E difficile per la ragionevolezza e l'interesse dei più prevalere sulla follia e sugli interessi dei potenti. Il mondo sembra appartenere ai matti e ai rapaci. Eppure si resiste. La Città invisibile, 1° ottobre 2015
Il progetto TAV fiorentino è sempre più screditato: due pesantissime inchieste in corso, un processo appena iniziato dove gravissime responsabilità sono confermate, lavori quasi fermi, ma costi che vanno alle stelle, la prospettiva è che i lavori non possano nemmeno riprendere per i problemi normativi irrisolti.
Davanti a questo quadro che dovrebbe indurre ad un dibattito politico sulla scelta di realizzare un sottoattraversamento a Firenze, abbiamo solo un glaciale silenzio. Tutti tacciono: il Comune tace sulla autorizzazione paesaggistica scaduta, materia di sua competenza; la Regione tace sullo sperpero vergognoso di risorse mentre il trasporto locale è in condizioni sempre peggiori; la ex Provincia tace davanti all’impatto sulla falda che sta creando pericoli; né il Ministero dei Trasporti, né quello del Tesoro (che controlla le Ferrovie italiane) guardano il verminaio che si agita dentro le FSI; nessun ente locale o nazionale, che in teoria dovrebbe essere parte lesa in questa vergognosa vicenda, accenna a costituirsi parte civile nel processo avviatosi da poco sulle vicende relative al Passante TAV.
La prospettiva più realistica, se nessuno interviene, è che questa agonia si protragga all’infinito, oppure, ipotesi ancor più infelice, è che si cerchi di accelerare nonostante i problemi non risolti.
Le persone di buon senso ormai sono convinte che quello del Passante TAV è un progetto da abbandonare e la cosa più saggia sarebbe avviare un percorso che accompagni alla morte questa sciagurata vicenda.
Per questi motivi si è costituito un fronte di soggetti che vogliono far sì che questo progetto di sottoattraversamento sia abbandonato e che le stesse risorse vengano dirottate a scopi di forte valenza sociale: la creazione di un sistema di trasporto pubblico su ferro cominciando a riutilizzare e potenziare le linee del nodo ferroviario metropolitano; i principali beneficiari di tutto questo sarebbero soprattutto gli abitanti della Piana fiorentina, dove non esiste alcun sistema di trasporto pubblico coerente.
Oltre allo storico Comitato No Tunnel TAV fanno parte di questo fronte le associazioni ambientaliste Italia Nostra, Legambiente e Rete dei Comitati per la difesa del Territorio, il laboratorio perUnaltracittà e i gruppi politici presenti nei consigli di Comune e Regione Alternativa Libera, Firenze Riparte a Sinistra, Movimento 5 Stelle, Si –Toscana a Sinistra.
Il primo obiettivo di questo gruppo sarà di realizzare interrogazioni alle Giunte mirate a far chiarezza sulla situazione del progetto, chiedere audizioni delle commissioni consiliari dei tecnici e dell’Università che hanno studiato i problemi del Passante e elaborato alternative, promuovere la costituzione di parte civile da parte degli enti locali nel processo TAV che si sta avviando.
Le stesse associazioni del “fronte” stanno valutando l’opportunità di costituirsi a loro volta parte civile nel medesimo processo.
Una lucida analisi delle molteplici cause alla radice del dissesto territoriale del Bel Paese (m.p.g.)
Mai celia popolare è stata più attuale e veridica: il territorio frana, si allaga, degrada e le politiche pubbliche latitano - o se intervengono generano ancor più guasti quando, con perfida sistematicità, sconfinano nell’illegale. Un panorama dolente quello italiano, bersagliato da eventi calamitosi portatori di danni e lutti, di frequenza e portata eccezionale, etichettati come “naturali” e perciò fatalisticamente ascritti all’infausto destino di una geomorfologia fragile e di un regime climatico in mutamento. Catastrofi che una più saggia attenzione agli equilibri ecosistemici e alla prevenzione potrebbe nella maggior parte dei casi evitare o comunque mitigare. Ma una subdola assuefazione all’estetica del dramma, cifra semiotica del nostro tempo, allontana la riflessione sulle cause, in quest’epoca barocca che sopperisce alla mancanza di etica con la ridondanza delle narrazioni.
Non è mia intenzione affrontare il versante giudiziario del caos in cui versa il nostro territorio, benché ricchissimo di casi e di documenti processuali, anche se sarebbe interessante prima o poi tracciare una geografia dei riflessi spaziali del potere corruttivo, una perversa pianificazione a rovescio, implicita, i cui esiti appesantiscono le disfunzionalità e i disagi dei nostri sistemi urbani e infrastrutturali, che dovrebbero invece costituire la nervatura a supporto dell’efficienza, dello sviluppo e della qualità del vivere.Mi fermerò alle cause esplicite, ossia alle logiche che, negli ultimi trent’anni, hanno deciso la dilatazione insediativa e l’organizzazione del territorio. Anche così dovremo comunque constatare come si sia trattato di ragioni inquinate da scarsa lungimiranza, subalterne a un’idea di crescita sbilanciata verso il settore delle costruzioni e il consumo di suolo che ne è derivato, in cui la rendita immobiliare, per sua natura improduttiva, ha fatto da padrona.
Quando la bolla è esplosa, nel 2007 negli Stati Uniti e l’anno dopo in Europa, i migliori analisti (penso a Nomisma e Cresme) già avvertivano dell’esaurimento di un ciclo, della saturazione della domanda e dei pericoli insiti in un percorso speculativo che in Italia aveva visto aumentare i valori delle costruzioni di più del 60% soltanto nell’ultimo decennio. Ma l’euforia dell’investimento immobiliare aveva contagiato a tal punto la società italiana, per mentalità già orientata al “mattone”, che solo la stasi del mercato, ma siamo agli anni più recenti, ha fermato la corsa alle edificazioni – ora dirottata sulle Grandi Opere, nuovo vessillo della crescita, ennesimo capitolo dello sfruttamento del territorio. Opere intese unicamente come sbocco per capitali finanziari in cerca di remunerazione e non come momento di attrezzaggio ed efficientamento, le cui localizzazioni il più delle volte sono frutto di pressioni, corruzioni, cordate sotterranee incalzanti. In barba a qualsivoglia pianificazione.
Non a caso lo Sblocca Italia (decreto legge 12 settembre 2014, n. 133) si regge sul principio della deroga, che a sua volta, per escamotare la normativa vigente, poggia su un’interpretazione lasca e contorta del concetto di “interesse pubblico”, talmente dilatata da coprire ogni possibile opzione purché costruttivista. Dispositivi la cui ambiguità sembra fatta apposta per incentivare pratiche scorrette.Un contesto in cui lo spazio della nostra sussistenza è diventato terra di conquista, materia grezza da mettere in valore, un’appropriazione su cui gli abitanti non hanno voce – non c’è luogo che non abbia un comitato di cittadini che protesta per decisioni calate dall’alto che ledono gli ecosistemi o denuncia gli effetti negativi di opere inutili, sbagliate oppure iniziate e mai completate.
Un arrembaggio che calpesta la territorialità, quell’insieme composito e stratificato in cui culture locali, consuetudini di vita e modelli di sviluppo hanno sedimentato le combinazioni geografiche ed economiche su cui si fonda il nostro vivere. Frutto delle generazioni e delle loro dialettiche e dunque bene comune per eccellenza.Un processo di predazione dei patrimoni territoriali avviato con il boom industriale, ma che nell’ultimo trentennio, da quando la rendita immobiliare e finanziaria hanno predominato sugli investimenti produttivi, ha conosciuto ritmi e intensità straordinari. La cui responsabilità non sta in capo solo ai grandi speculatori avidi e corrotti, promotori delle operazioni immobiliari franate in crack colossali già prima dell’esplosione della bolla (i famosi “furbetti del quartierino”), ma vede coinvolta, per ragioni diverse, l’intera società.
Nell’immaginario collettivo italiano la casa di proprietà rappresenta un obiettivo, anche come espressione di status, perseguito a costo di sacrifici e indebitamenti. In Italia la maggior parte dei residenti ha la casa in proprietà, a cui si aggiungono seconde, terze, ennesime case acquistate come forma di investimento di fronte a rivalutazioni e rendimenti che, prima della crisi e dei recenti aggravi tributari, erano molto elevati.Una propensione favorita in quella fase dal facile accesso al credito, in cui le banche hanno svolto ruolo decisivo, sia a supporto e copertura delle grandi imprese, sia nei confronti dei piccoli investitori, a cui sono stati elargiti mutui anche quando le garanzie offerte non erano consone; al punto che nei bilanci degli istituti ora figura un patrimonio immobiliare svalutato e ingombrante esito di pignoramenti. Che si aggiunge al tanto nuovo invenduto inutilizzato.
Una mentalità rafforzata dalle politiche nazionali attraverso condoni, incentivi, premialità o anche indirettamente, com’è stato ad esempio con le misure fiscali di detassazione degli utili reinvestiti che hanno fatto spuntare come funghi i capannoni Tremonti, da subito inutilizzati. Tutto ciò in base all’assioma che l’edilizia sia la miglior leva della crescita, un pregiudizio che tuttora perdura benché smentito da una congiuntura che ne ha punito gli eccessi e mostrato i risvolti controproducenti.Una fiducia condivisa e con vigore applicata dagli enti locali che, stretti nelle morse dei tagli di bilancio, sono (stati?) paladini dell’urbanizzazione, i cui oneri rappresentavano un’entrata per le loro casse esangui, e tuttora faticano ad abbandonare la speranza che l’edilizia possa riprende ai vecchi ritmi e rimandano la revisione di previsioni fortemente sovrastimate oggi irrealistiche.
Un calderone di consensi che comprende anche i proprietari dei terreni, disposti a far carte false – e non è un’iperbole come ben sappiamo - pur di inserire i propri lotti nei piani di espansione e che ora, nella stasi del mercato, chiedono la cancellazione dell’edificabilità per evitare le imposte immobiliari. Un tira e molla poco dignitoso, mi pare, per l’ente pubblico ridotto a ruolo notarile di decisioni pilotate dai privati.Un insieme intrecciato di comportamenti che hanno proliferato nella generale atmosfera di rifiuto del congestionamento, dell’anomia e dei costi del vivere urbano che si diffonde nella società a partire dagli anni ’70 e propone come contraltare l’idealtipo di una campagna bucolica, paradiso ecologico e illusione di socialità. Un progetto destinato ad attualizzarsi nelle villette a schiera e nei palazzoni della periferia infinita, che hanno moltiplicato la mobilità, l’inquinamento e i costi - sociali ed economici, individuali e pubblici. Sicché il sogno agreste e le sue innocenti aspirazioni ecologiste, cavalcati dalle complicità speculative, figurano come paradossali correi dello sprawl e dello scempio perpetrato ai danni del mondo rurale.
Ora sotto il cielo frantumato dell’orgia edilizia regna grande confusione e benché da tutte le parti (finalmente) si gridi che bisogna fermare il consumo di suolo, non si va oltre gli slogan, le direzioni in cui muoversi non sono chiare mentre i cocci del disastro diventano più aguzzi ogni volta che piove. Il territorio, martoriato dal cemento e dall’asfalto, è entrato in squilibrio, non è più in grado di reggere le dinamiche naturali.
Una versione ampliata del testo è pubblicata sulla rivista il Mulino, 4/15, pp. 678-685.
postilla
Ahimè, la direzione di marcia sembra segnata. Sembra unanime l'accordo delle associazioni, delle corporazioni e dei partiti su un testo che non servirebbe affatto a ridurre il consumo di suolo. Anzi, fornirebbe un alibi a chi vuole continuare a praticarlo. Si tratta di quel disegno di legge intitolato "Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo", derivante dalla proposta dell'allora ministro per l'agricoltura Catania. Sarebbe una legge priva assolutamente di efficacia, che nella ipotesi migliore condurrebbe alla scomparsa del consumo inutile di suolo al 2050 come ha limpidamente argomentato su queste pagine Ilaria Agostini nel suo articolo del maggio 2015, scritto per La città invisibile e ripreso da eddyburg.
Sarà vero? Sarebbe bello se qualche barlume di ragionevolezza cominciasse ad affacciarsi là dove si decide. Ma l'affare è molto più grosso di quella Grande (e nefasta) opera. Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2015, con postilla
Mentre Matteo Renzi prepara il funerale dell’Imu sulla prima casa, il suo ex braccio destro Graziano Delrio, nella attuale reincarnazione di ministro delle Infrastrutture, ha già celebrato le solenni esequie dellaOrte-Mestre, contanto di petali di asfalto lanciati dall’elicottero. Il promotore della più grande delle grandi opere, Vito Bonsignore, ancora non ci crede. Dopo dodici anni di pressioni lobbistiche, il sogno di costruire la grande arteria da 10 miliardi è definitivamente svanito.
