Insistere nella realizzazione della cosiddetta TAV Torino-Lione è una clamorosa stupidaggine, ma non aiutano a sgonfiare il pallone di menzogne propalate dei difensori della costosa e devastante iniziativa quanti scelgono lo strumento degli attentati. Il Fatto quotidiano, 27 dicembre 2014
Quando si parla di Tav vi sono una serie di elementi fuori discussione, cioè non “di parte”, benché il progetto resti controverso e non più di Alta velocità (nome improprio). Era nato come una linea di alta velocità, cioè principalmente destinata ai passeggeri, tra Torino e Lione. Poi, data l’esiguità delle previsioni ufficiali per i passeggeri (16 treni al giorno su 250 di capacità della linea), è stato degradato a progetto merci. Infine, data l’evidente non necessità di una linea veloce per le merci, al solo tunnel di base, con costi previsti passati da circa 23 miliardi a 9.
I dati sul traffico merci sono eloquenti: la linea esistente, recentemente rimodernata, ha una capacità ufficiale di 20 milioni di tonnellate annue. Attualmente ne passano 4 e il traffico complessivo (autostrada compresa) è in declino da prima della crisi.
Del progetto è stata fatta un’analisi costi-benefici da parte dei promotori a posteriori rispetto alla decisione politica di realizzarlo (e con queste premesse appare difficile un responso negativo). L’analisi è stata criticata per eccesso di ottimismo da molti studiosi indipendenti, per vistosi errori tecnici e ottimismo delle previsioni di traffico. A tali circostanziate critiche non è mai stata data risposta. Si noti tra l’altro che gli studiosi critici di quell’analisi chiedevano solo che si facessero studi indipendenti e comparativi per decidere priorità di spesa, non per dire dei “sì” o dei “no”, e ciò secondo le migliori prassi internazionali. Neppure a questa istanza è stata data risposta.
Per quanto riguarda gli aspetti finanziari del progetto, cioè il rapporto costi pubblici-ricavi, cruciale in una fase di scarsità di risorse pubbliche, non esiste alcuno studio, se non uno che calcola questi risultati solo in base ai costi e ai ricavi di esercizio, senza includervi i costi di investimento(!). Lo studio dell’opera non è nemmeno giunto al livello di progetto esecutivo, per cui l’incertezza dei costi rimane elevata anche a livello di preventivo. E il contributo finanziario europeo appare “auspicato”, ma tutt’altro che certo.
La corte dei conti francese ha espresso una valutazione fortemente negativa sul progetto, rinforzata recentemente da perplessità molto più generali su tutta la politica ferroviaria del Paese. La revisione delle priorità effettuata per le grandi opere francesi (pur dopo l’esclusione da tale revisione di questo progetto, in quanto “internazionale”), ha valutato come non prioritaria la prosecuzione della linea dal tunnel a Lione, “per insufficienza di traffico” (questa tratta, avendo anche il traffico locale, sarà comunque più trafficata del solo tunnel di base).
Ora, le proteste ambientaliste o pseudo tali, sono spesso opportunistiche, fatte al fine di ottenere compensazioni delle più inverosimili (si veda il caso di Firenze e di Bologna). Nel caso del Tav Torino-Lione tuttavia appaiono nel complesso motivate ed informate.
«La svolta decisiva risale alla primavera 2001. Il governo Amato elimina dal Testo Unico per l’edilizia un articolo-cardine della legge n.10/1977 (Bucalossi). Da quel momento i Comuni sono autorizzati ad utilizzare gli oneri di urbanizzazione “per fare cassa”, per la spesa corrente. Una follia». Left, 20 dicembre 2014
Il governo Renzi annuncia lo stop al consumo di suolo, ma con lo Sblocca Italia e con la legge di stabilità va in direzione opposta. I Comuni continueranno a usare gli oneri di urbanizzazione per “fare cassa”. A danno dell’ambiente, del paesaggio e dei servizi. Impermeabilizzato il 7,3 % di suolo italiano. Napoli il Comune con più cemento e asfalto. Poi Milano. Lombardia e Veneto le regioni più impermeabilizzate. Restano per questo in superficie in tutta Italia 270 milioni di tonnellate di acqua piovana all’anno.
Le buone intenzioni ci sarebbero. In commissione, dopo i recenti disastri alluvionali, il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, si è pronunciato per un immediato stop al consumo di suolo. Misura sollecitata da anni da urbanisti (Salzano, De Lucia, Meneghetti, Berdini e altri) e ambientalisti. Finalmente ci siamo? A parole. Nei fatti si va in direzione opposta con lo Sblocca Italia e con la legge di stabilità. Lo ha denunciato l’ex ministro alle Politiche agricole, Mario Catania, firmatario di un disegno di legge contro il consumo di suolo: la legge di stabilità consentirà ai Comuni di impiegare ancora i proventi degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente. L’edilizia dunque potrà essere di nuovo da essi accelerata. In parte è soltanto un’empia illusione perché ci sono centinaia di migliaia di alloggi e di uffici vuoti e invenduti. Ma sarà la recessione a rallentare il consumo di suolo e non la volontà del governo Renzi espressa con la legge di stabilità.
Una concentrazione di interessi che rischia di ripetere, se non adeguatamente percepita e valutata, gravi squilibri fra centro e periferia, solo di natura inedita rispetto al passato della terziarizzazione novecentesca. Corriere della Sera Milano, 21 dicembre 2014, postilla (f.b.)
Duomo, Galleria, via Manzoni, piazza dei Mercanti, Cordusio, piazza Affari, piazza Castello. È qui che si gioca la partita sulla nuova anima commerciale del centro città sempre più ostaggio di palazzi vuoti, quasi fantasma?
I protagonisti del riassetto immobiliare della metropoli ne sono certi: «Sull’asse Castello-Duomo passano 20-25 milioni di turisti l’anno, spesso interessati allo shopping . Far scappare gli investitori stranieri che hanno acceso i loro riflettori sulla zona sarebbe un errore, è un caso unico in Italia». Che, tradotto, significa una richiesta a chi governa: «Più strategia, visione, incentivi, pedonalizzazioni, servizi». In una città che a eccezione delle nuove aree come Porta Nuova e Citylife sta dicendo basta al consumo di suolo — restano in ballo ancora il Portello e lo scalo Farini —, di fatto si apre in via definitiva il fronte del riutilizzo del patrimonio immobiliare storico, occasione per una ristrutturazione degli immobili.
«Milano non ha mai fatto riqualificazioni edilizie. Si tratta di un’occasione da non perdere» dicono dal mercato immobiliare. Ma tra cambi di destinazioni d’uso, vincoli architettonici da rispettare o superare, le «battaglie» con burocrazia e regole — da sempre il disincentivo all’approdo di capitali esteri in Italia —, la grande shopping area del centro resta uno scenario piuttosto lontano. La trasformazione dei palazzi a cui s’interessano i fondi sovrani asiatici (Gic di Singapore) e mediorentali (Qatar e Abu Dhabi) e i fondi americani (come Blackstone), è una partita tutta da giocare. Anche per i «capitani coraggiosi» dell’investimento.
postilla
Qualcuno si ricorderà sicuramente il termine “terziarizzazione strisciante” applicato ai centri storici, quando nella seconda metà del'900 in ampie aree urbane, vuoi senza trasformazioni edilizie di rilievo, vuoi con qualche anche importante manomissione del tessuto tradizionale, avveniva uno svuotamento e successivo riempimento con altre funzioni. Si tratta in fondo del medesimo processo che ancora oggi spesso rende difficile applicare decentemente politiche ambientali, del traffico, o la semplice promozione di una maggiore articolazione funzionale. Ecco, forse continuare a vivere la grandi manovre di questi operatori interessati a “valorizzare il centro”, come se fossero avulse da ciò che accade altrove nelle aree metropolitane, per esempio nell'assetto degli ex “superluoghi” ovvero i classici scatoloni extraurbani, potrebbe far perdere di vista una importante occasione. Perché appare ovvio come, ad esempio, la possibilità di abbondantissimi spazi nelle zone più pregiate del nucleo metropolitano, fa diminuire di interesse la localizzazione nei vari shopping mall o outlet classici da svincolo autostradale, con buona pace di chi pensava a quegli scatoloni come strumento di rilancio anche economico di un certo rilievo. Meditiamo: evitare il dirigismo astratto in materia commerciale andrà anche benissimo, ma considerare qualunque strategia diversa dal puro plauso al “mercato” come strisciantemente incostituzionale sarebbe stupido. Una prospettiva di città metropolitana in fondo significa anche quello, riflettere sul rapporto fra spazio e commercio (f.b.)
Una piccola casa editrice (Corte del fòntego), in lotta contro i marosi della crisi dell'editoria, una coraggiosa collana di valutazione critica e di documentazione storica su Venezia e la sua Laguna hanno celebrato ieri il loro decimo (l'una) e quinto (l'altra) compleanno. Pubblichiamo l'intervento dell'editore pronunciatoin occasione di un brindisi con gli autori
Benvenuti, grazie di essere venuti numerosi.
Il prossimo sarà il quinto anno della collana «Occhi aperti su Venezia».
Sembra ieri quando abbiamo cominciato a pubblicare i primi titoli un po’ per caso, un po’ per colpa di Salzano, un po’ perché credevo - sbagliando - che lavorare con testi di sole 38-40.000 battute sarebbe stato più riposante rispetto ai volumi corposi e laboriosi della collana Voci sulla città che mi hanno impegnato per i cinque anni precedenti.
Cinque più cinque fa dieci: e dunque nel 2015 Corte del fontego compirà dieci anni.
Non è poco per una microscopica casa editrice che ha minacciato e minaccia di chiudere all’arrivo di ogni primavera. (Così avrebbe voluto anche il mio commercialista. Ma adesso si è arreso ai libretti, sa che rappresentano qualcosa di utile - almeno per alcuni - e non mi spaventa più con gli studi di settori. Anzi so che presenta lunghe relazioni in cui spiega che siamo un po' matti).Dunque festeggeremo anche i dieci anni e andremo avanti, fin che potremo. Nuovi titoli si affacciano a febbraio, su Venezia e la modernità, sul Fontego dei Tedeschi, sull’Arsenale, sul Mulino Stucky; ci saranno nuove ristampe e nuove traduzioni.
Naturalmente, non sarà per sempre! A un certo punto ci fermeremo! come prima o poi si chiudono tutte le esperienze, anche le migliori: nel nostro caso potrà essere per esaurimento degli argomenti più pregnanti - che tanto connotano i libretti rossi -, o per esaurimento... mio, rispetto soprattutto alle fatiche di gestire questa piccola impresa anche in ogni suo imponderabile e finanziario aspetto, fatiche che mi sottraggono parte del divertimento profondo che ho ricavato in questo progetto fin dal primo giorno. Lidia, tra l’altro, che di Occhi aperti è direttore scientifico, è oberata da più alti e pressanti impegni, sia come presidente della associazione prestigiosa che tutti conosciamo, sia come studiosa della Laguna.
Cosa faremo in un lontanissimo futuro lo abbiamo già deciso: torneremo a fare i topi d'archivio! Aver lavorato insieme per tanti anni ordinando il meraviglioso archivio storico di Noale e poi aver pubblicato le circa 1000 pagine dell’inventario è stata la nostra lunga gavetta insieme. E tutta questa esperienza comune ci è tornata utilissima per avviare la collana Occhi aperti su Venezia: esperienza che si può riassumere nel motto del mio professor di paleografia, Paolo Sambin, RIGORE, RIGORE, RIGORE.
Un progetto, il nostro - lo ricordo - che consiste nel proporre brevi saggi, anche critici, sui problemi della città e della sua Laguna, scritti da studiosi e specialisti, ma con una forte adesione al mandato che ci siamo imposte: semplicità, chiarezza, efficacia dei testi; rigore e completezza delle informazioni.
Siamo consapevoli che lavorare con noi non è stato sempre facilissimo: siamo delle rompiscatole (ma anche maranteghe e megere). Ma credo che la forma unitaria, omogenea, riconoscibile, che la collana ha assunto nel tempo ci abbia dato ragione. Senza Lidia, senza il suo continuo controllo scientifico, la collana Occhi aperti su Venezia avrebbe avuto le gambe corte. Ma senza Eddy Salzano non ci sarebbero state neanche le gambe. Un giorno di qualche anno fa mi disse: peccato che fai solo libri grandi! Sarebbe utile pubblicare il materiale che ho assemblato in un breve saggio sulla scandalosa faccenda del Lido. Effettivamente era un peccato ma io proprio non facevo opuscoli di quella natura e di quella misura.
