loader
menu
© 2025 Eddyburg

Deindustrializzazione e riuso delle superfici dismesse con l'intervento del privato salvatore della patria: il copione classico è rispettato, e alla società locale restano i cocci da mettere insieme. Corriere della Sera, 23 giugno 2015, postilla (f.b.)

Anche i luoghi hanno un’anima: quella di Arese palpita al ritmo di un sei cilindri. Erano 19 mila, ai tempi d’oro, le tute blu che entravano e uscivano dai cancelli dello stabilimento voluto nel 1962 da Giuseppe Luraghi alle porte di Milano. Da quando, nel 2002 qui si è smesso di produrre automobili si sono moltiplicati i progetti di riqualificazione. Ora, finalmente, il futuro prende forma. I primi di maggio è stata inaugurata senza clamori una pista di collaudo nuova di zecca dove si trovava il vecchio tracciato dell’Alfa Romeo. Accanto al percorso, due edifici firmati Michele De Lucchi dove si terranno, eventi, corsi di guida, presentazioni. Viste da lontano le due costruzioni appaiono come un’unica bandiera a scacchi che sventola sulla pianura.

Artefice del rilancio della pista è Marco Brunelli, il patron del gruppo Finiper. Fu Brunelli nei primi anni Duemila a rilevare i due milioni di metri quadrati dell’area. Il primo passo della riqualificazione ha coinvolto gli 86 mila metri quadrati della pista stessa. Entro marzo 2016 sarà completato il centro commerciale che cresce a vista d’occhio a breve distanza, anch’esso progettato da De Lucchi. Si arriva così a un milione di metri quadrati. Per il milione che resta si stanno valutando diverse opzioni. A oggi una parte dell’area ospita undicimila posti auto al servizio del sito di Expo, a pochi chilometri in linea d’aria. Poi non è escluso che quella che inizialmente sembrava dovesse diventare un’area residenziale alla fine abbia un altro destino.

Lui, Marco Brunelli, 88 anni, uno che ha fatto la storia della grande distribuzione in Italia, si aggira nei nuovi edifici con malcelato orgoglio. L’imprenditore è attento a ogni dettaglio. Anche uno spigolo troppo sporgente può essere di disturbo: «Non si può aggiustare? Potrebbe creare disagio a chi è di passaggio». Perché Brunelli vede ogni cosa con gli occhi degli appassionati di motori che verranno qui ad affondare il piede sull’acceleratore. E tutto deve essere perfetto, a regola d’arte.
Il genio deve stare proprio qui, nella capacità di entrare nei panni di chi si ha di fronte e di coglierne i bisogni. Grazie a questo dono negli anni Cinquanta Brunelli comprese tra i primi che il momento era arrivato per passare dai negozi ai supermercati. E oggi? «Oggi è cambiato tutto. Il vecchio supermercato è destinato a essere soppiantato da luoghi in cui il momento degli acquisti si mescola con lo sport, la cura di se stessi sia sul fronte della salute che su quello della bellezza», risponde Brunelli. Non a caso l’imprenditore ha affidato lo sviluppo di 1.500-2.000 mila metri quadrati all’interno del nuovo centro commerciale di Arese ad un importante complesso diagnostico. E a pensarci bene anche la pista, oggi gestita da Aci Vallelunga, potrebbe dialogare con la nuova struttura commerciale che aprirà i battenti nel marzo prossimo.

Spesa, corso di guida sicura e check up: nel fine settimana si può fare tutto insieme. In un unico luogo. Che poco ha a che fare con i centri commerciali vecchia maniera, spesso simili ad astronavi atterrate in mezzo alla città. Il nuovo edificio punta su materiali naturali, legno in primis, su tutti i 120 mila metri quadrati su due livelli che a lavori ultimati ospiteranno 230 negozi.
Come i piloti, anche Brunelli a suo modo ama il rischio. «L’acquisizione di questa area è stata una scommessa. Ora però dormo sonni tranquilli». Come dire: ogni business è un sorpasso azzardato, ma quando rientri in carreggiata tiri il fiato. Un brivido a cui Brunelli è abituato.

Fondatore di Esselunga insieme con Bernardo Caprotti nel ’57, Brunelli ha creato Finiper nel ’74 e nello stesso anno ha inaugurato il primo ipermercato italiano. Nell’84 si deve a lui la prima galleria commerciale. Oggi, con 26 ipermercati a insegna «Iper la grande I» e circa 170 supermercati, a nome Unes e U2, il gruppo genera un giro d’affari di 2,7 miliardi di euro l’anno ed è in utile a differenza di molte realtà del settore. Dà lavoro a novemila persone resistendo alla gelata dei consumi. «No, la crisi non è finita ma qualche segnale si vede - racconta Brunelli -. La gente, per esempio, sta tornando gradualmente a scegliere prodotti di qualità più alta. Ma basta poco, un evento sciagurato di cui si è avuto notizia alla tv, a bloccare la fiducia e svuotare i carrelli della spesa. Il fatturato ne risente subito». E allora meglio distrarsi. E tornare a sognare con un giro in pista.

postilla
A parte l’endorsement istituzionale del quotidiano vicino alla Fiat, per il «felice epilogo» della vicenda ex Alfa, volata via coi suoi posti di lavoro verso lontani lidi globalizzati, qui andrebbe davvero sottolineato sino a che punto il copione del salvatore della patria a colpi di ovvietà vetuste appaia consunto: automobili, parcheggi, monocoltura commerciale, ovvero la predisposizione di tutto quanto prepara a nuove dismissioni probabili, in tempi a discrezione degli operatori. Resilienza urbana, in senso sociale, economico, ambientale, neppure parlarne, sarà di certo «economicamente insostenibile». Così ci teniamo l’ennesimo baraccone ottenuto a colpi di ennesimi ricatti, con la minaccia di mantenere eterni deserti urbani, a cui tutto è ovviamente preferibile, invece di delineare qualcosa di un po’ più simile a un quartiere metropolitano mixed-use (veramente multifunzionale, non molti negozi), con la speranza di restare tale, vitale, resiliente. In altra parte del giornale, qualcuno nota come la Città Metropolitana, che magari a regime avrebbe potuto contare un po’ di più sulla qualità di quella riqualificazione, sia nata morta, colpevolmente abbandonata dal Governo. There Is No Alternative? (f.b.)

«Cibo: dall’Italia alla Finlandia dalla Grecia alla Spagna i banchi più belli d’Europa. Non solo per fare la spesa: qui batte il cuore delle città». La Repubblica, 10 giugno 2015

CHIOSTRI medievali, ex-conventi, dimore ottocentesche. Non è solo per fare la spesa che si visita un mercato. Girare tra i banchi porta dritti nel cuore di una città: i prodotti freschi esposti, i profumi inebrianti, i colori e la gente. Piazze piene di vita da vivere dalla mattina fino a notte fonda, tra corsi di cucina e degustazioni, ci si va per trovare ingredienti a chilometro zero, un piatto preparato al banco, un aperitivo con vini biodinamici e ottimo cibo di strada. È un tuffo nella storia il mercato centrale di Atene. Fonde la tradizione europea con una forte atmosfera orientale. Nell’aria si respirano spezie e aromi piccanti che svegliano i sensi. Ma è l’architettura il suo vero fiore all’occhiello, perché il mercato si trova nell’antico edificio dell’Agorà di Omonia, che risale all’Ottocento, caratterizzato dal tetto in vetro e metallo. Rumoroso e affollato, visitatelo di sera, quando si anima con i numerosi bar che offrono una grande varietà di ouzo e i locali di musica rembetika dal vivo riempiono l’aria di allegria (lontano dal caos, rifugiatevi al Grand Resort Lagonissi, un angolo di paradiso sul mare: da 310 la doppia, it. lhw. com).
Per chi cerca avanguardie creative la meta è, invece, Londra. Specie nell’East End, che nel weekend si vivacizza, i parchi si riempiono di famiglie e dalle houseboat lungo i canali arrivano musica e profumo di grigliate. A Southwark Street il sabato c’è Borough Market, in una struttura che per secoli ha ospitato il commercio di generi alimentari: è ricco di stand di cucina locale e prodotti organici degli orti cittadini. Si tiene sempre il sabato Broadway Market, sul crocevia tra Regent’s Canal e London Fields, un caleidoscopio di profumi e sapori, dove assaggiare piatti di ogni angolo del mondo, dal sushi alla pizza (Shoreditch House, da 183 la doppia, shoreditchhouse. com).

Giovane, verde e mondana, Barcellona non è da meno. La Boqueria è l’indirizzo di punta. In una struttura in ferro battuto che risale al 1200, sulle famose Ramblas, è uno dei mercati coperti più amati in Europa. Curiosando tra i suoi stand si viene accolti da invitanti profumi di griglia e pesce fresco: se trovate un sgabello libero, provate un piatto cucinato espresso direttamente al banco, il Pa amb tomaquet, Tortilla de patatas, Botifarra, l’Esqueixada de bacalà e la Paella. Da Barcellona a Madrid il passo è breve. Il suo San Miguel è un esempio d’innovazione. Elegante, ordinato, pulito, offre ogni genere di delizia locale, è un ottimo indirizzo di gusto dove assaggiare cibo genuino, dalle tapas al Serrano. E al tramonto da non perdere l’aperitivo, con assaggi di cucina vegetariana (si vola Vueling, da 90 euro, (www.vueling.com).

Il gusto sposa la movida se siete a Berlino. Avanguardista, creativa, multiculturale, andate a Kreuzberg per perdervi tra caffè, ristoranti e locali che portano in un tour per il mondo. Fermatevi al Markthalle IX, aperto dal 1891. Occhio al giorno: è aperto il giovedì, quando le sue corsie sono piene di stand gastronomici dove gustare cucina tedesca, italiana, messicana, asiatica o spagnola, il venerdì e il sabato, con i coltivatori che espongono olio, marmellate, miele e formaggi (Soho House Berlin, da 120 euro la doppia: sohohouseberlin. com). In Italia non c’è che l’imbarazzo della scelta.

A Venezia il protagonista è il Rialto. Da circa mille anni si trova tra Campo de le Becarie, Campo de la Pescaria e Campo San Giacometto nel sestiere San Polo. Frutta, verdura, carni, pesce fresco si alternano a piccoli locali dove assaggiare delizie del posto: i bigoli, risi e bisi, il baccalà mantecato, seppie col nero, le sardelle in saor o i caparossoli in cassopipa (da Roma Alitalia, da 117 euro, www. alitalia. com). A Firenze vale la pena una tappa al Mercato Centrale per provare le bontà locali, ma con un occhio all’architettura: la costruzione in ferro e vetro è firmata dall’architetto Mengoni e datata 1874. Ospita botteghe artigiane, banchi di leccornie, ristoranti e trattorie per pranzare e cenare fino a mezzanotte, persino la scuola di cucina Lorenzo de’ Medici (da 271 la doppia al Grand Hotel Villa Medici, www. villamedicihotel. com).
Passando per Roma ci fermiamo all’Esquilino, mercato storico nato a fine Ottocento, che offre tra i suoi banchi un giro tra i sapori del mondo. È un vero meltin’pot di specialità: frutti esotici, sapori nuovi da culture lontane, dal Tapashi alla Cassua, c’è la carne halal e i nood les di soia. E chi desidera carpire qualcosa in più su mercati e alta cucina, alloggiando al Regina Hotel Baglioni di Via Veneto si partecipa a una speciale lezione che inizia con la scelta delle materie prime nei vivaci mercati rionali guidati dallo chef (info: The Leading Hotels of the World, it. lhw. com).

Quindi, la Sicilia. A Palermo gli indirizzi di culto sono due, Ballarò è il cuore tradizionale della città, con le primizie della campagna siciliana, le urla dei venditori, la confusione allegra tra i banchi. Ma è la Vucciria oggi il centro della movida palermitana: panelle, cazzilli, crocchè e stigghiole. Dovrete farvi largo in mezzo al caos, ma avrete tutto il meglio del più autentico cibo di strada (da 238 a notte il Grand Hotel Villa Igiea, villa-igiea).

©

«Agricoltura. Per il G7 le associazioni per la difesa della sovranità alimentare hanno chiesto ai governi del mondo di dotarsi di una piattaforma sociale che metta al centro le organizzazioni contadine in lotta contro il land-grabbing». Il manifesto, 10 giugno 2015

Tre anni fa il Sum­mit G8 del 2012 pro­cla­mava la nascita della «Nuova Alleanza per la sicu­rezza ali­men­tare e la nutri­zione». L’accordo faceva leva sulla reto­rica stru­men­tale e ipo­crita dell’aumento della pro­du­zione di cibo per sal­vare dalla povertà e dalla fame 50 milioni di per­sone. Il solito slo­gan usato cini­ca­mente per incen­ti­vare forme di spe­cu­la­zione, anche finan­zia­ria, che sem­brano aver tro­vato un nuovo Eldo­rado nell’accaparramento di terra agri­cola in Africa, Sud Ame­rica e Asia. In quell’occasione, una sorta di anti­pa­sto del Ttip, si tro­va­rono allo stesso tavolo dieci paesi afri­cani, non certo tra i più poveri, tra i quali Ghana, Nige­ria, Mozam­bico, Tan­za­nia, e cen­ti­naia di mul­ti­na­zio­nali dell’agro-industria tra cui le più grandi nella pro­du­zione di pesti­cidi, sementi ibride e Ogm (Yara, Car­gill, Monsanto).

Più mer­cato, più privatizzazioni
Die­tro le pro­cla­ma­zioni uffi­ciali si nascon­deva in realtà, senza un velo di imba­razzo, il ten­ta­tivo di aprire nuovi mer­cati in Africa alle imprese euro­pee e ame­ri­cane che, in cam­bio di un impe­gno vago ad inve­stire denaro con­tante nei dieci paesi afri­cani inte­res­sati, rice­vet­tero impe­gni pre­cisi da parte di que­gli stessi governi afri­cani per l’avvio di pro­cessi di pri­va­tiz­za­zione della terra. In par­ti­co­lare fu pre­vi­sta la con­ces­sione a imprese mul­ti­na­zio­nali delle «terre comuni» uti­liz­zate da sem­pre dai vil­laggi per il sosten­ta­mento col­let­tivo delle comu­nità (land-grabbing), incluse poli­ti­che volte alla lega­liz­za­zione degli Ogm e di sementi bre­vet­tate con con­te­stuale cri­mi­na­liz­za­zione di pra­ti­che di scam­bio di sementi ope­rate dai con­ta­dini. Pre­vi­sta anche la tra­sfor­ma­zione della pro­du­zione agri­cola di tipo fami­liare su pic­cola scala, che in Africa riguarda ancora il 60% dei con­ta­dini e l’80% della pro­du­zione totale di cibo, verso sistemi di pro­du­zione indu­striale ispi­rati ad un modello che nel mondo ha già mostrato i suoi limiti: inqui­na­mento, cam­bia­menti cli­ma­tici, pro­blemi di obe­sità e malnutrizione.

I con­tratti impo­sti alle popo­la­zioni locali pre­ve­dono, tra le altre cose, il pieno ed esclu­sivo uti­lizzo di tutte le risorse sot­to­stanti e sovra­stanti la terra acqui­stata. Que­sto signi­fica che senza un limite con­trat­tuale, qual­siasi sia la col­tura che quell’azienda decide di col­ti­vare, oltre al ter­reno può disporre di tutta l’acqua che ritiene neces­sa­ria senza ver­sare alcun canone aggiun­tivo. Le popo­la­zioni locali dovranno lasciare quel luogo ormai non più loro, dopo di ché tutto quello che insi­ste su quel suolo diventa di pro­prietà delle aziende loca­ta­rie o dei fondi pen­sione occi­den­tali che hanno avviato enormi ope­ra­zioni di inve­sti­mento e spe­cu­la­zione su quelle terre. Si con­si­deri che negli ultimi anni sono stati acca­par­rati ter­reni per 87 milioni di ettari. Signi­fica cin­que volte la super­fi­cie ara­bile d’Italia, che nel suo com­plesso è di circa 30 milioni di ettari: si tratta del 2% delle terre col­ti­va­bili nel mondo. È lo stesso mec­ca­ni­smo finan­zia­rio adot­tato in Inghil­terra dal governo della signora Mar­ga­ret That­cher circa trent’anni fa con il fal­li­men­tare slo­gan «meno Stato, più mercato».

Per il report dell’associazione Terra Nuova e del Trans­na­tio­nal Insti­tute, i bene­fici pro­messi dal set­tore pri­vato e dai dona­tori eva­po­rano quando le orga­niz­za­zioni con­ta­dine più cri­ti­che e i loro soste­ni­tori cer­cano di deter­mi­narne gli impatti. Ciò che rimane è un sistema orga­niz­zato con lo scopo di pena­liz­zare i pic­coli pro­dut­tori a bene­fi­cio delle mul­ti­na­zio­nali attra­verso la pri­va­tiz­za­zione dei beni pub­blici e col­let­tivi dai quali dipen­dono le con­di­zioni di vita delle popo­la­zioni rurali. Pri­va­tiz­za­zione infatti in primo luogo signi­fica pri­vare tutti di beni comuni quali il suolo agri­colo e l’acqua. Pri­vati delle terre e dei mezzi di sosten­ta­mento, le comu­nità rurali non hanno altra scelta che inte­grarsi a con­di­zioni svan­tag­giose in sistemi di pro­du­zione di cui per­dono com­ple­ta­mente il con­trollo. L’alternativa per la soprav­vi­venza è migrare verso le città o altri paesi.