Delrio ha deciso infatti di non riproporre al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) il progetto dopo che per due volte la Corte dei Conti ha ricusato le delibere del Cipe, sponsorizzate nel 2013 e nel 2014 dall’ex ministro Maurizio Lupi e dal ministro ombra Ercole Incalza. Le delibere, senza il visto della Corte dei Conti, non sono perfezionate, quindi è come se non fossero mai esistite. La decisione di Delrio è un segnale inquietante per i tifosi del project financing, la geniale idea di Incalza: l’opera pubblica autofinanziata dal privato che poi si ripaga dei pedaggi. Le recenti traversie della Brebemi, la Brescia-Bergamo-Brescia tutta privata che a un anno dall’inaugurazione l Stato ha dovuto rifinanziare, hanno dimostrato al team di Delrio che il project financing all’italiana è un imbroglio. Nei contratti c’è sempre la clausola miracolosa: se per caso i conti non tornassero, toccherà allo Stato ripianare. Insomma, i guadagni ai privati, le perdite ai contribuenti. Una costosa usanza a cui Delrio mette fine almeno nel caso della Orte-Mestre grazie al privilegio di aver potuto leggere il piano economico-finanziario presentato da Bonsignore, che è segretato per legge ma che verosimilmente contiene la previsione di ampie garanzie statali sui profitti privati.
La Orte-Mestre doveva costare 9,7 miliardi, di cui 7,8 messi dai privati e 1,9 dallo Stato. Date le condizioni della casse pubbliche, nel 2013 il progetto fu cambiato, e il contributo statale convertito in esenzione fiscale per 9 miliardi complessivi per i futuri pedaggi. La Corte dei Conti bocciò la prima delibera Cipe. I magistrati fiorentini che indagavano su Incalza lo intercettarono al telefono con Bonsignore e altri mentre orchestrava una pressione sul Parlamento per un emendamento che sanasse la situazione. Con Bonsignore era in campo il presidente della società cui fa capo il progetto, Antonio Bargone, ex deputato Ds, ex sottosegretario ai Lavori pubblici, dalemiano di ferro nonché presidente della Sat, la società impegnata in un’altra autostrada che non si farà mai (la Livorno-Civitavecchia) ma da anni dà ugualmente lavoro e consulenze a numerosi soggetti. Per la Orte-Mestre Bonsignore e Bargone sono indagati a Firenze, l’accusa (seccamente respinta dagli interessati) è di aver promesso all’ingegnere Stefano Perotti la direzione dei lavori in cambio dei buoni uffici di Incalza per l’avanzamento dell’opera nella burocrazia.
La Orte-Mestre, per dirla renzianamente, rimarrà come museo delle grandi opere della Seconda repubblica nate sotto il cavolo della Legge Obiettivo, il mostro giuridico partorito nel 2002 da Silvio Berlusconi e dal suo ministro dei Lavori pubblici Pietro Lunardi. L’introduzione del general contractor e del project financing per velocizzare le opere contenendone i costi, ha fatto esplodere la spesa.
La Orte-Mestre è coeva della Legge Obiettivo. Se ne parlava da anni come della Nuova Romea, opera effettivamente necessaria che doveva collegare Mestre con la Romagna, propugnata da un’associazione presieduta da Pier Luigi Bersani. Nel 2003 Bonsignore, un centauro, politico e imprenditore insieme, si è preso tutto il banco lanciando il project financing per fare la Nuova Romea e rifare la Cesena-Orte,l’attuale E45.
In questi anni, passando dalla Dc all’Udc di Pierferdinando Casini, poi a Forza Italia e infine al Ncd di Angelino Alfano, ha finanziato tutto il finanziabile, compreso l’attuale sottosegretario Giuseppe Castiglione, oggi sotto inchiesta per il Cara di Mineo. Tutti soldi buttati. Ma almeno stavolta non li ha buttati lo Stato. Salvo penali e indennizzi che Bonsignore si appresta a chiedere.
Una ricerca di interfaccia anche urbanistico, oltre che politico-amministrativo, tra il nucleo centrale e la cintura esterna, con qualche precisazione. La Repubblica Milano, 19 settembre 2015, postilla (f.b.)
Dice che si potrebbe partire da lì. «Dalle aree attorno alle grandi stazioni di testa della metropolitana ». Come quelle di Molino Dorino sulla linea Rossa, San Donato sulla Gialla e Cascina Gobba sulla Verde. Luoghi di passaggio e di interscambio, dove Milano incontra il suo hinterland e dove, tra vagoni del metrò, parcheggi di corrispondenza e fermate degli autobus, ogni giorno passano milioni di persone. Zone che sono delle piccole terre di nessuno, dove passare e allontarsi in fretta. Ma che potrebbero invece dare alle persone servizi utili ad agevolare la loro vita che corre in fretta.
«Territori che - spiega l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci - richiederebbero uno sforzo congiunto per riuscire a ripensarli. Perché oggi sono spesso zone non valorizzate, tra bancarelle, situazioni un po’ improvvisate, realtà che chiudono. E, invece, proprio per la loro grande accessibilità potrebbero diventare confortevoli, con tutti quei servizi e quelle attività di pregio utili a chi è di passaggio». Solo un esempio di quello che Palazzo Marino vuole riuscire a fare insieme con gli altri Comuni della prima fascia: curare i problemi di quei pezzi di città di confine che, spesso, rimangono sospesi nel nulla.
La riunione è stata convocata per martedì. E l’invito è stato raccolto da tutti i 21 sindaci dei centri che abbracciano la città, ma anche dal vicesindaco della Città metropolitana Eugenio Comincini e dai responsabili del Pim, il centro studi per la programmazione della grande Milano. L’idea: iniziare a costruire insieme, partendo dalle questioni urbanistiche, una sorta di “piano di cintura”. E cominciare anche a fare qualche prova tecnica di Città metropolitana. «Finora - continua Balducci – si è parlato della nuova istituzione più per le questioni burocratiche di statuto, per le difficoltà, per il bilancio. Mi sembra importante, invece, ragionare con i sindaci di tutto quello che riguarda confini amministrativi che non hanno più senso di esistere. E trasformare i problemi in opportunità».
Il modello è quello di Parigi che, in passato, ha fatto partire una collaborazione con i comuni vicini e messo a punto un piano per ridisegnare i propri margini. E, ancora, ha sfruttato la potenzialità delle zone attorno alle stazioni capolinea per riempirle di vita e servizi per i pendolari che, magari, trovano soltanto in quel modo l’occasione per sbrigare commissioni o fare la spesa senza doversi ritagliare spazi in orari impossibili all’interno di giornate già convulse. Anche a Milano sono queste di aree di confine a soffrire spesso «di degrado», o anche soltanto di «poca attenzione o cura», dice Balducci. E il motivo, a volte, è banale: nessuno dei Comuni che le condivide tende ad accendere una luce particolare su quei margini estremi. E, invece, Palazzo Marino è convinto che si possa invertire il rapporto: trasformare luoghi lontani dal punto di vista geografico in nuovi piccoli centri. Per l’assessore la riunione potrebbe servire ad avviare una doppia strategia, con un fronte più concreto e uno di programmazione futura: «Potremmo dare insieme un contributo alla redazione del piano strategico metropolitano segnalando problemi e opportunità. Ma anche studiare una serie di progetti puntuali su singole difficoltà».
Oltre alle zone attorno alle stazioni del metrò, gli esempi di collaborazione potrebbero riguardare il verde la lotta al degrado, l’arredo urbano e le piste ciclabili, e altre forme di connessione. Guardando Parigi, certo, ma anche un precedente più nostrano. «Se ci pensiamo il Parco Nord è un bell’esempio di una forma di collaborazione, che a partire dalle periferie di diversi Comuni, ha trasformato terre di nessuno in un magnifico spazio verde. Dovremmo lavorare in questa direzione».
postilla
Senz'altro positivo che si parta per una migliore integrazione, spaziale e non, fra le circoscrizioni amministrative municipali della città metropolitana, da quei nodi fondamentali che sono le stazioni. Vero e proprio simbolo e sostanza tangibile di separazione, e nel caso specifico (ma succede in vario modo in tantissimi casi italiani analoghi e non solo) di sviluppo suburbano automobilistico. Accade cioè che anche nei casi migliori, ovvero là dove nel tempo si è cercata qualche forma di soluzione dell'accessibilità collettiva ai centri metropolitani, si siano puntualmente concepite queste stazioni solo come nodi di trasporto, secondo il modello della fermata al centro di un lago di parcheggi. Effetto finale, una specie di replica di quei film western alla Mezzogiorno di Fuoco, dove la stazione invece di essere luogo vitale e di incontro sublima al peggio tutte le caratteristiche di una fascia smilitarizzata, che separa anziché unire. La questione non è però solo urbanistica, come si intuisce subito, ma anche trasportistica e organizzativa: cosa metterci, in quei luoghi, a garantire vitalità e migliore svolgimento di quel nuovo ruolo, al tempo stesso garantendo la funzionalità originaria? Ovvero evitando l'effetto centro commerciale di certe grandi stazioni ferroviarie, e magari diventando una pura scusa per realizzare nuovi volumi edificati dietro il paravento di una fantomatica «centralità». Come dice il poeta nazionalpopolare, lo scopriremo solo vivendo, e ovviamente seguendo gli sviluppi di questo TOD all'italiana (f.b.)
Non ha senso difendere la bellezza senza rendersi conto che cosa la rende tale, poiché «non esiste una bellezza senza qualificazioni. E la bellezza delle città non è estenuata e vacua forma, è prima di tutto vita civile». La Repubblica, 16 ottobre 2015
LA BELLEZZA come medicina. La invochiamo sempre più spesso, contro la depressione o contro la crisi; ci consoliamo dei nostri mali ripetendo che “la bellezza salverà il mondo” (o l’Italia). Ma esiste una bellezza senza qualificazioni? Di quale bellezza, oggi, avremmo bisogno? La bellezza, si sa, è relativa. Per esempio, per il neosindaco di Venezia il bacino di San Marco è più bello se vi transita una mega-nave come la Divina.
Una nave alta 67 metri, il doppio di Palazzo Ducale, e lunga 333 metri, il doppio di Piazza San Marco. Non sono abbastanza belle, invece, le foto di Gianni Berengo Gardin, che presentano le grandi navi come Mostri a Venezia. Esposte dal Fai a Milano, le foto dovevano andare in mostra anche a Venezia, ma lo ha vietato un diktat del sindaco Brugnaro: i veneziani potranno vedere le foto (“immagine negativa di Venezia”) solo accanto al progetto di un nuovo canale per le mega-navi in Laguna (che sarebbe, dice lui, un’“immagine positiva”). Interessante idea: onde chi volesse fare una mostra fotografica sulla distruzione di Palmira dovrà affiancarla a un’altra con il punto di vista dell’Is; e una mostra di quadri sulla Strage degli innocenti non è ormai pensabile, a Venezia, senza un’altra che illustri le ragioni di Erode. Berengo Gardin è uno dei fotografi più famosi del mondo, e quelle sue foto piacciono a Ilaria Borletti-Buitoni (sottosegretario ai Beni Culturali), piacciono ai molti veneziani che il 6 settembre hanno inscenato a piazza San Marco un flash-mob coprendosi il volto con foto delle grandi navi. Ma il sindaco dice no. Quale bellezza salverà Venezia, quella dei mastodonti che incombono sul Canal Grande o quella delle foto che ne denunciano l’invadenza?
Nel suo impeccabile Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere (Einaudi), Gustavo Zagrebelsky smonta l’uso della frase “La bellezza salverà il mondo” (prelevata da Dostoevskij): essa «è palesemente una sentenza enigmatica, e invece è diventata un luogo comune, una sorta d’invocazione banale e consolatoria, una fuga dai problemi del presente». Nei nostri paesaggi e nelle nostre città, la bellezza non può darci nessuna salvazione in automatico, assolvendoci da ogni responsabilità. Al contrario, la bellezza non salverà nulla e nessuno, se noi non sapremo salvare la bellezza. Come scrive Iosif Brodskij, va evitato ad ogni costo «quel vecchio errore, inseguire la bellezza. Chi vive in Italia dovrebbe sapere che la bellezza non può essere programmata di per sé, anzi è sempre l’effetto secondario di qualcos’altro, spesso volto a fini quanto mai normali». Non fu per un’astratta bellezza, ma in funzione della cittadinanza, del potere o della fede, che si innalzarono palazzi e cattedrali; non fu per provocare estasi estetiche, ma per esprimere, in dialogo con i concittadini, pensieri sulla vita, sul mondo e sul divino, che Michelangelo o Caravaggio posero mano al pennello o allo scalpello. E se le nostre città sono belle (quando ancora lo sono), è perché sorsero per la vita civile, come uno spazio entro il quale lo scambio di esperienze, di culture e di emozioni avviene grazie al luogo e non grazie al prezzo.
Ma la bellezza “preter-intenzionale” delle città è devastata da una mercificazione dello spazio che ruota intorno a due feticci del nostro tempo, il grattacielo con la sua retorica verticale e la megalopoli in indefinita espansione orizzontale. Anche le piccole città “mimano” le megalopoli con quartieri-satellite, autostrade urbane e altri dispositivi di disorientamento. I centri storici si svuotano (il caso di scuola è Venezia), e fronteggiano un triste bivio: ora decadono a ghetto urbano riservato agli emarginati; ora, al contrario, subiscono una gentrification che li svilisce a festosi shopping centers o a enclaves riservate agli abbienti, e da centri di vita si trasformano in aree per il tempo libero, assediate da periferie informi e obese. Il paesaggio urbano diventa così un collage di suburbi, dove la distinzione fra quartieri segna una frontiera fra poveri e benestanti. Spariscono i confini della città (rispetto alla campagna), si moltiplicano i confini nella città. Il “centro storico” diventa un’area residuale, un luogo di conflitti la cui sorte dipende dagli sviluppi o dal ristagnare della speculazione edilizia, dall’andamento delle Borse, dal capriccioso insorgere di bolle immobiliari.