Ma già pochi giorni dopo, si affacciava tra le elucubrazioni dell’editore curioso la solita pericolosa domanda, quella che apre orizzonti nuovi, ma anche le più insidiose incognite. «Ma perché no?». È cominciata così, con un “perché no,” abbastanza timido e prudente, la costruzione del progetto, presto riconoscibile nella sua grafica e nella divisione in tre filoni (la stringente attualità, la storia e urbanistica, la Laguna).
In pochi anni, la collana si è fatta quasi da sé, sotto la spinta degli stessi argomenti, sempre urgenti, sempre pressanti, che chiedevano di essere raccontati, spiegati, approfonditi, quasi in tempo reale. Oggi raccoglie firme illustri di molti dei protagonisti di questa città sempre in prima linea ad affrontare gli esiziali problemi che la affliggono; raccoglie firme di studiosi che hanno dedicato molti anni della loro vita alla conoscenza della Laguna; raccoglie infine firme di architetti e urbanisti che propongono letture e visioni inedite della città o di parti di essa.
Voglio ringraziarli tutti: Giorgio Agamben; Angela Maria Alberton; Debora Antonini; Shaul Bassi, con Isabella di Lenardo; Stefano Boato, anche con il prezioso aiuto di Carlo Giacomini; Lorenzo Bonometto, che qui è di casa; Donatella Calàbi, sempre accompagnata dalle preziose illustrazioni di Paolo Morachiello; Franca Cosmai, archivista come noi; Massimo Favilla; Luigi Fozzati; Aleramo Lanapoppi, che è poi Paolo; Franco Mancuso; Angelo Marzollo; Giannandrea Mencini; Sergio Pascolo; Paolo Pirazzoli; Tudy Sammartini, con Giulia Volpato; Rossana Serandrei Barbéro, con Sandra Donnici, ha generosamente riassunto anni e anni di ricerca in un esile libretto per partecipare anche a noi l’esistenza dei foraminiferi; Paola Somma, l’urbanista che ci ha regalato un ragionamento - dispiegato in ben tre titoli - sulla mercificazione della città; Elena Svalduz; Enrico Tantucci; Giuseppe Tattara; Silvio Testa; Nelly-Elena Vanzan Marchini; Maria Rosa Vittadini; Alberto Vitucci.
Concludo questo breve saluto con un brano di una lettera privata che ci ha commosso, giunta quando era comparso, due anni fa, l’annuncio sui quotidiani della nostra chiusura:
«Ho letto di recente un articolo ... che riferisce di una possibile, minacciata chiusura della Casa editrice. Trovo la notizia preoccupante e inaccettabile. Oltre alla sparizione delle librerie nella città storica, ora dobbiamo tollerare pure questo? Fin dalla loro prima comparsa ho grandemente apprezzato le pubblicazioni della collana “Occhi aperti su Venezia”. La mia libreria dice che si continuano a vendere bene. Lo immagino, dato il rigore, la facilità di lettura malgrado i contenuti impegnativi, la varietà dei temi, la limpida veste grafica, il prezzo più che accessibile, la formula “modulare” e agile, l’autorevolezza degli autori, le notizie su quanto sta accadendo a Venezia. Mi riferisco alla “privatizzazione” di pezzi di città, al turismo e lo spopolamento, alle grandi navi, tutti argomenti di cui personalmente ho appreso, e soprattutto compreso, molto di più attraverso “Occhi aperti” che non dagli articoli della stampa locale, spesso troppo criptici sugli interessi in gioco. In conclusione, ritengo che un’esperienza di informazione e di cultura così meritevole e originale, così preziosa e istruttiva, non possa terminare. Deve poter essere portata avanti come strumento di conoscenza, e questo per il bene stesso della città.... ».
Non aggiungo altro. Vi ringrazio ancora tutti di cuore. Buon Natale.
Un intervento ambiguo di un autorevole opinionista a proposito dell'ultimo libro di Salvatore Settis e del futuro di Venezia: privatizzare ulteriormente la città é un auspicio o un timore? con postilla. Corriere della Sera, 18 dicembre, 2014
postilla
Affermare, da parte di un opinionista così autorevole (e per di più, ci dicono, così ascoltato ai piani alti del Palazzo) che oggi, occorra intrecciare Venezia e i grattacieli fa aggricciare la pelle a chi sa che in questa città vistose pressioni si propongono di punteggiare i margini della Laguna, che di quella città è parte integrante, di vistosi grattacieli (quello proposto dal couturier Cardin ne è vistosa testimonianza, ma il cosiddetto waterfront é soggetta dai tempi del "doge" De Michelis e della proposta di Expo 2000, fino a oggi e, forse, domani.
Ma la colpa non é delle leggi speciali né dal flusso del denaro pubblico. È dell'uso perverso che il personale politico di quel denaro pubblico ha fatto, dell'infrazione sistematica delle regole rigorose prescritto da quelle leggi, del trasferimento progressivo di potere, competenze, risorse dal pubblico al privato. Colpe di un personale politico (romano, veneto e veneziano) dominato, dall'inizio degli anni Novanta e via via divenuto più grave, dall'ideologia della "innovazione" e della "modernizzazione", della sostituzione del privato al pubblico, dell'assunzione di una concezione distorta dello "sviluppo" (identificato nella crescita del PIL) e nella prassi del continuo cedimento del potere di decisione ai grandi poteri privati. Precisamente, i potentati dalle "grandi firme" della moda e quelli delle infrastrutture e delle costruzioni. Nella mappa dei poteri veneziani gli amministratori non appaiono come gli arbitri e i governatori dei poteri privati, ma i loro servi consapevoli o inconsapevoli. E' piu che giusto l'invito di Settis, ripreso da Giavazzi. di cogliere l'occasione delle prossime elezioni amministrative per imboccare una strada alternativa. Ma ciò sarà possibile solo se i nuovi eletti non siano coinvolti nè con le loro azioni ne con le proprie omissioni, con chi ha gestito la città nell'interesse dei grandi gruppi privati; perché, insomma, ci sia piu Stato e meno mercato.
Perciò desta un qualche stupore la frase finale dell'articolo di Giavazzi. Chi lo stima pensa che sia sarcastica: che esprima il timore di un possibile futuro al quale i cittadini devono reagire. Ma si potrebbe sospettare che in quella frase si nasconda invece il suggerimento a una ulteriore spinta alla privatizzazione della città. Se così fosse il suggerimento sarebbe certamente ben accolto nel Palazzo, donde risponderebbero al suggeritore: stiamo già alacremente lavorando in quella direzione, e le azioni dell'attuale governatore della città (a Ca' Farsetti come a Palazzo Chigi, un nuovo personaggio non eletto che decide in dispregio alle regole della democrazia. rappresentativa).
Così come stupisce che l'attenzione di Giavazzi (come quella di numerosi altri autorevoli osservatori delle malefatte dei politici di oggi, si fermi alla deprecazione della corruzione e trascuri del tutto la nefandezza delle scelte che quei politici hanno compiuto: dal Mose alle nuove ferite inferte alla Laguna, all'incentivazione della deregulation e dalle colate di cemento.
Prosegue dopo un decennio la battaglia contro una scelta sbagliata e costosa, per una ragionevole e meno dispendiosa. A pensar male la pervicace volontà autostradale ha proprio nel risparmio la sua ragione. Proposta delle associazioni ambientaliste, link al testo integrale
Il documento affronta la storia dei progetti per il corridoio stradale tirrenico, le osservazioni presentate dalle Associazioni Ambientaliste al progetto definitivo del 2011 e i problemi non risolti, la fragilità del piano economico-finanziario, la riapertura della procedura di infrazione in sede di Unione Europea, i problemi irrisolti di intermodalità, le proposte di adeguamento e messa in sicurezza della SS.Aurelia.
Le proposte si possono così sintetizzare:
Ø Destinare i 270 Milioni che il Governo sembrava disposto a fornire a SAT o più in generale le risorse pubbliche disponibili, alle più urgenti opere di adeguamento e messa in sicurezza della Strada Statale Aurelia, iniziando necessariamente dai tratti ancora a due corsie ed eliminando i più pericolosi incroci a raso e immissioni dirette.
Ø per quanto riguarda i tratti già in esercizio e quelli in fase di realizzazione esonerare il pedaggio per il traffico locale di ambito provinciale che potrà così restare sull’Aurelia potenziata e sicura. Si riduce così drasticamente il potenziamento della viabilità alternativa e si riducono i costi ambientali ed economici del progetto.
Ø eliminare il sistema di esazione con barriere e sistemi chiusi utilizzando solo le innovazioni tecnologiche come il multilane free flow, con l’obiettivo di far pagare chi attraversa la Maremma (TIR e traffico veicoli) ed escludendo tutto il traffico locale, sia dei residenti, delle imprese e del trasporto pubblico, dal pedaggio. Gli attuali sistemi tecnologici di riconoscimento, selezione e pagamento automatico consentono sistemi flessibili e selezionati di gestione.
Ø Gli incassi dei pedaggi di attraversamento della Maremma devono essere reimpiegati per la messa in sicurezza ed adeguamento dell’Aurelia, con priorità alle tratte ancora a due corsie ed agli attraversamenti a raso più pericolosi.
Ø ritornare al progetto Anas di adeguamento della Strada Statale Aurelia implica anche rivedere con l’adozione di una norma la concessione a SAT, escludendo dall'affidamento di questa tratta la concessionaria.
«Test di mercato tramite affidamento diretto del comune a Nai Global: negozi e ristoranti» quello che il mercato vuole. Tutt'altro emerge nei tavoli di lavoro in cui i cittadini si esprimono, di cui nell'articolo di Elisa Lorenzini (Corriere del Veneto) e dal comunicato stampa di Italia Nostra, firmato da Paolo Lanapoppi (m.p.r).
Tra qualche tempo, a quanto è stato comunicato, verranno lanciati dei bandi per le concessioni
dei singoli lotti. E’ presumibile che essi verranno ceduti ai migliori offerenti, anche se il
subcommissario Scognamiglio ha dichiarato in una riunione con alcune associazioni che dovrà
contare molto anche la qualità dei prodotti aziendali trattati. In un incontro con la cittadinanza il subcommissario ha illustrato il suo piano e poi ha ceduto la parola all’azienda che il Comune ha assunto (per ora non si sa a quali costi) per reperire gli “investitori”. Il rappresentante di quell’azienda (specializzata nel settore immobiliare e nella ricerca di investitori professionali) si è anche sbilanciato ad accennare al tipo di attività che vorrebbe vedere installate nel nostro Arsenale: “fashion (si cerca sempre l’inglese per essere più moderni), arti visive, musica, etc.” Alla stampa ha dichiarato che ci sarebbero già 50 brand (vuol dire marchi) internazionali disposti a insediarsi nell’Arsenale.
Ciò che interessa non è dunque una testimonianza della storia navale, civile e artistica del nostro
Paese e dell’Europa intera, ma una serie di contenitori per brand e fashion. Sarà praticamente
impossibile leggere negli edifici rimaneggiati, rivestiti, trasformati la solennità e bellezza
dell’antichissima fabbrica navale. Contro queste proposte la comunità veneziana si è già levata
con molta forza: non solo le associazioni, ma anche individui singoli stanno protestando sia nelle
sedi ufficiali sia nei social network. Sta nascendo così un’idea unitaria dell’uso da fare del
compendio, tale da esaltarne insieme la bellezza, la storia e il messaggio di vita: farne un polo della
civiltà del mare, che comprenda la testimonianza dell’antico e una visione del presente e futuro,
forse anche un centro per gli studi sulla laguna e per la produzione e il restauro di barche antiche e
moderne. Invece che agenzie immobiliari, il Comune dovrebbe affidarsi all’esperienza e sapienza
dei nostri grandi storici dell’arte e dei direttori dei grandi musei marittimi del mondo.
Il meraviglioso Arsenale di Venezia è una grande opportunità e una forte responsabilità, di fronte
non solo ai residenti ma a tutto il mondo civile: chi verrà a visitarlo dovrà uscirne più ricco, più
completo come uomo e come cittadino del mondo. A questo serve la bellezza, non a incassare
profitti.
Ulteriore passo del neoliberismo renziano: con un'operazione in cui Politica e Mercato collaborano. I poveri ancora più poveri ed emarginati, il Potere degli immobiliaristi più forte e più ricco. E i beni comuni diminuiscono ancora. Sbilanciamoci.info, 4 novembre 2014
Il governo accelera sulla dismissione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica. Ma solo un porzione minima della popolazione residente oggi in quegli alloggi potrebbe affrontare l’acquisto all’asta. E così l’operazione rischia di trasformarsi nell’ennesimo regalo alla rendita immobiliare
Un decreto del Ministro Lupi, in corso di pubblicazione dopo il concerto avuto presso la Conferenza Unificata Stato – Regioni e Comuni, detta nuovi criteri ai fini dell’accelerazione della dismissione del patrimonio dell’edilizia residenziale pubblica (quelle che vengono comunemente chiamate le case popolari). In questo modo, il governo attua quanto previsto dall’articolo 3 della legge 80 del 2014 (il cosiddetto “piano casa Lupi”), che ha per titolo proprio “misure per l’alienazione del patrimonio residenziale pubblico.”