Giù le mani dalle sementi
È per que­sti motivi che in occa­sione del G7 le asso­cia­zioni impe­gnate nella difesa della sovra­nità ali­men­tare hanno chie­sto ai Governi dei paesi che hanno sot­to­scritto la Nuova Alleanza alcuni impe­gni pre­cisi, a par­tire dalla pre­di­spo­si­zione in ogni nazione di una piat­ta­forma sociale che com­prenda i diversi attori inte­res­sati da que­ste poli­ti­che. Tra que­sti ci dovranno essere le orga­niz­za­zioni con­ta­dine e gli altri gruppi emar­gi­nati, insieme a quelle che si occu­pano della difesa del diritto al con­senso libero, pre­ven­tivo e infor­mato di tutte le comu­nità vit­time della spe­cu­la­zione eco­no­mica sulla terra, oltre a quelle che garan­ti­scono la loro piena par­te­ci­pa­zione al governo del ter­ri­to­rio e delle risorse natu­rali. L’impegno con­ti­nua con la richie­sta di rispet­tare i diritti dei con­ta­dini a pro­durre, pro­teg­gere, uti­liz­zare, scam­biare, pro­muo­vere e ven­dere le pro­prie sementi e aumen­tare il soste­gno al sistema delle ban­che con­ta­dine dei semi. Fon­da­men­tale è la richie­sta dello stop con con­te­stuale revi­sione di tutti i pro­cessi sulla legi­sla­zione sulle sementi basati sulla con­ven­zione Upov del 1991. La richie­sta riguarda tutti i bre­vetti e le leggi che minac­ciano i diritti dei pic­coli agri­col­tori. Sono pre­vi­ste infine poli­ti­che pub­bli­che di soste­gno per que­sta cate­go­ria di pro­dut­tori, incluse le orga­niz­za­zioni della società civile e dei con­su­ma­tori a livello regio­nale e nazio­nale per svi­lup­pare un dibat­tito sulla sovra­nità ali­men­tare, sul diritto al cibo e sull’agro ecologia.

Le orga­niz­za­zioni che hanno sot­to­scritto la dichia­ra­zione a livello mon­diale sono nume­rose e tra que­ste si con­tano oltre a Terra Nuova anche Actio­nAid Inter­na­tio­nal, Africa Europe Faith and Justice Net­work, Grain, Green­peace Africa, La Via Cam­pe­sina Sou­thern and Eastern Africa, Oxfam, Trans­na­tio­nal Insti­tute, Unión Soli­da­ria de Comu­ni­da­des — Pue­blo Dia­guita Cacano, Réseau Maerp Bur­kina Faso, Coa­li­tion of Women’s Far­mers, Cnop Mali, Glo­bal Justice Now e molte altre. Un’iniziativa che vuole unire le asso­cia­zioni di tutto il mondo per com­bat­tere con­tro la fame, la mise­ria e soprat­tutto i grandi affari delle mul­ti­na­zio­nali, dell’agro-finanza e dei loro governi amici.

Come si prova - senza alcun risultato visibile a occhio nudo – ad avvertire da lustri, il modello commerciale suburbano e di libera concorrenza sul territorio lascia solo macerie ambientali economiche sociali, a brevissimo giro, altro che sviluppo. La Repubblica, 28 maggio 2015, postilla (f.b.)

MESTRE . Dal terrazzo del suo ufficio, nel parco commerciale di Porte di Mestre, Massimo Zanon vede cannibali. «Questo davanti è Auchan, centro commerciale da 39mila metri quadrati con 111 negozi, ampliato da poco più di un anno. Dall’altra parte della strada, a meno di 50 metri, hanno costruito Interspar, che vende le stesse cose di Auchan. Davanti all’Interspar sta aprendo un IperLando. Dietro quel palazzo c’è la Coop e Conforama…». Il presidente di Confcommercio Veneto li indica col dito, recitando un elenco che ormai conosce a memoria. «Decathlon, Pittarello, Mediaworld, Lidl, In’s, Obi, McDonald’s, Aumai ». Tutti qui. Troppi. «Prima hanno fatto chiudere i negozi del centro di Mestre, ora si stanno cannibalizzando tra loro. Non c’è più spazio». E, soprattutto, non ci sono più i clienti di una volta.

Caso unico in italia

Lo chiamano il “triangolo della merce”. E il parco Porte di Mestre ne è uno degli angoli. Nel raggio di dieci chilometri dall’ufficio di Zanon ci sono tre poli — a Mestre, Marghera e Marcon — sorti attorno a quattro enormi centri commerciali. Due, il Nave De Vero (55.000 mq) e il Panorama (12.000mq) di Marghera, distano duecento metri. È un caso unico in Italia. Bastano dieci minuti di macchina, percorrendo svincoli e tangenziali, per passare da uno all’altro. Attorno a questi grandi scatoloni di cemento e vetro sono spuntati una cinquantina di megastore. Altri scatoloni. Sempre le stesse 7-8 insegne delle grandi catene, sempre gli stessi prodotti. Per un bacino di utenza che non supera i 300.000 cittadini. Una densità che non ha eguali e che spinge la media veneta del consumo di superficie occupata dalla Grande distribuzione organizzata a 484,6 mq ogni mille abitanti (in Lombardia è 466,4, in Piemonte è 414,6). Dei 27.668 punti vendita italiani della Gdo (Iper e Supermercati, outlet e libero servizio) 4.791 sono in Veneto. Vanno cercate anche qui le risposte alle domande che gli operatori del settore si fanno da un paio d’anni, da quando hanno visto l’utile netto scendere sotto lo zero (—0,1 per cento nel 2013, — 0,5 per cento nel 2014): ha ancora senso aprire un centro commerciale? Quanto è grave la crisi che ha colpito il luogo simbolo del consumismo, dove si è sfogata l’ansia dell’acquisto compulsivo degli anni Ottanta e Novanta?

Negozi semivuoti

A giudicare dai corridoi semivuoti dell’ipermercato Auchan di Mestre la crisi è forte. Segna un punto di non ritorno. «Provi a contare le casse aperte», suggerisce Paolo Baccaglini, delegato Filcams Cgil impegnato in una vertenza con il gruppo francese che aveva annunciato 1.426 esuberi in 32 dei 49 centri a suo marchio, 65 dei quali a Mestre. Sono le 15 di lunedì: le casse sono 48, di cui 12 automatiche. Quelle in funzione appena 3. Il dato è suggestivo e qualche indicazione la dà. Delle due, l’una: o i clienti sono davvero pochi come sembra, oppure questo enorme contenitore di merce in vendita è fuori scala. Forse anche fuori tempo massimo, visto quello che certificano i bilanci del gruppo francese: dal 2010 al 2014 il giro di affari in Italia si è ridotto da 3,2 miliardi a 2,6 miliardi di euro. «Dopo 25-30 anni di grande sviluppo — spiega Patrick Espasa, presidente e ad di Auchan Italia — assistiamo a una fase di maturità del format ipermercato». Fuor di parafrasi, vuol dire crisi del modello centro commerciale. Dovuta a cosa? «La contrazione dei consumi, l’attacco dei punti vendita “non food”, l’esplosione degli hard discount e la diffusione della spesa via Internet». Insomma, la torta si è ridotta. E le bocche sulla piazza sono troppe.

È il cuore del centro commer- ciale a soffrire. I negozi reggono, c’è movimento soprattutto nei weekend e a pranzo e a cena nei ristoranti e nei fast food onnipresenti. «La visibilità che le mie erboristerie hanno qui — sostiene Doriano Calzavara — è dieci volte superiore rispetto a qualsiasi altro punto della città. Certo, la pago questa visibilità: 8mila euro al mese per l’affitto, la quota per l’aria condizionata, la vigilanza e la pubblicità. I centri stanno cambiando: si allargano le gallerie laterali con i negozi, si riducono gli spazi dell’ipermercato, le cassiere vengono sostituite dagli apparecchi automatici».
Accade lo stesso negli altri due poli del “triangolo della merce”. Alla Coop di Nave de Vero una cassa aperta (con sei persone in fila) su 22 totali alle 17.30 di lunedì, al Carrefour del ValeCenter di Marcon 4 casse aperte su 34 alle 18.30. Accade lo stesso un po’ ovunque, in Italia.

Lo spazio è saturo

A Cinisello Balsamo, per dire, si incontrano 17 centri commerciali in un’area che si copre in 20 minuti di macchina. Nel 77 per cento dei casi le insegne si ripetono, sono sempre le stesse: Bluvacanze, Fiorella Rubino, Intimissimi, Kasanova, Salmoiraghi, Wind, etc. Ma di clienti ce ne sono pochi in giro. Daniela Ostidich, sociologa dei consumi e dirigente della M&T, la spiega così. «Le grandi superfici di shopping funzionavano perché massificavano la merce, ma i consumatori del dopo crisi comprano solo quello che reputano giusto per prezzo, utilità e valore intrinseco: adesso vanno i mercatini online o a chilometro zero, le botteghe, i gruppi di acquisto». Dunque si frena, è inevitabile. Nel 2005 in Italia si aprivano 57 centri commerciali, nel 2014 appena 5 e siamo a quota 870. I punti vendita della grande distribuzione negli ultimi decenni crescevano sempre, sono arrivati a 29.366 nel 2011. Poi il calo, fino ai 27.668 di oggi. L’utile netto è passato dall’1,4 per cento del 2006 a - 0,1 per cento del 2013 e nel 2014 le vendite si sono ulteriormente ridotte dello 0,4 per cento. Si parla di migliaia di esuberi a Carrefour, MediaWorld, CoopEstense. «Speriamo nella ripresa. Nel Mezzogiorno per incentivare nuovi investimenti è necessario combattere la concorrenza sleale, intervenendo sull’evasione e il lavoro irregolare », è l’opinione di Giovanni Cobolli Gigli presidente di Federdistribuzione. Il format va rivisto, e alla svelta.

Sempre più grandi

Anche perché quasi mai i centri commerciali che non tirano più, chiudono. Al massimo cambiano marchio. Alle amministrazioni comunali fa comodo averli sul proprio territorio: un ipermercato di grandi dimensioni a Milano paga di Imu e tasse per i rifiuti qualcosa attorno al milione di euro all’anno. Da quando il settore è stato liberalizzato, nel 1999, le licenze edilizie sono state date a pioggia. Si è fatto costruire ovunque, anche in zone già ingolfate. E ora ci sono migliaia di contratti con i negozianti interni da rispettare. Dunque non chiudono, ma sono costretti alla metamorfosi per sopravvivere. Diventando sempre più grandi. «In futuro aumenteremo le dimensioni — è la ricetta di Patrick Espasa, numero uno di Auchan — offriremo servizi alternativi, zone wi-fi, i nostri punti vendita saranno sempre di più luoghi dove socializzare, integrandosi con lo shopping online. Non temiamo la concorrenza, ma non ci va bene la concorrenza non organizzata». Quella dei grandi scatoloni di cemento ammassati in pochi chilometri quadrati, che diventano cannibali.

postilla

Non stupiscono leattese di tutti quanti perché «una volta superata la crisi contingente» tuttotorni felice e cretinamente suicida come prima. Non stupisce, neppure, chesicuramente anche strofinando sul muso degli amministratori le centinaia diarticoli scritti tanto tempo fa, che avvertivano esattamente di questoincombente ovvio destino, la risposta sarebbe «certo all’epoca noi non potevamosapere». Quello che stupisce davvero è che non si colga – da parte di chidovrebbe rappresentarci - la logica consequenziale di un certo andamento dellecose. I pensosi manager che rispondono evasivi e settoriali alle interviste, daattenti lettori quali sono della stampa specializzata internazionale, erano benconsapevoli di cavalcare una piccola onda (quella della crescita indefinita edella polarizzazione suburbana) già ampiamente esaurita altrove, e destinata afar lo stesso anche qui. E però rivendevano ai soliti gonzi scenari di crescitainfinita, posti di lavoro a valanghe, e naturalmente un territorio dove la«esperienza dello shopping» diventava weltanschauung onnivora, sia in terminidi aspirazioni che di risorse territoriali. E poco importava che, come giàavvenuto altrove, prevedibilmente, le stesse risorse si esaurissero, in un modoo nell’altro: l’importante era incassare, e andare a raccontare ballepromozionali al prossimo sprovveduto. Tanto per timbrare il cartellinotecnico-scientifico, vorrei concludere questa postilla con lo slogan, facilefacile, del quartiere urbano multifunzionale, che è in ogni senso l’oppostoassoluto dello scatolone introverso monouso posato su spazi aperti extraurbani.Ecco: distinguere fra queste due distinguibili entità, sarebbe piccolo segno dibuona fede, perlomeno di «non potevamo sapere, ma ci siamo mossi con prudenza».Oppure avanti così, alla prossima sorpresa che non è tale, di crisi ciclica delcentro commerciale (f.b.)

Un caso esemplare di danni dell’imbecillità amministrativa nella gestione del territorio, ben oltre gli aspetti criminali di infiltrazione che ahimè piagano certe trasformazioni metropolitane da tempo. Corriere della Sera Lombardia, 24 maggio 2015, postilla (f.b.)

Muggiò - Un campus universitario; un parco giochi per i bambini; una cittadella dello sport; un outlet che promette di salvare pure le sale cinematografiche. Per il Magic Movie Park, la multisala più sfortunata della Brianza, un ritorno al futuro sembrava impossibile. E invece ora, sul tavolo del sindaco di Muggiò, Maria Fiorito, ci sono ben quattro progetti. «Sono uno più bello dell’altro — commenta —. E tutti offrono una certezza: riusciranno a integrare in modo armonioso un enorme “scatolone” di cemento armato di 25 mila metri quadrati con quello che lo circonda: il Parco del Grugnotorto, un’area naturale protetta. E nemmeno un centimetro in più sarà rubato al verde».

Il conto alla rovescia per la nuova asta è iniziato. E, quando tra poche settimane sarà fissata, «siamo fiduciosi — assicura Fiorito — che su uno dei capitoli più tormentati della storia recente della Brianza, si volterà pagina». Certo, guardando oggi quel che resta del Magic Movie Park, un domani che non sia la demolizione sembra impossibile. Quello che era stato uno dei multiplex più attrezzati e avanzati della Brianza, è ridotto a una «città fantasma». Faccendieri cinesi e napoletani hanno portato alla chiusura del cinema, precipitato in uno dei più rovinosi crac finanziari della Brianza. Ma ora, all’opera di imprenditori senza scrupoli si è aggiunta quella dei vandali che stanno distruggendo l’ex multisala. Sull’area all’aperto dove c’erano la piscina, i laghetti per la pesca e una palestra en plein, ora c’è una vera e propria discarica a cielo aperto. Sulle piste su cui si faceva sport all’aria aperta, ora ci sono quintali di rifiuti. Gli ampi parcheggi sono stati riconquistati dalle sterpaglie.

Ma una desolazione ancora più grande regna all’interno. Una volta c’erano 15 sale cinema, una per i film d’autore, due sale per spettacoli teatrali per corsi di recitazione, spettacoli di burattini, presentazioni di libri, ristoranti bar, sale giochi, le vetrine dei negozi. Ora ci sono solo vetri in frantumi, mobili sfondati, muri imbrattati, porte sfondate. Un vero e proprio luna park per bande di teppisti notturni, che si aggirano per gli immensi spazi vuoti, spaccando tutto quello che capita loro a tiro senza che nessuno li fermi. Le scale mobili sono distrutte, e perfino le sale cinema sono state deturpate e ridotte a tristi magazzini impolverati. Un «cimitero del cinema», abbandonato da quasi dieci anni. «Pensare a un riutilizzo per un “non luogo” come questo non è stato facile — spiegano i curatori fallimentari — . Ma non è stato possibile fare miracoli. Per attrarre operatori commerciali è stato necessario in pratica regalare l’ex cinema.

Alla prossima asta, una struttura che era costata 60 milioni sarà battuta ad appena tre milioni di euro». Una somma ridicola per una multisala da 4100 posti la cui sola area parcheggi è vasta oltre 37 mila metri quadrati. Alla prima asta, l’immobile fu proposto a 30 milioni. Risultato: zero compratori. Ora, quasi «regalandolo», si spera di trovare un acquirente. Il prezzo è ghiotto. Ma chi lo acquisterà dovrà ristrutturare da cima a fondo un immobile semi distrutto. E poi ci sono i debiti: un buco di 52 milioni di euro.

postilla

Questa vicenda, come tante altre, merita qualche complemento informativo di carattere generale che suona più o meno al solito: bastava ascoltare chi ne capisce, maledetti idioti! Perché l’operazione dai soliti contenuti di scambio urbanistici-economico-occupazionali e livello minimo pareva da subito caratterizzata anche da notevole ingenuità, come del resto tante altre legate ai grandi contenitori commerciali.

Ovvero si riponeva una disinformata fiducia (ripeto, al netto dei risvolti criminali) in questo formato rigido del multisala, analogo agli altri che si chiamino outlet, retail park e compagnia bella. Semplicemente, come indicano da lustri le tendenze dei contesti dove i grandi contenitori commerciali suburbani hanno più sedimentazione, la vita funzionale dei colossi è molto breve, bisogna da subito pensare sui tempi lunghi a funzioni e attori in grado di garantire l'inevitabile riuso evitando vuoti e degrado, e comunque nel terzo millennio della scarsità di suolo agricolo e spazi aperti puntare su nuove urbanizzazioni, in una superficie a parco metropolitano (teoricamente inclusa nella sottile delicata discontinua greenbelt settentrionale milanese), pare davvero fuori luogo. E invece, a furia di leggere i conflitti del commercio soltanto in termini di prezzi e guerre di basso profilo fra supermarket e bottegai dell’angolo, si combinano anche pasticci del genere. In cui, è il caso di aggiungere, poi gli interessi illeciti e la criminalità organizzata volendo trovano sempre il modo di inserirsi, come in tutte le strategie deboli (f.b.)

Una interpretazione economica e post-crisi della ripresa automobilistica lascia forse troppo poco spazio al vero spunto nuovo, sociale e tecnologico, così importante per le discipline urbane. La Repubblica, 21 maggio 2015, postilla (f.b.)

Sarà connessa, economica, automatica. Soprattutto utile. La crisi ha cambiato il nostro rapporto con le quattro ruote. Oggi che le vendite tornano a salire anche in Italia (segno di una piccola ripresa dopo la crisi) scopriamo che nulla sarà più come prima. Che l’auto-identità, l’auto simbolo di benessere, l’auto che ti colloca in un preciso scalino della piramide sociale, sta lentamente tramontando. Finisce un’epoca e se ne apre un’altra: quella dell’auto “prendi e lascia”, dell’auto strumento e non oggetto di desiderio. Fino alla clamorosa scomparsa del volante, scenario non più tanto futuribile che cambierà per sempre il senso del verbo guidare: da attivo a passivo. Sarà l’auto che si guida da sola. Nel futuro sparirà anche la patente?