Eppure chi provoca tali devastazioni sbandiera invariabilmente la retorica della bellezza. Come ha scritto Brodskij (e proprio a proposito di Venezia), «tutti hanno qualche mira sulla città. Politici e grandi affaristi specialmente, dato che nulla ha più futuro del denaro. Al punto che il denaro si ritiene sinonimo del futuro e in diritto di determinarlo. Di qui l’abbondanza di frivole proposte sul rilancio della città, la promozione del Veneto a porta dell’Europa centrale, la crescita dell’industria, l’incremento del traffico in Laguna. Tali sciocchezze germogliano regolarmente sulle stesse bocche che blaterano di ecologia, tutela, restauro, beni culturali e quant’altro. Lo scopo di tutto questo è uno solo: lo stupro. Ma siccome nessuno stupratore confessa di esserlo, e meno ancora vuol farsi cogliere sul fatto, ecco che i capaci petti di deputati e commendatori si gonfiano di obiettivi e metafore, alta retorica e fervore lirico» ( Fondamenta degli incurabili, Adelphi).
La bellezza del passato è una perpetua sfida al futuro, scrive Brodskij. Ma la bellezza delle città non è estenuata e vacua forma, è prima di tutto vita civile. Perciò ha ragione papa Francesco a ricordare agli architetti che «non basta la ricerca della bellezza nel progetto, perché ha ancora più valore servire un altro tipo di bellezza: la qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco» ( Laudato si’ , § 150). Non c’è bellezza senza consapevolezza verso il passato e verso le generazioni future. La bellezza di cui abbiamo bisogno non è evasione dal presente: non c’è bellezza senza storia, senza una forte responsabilità collettiva.
La cronaca locale parrebbe quella triste ma prevedibile a cui siamo abituati da lustri: una bambina ansiosa di arrivare a casa, che cammina qualche passo più avanti della mamma e si arrischia a passare il semaforo quando verde non è ancora. In direzione perpendicolare l'auto che, visto il giallo, dà la prevedibile accelerata, e l'impatto è inevitabile: carambola della bambina sul cofano, e fuga nella notte del pirata, magari semplicemente scioccato e in attesa di ripresentarsi scortato da un legale. La notizia starebbe tutta qui, secondo il cronista, nella fuga e quindi nelle classiche indagini degli esperti sulle tracce lasciate dall'auto, di cui conosciamo marca e modello, magari controllo delle telecamere, testimonianze di qualche passante. La bambina se non altro, pur malconcia, non è in pericolo di vita, aspettiamo la conclusione dell'inchiesta ed eventuali sviluppi. Ma c'è un piccolo neo, quando il cronista sbaglia zona, pur azzeccando come da verbale i nomi delle vie, e così facendo fa suonare un campanello: quel posto non è vicinissimo a dove un paio d'anni fa è successa quella vera e propria strage?
a parte i pasticci grafici, a sinistra il primo, a destra quello di ieri |
Rapida mente locale, e sì: il posto è a cento, centocinquanta metri da dove in una analoga sera di pioggia di un paio d'anni fa un'auto falciò mamma incinta e bambino che correvano verso la fermata dell'autobus, al terminale Famagosta della MM2 milanese. Ma c'è molto, molto di più, sfuggito al manierismo giornalistico così attento ad altri particolari, perché siamo esattamente nello stesso svincolo autostradale urbano, solo all'altra estremità, dove le auto arrivano in discesa da un sovrappasso anziché in salita da un sottopasso, e la via secondo l'uso toponomastico italiano cambia nome. Fossimo stati negli Usa, magari l'inghippo sarebbe stato più chiaro, svincolo tal dei tali sulla direttrice talaltra, e dinamica evidente. Uguali al caso di due anni fa, anche i particolari, che poi nell'immaginario collettivo possono fare la differenza: nazionalità delle vittime (non italiana, si sa che questi immigrati sono così mal adattati al nostro ambiente), e torto formale di chi sta attraversando in un punto dove non è consentito (l'uso obbligatorio del sottopasso pedonale nel primo caso, il semaforo ancora rosso nel secondo).
Ma quello svincolo autostradale sbattuto in mezzo a un quartiere urbano, o se vogliamo a fare da trait d'union fra due quartieri sulle sponde opposte del Naviglio, quello sembra apparire invece una presenza naturale, nulla da eccepire. Al massimo c'è la velocità eccessiva (che senza svincolo sarebbe meno probabile), o l'omissione di soccorso, a far notizia. Che salti invece all'occhio una lampante inadeguatezza della città costruita attorno all'auto, un'urbanistica che pare ispirata a Filippo Tommaso Marinetti, non lo nota nessuno. Sarebbe invece ora di cominciare a notarlo, invece di blaterare sciocchezze forcaiole sugli omicidi stradali, che intervengono (andrebbe sottolineato) dopo il fattaccio, anziché prevenirlo e evitarlo.
La Bmw blu, che secondo alcuni testimoni oculari dell’incidente aveva accelerato in prossimità del semaforo all’incrocio per passare con il giallo prima che scattasse il rosso, probabilmente era da poco uscita dalla tangenziale. La bambina, cinese, che era accompagnata dalla mamma (rimasta poco più indietro rispetto a lei) per tornare a casa in via De Sanctis, stava attraversando in prossimità delle strisce pedonali. La macchina ha continuato la corsa diretta verso via Antonini «senza neanche una frenata», fa sapere la polizia locale intervenuta sul posto: «Non andava piano perché arrivava dalle autostrade, da un cavalcavia o da un sottopasso. I testimoni dicono che era in accelerazione e che poi ha pensato di andare via più veloce della luce».
Non escludendo che la persona che era alla guida possa aver cercato un avvocato e decida di presentarsi spontaneamente, è questa la macchina che la polizia locale sta cercando. L’auto, nell’impatto con il corpo della bambina centrata e caricata in parte sul cofano, ha perso per strada uno specchietto retrovisore che potrebbe risultare utilissimo alle indagini per risalire all’intestatario della vettura, senza contare che spesso, in aggiunta, le analisi dei materiali che rimangono sull’asfalto hanno consentito di ottenere anche il numero di telaio dell’auto.
Intanto, le immagini della Bmw i vigili le stanno cercando nei filmati di diverse telecamere, da quelle posizionate lungo le tangenziali a quelle ai caselli di uscita nella periferia sud, alle riprese delle telecamere di diverse banche. I vigili credono che i filmati possano essere utili anche per l’individuazione della targa, soprattutto le registrazioni di una telecamera comunale di via Montegani, da dove pare provenisse la Bmw.
La ragazzina, soccorsa dal 118, è stata trasportata in codice rosso all’Humanitas di Rozzano, dove le sono state riscontrate diverse fratture. Arrivata gravissima, era stata stabilizzata e ieri le sue condizioni destavano minor preoccupazione. Escluso il pericolo di vita, la prognosi riservata è stata sciolta e fissata in 90 giorni.
Una delle maggiori aggressioni al nostro presente e al nostro futuro sono le Grandi opere. Per difendersi bisogna combattere, per combattere bisogna conoscere. Ecco un utile strumento di conoscenza, un'intelligente arma di difesa della salute, della bellezza, della funzionalità, dell'equità, delle risorse, per noi e per i posteri. La citta invisibile, 9 settembre 2015
Al Forum internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte – Bagnaria Arsa (UD) tra il 17 e 19 luglio scorso – si è tenuto un’intervento di Alberto Vannucci, autore dell'”Atlante della corruzione”, Edizioni Gruppo Abele (Torino 2012) di cui pubblichiamo una sintesi in 15 punti, a margine potrete ascoltare la registrazione video della relazione di Vannucci al TEDxFirenze.
1) Le nuove forme della corruzione sistemica in Italia: non più e non solo un’attività illecita, una violazione del codice penale, ma un meccanismo complesso, consolidatosi nel tempo, realizzato con modalità sofisticate frutto di un lungo processo di apprendimento, attraverso il quale un piccola minoranza di soggetti che appartengono alla classe dirigente (politici e burocrati corrotti, imprenditori, professionisti, faccendieri) e soggetti criminali (organizzazioni mafiose) si impossessano congiuntamente di beni comuni, attraverso una privatizzazione di fatto di risorse di proprietà collettiva: risorse di bilancio, ma anche ambientali, paesaggistiche (consumo di territorio), politiche (reinvestimento dei proventi per acquistare consenso), ecc.. La realizzazione della grande opera permette di accrescere considerevolmente la scala di questo processo di appropriazione criminale di rendite parassitarie, concentrando le opportunità di profitto illecito entro sedi istituzionali e processi decisionali circoscritti e più facilmente controllabili, minimizzando così i rischi delle corrispondenti attività illecite.
2) Corruzione e pressioni politiche per la realizzazione di grandi opere (denominate nella letteratura internazionale “white elephants” – elefanti bianchi – per la loro capacità di gravare con costi insostenibili su una comunità) si sviluppano in simbiosi. Grande opera è spesso sinonimo di grande corruzione, e viceversa. La presenza di un tessuto di corruzione capillare e le aspettative di guadagno illecito dirottano quote crescenti di bilancio verso i settori nei quali sono attesi maggiori profitti illeciti, come quello delle grandi opere (oltre a forniture militari, etc.). Le fasi di progettazione, finanziamento, realizzazione, etc. delle grandi opere presentano a loro volta molteplici passaggi particolarmente vulnerabili alla realizzazione di scambi occulti.
3) La natura intrinsecamente criminogena delle grandi opere. Nella letteratura scientifica sono stati individuati una serie di fattori (sintetizzabili in una “formula della corruzione”) che descrivono le condizioni nelle quali è più alta la probabilità che vi sia corruzione. Tutti questi fattori, senza eccezione, convergono nel rendere più redditizie e meno rischiose le opportunità di corruzione nel caso di grandi lavori pubblici. Molto brevemente, la probabilità che si realizzino scambi occulti crescono se:
4) Il soggetto che prende decisioni pubbliche opera in un regime di monopolio, e chi voglia conseguire quello specifico beneficio non ha altri cui rivolgersi. La grande opera non ha alternative, la sua realizzazione è programmata, progettata, deliberata, realizzata sotto la supervisione di un unico soggetto pubblico di fatto monopolista, che potrà “capitalizzare” in tangenti la sua posizione privilegiata rispetto agli imprenditori e agli altri soggetti privati che partecipano alla procedura di aggiudicazione dei corrispondenti contratti.
5) Le rendite create tramite le decisioni pubbliche sono consistenti. La grande opera permette per sua stessa natura la gestione di ingenti, talora estremamente ingenti, talora colossali quantità di risorse pubbliche, facile preda degli appetiti di corrotti e corruttori. Lo “spread etico” che separa i paesi più corrotti da quelli meno corrotti è quantificabile nel differenziale del costo medio delle opere nei paesi dove le tangenti sono la regola (vedi ad esempio linee Tav, passante ferroviario, Mose, etc., costati in Italia tra il doppio e sei volte tanto rispetto a equivalenti realizzazioni in altri paesi).
6) L’opacità dei processi decisionali, dalla fase della giustificazione e del finanziamento a quella della realizzazione, che si lega alla grande complessità degli aspetti tecnici, al fatto che molti di quei passaggi – stante la strutturale inefficienza delle strutture tecniche pubbliche che dovrebbero gestirli, particolarmente marcata nel caso italiano – sono di fatto delegati a soggetti privati, o utilizzano forme pseudo privatistiche (project financing, general contractor) che di fatto sottraggono alla trasparenza dei processi decisionali pubblici i corrispondenti passaggi decisionali. Informazioni confidenziali possono così diventare una risorsa di scambio nella corruzione. Particolarmente preoccupante è l’opacità che investe la fase di definizione delle stesse esigenze collettive e dei bisogni pubblici che la grande opera dovrebbe soddisfare, resa possibile dall’ambiguità che circonda molti parametri utilizzati nei calcoli dei “costi-benefici” dell’eventuale realizzazione, che permette ai decisori di accampare un qualche reale “interesse pubblico” come motivazione della decisione di investire ingenti risorse in quella specifica realizzazione, che appare invece di dubbia utilità (o nel peggiore dei casi di sicura nocività).
7) L’elevata discrezionalità dei processi decisionali, che spesso si associa alle condizioni di pseudo-emergenza costruite fittiziamente o a tavolino (emergenza legata anche alle vischiosità dei corrispondenti processi decisionali “ordinari”, che possono essere aggirati solo tramite ordinanze in deroga a tutte le disposizioni vigenti, secondo il modello “cricca della protezione civile”). Nella grande opera le iniziali decisioni di fondo sono altamente discrezionali – quali “grandi opere” siano meritevoli di finanziamento per la realizzazione – e un analogo livello di discrezionalità accompagna molti altri passaggi. Naturalmente la decisione discrezionale può essere più facilmente “venduta” dagli amministratori e dai politici corrotti in cambio di tangenti.