Può destare stupore che la Conferenza Unificata abbia dato il relativo consenso nella seduta dello scorso 16 ottobre, in quanto si viene ad intervenire su patrimoni di proprietà di Regioni e ed enti locali. Si stabilisce, infatti, che le nuove norme, in deroga alle precedenti disposizioni procedurali previste dalle leggi vigenti, si applichino “agli immobili di proprietà dei comuni, degli enti pubblici anche territoriali, nonché degli istituti autonomi case popolari (gli IACP) comunque denominati”. Lo Stato, quindi, interviene dettando norme e criteri di alienazione su immobili non suoi e sui quali Regioni e comuni esercitano una competenza esclusiva.
Per quanto stupefatti, il testo uscito dalla Conferenza unificata, nelle linee essenziali, è tale e quale a come vi è entrato. Ricapitoliamone i passi salienti:
gli organi di gestione presentano i piani di vendita (addirittura divengono operativi con il silenzio assenso della Regione); c’è una graduatoria di priorità (condomini misti, immobili fatiscenti) ma la procedura si applica a tutto il patrimonio, senza salvaguardie; gli immobili fatiscenti o i cui costi di manutenzione sono “dichiarati” insostenibili possono essere ceduti in blocco; la tutela per gli assegnatari è il diritto di prelazione sulla base del prezzo di aggiudicazione dell’asta.
Il decreto demanda agli Istituti e alle Regioni l’individuazione di eventuali ulteriori forme di tutela che, comunque, vista l’attuale situazione deficitaria in materia di offerta di alloggi pubblici, non potrà essere quella dell’assegnazione di un alloggio alternativo.
Qual è il giro di affari potenziale di questa manovra? Malgrado l’ERP sia lasciato al degrado e rappresenti sempre più un settore marginale dell’intervento pubblico, il suo valore rappresenta un “tesoro nascosto” e l’interesse a smobilizzarlo può essere alto.
Le case popolari gestite dagli Istituti o Aziende regionali sono poco più di 800 mila. Aggiungendo ad esse quelle di proprietà dei comuni e degli altri enti territoriali possiamo parlare di circa 1 milione di immobili. Il prezzo medio di vendita di un alloggio ERP nel 2011 è stato di 39.144 euro. Secondo Federcasa, il valore di mercato si aggira intorno ai 70/80 mila euro ad alloggio, per un totale quindi di 70/80 miliardi.
Quale porzione degli assegnatari potrebbe acquistare l’alloggio in cui risiede, sulla base di una dismissione che parta dal prezzo di mercato? Ai prezzi con cui il patrimonio è stato finora messo in vendita (circa il 50% in meno del valore di mercato) hanno acquistato una percentuale che oscilla tra il 20 e il 25% di coloro che hanno ricevuto l’offerta. Si parla di vendere all’asta con priorità nei condomini misti. Essi esistono, però, in quanto già gli Istituti o i comuni hanno messo in vendita i palazzi e solo una parte dei residenti ha comprato. Come è pensabile che possano comprare oggi all’asta quando prima non hanno potuto acquistare l’alloggio a un prezzo molto inferiore?
Forniamo alcuni dati sulla composizione sociale e reddituale di chi abita nel comparto. Riferendosi al comparto principale dell’ERP (gli alloggi gestiti dagli IACP, ATER, ecc.), abbiamo questi risultati:
un terzo delle famiglie ha redditi inferiori a 10 mila euro l’anno;
la morosità, attestata nel 2011 intorno al 20% del totale degli assegnatari, è in ulteriore aumento a causa dell’impoverimento di massa causato dalla crisi;
vi è una fortissima presenza di anziani (sono segnalate oltre 400 mila persone con più di 65 anni nel comparto);
145 mila sono le persone con disabilità.
E’ del tutto lampante che solo un porzione minima dell’intera popolazione residente oggi nell’ERP, valutabile in non più del 10 – 15%, potrebbe affrontare l’acquisto all’asta o esercitare il previsto diritto di prelazione sulla base del prezzo di aggiudicazione.
In pratica, si realizzerebbe il paradosso che potrebbero acquistare la casa popolare solo coloro che possiedono un reddito superiore alla decadenza (quelli che dovrebbero essere accompagnati verso il social housing, rimettendo l’alloggio nel circuito dell’affitto sociale).
Se il patrimonio venisse quindi posto in vendita all’asta (per singoli alloggi o come abbiamo visto per immobili interi) sulla base del prezzo di mercato, la conseguenza ovvia sarebbe che passerebbe di mano a terzi soggetti, almeno per le parti più appetibili dal mercato.
Si sommerebbero tre effetti negativi: rischi speculativi molto alti (specialmente nel caso delle aste di interi fabbricati); conseguenze sociali devastanti (se gli immobili abitati passano a terzi, lo sfratto degli abitanti è la logica conseguenza); dissesto del comparto ERP, di fatto trasformato, più di quanto sia ora, in “bad company”, essendo previsto il mantenimento del patrimonio più degradato e senza interesse da parte del mercato.
Tre ragioni, ognuna di per sé valida, per affermare che sarebbe saggio ritirare un progetto che è al tempo stesso socialmente iniquo e senza prospettiva per il settore ERP.
Sembra davvero inconcepibile che il governo si avvii nell’avventura senza ritorno del completo azzeramento dell’intervento pubblico nelle politiche abitative, in una condizione generale di acuta sofferenza abitativa segnata da dati incontrovertibili: 700 mila famiglie, utilmente collocate nelle graduatorie comunali senza risposta; oltre 200 mila sfratti nei soli ultimi 3 anni (di cui il 90% per morosità); circa 1 milione e mezzo di famiglie in difficoltà a pagare l’affitto; una carenza di almeno 1 milione di alloggi sociali.
Eppure, una strada alternativa sarebbe percorribile.Tre sono le mosse per renderla praticabile: ritirare i processi di dismissione che mettono a rischio la coesione sociale, investire sul recupero e riuso ai fini della residenza sociale del già costruito, finanziare questa operazione cominciando a tagliare finalmente le unghie alla rendita immobiliare parassitaria.
«Le prospettive aperte, sono quelle tecnologiche, di uno spazio qualificato, modernissimo, ambientalmente ed energeticamente sostenibile. Ma il prezzo lo paghiamo direttamente noi cittadini, esclusi da quegli spazi privatissimi, costosissimi, e facilmente assoggettabili alle note norme che hanno consentito di sgomberare Zuccotti Park dai fastidiosi manifestanti di Occupy». Today.it, 24 Novembre 2014
Appena è diventata ufficiale la notizia, ampiamente anticipata, del premio International Highrise conferito al Bosco Verticale di Milano, si sono scatenate le critiche dei dubbiosi. Intendiamoci: la maggior parte dei commenti su stampa e web erano ampiamente positivi, ma più che alla sostanza parevano badare all'aura mistica in perfetto stile archistar che aleggia sempre attorno a questi progetti. E le motivazioni ufficiali del premio parevano addirittura più simbolicamente barocche del pieghevole pubblicitario dell'immobiliare, nello sperticarsi in lodi sulla capacità del progetto di riportare l'uomo alla natura, o addirittura di costituire un modello per la città densa del terzo millennio.
I dubbiosi, magari polemici, magari addirittura scurrili nella loro diffidenza faziosa, coglievano però un punto assai evidente: e che sarà mai un palazzone con le vasche a fioriera? La risposta potrebbe darla la schiera di tecnici internazionali che ha reso possibile non solo piantare a quell'altezza alberi maturi e farli convivere con appartamenti abitati, ma anche avviare una sperimentazione socio-ambientale. Però si tratta di una risposta ancora in linea con l'approccio tutto interno all'architettura del premio International Highrise.
Assumono una prospettiva più interessante, le critiche anche più sarcastiche al Bosco Verticale, se le inquadriamo in una più generale perplessità su alcuni progetti di verde urbano a dir poco ideologici, che in ordine sparso si stanno conquistando parecchia notorietà da qualche anno. Il primo è stato quello della High Line a Manhattan, ex viadotto ferroviario dismesso che invece di essere abbattuto è stato – nel quadro di una assai più ampia politica di valorizzazione immobiliare e riqualificazione – arredato a verde con tecniche innovative, e rivenduto all'opinione pubblica come nuovo modello di parco, anziché passeggio, o area pedonale che dir si voglia. Lì vicino, al Pier 55 sul fiume Hudson, i medesimi promotori hanno già presentato e portato parecchio avanti nel processo di approvazione finale un secondo e più grande “parco tecnologico” montato su piloni, che più o meno come il ponte ferroviario è del tutto artificiale e serve un'area di valorizzazione e riqualificazione di iniziativa privata. A Londra si sta concludendo il percorso del Garden Bridge sul Tamigi, organizzato come una specie di green shopping mall ad accesso limitato e forse a pagamento, negazione dello spazio pubblico, mentre a Singapore la limitatezza dello spazio (così ci raccontano) obbliga gli amministratori della città-stato a cercare i parchi in cielo, con giganteschi Alberi artificiali.
Cos'hanno tutti questi diversissimi progetti in comune, tra di loro e con le torri “a fioriere” del Bosco Verticale di Milano? Come intuiscono vagamente i critici nei loro sfottò, una certa tendenza a prendere per i fondelli il pubblico: da un lato aprono potenziali prospettive per la città del futuro, ma in buona sostanza ne chiudono di assai più vaste. Le prospettive aperte, inutile sottolinearlo, sono quelle tecnologiche, di uno spazio qualificato, modernissimo, ambientalmente ed energeticamente sostenibile, ma tutto si intuisce ha un prezzo. In questi casi il prezzo lo paghiamo direttamente noi cittadini, noi strabordante maggioranza esclusi prima da quegli spazi privatissimi, costosissimi, e anche quando liberamente accessibili come nel caso della High Line, facilmente assoggettabili alle note norme che hanno consentito di sgomberare Zuccotti Park dai fastidiosi manifestanti di Occupy. Nel caso delle torri milanesi, evidentemente, la privatizzazione doppia del bosco salta ancora di più all'occhio, e il “modello per la città futura” non dichiarato lo intuiscono anche i più distratti: è la fortezza dei ricchi assediata dal disastro. Ma siamo sicuri che i progettisti-progressisti, invece, volessero con la loro provocatoria opera di architettura esattamente denunciare questo rischio. O no?
Today/Città Conquistatrice
Approvata la legge lombarda che favorisce il consumo di suolo, ben riassunta dalla dichiarazione del rappresentante di Forza Italia che abbiamo usato tra virgolette come titolo. Articoli da la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 21 novembre 2014
la Repubblica Milano
di Andrea Montanari
Una colata di cemento grande tre volte la superficie di Milano. Pari a ben oltre mezzo miliardo di metri quadrati di territorio lombardi attualmente non edificati dove nei prossimi due anni e mezzo si potrà costruire. Questo l’effetto più immediato della nuova legge sul consumo del suolo approvata l’altra notte in Consiglio regionale con i soli voti della maggioranza di centrodestra che governa la Regione. Per rendersene conto, basta incrociare i dati dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale con quelli sul potenziale consumo di suolo per i prossimi anni, in base ai Pgt, ovvero i piani del governo del territorio già approvati dai comuni lombardi. Di cui 1126 su 1544 sono già stati ufficialmente comunicati. Il totale delle aree di potenziale trasformazione previsto è già approvato ammonta a 414.193.400 metri quadrati. Un dato che sale a circa 550.000.000 metri quadrati con la proiezione sul totale dei comuni lombardi. E visto che la superficie totale di Milano è di 182.000.000 mq i conti sono presto fatti. Nonostante la Lombardia sia già una delle regioni più urbanizzate e cementificate d’Europa, dove negli ultimi anni il suolo è stato consumato al ritmo di 140mila metri quadrati al giorno. L’equivalente di venti campi di calcio.
La nuova legge prevede che per trenta mesi, inizialmente dovevano essere 36, tutto resterà come prima. Nel senso che i progetti in essere che rientrano nei Pgt approvati potranno essere confermati da sindaci e costruttori entro due anni e mezzo.
Il testo uscito dall’aula del Pirellone è stato effettivamente parzialmente modificato, ma non è detto che l’effetto finale sarà quello di evitare nuovo consumo del suolo. Non è affatto vero che da oggi non si potrà più costruire su aree agricole. Molti terreni coltivati infatti secondo gli attuali Pgt sono aree trasformabili. Il che significa che entro 30 mesi una quota di queste aree potrebbe andare persa. È vero che la nuova legge prevede sa subito uno stop alle varianti, ma c’è una scappatoia. Basterà che i comuni utilizzino lo strumento del Piano integrato di Intervento, cioè dimostrino un interesse pubblico, per esempio una strada o una pista ciclabile.
