sulle proprie disponibilità finanziarie. Certo, se l’Italia costruisse la propria metà, vi sarebbero molti problemi per i treni, senza l’altra metà del tunnel. L’analisi costi-benefici, presentata da Fs per la linea Napoli-Bari, è stata dimostrata del tutto indifendibile, sempre sulavoce.info. Anche in questo caso, nessuna smentita è pervenuta.

È una leggenda che le infrastrutture generino nel tempo la domanda che le giustifica: la linea di Alta velocità Milano-Torino, costata 8 miliardi e con una capacità di 330 treni/giorno, ne porta, dopo tre anni dall’entrata in servizio, appena 20. Né la realizzazione del collegamento Torino-Lione ne genererebbe molti di più: le stime ufficiali (ma quelle del progetto completo, non di quello attuale, molto più modesto) parlano di neanche 20 treni aggiuntivi. Ma il problema maggiore non è la debolezza della domanda ferroviaria quanto i cantieri infiniti, consentiti dall’attuale normativa. Per ragioni di consenso si rischia di avere moltissime opere non finite in tempi ragionevoli, con costi economici stratosferici. Non sembra il momento di perseverare con queste logiche, proprie di una diversa fase politica ed economica. Ma chi avrà il coraggio di dire di no a tanti “sogni nel cassetto” di politici, banche e costruttori locali, soprattutto in vicinanza di elezioni?

Il comune di Monte di Procida (Napoli) ha promosso una delibera "tipo" che propone al governo nazionale e alla Regione Campania la sospensione delle demolizioni degli abusi edilizi e l'estensione del condono del 2003 ai cittadini campani ai quali sarebbe stata negata questa

prerogativa dalla legge regionale del 2003.

Da Napoli, in controtendenza, l’Assessore Luigi De Falco ci ricorda che la Giunta comunale si è schierata per riaffermare i principi di legalità.

Nella delibera del dicembre 2011 che riportiamo in allegato, si ribadiva il primato della pianificazione urbanistica contro la proposizione di provvedimenti legislativi di condono edilizio, di sospensione o revoca delle demolizioni degli immobili edificati abusivamente fuori dai limiti previsti dalla vigente legislazione statale e regionale.

Tramite questo atto l’Amministrazione comunale sottolinea la sua più convinta adesione ai principi costituzionali che esprimono il territorio come bene comune. Principi che solo un paese che abbia smarrito completamente la propria dignità civica osa rimettere in discussione.(m.p.g.)

ROMA — Ultimi in Europa per sviluppo economico, produttività, investimenti in infrastrutture e crescita demografica, un primato almeno non ce lo toglie nessuno. Nel soil sealing non abbiamo rivali. Traduzione: impermeabilizzazione delle superfici naturali. Succede quando si consuma pericolosamente territorio con palazzine e capannoni, come stiamo facendo in Italia da troppi anni. Producendo in questo modo, sono parole contenute nell'ultimo rapporto annuale dell'Istat, «impatto ambientale negativo in termini di irreversibilità della compromissione delle caratteristiche originarie dei suoli, dissesto idrogeologico e modifiche del microclima».

Che dimensioni abbia assunto questo fenomeno lo dice con chiarezza un numero: 7,3%. È la superficie totale dell'Italia non più naturale. Parliamo di un'estensione paragonabile a quella dell'intera Emilia-Romagna o di tutta la Toscana. E il dato fa ancora più impressione se paragonato alla media del continente europeo, che certo non si può definire disabitato e rurale, pari al 4,3%. Nella nuova provincia di Monza è cementificato oltre il 50% del suolo. In quella di Napoli, il 43,2%. In quella di Milano, il 37,1%.

La sconsideratezza con la quale abbiamo aggredito il nostro territorio sta arrivando ad alterare in certe aree, scrive l'Istat, «un equilibrio storico fra paesaggio e insediamento urbano», mettendo così a repentaglio la nostra principale risorsa. Con il rischio di compromettere «le possibilità di sviluppo connesse alla fruizione turistica». Per non dire del modo in cui si costruisce in un territorio fragile e sempre più dissestato nel quale, come dimostra il terremoto dell'Emilia, il rischio sismico è quasi ovunque incombente.

Legambiente per prima aveva sollecitato l'urgenza di una contabilità nazionale del consumo di suolo, spiattellando dati raccapriccianti. Condivisi non già da arrabbiati ultrà naturalisti, ma da intellettuali incapaci di rassegnarsi davanti allo scempio. Come il presidente del consiglio scientifico del Louvre Salvatore Settis che nel suo libroPaesaggio Costituzione cementoha profetizzato: «Vedremo boschi, prati e campagne arretrare ogni giorno davanti all'invasione di mesti condomini, vedremo coste luminose e verdissime colline divorate da case incongrue e palazzi senz'anima, vedremo gru levarsi minacciose per ogni dove.