8) L’indebolirsi dei controlli, di tutti i meccanismi di supervisione e sanzione delle condotte devianti e della corruzione (non solo il controllo giudiziario, ma anche quello amministrativo, contabile, politico, sociale, concorrenziale). Nelle grandi opere spesso i controlli istituzionali sono largamente vanificati dalle caratteristiche “straordinarie” adottate in molte procedure di aggiudicazione e di gestione dei lavori, oltre che dalla estrema complessità dei contenuti tecnici dei corrispondenti atti e provvedimenti, dal moltiplicarsi di soggetti istituzionali e di attori pubblici coinvolti (che offusca le responsabilità individuali nella decisione finale). Il controllo politico (oltre che dal reinvestimento nella creazione di reti clientelari di consenso dei proventi degli scambi occulti) è vanificato dal cemento invisibile delle reti di corruzione: il reciproco potere di ricatto che fa sì che si formi un “partito unico degli affari”, avente natura bipartisan dato il coinvolgimento di soggetti di ogni colore politico, che protegge i corrotti, ne favorisce l’ascesa nelle rispettive carriere, si compatta assicurando un convergente appoggio quando occorre, ossia nelle diverse fasi dei processi decisionali che accompagnano la realizzazione delle grandi opere. Il controllo concorrenziale è vanificato dall’orientamento collusivo largamente prevalente tra gli imprenditori, specie tra i pochi di dimensioni tali da poter partecipare alle gare per la realizzazione di grandi opere: nessuno denuncia l’altrui corruzione, preferendo aspettare il proprio turno in una spartizione che assicura a tutti ingenti margini di profitto, irrealizzabili in un contesto economico aperto e concorrenziale.
9) L’utilizzo estensivo nel discorso pubblico di argomenti di ordine simbolico legati al un presunto valore intrinseco delle grandi opere, accompagnati spesso da una retorica giustificatrice che si accompagna al richiamo alle esigenze del “progresso” o all’”orgoglio di patria” nella loro realizzazione (vedi il caso della diga del Vajont, la più alta diga al mondo con quelle caratteristiche tecniche, “orgoglio dell’ingegneria italiana”) produce un duplice effetto: (a) crea un clima favorevole (ovvero non ostile) in settori dell’opinione pubblica in ordine alla sua realizzazione, attenuando ulteriormente il controllo sociale; (b) può attenuare nei partecipanti ai corrispondenti processi decisionali – tramite un meccanismo psicologico di auto-giustificazione – le barriere morali al coinvolgimento in attività illecite, che finiranno per essere ritenute in qualche modo funzionali al “bene superiore” per gli interessi collettivi della realizzazione dell’opera.
10) La grande opera si associa spesso a lunghi tempi di realizzazione. Si dilatano i tempi anche a seguito delle frequenti lacune progettuali (causate dalla debolezza dell’amministrazione) e del fatto che per sua stessa natura la realizzazione della grande opera espone a una probabilità più elevata – per la sua complessità progettuale, per l’alto impatto sui territori, etc. – di incorrere in difformità rispetto a quanto inizialmente previsto. Questi fattori costringono a interruzioni e ritardi legati all’esigenza di rinegoziare i termini contrattuali. La rinegoziazione espone di per sé a un ulteriore rischio corruzione, mentre l’allungamento dei tempi giustifica inefficienze nella realizzazione che diventano il “serbatoio” cui attingere per prelevarvi le risorse di scambio della corruzione.
11) Grande opera significa anche grande complessità e difficoltà tecniche nella gestione che si proiettano nei futuri lavori di manutenzione. Questo è un valore aggiunto nella prospettiva di corrotti e corruttori, i quali sanno che una volta completata la realizzazione della grande opera potranno comunque continuare a contare su un flusso ininterrotto e costante di tangenti grazie appunto alle successive forniture, opere di supporto, contratti per la manutenzione, etc. (vedi caso Mose).
12) L’inutilità della grande opera è un valore aggiunto quando la sua finalità è l’arricchimento di pochi. Infatti la grande opera utile, che risponde a un concreto bisogno sociale da soddisfare, crea aspettative e attese nella popolazione, e dunque un diffuso controllo sociale su tempi e costi della realizzazione. Ma la grande opera inutile, quando si siano vinte le resistenze degli (talora sparuti) oppositori che ne contestano le ragioni, diventa semplicemente un “bancomat” cui attingere per l’arricchimento illecito dei corrotti e dei corruttori, senza che vi siano pressioni dal basso per accelerarne e neppure completarne la realizzazione.
13) L’infiltrazione mafiosa è più facile nel corso della realizzazione di grandi opere, perché i soggetti criminali possono inserirsi facilmente in quei lavori in subappalto e forniture a bassa intensità tecnologica, riciclandovi capitali, sversandovi rifiuti tossici (vedi realizzazione dell’autostrada Bre-Be-Mi) e soprattutto possono fornire utili servizi di “regolazione interna” nelle transazioni illegali che coinvolgono un’estesa rete di corrotti e corruttori. I protagonisti delle estese reti di corruzione e di scambio illecito che si formano attorno alle grandi opere, in altri termini, formulano una “domanda di protezione” nei loro scambi occulti che può essere soddisfatta dalle organizzazioni mafiose, le quali si inseriscono stabilmente in quel tessuto criminali dandogli forza e stabilità – vedi i casi Mose (alcune piccole imprese subappaltanti confiscate per mafia), Salerno-Reggio Calabria, (irrealizzato) Ponte sullo stretto.
14) Grande opera significa grande rischio di disastro: disastro ambientale od ecologico (vedi Mose), ma anche catastrofe in termini di vite umane – si veda il caso della diga del Vajont.
15) Come spezzare il nesso simbiotico che lega grandi opere e grande rischio corruzione? Difficile credere nella palingenesi di soluzioni ed efficaci proposte anticorruzione calate dall’alto – nelle sedi istituzionali dove troppo spesso dominano lobbies, cricche, comitati d’affari che grazie alla corruzione hanno costruito le proprie fortune, e di quella realtà criminale sono partecipi, beneficiari o conniventi. Occorre piuttosto sostenere, promuovere e valorizzare tutte le esperienze di anticorruzione dal basso, a livello di comunità e di enti locali, attraverso la conoscenza della reale natura di questi fenomeni criminali, della zavorra insostenibile che essi rappresentano degradando la qualità della vita civile e dei servizi pubblici, cancellando opportunità di sviluppo economico, conducendo all’affievolirsi o all’espropriazione di fatto dei diritti politici e civili. Movimenti, gruppi, associazioni, comitati di cittadini possono e devono contribuire a riallacciare i circuiti di controllo democratico che li legano ai loro amministratori locali e ai decisori pubblici, elaborando insieme le migliori strategie di prevenzione e controllo delle distorsioni e delle degenerazioni nella gestione della cosa pubblica e del bene comune.
Alberto Vannucci insegna Scienza Politica presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa, dove dirige il Master in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione, organizzato insieme a Libera e Avviso pubblico. Tra le sue ultime pubblicazioni sulla corruzione: Atlante della corruzione (Ega 2012), The hidden order of corruption (Ashgate 2012, con D. della Porta), Mani impunite (Laterza 2007, con D. della Porta).
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Un esempio che va oltre il valore locale, di obsolescenza non programmata della città costruita attorno alle automobili: investimenti che al mutare della situazione si rivelano una vera e propria tara per l'efficienza e l'abitabilità. La Repubblica Milano, 7 settembre 2015, con postilla (f.b.)
I collaudi e gli ultimi passaggi burocratici stanno per finire. Poi, tutto sarà pronto per il taglio del nastro. Il tunnel di Gattamelata aprirà entro la fine del mese. Nessuno immagina, però, feste e sfarzi per l’inaugurazione della galleria di quasi un chilometro che collega via De Gasperi a casa Milan e via Gattamelata. L’opera è la tra le più controverse che si siano realizzate in città, per il rapporto tra costi, altissimi e raddoppiati, e utilità, molto dubbia dato il trasloco della Fiera a Rho-Pero. Immaginato da Formentini, il tunnel degli sprechi è stato ereditato dalla giunta Pisapia. La zona è contrarissima.
I collaudi sono agli sgoccioli e la fase attuale, l’ultima, è quella della presa in carico e della gestione degli impianti. Il tunnel di Gattamelata è pronto per essere aperto. La data ufficiale ancora non c’è, si parla del 20 o del 27 settembre come possibili giornate di inaugurazione che comunque, assicurano tutti, avverrà entro fine mese.
Il taglio del nastro non sarà tra feste e sfarzi. La galleria lunga quasi un chilometro che collega via Alcide De Gasperi a via Gattamelata è l’opera più controversa che si sta ultimando in città, tra costi altissimi, e utilità molto dubbia. Pensata da Formentini, decisa da Albertini, portata avanti dalla Moratti ed ereditata da Pisapia: i lavori sono iniziati nel 2006, nonostante fosse già avvenuto il trasloco della Fiera a Rho-Pero e quindi drenare traffico dalla A4 e dalla A8 non fosse una priorità. Si pensò comunque che il tunnel avrebbe potuto alleggerire il nuovo quartiere di Citylife. E oggi, se si facesse davvero lo stadio del Milan al Portello (cosa davvero difficile), potrebbe comunque dare il suo contributo durante le partite. In ogni caso il tunnel — che ha Mm come stazione appaltante — è costato 115 milioni di soldi pubblici, quasi il doppio dei 62 iniziali.
Sbocco del tunnel Gattamelata in quartiere (foto F. Bottini) |
Più le bonifiche, un percorso tortuoso durato tre anni e lievitato a oltre 50 milioni. E oggetto di annosi contenziosi (proprio sugli extra costi) con i costruttori (la Claudio Salini), una vicenda che ha tenuto bloccato il cantiere per tre anni spingendo in là la fine dei lavori prevista nel 2009. La giunta Pisapia se l’è ritrovato, il tunnel della discordia e degli sprechi. Il quartiere è sempre stato contrario. Lo ribadisce ancora oggi il presidente di Zona 8, Simone Zambelli: «È uno spreco incredibile, anche aprirlo, non ha alcuna utilità — dice — se non quella di intasare alcune strade intorno a via Gattamelata dove ci sono case e scuole. Chiediamo al Comune di ripensarci e di trovare una destinazione alternativa».
Palazzo Marino assicura che entro settembre si inaugurerà. E che, dalle stime, non ci dovrebbero essere particolari impatti negativi sul quartiere in termini di traffico. «È un’opera che non avremmo mai avviato e che abbiamo ereditato e sicuramente tutti quei milioni sarebbero stati più utili investirli in opere di trasporto pubblico — dice l’assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran — . Una volta terminata, però, ha senso comunque aprirla». Resterà chiuso invece il tratto di galleria che avrebbe dovuto sbucare ai parcheggi del Portello quando era polo fieristico, oggi a fondo cieco. Qui negli anni si sono pensate varie destinazioni, dal parcheggio di auto sequestrate a un museo. Oggi l’area è in cerca di una destinazione, probabilmente legata al futuro del Portello, che sia lo stadio (poco probabile) o qualcosa d’altro.
postilla
Anche senza citare il curioso simbolismo/coincidenza del titolare dell'impresa Claudio Salini, appena scomparso proprio in un incidente automobilistico a Roma, dovrebbe saltare all'occhio ormai evidente la discrasia fra l'idea novecentesca di città (e relative norme, pratiche, aspettative) tutta concepita e costruita attorno all'auto e all'umanità stipata dentro quelle auto, e le nuove dinamiche così come abbastanza faticosamente ma decisamente si stanno delineando. Accade in tutto il mondo che le enormi arterie urbane dette freeway o expressway, di raccordo tra la rete autostradale e i punti nevralgici dei centri direzionali, vengano poco cerimoniosamente liquidate con le cariche di dinamite, o riciclate in viali a percorrenza condivisa e velocità assai più contenute di quelle sognate all'epoca di Marinetti e dei razionalisti che ne condividevano il mito dell'azione fulminea. Eppure, nonostante tutto ciò, nonostante il mondo si stia orientando volente o nolente in altre direzioni, vediamo i nostri nuovi o rinnovati quartieri continuare ad avvoltolarsi su quella tara ingestibile, o quasi, di certa accessibilità, certi calcoli sui parcheggi, certi diritti che paiono divini, certe infrastrutturazioni obsolete. Il quartiere descritto dall'articolo è paradigmatico del tema, attraversato da una delle prime sopraelevate italiane, e in genere legato con un solido cordone ombelicale all'anello delle Tangenziali. Ma la cosa si può replicare anche per tanti altri casi milanesi e italiani (la leggendaria sopraelevata genovese tanto per fare un nome), di infrastrutture il cui senso è tutto da pensare, e soprattutto di città da ripensare attorno a quelle infrastrutture, coi loro nuovi flussi, nuovi diritti, e nuove modalità di relazione, fuori dagli abitacoli a motore privati (f.b.)
Mafia, politici corrotti, tecnici venduti, società fittizie, scavi abusivi, ripetuti passaggi illegali di appalti e subappalti, carenza e omissioni nella vigilanza, sindaci inefficienti: tutte le zavorre dell’arretratezza d’Italia sono racchiusi in appena trenta pagine di relazione sull’alta velocità di Firenze stilata dall’autorità nazionale anticorruzione e firmata da Raffaele Cantone lo scorso 4 agosto 2015. E su ogni macigno di quella zavorra c’è un nome. Da quello dell’ex presidente dell’Umbria, Maria Rita Lorenzetti – arrestata nel settembre 2013 – al dominus delle infrastrutture Ercole Incalza, in manette lo scorso marzo, che ha trascinato alle dimissioni l’ex mini stro Maurizio Lupi. Dalla so cietà Coopsette – che è riuscita a rimanere nell’appalto sep pure avesse di chiarato due vol te il fallimento e abbia visto finire in carcere i suoi vertici – alla Nodavia e a Condotte, coinvolta anche nell’inchiesta di Venezia sul Mose. Politica, imprenditori. Tangenti, affari. Il Tav di Firenze sembra una Cornice nel Purgatorio del malaffare nazionale: non esiste l’Inferno e il Paradiso è sempre (e di nuovo) a portata di mano.