I dati del mercato italiano parlano di una ripresa impetuosa delle vendite. Sono salite del 24 per cento ad aprile, erano cresciute a due cifre anche nei mesi precedenti. La rincorsa italiana era iniziata nella seconda metà del 2014. L’anno nero è stato il 2013: 1,3 milioni di auto immatricolate, quasi la metà del livello del 2007 che aveva portato l’asticella a 2,5 milioni, l’anno. Un vero exploit che aveva fatto a pezzi i precedenti record degli anni 60 e 70, quelli del boom economico, della Fiat 500, della motorizzazione di massa. Poi, dopo la vetta, il precipizio. Gli impiegati di Lehman Brothers impacchettavano i loro scatoloni e i concessionari hanno cominciato ad abbassare le saracinesche. La crisi ha colpito tutti, privati e enti pubblici. Tra il 2007 e il 2013 le vendite di camion e autobus si sono ridotte da 283 mila all’anno a 117 mila. Anche i Comuni hanno finito i soldi e i mezzi pubblici non sono stati sostituiti. Il quadro generale dei sette anni di vacche magre lo propone Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor: «Gli italiani hanno risparmiato tenendo le auto in garage. Ma non le hanno vendute. Hanno scelto di usare un po’ di più i mezzi pubblici. La riprova? In tutto questo periodo, mentre crollavano le vendite di auto nuove, il parco circolante italiano è rimasto praticamente intatto tra i 36 e i 37 milioni di autovetture ».

Vecchia, tossicchiante e magari più inquinante di un tempo, ma la cara auto di proprietà ha resistito. E anche quelle recenti sono state utilizzate con grande parsimonia. Un’auto nuova acquistata nel 2000 percorreva in media 12.800 chilometri nel primo anno se alimentata a benzina e 25.400 se diesel. Nel 2013 l’auto a benzina nuova percorreva nel primo anno 9.900 chilometri e quella diesel 19.100 Eppure, anche oggi che le vacche magre sembrano alle spalle, qualcosa è cambiato per sempre. La modifica più vistosa è l’uso che delle automobili fanno le nuove generazioni. I dati dell’Unrae, l’associazione dei costruttori stranieri in Italia, dicono che negli ultimi anni i giovani e i semigiovani hanno significativamente ridotto l’acquisto di auto nuove. «I giovani - dice Quagliano - sono stati più colpiti dalla disoccupazione e dalla precarietà del lavoro. Spesso non possono permettersi di comprare l’utilitaria a rate perché nessuno fa credito a chi non ha una busta paga sicura. Così capita che si intesti l’auto ai genitori o addirittura ai nonni». Risultato: nel 2005 i ragazzi tra i 18 e i 29 anni acquistavano il 13,8 per cento delle vetture nuove mentre gli over 65 comperavano il 9,4 per cento. Nel 2014 i ruoli si sono invertiti: i giovani hanno acquistato l’8 per cento delle auto nuove e gli anziani il 15,8.

Oltre all’effetto precarietà, interviene sulla scelta dei ragazzi quella che Vanni Codeluppi, so- ciologo dei consumi, chiama «la perdita del ruolo identitario dell’automobile. Nonostante gli sforzi delle case per rendere comunque appetibili i loro nuovi modelli, è passata nelle giovani generazioni dell’Occidente l’idea che l’auto è un mezzo di trasporto non ecologico e molto dispendioso dal punto di vista energetico. I ragazzi hanno oggi una idea profondamente diversa della mobilità. Vivono in un mondo connesso in cui è sempre meno necessario recarsi fisicamente in un luogo per agire e comunicare. E anche quando la Rete non è più sufficiente e bisogna davvero spostarsi fisicamente, ci sono molti modi alternativi all’auto, soprattutto nelle grandi città. L’auto è stata uno status symbol tra gli anni 60 e 80 in Italia. Poi è diventata un prodotto maturo e oggi direi che è ormai più che maturo, destinato a un lento declino ». Eppure le cifre del mercato sembrerebbero dire il contrario. Non tanto per i dati della ripresa europea, che sta sostanzialmente recuperando, e solo in parte, il terreno perduto negli anni bui della crisi. Ma per quello che accade a livello mondiale dove il totale delle auto vendute (siamo intorno gli 80 milioni) è in continua crescita, soprattutto per effetto dell’espandersi dei nuovi mercati. «Questo è vero - ammette Codeluppi - ma dobbiamo considerare che i cinesi stanno vivendo ora la fase in cui l’automobile è il simbolo del risveglio dell’economia, della nuova ricchezza di chi la possiede. Diciamo che nei Paesi emergenti si sta verificando sul piano simbolico ciò che da noi era accaduto nella seconda metà del Novecento».

Se c’è un nuovo modo di considerare l’auto, il mercato sta adattandosi rapidamente. Il primo segnale di cambiamento è quello della scelta dei carburanti. Il passaggio dalla benzina al diesel era già avvenuto negli anni 90 quando era stata ridotta la tassazione sul gasolio e aveva motivazioni essenzialmente economiche. Oggi nella scelta pesa ancora il ragionamento sui costi ma incide anche una diversa coscienza ecologica. Dal 2011 al 2014 tra le nuove auto vendute, quelle diesel sono rimaste ferme intorno al 55 per cento del mercato. E’ invece crollato il numero di vetture nuove a benzina, passate dal 39 al 29 per cento, è triplicato il numero delle auto alimentate a gpl (dal 3,2 al 9,2) ed è raddoppiata la percentuale del metano (dal 2,2 al 5,3). «Va osservato - dice Quagliano - che le auto ad alimentazione alternativa hanno una tassazione sui carburanti molto bassa o addirittura inesistente. Se il trend proseguirà, lo Stato dovrà risolvere il problema delle minori entrate». Troppo virtuosi? Secondo i dati del Centro Promotor, sui 62,5 miliardi di carburante spesi dagli italiani nel 2014, 36,1 sono finiti nelle casse del Tesoro. Nel futuro senza benzina e gasolio una buona fetta di quei 36 miliardi rischia di andare in fumo.

La seconda rivoluzione è quella della connettività e del servizio. L’auto fa da sola sempre più cose: ti dice con una telecamera se stai parcheggiando bene, ti avvisa nella nebbia se un veicolo precede, ti legge gli sms in arrivo. Sempre più cambia le marce da sola, rompendo l’attaccamento molto italiano alla cloche. E sempre più non è la tua. E’ in affitto. Per tre anni, con l’auto a noleggio ora accessibile anche ai privati: basta un canone mensile e si paga solo il carburante. Al resto pensa la società di noleggio. O anche in affitto per poche ore: car sharing soprattutto nella versione a parcheggio flessibile, raggiungibile con le mappe degli smartphone. «In sostanza, il car sharing è una sorta di taxi fai da te», sintetizza Quagliano. Il futuro è oltre. E’ nell’auto che si guida da sola, in sostanza l’autista robot. Mercedes ha presentato un prototipo al Salone di Ginevra. Si sale e si continua a lavorare sul computer mentre l’automobile si muove nel traffico. I vantaggi? Ci sta pensando una società come Uber che starebbe lavorando con Google per l’auto-auto. Taxi senza conducente insomma: niente licenza e niente polemiche con i tassisti tradizionali. Semplice no?

postilla
Insomma, alla fin fine le «cattive» Uber e Google parrebbero virtuosamente alleate in una joint venture destinata a dare una mazzata finale a un paio di cose novecentesche che parevano immortali: il culto dell'auto proprietaria e identitaria, il suo mercato compulsivo e attorno al quale ruotava praticamente tutto, dall'energia alle guerre all'organizzazione della città e del territorio. Se si colgono queste potenzialità, invece di straparlare a vanvera di sharing economy quando qualcuno ti affitta la camera online senza pagare le tasse, magari ci portiamo avanti. Per portarsi avanti aiuterebbe, anche, provare a superare certi schematismi novecenteschi rispetto al ruolo maledetto dell’auto privata nel plasmarsi un universo a propria immagine e somiglianza, e alla natura di antidoto rappresentata invece dal mezzo pubblico su rotaia o dalla ciclabilità in sede propria. Anche chi lega la crisi dell’auto ad una ipotetica crisi del modello suburbano, forse sarà obbligato a ricredersi, almeno in parte. Insomma c’è molto da riflettere, e sarebbe meglio iniziare a farlo in fretta (f.b.

In padania, come altrove, chi pedala rischia, ma pare che l’unica risposta delle istituzioni per ora sia solo burocratica e pure un po’ ottusa: facciamo piste ciclabili, a caso e dove capita. Corriere della Sera Lombardia, 15 maggio 2015, postilla (f.b.)

Più piste ciclabili: 283 chilometri ultimati nel 2014 in Lombardia, con una spesa di 31,2 milioni di euro della Regione, che ha investito anche su bike sharing e posteggi ad hoc per le biciclette. Più soldi ai Comuni per la mobilità dolce: 3 milioni di euro concessi quest’anno dal Pirellone per finanziare 37 progetti, in aggiunta ai 3,5 milioni erogati a 13 comuni nel 2014.
È una doppia mossa quella della Regione per sostenere la sfida dei ciclisti a traffico e smog, dopo che il dossier su biciclette e incidenti stradali, realizzato (su dati Istat) dal Centro di monitoraggio per la sicurezza stradale insieme a Éupolis, ha scattato una fotografia da allarme rosso per la Lombardia: un ciclista morto ogni settimana, 12 feriti in media ogni giorno e 12 incidenti ogni ventiquattr’ore con una bicicletta coinvolta.

Cifre impressionanti che spingono il Pirellone ad accelerare su nuovi progetti per tutelare gli amanti del pedale. Spiega l’assessore alla sicurezza, Simona Bordonali: «È quasi pronta la mappa delle strade regionali in base all’incidentalità. Questa classificazione ci servirà per capire quali sono quelle più pericolose e poi intervenire. Inoltre, in collaborazione con Inail e Aci, stiamo organizzando una serie di iniziative ed eventi sulla sicurezza stradale rivolti ai lavoratori». Ma, nonostante gli sforzi fatti negli ultimi anni dal Pirellone, per le biciclette le nostre città rimangono ancora delle trappole mortali: infatti nel 2013 su 49 ciclisti morti in incidenti stradali, 32 (il 65%) hanno perso la vita sulle arterie urbane dei centri abitati, laddove è accaduto anche il 92% dei sinistri (pari a 4.268), contro i 345 verificatisi fuori dai centri abitati, dove le vittime sono state diciassette.

È vero che nelle nostre città l’indice di mortalità per i ciclisti negli ultimi quattro anni è in continuo calo: dallo 0,81% del 2010 si è scesi allo 0,75% del 2013. Ma è altrettanto vero che la sicurezza per le biciclette è una strada ancora tutta in salita. Anche perché in Italia, come sottolinea Giulietta Pagliaccio, presidente della Fiab (Federazione italiana amici della bicicletta), «non c’è mai stato un governo che abbia dettato una politica nazionale per lo sviluppo della bici come mezzo di trasporto». Di conseguenza, ciascun ente locale ha sempre fatto da sé. Con il risultato che, da un lato, i Comuni si dividono sul 30 all’ora in città, con alcuni (Lecco, per esempio) che dicono sì al traffico slow, mentre altri (Varese, in testa) bocciano la riduzione della velocità in centro perché «è una misura inutile». Dall’altro, le piste ciclabili (2.800 chilometri totali in Lombardia) sono state costruite a macchia di leopardo, tanto che non mancano casi in cui i percorsi protetti terminano o contro un muro, o nel deserto.

postilla
Se non altro (e non era scontato) giusto alla fine dell’articolo si ricorda il fatto, innegabile, che tutti i soldi sinora spesi per le famose piste dedicate sono stati sostanzialmente buttati nel lavandino. L’equazione tra soldi investiti, chilometri realizzati, e sicurezza, per non parlare della qualità urbana ignorata da tutti, pare una specie di fede cieca burocratica e ottusa: da un lato morti, feriti, paura, difficoltà, dall’altro questo flusso automatico di denaro e progettini tecnici, con o senza cordolo di cemento, con o senza fondo rossastro, ma puntualmente pronti a svanire nel nulla vuoi per difficoltà finanziarie, vuoi quando si arriva a quegli ostacoli concettualmente insormontabili che sono un confine comunale, o un semplice incrocio, ovvero nei punti in assoluto più pericolosi, che alimenteranno fatalmente le prossime statistiche ospedaliere e cimiteriali. Un bel circolo vizioso, se non si inizia a prendere la cosa da un verso meno burocratico, schizofrenico e sostanzialmente senza obiettivi salvo quello di dimostrare attivismo (f.b.)

E verrebbe proprio da dire, a certi affabulatori a vanvera del cosiddetto sviluppo del territorio: eccotela qui la tua città infinita, pietrificata e morta. Corriere della Sera Milano, 10 maggio 2015 (f.b.)

MILANO - La provincia più cementificata d’Italia. E’ un triste primato quello della provincia di Monza e Brianza. Dagli anni 50 a oggi, il Monzese ha consumato il 34,7% del suo territorio. Oltre 14 mila ettari di terreno impermeabilizzato artificialmente e quindi non più recuperabile. Un problema che sta diventando emergenza, e non solo in Lombardia, quello del consumo di suolo. Basti pensare che, in Italia, per colpa della cementificazione, si è perso il 20% delle coste: oltre 500 chilometri quadrati, l’equivalente dell’intera costa sarda.

A lanciare un nuovo allarme è l’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (Ispra) che, nel convegno scientifico «Recuperiamo terreno», organizzato con il Forum Salviamo il Paesaggio e con Slow Food, ha diffuso il «Rapporto sul consumo di suolo 2015»: una cartografia a altissima risoluzione, disponibile sul sito www.consumosuolo.isprambiente.it

Maglia nera, quindi, alla provincia di Monza, dove si trovano anche i due comuni più cementificati della regione: Lissone con il 64 % di suolo consumato e Sesto San Giovanni, con il 56 % . Milano si ferma, invece, al 47,8%, mentre l’area della nuova Città metropolitana ha già consumato il 26% del suo territorio. Terza, poi, si piazza Varese con il 18 % del suolo usato.

La Lombardia si conferma così la regione più «consumata» d’Italia, con il 10,4% di suolo impermeabilizzato. Una percentuale bassa, ma in grado di alterare direttamente o indirettamente il 58% del suolo lombardo: un’infrastruttura che spezza la continuità di un’area agricola, ad esempio, la modifica nel suo complesso e non solo per la parte cementificata.

Questoconsumo disordinato espone i centri abitati al rischio di alluvioni, frane,esondazioni e poi provoca degrado ambientale, perdita di terreni agricoli eaumento dell’inquinamento atmosferico. E’ urgente, quindi, una legge a tuteladel territorio, che non è un bene inesauribile e, una volta modificato, non puòtornare come prima. Un disegno di legge sul consumo di suolo è all’esame degliemendamenti nelle Commissioni Ambiente e Agricoltura, ha spiegato al convegnoChiara Braga, deputato e responsabile Ambiente del Partito democratico:«Occorre la strumentazione giuridica che possa davvero salvaguardare il suolonel suo valore agricolo e ambientale, perché non si continui solo a pensarlocome bene economico da sfruttare». Ma contro la nuova legge sono già statipresentati 400 emendamenti.

Un solido contributo di conoscenza e di proposta al drammatico problema del turismo a Venezia: problema ben più drammatico e distruttivo dell'acqua alta. .VeneziaCambia, 8 maggio 2015

A Venezia il turismo è un problema assai più che altrove. I risultati delle ricerca CENSIS-Mercury- CISET di Ca’ Foscari, commissionata dall’Osservatorio Nazionale del turismo (presidenza del Consiglio) che risale al 2009 comparano 11 città molto differenti, ma tutte a forte presenza turistica (Barcellona, Londra, Parigi, Istanbul, Vienna, Praga, Firenze, Roma, Venezia, Bruges, Siviglia) dicono che:

Tutti i protocolli e le proposte di coordinamento tra città d’arte hanno avuto grandi difficoltà e non hanno approdato ad alcun risultato. Proposte come

sono oggi improponibili o molto timidamente applicate (vedi Dlgs 23 2011 art.4 sul federalismo fiscale che permette ai comuni capoluogo e alle città d’arte di istituire una tassa di scopo sul turismo solo sui pernottanti, ovvero quelli che già pagano un contributo alle casse pubbliche attraverso l’IVA)

Qualche coordinamento a livello nazionale è stato messo in atto per gestire il flusso dei pullman turistici con l’istituzione di ZTL, tariffe di entrata differenziate per luogo di accesso, stagionalità e prestazioni ambientali dei veicoli. Venezia ha una delle ZTL più costose d’Europa e più rigide, da momento che non prevede alcun incentivo alla permanenza per più giorni, ad esempio attraverso la riduzione della tariffa giornaliera in base ai giorni di permanenza. Misura che sarebbe senz’altro utile.

I proventi derivanti dalla tassa d’ingresso non hanno una destinazione specifica connessa alla copertura dei costi del turismo, ma vanno nel calderone del bilancio. Sarebbe necessario invece mirar bene. Ai proventi da tariffa della ZTL si aggiunge la tassa di scopo (imposta di soggiorno) pagata da quelli che pernottano in strutture alberghiere nel territorio comunale, istituita nel 2011 come previsto dal Dlgs 23 2011 sul federalismo fiscale. A Venezia il Regolamento per la sua applicazione è stato più volte modificato: l’ultima volta con la delibera del Commissario Zappalorto del 1 agosto 2014. La modifica stabilisce che non è compito degli albergatori assicurare la riscossione della tassa né pagare al posto degli eventuali turisti renitenti. L’unico obbligo è di informare il Comune che provvederà al recupero delle somme dovute. E’ evidente che tradurre in entrata per le casse comunali l’imposta di soggiorno sarà tutt’altro che facile. La tassa di soggiorno è fissata al massimo previsto dalla legge (5 euro a notte per persona).