Vedremo quello che fu il Bel Paese sommerso da inesorabili colate di cemento». La notizia è che non sono più soltanto le associazioni ambientaliste o qualche autorevole voce fuori dal coro a invocare attenzione sui pericoli che stiamo correndo, ma che finalmente si è accesa una spia anche nelle istituzioni. Difficile ignorare un allarme come quello che lancia adesso l'istituto presieduto da Enrico Giovannini: fra il 2001 e il 2011 il consumo del suolo è aumentato dell'8,8%, a fronte di un incremento della popolazione residente del 4,7%, quasi tutti immigrati. Come se in dieci anni fosse stato completamente saturato da costruzioni un territorio pari alla provincia di Milano: al ritmo medio giornaliero di 45 ettari. Medio, perché negli ultimi anni il ritmo si sarebbe intensificato, toccando punte quotidiane di 161 ettari.

Al Nord le ruspe e le gru si sono date da fare non poco, al punto che ormai il 12,9% della superficie del Veneto e il 12,8% di quella della Lombardia non sono più naturali (rispettivamente, secondo l'Istat, 2.375,9 e 3.050,7 chilometri quadrati). Ma al Sud hanno lavorato ancora più sodo: l'aumento è stato del 10,2%, contro l'8,7% del Nord-Ovest e il 7,8% del Nord- Est. Di questo passo il divario fra l'urbanizzazione del Nord e quella del Sud, ancora rilevante (siamo al 9,2% nel Nord-Ovest contro il 4,7 del Mezzogiorno), verrà presto colmato. Soprattutto in certe zone della Campania, come la provincia di Caserta, dove l'estensione territoriale coperta dal cemento si è accresciuta del 18,4%.

Qui il reddito procapite è inferiore alla media della Campania (11.833 euro contro 12.247) ed è metà rispetto a Bologna. Nel 2008 il prodotto interno lordo dei casertani, sempre procapite, non era che il 39% di quello dei milanesi, così basso da collocare la Provincia al novantanovesimo posto su 103. Il tasso di occupazione fra le persone in età lavorativa (dai 15 ai 64 anni) era del 38,7%, contro una media nazionale del 58,7%. I depositi in banca, nel marzo 2010, non raggiungevano i 5.900 euro procapite, uno dei valori più modesti in assoluto: meno di un sesto nei confronti di Trieste. Eppure, in questo apparente sfacelo economico, le costruzioni continuano a spuntare come i funghi. Nel solo 2007 sono stati edificati ex novo la bellezza di 135 centri commerciali: a Milano ne erano sorti 140, in tutta la Liguria 121. Per non dire delle 4.235 nuove abitazioni, il 25% in più rispetto alla provincia di Palermo dove pure non si risparmia il cemento. E non è solo colpa dell'abusivismo.

Certo, nel Paese ci sono differenze significative anche nelle strategie di cementificazione. L'Istat sottolinea infatti che nel Centro-Nord si punta sull'espansione delle località esistenti, fino a sommergere tutti gli spazi che separano l'una dall'altra: in Lombardia lo spazio urbanizzato si è esteso in dieci anni di ben 225 chilometri quadrati. Al Sud la tecnica è invece quella di creare nuovi centri abitati. Rispetto al 2001 ce ne sono 1.024 in più, il 42,3% di tutte le nuove località italiane. Dieci anni fa, per esempio, il numero dei centri abitati della Puglia era del 17% inferiore. In Sardegna, del 12,1%; in Sicilia, del 10,2%.

Per consolarci, potremmo ricordare che pure i boschi sono aumentati. Negli ultimi vent'anni del 20%. Secondo Legambiente la superficie forestale ha raggiunto 10,2 milioni di ettari, 1,7 milioni in più rispetto all'inizio degli anni Novanta. Rispetto al Dopoguerra, poi, è quasi raddoppiata. Ma è una consolazione assai parziale: l'incremento delle foreste non è avvenuto a scapito del cemento, che come abbiamo visto continua a sbranare il territorio senza però che si realizzino le infrastrutture necessarie a un Paese sviluppato, bensì dell'agricoltura. Gli alberi si stanno semplicemente riprendendo lo spazio che l'economia rurale aveva loro sottratto. Benissimo per il nostro polmone verde, meno bene per quei territori cui è venuta meno la manutenzione contadina. Settis ricorda che fra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata si è ridotta di 3 milioni 663 mila ettari: se consideriamo quelli riconquistati dalle foreste, significa che in tre lustri la natura ha perso 2 milioni di ettari.

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