L’aumento fino al 30 per cento degli oneri di urbanizzazione per le edificazione su suoli liberi, ad esempio — sostiene Legambiente — rischia di essere un blando disincentivo per i privati, troppo modesto per essere efficace. Considerata la scarsa incidenza di questo contributo sul costo finale dell’edificio. Per paradosso, invece, potrebbe addirittura diventare «uno stimolatore di appetiti per le finanze esigue di molti comuni, che confidano di tornare a far cassa sulla svendita del territorio». Il periodo transitorio ridotto a trenta mesi non sembra dare ulteriori garanzie. Sia perché la legge non esclude la possibilità di proroghe, ma soprattutto perché le nuove norme non impediscono ai comuni di confermare le precedenti previsioni di ampliamento contenute nei Pgt, anche oltre la decorrenza del termine. Per non parlare del fatto che la nuova legge non prevede controlli o sanzioni.
I dati sul consumo del suolo in Lombardia elaborati da Legambiente e dal Centro di Ricerca sui consumi di suolo mostrano una situazione allarmante. Dal 1999 al 2007 sono stati urbanizzati 34.163 ettari e si sono persi in maniera definitiva 43.275 ettari su superfici agricole. Mentre in meno di dieci anni le aree antropizzate sono passate dal 12,6 per cento al 14.
Ambientalisti divisi, opposizione compatta: “Favoriti i costruttori”
Per Roberto Maroni e per l’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi «è una svolta epocale», ma per il coordinatore del centrosinistra in Regione Umberto Ambrosoli resta «una legge pessima. Abbiamo votato contro perché in Lombardia per l’ambiente si e si deve fare di più».
Anche dopo il via libera del Consiglio regionale la nuova legge sul consumo del suolo continua a dividere. Non solo il mondo politico, visto che le nuove norme sono state approvate con i soli voti della maggioranza di centrodestra, ma anche quello ambientalista che definisce «ammazzasuolo » le nuove norme. «In Lombardia si continuerà a spalmare cemento sui suoli agricoli» attacca il presidente di Legambiente Lombardia Damiano Di Simine. Si spacca anche il Wwf. La delegata Paola Brambilla esprime «grande apprezzamento » e parla di «risultato importante che dovrebbe ora sti- il governo». Di tutt’altro avviso il capogruppo del Pd Enrico Brambilla che osserva: «La maggioranza si è approvata la sua legge. Nessuno si do- vrà stupire se nei prossimi anni il consumo del suolo aumenterà ». L’assessore Beccalossi fa notare «che i miglioramenti apportati al testo sono utili, anmolare che grazie all’accoglimento di emendamenti importanti dell’opposizione », Il Movimento Cinque Stelle denuncia insulti e aggressioni in aula. Pare che dai banchi del centrodestra sia volata addirittura una bestemmia. I grillini chiamano in causa il presidente del Consiglio regionale ciellino Raffaele Cattaneo per non essere intervenuto.
Corriere della Sera Milano
NUOVA LEGGE:
DIVISI SUL NO AL CEMENTO
di Laura Guardini, Paolo Marelli
MILANO - Come a Cassinetta di Lugagnano — «apripista» nel 2007 — Solza, Ronco Briantino, Ardesio, Ozzero, Pregnana Milanese e altri ancora tra i 1.531 comuni lombardi che hanno già scelto il «consumo di suolo zero»: questa è la prospettiva che il territorio regionale può vedersi aperta, fra 30 mesi, dalla nuova legge approvata l’altra notte dal consiglio regionale, con 41 voti della maggioranza e 27 «no» di Pd, M5S e Patto Civico.
Sei sono i punti cardine della nuova normativa: da subito sono impossibili varianti su suoli con destinazione agricola; sono previsti incentivi per il recupero di aree ed edifici dismessi; scende da 3 anni a due e mezzo il tempo utile per realizzare i progetti di nuove costruzioni su aree ex agricole divenute edificabili: in Lombardia si tratta di 600 milioni di metri quadrati. E ancora: le infrastrutture sovracomunali (autostrade e ferrovie) rientrano nel computo del suolo «mangiato»; la soglia del consumo dovrà basarsi sulle indicazioni Istat relative all’aumento della popolazione. Infine, la legge prevede disincentivi, con un balzello del 5% a carico dei costruttori che intendono edificare «dentro il tessuto urbano» e un aumento degli oneri di urbanizzazione da un minimo del 20 a un massimo del 30% al di fuori dei centri abitati.
Dopo nove mesi di veti incrociati, litigi e modifiche in corso d’opera, è così finalmente arrivata al traguardo la nuova normativa che manda in pensione quella del 2005. Una vittoria del cemento secondo alcuni, del verde secondo altri: nello stesso mondo ambientalista le due maggiori organizzazioni, Wwf e Legambiente, esprimono parere opposti.
Paola Brambilla, presidente regionale del Wwf, esulta e parla di «un risultato importante che ora dovrebbe stimolare il governo all’emanazione di una legge che riconosca il valore ecologico del suolo»: si tratta di considerare la terra come bene comune, come «casa di tutti gli habitat naturali». È invece una bocciatura quella espressa da Damiano Di Simine, numero uno di Legambiente Lombardia: «Il futuro non sono le lottizzazioni, ma le ristrutturazi0ni dei vecchi edifici. Dopotutto il mercato immobiliare è da tempo senza domanda: c’è chi costruisce, ma non c’è chi compra. Tanto che nella nostra regione ci sono 1,4 milioni di vani vuoti, a cui si sommano centinaia di capannoni e uffici non utilizzati».
Su questo stesso tema, che cavalca da anni, torna anche Coldiretti, ricordando che sono ben più di 4 mila i chilometri quadrati (una superficie equivalente alle province di Cremona e Mantova) sottratti dal cemento all’agricoltura tra il 1990 ed oggi: «Finalmente l’argomento è stato affrontato — dice il presidente regionale Ettore Prandini —. Meglio sarebbe se lo stop alle costruzioni fosse immediato. Ma durante la finestra dei 30 mesi di edificazione possibile, probabilmente sarà ancora la crisi a fare da calmiere e a frenare il cemento. Per questo noi auspichiamo che almeno una parte di quei 600 milioni di metri quadrati tornino all’originaria destinazione agricola».
«Questa è una brutta legge, il suolo lombardo aveva bisogno di ben altro. Abbiamo cercato di ridurre il danno e in parte ci siamo riusciti», dicono invece i capigruppo di Pd e Patto Civico, Enrico Brambilla e Lucia Castellano. Negativo anche il giudizio dei Cinque stelle: «È una legge sbagliata — sottolinea Gianmarco Corbetta — che favorirà comunque il consumo di suolo». Via libera invece all’unanimità del consiglio regionale all’istituzione della «Banca della terra lombarda», che punta a «mantenere e incrementare la produttività agricola e a favorire il ricambio generazionale, affidando ai giovani e alle donne le terre demaniali abbandonate».
Le cifre che stanno venendo fuori a proposito dei disastri territoriali di questi giorni – con eventi meteo esasperati dai cambiamenti climatici che si abbattono su un territorio indebolito dalla ipercementificazione – sono da autentica guerra.
Un Rapporto Cresme/Ance ricorda che nel periodo 1985–2011 si sono registrati quasi mille morti da dissesto idrogeologico, per oltre 15 mila eventi calamitosi e un danno economico da circa 3,5 miliardi di euro all’anno. Se si computa dagli anni sessanta, a partire dal disastro del Vajont e dalle alluvioni di Venezia e Firenze i morti diventano più di 4 mila.
L’Italia paga le conseguenze di decenni di incuria e di sostanziale attacco alle sue stesse caratteristiche eco-paesaggistiche. Esse, fino a qualche decennio addietro, avevano correlato virtuosamente ambiente e insediamenti; di più, avevano sempre connotato questi ultimi secondo le caratteristiche ecologiche e culturali dei contesti. Da cui il soprannome di Belpaese. Negli ultimi decenni, la grande trasformazione ha significato grande cementificazione: il Belpaese si è trasformato in «città diffusa»; con salti di senso comune, e anche semantici e lessicali. Le grandi componenti eco-paesaggistiche del territorio italiano sono state via via rinominate nelle logica dell’urbanizzazione: la Val Padana è diventata «megalopoli padana»; la «grande conurbazione costiera» ha occupato l’intera cimosa litoranea adriatica; e analogamente sono nel tempo emerse «la città estesa dell’Emilia», «la media città toscana», «la campagna urbanizzata romana» e «Gomorra», l’infernale marmellata insediativa del napoletano, inquinata, congestionata, ad alto tasso di illegalità.
E ancora la città costiera continua calabra, a fronte dello svuotamento dell’interno; gli orridi abusivi siciliani – che offendono un paesaggio altrimenti notevole; le «grandi macchie urbane» delle città sarde.
Gli entusiasmi per la modernizzazione antropizzata del Paese si sono da tempo trasformati in preoccupazioni per le conseguenze di un insediamento abnorme e quanto dannoso e paradossale: oggi in Italia abbiamo, oltre a qualche miliardo di volumi industriali e commerciali e tante incompiute infrastrutturali spesso inutili, un edificio ogni 4 persone, ma un alloggio su 4 e oltre 20 milioni stanze risultano vuote; tuttavia fanno notizia i disagiati, tuttora senza casa, e tra di essi, il migliaio di occupanti, probabilmente legittimati da tale situazione). Con costi ambientali e sociali che infatti sono cresciuti sempre più.
Oggi, la criticità di questa condizione irrompe in tutta la sua drammatica evidenza. Da Genova a Milano, dal Piemonte al Veneto, da Roma alla Sicilia, i temporali causano disastri: rilievi e versanti abbandonati franano sugli insediamenti sottostanti; la pioggia rigonfia fiumi, torrenti e ruscelli, che diventano condotte forzate, trovano le aree di propria pertinenza trasformate in brani di città e rompono alla fine gli argini, anche perché le costruzioni hanno bloccato le vie di fuga dell’acqua. Si registrano così i fenomeni dei «vasconi urbani», dentro cui annegano oggi quartieri di Genova e Milano, come di Roma e, qualche mese fa, di città e paesi emiliani, veneti o sardi.
Il Governo tenta adesso di scaricare ogni colpa sui predecessori o sulle Regioni; ma – fino alla drammatica emergenza di questi giorni – ha perpetuato e addirittura alimentato le cause del disastro. Lo dimostrano il Ddl Lupi –che pretenderebbe di accentuare ulteriormente la deregulation e svuotare la pianificazione di potere normativo e descrittivo – e lo «Sblocca Italia». Quest’ultimo provvedimento è teso a promuovere altre attività ad alto impatto ambientale: dalle trivellazioni, a nuovi impianti a rischio, alle autostrade, a nuova Alta Velocità. Al suo interno, prima degli eventi tragici degli ultimi giorni, la lotta al dissesto idrogeologico era appena una citazione di opportunità: 3 miliardi dichiarati per 200 milioni realmente disponibili.
E a fronte dei quasi 5 miliardi stanziati per le operazioni ad alto impatto; tra cui si resuscitano progetti di autostrade da tempo superati, come la bizzarra Mestre-Orte o la Pi-Ru-Bi cara alla massoneria filodemocristiana. Nelle ultime ore – sull’onda emotiva degli eventi — l’esecutivo annuncia lo sblocco di 2,2 miliardi antidissesto, e quindi un piano di 9 miliardi in 7 anni.
Serve che gli impegni si traducano in risorse reali e per un programma molto più ampio: è necessario un piano di risanamento del territorio da 50 miliardi di euro nei prossimi dieci anni; di cui almeno il 10% da impiegare subito. Se si pensa di ricorrere per questo ai «300 miliardi di euro di investimenti europei promessi da Junker» si rischia di restare agli annunci o di dilazionare troppo le operazioni. Lo «Sblocca Italia» – come hanno già proposto gli ambientalisti – deve diventare «Salva Italia», finalizzando le risorse per intero e soltanto al risanamento del territorio, e cancellando tutte le altre opere inutili e dannose contenute nel provvedimento.
Deve essere ripristinata una strategia invisa al nostro attuale premier: le politiche devono basarsi sulla pianificazione di territorio e paesaggio.
Che fare? Certamente bisogna riportare alla legalità le parti della città coinvolte nei fattidi violenza, ma ciò nonpuò avveniresenza interventi pubblici volti a risanare le periferie, partendo dai bisogniprimari delle persone (casa, lavoro e istruzione) e interloquendo con loro.