Per quanto riguarda in particolare il problema del trasporto.

Secondo il Piano Urbano della Mobilità (PUM 2008 aggiornato al 2013) a Venezia arrivano le quantità di persone rappresentate nella seguente tabella. Occorre notare che si tratta di tutti gli arrivi, lavoratori pendolari e turisti compresi. Occorre notare anche che si tratta di dati vecchissimi. Un problema centrale incredibilmente sottovalutato è dunque sapere quanti sono e chi sono. C’è da sospettare che non si voglia sapere.

In sostanza non si sa quanti sono turisti, quanto escursionisti, quanto visitatori di Venezia per lavoro e studio, quanto abitanti di Venezia e delle sue immediate vicinanze.

I mezzi con i quali si arriva a Venezia sono per lo più fuori dalla competenza comunale ad eccezione del trasporto pubblico locale. Ferrovia, aeroporto, crocierismo, automobili private, pullman turistici. Tutti questi approdano alle diverse porte di Venezia: piazzale Roma (auto private e servizi di trasporto pubblico, in prospettiva tram), Tronchetto (bus turistici e automobili, raccordato a piaz.Roma da people mover e direttamente servito dai vaporetti di linea e da motonavi per il Lido), Tessera e Fusina (terminal serviti da Alilaguna via acqua e bus per piaz. Roma via terra), la Marittima per le grandi navi da crociera (servite da grandi capacità di parcheggio connesse al terminal crociere e da servizi di bus per piazzale Roma). Tutto senza alcun coordinamento nè di tariffe (emblematico il caso della mancata integrazione tariffaria tra servizi bus-tram ACTV e servizi ferroviari -SFMR -sulle stesse tratte) nè di orari e tantomeno di quantità di arrivi.

Sicuramente nel tempo vi è stata una riduzione degli arrivi in automobile (parcheggi assai costosi) e un trasferimento di utenza dai pullmann turistici, che presuppongono l’intermediazione di un operatore turistico, alla ferrovia che risponde con più immediatezza alla auto-organizzazione del viaggio resa possibile dalla diffusione e dall’uso massiccio di tablet e mobile phone.

La situazione attuale soffre di una crescente inconoscibilità dei numeri e impossibilità di controllo degli accessi. Un possibile sviluppo potrebbe essere l’istituzione, in occasione della città metropolitana, di una Authority dei trasporti, sul modello di quelle tedesche, entra la quale stabilire regole di accesso con tutti gli operatori per controllare e gestire il n max di arrivi.

Operazione 1: fissare il limite di presenze turistiche ammissibile, con priorità ai pernottanti e ai visitatori non occasionali. Operazione da fare (anche rapidamente) ma attraverso un percorso realmente partecipato, con gli operatori, gli albergatori, i servizi e le associazioni dei cittadini. Valutando gli effetti economici e sociali. Con una particolare attenzione alla possibile formazione di nuovi posti di lavoro connessi ad una organizzazione del turismo più complessa e più ricca di offerte differenziate.

Operazione 2 Controllo dell’accesso per strada
Tiket costoso per il passaggio sul ponte della liberta. Cartelli informativi sulla rete autostradale con tariffe differenziate (e crescenti) a seconda del grado di occupazione dei parcheggi. L’informazione tiene conto delle prenotazioni che, in quanto tali hanno entrata assicurata e tariffe definite. Se park full il non prenotato non entra.

Operazione 3 Incanalamento dei flussi per la distribuzione urbana
Da Piazzale Roma incanalamento dei flussi turistici pedonali per l’accessibilità acquea dai margini esterni (terminal di S. Giobbe con nuovo ponte delle vacche per margine nord: fondamente nuove, isole e lido; terminal sud S.Basilio per Giudecca e S.Marco e poi S. Elena e Lido). Fortissimo alleggerimento del Canal Grande anche da taxi e trasporto merci (contingentamento di orari e di mezzi) libere gondole e trasporto pubblico lento. Tariffe elevate per turisti. Turisti e cittadini insieme (la specializzazione dei mezzi, sperimentata, non ha dato buoni risultati).

Operazione 4 ZTL e pullman
Pullman turistici solo ai terminal (Tessera, Fusina e Tronchetto). Anche qui con cartelli a messaggio variabile d’avviso con tariffe crescenti in base alla saturazione dei posti. Tariffe differenziate decrescenti in base al n. di giorni di permanenza alla stagionalità e alle prestazioni ambientali dei veicoli. I prenotati entrano sicuramente, gli altri no. Dai terminal servizi acquei con distribuzione ai margini esterni dei turisti come al punto precedente.

Operazione 5 Ferrovia
Informazione a bordo dei treni sui tiket d’ingresso alla città, variabili in relazione al raggiungimento del n. max di presenze. I prenotati entrano sicuramente con tariffe fisse da accessi riservati. Gli altri fanno coda per entrare pagando (o in alternativa pagano sul treno a controllori comunali) . Comporta residenti e lavoratori muniti di pass. (servizio on line) e accessi riservati.

Operazione 6 Crocierismo
Distribuzione degli arrivi delle navi in tutti i giorni della settimana e limitazione delle punte in relazione all’insieme delle altre presenze prenotate. Se il numero di presenze ammesse è raggiunto i passeggeri non prenotati restano a bordo. Anche i crocieristi pagano l’entrata (se vengono dall’esterno) o la visita a Venezia (se sono già a bordo).

La Card di prenotazione e vendita dell’accesso (Venice Card ?), attraverso il centro prenotazioni gestito direttamente dal comune, diviene il principale strumento di controllo del n max. di presenze, di incentivazione alla visita di luoghi, monumenti attrattive meno conosciute, strumento di promozione dell’arricchimento non solo monumentale dell’offerta turistica di Venezia (la laguna, le isole minori, il cibo, le produzioni tipiche, ecc.)

Questa prospettiva appare più realistica, dal punto di vista dei comportamenti indotti, di quella di contingentare la solo piazza S. Marco: operazione certo più semplice da punto di vista dell’organizzazione fisica degli ingressi, ma enormemente più debole dal punto di vista dei controlli, dello sviluppo di economie parallele di elusione delle regole e della effettiva risposta dei turisti.

Indubbiamente una delle questioni centrali della mobilità motorizzata è da sempre quella dell’incolumità di chi circola, ma focalizzarsi su un solo per quanto importante aspetto rischia di trascurarne altri. La Repubblica, 6 maggio 2015, postilla (f.b.)

C’è chi fa gli scongiuri, c’è chi si annoia: la sicurezza stradale è un tema difficile ma va affrontato con forza e per forza. I numeri parlano chiaro: ogni anno nel mondo muoiono per incidenti stradali qualcosa come 1,3 milioni di persone, oltre 3.000 vittime al giorno, con circa 30 milioni di feriti l’anno.
E se in Europa e negli Usa la situazione è in netto miglioramento, nel resto del pianeta i numeri sono completamente senza controllo, in forte aumento: se non si adottano subito drastici provvedimenti si arriverà a breve ad avere gli incidenti stradali come quinta causa mondiale di morte, con 2,4 milioni di vittime all’anno. Non è un caso che il 90 per cento delle vittime su strada arriva dalle nazioni più povere, dove peraltro risultano immatricolate meno della metà delle vetture circolanti nel mondo. I dati arrivano dall’Onu che così ha deciso di intervenire con “forza”: nel marzo del 2010, ha adottato la risoluzione 64/255 “Miglioramento della sicurezza stradale nel mondo” con cui ha proclamato il periodo 2011-2020 “Decennio di Azione per la Sicurezza Stradale”.

In che consiste? In una vera rivoluzione, divisa in cinque grandi settori: gestione della sicurezza stradale nel suo complesso; mobilità più sicura; veicoli migliori; automobilisti più attenti; risposta immediata agli incidenti.
Ecco in questo contesto si inserisce la famosa “Settimana mondiale della sicurezza stradale” con la quale da lunedì scorso fino a domenica le Nazioni Unite cercano di focalizzare l’attenzione sul tema. L’evento è spinto con forza anche dalla Fondazione Ania per la sicurezza Stradale che per prima ha iniziato a investire pesantemente in campagne sociali (l’ultima ispirata ai dieci comandamenti).

Il tema sul tappeto oggi punta sugli incidenti per i più giovani visto che ogni giorno sulle strade del mondo muoiono 500 bambini e adolescenti con meno di 18 anni: un totale di oltre 182mila giovani vittime della strada. Un dramma che coinvolge anche l’Italia dove, guardando al 2013, sono morti una media di oltre 2 bambini a settimana, per un totale di 123 vittime con meno di 18 anni. Di queste, ben 47 avevano meno di 14 anni.

L’obiettivo dichiarato è quello di abbattere drasticamente il numero di vittime, ed è un obiettivo realizzabile vista l’esperienza dell’Unione Europea che come dicevamo dieci anni fa si era posta l’obiettivo — praticamente raggiunto — di dimezzare le morti per incidenti stradali entro il 2010. Ecco quindi per questa settimana un sito dedicato (www. savekidslives2015. org), dal quale è possibile scaricare la “Dichiarazione dei bambini per la sicurezza stradale”, una petizione rivolta ai leader di tutti i paesi membri e un hastag #SAVEKIDSLIFE. Perché — si sa — ormai le grandi campagne sociali passano tutte per la re- te.

Il punto però è cosa fare davvero. Quali strategie — a livello globale — mettere in campo. Su questo le Nazioni Unite sembrano avere le idee piuttosto chiare visto che puntano sulla pianificazione urbana e dei trasporti, sulla creazione di autorità indipendenti in materia di sicurezza stradale per la valutazione dei nuovi progetti di costruzione, sul miglioramento delle caratteristiche di sicurezza dei veicoli e sulla promozione del trasporto pubblico.

Ma ancora non basta: è stato individuata anche la necessita di avere il controllo efficace della velocità da parte della polizia e mediante l’uso di misure per decongestionare il traffico, l’approvazione e l’osservanza di leggi che stabiliscano l’uso della cintura di sicurezza, del casco e dei seggiolini per i bambini, l’imposizione dei limiti del tasso alcolemico e il miglioramento delle cure rivolte alle vittime degli incidenti automobilistici. Sembra impossibile ma nel mondo ci sono ancora molti Paesi che non hanno normative su questi temi.

Infine, occorrerà anche porre molta attenzione alle campagne di sensibilizzazione della popolazione: tra le misure da adottare per raggiungere gli obiettivi fissati in tema di riduzione di incidenti e vittime questa è considerata una delle più importanti.

Chi crede comunque che il problema della sicurezza stradale sia “solo” (anche se basterebbe) di morti e feriti sbaglia di grosso: tutte queste iniziative se messe in pratica porteranno ad un enorme risparmio economico: è vero che la cifra da mettere in bilancio sarà di circa 200 milioni di dollari all’anno per ogni Paese, vale a dire circa 2 miliardi di dollari nell’arco di un decennio, ma è anche vero che queste campagne porteranno grandi benefici per le casse dei vari Stati visto che gli incidenti stradali valgono, da soli, dall’1 al 3 per cento del Pil di ogni Paese. Una cosa difficile da far capire a chi ci governa come è stato difficile convincere gli automobilisti a usare la cintura di sicurezza.

postilla
Forse al lettore di Eddyburg basta tornare un istante a una non lontanissima polemica di tipo paesaggistico, per cogliere la possibile parzialità e squilibrio di questa idea di sicurezza stradale, pur articolata su vari punti strutturali e comportamentali. Polemica sul paesaggio che riguardava quelle norme del Codice della Strada che, se applicate alla lettera, avrebbero eliminato virtualmente qualsiasi alberatura, in quanto ostacolo a tracciati e curvature sicure, visibilità eccetera. E del resto sempre in nome di una guida sicura vediamo tante nuove arterie realizzate in territori rurali assumere forme piuttosto surreali con opere e accessori che fanno a pugni col contesto, dai doppi guard-rail zincati, agli accessi poderali ridotti a feritoie, e via dicendo. Basta questo esempio, che riguarda appunto solo ed esclusivamente questioni estetiche e di inserimento visivo, tra le tante, per sottolineare quanto quei cinque punti citati (gestione, veicoli, comportamenti, servizi, contesti) debbano e possano evitare poi di assumere forme distorte e parziali. Come per esempio l’analoga campagna per salvare i ciclisti viene spesso rigidamente interpretata (anche ai sensi del solito Codice della Strada inadeguato) esclusivamente per promuovere opere per costosi percorsi riservati di dubbia utilità, sia per il territorio che per la sicurezza. Insomma, quando si ragiona su qualcosa, considerarne la complessità aiuta a non combinare guai, anche con le migliori intenzioni (f.b.)

Si veda in questo sito anche Antonio Cederna col suo Caccia all’Albero (1966) e relativi links

«I dati dell’Ispra smentiscono, per l’ennesima volta, la presenza di un nesso causale tra edilizia e necessità di abitazioni: in una spirale perversa le città perdono abitanti, ma guadagnano case, vuote e sfitte». La Repubblica, 4 maggio 2015

NEMMENO la grande crisi ha fermato l’unica impresa comune nella quale gli italiani delle ultime generazioni sembrano essersi coalizzati: il consumo irreversibile del sacro suolo della patria. Cioè il più evidente dei nostri vari suicidi collettivi.

È questa la più impressionante tra le moltissime notizie contenute dal rapporto 2015 sul consumo di suolo che dopodomani sarà reso pubblico dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, l’Ispra. Nel 2014 abbiamo “tombato” col cemento altri duecento chilometri quadrati di suolo: ogni giorno perdiamo 55 ettari, ogni secondo ci giochiamo tra i 6 e i 7 metri quadrati di futuro. In totale il suolo consumato in Italia è arrivato a quota 21mila chilometri quadrati, cioè il 7 per cento del territorio.
Dai numeri dell’Ispra appare consolidata la tendenza per cui, dal 2008, il Nord Ovest guadagna (cioè perde...) terreno rispetto al Nord Est. In altre parole, si costruisce di più proprio nelle regioni che negli ultimi anni hanno pagato, per il cemento, il prezzo più alto in termini di vite umane e di danni materiali: la Liguria, per esempio. I numeri del cemento vanno, infatti, incrociati con quelli del brusco cambiamento climatico e del conseguente aumento del rischio idraulico e geologico. In un convegno sul Cambiamento climatico, rischio idrogeologico e pianificazione urbanistica tenutosi recentemente all’Università di Firenze, il meteorologo Andrea Corigliano ha notato che «dei 74 eventi alluvionali totali italiani che si sono verificati dal 1951, 55 si sono manifestati dopo il 1990 e ben 26 solo negli ultimi quattro anni». In altre parole, gli effetti dell’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera (nel 2014 la più elevata degli ultimi 800 mila anni) si stanno sommando a quelli del sigillamento del terreno: e la conseguenza sono le devastanti alluvioni urbane, che tutto sono tranne che una catastrofe naturale.
Di naturale c’è davvero poco, in questa nostra folle corsa al cemento. I dati dell’Ispra smentiscono, per l’ennesima volta, la presenza di un nesso causale tra edilizia e necessità di abitazioni: in una spirale perversa le città perdono abitanti, ma guadagnano case, vuote e sfitte. E se nel 2014 il suolo consumato per ogni cittadino italiano sembra, per la prima volta, lievemente scendere, non è perché si costruisca di meno, ma è a causa della ripresa demografica, dovuta in grandissima parte all’immigrazione. Come una specie di terribile peccato originale, i “nuovi italiani” si addossano un consumo statistico di suolo davvero impressionante: circa un chilometro quadro a testa!
E non si deve pensare che il Mezzogiorno sia esente dalla peste grigia del cemento. Dopo Lombardia e Veneto si attestano immediatamente la Campania e la Puglia.
Ed è impressionante - ma non sorprendente - vedere che la regione del Crescent (il più incredibile scempio edilizio della Penisola, che ha sfregiato la città e il paesaggio di Salerno per volontà del sindaco Vincenzo De Luca, ora candidato alla presidenza della regione) nel 2013 si è cementificata più di Toscana, Emilia Romagna, Lazio: con una percentuale che si attesta tra il 7,8 e un mostruoso 10,2 per cento del territorio.

Di fronte a queste cifre, appaiono un balsamo le parole del nuovo ministro per le Infrastrutture Graziano Delrio, il quale ha subito promesso che si costruiranno solo opere utili (ovvio? No, sarebbe rivoluzionario), e che si romperà con la legislazione d’emergenza pro-cemento made in Maurizio Lupi. Ma c’è da fidarsi?
Il disegno di legge sulla “semplificazione” presentato dal presidente del consiglio Matteo Renzi di concerto con la ministra Marianna Madia promette, al contrario, di aggravare le conseguenze del micidiale Sblocca Italia, voluto da Lupi e fatto approvare da Renzi nello scorso novembre. Si tratta di una legge delega che - se approvata - permetterà, tra l’altro, al governo di estendere il micidiale meccanismo del silenzio-assenso (già sostanzialmente dichiarato anticostituzionale nel 1986) anche «alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico- territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini» (articolo 3). Facile immaginare cosa succederà, in un Paese che ha smantellato e reso inefficienti le sue “magistrature del territorio”: saranno più veloci i permessi alle opere inutili legate ad interessi privati. E che dire dell’articolo 2, che delega il governo a introdurre il principio della decisione a maggioranza nelle conferenze dei servizi? Gli interessi dell’ambiente e della salute dei cittadini saranno in maggioranza o, come sempre, in minoranza?
La battaglia contro il cemento si perde prima nelle leggi corrotte, e poi sul territorio: dipende dall’azione del governo Renzi ciò che leggeremo nel prossimo rapporto Ispra. O il governo invertirà la rotta, o leggeremo che ci siamo suicidati ancora un po’. La scommessa sarebbe facile: ma sul futuro dei nostri figli non si può scommettere.

Si metta il cuore in pace, chi ancora pensa che in qualche modo il «problema periferie» possa avere qualche tipo di sbocco nella trasformazione qualsivoglia dello spazio fisico. Corriere della Sera, 29 aprile 2015, postilla (f.b.)