L’OPERA è stata assegnata nel 1999 e doveva essere interamente conclusa nel maggio 2015. “Termini che evidentemente non risultano più perseguibili – scrive Cantone – per cui si appalesano rilevanti ritardi nell’esecuzione”. Esecuzione che è al momento ferma: sono scaduti i permessi, i vertici delle società sono stati arrestati, chi per corruzione chi per associazione a delinquere, chi per abuso d’ufficio, chi per tutti e tre i reati e per altri ancora. L’opera doveva costare poco più di 500 milioni, è lievitata fino a 750 prima di essere bloccata e “registrerà ulteriori incrementi”.
Ma il dato più allarmante tra i tanti indicati da Cantone è riferito alla sicurezza dell’opera: il materiale utilizzato è “privo della qualità richiesta”. E, ricorda il presidente dell’anticorruzione, l’opera “sottoattraversa il centro cittadino, interferendo con la falda idrica” e ha già causato “dissesti che hanno interessato la scuola Rosai (chiusa a causa di crepe e smottamenti subiti dai lavori sotterranei-ndr) confermando la delicatezza del contesto”.
È evidente che i “comportamenti dei soggetti preposti all’esecuzione sono finalizzati a conseguire maggiori utili a discapito di una minore qualità dell’opera”. Certo i lavori al momento sono fermi. Ma le aziende interessate vorrebbero portarli a termine, per questo l’autorità presieduta da Cantone è dovuta intervenire. Ha sentito Rete Ferrovie Italiane – che ha affidato l’appalto – e le società coinvolte: Italferr e Nodavia in particolare.
LA PRIMA era quella guidata dalla Lorenzetti, la seconda è rimasta coinvolta in almeno tre inchieste giudiziarie. Per carità, ha sempre rinnovato i propri vertici e allontanato i “beccati”, come scrive Cantone ripercorrendo l’iter complessivo dell’opera. La magistratura interviene già nel 2010 per smaltimenti illeciti dei materiali provenienti dagli scavi. Nel 2013 di nuovo. Nodavia, riporta Cantone, “avrebbe attuato lo smaltimento in modo illecito, con accordi occulti con soggetti formalmente incaricati dello smaltimento, finalizzati a corrispondere agli stessi somme inferiori a quanto stabilito dai contratti stipulati, con retrocessione in nero a favore di Nodavia di ingenti somme di denaro”. Il classico schema. Ma non basta. Prosegue la relazione: “In realtà tali ditte non avrebbero provveduto allo smaltimento in quanto l’attività sarebbe stata gestita da una ditta, da quanto indicato dalla procura, legata ad ambienti della criminalità”.
E dove saranno andati i quintali di rifiuti speciali? E una volta individuata l’attività illecita si è interrotta? No. “è perdurata la gestione abusiva” svolta, fra l’altro, “senza alcuna autorizzazione e con modalità tipiche riconducibili a un trattamento di rifiuto con scarichi non autorizzati, stoccaggi in piscine e dispersione dei fanghi sui piazzali e in falda”.
Le 30 pagine di relazione sono un epitaffio all’opera pubblica. Cantone scrive, fra le altre cose, che sono mancati gli “adeguati controlli”, che le “criticità emerse dalle indagini della Procura non possono ritenersi del tutto superate” ancora oggi, che ci saranno “ulteriori richieste economiche” e molto altro ancora.
Le recenti imprese di un protagonista del gruppo di potere dominante nell'economia e nella politica veneziane: il «king maker dello "sviluppo" che vola insieme alle colate di cemento». Il manifesto, 26 agosto 2015, con ampia postilla
Marchi è presidente Save (35,9 milioni di euro di capitale) quotata in Borsa da dieci anni, che detiene il 27,65% dell’aeroporto belga di Charleroi ed è entrata nella spa che gestisce gli scali di Verona e Brescia. Fino ad ottobre 2016, Marchi può contare sul patto parasociale con Agorà Investimenti e Marco Polo Holding (entrambe società con sede a Conegliano). Ed è riuscito perfino a piegare il finanziere franco-americano Joseph Oughourlian (presidente di Amber Capital Italia Sgr) che con il 20% delle azioni Save aveva attaccato senza pietà la gestione del «Marco Polo» da parte dello staff di Marchi.
Ma il quadrante di Tessera continua a rappresentare, da lustri, il core business dell’urbanistica a senso unico. Fin dalla «svolta» in Save con gli enti pubblici locali beffati dal governatore Galan che incorona Marchi: è la privatizzazione, perfino a dispetto di Paolo Sinigaglia (presidente di Veneto Sviluppo). Così oggi il presidente di Save sfodera un’altra operazione in grande stile: il masterplan che ridisegna tutto, con orizzonte finale 2021.
Contiene un mega-hotel di fronte al progettato terminal acqueo che da solo vale 630 milioni di investimento. Il commissario Zappalorto aveva dato il via libera, ma sono insorti i comitati dei cittadini di Tessera e Campalto. L’albergo è previsto in un’area di 10 mila metri quadrati: il 30 settembre scade il termine della manifestazione d’interesse. Un analogo progetto era già contenuto in «Porta di Venezia» firmato dall’architetto canadese Frank O. Gehry e rimasto lettera morta per assenza di finanziamenti. L’idea dell’hotel viene rispolverata accanto alla specie di Croisette con vista laguna.
Il 22 luglio il comitato cittadini di Tessera e Campalto contro l’inquinamento acustico, atmosferico e ambientale da traffico aeroportuale ha depositato in commissione Via ulteriori 17 pagine di critiche al masterplan Save. «Non può essere l’Enac il proponente di una istanza di Via di un Masterplan redatto dal gestore aeroportuale, poiché all’Enac è attribuito per conto dello Stato il compito primario di controllare e vigilare sull’operato e le scelte del gestore», spiegano evidenziando il conflitto d’interesse. Il comitato si preoccupa anche del rumore notturno all’interno della municipalità: «La frequenza dei sorvoli in allontanamento è destinata ad aggravarsi con l’aumento del 30% dei sorvoli a bassa quota». Save promette una dozzina di opere di mitigazione a Tessera? «Abbiamo conferma dalla controdeduzione del dubbio espresso nelle nostre precedenti osservazioni: il complesso delle opere di mitigazione e compensazione è stato elaborato e inserito pro forma. Appare chiaro che è un collage pubblicitario, per imbonire i cittadini».
postilla
L’area di Tessera è un punto nodale della strategia diprivatizzazione e della città e della sua Laguna. Da un punto di vistaterritoriale è uno dei tre poli sui quali si concentrano grandi operazioniimmobiliari. A Tessera sono state avviate con una serie di modifiche dellastrumentazione urbanistica e di acquisizioni immobiliare finalizzata avalorizzare economicamente un enorme complesso di aree. Nel gigantescocomplesso immobiliare dell’Arsenale di Venezia, di eccezionale valorestorico-artistico, sono in atto da tempo iniziative di privatizzazione e“valorizzazioni” degli immobili oggi di proprietà pubblica. Al Lido di Veneziasono in corso iniziative di “valorizzazione” turistica basata essenzialmentesulla privatizzazione di complessi immobiliari pubblici. I tre poli dovrebberoavere il loro collegamento funzionale con la metropolitana sub lagunare,intervento devastante per l’impatto sullastruttura geologica di base dellacittà (il “caranto”) e per l’ulteriore apporto di flussi turistici verso unacittà già alle soglie del collasso.
«È quella del terremoto senza rinascita, delle trivellazioni selvagge e della «catena di comando» fuori controllo. E dell’Abruzzo arrabbiato con il governo bipartisan. Il premier non regge le contestazioni e salta la prima tappa. In prima fila il coordinamento contro le trivelle di "Ombrina", gli studenti e i comitati per la ricostruzione». Il manifesto, 26 agosto2015
In una quasi rissa, con feriti e malori e autoambulanze arrivate per i soccorsi. E il primo ministro costretto, alla fine, a defilarsi da una porta di servizio, perché all’esterno urlano contro di lui, la sua politica e il suo governo.
La città è blindata: non si passa. Transenne ovunque, anche per i giornalisti. Vengono tenuti a debita distanza da palazzo Fibbioni, di proprietà del Comune, nel cuore del centro storico, dove impazza la consueta sfilata di politici, soprattutto Pd, e dove è prevista la tappa iniziale del presidente del Consiglio: è la sua prima volta a L’Aquila. La presenza di Matteo Renzi era stata annunciata più volte, e poi sempre smentita, da circa un anno e mezzo.
Temi centrali del summit con le istituzioni del territorio saranno, in particolare, i fondi governativi per la ricostruzione post-sisma e il problema della restituzione di tasse e contributi sospesi dopo il disastro. Ma il tour e il programma previsti vengono presto accantonati. Perché scoppia la protesta.
Grida, le forze dell’ordine cominciano a correre, i cronisti che rompono gli sbarramenti dietro i quali sono stati relegati. Ad aspettare al varco Renzi comitati di residenti e l’Unione degli studenti.
«Veniamo chiamati a fare da spettatori all’ennesima passerella istituzionale sul nostro suolo» dice William Giordano, coordinatore dell’Unione degli studenti L’Aquila, «Alle promesse mai mantenute sui tempi della ricostruzione e alla futile ricerca di consensi e mediaticità da tempo opponiamo percorsi di partecipazione attiva e reale. Non è un caso se qui sono stati raggiunti picchi di mobilitazione contro un modello autoritario di scuola e il definitivo smantellamento della scuola pubblica. Renzi ha dimostrato di procedere per forzature democratiche e di rifiutare il confronto. Per questo a L’Aquila non è il benvenuto».
In prima linea il Coordinamento No Ombrina con bandiere e striscioni bianco e azzurri, il Wwf, Legambiente e i «No triv»: tutti contro la perforazione di pozzi di petrolio in Adriatico, e in particolare a ridosso delle Costa dei trabocchi, in provincia di Chieti, in luoghi protetti e di bellezza unica. Ci sono il comitato «3 e 32» e una delegazione contro il gasdotto Snam di Sulmona.
Il parapiglia inizia sotto i portici di via San Bernardino. «Renzi, Renzi fuori dall’Abruzzo», viene ripetuto. Con il cordone delle forze dell’ordine sempre più massiccio. Arrivano le squadre antisommossa. «L’Aquila libera, mai la mafia, non la vogliamo».
I manifestanti vengono accerchiati e respinti, ci sono tafferugli e nella foga c’è chi sviene e finisce sull’asfalto: un uomo sarà soccorso e caricato in ambulanza e portato in ospedale. «È inaudito quello che sta accadendo» tuona Maurizio Acerbo, di Rifondazione comunista «Si prendono a botte cittadini che volevano soltanto avere un confronto civile».
Poco in più in là, nei pressi della villa comunale, vanno in scena gli scontri. «Via Renzi il petroliere». Forse c’è qualche lancio di pietre, forse no. «Hanno tirato sampietrini addosso alle forze dell’ordine», dirà il presidente della Regione, Luciano D’Alfonso.
L’Aquila si… surriscalda. Ci sono manganellate e uova che volano di qua e di là. Da un lato la folla, dall’altra la polizia. Che picchia. Ci sono ragazzi colpiti alla testa, che debbono far ricorso alle cure, un’agente ricoverata per la frattura del setto nasale.
È il marasma e così Renzi, per motivi di sicurezza, salta il primo appuntamento e viene dirottato, in fretta e furia, verso la sede del Gran Sasso Science Institute, sempre in centro città.
In questo luogo, il premier avrebbe dovuto avere un secondo ed ultimo appuntamento con i sindacati e con le associazioni di categoria, in particolare quelle imprenditoriali e commerciali.
Impazzano i cori di critica, pesanti i toni: «Non vogliamo le lobby»; «Non ci piace lo Sblocca Italia che devasta i territori»; «Vogliamo la ricostruzione dell’Aquila».
«Renzi distrugge l’ambiente che è il nostro pane e quello delle nuove generazioni» affermano Franco Mastrangelo e Alessandro Lanci, in prima linea contro la piattaforma petrolifera Ombrina mare.
«È venuto un emissario del Pd a chiederci se tre di noi volevano incontrare Matteo Renzi. Ma gli abbiamo detto: no, grazie. Non facciamo selfie con un premier che ha dato il via libera alle trivelle ammazza-Adriatico con il sì alle perforazioni petrolifere offshore» riferisce Augusto De Sanctis, del Forum Acqua Abruzzo, «Invece di discutere con noi» conclude, «rispetti la volontà popolare di tutte le regioni adriatiche che si oppongono alla deriva petrolifera».
Il giornalista non ha capito niente. Il fatto è che promettono interventi sopratttutto per far piacere ai loro amici, dagli attori degli appalti, giù fino al signore che vuole l'autostrada vicino al suo terrenuccio; ma poi si fanno convincere dai gufi e dai comitatini, e allora ci ripensano. Il Fatto Quotidiano, 11 agosto. 2015
Danno i numeri, letteralmente. Una festosa tradizione alla quale si è unito il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio: “In 20 mesi sbloccheremo opere per almeno 15-16 miliardi”, ha detto in un’intervista a Repubblica.