In Italia la risposta privata (speculativa) al bisogno di abitazioni produce immani quartieri di case vuote, e non consente a migliaia di abitanti di soddisfare il proprio bisogno. Ora lo stock di potenziale offerta pubblica è ceduto al mercato: è il neoliberismo nell'era renzista, baby. Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2014
La storia dell’edilizia residenziale pubblica italiana è una storia di fallimenti: non è un caso che lo storico Guido Crainz l’abbia assunta a emblema della sua descrizione del Paese mancato, quello che s’è rifiutato di governare la sua modernizzazione. Il primo che tentò di dare una soluzione coerente al problema fu Fiorentino Sullo, democristiano irpino della sinistra Dc, ai tempi del “centrosinistra di programma” guidato da Amintore Fanfani: ebbene la sua legge urbanistica fu osteggiata in maniera tanto violenta che lui stesso raccontò che a casa, per Natale, i parenti gli chiedevano se era vero che voleva espropriargli la casa. Ne venne fuori una riforma fiacca (la legge 167), che seppure con mille difetti portò a un incremento dell’edilizia pubblica, le “case popolari”.
Ebbene, tra poco quella storia arriverà metaforicamente alla fine. La Conferenza Stato-Regioni, infatti, si appresta – probabilmente alla prima data utile – ad approvare un decreto attuativo emanato il 27 agosto dal ministero delle Infrastrutture che disciplina la messa in vendita di tutte le case popolari ex Iacp e di enti vari oggi in mano a regioni ed enti locali: gli immobili andranno valutati “al valore di mercato” e messi all’asta a cominciare da quei complessi in cui la proprietà pubblica è inferiore al 50%. L’unica facilitazione per gli inquilini, se così si può dire, è che potranno comprarsi il loro appartamento pareggiando l’offerta vincitrice dell’asta: se si muoveranno grandi gruppi immobiliari, la cosa potrebbe prendere una brutta piega per famiglie (spesso di pensionati) che evidentemente non hanno grandi mezzi economici (altrimenti non sarebbero inquilini di case popolari). Attacca Angelo Fascetti dell’Asia-Usb, l’associazione degli inquilini dell’Unione sindacale di base (Usb): «Il governo Renzi-Lupi avvia un processo di cancellazione definitiva di quel poco che resta dell’edilizia residenziale pubblica e questo accade in un Paese dove l’unico segmento carente del mercato abitativo è proprio quello dell’alloggio a canone sociale e calmierato. Guarda caso – sostiene il sindacalista – proprio in questi giorni è partita una feroce campagna mediatica contro le case popolari, a Milano e altrove, che partendo dalla denuncia del fenomeno delle occupazioni, favorito da una colpevole mancanza di gestione del patrimonio, prepara il terreno alla totale privatizzazione dell’edilizia pubblica per favorire ancora la speculazione immobiliare e la rendita».
Va detto che le regioni (cui spetta la competenza sulle politiche per la casa) possono rifiutarsi di applicare “il metodo Lupi” – il Friuli Venezia Giulia, ad esempio, ha già fatto sapere che non lo farà –, ma il dato simbolico resta: il decreto che consente di vendere “al valore di mercato” i circa 770 mila alloggi di edilizia popolare arriva proprio mentre i nuovi tagli ai trasferimenti costringono regioni e comuni a recuperare risorse in ogni modo. D’altronde tra i settori più colpiti in questi anni di tagli ci sono proprio le “politiche abitative” e ora il governo “consiglia” a sindaci e governatori di vendersi le case popolari e finanziare così “nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica” o una “manutenzione straordinaria del patrimonio esistente” (e magari poi venderlo).
Peraltro pure la consistenza economica non è certa: il Tesoro, dati del 2010, quantificava il valore dell’intero stock delle “case popolari” (900 mila appartamenti compresi quelli di “edilizia privata sociale”) in circa 150 miliardi, Federcasa invece lo valutava meno della metà. D’altronde, ha spiegato Raffaele Lungarella su lavoce.info, «anche ipotizzando che il prezzo incassato dalla vendita di un alloggio sia sufficiente a coprire i costi per la costruzione di uno nuovo, l’offerta non crescerebbe affatto, considerato che l’inquilino che non acquista deve essere spostato in un’altra casa di proprietà pubblica». Certo, l’altra opzione è buttarlo in mezzo a una strada, ma sarebbe un comportamento un po’ rischioso per chi voglia presentarsi ad altre elezioni.
L’unico dato certo, infatti, è che l’Italia è uno dei paesi europei più ricchi – assieme alla Spagna
– con la minor percentuale di edilizia popolare pubblica: forse anche per questo la percentuale di chi decide di stare in affitto è così bassa (meno del 19% contro una media Ue di oltre il 28). Secondo dati Eurostat del 2011, in Italia solo il 5,3% delle famiglie (pari a circa 1,3 milioni di nuclei su 24,9 totali, di cui 4,7 in affitto) beneficia di forme di sostegno per la casa contro il 7,7% europeo che però diventa il 17% in Francia, il 18% in Gran Bretagna, il 32% nei Paesi Bassi. La situazione dal 2011 è peraltro peggiorata: molti paesi europei, allo scatenarsi della crisi, hanno lanciato nuovi programmi di edilizia pubblica, l’Italia li ha solo annunciati.
Periferie. Nelle analisi serie esse appaiono molto lontane dai pezzi "città" suscettibili d'essere riscattati dal "rammendo" di qualche bravo architetto. Appaiono invece sempre più vicine a diventare parte del "pianeta degli slum": lande di disperazione e miseria, recinti di emarginazione, dominate dai sovrastanti elementi dell'"infrastruttura globale". Il manifesto, 15 novembre 2014
Su questa collinetta è situato, quasi come un fortino che domina la valle, un grande insediamento di edilizia economica e popolare circondato dal viale Giorgio Morandi che letteralmente si snoda tutt’attorno al complesso residenziale a guisa di un fossato e lo collega, più a est, con la periferia storica di Tor Sapienza.
L'esempio della legge urbanistica della Toscana: la prima legge urbanistica regionale che azzera il consumo di suola. Intervento al convegno Stop al consumo del territorio, Cassinetta di lugagnano, 15 novembre 2014, in calce il link alla locandina
Finalmente una bella notizia: la Regione Toscana ha approvato una straordinaria legge di riforma urbanistica, efficace e immediatamente operativa, che mette in mora Governo e Parlamento, e conquista di prepotenza il centro del dibattito. Ci dà forza, e mette a nudo l’ipocrisia di quanti continuano a dichiarare di condividere l’obiettivo di contenerere il consumo del suolo con la stesso atteggiamento che nell’ultimo quarto di secolo è stato assunto a proposito della sostenibilità ambientale. Proclamandone universalmente e solennemente l’importanza, ma in pratica quasi sempre relegandola a una stanca, inconcludente retorica.
Mi riferisco al fatto che si continua a parlare di contenere il consumo del suolo, un obiettivo così vago e generico che va bene a tutti (anche a Lupi). Occore invece non contenere, ma bloccare, subito, il consumo del suolo. I dati sono ormai abbastanza noti, ricordo solo che in circa 60 anni, cioè dalla fine della seconda guerra mondiale, mentre la popolazione italiana è cresciuta, più o meno, del 20%, il consumo del suolo è cresciuto piu o meno del 1.000%. Non dobbiamo perdere altro tempo, dobbiamo pretendere risultati immediati ed efficaci.
2. Stop al consumo di suolo non significa sviluppo zero
Lo stop al consumo del suolo è un cambiamento di carattere epocale. È vero che la rendita continuerà ad esistere anche dentro al perimetro urbanizzato, ma la sua dimensione – in senso spaziale e finanziario – sarà comunque ridotta, disarticolata, frammentata, formata da una pluralità di soggetti, non più concentrata in monopoli-oligopoli potentissimi che controllano la stampa, la televisione, l’amministrazione e la politica.
Tutto ciò significa anche un cambiamento del modo di fare urbanistica, un mestiere in larga misura da reinventare, anche da un punto di vista tecnico e professionale: una serie di parametri (per esempio altezza e densità) che abbiamo tradizionalmente utilizzato come limiti massimi, dobbiamo imparare a usarli anche come minimi.
4. È finita un'era
Stime ragionevoli prevedono 15-20 anni prima che un siffatto percorso legislativo produca risultati effettivi. Per non dire della Campania o del Lazio, Regioni fra quelle che peggio governano il proprio territorio, i cui tempi saranno ancora più lunghi, e provvedimenti di tutela si avranno quando tutto lo spazio disponibile sarà ricoperto di una repellente crosta di cemento e di asfalto (Antonio Cederna).
5. L'alternativa vincente
6. La riforma urbanistica della Toscana
E impone che le cose da fare per soddisfare i bisogni pregressi, vanno tutte costruite dentro il perimetro urbanizzato. Fuori del perimetro urbanizzato la legge dichiara esplicitamente che non si può realizzare edilizia residenziale. Insomma, in Toscana mai più si potranno fare case in campagna. È proibito per legge. Altri manufatti, diversi dalle residenze, possono essere realizzati nel rispetto di rigorose procedure, che tra l’altro prevedono, per ogni intervento, il potere di veto della Regione.
8. Chi è Maurizio Lupi
a) giugno 2000 – Lupi assessore all’urbanistica del comune di Milano (sindaco Gabriele Albertini) – propone un importante documento, Ricostruire la grande Milano, dovuto, tra gli altri, all’urbanista Gigi Mazza. Documento che ribalta la logica e il diritto prevedendo che i progetti pubblici e privati di trasformazione urbanistica non debbano uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, dev’essere il piano che si adegua ai progetti approvati. Insomma, il piano regolatore come un catasto sul quale si registrano i progetti edilizi una volta approvati. Sembra la Napoli di Achille Lauro, quando si diceva che il piano regolatore serve a chi non si sa regolare. Da allora l’urbanistica milanese ha dettato legge nel resto d’Italia, a Roma soprattutto.
b) Lupi (intanto deputato di Forza Italia) conferma la propria avversione all’urbanistica pubblica nel 2005, quando la Camera dei deputati (con 32 voti favorevoli del centro-sinistra) approva un suo progetto di legge che estende a tutta l’Italia il modello milanese, tra l’altro abrogando gli standard urbanistici e la legge del 1942. Nel sostanziale silenzio della stampa e della cultura urbanistica ufficiale, con il consenso dell’INU. Soltanto eddyburg, allora come oggi, mobilitò il mondo ambientalista, pubblicando anche un pamphlet. All’inizio del 2006, quando la proposta stava per essere definitivamente approvata, grazie al senatore verde Sauro Turroni i senatori di Alleanza Nazionale si opposero alla proposta difendendo la legge urbanistica approvata negli anni del fascismo.
c) 2014: secondo disegno di legge urbanistica di Maurizio Lupi (stavolta autorevole esponente del Nuovo Centrodestra, ministro delle Infrastrutture del Governo Renzi).
Se pensano di partire dai rammendi di un bravo architetto per trasformare la città dominata dalla rendita e dall'emarginazione sociale nella città finalizzata al benessere di tutti i suoi abitanti, allora il cammino sarà tortuoso e porterà indietro. Se vogliono altro, un architetto può bastare. Corriere della Sera, 14 novembre 2014
Renzo Piano li chiama «rammendi». E accidenti se c’è da rammendare, nelle banlieue di Milano e Roma.«Vede, ci siamo occupati troppo a lungo delle città senza preoccuparci della gente, questo è il risultato», sospira Mario Abis, il sociologo del gruppo G124 inventato da Piano per riqualificare le periferie italiane: «La politica non ha mai ragionato sul Paese. Ora noi partiremmo dai... rammendi di un grande architetto per arrivare a una tessitura delle città».
Professore, a Milano e Roma gli ultimi si massacrano con i penultimi, nodi e conflitti vengono al pettine...
«Sì. È stato tutto a lungo in ebollizione, ora tutto scoppia, in strutture sociali complesse e con diversi tipi di povertà».
Cosa sta cambiando?«Viene meno il proletariato urbano. Ci sono forme multietniche, diverse tipologie di abitanti delle periferie».
E c’è la crisi, ovviamente . «Con la disoccupazione e una esplosione planetaria delle diseguaglianze. Intanto cambiano anche le città, diventano grandi aree metropolitane. Milano ha un milione e duecentomila residenti ma un’area metropolitana di cinque milioni di persone. Si arriva a territori senza identità, non luoghi: è la periferizzazione delle città che s’accompagna a isolamento, enclave chiuse, competizione tra le molte etnie».
Dopo tre giorni di tafferugli a Tor Sapienza, s’è deciso di trasferire i migranti ospiti dal centro assediato. Un cedimento repentino: non rischia di produrre emulazione?«Sì, c’è il pericolo di una spirale di imitazione. Pensi alle banlieue francesi. È molto possibile che questo meccanismo si riproduca, magari in altri punti della periferia romana, o napoletana o palermitana».