A Ferguson il problema, oltre alla violenza degli agenti, era stato identificato nella mancanza di rappresentanza: sindaco e capo della polizia bianchi nel sobborgo nero di St Louis. Ma a Baltimora il sindaco è una donna di colore figlia di un venerato leader della battaglia per i diritti civili: una democratica che ha deciso di andare fino in fondo nell’accertamento delle responsabilità delle forze dell’ordine per la morte di Freddie Gray, giovane afroamericano morto il 12 aprile per fratture vertebrali patite durante l’arresto. E il capo della polizia — Anthony Batts, anche lui nero — ha già accusato i sei agenti che hanno arrestato Gray: responsabili quantomeno di omesso soccorso. Per questo è finito nel mirino del sindacato degli agenti.

A Baltimora, a differenza di Ferguson, la famiglia della vittima non ha soffiato sul fuoco della rivolta, chiedendo pace e proteste composte. I leader religiosi, compatti, hanno spinto la gente ad esprimere la loro rabbia in modo civile. E, quando sono cominciati i saccheggi, i pastori cristiani sono scesi in piazza: insieme ai capi musulmani di Nation Islam sono andati a tirare fuori i ragazzi neri dai negozi devastati, rimandandoli a casa.

Baltimora non è Ferguson. Eppure qui la rivolta è stata per certi versi addirittura peggiore di quella scoppiata nella cittadina del Missouri: saccheggi e roghi in pieno giorno, bande di ragazzi a volto scoperto, gang divise da un odio profondo che si alleano per tendere agguati alla polizia. E così lo stato d’emergenza, l’arrivo di soldati e blindati della Guardia Nazionale e il coprifuoco, si stampano come un marchio indelebile su una città gloriosa, con un grande retaggio storico e culturale, che dista appena 40 chilometri dalla capitale, Washington.

Perché? Una risposta viene anche dalle foto-simbolo della giornata di follia di questa metropoli del Maryland: madri afroamericane che si vanno a riprendere i figli, ragazzini nei loro hoodie — le felpe con cappuccio — neri. Hanno un’aria minacciosa, ma queste madri-tigre, dolorosamente diverse da quelle asiatiche che spingono i figli sul sentiero dell’eccellenza scolastica, li prendono per il collo: volano schiaffi, li allontanano a spintoni da saccheggi e roghi. Ragazzi cresciuti nell’abbandono degli slum , in famiglie spesso devastate. Molti di loro non hanno mai conosciuto l’autorità paterna. E le madri-lavoratrici, che tirano fuori le unghie con disperazione per cercare di evitare che si mettano nei guai, possono fare poco per non farli bivaccare sui marciapiedi del ghetto. Per evitare che la scuola sia solo un parcheggio senza speranza (ammesso che la mattina ci si presenti in classe).

Così il ponte sull’autostrada che collega la periferia di West Baltimore dove sorgono le Gilmor Homes, desolato quartiere di case popolari nelle quali è cresciuto Freddie Gray, col centro e la Baltimore University, anziché un collegamento, finisce per essere una frontiera. Di là il ghetto, di qua la società bianca e affluente. La distanza tra i due mondi non è solo di condizione economica, con povertà e disoccupazione che dilagano nei quartieri occidentali: i neri che hanno voglia di studiare e discrete capacità riescono a ottenere borse di studio e a laurearsi. Ma in un tessuto sociale così devastato, in quartieri infestati dalla droga e dalla disillusione, chi vuole emanciparsi deve avere una grande forza interiore: lavorare sodo senza una famiglia alle spalle e sfidare amici che lo trattano da «traditore», uno che aspira a una vita da bianco.

È anche per questo che, un anno dopo la creazione di una task force della Casa Bianca per affrontare i problemi razziali, le sommosse continuano a ripetersi e, ora, arrivano fino alle porte della capitale. Il primo comandamento distillato dai saggi di Obama: il poliziotto del Ventunesimo secolo deve essere un guardiano della società che difende l’ordine, ma è anche attento a conquistarsi la fiducia della comunità. Parole che non hanno diminuito la durezza degli interventi degli agenti negli inferni suburbani d’America: almeno dodici neri disarmati uccisi negli ultimi 18 mesi. E, mentre a Baltimora gli afroamericani dicono «basta», ad Annapolis — altra periferia di Washington, quella bianca delle accademie militari — si manifesta a sostegno della polizia che «fa un duro lavoro per proteggere i cittadini e non deve farsi intimidire».

postilla
Ci risiamo, con la questione periferie, e all’osservazione di Gaggi secondo cui «Baltimora non è Ferguson» si potrebbe automaticamente aggiungere che no, certo, e neppure la banlieu parigina, o i quartieri misti di Londra teatro dei saccheggi qualche estate fa, ogni caso è differente, ha caratteri propri salvo quella connotazione comune della «periferia». Riavvolgendo il nastro però salta anche all’occhio quanto parlare di periferia ed evocare le solite immagini di degrado edilizio e urbanistico possa essere fuorviante. Anche solo rivedendo brevemente i contesti citati, si tratta di luoghi e sistemi diversissimi sul versante della collocazione, dell’organizzazione, della qualità. Abbastanza estremo poi il caso di Ferguson, dove manca del tutto anche la solita scenografia dei palazzoni un po’ grigi e dei giardinetti spelacchiati da periferia standard. Il che dovrebbe di nuovo ribadire il concetto: se qualche architetto vuole riprogettare panchine e spazi pubblici, se qualche urbanista o sociologo vuole impegnarsi in processi di partecipazione e animazione su tematiche di degrado locale, niente di male, anzi. Ma sempre sapendo che il loro lavoro col «problema periferie» c’entra piuttosto marginalmente: non capirlo, non riconoscerlo, continuare a sfruttare quel disagio per dispiegare professionalità varie, potrebbe anche finire per fungere da cortina fumogena, e non è una bella cosa (f.b.)

«Una Biennale sempre più grande, in una città sempre più spettatrice». Sempre più sfacciata la cessione ad altri di pezzi del plurisecolare patrimonio cittadino. La Nuova Venezia, 18 aprile 2015 (m.p.r.)

I luoghi di Venezia a chi li vuole e sa prenderseli. Nell’assenza - da tempo - di una politica comunale sui suoi spazi inutilizzati che non sia la loro semplice messa in vendita (in genere a prezzi di saldo) per tappare le «falle» del bilancio, e nel vuoto di rappresentanza rappresentato dalla gestione commissariale, stanno inserendosi nell’ultimo anno una serie di operazioni patrimoniali e immobiliari che riguardano pezzi di città. Ci sono quelle puramente speculative della stessa Cassa Depositi e Prestiti - come riferiamo a parte - che pure è una società pubblica, o dei privati, dal Fontego dei Tedeschi con la gestione Benetton al complesso dell’ex Pilsen ceduto dal Comune per consentire la realizzazione, in corso, di uno «store» della Zara. E ci sono quelle più «illuminate» e intelligenti che sta conducendo la Biennale sotto la presidenza di Paolo Baratta, che si avvia alla sua conclusione. Baratta ha già avuto il grande merito di avviare storicamente - nel corso della sua prima presidenza della Biennale - il recupero dell’Arsenale, quando esso era in stato di avanzato degrado, con il recupero di pezzi importanti della parte sud, ottenuti in concessione e recuperati a fini espositivi per le mostre della fondazione, grazie anche ai fondi della Legge Speciale, da oltre quindici anni.
Ora quegli stessi spazi - il complesso delle Corderie, quello delle Artiglierie, il Teatro Piccolo Arsenale, le Tese cinquecentesche, le Tese delle Vergini, delle Gaggiandre e le Tese dell'Isolotto Sud - sono di fatto diventati della Biennale, grazie alla concessione trentennale (ma prolungabile) siglata con il Comune e il Demanio, dopo che è stata la stessa legge del 2012 che ha riconsegnato al Comune l’Arsenale, a prevederlo. Ma Baratta che, a differenza del Comune, ha le idee molto chiare su come utilizzare queste aree, non si accontenta. E così nella convenzione, appena approvata dal commissario Vittorio Zappalorto in Consiglio comunale, che assegna alla Biennale gli spazi che occupa dell’Arsenale Sud, c’è anche il complesso delle Sale d’Armi, che non era tra quelli previsti con la legge del 2012, ma che la precedente amministrazione comunale aveva ceduto in concessione alla fondazione.
Ora allargati anche alla parte sud del complesso, sempre per destinarli a nuove sedi di padiglioni stranieri che ne sono privi e che li restaureranno a proprie spese, come hanno già fatto, ad esempio, il Sudafrica e l’Argentina. Spazi ceduti in concessione permanente - si spiega a Ca’ Farsetti - perché la legge del 2012 sull’Arsenale consente comunque di cedere spazi di proprietà comunali per attività culturali, come quelle - di indiscutibile livello - che la Biennale svolge. E ci sarà presto - con un’apposita convenzione - anche il Giardino delle Vergini, mantenendone la fruizione pubblica. Potrebbe accadere lo stesso, presto, anche per il Giardino della Marinaressa, in Riva dei Sette Martiri, recentemente passato - con il federalismo demaniale - in proprietà al Comune, dopo essere stato dell’Autorità Portuale. Qui sono in corso lavori di ristrutturazione - contro cui si scaglia l’ex consigliere comunale di Fratelli d’Italia Sebastiano Costalonga - in vista dell’ospitalità per sei mesi di una mostra collaterale della Biennale di una scultrice americana. Ma anche questo potrebbe diventare in un prossimo futuro, uno degli spazi permanenti di una Biennale sempre più grande, in una città sempre più spettatrice.

Si terrà a Venezia il 20-21 aprile 2015 presso l'Università Iuav di Venezia. Globalproject.info, 15 aprile 2015 (m.p.r.)

L’autorecupero è una modalità di intervento che prevede l’ “autorganizzazione” della società civile ed è finalizzata a restituire all’uso beni pubblici e non, compromessi da degrado fisico causato da sottoutilizzo o da vero e proprio abbandono. Sono differenti le condizioni e i modi in cui si esplica, diversi i soggetti che lo propongono e lo attuano; così come possono esserlo le risposte in reazione – fra accettazione e rifiuto - a tali pratiche da parte delle istituzioni preposte al governo urbano. Fa parte di un insieme di “modi d’agire”, attraverso cui cittadini esperti e autorganizzati, in Italia, rivendicano il proprio diritto all’abitare, inteso anche come forma di resistenza proattiva all’espulsione dalla città di soggettività non intercettate e/o penalizzate dai controversi risvolti delle tradizionali – e poco aggiornate - politiche di welfare (in particolare quando il bene in questione è la “casa”).

L’interesse per l’autorecupero, come pratica alternativa e opzione preferibile di riutilizzo, risiede oggi nell’incapacità degli enti locali di gestire con efficacia parti considerevoli del patrimonio immobiliare pubblico, motivata anche dagli alti costi dei lavori necessari, secondo norme e istituzioni, a riadattare gli edifici; di converso, i diversi casi, fra autorecupero e autocostruzione. nel workshop posti allo studio, possono essere considerati come vere e proprie sperimentazioni di modelli sostenibili e a basso costo, capaci di ribaltare -attraverso il coinvolgimento diretto dei futuri abitanti nel cantiere- l’illogicità limitante del profitto privato, della spesa pubblica e di una qualità solo presunta, che norme e consuetudini spesso sganciate alle reali necessità, sostengono. Non ultimo, da rilevare è il valore che a tali esperienze si assegna per gli effetti capacitanti dei soggetti coinvolti, tanto nella costruzione di reti di relazione comunitaria che di scambio di competenze, siano esse tecniche che di cittadinanza.

“Autorecupero e abitare”, pertanto, inteso non solo come un’azione mirata per il riutilizzo di un bene collettivo ma anche come pratica virtuosa capace di generare forme di aggregazione e solidarietà con effetti sulla comunità locale, sull’ambiente urbano e sulle modalità - alternative – di abitarlo; ciò, restituendolo come effettivo spazio politico, capace di esprimere un’opinione in merito ai bandi regionali di accesso agli immobili, alle svendite dei beni comuni, all’abbandono del patrimonio pubblico (a partire dalla casa), al drenaggio di risorse economiche e ambientali delle grandi opere e della cementificazione del territorio.

Il workshop, pertanto, è da intendersi sia come occasione per il riconoscimento di competenze di cui sono portatrici tali esperienze e i soggetti che le hanno promosse e attuate, sia come opportunità per l’elaborazione condivisa di un “manifesto operativo” dell’autorecupero come modalità effettivamente praticabile per il ri-abitare la città.

Workshop del ciclo “on Self-Managment City. Collective Movement(s) and Shared Spaces” Workshops and Seminars a cura di Ruben Baiocco, DPPAC, Iuav. Qui il programma

La Orte-Mestre in pista: PD, Lega, NCD e FI contro il ritiro del progetto megautostradale, tra i più devastanti del decennio. Comunicato Rete nazionale Stop OR_ME, 15 aprile 2015

Il Governo toglie dal DEF la Orte-Mestre, ma i partiti di maggioranza mantengono in pista la nuova autostrada. Ieri alla Camera erano infatti in votazione le mozioni parlamentari del Movimento 5 Stelle e di SEL che chiedevano il ritiro definitivo del progetto, e che se fossero state approvate avrebbero scritto la parola “fine” sulla Orte-Mestre.

Peccato che PD, NCD e FI, sempre uniti quando si tratta di grandi opere”, abbiano votato contro respingendo i due documenti; a dar loro manforte anche la Lega Nord che infatti in Veneto, con in testa il presidente Zaia, continua a sponsorizzare la Romea Commerciale e tutte le altre nefandezze partorite nell’epoca di Galan e Chisso.

Ma non è tutto, perché sia il gruppo parlamentare della Lega che quello del PD hanno presentato sullo stesso tema delle mozioni alternative molto ambigue; e se la proposta della Lega è stata respinta per ragioni di schieramento, quella del PD è invece passata a larga maggioranza con voto bi-partisan. Nel testo approvato, oltre a difendere lo strumento truffaldino del “project financing”, si chiede al Governo di trasformare la Romea in una non meglio precisata “arteria veloce a basso impatto ambientale” che con ogni probabilità sarà a pagamento.

A sostegno di questa iniziativa numerosi onorevoli del PD eletti in Veneto come, il segretario del PD regionale Roger De Menech, Andrea Martella, Michele Mognato e l’ex presidente della Provincia di Venezia Davide Zoggia. Incredibile poi che tra i firmatari della mozione figuri anche Ermete Realacci, il presidente onorario di Legambiente, già protagonista del voto favorevole sullo Sblocca Italia, nonostante l'associazione si sia schierata contro l'opera.

Il segnale politico che esprime questo voto è fin troppo chiaro: mettiamo in congelatore la Orte-Mestre fino a quando si saranno calmate le acque agitate delle varie inchieste in corso, poi al momento opportuno la scongeliamo con il microonde.

“Li aspettavamo al varco – commentano Rebecca Rovoletto e Lisa Causin di Opzione Zero - perché sapevamo che del Governo Renzi e della sua maggioranza non ci si può mai fidare: il fatto che l’opera non sia inserita nel DEF rallenta per ora l’iter di approvazione del progetto, ma fino a quando la Orte-Mestre rimarrà nel PIS (Piano delle Infrastrutture Strategiche) non potremmo mai abbassare la guardia, e il voto di ieri lo dimostra”.

Va giù duro anche Mattia Donadel, presidente del comitato: “Non se ne può più di questa politica viscida e putrefatta. Le forze politiche che ieri alla Camera hanno votato contro il ritiro definitivo della Orte-Mestre bocciando le mozioni presentate da SEL e Movimento 5 Stelle ora devono assumersi tutta la loro responsabilità di fronte ai cittadini. Non daremo loro tregua, smaschereremo in ogni occasione la loro ipocrisia. Invitiamo fin da ora i nostri sostenitori e in cittadini a non votare per questi partiti, per chi continua con la logica delle grandi opere e della devastazione del territorio, a cominciare dal PD , dalla Lega Nord e dai loro candidati alla presidenza Moretti e Zaia”.

Riferimenti
Tra i numerosi documenti su eddyburg vedi l'articolo di Luca Martinelli, quelli di Paolo Cacciari, e di Daniele Martini,.

Laggiù qualcosa si muove. mette le radici. Cresce. Dall'emarginazione nascono nuove centralità, germogli d'un possibile mondo nuovo. Comune.info, 11 aprile 2015

Scampia non è solo Le vele, peraltro in via di demolizione, location per telefilm sulla camorra e fondale per le visite dei papi a Napoli. É un quartiere-dormitorio di centomila abitanti, dove manca tutto, persino uno sportello bancario, ma non la voglia di riscatto. Qui opera il più longevo centro sociale autogestito d’Italia, il Gridas. Qui è rinata per iniziativa di un gruppo di giovani la casa editrice Marotta & Cafiero (con cui Comune ha diffuso Vie di fuga, ndr). Qui sono state organizzate le prime Piazze di economia solidale senza mercanti. Qui è nato il gruppo

Risveglio dal sonno che con l’artista Felice Pignataro dette vita al carnevale di Scampia: L’utopia per le strade. Qui, tredici anni fa, un gruppo di otto studenti universitari costruirono una baracca in uno dei campi rom del quartiere, con il loro aiuto e le loro tecniche costruttive. Gli dettero nome “Scuola giungla” e diventò un avamposto dove comunità rom e non rom (gagiò) hanno imparato ad ascoltarsi, a partire dai bambini.“Parlare di integrazione ha il sapore di una formula burocratica – dice Barbara, una delle fondatrici, trent’anni, due figli uno in arrivo – La relazione semplicemente avviene, attraversa spazi, coinvolge persone, mette in moto azioni, e qualche volta piccole rivoluzioni”.

L’ultima è una vera start-up di impresa, La Kumpania (progetto pluripremiato nel campo delle attività di innovazioni sociali e dell’antidiscriminazione razziale) che ha dato vita al Chikǔ il primo ristorante italo-romanì dove lavorano otto donne, quattro rom e quattro no. Cucinano ricette che combinano sapori, memorie, storie, percorsi biografici e geografici che vanno da Napoli ai Balcani: ghibaniza, moussaka, spezie di vegeta e fritture napoletane. Menù e prenotazioni su: www.chiku.it, tel.0810145681, Viale della Resistenza, Comparto 12, Scampia.