L'arma segreta è il verbo “sbloccare”, che dà l’idea di un Paese governato con lo Svitol. Non a caso lo slogan pubblicitario del popolare lubrificante è “Serve sempre!”. Ma che cosa vuol dire sbloccare? Niente, come ha spiegato ieri autorevolmente uno dei maggiori sbloccatori di sempre, Corrado Passera: “Il governo non fa che riannunciare opere già annunciate e comunque già sbloccate da governi precedenti”, ha detto ieri il ministro delle Infrastrutture del governo Monti. All’inizio del 2012 spiegò alla Camera: “L’idea è di poter vedere nel corso dei prossimi 12 mesi un ammontare di complessivi 40-50 miliardi di lavori il più possibile avviati”. Venne poi, con il governo Letta, Maurizio Lupi. Appena insediato, maggio 2013, ruppe gli indugi: “La prima priorità è vedere tutto ciò che è cantierabile, sbloccare e revocare se serve”. Un anno dopo lo svitol non aveva ancora fatto effetto, e dunque, con il nuovo premier Renzi, si passò alle maniere forti: il decreto Sblocca Italia. “Lo Sblocca Italia mira prevalentemente a sbloccare la burocrazia”, tuonò Lupi. Era l’agosto dell’anno scorso. L’afa accentuava il bisogno di sbloccare. Renzi annunciò trionfale che con le misure di sburocratizzazione contenute nel decreto avrebbe sbloccato cantieri già finanziati per 30 miliardi e 402 milioni (il dettaglio rende sempre più credibile la sparata) mentre nuove risorse avrebbero sbloccato altri cantieri già finanziati per 13 miliardi e 236 milioni. In tutto 43 miliardi e 638 milioni, per la precisione, il tutto da sbloccare entro 6-12 mesi. Dieci mesi dopo, il 6 luglio scorso, Renzi ha detto: “Per favorire la ripartenza dell'economia italiana si possono sbloccare infrastrutture per circa 20 miliardi: soldi già stanziati per opere al momento ferme”. Viene da chiedersi se i 20 miliardi di Renzi, già scesi a 15-16 nel giro di un mese, con miliardi che vanno e vengono, sono parenti di quei 43 dell’anno scorso. Cioè: sbloccati quei 43 grazie alle mirabolanti sburocratizzazioni dello Sblocca Italia, adesso ne sblocchiamo altri 15 o 16 o 20? O i 15, i 16, i 20, i 43 e i 50 di Passera sono sempre gli stessi, cioè il nulla delle parole al vento buone per catturare titoli agostani?
Passera, che parla con l’autorevolezza dell’inventore del metodo “sblocca continua”, insinua che sia tutta una presa in giro. Quando era ministro aveva istituito il sito “Cantieri Italia”, con l’impegno di informare in modo trasparente sull’avanzamento delle grandi e piccole opere infrastrutturali. L’ultimo aggiornamento del sito è datato 1 agosto 2014. La pagina cantieriecrescita.gov.it che lasciò sul sito del ministero il resoconto dell’attività di Passera è stata cancellata dai successori, come se si fosse spezzata la continuità dello Stato. Così è impossibile sapere come stanno esattamente le cose, proprio a causa dell’opacità di un governo che pure si fonda sulla comunicazione.
Qualcosa però si può intuire osservando le tracce più evidenti dello scollamento tra gli annunci e i fatti. Un anno fa, Renzi annunciò che l’Alta velocità tra Napoli e Bari avrebbe aperto i cantieri a novembre 2015 anziché nel 2018. La nuova ferrovia Palermo-Catania-Messina avrebbe aperto i cantieri a dicembre 2015. Tra poche settimane vedremo dunque i cantieri aperti? Può darsi, ma i 12 miliardi complessivi di costo delle due opere vanno nel conto dei 43 sbloccati da Renzi nel 2014 o dei 15 che Delrio deve ancora sbloccare? E i dieci miliardi di investimenti nelle autostrade –che Renzi sbloccò un anno fa promettendo ai gestori della rete la proroga delle concessioni – come li consideriamo, visto che l’Unione europea ha ribloccato il tutto bocciando l’astuta operazione come aiuti di Stato illegali? Sbloccati o da sbloccare? Il mistero è fitto. Passera ieri ha chiesto trasparenza al governo, sostenendo che è il solo modo per “capire se i 15 miliardi di cui parla Delrio sono investimenti ulteriori rispetto a opere già finanziate o sono come i carri armati di Mussolini”. Ma è evidente che per l’ex ministro, e non solo per lui, la risposta è già chiara.
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Il veicolo privato a combustione interna con un solo passeggero, attorno a cui si organizza tutto il resto del mondo, pare avviato a un faticoso e drammatico tramonto: quanta fatica però! La Repubblica, 10 agosto 2015, postilla (f.b.)
Il brivido al volante resterà un’emozione virtuale. Da provare quando stai incollato al mouse di un videogioco e ti misuri con i tuoi riflessi. Nella vita reale le auto del futuro sono destinate a velocità ridotte, probabilmente elettriche e sempre più spesso autonome. Guidate da un computer che ti porterà dritto alla meta senza stress, distrazioni e soprattutto consumi. Slowdrive, ecodrive, il driverless da tendenze diventano imperativi per molti governi. Finiscono per condizionare la politica commerciale delle grandi industrie automobilistiche. Perché una riduzione del limite di velocità significa più vita: meno inquinamento, meno incidenti, meno traffico, meno spese per carburanti e assicurazioni.
Anche la Francia, dopo l’Olanda e la Gran Bretagna, ha deciso che la battaglia del sindaco di Valenza, nel Drôme, il repubblicano Nicolas Daragon, non è poi così folle. Anzi, piace a molta più gente di quello che si pensava. Si corre in pista, nelle gare di rally. Su strade e grandi arterie, nella vita di tutti i giorni, meglio portare il limite di velocità dai 120 ai 90. Da sempre scettica, il ministro dell’Ecologia Ségolène Royal alla fine si è convinta e ha deciso di presentare un decreto sulla materia. «E’ necessario - ha spiegato qualche giorno fa adottare delle misure per tutelare la salute delle popolazioni attraversate da tratti di autostrada». Il sindaco della città del sudest francese si batte da anni per allentare la morsa del traffico sulla A7 che sconvolge la sua popolazione. È l’arteria più frequentata d’Europa: un fiume di 70 mila veicoli la solca ogni giorno. Tremila ogni ora, 50 al minuto. L’emissione dei gas di scarico e delle polveri sottili ha un impatto decisivo sulla vita della comunità. Tanto da spingere Daragon ad imputare al traffico la morte per tumore di 55 residenti del circondario.
Forte di tre studi che ha commissionato, il sindaco ha chiesto che il tratto della A7 che taglia la periferia di Valenza abbia un limite di 90 chilometri orari. Si è infatti accertato che anche una riduzione di soli 30 km abbassa del 5 per cento il livello di contaminazione dell’aria. Rilevazioni analoghe svolte a Parigi hanno dimostrato che imporre una velocità di 70 all’ora dagli attuali 80 riduce anche del 23 per cento il numero degli incidenti e del 65 per cento quello dei morti e dei feriti sulle strade. Pochi ci riflettono ma i numeri e i confronti aiutano a capire il male che ci facciamo. In Francia il costo annuale dei danni da inquinamento è di 101,3 miliardi: il doppio del tabacco (47) e tre volte l’alcol (31). Le mini particelle di ozono sono all’origine dei 45 mila decessi legati all’aria che respiriamo. Il decreto dovrebbe essere applicato in 12 grandi città del paese. In via sperimentale. A Parigi ha resistito 18 mesi: guidare sempre e ovunque sotto i 70 all’ora, anche nei Périphériques, ha finito per creare enormi intralci alla circolazione. Sulle autostrade è diverso. Tours, Lione, Reims, Tolone e altri grandi centri sono favorevoli. Renault e Citrôen hanno già messo a punto modelli con limiti di velocità predefiniti. Le altre case costruttrici si stanno adeguando. Fiat Chrysler in testa.
La tendenza è già futuro. Google, con Apple, sta progettando macchine totalmente robotizzate. Un computer non commette gli errori umani che sono la principale causa degli incidenti. A meno di essere hackerato. Ma questo è un altro problema. Sebastian Thurn, coordinatore ricerche mobilità della casa di Cupertino, è certo che le auto automatizzate ridurranno del 90 per cento gli incidenti, del tempo impiegato, dell’energia usata, del numero di veicoli in circolazione. Morgan Stanley ha valutato i vantaggi per una città come New York: un guadagno di 1,3 trilioni di dollari (8 per cento del Pil). Nella Grande mela si è proceduto a una simulazione sui 13 mila taxi che forniscono 500 mila corse al giorno. Per coprire il fabbisogno basterebbero 9 mila auto robotizzate. I tempi di percorrenza si limiterebbero da 5 a 1 minuto; i costi sarebbero ridotti di 7 volte. A Rotterdam ce ne sono una decina, su piccoli e previsti percorsi. Funzionano. Come un orologio. Cala lo stress, cala l’inquinamento. Guidare torna a essere un piacere. Gli unici a remare contro, in un silenzio imbarazzato, sono le assicurazioni: rischiano di perdere il 70 per cento degli introiti. Si stanno rassegnando. Hanno già pensato dove recuperare.
postilla
Come si prova a spiegare secondo varie prospettive da parecchio tempo, il processo della cosiddetta «demotorizzazione» pare ineluttabile, anche se onestamente gli organi di informazione (a differenza delle case automobilistiche e di altri comparti del mercato) e i decisori politici sembrano molto riluttanti ad accettarne il portato culturale. Probabilmente il mito della velocità fisica novecentesco, il famoso zang-tumb-tumb dei futuristi, della «automobile rombante più bella della Vittoria di Samotracia», sta non solo immerso nella nostra percezione del mondo, ma soprattutto impregna di sé una miriade di rivoli economici che non intendono esaurirsi davanti alla misera questione della propria certificata inutilità. Per esempio qualche giorno fa l'amico ed esperto di trasporti Alfredo Drufuca, leggendo criticamente un documento di programmazione settoriale del centrodestra, scopriva addirittura la categoria della «velocità percepita» come fattore di decisione tecnica, dentro uno di quei progettoni di infinite reti autostradali e corrispondente «sviluppo del territorio» circostante. Ecco quali sono gli ostacoli dell'innovazione tecnologica, sociale, della sostenibilità ambientale. Pare strano, ma davvero «il problema è politico» (f.b.)
«Grandi opere. Tav, super-tunnel, tram, aeroporti: tanti i progetti avulsi dalla realtà, capolavori dell'anti-programmazione. Il conflitto sull’urbanistica tra politica e università: prevale la logica dall’alto». È ovvio, caro: siamo del feudo dell'Imperatore, lì Lui comanda direttamente, non gli servono vassalli, valvassori e valvassini; al massimo adopererà qualche sgherro per i più riottosi.Il manifesto, 7 agosto 2015
A Firenze è ormai imploso il sistema delle grandi opere; a cui pure il nuovo sistema di potere renziano voleva «dare un ‘accelerazione». Invece è tutto fermo o quasi : bloccato il progetto Tav anche dalle inchieste giudiziarie; stoppato quello dell’aeroporto dalla commissione VIA (Valutazione d'Imatto Ambientale) del Ministero dell’Ambiente; a rilentissimo, con forti ritardi e disagi, i cantieri per i tram.
Il progetto dell’Enac è addirittura più grande e in contrasto con quanto previsto dal PIT Paesaggistico, che pure prevedeva un ampliamento con una nuova pista di «soli» 2 mila metri e la ricerca di una difficile compatibilizzazione con l’esigenze dell’adiacente Parco della Piana, già minacciato da altre attrezzature assai impattanti. In questi giorni il Ministero dell’Ambiente– accogliendo sostanzialmente le Osservazioni alla VIA avanzate da apposito gruppo di lavoro di docenti di Ingegneria– ha bloccato il progetto, chiedendo delucidazioni sulla sua compatibilità programmatica, sulla coerenza e sulla possibile coesistenza con altri strumenti di piano e con attrezzature già esistenti. Soprattutto ha mosso rilievi sugli impatti ambientali: rumori e vibrazioni che colpiscono abitanti e lavoratori dell’intorno, assetto idrogeologico, effetti sugli ecosistemi del Parco, insufficienti analisi sull’inquinamento atmosferico. Sottolineati anche dall’urbanista e storica Ilaria Agostini.