A Milano l’impressione che lo Stato abdichi di fronte al racket delle occupazioni è fortissima in queste ore... «La mancanza dello Stato e della pubblica amministrazione è totale, direi. Come la mancanza di piani strategici e cultura della prevenzione».
Perché non si riesce a fare un piano regolatore decente? «Perché il territorio è visto come una situazione fisica, asettica. Lei allo Zen di Palermo può portare anche il migliore architetto, ma se non c’è relazione tra tessuto urbano e sviluppo sociale, non ne esce».
Pensando alla gente, eh? «Appunto, alla gente».
A Tor Sapienza come altrove, è palese che un brutto ambiente produca gente feroce. «Quando dico ambiente sostenibile questo intendo. Proprio sull’estetica delle periferie lavoriamo con Piano. Etica e estetica vanno assieme».
Come dice monsignor Bregantini, del resto. «Ora l’occasione sono le aree metropolitane. Cosa ci mettiamo dentro? Se ne facciamo una sommatoria di paesi, saranno l’incubatore del conflitto».
I francesi questo problema se lo sono posto nel 2003, con un piano nazionale. E Marsiglia è diventata un modello. Perché noi non ci riusciamo? «Perché siamo burocratici, macchinosi e lenti. Le città si sviluppano a un passo che la nostra micidiale burocrazia non regge. Questo si può superare nelle piccole comunità».
E non serve un progetto nazionale? «Certo. Ma il senso di questo lavoro di Piano è produrre proprio idee e spunti che portino a una visione nazionale».
Ci vorrebbe una politica. «Ci vorrebbe. E le aree metropolitane sono l’occasione per creare un ceto politico aperto. Queste cose non si risolvono a livello centrale. Del resto ci sono esperienze come Udine o Lecce dove le cose funzionano e bene».
Già, ma Milano, Roma o Napoli sono diverse. «La chiave è la scomposizione delle aree».
Cioè facciamo di Roma tante piccole Udine? «Non me la faccia dire così. Però, sì, è un discorso di sotto-insiemi collegati da un filo rosso. Ancora una volta, è una questione di cultura politica».
All’aeroporto di Catania, da mesi, un cartello affisso dalla Questura sconsiglia ai turisti i quartieri periferici ad alto degrado: il primo della lista è Librino. Proprio a Librino, il gruppo di Renzo Piano ha individuato il «Campo San Teodoro liberato» e la vicina scuola Brancati come punto di ricucitura del tessuto urbano.
L’autore critica giustamente chi pesca nel disagio sociale per rafforzare i comportamenti xenofobi e razzisti sui quali regge i propri interessi elettorali. Ma mistifica le cause da cui il disagio è prodotto. Corriere della Sera 13 novembre 2014. con postilla
Due episodi in pochi giorni. Stesso scenario: le periferie degradate delle grandi città (Milano e Roma); stessi protagonisti: gruppi sociali marginali, abitanti esasperati, apprendisti stregoni in cerca di riposizionamento politico, gruppi antagonisti e centri sociali, forze dell’ordine. Stesso risultato: la violenza che scoppia e distrugge, confermando ciò che avremmo sperato non vedere più: l’odio che avvelena l’aria delle nostre città e della nostra democrazia.
In un libro di qualche anno fa Zygmunt Bauman ha sostenuto che la crescita tende a creare, come una sorta di effetto collaterale, «scarti umani». Uomini e donne, dice Bauman, che, per una ragione o per l’altra, diventano inadatti a vivere in una società avanzata. «Vite di scarto» che le democrazie tendono a rimuovere, concentrandole ai margini delle proprie città. Dove si pensa non diano fastidio. Almeno alle vite «normali». Salvo poi accorgersi che questa rimozione è un’operazione impossibile: non fosse altro perché c’è sempre qualcuno che è costretto a vivere vicino a questi luoghi della sofferenza contemporanea. Anche se è sgradevole osservarlo, accade cioè qualcosa di simile a quanto succede a proposito delle discariche dei rifiuti. Di cui tutti riconosciamo la necessità, salvo poi volerle sempre altrove e comunque mai nelle vicinanze della propria abitazione.
È attorno a questi luoghi dove concentriamo quelli che sono «scarti» — un campo di rom, un centro per l’accoglienza di immigrati — che è scoppiata anche in questi giorni la violenza. Perché? È incredibile come le società umane sembrino non imparare mai. Le periferie delle grandi città di tutto il mondo sono contesti fragilissimi, che vivono di equilibri molto precari e instabili.
Al loro interno, spesso sono solo le inesauribili risorse di socialità e di umanità presenti nella stragrande maggioranza degli esseri umani a tenere le maglie di un tessuto sociale che manca persino degli elementi più basilari. Ma provate a cambiare, senza nessuna azione di accompagnamento, gli equilibri etnici di questi quartieri (ad esempio attraverso una massiccia immigrazione); aggiungete qualche campo rom o un centro per immigrati illegali, «brillantemente» collocato in un contesto già fragile; fate seguire anni di recessione economica che — come non è difficile immaginare — produce disoccupazione particolarmente elevata, soprattutto tra gli abitanti di questi quartieri. Non è questa la ricetta per il disastro?
Anche se non ce ne rendiamo conto, attorno alle grandi città ci sono quartieri in cui si vive in una condizione di extraterritorialità. Dove i cittadini si sentono letteralmente abbandonati da istituzioni che sembrano non esistere (salvo la scuola che eroicamente continua a essere un presidio in tutta italia) eccetto che per saltuari se non estemporanei interventi repressivi.
In questi quartieri regna un profondo senso di insicurezza che alimenta il risentimento, un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustrazione subita, sia essa reale o immaginaria.
In queste condizioni, basta una scintilla per far scoppiare l’incendio. E basta davvero poco per organizzare una speculazione politica. Che ha gioco facile nello sfruttare il disagio diffuso e volgerlo contro il capro espiatorio di turno — il migrante, il rom — che può facilmente fare da parafulmine per tutte le fatiche di chi vive in questi quartieri. Così che il risentimento — che non saprebbe con chi prendersela per una vita grama privata persino della speranza — riesce così a trovare uno sfogo. È stato questo il caso di Matteo Salvini, a sua volta bersaglio di aggressioni. Il leader della Lega, in cerca di un riposizionamento politico che fa del modello di Le Pen il proprio punto di riferimento, ha il fegato di andarci in questi quartieri. E di dare così la sensazione di essere vicino a chi non si sente ascoltato.
Nei prossimi mesi vedremo gli esiti di una tale campagna. Certo deve preoccupare lo stato di una democrazia dove i soggetti politici percorrono queste vie per ottenere un consenso che non riescono più a costruire con un discorso capace di guardare al futuro. Il risentimento è un’arma pericolosa. Maneggiarla può portare anche là dove non si voleva finire.
postilla
L’autore di questo articolo descrive una città e una società nelle quali, per accrescere il potere e la ricchezza di pochi, si creano moltissimi in rifiuti (“scarti umani” scrive Bauman) condannati alla povertà e poi alla miseria, alla precarietà del lavoro e poi alla disoccupazione, alla riduzione dei diritti conquistati e poi alla privazione di ogni diritto umano.
Se l’autore avesse letto meglio e citato in modo più appropriato Zygmunt Bauman, e magari avesse letto anche David Harvey e Saskia Sassen, Marco Ravelli e Luciano Gallino (o anche soltanto se avesse frequentato eddyburg), avrebbe forse capito che c’è un solo modo per uscire da questa catastrofica prospettiva e per ottenere il raggiungimento, per tutti, dei tre obiettivi (libertà, uguaglianza, fraternità) posti all’umanità non dalla rivoluzione proletaria del 1917, ma di quella borghese del 1789. Questo modo consiste nel far comprendere a tutti gli sfruttati che la soluzione non si trova mettendo gli uni contro gli altri i gruppi sociali diversamente sfruttati, ma solo unendo tutte le persone interessate a costruire una società migliore mediante una politica migliore: una società trasformata radicalmente (dalle radici), mediante una politica nella quale la libertà per tutti, l’equità e la solidarietà siano gli obiettivi primari. Non sono certo dediti a questo compito i Salvini, né gli altri agitatori razzisti e xenofobi; ma neppure quanti sventolano volantini pubblicitari per rendere accattivante il sistema stesso che provoca lo sfruttamento, e a cui l'autore sembra rivolgersi.
Lettera appello della presidente onoraria Fondo Ambiente Italia al presidente della Lombardia, contro il disegno di legge per “arginare il consumo di suolo” che ne aumenterà il consumo. Corriere della Sera Milano, 10 novembre 2014
Gentile Presidente Maroni, sono sicura che Lei e la Sua giunta non vorrete passare alla storia come coloro che non hanno mosso un dito per salvaguardare quanto resta dei paesaggi agricoli della pianura lombarda, tra le più fertili d’Europa, ambita perfino dall’Impero austro-ungarico. La legge che la Sua giunta sta per approvare, pur intitolata alla riduzione del consumo di suolo e alla riqualificazione di quello degradato, non contiene alcuna disposizione che vada in direzione della salvaguardia del territorio agricolo. Le buone intenzioni sono tutte rimandate al futuro cioè a tre anni. Ripeto: Vi apprestate a varare i vincoli all’edificazione dei terreni agricoli che scatteranno infatti solo tra tre anni. Nel frattempo sarà data via libera all’espansione prevista dai Piani di governo territoriale che minacciano seicento chilometri quadrati di aree agricole: più di tre volte la città di Milano!!
Ad approfittarne saranno solo i costruttori, in una corsa al consumo di suolo fatale per la Lombardia, già compromessa come nessun’altra regione d’Italia, anche se in Lombardia vi sono tuttora 170.000 vani sfitti (dato ufficiale 2013). Questa gigantesca perdita di suolo ci espone alle tragedie del dissesto idrogeologico, con la conseguente scomparsa dei fontanili, colate di cemento, sempre più asfalto e strade, discariche anche di sostanze tossiche, e ulteriori attentati alla biodiversità, oltre allo scempio di un paesaggio sempre più degradato e sempre più lontano dalla propria storia e dall’identità regionale, tema che sappiamo quanto le stia a cuore. Invece i paesaggi agricoli possono rappresentare risorse concrete per uno sviluppo sostenibile. I prodotti della filiera corta (locali e freschi) sono ormai i più ambiti sulle nostre tavole e possono rappresentare una risorsa concreta per favorire l’occupazione e l’economia dell’indotto, oltre che per proteggere la salute dei cittadini. Expo rilancerà da Milano nel mondo il tema «nutrire il pianeta», ma come si concilia questa iniziativa con il drastico consumo dei suoli agricoli che l’Italia rinuncia a salvaguardare proprio a partire dalla regione Lombardia? Perché non si incentiva la rigenerazione delle troppe aree postindustriali che circondano Milano?
Queste se trasformate possono diventare risorse per il rilancio dell’economia, per la ripresa dell’occupazione e per favorire un nuovo orientamento del settore immobiliare, oggi fortemente in crisi. Egregio Presidente, faccio appello alla Sua responsabilità, pubblica e personale, pregandola di non consentire l’approvazione di queste disposizioni. Altrimenti i cittadini dovranno accusare Lei e la Sua giunta di aver consentito la cementificazione della Lombardia. Con deferenti saluti carichi di fiduciosa speranza.
Si profila una sperimentazione pratica di alcune idee abbastanza diffuse in Europa, ma osteggiate qui in Italia dai paladini della circolazione segregata delle opere dedicate e dei quartieri recintati. Corriere della Sera nazionale e la Repubblica Milano, 8 novembre 2014
Corriere della Sera
di Anna Tagliacarne
Strade senza segnaletica, senza semafori, senza marciapiedi, senza una «grammatica» che separi gli spazi per pedoni da quelli per ciclisti o automobilisti. Strade dove l’unica regola è la precedenza a destra e l’eliminazione dei divieti diventa sinonimo di sicurezza stradale, di qualità ambientale. Il rispetto nei confronti del prossimo nasce dalla condivisione, non dalla separazione. E dai limiti di velocità, 30 chilometri orari, non di più. È questa, in sintesi la filosofia degli «shared space», spazi condivisi da chi cammina, chi pedala e chi sta al volante, nati in Olanda e applicati anche in Germania sul modello proposto dall’ingegnere del traffico Hans Monderman, che ha concepito la mobilità responsabilizzando chi guida e chi cammina.