Le attrezzature di cucina sono arrivate grazie ad alcune fondazioni bancarie, lo stabile, con affaccio sul grande parco della Villa comunale, è stato assegnato in comodato dal Comune, il mobilio è stato realizzato in autoproduzione con fantastici materiali di riciclo. Al Chikǔ ha sede anche l’associazione di promozione sociale Chi rom e… chi no, che si occupa di ricerca e formazione sui temi dell’educazione rivolta all’infanzia, agli adolescenti e adulti rom, italiani e stranieri. Ha realizzato un piccolo abbecedario italiano/romanes con le parole degli affetti e dell’accoglienza, illustrato da bambini. É in funzione anche uno sportello legale per la tutela dei diritti. Di tutti.


Paolo Cacciari è autore di articoli e saggi sulla decrescita e sui temi dei beni comuni. Questo articolo è stato pubblicato anche su Left. Il nuovo libro di Paolo Cacciari, Vie di fuga (Marotta&Cafiero) – un saggio splendido su crisi, beni comuni, lavoro e democrazia nella prospettiva della decrescita – è leggibile qui nella versione completa pdf (chiediamo un contributo di 1 euro).

Un'altra delle micidiali formule inventate per trasferire, con la copertura della legge, risorse pubbliche a rapaci mani private è una legge non solo criminale ma generatrice di crimini. Si provvederà finalmente a cassarla? Lupi non lo avrebbe fatto. Vediamo il suo successore. Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2015

Il presidente dell’Anac Cantone ha definito criminogeno l’istituto contrattuale utilizzato per realizzare le grandi opere della legge obiettivo. Una magra consolazione per chi ne ha descritto questo carattere fin dalla sua codificazione nel 2002. Dopo i recenti arresti e le sciocchezze sciorinate sul tema dal ceto politico che, dopo 13 anni, scopre che il contraente generale produce quello che fin dall’inizio era del tutto evidente, merita comunque chiarire bene il punto.

La definizione è stata data con la legge obiettivo (443/2001) in questo modo: “Il contraente generale è distinto dal concessionario di opere pubbliche per l’esclusione della gestione dell’opera eseguita”. Nella relazione introduttiva al decreto legge 190/2002, con il quale si è dato corpo alla definizione, si arriva addirittura a sostenere che questa nuova figura è espressamente prevista nelle direttive europee. Una pura e semplice invenzione.

Nelle direttive i contratti tipizzati sono il contratto di “appalto” e quello di “concessione”. Della concessione è data una definizione inequivocabile: “La concessione di lavori pubblici è un contratto che presenta le stesse caratteristiche dell’appalto a eccezione del fatto che la controprestazione dei lavori consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo”. La differenza fondamentale con il contratto di appalto è data dalla “controprestazione” offerta al contraente. Nell’appalto è un “prezzo”, mentre nella “concessione” consiste “nel diritto di gestire l’opera”. La definizione del contraente generale ci propone invece un soggetto per il quale l’oggetto del contratto è quello della concessione mentre il corrispettivo è esattamente quello dell’appalto. La stessa definizione era già stata sperimentata negli Anni 80 e, a fronte dei fallimenti registrati, indusse il Parlamento ad intervenire con la sua cancellazione, considerando proprio questa come uno dei pilastri fondamentali di tangentopoli. Le funzioni affidate dalla legge obiettivo al contraente generale sono esattamente quelle che il legislatore definì nel 1987 con la legge n. 80 (Norme straordinarie per l’accelerazione dell’esecuzione di opere pubbliche).

A proporre la norma fu il ministro dei Trasporti dell’epoca (Claudio Signorile, tecnico di fiducia Ercole Incalza) con l’esplicita motivazione di utilizzare tale procedura per le infrastrutture per il Treno ad Alta velocità. I contratti erano definiti dalla legge “concessioni di progettazione e sola costruzione” con l’esplicita esclusione della gestione.

Concessioni analoghe furono adottate anche nella sanità. In questo caso gli analoghi compiti affidati ai contraenti generali assumevano la forma della cosiddetta “concessione di committenza”. Su queste concessioni il Parlamento intervenne con una legge ad hoc, la 492/1993, con la quale si stabiliva addirittura l’annullamento retroattivo delle concessioni che il ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino, di concerto con quello della Sanità Francesco De Lorenzo, aveva affidato a tre general contractor. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nella relazione al Parlamento sui meccanismi di Tangentopoli (luglio 1992), proprio in relazione alle distorsioni della concessione, scriveva: “La pratica degli affidamenti in concessione per l’esecuzione di opere pubbliche si è sviluppata in aperto contrasto con le norme comunitarie (e con la stessa normativa nazionale di recepimento) che limitano la figura della concessione ai soli contratti nei quali il corrispettivo delle attività svolte dal concessionario è rappresentato, in tutto o in parte, dal diritto di gestire l’opera realizzata. In base a tali norme, quindi, tutte le diverse forme di concessione a costruire, non accompagnate dalla gestione dell’opera, devono ritenersi equiparate all’appalto e come tali regolate”. Non a caso, nel complessivo riordinamento della materia, con l’emanazione della legge quadro sui lavori pubblici anti-tangentopoli (l. 109/94), furono espressamente soppresse sia la concessione di committenza che quella di sola costruzione.

La legge obiettivo per le grandi opere ha semplicemente resuscitato queste concessioni anomale attribuendo al contraente generale una condizione di assoluta libertà prevedendo espressamente che il contraente generale: “Possa liberamente affidare a terzi l’esecuzione delle proprie prestazioni”. Può affidare a trattativa privata qualsiasi attività come e a chi vuole.

La non responsabilità sulla gestione dell’opera determina una assenza di interesse anche sulla qualità e affidabilità dell’opera. Mentre nel caso dell'appaltatore questi esegue l’opera sulla base di un progetto esecutivo ed è sottoposto a un controllo costante del committente in fase di esecuzione attraverso il direttore dei lavori, nel caso del contraente-generale invece il controllo della esecuzione è in capo a esso stesso con tutte le conseguenze ovvie di tale paradossale situazione.

Nei casi delle opere nelle quali i contraenti generali hanno affidato la direzione dei lavori alla società dell’ing. Perotti tutti questi caratteri anomali della relazione contrattuale si ritrovano interamente e puntualmente. Come si ritrovano puntualmente ed inevitabilmente fenomeni di relazioni corruttive. A oltre 12 anni dalla introduzione nel nostro ordinamento di un istituto contrattuale palesemente criminogeno, non solo le forze politiche e le associazioni di rappresentanza delle imprese e dei lavoratori, ma addirittura l’Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici prima e l’Autorità per Vigilanza sui contratti pubblici dopo non si sono mai espresse in merito consentendo l’applicazione di una norma palesemente criminogena che ha già prodotto enormi danni erariali, ambientali e sociali. Già nel 2006, nel programma elettorale del centrosinistra, vi era l’impegno a cancellare questa norma. Rimase lettera morta. Chissà se questa sarà la volta buona.

Prosegue indefessa la ricerca per rafforzare la "infrastruttura globale" rete di siti d'eccellenza e connessioni veloci materiali e immateriali, costruita per i pochi che detengono potere e ricchezza, e i loro servi più prossimi. Servizio di Sergio Pennacchini e commento di Michele Smargiassi, la Repubblica, 29 marzo 2015

Da Los Angeles aSan Francisco in quarantacinque minuti e, in futuro, dalla Grande Mela fino a Pechino (passando dall’Alaska) in due ore e mezza. In treno, o qualcosa di molto simile. Ecco il sogno di Elon Musk, imprenditore seriale americano con una passione per la tecnologia e un sogno nel cassetto: costruire un treno capace di muoversi a una velocità di oltre mille chilometri orari, con la promessa in futuro di arrivare fino a cinquemila chilometri all’ora. Il vulcanico Musk, “il Tony Stark d ei nostri tempi” secondo il Time , dopo aver rivoluzionato i pagamenti con PayPal, scosso l’industria dell’automobile con l’elettrica Tesla e siglato un accordo con la Nasa per portare astronauti nello spazio con il suo razzo SpaceX, potrebbe stravolgere il modo in cui ci spostiamo con Hyperloop, un treno a levitazione magnetica che viaggerà dentro un tubo di vetro a bassa pressione, senza la resistenza dell’aria. Sembra fantascienza o una boutade per farsi un po’ di pubblicità. Ma Musk ha intenzioni serissime.

«Per velocizzare lo sviluppo di Hyperloop, costruiremo un tracciato di prova» ha twittato il presidente di Tesla. Verrà realizzato vicino alla cittadina di Quay Valley, negli Stati Uniti, e sarà lungo circa otto chilometri. Servirà a mettere alla prova l’idea dell’imprenditore americano. Il treno è composto da capsule capaci di trasportare ventotto persone, che siedono quasi sdraiate. Sui tubi saranno installati dei pannelli fotovoltaici. Il convoglio accelera lentamente per arrivare alla velocità di crociera, in modo da proteggere al massimo il comfort dei passeggeri. I “binari” saranno costruiti all’interno di speciali tubi di vetro a bassa pressione: l’assenza quasi totale dell’aria annullerà la resistenza aerodinamica e permetterà a Hyperloop di raggiungere velocità da fantascienza. Le carrozze si muoveranno grazie alla levitazione magnetica, una soluzione importante anche per la sicurezza perché garantirà sempre la giusta posizione della capsula all’interno del tubo, impedendole di toccare le pareti.

Hyperloop Transportation Technologies, la società fondata per portare a compimento la visione di Elon Musk, conta di completare il tracciato e il primo test entro il 2018. E non è l’unica a credere nel treno “sottovuoto” come il mezzo di trasporto più rapido del nostro futuro. Negli Stati Uniti infatti c’è chi promette di raggiungere velocità ancora superiori: la ET3 sta sperimentando una soluzione simile a quella di Hyperloop, con l’obiettivo di raggiungere una velocità di seimila e cinquecento chilometri orari. Quanto basta in teoria per coprire la distanza dagli Stati Uniti alla Cina in meno di due ore con un progetto che è per il momento solamente teorico, che prevederebbe il passaggio attraverso un tunnel di novantuno chilometri sullo Stretto di Bering tra Alaska e Russia fino all’Asia.

Entrambi questi progetti sfruttano la levitazione magnetica. Una tecnologia che elimina l’attrito che si crea tra le ruote e i binari creando un campo gravitazionale che di fatto solleva il treno e lo fa scivolare in avanti. L’assenza di attrito con i binari permette di raggiungere velocità nettamente superiori rispetto ai sistemi tradizionali. Una soluzione antica, sperimentata già a inizio Novecento negli Stati Uniti, ma che fino a oggi non ha trovato molte applicazioni. Sono poche le tratte commerciali in cui già si usa, e sono tutte molto brevi, come la linea che collega l’aeroporto internazionale di Pudong con Shanghai: circa trenta chilometri a levitazione magnetica per il treno più veloce del mondo con quattrocentotrentuno chilometri orari di velocità di crociera. «Il problema della levitazione magnetica è che oltre certe velocità la resistenza dell’aria si fa troppo forte e il sistema diventa poco efficiente», scrive sul suo blog il dottor Deng Zigang dell’università di Jiaotong, in Cina. «A quattrocento all’ora l’ottantatré per cento dell’energia prodotta viene sprecata per colpa dell’aria che diventa sempre più densa». Il dottor Zigang sta lavorando a un progetto simile a quello di Hyperloop, denominato Super-Maglev, che si pone come alternativa per il trasporto del futuro. «Per essere davvero efficienti e commercialmente vantaggiosi, i treni a levitazione magnetica devono poter raggiungere velocità molto superiori e l’unica strada possibile è ridurre al massimo la resistenza dell’aria viaggiando dentro tubi a bassa pressione», conferma il dottor Zigang.

In Giappone, però, non sono d’accordo. La Central Japan Railway Company ha da poco concluso i primi test del nuovo Shinkansen a levitazione magnetica, trasportando cento persone su un tracciato di ventisette miglia alla velocità di oltre cinquecento chilometri orari. L’obiettivo è collegare le città di Tokyo e Nagoya entro il 2027, per poi allargare la rete “maglev” a tutto il paese sostituendo le linee esistenti e, di fatto, accorciando i tempi di percorrenza del quaranta per cento. Quando entrerà in servizio, sarà il treno più veloce del mondo con una velocità di crociera di cinquecentotré chilometri orari. Il Giappone potrebbe essere la prima nazione ad adottare la levitazione magnetica anche sulle lunghe distanze. Eppure, secondo Zidang, il punto non è tanto unire Roma e Milano, per questo tipo di distanze il treno è già oggi una valida alternativa all’aereo. «Quello che noi vogliamo fare è creare un treno in grado di connettere continenti in poche ore, di viaggiare a velocità supersoniche per arrivare dal centro di New York al centro di Londra. Con un mezzo di trasporto che è più veloce, economico e rispettoso dell’ambiente rispetto agli aerei», conclude. «Ci vorrà del tempo, ma ci arriveremo».

Intanto toccherà accontentarsi del treno su binari. Per ora il più veloce del mondo è l’Agv della Alstom, lo stesso utilizzato dalla compagnia italiana Italo. Raggiunge i trecentosessanta orari. Ancora pochini...

MI ACCONTENTEREI
DEL BOLOGNA-MODENA IN 28 MINUTI

di Michele Smargiassi

BEH, CERTO, PIACEREBBE ANCHE A ME f re l’esperienza del trenosiluro, scivolare in quei tubi senza attrito come una supposta di glicerina hi-tech, farmi risucchiare come uno stantuffo in un concerto di fruscii dentro una capsula di posta pneumatica... Se una cosa del genere si può ancora chiamare treno, avrei pure qualche prelazione da vantare: secondo i miei calcoli prudenziali, ormai ho viaggiato in treno per l’equivalente di sette giri del mondo, tra casa e università, poi tra casa e lavoro. Ecco, sarebbe meglio se il fantatreno, invece di scarrozzarmi da New York a Pechino, tratta che diciamo frequento un po’ poco, mi portasse semplicemente al lavoro, ogni giorno, lungo quei 40 chilometri che conosco a memoria. Ci metterebbe 28,8 secondi. Suvvia, gliene concedo anche 30, per far cifra tonda. Ma questi sogni non possiamo permetterceli noi pendolari, sono roba da trascontinentali, da ceto globale business class. È per loro che il mondo viene deformato nelle sue relazioni spazio-temporali, avvicinando New York a San Francisco più di Modena a Bologna. Un mappamondo ridisegnato secondo i tempi di viaggio non sarebbe più una sfera ma una mostruosità bitorzoluta dove gli spazi corti sono i più lunghi e quelli lunghi si contraggono fin quasi a sparire. Li voglio vedere, però, i businessmen appena scesi dai loro proiettili prendere un taxi a Pechino e accorgersi che ci vuole più tempo a raggiungere l’albergo nell’ora di punta che a fare il giro del mondo. Chissà poi se si può leggere un libro, dentro la pallottola-treno, non saprei, se si può sonnecchiare guardando il panorama dal finestrino, direi di no, chissà se l’ansia dell’ipervelocità lascia il tempo di godersi quel tempo inutile del viaggio, quello che gli ingegneri cercano affannosamente di far implodere, credendo di farci un favore, per liberarci dal peso dell’inazione, mentre noi che ne abbiamo perso tanto, di tempo, sui treni, abbiamo imparato che il tempo inutile del viaggio è un tempo diversamente utile, guadagnato, strappato all’agenda, un tempo che siamo costretti a dedicare a qualcosa che nel tempo utile-utile non abbiamo il tempo di fare: anche solo parlare un po’ con noi stessi. Ma no, lasciatemelo allora, questo tempo obbligato e liberato, non li voglio i vostri 28,8 secondi, mi accontento dei 28 minuti da tabella dei miei “regionali veloci” (che soave ossimoro), ecco, mi basterebbe che fossero davvero quelli, e non diventassero 38, o 48, o 58, come accade quasi tutti i giorni. “Trenitalia si scusa per il disagio”, mi basterebbe trovare un posto a sedere in carrozze pulite, con bagni funzionanti e porte che si aprono. Lo so, lo so, è fantascienza. Ma lasciateci sognare, noi pendolari incalliti, mentre sonnecchiamo con la fronte appoggiata al finestrino di un treno superlento.

Riferimenti
A proposito del nuovo assetto del'habitat dell'uomo vedi gli scritti di Saskia Sassen e di David Harvey raccolti in eddyburg, inserendo i nomi degli autori nel "cerca in cima alla pagina. Vedi anche nella cartella "città quale futuro?", nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg. Vedi anche l'articolo di E,. Salzano "Il territorio globale".

L'attenzione alla vita quotidiana e lo spirito critico sono due buoni punti di partenza per scoprire le magagne della città e della società, e intravedere i modi per la loro neutralizzazione. La Città Conquistatrice, 29 marzo 2015

Stanotte in Europa abbiamo tirato avanti le lancette degli orologi, inaugurando tecnicamente e ufficialmente l’offerta primavera-estate del nostro sistema socioeconomico. Sui giornali a questo proposito leggiamo che la European society for biological rithms (Esbr) ha promosso un appello per l’abolizione dell’ora legale, che come dimostrato da anni e anni di ricerche sconvolge il nostro orologio biologico, con gravi ripercussioni sulla salute. Facilmente immaginabile però, lo si precisa, non è tanto la questione dell’ora legale in sé ad essere dannosa, ma lo sfasamento artificialmente indotto fra ritmi biologici rigidamente individuali, e quelli massificati altrettanto rigidamente alieni imposti dalla civiltà industriale.