Il gruppo di ricerca «Mobilità sostenibile nell’Area Fiorentina» sottolinea come si sia andati avanti con progetti singolari di pezzi di linea– pure spesso variati– che guardano solo a sé stessi, con logica esasperata dalle esigenze del project-financing; anche in contrasto, oltre che con le esigenze generali della mobilità, con quelle delle altre linee. Bisogna fermarsi un attimo e redigere un Piano complessivo di rete nell’ambito di un piano di mobilità integrato per la città e l’Area metropolitana. Intanto, invece che proseguire con la realizzazione –invero assai difficoltosa come dimostrano i forti ritardi e i continui stop ai cantieri– di infrastrutture assai impattanti, si potrebbero attivare subito alcune LAM (Linee ad Alta Mobilità)con ecobus (Autobus a bassissimo consumo e impatto) su corsia riservata , che potrebbero soddisfare una domanda più ampia di quella dei tram, senza cantieri per nuove opere e disagi per la cittadinanza e l’ecosistema urbano; e in attesa di un piano per la mobilità credibile. Infine c’è quello che è ormai diventata un’icona del fallimento delle Grandi Opere. Il Grande Buco di Firenze, il supertunnel e stazione sotterranea TAV. I lavori sono sostanzialmente fermi da tempo, per due inchieste della magistratura. Ma ai problemi ambientali– irrisolti tuttora– messi in luce dall’inchiesta (compatibilità della fresa con il sottosuolo interessato, caratteristiche dei materiali, natura delle terre di scavo, oltre agli aspetti più evidentemente penali, legati a corruzione e irregolarità amministrative) se ne sono nel tempo aggiunti diversi altri, puntualmente segnalati dal Gruppo di lavoro dell’Università sul tema.
Tra questi la mancanza di VIA della megastazione sotterranea; che perdura , nonostante le inchieste che hanno investito MinAmb proprio su questo tema. «Se si fa la VIA della Stazione Foster non si fa più il Sottoattraversamento!» urlò Matteoli,allora ministro berlusconiano dell’Ambiente e la VIA non si fece più : anche perché avrebbe esplicitato la presenza di problemi insormontabili. Ancora non ci sono le Autorizzazioni Paesaggistiche, il che rende abusive le (poche) attività in essere che andrebbero subito fermate. Soprattutto, grazie agli studi di Teresa Crespellani e Massimo Perini, oltre a Giovanni Vannucchi, c’è oggi molta più contezza sugli effetti dello scavo dei tunnel, finora mai avviato: emerge l’incompatibilità della natura e delle dimensioni delle operazioni previste con le particolari caratteristiche del sottosuolo fiorentino; specie in presenza di forte urbanizzazione , con patrimonio abitativo densissimo, presenza di monumenti direttamente impattati e pochissima distanza dal core dell’enorme patrimonio artistico del centro Storico. Appare purtroppo corretto prevedere piccoli e grandi disastri , la cui entità specifica è oggi impossibile da stimare, a fronte dei più che probabili problemi continui, lesioni, cedimenti, crolli. Firenze continua a soffrire il continuo tentativo di imposizione di “grandi progetti”, in realtà operazioni quasi sempre avulse dalla reale domanda sociale; ma finalizzate a spendere a breve, a beneficio degli interessi speculativi che ne condizionano e distorcono la governance. Tale logica va abbandonata per tornare a scenari di pianificazione corretta e sostenibile del territorio e dei trasporti.
Non inganni il tono leggero, che illustra un caso locale di un problema universale: di burocrazia e ottusità istituzionale possono morire le persone e la vitalità urbana, altro che. Corriere della Sera Milano, 30 luglio 2015, postilla (f.b.)
Al primo conteggio erano 98, al secondo sono diventati 106, al terzo sono scesi a 102. Che è la media dei tre, quindi lo diamo per buono. Eccolo l’oggetto di metallo avente sezione tondeggiante e sviluppo prevalente nel senso della lunghezza, che piantato in terra per un estremo serve di sostegno. In sintesi, il palo: 102 ce ne sono, più o meno, nel solo largo Cairoli che sta rinnovando la viabilità e di conseguenza anche la segnaletica. Il che certifica due fatti. A) È certo che con tutte quelle indicazioni non ci si può perdere. B) La palite è la nuova malattia della burocrazia automobilistica urbana. Ormai c’è un palo per ogni cartello, o un cartello per ogni palo (sarà nato prima il palo o il cartello?, ah, saperlo!). Solo per i semafori ne svettano 36: possibile che ne servano così tanti in una piazza dal diametro di 50 metri? Tutti indispensabili? Pare di sì.
Poi ci sono tutti i piloni per le piste ciclabili: e via, altri segnali, di divieto, di consenso, di senso unico, di svolta a destra, di svolta a destra ma non a sinistra ma forse solo nei giorni pari. Poi c’è anche la versione nana con i mini pali a indicare gli spartitraffico. E le aste — appena due, tristi, solitarie y final — con gli specchi per i tram, che in realtà son già attrezzati di loro, ma non si sa mai: due specchi riflettono meglio di uno. E poi come non segnalare l’inizio della pista ciclabile e dell’area pedonale e poi la fine dell’area ciclabile e della pista pedonale? L’architetto dell’Expo Gate che guarda al Castello Sforzesco deve aver dato un occhio al paesaggio confinante e ha deciso che lì, in quello slargo, la fiera del palo era perfetta.
Via via che le piazze si rinnovano, l’aumento demografico dei pali cresce incontrollato. Basta fare uno slalom in piazza XXIV Maggio o una gimkana in largo Greppi, davanti allo Strehler. Sarà colpa delle nuove norme europee che spesso fanno a pugni con il buonsenso, ma è un fenomeno inarrestabile che disegna la nuova geografia dell’urbano palinsisto (in psichiatria il palinsisto è la coazione a ripetere nel piantare ogni tipo di palo, roba da Freud più che da assessore ai Lavori pubblici).
Un dedalo infinito di pali grigi, poi forse li dipingeranno — anche se pare che quel colore che sa di provvisorio sia quello definitivo. Intanto ne rimane pure qualcuno di quelli vecchi — giallo estinto tipo taxi — perché i pali nuovi sono quasi sempre un metro più a destra, 70 centimetri più avanti, mezzo metro più a nord di quelli precedenti. Con grande gaudio e soprattutto grande fatturazione per il Fornitore Unico di Pali che, immaginiamo, avrà vinto un appalto (chissà a quanto lo fa un palo, casomai servisse in casa).
La piazza è quasi terminata, con la sua nuova fisionomia a palafitta al contrario. Politicamente corretto e nel rispetto delle singole sensibilità poi che ogni palo sia così valorizzato, ognuno con il suo unico segnale stradale. Guardando meglio però — surprise — c’è un palo che regge due cartelli. Ma sarà di certo un errore.
postilla
Quanti casi analoghi possiamo citare, magari sperimentati di persona in qualche surreale percorso a slalom, di solito da pedoni, o in quelle foto «curiose» sul social che ritraggono la striscia bianca della carreggiata scostarsi rispettosa davanti a San Palo, per poi riprendere la corsa verso l’infinito? Il fatto è che si tratta di un problema serio, di qualità urbana e di sicurezza, se l’ex ministro per le aree urbane Tory, Eric Pickles, ne aveva desunto una vera e propria policy con tanto di rapporti e disegno di legge per l’abolizione delle «carabattole stradali» (street clutter). Non questione solo estetica, ma ostacolo a una autentica fruibilità degli spazi pubblici, ai flussi di traffico intermodale, alla stessa applicazione tecnica di qualche versione locale degli «spazi condivisi» di Hans Monderman, i pali ubiqui e autoreferenziali sono un problema serio. Da considerare seriamente, e non solo quando ci pestiamo contro la capoccia scendendo dal tram (f.b.)
Un altro scandalo minaccia (per noi "promette") di fermare l'attraversamento sotterraneo del centro di Firenze. Ma il toscano padrone d'Italia non si lascerà fermare da leggi, burocrazie, soprintendenze e così via...La Repubblica, ed. Firenze, 24 luglio 2015
La stessa autorizzazione che è costata qualche guaio giudiziario aggiuntivo a Ercole Incalza, l’ex top manager delle infrastrutture arrestato per ordine della procura di Firenze: attestò che l’autorizzazione paesaggistica non era scaduta, mentre invece lo era già. Secondo i No Tav fiorentini, che con Massimo Perini e Tiziano Cardosi hanno pure scritto al Comune di Firenze per chiedere lumi, l’autorizzazione paesaggistica sarebbe scaduta addirittura nel 2005.
Certo, in teoria si può sempre rinnovare. Solo che non è una cosa che si può fare dalla sera al mattino. Occorrono certificazioni, elaborati progettuali. E occorre che si esprima il ministero dei Beni culturali: il bello è che dal primo gennaio 2010, a seguito di un decreto legislativo, è cambiata l’intera procedura di autorizzazione. E se prima il parere del ministero arrivava a seguito dell’esclusiva valutazione e verifica della domanda e della relativa documentazione, dal 2010 in poi è diventato centrale il ruolo della soprintendenza. Con quale normativa si dovrebbe rinnovare adesso l’autorizzazione ambientale?
«A settembre il Cnr avrà classificato le terre di scavo e bisognerà solo vedere se le autorizzazioni valgano ancora». È lo stesso Ad di Rfi Maurizio Gentile ad ammettere che le autorizzazioni potrebbero diventare un problema. Un’altra ‘spada di Damocle’ che pende sul tunnel fiorentino. Non l’unica. Perché quando il Cnr, dopo ormai un anno e mezzo di meditazione, avrà stabilito se i materiali prodotti dalla ‘talpa’ siano rifiuti o semplicemente terre, anche il Put, il Piano di utilizzo delle terre dovrà essere rivisto.
Quello esistente, elaborato dal vecchio consorzio Nodavia (in mano alla Coopsette mentre oggi è di Condotte) nel 2012, fu approvato dal ministero dell’ambiente. Pochi mesi dopo però saltò fuori l’inchiesta della procura di Firenze e, prudententemente, il ministero provvide a sospenderlo. Adesso quel Piano dovrà essere rivisto sulla base delle conclusioni del Cnr e di nuovo valutato. Quanto tempo richiederà? Difficile fare previsioni. Altrettanto difficile prevedere l’avvio dello scavo nel prossimo autunno. Anche se Condotte ci crede: «La nuova fresa ultimata in Germania è già in viaggio per l’Italia e per fine ottobre sarà montata e pronta ad iniziare», annuncia l’impresa. Quanto al rinnovo dell’autorizzazione paesaggistica, fa sapere Condotte con uno slancio di ottimismo, «dovrebbe pervenire in tempo utile per l’avvio degli scavi». Appunto, dovrebbe.
«La documentazione di valutazione di impatto ambientale prodotta da Enac, braccio armato della Toscana Aeroporti di Marco Carrai, non convince il ministero dell'ambiente. Entro 45 giorni Enac deve rispondere a numerose, e gravi, criticità del Masterplan del futuro scalo». Il manifesto, 24 luglio 2015
L’assoluto nonsenso di un nuovo scalo intercontinentale in un’area densamente urbanizzata, e ambientalmente già congestionata, convince anche il ministero dell’ambiente a dare un pesante colpo di freno al progetto del nuovo aeroporto Vespucci. Se ne farà una ragione Toscana Aeroporti, guidata da Marco Carrai. Il cui vicepresidente Roberto Naldi, intervistato nei giorni scorsi dal Tg3 toscano, assicurava l’inizio delle opere propedeutiche già a fine agosto. In tempo per non perdere i 50 milioni inseriti nello Sblocca Italia dal governo di Matteo Renzi, principale fan dell’opera.
Nelle sedici pagine di richieste di integrazione alla documentazione di valutazione di impatto ambientale prodotta dall’Enac, braccio armato di Toscana Aeroporti, il ministero impallina il Masterplan aeroportuale. Il Masterplan, perché del progetto definitivo – sui cui in teoria dovrebbero essere fatte le Via – non c’è traccia. Una procedura così anomala da far scrivere all’arrabbiatissima Università di Firenze, il cui prestigioso Polo scientifico finirebbe viicinissimo allo scalo: “Si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di Via, siano rilevabili evidenti profili di illegittimità, tali da giustificare un parere negativo”.
Su questo tema, per ora, i tecnici del ministero non si esprimono. Lo fanno invece su quanto prodotto da Enac, l’Ente nazionale aviazione civile, che da tempo lavora per far realizzare, per “motivi di sicurezza”, la nuova pista parallela all’autostrada A11 Firenze-Mare lunga ben 2.400 metri. Più altre centinaia di metri per vie di fuga e altri “accorgimenti tecnici”. Ben oltre quanto deciso dalla stessa Regione Toscana, che nel suo Piano di indirizzo territoriale sull’area ha posto come limite massimo una pista di 2.000 metri. Fatto che porta subito il ministero a chiedere: “Il proponente (cioè Enac, ndr) provvederà a chiarire quali sono le modalità previste per la risoluzione dell’incongruenza rilevata con le previsioni del Pit”.
Pagina dopo pagina, i tecnici proseguono nel loro lavoro di demolizione: “Il proponente non esplicita in modo chiaro e dettagliato le interazioni, le correlazioni e la coerenza delle opere idrauliche previste nel Masterplan, con i progetti di altre pianificazioni e e programmazioni che insistono sull’area di influenza dell’aeroporto. In particolare si evidenzia di chiarire, da un punto di vista progettuale e quindi sugli impatti ambientali attesi, in primo luogo le relazioni con la terza corsia autostradale dell’A11 (Firenze-Mare) da Firenze a Pistoia. Con l’inceneritore e la discarica di Case Passerini. Con la pianificazione dei Comuni interessati. Con il Pit della Regione Toscana sulle opere di gestione delle problematiche del sistema idrico”.
Un sistema assai complesso, visto nella Piana fiorentina incidono numerosi corsi d’acqua e in particolare quel vero e proprio mini-fiume che è il Fosso Reale. Di qui l’osservazione: “La scelta di deviare il Fosso Reale secondo il tracciato presentato, e le soluzioni scelte per superare l’interferenza con l’autostrada A11, non risultano dettagliatamente motivate”. Quanto alla pianificazione dei Comuni interessati, basta chiedere ai “ribelli” di Sesto Fiorentino, che hanno defenestrato la sindaca renziana Sara Biagiotti anche per la sua inazione sul tema.