Ed è questo il progetto che un team di architetti guidati dallo studio Piuarch hanno realizzato, con il logo Farespazio ( http://farespazio.tumblr.com) per ripensare una grande area di Milano, quella compresa tra il Castello Sforzesco, Largo Cairoli, Foro Buonaparte, includendo anche Piazza Cadorna, la Triennale, il Piccolo Teatro Studio: teatri, musei, spazi verdi, negozi, stazioni sarebbero all’interno di una macro-area dove le auto circolerebbero a velocità ridotta al fianco delle biciclette e dei pedoni, che avrebbero a disposizione ampi spazi attrezzati dove sedere, sostare, fare sport oltre alle indicazioni sui luoghi da visitare. L’occasione è stata la pedonalizzazione di piazza Castello, la successiva installazione di bancarelle che hanno suscitato polemiche da parte dei milanesi e l’onerosa costruzione di una pista ciclabile con cordoli ai margini: in tutta Europa questo modello è superato da anni.
Il Comune, alla ricerca di un nuovo consenso, ha avviato un concorso di architettura partecipata: gli undici progetti sono esposti da ieri fino all’8 dicembre alla Triennale alla mostra Atelier Castello. Il progetto del team Fare spazio è il solo che prevede la reintroduzione delle auto nell’area da poco pedonalizzata. Non perché gli altri architetti siano favorevoli alla pedonalizzazione, ma perché il team è andato oltre le richieste comunali.
«Le proposte dovevano essere temporanee, ma reversibili in permanenti nel caso fossero rispondenti alle esigenze dell’area dopo l’Expo. A noi, invece, piaceva avere una visione a lungo termine, e abbiamo pensato alla città che vorremmo vivere ogni giorno, con una grande area dove il Castello Sforzesco torni a essere centrale, con i suoi musei che contengono capolavori come la Pietà Rondanini di Michelangelo e i fossati che sarebbero trasformati in aree attrezzate per lo sport, per sostare. Immaginando questa parte di Milano, abbiamo necessariamente pensato a Exhibition Road che a Londra va da South Kensington ad Hyde Park», spiega Francesco Fresa, uno dei quattro soci dello studio Piuarch, fondato con Germán Fuenmayor, Gino Garbellini e Monica Tricario. La via londinese include attrazioni che vanno dal Victoria and Albert Museum al Natural History Museum, dal Science Museum al Royal Albert Hall: ha milioni di visitatori. «L’obiettivo era integrare veicoli e pedoni, l’abbiamo ottenuto riducendo la velocità e di conseguenze il volume del traffico: si è creato così un ambiente molto piacevole», spiegano i due architetti che hanno seguito il progetto, Jeremy Dixon e Edward Jones.
A Milano succederebbe qualcosa di simile: la piazza che connette il Castello con Largo Cairoli sarebbe liberata dalle barriere architettoniche che la rendono frammentata, la circolazione automobilistica tornerebbe in Piazza Castello ma pensata in modo innovativo. Non è un’utopia, in altre città già succede. «Exhibition Road non è esattamente uno shared space perché è presente segnaletica verticale, come paletti e dissuasori che delimitano gli spazi riservati ai pedoni e quelli previsti per le auto — commenta Federico Parolotto, socio dello studio Mobility in Chain, architetto esperto in pianificazione trasporti —. Hans Monderman faceva un esperimento per dimostrare quanto gli shared space siano sicuri: chiudeva gli occhi e camminava all’indietro». È dimostrato, da uno studio dello stesso Monderman che, mentre i segnali proliferano, nessuno presta attenzione agli stessi: conta di più ridurre la velocità. «È molto intelligente l’idea di grandi zone con circolazione a velocità limitata — conclude l’urbanista Marco Romano —. I casi di shared space realizzati, dimostrano che il primo effetto di questi spazi è ridurre il numero e la gravità degli incidenti stradali. Certo, nelle zone dove esiste già il limite dei 30 chilometri orari, l’automobilista che suona il clacson c’è sempre, ma è un fenomeno che ha a che fare con le nevrosi. Sta comunque cambiando la testa di chi guida: in auto siamo ormai abituati a pensare anche come ciclisti che pedalano contromano, perché tutti siamo anche ciclisti e pedoni. Per questo è inutile dividere e delimitare le aree».
la Repubblica Milano
di Laura Asnaghi
A più di sei mesi dalla pedonalizzazione di piazza Castello, il Comune fa i conti con la lista di lamentele presentata dai residenti. Ieri la verifica sul campo, dalle 9 alle 10.30, nell’orario di punta, quando il traffico, da Cadorna a Cairoli, va in tilt e le auto, insieme a bus, pullman e taxi restano imbottigliate, creando pesanti ingorghi. Il traffico, insieme alla sicurezza notturna dell’isola pedonale del Castello e le linee guida per le manifestazioni che possono essere fatte in quest’area («Se no qui si rischia di diventare un luna park», dicono i residenti) sono stati i temi fondamentali affrontati durante il sopralluogo.
Carlo Monguzzi, il presidente della Commissione ambiente e trasporti, guidava la delegazione del Comune composta da 12 consiglieri. Con loro, Fabio Arrigoni, il presidente del Consiglio di zona 1, accompagnato da 7 consiglieri e 25 cittadini del Comitato Buonaparte-Cairoli. «Le osservazioni dei residenti sono giuste ma si tratta di trovare soluzioni per rendere quest’isola gradevole e utile a tutti», ha commentato Monguzzi, ricordando che, da Cadorna a Cairoli, a paralizzare il traffico «sono gli autobus che sostano per scaricare i passeggeri e bloccano una carreggiata». Sul lato opposto di Foro Buonaparte, oltre via Cusani, a intralciare il traffico sono invece i pullman diretti all’outlet di Serravalle. E poco più in là, all’altezza di via Sella, i residenti segnalano la storia di un semaforo che dura 15 secondi e «per attraversare la strada bisogna essere Speedy Gonzales». Non solo, perché sempre in questo tratto i parcheggi per le auto sono sui marciapiedi «così alti che solo i Suv possono accedervi».
Note dolenti anche sull’isola del Castello, solo in parte digerita dai residenti. Molti infatti sostengono che «era meglio prima, quando le auto potevano circolare e di notte c’era più sicurezza». Ora, con le strade deserte, i residenti sollecitano la vigilanza notturna «perché c’è chi scambia quest’area per un bagno a cielo aperto». Nel mirino dei residenti anche «i cordoli sproporzionati della pista ciclabile. Inutili oltre che dannosi». L’altro tema è quali manifestazioni consentire «evitando di danneggiare una zona storica». E tra gli abitanti c’è già malcontento per le manifestazioni natalizie programmate o concesse dal Comune, come quella di Save the children. La struttura che sarà inaugurata l’11 novembre invadeva, di poco, la pista ciclabile e ieri pomeriggio i vigili sono intervenuti per farla spostare di qualche metro. «I residenti contestano la mancanza di una cabina di regia sul progetto del Castello — spiega Monguzzi — . Ora però Maurizio Baruffi, capo di gabinetto del sindaco, ha preso in mano la situazione e le cose miglioreranno». Tutti i punti critici emersi dal sopralluogo saranno affrontati giovedì prossimo nella seduta della commissione Ambiente e Traffico. «Vanno trovate soluzioni — conclude Monguzzi — da sottoporre agli architetti che sistemeranno temporaneamente quest’area, con una spesa contenuta in 200 mila euro».
Dal presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica sezione Lombardia, ennesima e significativa netta stroncatura del disegno di legge regionale, cortina fumogena per il business as usual. La Repubblica Milano, 6 novembre 2014, postilla (f.b.)
La proposta di legge regionale per la riduzione del consumo di suolo che si avvia alla discussione in Consiglio dichiara nelle finalità di voler arginare l’ininterrotta perdita di suoli produttivi agricoli e la cementificazione che nel recente passato hanno visto purtroppo la Lombardia al primo posto nelle statistiche nazionali. Tuttavia il passaggio dalla prima stesura del progetto di legge a quella attuale, assai differenti, finisce per dare importanza preponderante alla tutela degli interessi immobiliari rispetto all’urgenza di limitare l’erosione di risorse non rinnovabili che, ricordiamo, vanno a scapito in primo luogo della produzione agricola lombarda, che rappresenta una quota significativa del prodotto nazionale del settore.
In sintesi, i punti più critici della proposta di legge sono i seguenti: si considerano da tutelare le sole aree perimetrate come agricole dai Pgt e non quelle agricole di fatto (né quelle naturali); manca una politica concreta di sostegno ai processi di rigenerazione urbana, vera alternativa allo spreco di suolo agricolo; non vi è nessuna proposta di applicazione della fiscalità locale come leva per disincentivare l’urbanizzazione dei suoli agricoli (essendo irrisoria la sola prescrizione di una maggiorazione del 5% del contributo di costruzione); si ratificano e confermano tutte le previsioni dei Pgt approvati fissando un limite di tre anni per presentare piani attuativi delle aree di espansione (che complessivamente nella regione assommano a quasi 600 chilometri quadrati); le grandi infrastrutture e opere pubbliche sono escluse da ogni bilancio, come se esse non erodessero suolo libero.
Ne risulta un insieme preoccupante che non solo rinvia il rinnovamento delle procedure a un nuovo ciclo di strumenti urbanistici, ma soprattutto favorisce nei fatti un’accelerazione dei progetti nel triennio di moratoria, ottenendo l’effetto opposto a quello desiderato, ovvero una più veloce progressione del consumo di suolo.
Una compromissione che nella realtà si fermerà in molti casi sulla carta perché le previsioni insediative non sono sorrette da una domanda reale, ma sottrarrà comunque terre ai programmi agricoli e avrà effetti perversi per gli stessi operatori immobiliari. È indispensabile quindi riprendere le fila di un provvedimento utile e necessario, per «rimetterlo in carreggiata» e rendere concreto l’impegno della Regione Lombardia a contrastare il consumo di suolo.
La via, in parte già tracciata nella prima stesura del testo di legge, corrisponde alle tendenze che si affermano nel quadro europeo e che possono aiutare anche il settore immobiliare a un riorientamento necessario per la sua stessa ripresa: si tratta di agire con misure fiscali consistenti che rendano svantaggioso costruire su aree libere, di stabilire meccanismi compensativi per sostenere la concentrazione dell’edificazione sulle aree interne da rigenerare, di porre limiti stringenti al consumo di suolo e tutelare le aree produttive agricole (nell’anno di Expo).
postilla
Forse non c'è nulla di meglio, di questa stroncatura neutra e necessariamente blanda, non politicamente schierata, per chiarire sino a che punto il disegno di legge “contro il consumo di suolo” abbia finito per scontrarsi con la natura stessa dell'attuale ceto politico padano e degli interessi che rappresenta: se non si urbanizza che le abbiamo fatte a fare tutte le nostre autostrade e compagnia bella? Dove va a finire il primato economico vero o presunto della regione, il luminoso futuro dello sviluppo infinito dei metri quadri di inutile terreno convertiti in solido valore finanziario? Perché questo è il punto: nella mente della classe dirigente non esiste, una situazione in cui tutto non giri attorno al medesimo nucleo centrale, rappresentato appunto dalla mobile frontiera dell'urbanizzazione, dallo svuotare di qui per riempire di là eccetera eccetera. E la domanda è: moralizzazioni a parte, razionalizzazioni a parte, si è in grado di esprimere qualsivoglia modello alternativo, oppure no? (f.b.)
«Gli esperti economici di Palazzo Chigi vogliono imporre l'analisi costi-benefici mai fatta. Dimostrerebbe che sono soldi buttati. Lobbisti del cemento in allarme». Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2014 (m.p.r.)
Ma tant'è, quel numerino scritto da Rfi ha toccato nervi scopertissimi. Stefano Esposito, sostenitore acceso della Torino-Lione – tanto da essere nel mirino di frange violente dei No Tav – considera la correzione verso l’alto un siluro all’opera, tanto da aver ottenuto per l’11 novembre prossimo la convocazione dei vertici di Rfi alla commissione Trasporti del Senato. Il parlamentare piemontese punta a stroncare subito ogni resistenza facendo uscire allo scoperto i frenatori delle grandi opere. Solo che stavolta la lobby del cemento non se la dovrà vedere con localismi e ambientalismi, bensì con un’agguerrita pattuglia di economisti piazzati proprio a palazzo Chigi.
Il Tav Torino-Lione è solo la prima stazione di una via crucis destinata a toccarne numerose, soprattutto ferroviarie, come ilterzo valico Genova-Tortona, il nuovo tunnel del Brennero e l’alta velocità Napoli-Bari, investimenti più celebrati che finanziati nel decreto Sblocca Italia, approvato alla Camera e in attesa del voto del Senato.
Il fatto è che la tesi principale degli oppositori della Torino-Lione – sono soldi buttati – ha sempre convinto anche Renzi. Ancora un anno e mezzo fa diceva: «Prima lo Stato uscirà dalla logica ciclopica delle grandi infrastrutture e si concentrerà sulla manutenzione delle scuole e delle strade, più facile sarà per noi riavvicinare i cittadini alle istituzioni. E anche, en passant, creare posti di lavoro più stabili» . Sulla Torino-Lione la bocciatura era quasi sprezzante: «Non credo a quei movimenti di protesta che considerano dannose iniziative come la Torino-Lione. Per me è quasi peggio : non sono dannose, sono inutili. Sono soldi impiegati male».