La stessa che, interpretata per parecchi decenni dalle culture ingegneristiche e urbanistiche prevalenti, ha prodotto la macchina urbana che attorno a noi ci scandisce volenti o nolenti quei ritmi, sonno, veglia, ora di punta e di morta, pausa, ripresa …
Più o meno a metà di questo percorso sadomasochistico è entrata in campo l’automobile, componente strutturale della Grande Macchina Metropolitana ma dotata di una propria individualità (e forse meccanoritmo, corrispondente al nostro bioritmo) in grado di iniziare a modificare l’ambiente a sua immagine e somiglianza. L’ha fatto con tanta efficienza e pervasività, da farci ormai accettare alcuni eventi come fossero destino immutabile, a cui adeguare la nostra sensibilità, e non l’ennesima pazzia sado-maso.

Cronaca di una fotocopia annunciata

Ieri due donne sono state falciate da un’auto nel centro della carreggiata, in cima a un cavalcavia di Milano. L’automobilista si è immediatamente fermato a soccorrerle, ma non c’è stato niente da fare. Di sicuro qualsiasi polemica e discussione pubblica sull’evento si esaurirà una volta verificato se ci sono o meno estremi di colpevolezza per il conducente riguardo alla velocità, che essendo la strada urbana è di 50kmh.

E resta però aperta una duplice questione. La prima riguarda i ritmi inconciliabili fra la velocità dei mezzi e quella degli esseri umani, identica alla discrasia fra il ritmo della produzione (l’ora legale) e quello individuale (l’orologio biologico). La seconda riguarda le forme specifiche dell’ingranaggio urbano che ci sballotta tutti quanti, quando andiamo a notare come quell’incidente sia la fotocopia esatta di quello che un paio d’anni fa suscitò infinite polemiche: la donna incinta falciata da un “pirata” mentre attraversava le corsie del viale di circonvallazione, verso la fermata dell’autobus sull’altro lato. Anche le due donne falciate in cima al cavalcavia, tentavano di raggiungere una analoga fermata, identicamente posta nel punto di minima visibilità e massima velocità dei veicoli.
Ma c’è dell’altro, ed è il contesto: siamo sul medesimo anello di circonvallazione, anche se a qualche chilometro di distanza, ma soprattutto siamo su un identico innesto di raccordo autostradale alla viabilità ordinaria: le zone di massima frizione fra i due “bioritmi”, della città auto-oriented e del pedone vivente (almeno finché non arriva in contatto col ritmo del cofano).

Aboliamo l’ora legale dell’automobile

E viene per l’ennesima volta da chiedersi: si poteva evitare? O meglio, si potrebbe evitare, sempre, di mettere le condizioni per cui si sviluppano tutte le situazioni di contesto in cui aumenta la probabilità di un incidente simile? C’è una carreggiata larghissima, un dislivello (nel primo caso un cavalcavia, in quello precedente un sottopassaggio a svincolo) che fa crollare la visibilità degli automobilisti, e due fermate del mezzo pubblico sui due lati della stessa carreggiata, carreggiata che in un modo o nell’altro le auto interpretano come prolungamento della non lontana corsia autostradale, anche se siamo in pieno in un quartiere urbano.

Di norma, qui arrivano la mente ingegneristica e/o lo psicologismo comportamentale più conservatori, a dirci le solite cose: è vietato attraversare la strada se non c’è il passaggio pedonale, c’è il cartello col limite di velocità, e se proprio vogliamo si deve mettere una passerella, o altro tipo di infrastruttura dedicata per i pedoni. Tra le infinite repliche suggerite dalla pura evidenza, si risponde a questi psicoingegneri (di solito improvvisati) che le auto comunque superano regolarmente e di molto quella velocità, che anche restando nei limiti una botta da cinquanta all’ora di un cofano nella panza fa malissimo, e che anche dove si sono realizzate costose passerelle marchingegno, la gente continua a non usarle, a rischiare la pelle e a volte lasciarcela.
Che si fa? Ragioniamo contro l’evidenza, come quelli del vendicativo reato di omicidio stradale, o cominciamo anche noi con l’abolizione dell’ora legale automobilistica? Ovvero, ripensiamo gli spazi, regoliamo gli orologi senza penalizzare nessuno, salvo certa idiozia meccanicista che ci ha guidato troppo a lungo nell’autoflagellazione, a nostra insaputa.

mettete un Mi Piace sul profilo Fb La Città Conquistatrice
qui in Eddyburg l'incidente citato di qualche anno fa è descritto in Città: coraggio, fatti ammazzare

Poco a poco emerge il vero scandalo: non è l'affollamento di marioli nel palcoscenico della politica, ma il fatto che si decidano opere che non servono a vivere meglio e far funzionare meglio il territorio, ma solo ad arricchire i corrotti. Un servizio di Giorgio Meletti e un commento di Marco Ponti. Il Fatto quotidiano, 21 marzo 2015

INFINITE E COSTOSE
ECCO LE OPERE INUTILI A SPESE DEICITTADINI
di Giorgio Meletti

Da Orte-Mestre a Expo: i progetti che non hanno mai sentito la crisi, finanziati da tutti i governi

L’ arma retorica è sempre la stessa, il “partito del no” come male assoluto. Meno di un mese fa Raffaella Paita, candidata Pd alla Regione Liguria, l’ha sfoderata per difendere il Terzo Valico, una ferrovia inutile che da 35 anni fa sognare il partito del cemento. “Quando una forza di sinistra dice no al Terzo Valico fa una cosa di destra”. Errore blu. Nessuno a destra dice no al Terzo valico. A meno che non si sostenga che la Procura di Firenze abbia fatto una cosa di destra arrestando il capo del “partito del sì”, Ercole Incalza.

In attesa del vaglio giudiziario sulla sua presunta corruzione, sotto processo insieme alle persone fisiche ci sono proprio le grandi opere. Non perché in esse si può essere annidato il ma- laffare, ma proprio perché è il malaffare – stando ai primi risultati dell’inchiesta fiorentina – a farle decidere e progettare. E soprattutto a farle piacere ai politici, di destra, centro e sinistra: quando c’è da far colare cemento dissanguando le casse dello Stato vanno sempre d’accordo. I pm di Firenze indicano gli scempi con nomi e cifre. Dei progetti indagati ce ne sono quattro fondamentali.

I LAVORI PER L’EXPO di Milano, un paio di miliardi già spesi, rappresentano plasticamente il primo cancro dei lavori pubblici all’italiana: i tempi infiniti. Ormai è tardi per dare lo stop, ma è tardi anche per l’Expo: inizia a maggio e i padiglioni dell’esposizione non saranno pronti. La disperata accelerazione finale dei cantieri fa impennare i costi, ed è il secondo cancro. Terminare i lavori per l’Expo dopo l’Expo sarà l’apoteosi dell’inutilità, il terzo cancro.

IL TERZO VALICO è affetto da tutti e tre i cancri. Tempi biblici: l’opera fu annunciata come necessaria e urgente nel 1982 dai presidenti di Lombardia e Liguria, Giuseppe Guzzetti e Alberto Teardo. Il primo è oggi padre-padrone delle Fondazioni bancarie. Il secondo, antesignano del craxismo disinvolto, fu arrestato poco dopo il fatidico annuncio.

Infatti il Terzo Valico porta male. Dopo Teardo sono finiti in galera quasi tutti i principali tifosi della grande opera inutile, da Luigi Grillo (democristiano, poi berlusconiano, infine alfaniano, per anni presidente della commissione Lavori pubblici del Senato) a Claudio Scajola. L’opera piace anche a sinistra: prima di Paita l’ha sostenuta per vent’anni il governatore uscente della Liguria, Claudio Burlando. La grande opera non cammina senza accordi trasversali: tutti si danno ragione e rispondono con le supercazzole a chi osi chiedere perché si butti tanto denaro per niente. Adesso tocca a Matteo Renzi metterci la faccia e dire se ha senso spendere 6,2 miliardi per una ferrovia di una sessantina di chilometri che collegherà il porto di Genova con la ridente Tortona. Dicono che servirà a far defluire meglio i container dal porto di Genova, ma non spiegano perché spendono 60 milioni a chilometro per una ferrovia ad alta velocità: vogliono mandare i container a 300 all’ora? Ecco il quarto cancro: progetti vaghi, approssimativi.

IL TUNNEL SOTTO FIRENZE dell’alta velocità ferroviaria ha un costo previsto di 1,5 miliardi ed è simbolo della progettazione alla speraindio. Tanto che l’inchiesta da cui scaturisce l’arresto di Incalza parte dalla Italferr, società di progettazione di Fs. Nel settembre 2013 hanno arrestato la presidente Maria Rita Lorenzetti, politica ammanigliatissima che si vanta nelle intercettazioni di poter mettere tutto a posto grazie ai rapporti con Incalza. E da mettere a posto c’era un progetto che fa acqua da tutte le parti per un’opera voluta a tutti i costi dopo decenni di dubbi sulla sua fattibilità. L’hanno fermata i magistrati un anno e mezzo fa.

LA ORTE-MESTRE è affetta da tutti i quattro cancri già detti più un quinto, il peggiore: il project financing, la finzione del finanziamento privato che serve solo a rinviare alle prossime generazioni la presentazione del conto. Come dimostra il caso Brebemi, se si consente ai privati di farsi prestare i soldi da banche che pretendono e ottengono la garanzia dello Stato, è chiaro che il rischio dell’operazione pesa sul contribuente. Se, come nel caso della Brebemi, l’affare va male, lo Stato viene chiamato a pagare tutto. La Orte-Mestre - figlia del centro-destra veneto e della sinistra emiliana guidata da Pier Luigi Bersani - costerà 10 miliardi, due dei quali pubblici. Sugli otto miliardi privati c’è garanzia dello stato? Il promotore Vito Bonsignore (uomo Ncd con amicizie trasversali) giura di no. Ma i documenti che potrebbero rassicurare i contribuenti sono segretati, perché così vogliono le sacre regole del project financing. Scritte dal loro profeta, Incalza.

LE VERE COLPE DEL MINISTERO
SPRECARE MILIARDI
È ANCHE PEGGIO CHE RUBARE
di Marco Ponti

Forse non hanno rubato niente. Ma hanno fatto danni economici molto più gravi al Paese, ai contribuenti e agli utenti delle infrastrutture. Consideriamo la “madre di tutti gli sprechi”, l’alta velocità ferroviaria (AV). Le stime variano, ma i sovracosti rispetto ai preventivi sono stati dell’ordine del 100%. C’è da credere che un manager privato che sfori il preventivo di un investimento del 30% sia rapidamente accompagnato alla porta dal padrone furioso, ma non succede lo stesso nel settore pubblico, sembra.

PARTE DI TALI SOVRACOSTI sono frutto di una nobile iniziativa ambientalista: richiedere alle linee AV pendenze e curvature che consentano il transito anche dei treni merci, ha comportato un sovracosto almeno del 30%, così il progetto accanto alla sigla AV ci ha potuto mettere anche AC (per Alta Capacità), a futura memoria. Peccato che treni merci in grado di viaggiare ad alta velocità non esistono. E se ci fossero sfascerebbero i binari. Poi la Regione Toscana, con uno sforzo di fantasia veramente incredibile, ha chiesto ed ottenuto che le gallerie tra Firenze e Bologna consentissero anche il transito di treni merci supervoluminosi (sagoma C++), dilatando ulteriormente, e di molto, i costi per quella tratta.

Se qualcuno però avesse dubbi sull’ordine di grandezza di tali extracosti, esiste la famosa analisi comparativa del Sole 24 Ore tra la linea Milano-Torino, e una analoga linea AV di pianura in Francia (non in Bangladesh): i costi sono risultati quadrupli. Basta vedere gli infiniti sovrappassi stradali, che collegano risaie con altre risaie. Ogni tanto vi transita qualche veicolo. Ma purtroppo la linea ferrovia- ria è rimasta quasi deserta: vi passa poco più del 10% del traf- fico che potrebbe sostenere (40 treni al giorno su 330 circa di capacità). E questo con tariffe che coprono probabilmente appena i costi di esercizio della linea, ma nemmeno un euro degli 8 mi- liardi circa che l’investimento è costato ai contribuenti. Se le tariffe, come per le autostrade, do- vessero coprire una quota di qualche consistenza dell’investimento, e quindi essere molto più alte delle attuali, non vi passerebbe nessun treno, a riprova di quanto poco i viaggiatori siano in realtà disposti a pagare per quel servizio.
Ma nessuno ha risposto per questo folle spreco dei nostri soldi. Anche le autostrade deserte sono uno spreco, ma nei peggiore dei casi gli utenti ne pagano il 60%, che è diverso dallo 0% per la linea di AV presa ad esempio. Però adesso anche nelle autostrade, meno micidiali per i contribuenti, provano a spremere gli utenti rendendo a pedaggio strade che prima non lo erano, come la Tirrenica, e che hanno un traffico modesto.

NEL CASO DI TUTTE LE INFRASTRUTTURE, occorre fare sempre congetture, rischiando di prendere cantonate: le ferrovie non hanno obblighi di fare analisi trasparenti ex-ante, né economiche e neppure finanziarie (toccherebbero al ministero dei Trasporti, che però non le fa). Ma non fa neppure analisi ex-post, per analizzare come i soldi dei contribuenti sono stati spesi. E i piani finanziari delle concessioni autostradali sono addirittura secretati per legge. Queste sono responsabi- lità gravissime del ministero dei Trasporti. Da sempre: la situazione non è cambiata da quando vi lavora l’ingegner Ercole Incalza, che, si ripete, forse non ha rubato nemmeno un euro.

Guardiamo ancora i numeri: solo per la linea AV Milano-Torino sono stati sprecati 6 miliardi (probabilmente di più: dato il traffico, bastava velocizzare la linea esistente). La letteratura sulle tangenti parla di un massimo del 10% (a chi scrive, ex-consulente delle ferrovie, era stato detto in via confidenziale un più modesto 6%, ma era la sola quota per i politici). Sarebbero 800 milioni di tangenti. Molto meglio allora le tangenti che le progettazioni sovradimensionate al di là di ogni logica. Se poi va male, i corrotti a volte li prendono.

Chi decide, pianifica, finanzia e approva grandi opere inutili non dovrà rispondere mai, farà anzi probabilmente carriera, e si farà legittimamente molti amici, tra i costruttori e nella sfera politica, che serve ai tecnici per passi successivi di carriera. Ma il consenso e le amicizie si estendono anche alla sfera sindacale, che ha sempre appoggiato grandi spese, si spera solo per motivi occupazionali.

BUTTAR VIA soldi dei contribuenti per comprarsi il consenso è storia antica: in America ha persino dei nomi tecnici: “pork-barrel policy”, “revolving doors”, “logrolling”. Ma buttarli via quando son scarsi, e servono a bisogni sociali essenziali, è un po’ più difficile da accettare. L’ex ministro Maurizio Lupi, sicuramente in buona fede, ha dichiarato: “Per le grandi opere non serve che ci sia traffico, si fanno e poi il traffico arriverà”. Era un convegno del Pd sulle ferrovie. Applausi scroscianti.

Le politiche urbane, anche se a ben vedere non paiono affatto integrate e orientate, sostengono stili di vita sostenibili. Che andrebbero sostenuti anche di più, in fondo non ci vuol molto a coordinare alcuni interventi. La Repubblica Milano, 11 marzo 2015, postilla (f.b.)

Anomalia milanese. Mentre in tutta Italia il mercato dell’auto si riprende, con un +4,2 per cento delle immatricolazioni nel 2014 rispetto al 2013, qui gli acquisti delle nuove auto continuano a scendere di un -1,4 per cento. È la combinazione di vari fattori: dalle politiche contro la congestione e in favore della mobilità sostenibile, al mutamento delle abitudini dei milanesi dopo anni di crisi. Esultano gli ambientalisti: «Non ci aspettavamo un dato ancora in calo, era normale attendersi un rimbalzo. Adesso bisogna rendere i mezzi pubblici sempre più competitivi»

Come si spiega quindi la diversa tendenza? Gli ambientalisti non hanno dubbi: «Significa che a Milano sta succedendo qualcosa di importante — spiega Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia — non solo la gente rinvia sempre di più la sostituzione della vecchia auto, ma molti stanno andando verso la rottamazione definitiva delle quattro ruote». E se anche la riduzione si sta assottigliando, il numero è comunque una buona notizia per chi da anni chiede politiche per abbattere il tasso di motorizzazione in Lombardia, uno dei più alti d’Italia. «Dopo il lungo periodo di crisi del settore delle auto — aggiunge Di Simine — era legittimo aspettarsi una ripresa delle vendite o comunque un assestamento. Che però a Milano non c’è stato. E anche il dato regionale è ben al di sotto di quelle che erano le nostre aspettative».

Andando a vedere nel dettaglio le cifre che riguardano le immatricolazioni sulla base dell’alimentazione, si ha poi un altro indizio sui nuovi criteri che i milanesi usano nella scelta dei mezzi. Il calo più sensibile lo fanno registrare le immatricolazioni delle vetture più inquinanti a diesel (—1,5 per cento) e a benzina (—4,2 per cento), mentre sono in netta crescita — sebbene con numeri assoluti più contenuti — le ibride, in particolare quelle benzina+elettrico, passate dalle 1.130 vetture del 2013 alle 1.588 del 2014. Numeri che certificano quindi come il mercato delle auto a Milano sia particolarmente influenzato dalle misure anti-inquinamento, sia dei divieti regionali ai diesel, sia dalle restrizioni alla circolazione imposte dal Comune. Tra le cause del calo generale c’è poi anche l’esplosione dei servizi di car sharing che rendono per molte famiglie inutile l’acquisto della seconda auto.

Una vittoria, per i promotori della mobilità sostenibile, su cui però è bene non adagiarsi troppo. «Il modo per consolidare questa tendenza — aggiunge Di Simine — è far sì che i trasporti pubblici siano un’alternativa valida per il cittadino rispetto all’uso dell’auto. Per molti, purtroppo, questa è ancora un mezzo necessario per recarsi a lavoro, ad esempio. Bisogna avere un trasporto pubblico competitivo per l’utenza, ed è una competizione che deve essere fatta all’auto privata. Quindi bisogna avere il coraggio di dire basta agli appalti eterni: i servizi di Tpl si mettano a gara, e che sia una gara vera. Il problema del trasporto pubblico non è tanto il volume dei trasferimenti di risorse piuttosto la scarsa competitività degli operatori del settore».

“Il mercato cambierà ancora chi abita fuori non rinuncia”, intervista a Fabio Torta

Fabio Torta, già docente di economia dei trasporti al Politecnico, adesso direttore di Trt, società di consulenza sulla mobilità.
Lei cosa ne pensa di questi dati? Quali sono le cause di questa tendenza opposta rispetto al dato nazionale?
«A una prima valutazione, direi che possono esserci varie motivazioni. La prima è che il parco veicolare lombardo è alto in termini percentuali rispetto alla popolazione. Siamo in una delle regioni in cui il livello di motorizzazione è tra i più elevati d’Italia. E probabilmente è anche più recente e di qualità maggiore. Motivo per cui alcune famiglie magari hanno fatto il cambio auto in tempi pre-crisi, o comunque più recentemente rispetto al resto del paese».

Le misure anti inquinamento e per la mobilità sostenibile secondo lei c’entrano?
«Sicuramente sì. Le politiche contano. Non a caso a diminuire sono principalmente le vendite di auto a diesel che possono circolare sempre meno, mentre per le elettriche che sono in crescita, ad esempio, è rimasta la deroga in Area C. Infine c’è il car sharing che per molti è un incentivo a non acquistare una seconda autovettura».

Cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro?
«Sicuramente ci saranno delle oscillazioni. Le grandi aziende stanno investendo miliardi nel settore delle auto, sia per renderle più tecnologiche sia concentrandosi su forme di alimentazione alternative alla benzina. Motivo per cui ci si potrà aspettare una ripresa del mercato, magari non da subito. Anche perché oltre a chi vive in città bisogna pensare a chi sta fuori, nell’hinterland. Se anche il Comune investe molto nei mezzi pubblici, per queste persone l’automobile resta un mezzo di trasporto fondamentale».

postilla
Forse vale la pena sottolineare ancora una volta quanto pesino, in questo relativo “stupore” per la mancata ripresa del mercato automobilistico, stili di vita e aspettative dei cittadini, oltre che naturalmente una serie di investimenti infrastrutturali che si vorrebbero quantomeno più coordinati di quanto non siano oggi. E quanto potrebbe pesare ciò che qui non si nomina, ma invece entra massicciamente nel conto, ovvero il ruolo delle telecomunicazioni che va ben oltre i messaggini tra amici o qualche email spedita col telefonino per avvisare del ritardo causa ingorgo. Se l'ambiente che ci circonda lo consente, ovvero se la metropoli e i suoi servizi la smettono di essere tarati su misura per l'auto, i suoi spazi, i suoi tempi (pensiamo alla spesa, alla scuola, al tempo libero, oltre che al lavoro) pare quasi naturale che l'istinto umano riprenda il sopravvento. E al tempo stesso, come ci ricorda l'intervista al trasportista, per il mondo della dispersione insediativa la soluzione sostenibile dovrà essere diversa, proprio perché si tratta di un universo cresciuto al 100% attorno all'auto, che ne può fare parzialmente a meno per alcuni aspetti, ma appunto solo per alcuni. Forse, se il governo delle dinamiche territoriali, e la promozione di quelle sociali virtuose, terrà conto in modo equilibrato delle possibilità offerte dalle tecnologie, alla scala dei bacini urbani di pendolarismo attuali e potenziali, emergeranno ulteriori “sorprendenti” comportamenti collettivi, visto che la sostenibilità o meno dipende esattamente dalla sommatoria di quegli aspetti, nessuno escluso (f.b.)

Scenari futuri di mobilità collettiva: l'auto senza pilota. Ma siamo proprio sicuri che l'unica innovazione sia quella di poter pasticciare col telefonino o leggere il giornale mentre si viaggia? Corriere della Sera, 7 marzo 2015, postilla (f.b.)

«Forse sarebbe meglio definirla passività del tempo libero». Chissà se il filosofo Eric Fromm, nell’anno 2023, riterrebbe ancora l’automobile una camicia di forza, un abito stretto, una sovrastruttura prodotta dalla società dei consumi. Tra meno di dieci anni l’uomo non dovrà più guidare la propria vettura. Ci penserà da sé, disintermediando le nostre abilità al volante e (anche) le nostre disattenzioni. Cinquanta minuti al giorno in più per noi — calcola un profetico studio della società di consulenza Mc Kinsey presentato in questi giorni al Salone internazionale di Ginevra —, noi guidatori per diletto o per imposizione, noi 1,2 miliardi di persone. Risparmio globale complessivo: 140 mila anni uomo.

Benvenuti nell’era della guida senza conducente. Procede a tappe forzate il progresso, spinto dagli investimenti dei colossi hi-tech come Google e dei grandi produttori automobilistici, consapevoli che quel differenziale di costo — circa 10mila euro a prototipo — sia il vero lusso del futuro. Immaginate che la vostra auto si converta in un moderno Frecciarossa. Amanti del libro o con il tablet di ordinanza, asserviti al vostro smartphone o tremendamente innamorati dei quotidiani avete davanti a voi almeno un’ora al giorno di consumi elettronici o culturali. Aggiuntivi. Al posto dei vostri occhi, delle vostre mani e dei vostri piedi troverete sofisticati sistemi radar, delicatissime camere per acquisizioni video in tempo reale per leggere la carreggiata senza patemi. In sintesi: sistemi di intelligenza artificiale utilizzati ora solo nella robotica industriale. Secondo Michele Bertoncello, associate partner di Mc Kinsey, curatore per l’Italia della ricerca, a fregarsi le mani saranno soprattutto i produttori di videogiochi. E le grandi major americane dell’intrattenimento, che presumibilmente amplieranno a dismisura il loro giro d’affari in un tempo ora giudicato inutilizzabile. L’ipotesi che è l’automobile a guida automatica possa persino incrementare la condivisione, i giochi di società e quelli di ruolo, la fruizione di talk-show e contenuti in streaming.

D’altronde finora il maggiore interrogativo riguardava l’individuazione di una sorta di «conducente a riposo», in grado di intervenire in caso di emergenze ripristinando la guida manuale. Rileva lo studio Mc Kinsey che le vetture in circolazione dal 2023 — dopo una prevista sperimentazione su camion e veicoli industriali da qui a quella data — saranno perfettamente in grado di fare autodiagnostica senza la necessità dell’intervento umano. Soprattutto perché gli investimenti dei produttori e delle società hi-tech saranno talmente ingenti da raggiungere straordinarie economie di scala in grado di raggiungere la cosiddetta «massa critica del mercato», cioè circa il 90% dei modelli di automobile ora in circolazione. Non sarà pertanto un servizio a valore aggiunto di nicchia. Tutt’altro. Perché sicuramente non interessa i marchi di lusso ed extra-lusso: le case automobilistiche eviteranno infatti di portare l’intelligenza artificiale su pochi prototipi. Al tempo stesso la guida automatica con buona approssimazione non riguarderà nemmeno il segmento low-cost delle utilitarie. Perché la clientela non sarebbe in grado di permetterselo. Gli osservatori concordano che la guida automatica sarà uno straordinario propulsore della sharing economy. Start-up come Uber, capaci di generare ricavi da capogiro in pochi anni, verranno emulati su larga scala, perché porterà a un importante risparmio sul costo del lavoro. Il (nuovo) tempo libero della guida senza conducente porterà però allo sparizione di posti di lavoro? O meglio: che fine faranno gli autisti di mezzi di linea e di operatori privati? Qui lo studio non contabilizza l’effetto in termini occupazionali, ma la sensazione è che l’avveniristica (e terrificante) analisi dell’università di Oxford secondo la quale il 47% dei lavoratori odierni potrebbe essere automatizzato nei prossimi due decenni, sembra calzare perfettamente a pennello. Presto per dire se ci troveremo di fronte alla cancellazione di un’intera filiera, certo è che l’auto a guida automatica porterà con sé anche la consacrazione definitiva dei veicoli elettrici. Ecco perché potremmo anche giocare comodi alla playstation davanti al volante, ma non dovremo sicuramente dimenticare di ricaricare la vettura prima di un lungo viaggio.

Nell’economia del tempo risparmiato rientra anche il guadagno in fase di parcheggio, incubo di molti alle prese con i centimetri da ricavare dopo infinite manovre perché noi saremo semplici osservatori di mosaici perfetti. Secondo Mc Kinsey ricalibreremo anche la toponomastica. Perchè le aree adibite alla sosta dei veicoli saranno sensibilmente ridotte, addirittura si risparmierà solo negli Stati Uniti circa 5,7 miliardi di metri quadri di suolo urbano. Tempo libero guadagnato anche in fase di manutenzione, perchè l’auto automatica andrà in officina da sola, al netto delle complicazioni riguardanti i pagamenti (qui sarà impossibile non essere presenti con la propria carta di credito). Resta il dubbio sulla responsabilità civile in caso di danni. Presumibilmente i colossi assicurativi, con l’abbattimento degli incidenti, riconvertiranno anche le loro strategie (e i loro massimali). Resta l’interrogativo sulla passività (o l’attività) del tempo. Non saremo più schiavi dell’auto ma dei videogiochi? E se Fromm fosse ancora contemporaneo?

postilla
Vorremmo, come l'autore dell'articolo, partire da una considerazione filosofica: non solo esiste ancora, e sempre, una distinzione tra destra e sinistra, tra conservazione e progresso collettivo, ma si tratta di una distinzione evidente anche nella fantascienza. Anzi, che distingue la fantascienza autentica dalla letteratura di evasione commerciale vagamente fantasy. Sostenevano infatti i critici del genere (in testa il leggendario Theodore Sturgeon) che fare davvero science fiction non potesse significare ambientare una storia in uno scenario artificiale, determinato da qualche genere di fatto tecnologico o ambientale, dove l'azione però si sviluppava secondo canoni del tutto classici. Ovvero, come per esempio succede nei cartoni animati dei Flintstones (gli Antenati) o dei Jetsons (i Pronipoti) girare un telefilm suburbano, dove le villette e i supermercati sono semplicemente fatti di pietra grezza, oppure a reazione atomica. Il vero futurologo racconta le eventuali conseguenze dell'innovazione, guardando davvero avanti, così come in fondo aveva fatto probabilmente anche l'innovatore stesso. L'automobile senza autista, con buona pace dei venditori di videogiochi e assimilati, apre scenari inediti per la mobilità, i produttori, e soprattutto la collettività, intesa sia come cittadini/consumatori che come le istituzioni che li rappresentano. A partire da una considerazione apparentemente banale, che però sfugge a tantissimi: con un mezzo che si muove senza pilota, si potrebbe eliminare in tutto o in parte (con una adeguata programmazione e intervento pubblico) la barriera storica fra mobilità individuale e collettiva. In pratica si potrebbe già oggi pensare a una sorta di fusione tra i sistemi attuali di car sharing e quelli di autobus, magari legandoli allo sviluppo parallelo di una rete di rifornimento da energie rinnovabili, e ovviamente allargando il sistema anche agli insediamenti a non altissima densità, oggi esclusi. Ma bisognerebbe appunto pensarci: alcuni produttori già lo fanno, parlando di progressiva demotorizzazione; lo fa anche qualcun altro? Speriamo proprio di si (f.b.)

Forse è giunta l'ora di affidare ai privati, per project financing, la realizzazione e gestione delle istituzioni, fino a oggi attribuita al popolo dalla costituzione della Repubblica italiana. Il Sole 24ore, "Edilizia e Territorio", 3 marzo 2015

Per la prima volta un carcere in project financing. Accadrà a Bolzano: la Società Italiana per Condotte d'Acqua – in raggruppamento temporaneo di imprese con Inso (società controllata dal Gruppo Condotte) – si è aggiudicata la gara della Provincia autonoma (il bando era del 15 luglio 2013) per la progettazione, la costruzione e gestione della nuova casa circondariale della città altoatesina.
Il valore complessivo della gara è di 54 milioni di euro, il 67% dei quali a carico del privato (36,18 milioni) e il rimanente 33% (17,82) a carico del pubblico. La durata della concessione sarà di 18 anni, di cui due anni e tre mesi previsti per la realizzazione dell'opera. La struttura – che sorgerà nella zona sud di Bolzano, vicino all'aeroporto, su un'area di 18mila metri quadrati – potrà ospitare 220 detenuti, 100 operatori di polizia penitenziaria, con 30 posti per agenti in caserma e 25 unità di personale civile. Fuori dalla cinta muraria – precisa una nota di Condotte – sono previsti il controllo accessi, la direzione e i relativi alloggi e la sezione dei detenuti semiliberi. All'interno, invece, oltre alla sezione di reclusione, saranno ricavati l'infermeria, gli spazi per il lavoro, una sala polivalente, un campo da calcio a sette, una palestra, la cucina e la lavanderia.
La fase gestionale prevede più servizi: la manutenzione ordinaria e straordinaria, la gestione delle utenze, i servizi mensa, lavanderia e pulizia, nonché la gestione delle attività sportive, formative e ricreative. «È una novità assoluta in Italia – commenta Duccio Astaldi , presidente di Condotte – e ci affascina l'idea di essere pionieri in questo settore, come ci è più volte capitato nella nostra storia in mercati e Paesi diversi. L'eterogeneità dei servizi previsti dalla gara non è un problema, ma al contrario esalta la nostra natura di general contractor».

Quelli che Condotte gestirà per la nuova casa circondariale di Bolzano sono servizi che il terzo general contractor italiano già svolge in altre situazioni. Nel caso specifico del carcere di Bolzano, sono richiesti protocolli di sicurezza molto stringenti. I detenuti, oltre a essere impiegati in alcuni servizi interni (mensa, pulizia), saranno coinvolti in laboratori teatrali e musicali e in corsi professionalizzanti. Ora è solo questione di tempi: si parte dalla conferenza dei servizi per poi giungere all'approvazione del piano esecutivo definitivo.

Il capitale punta sugli italiani ricchi e spendaccioni. Intanto, chi paga è il territorio. Il Sole-24 Ore, 2 marzo 2015

I centri commerciali scommettono contro la crisi e proseguono nei loro piani di sviluppo con oltre venti progetti. Nel prossimo triennio sono in arrivo circa un milione di metri quadri di spazi commerciali che avranno un valore a portafoglio tra i 4 e i 5 miliardi
«Sono ripartiti i cantieri e il 2015 sarà l' anno della svolta», dice Massimo Moretti, presidente del Consiglio nazionale dei centri commerciali. Un piano da circa un milione di metri quadri di spazi affittabili. I centri commerciali scommettono contro la crisi e inseguono lo sviluppo del comparto con 22 nuovi progetti in essere, di cui nove in fase di costruzione e i restanti allo stato progettuale.
Operazioni che una volta ultimate avranno un valore finale a portafoglio tra i 4 e i 5 miliardi.

Questa la stima di Massimo Moretti, presidente di Cncc, il Consiglio nazionale dei centri commerciali, che raggruppa anche i parchi commerciali e i factory outlet, commentando l' elenco dei progetti: «Negli ultimi due anni sono ripartiti i cantieri e il 2015 sarà l' anno della svolta, con l' inaugurazione di importanti centri, in uno scenario ben intonato». È l' atteso rimbalzo dopo il tracollo subìto all' inizio della crisi, quando il comparto ha accusato le conseguenze del credit crunch.
Quando questa ondata di nuovi shopping center sarà ultimata il settore supererà i 18 milioni di metri quadri di superfici disponibili con un aumento del 6 per cento. La maggior parte delle operazioni sono promosse da capitali esteri. «L' 80% degli investitori sono stranieri, anche se fanno fatica a muoversi tra le autonomie locali e le leggi regionali del commercio che frenano lo sviluppo - aggiunge Moretti -.Per operare serve maggiore omogeneità».

Tra tutti i progetti spiccano due mall che si preannunciano colossali. Il primo è il Westfield Milan, promosso da Arcus Real Estate (controllata da Stilo immobiliare finanziaria, holding delle attività immobiliari di Percassi) e il colosso australiano Westfield. Sorgerà a pochi chilometri dall' aeroporto di Linate e inizialmente si svilupperà su una superficie di circa 170mila metri quadri, che diventeranno circa 250mila nella fase 2. Nel complesso un progetto da 1,3 miliardi di euro: un villaggio del lusso con circa 50 boutique, oltre al department store Galeries Lafayette, il primo in Italia. C' è poi il centro commerciale Pescaccio a Roma, oltre 135mila metri di spazi commerciali, a cui si aggiungeranno un cinema multisala e aree multifunzionali. Nella capitale si lavora anche al Centro commerciale Laurentino e all' area di Selva Candida.
Nei dintorni di Milano sono in fase avanzata i lavori dell' Arese shopping center, progetto del Gruppo Finiper di Marco Brunelli, che sorgerà negli spazi della ex fabbrica dell' Alfa Romeo. Un investimento da oltre 300 milioni per creare un polo dello shopping con 200 negozi e un tratto distintivo forse unico al mondo: un circuito automobilistico storico. «A maggio verrà inaugurato il tracciato della pista di collaudo» anticipa Francesco Ioppi, direttore real estate del Gruppo Finiper. Lo shopping center verrà invece inaugurato nel primo semestre 2016.
«La fase di prenotazione degli spazi è avanzata e prevediamo di chiuderla a giugno - continua Ioppi -. Ci saranno brand innovativi, non ancora presenti in Italia». Oltre a riqualificare un' area industriale il mall avrà un bassissimo impatto ambientale «grazie alla certificazione Leed gold».
Anche nel Mezzogiorno si stanno sviluppando diverse iniziative, ma di dimensioni inferiori, in media tra i 30 e i 45mila metri di spazi commerciali. Due i centri in Puglia, a Bari e a Foggia; in Campania è previsto il Policentro Afragola, nei dintorni di Napoli, mentre a Catanzaro è prevista La Perla shopping center. È entrato nella fase 2 il Sicilia outlet village (Gruppo Percassi), che così raggiungerà i 145 store.
Altri centri commerciali sono previsti a Trento, a Faenza, in provincia di Ravenna, e ben tre nei dintorni di Verona. Come in una partita a dama il commercio moderno sta conquistando tutte le province della penisola.


© 2025 Eddyburg