Poi la politica ha imposto i suoi prezzi e Renzi, conquistando palazzo Chigi, ha confermato Maurizio Lupi al ministero delle Infrastrutture per non perdere l’appoggio parlamentare del Ncd e quello lobbistico del potente e trasversale partito del cemento. Il decreto Sblocca Italia è stato il trionfo di Lupi e dei suoi sostenitori, con grandi opere a strafare e ampi varchi per cementificazioni di ogni tipo.
Adesso però sono proprio i lobbisti del cemento e delle imprese di costruzione a notare con preoccupazione che tra gli esperti economici che Renzi ha portato a palazzo Chigi ci sono autorevoli avversari dello spreco di miliardi in nome delle imprescindibili infrastrutture. Il più insidioso è il bocconiano Roberto Perotti, uno che già sei anni fa pubblicò sul Il Sole 24 Ore rasoiate del seguente tenore: «Che cosa sarebbe più utile per l’immagine del Paese: ripulire i treni utilizzati da milioni di turisti stranieri o fare una galleria di dubbia utilità a costi esorbitanti? (...) Nonostante i loro eccessi, gli ambientalisti hanno ragione: deturpare una vallata per ridurre le emissioni dell’1% al costo di 16 miliardi è un buon investimento per le imprese appaltatrici, ma non per il Paese».
Soldi buttati, dunque, come diceva Renzi finché ha potuto. E come pensa un altro esperto di palazzo Chigi, il deputato Pd ex McKinsey Yoram Gutgeld, che già in tempi non sospetti definiva le nuove linee ad alta velocità “opere faraoniche, miliardarie e inutili”. Per adesso la legge di Stabilità andrà liscia, e vedrà la conferma di tutti i finanziamenti previsti per la Torino-Lione e le altre grandi opere. Ma lo scontro è solo rinviato. Gutgeld e Perotti pensano all’arma totale, a uno scherzetto che per il partito del cemento è come l’aglio per i vampiri: imporre al Cipe - l’opaco comitato interministeriale dove si fanno i giochi per i grandi investimenti, una cosa che in Italia nessuno ha mai fatto, la cosiddetta analisi costi-benefici. Un esercizio che serve agli economisti per sapere se si sta spendendo bene o male. Domande come: serve davvero questa nuova ferrovia? Quanti posti di lavoro crea? È possibile spendere gli stessi soldi in qualcosa che dia risultati più interessanti? Siccome in Italia l’analisi costi-benefici non è mai stata adottata, a domande del genere si è risposto finora con slogan come “è per la competitività” o “ce lo chiede l’Europa”. Ma oggi l’unico argomento politicamente solido per andare avanti con la Torino-Lione è anche il più antipatico: non darla vinta ai No Tav.
Il nodo adesso sta per arrivare al pettine. Già la Corte dei Conti francese ha fatto notare che i miliardi di euro per la nuova ferrovia Torino-Lione sono sostanzialmente soldi buttati. Gli esperti di palazzo Chigi adesso si preparano a dare una spallata nella stessa direzione, scommettendo che nella difficile situazione dei conti pubblici si potrebbero risparmiare o spendere meglio decine di miliardi. Per adesso l’operazione è tenuta sotto traccia. Il momento propizio, superato lo scoglio della Legge di stabilità, potrebbe essere l’inizio del 2015, per evitare un duello con la lobby del cemento in un momento politicamente complicato. Nello scontro frontale tra il partito anti-spreco e quello del cemento guidato da Lupi è proprio Renzi che rischia di trovarsi schiacciato, se non si inventa una delle sue mosse.
Come contrastare il consumo di suolo? Lasciando invariato quanto previsto dai piani, rinviando ogni valutazione di tre anni. Una proposta di legge della Giunta lombarda, guidata dalla Lega Nord. Ciascuno ama la sua terra a modo suo. (m.b.)
«Belpaese?. Il rapporto Svimez sullo spopolamento del Mezzogiorno e i dati Istat sull'abnorme quantità di case inutilizzate raccontano di un inarrestabile declino e di un modello sbagliato. Lo Sblocca Italia in realtà sblocca solo le speculazioni finanziarie e la cementificazione selvaggia». Il manifesto, 29 ottobre 2014 (m.p.r.)
La lettura comparata del rapporto della Svimez sulle condizioni del Mezzogiorno d’Italia e l’analisi dei primi dati di dettaglio Istat sulle abitazioni degli italiani svolta da Alberto Ziparo definisce un quadro sconvolgente. Viene fuori un paese che versa in una crisi sempre più preoccupante che dovrebbe riempire l’agenda di qualsiasi governo degno di questo nome. Dice la Svimez che nel 2013 sono emigrati ancora 116 mila lavoratori; che le famiglie povere sono aumentate del 40%; che –ancora una volta– il numero dei decessi supera quello dei nati: un evidente segnale di un inarrestabile declino. Nella Campania del quarto condono edilizio ci sono 65 mila appartamenti vuoti. In Calabria ce ne sono 90 mila e dice sempre Ziparo in alcuni paesi dell’Appennino interno ci sono più case vuote che abitanti. Il deserto.
Il quadro si completa in modo ancora più drammatico se si leggono le dinamiche dei valori immobiliari. A parte alcune città maggiori e i pochi luoghi di turismo di qualità, dall’inizio della crisi del 2008 i valori delle case delle famiglie sono diminuiti nella misura compresa tra il 30 e il 50%. Ci sono famiglie che si sono indebitate per comprare un alloggio che oggi vale meno di quanto è stato pagato. Una popolazione che diventa sempre più povera, senza lavoro e sempre più priva della rete del welfare, vede svanire anche il risparmio rappresentato dalla propria abitazione.
Per completare il quadro del declino del paese aggiungiamo le due principali linee di azione con cui il governo Renzi intende dare riposta a questa sconvolgente realtà. Al primo posto troviamo le politiche di precarizzazione del lavoro dipendente del Jobs act. Dice la Svimez che gli investimenti produttivi nel sud sono crollati del 53% e il dato va letto insieme alla desertificazione umana. Chi mai investirebbe nel sud se la manodopera giovane emigra? Non c’entrano dunque nulla i diritti dei lavoratori: occorrerebbe definire politiche industriali sostenute da risorse pubbliche per realizzare infrastrutture immateriali e servizi alle imprese. Ma di questo il governo non parla. È fermo all’articolo 18.
Del resto uno dei più ascoltati consiglieri di Renzi è il piagnucoloso esponente della finanza creativa che si lamentava di aver perduto sei ore per arrivare da Londra alla Leopolda. Conosco pendolari che ogni giorno perdono 4 ore della propria vita negli spostamenti per recarsi al lavoro, ma la cultura liberista ignora questi dati concreti dipingendo un mondo che non esiste. Peraltro, la finanza d’assalto non crea posti di lavoro ma solo immense fortune da reinvestire nella roulette finanziaria. Con le politiche del governo non si creeranno posti di lavoro e continuerà il declino del sud.
Al secondo posto delle priorità del governo Renzi è, come noto, lo Sblocca Italia, che contiene grazie alla strenua azione del ministro Lupi e dei poteri che lo sostengono, una ulteriore facilitazione alla costruzione di nuove case. Dai dati Istat viene invece fuori anche un altro numero sconvolgente: nel nostro paese ci sono 31 milioni di alloggi di cui 7 milioni vuoti. Ci sono 24 milioni di famiglie e se anche si considera la quota delle seconde case (pari circa a 4 milioni) esiste una quota invenduta localizzata in tutte le aree urbane italiane pari ad almeno 3 milioni di alloggi.
Anche nel caso dello Sblocca Italia è stata la finanza speculativa a pretendere l’approvazione di alcuni articoli. Quello per esempio che consente di agevolare l’azione delle Società di investimento immobiliare quotate (Siiq, art 26) e quella che fornisce ampie possibilità di intervento alla Cassa depositi e prestiti di Franco Bassanini nel poter mettere le mani nel prezioso patrimonio immobiliare pubblico (art. 10). Siamo pieni di alloggi vuoti? Costruiamone altri. I valori immobiliari sono ai valori minimi? Svendiamo alla finanza speculativa internazionale il patrimonio pubblico.
Il primo ministro Renzi diverte spesso il volgo con battute fulminanti, come quella sui gettoni telefonici che non possono essere utilizzati per far funzionare le attuali tecnologie. Divertente. Provi allora a mettere in fila i dati Svimez e Istat con le politiche che sta portando avanti con tanta determinazione. Se si impegna capirà che sta assestando l’ultimo decisivo colpo all’intero paese mentre la festa della speculazione finanziaria continua senza fine.
Ritiri allora Jobs act e Sblocca Italia e si concentri nelle azioni ragionevoli proposta dalla Svimez per il sud e, soprattutto avvii la messa in sicurezza del paese con soldi veri. Non con numeri propagandistici senza coperture reali.
«I Comuni auspicano che il gruppo guidato da Elia si occupi anche di trasporto urbano, sperando così di ricevere più fondi. Ma i cittadini alla fine ci rimetterebbero». Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2014
Le ferrovie dello Stato da un po’ di tempo hanno aggiunto a FS una I (“FSI”), dove la I finale sta per l’Italia, per non essere da meno ad Autostrade per l’Italia, e sarebbero disponibili a estendere la loro attività ai trasporti urbani, in particolare quelli di Roma e di Milano. Sono già presenti nel settore: stanno concorrendo per l’azienda torinese e hanno già vinto la gara (a lotto unico) per quella di Firenze. Secondo alcune voci maligne, a Firenze hanno vinto soprattutto perché si è preferita un’azienda italiana politicamente “robusta” a infidi stranieri, quali erano gli altri due concorrenti.
C’è comunque un aspetto positivo nella vicenda fiorentina: per la prima volta in Italia abbiamo una grande città che non solo ha fatto una gara, ma ha rinunciato alla proprietà dell’azienda. Se il Comune di Firenze non sarà contento dei risultati, litigherà con FSI, e non con se stesso come fanno tutti gli altri, proprietari delle aziende urbane. Ma l’eventuale avvento di FSI nel settore presenta molti più aspetti negativi che positivi, e questo certo non per qualche colpa o demerito dell’azienda ferroviaria, ma al contrario perché questa è troppo forte, cioè ha un potere politico ed economico “innegoziabile” (questo potere, nel linguaggio degli economisti, è noto come clout).
Proprio per questo potere la cessione di aziende di trasporto urbano a FSI è auspicata dagli amministratori locali. Cesserebbero di colpo per loro moltissimi problemi economici e gestionali. Illuminante in proposito è l’affermazione (in privato) dell’assessore ai trasporti di una delle città coinvolte: «Come sarebbe bello cedere l’azienda a FSI, quelli i soldi dallo Stato riescono sempre ad averli, e quanti ne vogliono». Una assoluta verità. E ovviamente questo ingresso di FSI renderebbe impossibile fare gare per piccoli lotti, cioè la strategia che in Europa si è rivelata la più efficace per razionalizzare i servizi. Ma la perla finale di questa vicenda è verbale, e scaturisce dalla dichiarazione di interesse di FSI per l’ingrasso nelle aziende di Roma e Milano: si tratterebbe, secondo l’amministratore delegato di FSI di Michele Elia, di una “privatizzazione”, anche se FSI è al cento per cento di proprietà pubblica.
Ma sembra esserci una lodevole eccezione al quadro sopra descritto: il presidente di FSI, il professor Marcello Messori aveva una importate delega di cui si stava occupando: quella sulle modalità di privatizzazione parziale del colosso pubblico. Due scuole di pensiero si fronteggiano: una è quella di fare entrare investitori privati con la cessione di quote azionarie, operazione che garantirebbe la forza contrattuale e politica del gruppo FSI. L’altra visione è opposta: cedere quei rami d’azienda che non ha più senso siano in mano pubblica (l’Alta Velocità, i servizi merci, alcuni asset della rete). In questo modo il potere politico-monopolistico di FSI diminuirebbe, con benefici per gli utenti e le casse pubbliche. Domenica Messori ha annunciato di aver rimesso tutte le deleghe, escluse quelle, in gran parte formali, di “controllo”, con motivazioni che sembrano attinenti proprio a divergenze sulle modalità di privatizzazione. Conoscendone il pensiero e il rigore, vi sono pochi dubbi di quale modello dei due sopra descritti fosse sostenitore. La coerenza con le proprie convinzioni nella sfera del top-management pubblico è cosa davvero rara in Italia. C’è da sperare che la politica, per una volta ne prenda atto, e ne tragga le conseguenze.