Non è finita: sulla qualità dell’aria nella zona, già oggi al limite, si scopre che Enac ha portato solo i dati dell’anno 2010: “Le analisi vanno fatte su un arco di tempo di almeno dieci anni – replica il ministero – sullo scenario futuro di traffico aeroportuale più gravoso, e gli effetti vanno considerati su una distanza minima di tre chilometri”. A seguire la risposta a un’altra furberia di Enac: “Le concentrazioni degli inquinanti vengono simulate senza considerare i livelli di fondo dell’area. Che vanno mostrati, e poi separati da quelli che saranno propri dell’aeroporto”. Tanto basta perché i consiglieri della sinistra cittadina Tommaso Grassi, Giacomo Trombi e Donella Verdi, così come l’urbanista Ilaria Agostini di Perunaltracittà, tirino le somme: “I tecnici del ministero ridicolizzano il Masterplan”. Per giunta le risposte di Enac devono arrivare, al massimo, entro 45 giorni.
Riferimenti
Vedi su eddyburg gli articoli di Ilaria Agostini e di Paolo Baldeschi. Numerosi altri nella cartella muoversi accedere spostarsi
«Non solo bancarelle, ma anche rivendite di giornali. Quasi tutte si sono trasformate in botteghe di souvenir. E quotidiani e periodici, per cui il suolo pubblico era stato concesso, spesso non sono nemmeno esposti. Infine, i tavolini. Plateatici ovunque». La Nuova Venezia, 16 luglio 2015 (m.p.r.)
C’era unavolta il suolo pubblico. Pubblico, cioè di tutti. Bene comune godibile e “calpestabile”. Adesso il suolo pubblicoè ridotto ai minimi termini. Nella gran parte occupato da bancarelle, sedie tavolini, edicole diventate emporidi souvenir. Tutti uguali e a basso prezzo. Cappelli, borse, occhiali, grembiuli con gli organi maschili. Oggettiideali per il turismo giornaliero mordi e fuggi. Un po’ meno per il “decoro” della città d’arte. Situazione chenegli tempi sta sfuggendo di mano. Non ci sono soltanto gli abusivi, i venditori di palline e di borse senzalicenza. Ma centinaia di strutture “regolari” che col tempo si sono ingrandite, diventando veri e propri emporiin strada. Molti gestiti in subappalto da cingalesi e indiani. Altri, come nell’area marciana, rimasti nelle manidi veneziani. Difficile, soprattutto in estate e in certe ore del giorno, riuscire a passare.
Lista di Spagna e RioTerà San Leonardo, Anconeta e Santa Fosca, Strada Nuova. I banchi crescono, e alle tende è appeso ogni tipodi mercanzia. Sembra di stare in un mercato arabo. Con la differenza che la qualità degli oggetti non sempre èdi buon livello, la produzione quasi mai autoctona. Rari i controlli. E così gli originali “banchi ambulanti” diun metro per uno sono triplicati, con accessori esterni. Un tempo i banchi non potevano neanche essere “fissi”ma dovevano appunto “ambulare”. C’era anche la commissione per l’ornato, che stabiliva regole sugli arredi ele merci da esporre. Adesso il “suk” è generalizzato. Chi controlla? L’assessorato al Commercio non disponenemmeno di un archivio informatico aggiornato per potere visionare in tempo reale la situazione. Bisognamisurare in loco, e gli organici dei vigili non lo consentono.
Non solo bancarelle, ma anche rivendite digiornali. Quasi tutte si sono trasformate in botteghe di souvenir. E quotidiani e periodici, per cui il suolopubblico era stato concesso, spesso non sono nemmeno esposti. Infine, i tavolini. Plateatici ovunque. Ognibar o ristorante ne ha uno. Anche in aree dove il passaggio è intenso. Inutili le proteste della Municipalità cheda anni chiede di visionare le richieste prima dell’approvazione da parte degli uffici comunali. Sedie e tavolini,insieme a cartelli e menu ricoprono ormai la gran parte dei masegni in ogni luogo. Intere aree sono statetrasformate, spariti i negozi di vicinato e gli artigiani. I fondi sono stati acquistati da commercianti cinesi. Levetrine tolte, la merce uniformata. Borse, oggetti a 0,50 spesso in saldi con il 50% di sconto, gelati, pizze.L’incontrollato afflusso dei turisti, in particolare di quelli giornalieri ha prodotto una trasformazioneprofonda, che sta diventando irreversibile. La consapevolezza che così si guadagna facilmente e non si devonorispettare regole è sempre più diffusa. Alla nuova amministrazione il compito di dimostrare con i fatti cheVenezia non è considerata come una Disneyland dorata con pochi indigeni, sopravvissuti al turismo, daeliminare.
“L’operazione – osserva la sinistra pisana che ha battezzato il suo documento “Tutti gli uomini del presidente” — porta ai vertici una galassia di figure legate direttamente all’attuale presidente del consiglio: presidente diventa Marco Carrai, con lui Jacopo Mazzei, (presidente dell’Ente CariFi) e Leonardo Bassilichi (presidente della Camera di commercio di Firenze e ad dell’azienda omonima). Tutti sostenitori della Fondazione Big Bang, che ha finanziato le campagne di Renzi e la kermesse della Leopolda. Senza dimenticare Elisabetta Fabbri, ad del gruppo Starhotels, nominata l’anno scorso dal governo Renzi membro del cda di Poste Italiane”.
Il pacchetto di mischia di Toscana Aeroporti è, come si vede, robusto. E ha l’aiuto dell’Enac, l’Ente nazionale aviazione civile, pronta a ricorrere contro la decisione presa lo scorso anno dalla Regione Toscana di limitare la lunghezza della nuova pista a 2.000 metri. Mentre Enac — e Toscana Aeroporti – la vogliono lunga 2.400 metri. Più altre centinaia di metri di vie di fuga e altri “accorgimenti tecnici”. Ufficialmente per motivi di sicurezza. Nei fatti crendo un doppione del’aeroporto intercontinentale Galilei di Pisa.
Sulll’intero progetto dovrà arrivare il giudizio sulla Valutazione di impatto ambientale. Nelle cui pieghe sono arrivate le osservazioni dell’Università di Firenze, il cui Polo scientifico e tecnologico è a un tiro di schioppo dal Vespucci. “Malgrado l’Università di Firenze – replica infastidito Carrai — gli ultimi quattro governi (di destra e sinistra) hanno deciso di ritenere strategico il sistema aeroportuale formato da Firenze e Pisa, e l’Ue lo ha inserito nella Rete Ten-t come nodo Comprehensive”. Ma il manovratore più stizzito è Roberto Naldi, neo vicepresidente di Toscana Aeroporti, che ha bollato come “mancante di dati scientifici” una puntuale radiografia delle enormi criticità dell’operazione fatta dall’urbanista Ilaria Agostini.
“In realtà – replica Claudio Greppi della Rete dei comitati per le difesa del territorio e dell’ambiente – di dati scientifici ce ne sono fin troppi. I professori dell’ateneo fiorentino che hanno redatto il corposo pacco di osservazioni a nome del rettore hanno elaborato un documento di 300 pagine, articolato in 11 osservazioni e un congruo numero di allegati tecnici. E chiudono il loro lavoro segnalando, per giunta: ‘Si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di valutazione dell’impatto ambientale relativa al progetto, siano rilevabili evidenti profili di illegittimità, tali da giustificare un parere negativo da parte dell’autorità competente’”. Tutti meccanismi che a Sesto Fiorentino sono ben conosciuti.
Sul legame tra l’attuale sindaco Nardella e il suo predecessore Matteo Renzi è sufficiente scorrere le intercettazioni pubblicate in questi giorni dal Fatto Quotidiano. Quanto è avvenuto in questi giorni a Firenze dimostra che lo spregiudicato gruppo di potere non è disposto a tollerare più alcuna critica sul suo operato. Il più grande progetto di trasformazione della città di cui si parla da venti anni è l’ampliamento dell’aeroporto di Peretola con la costruzione di una nuova pista. Il progetto ha sempre avuto una forte opposizione dal mondo dell’Università e degli urbanisti fatta di argomentazioni di merito, perché il luogo in cui sorge l'aeroporto è molto fragile dal punto di vista idrogeologico ed è troppo vicino al centro della città.
Ripeto, critiche note d tempo riconducibili alla normale dialettica tra chi esercita il potere e la società civile. Ma questo valeva prima che Renzi diventasse primo ministro e oggi a criticare si rischia grosso. Ne sa qualcosa Ilaria Agostini, architetto e docente di urbanistica, che sulle pagine locali de la Repubblica l’8 luglio scorso si è esercitata a ripercorrere tutte le criticità del progetto. Apriti cielo. Il giorno successivo sulle stesse pagine Marco Carrai replica molto risentito con un titolo che è un programma di governo “Perché si deve fare la nuova pista”. Carrai non è l’ultimo venuto. Non solo era il proprietario dell’alloggio generosamente messo a disposizione dell’allora sindaco Renzi, ma sta per assumerela guida della società cui sarà affidata la gestione del rinnovato aeroporto: la Toscana aeroporti spa.
Il Carrai muove due ordini di critiche. Non è vero che l’aeroporto è privato: è soltanto affidato in concessione ad una società che lo gestirà. Carrai fa una sorta di “chiamata di correo”, affermando che ciò vale per tutti gli aeroporti italiani. Vero. Solo che la collettività italiana ci mette anche un bel pacchetto di soldi e, dato il verminaio della commistione tra pubblico e privato che emerge in ogni affidamento di opere in concessione, è indispensabile chiudere la voragine dei conti pubblici: Renzi, e cioè la collettività italiana, con lo Sblocca Italia ci mette 50 milioni di euro, ma per Carrai la cosa non può essere neppure discussa.
E se Carrai tocca aspetti generali, il compito di intimidire Ilaria Agostini se lo assume l’ing. Roberto Naldi, numero uno di Corporacion America-Italia, una delle società che gestirà l’aeroporto. L’area prescelta per la realizzazione della nuova pista si trova in un luogo molto delicato dal punto di vista idrogeologico: la piana di Firenze è come noto un luogo delicato e la nuova pista di cemento armato lunga 2 chilometri e quattrocento metri sconvolgerà –oggettivamente- lo stato dei luoghi. Menzogne. Naldi afferma sempre su Repubblica che il nuovo progetto migliorerà lo scorrimento delle acque! Renzi fa miracoli e solo i gufi non lo vedono. Ed eccoci allo scoglio su cui si infrangerà il progetto. Ai sensi della procedura, i lavori dovranno iniziare entro il mese di agosto, ma la verifica degli impatti ambientali non è ancora espletata. Lo dice con molta onestà Naldi, anche se contemporaneamente minaccia querele verso l’Agostini rea di avere detto le stesse cose. Vedremo se i nulla osta ambientali verranno espressi in tempo.
Resta infine la questione gigantesca del sorvolo su Firenze. L’Enac (Ente nazionale per l’aviazione civile) ha affermato che la nuova pista non sarà monodirezionale e cioè verso Prato, ma dovrà essere utilizzata nei casi in cui il vento o altri fattori lo impongano anche in senso contrario, e cioè da e verso Firenze. E’ una questione decisiva, sempre negata dai promotori del progetto. Ma il documento è ufficiale: il potenziamento dell’aeroporto avrà effetti negativi sulla vita della città di Firenze e rischiamo di veder sfrecciare sopra la cupola di Brunelleschi Renzi, Nardella, Carrai e Adinolfi. Un motivo in più per non portare avanti l’inutile e dispendioso progetto
Guai a criticare il progetto dell'aeroporto di Firenze, per quanto fragili siano le sue basi economiche e devastanti le conseguenze territoriali. Il Capo lo vuole, irresistibilmente. Dunque, chi lo critica o è un gufo oppure non è abbastanza "scientifico".
Alle critiche sollevate da Ilaria Agostini nell’articolo, Le 10 cose da sapere sul nuovo aeroporto di Firenze, pubblicato l’8 luglio su la Città invisibile e ripreso da eddyburg, ha replicato sulla stampa locale Roberto Naldi, presidente di Corporacion [sic] America Italia, vice presidente in pectore della nuova società unica Toscana Aeroporti. Naldi ha contestato «la totale assenza di un supporto scientifico a sostegno delle accuse» (la Repubblica, ed. Firenze 10 luglio 2015
Allora vediamo che cosa dicono gli esperti dell’Università di Firenze, che il 25 maggio (in
piena campagna elettorale per le amministrative) hanno presentato un corposo pacco di osservazioni a nome del Rettore.
Quella che segue è una sintesi delle osservazioni presentate dall’Università di Firenze. In essa per Master Plan 2014-2019 si intende la variante al PIT che nel luglio 2013 definiva i termini per la “qualificazione dell’aeroporto di Firenze”. Per SIA si intende lo Studio di Impatto Ambientale presentato da Aeroporto di Firenze (ora Toscana Aeroporti), in vista di una VIA affidata ad Autorità competente.
Si noterà che se alcune osservazioni prevedono eventuali adeguamenti e rimedi, altre sono del tutto incompatibili con qualsiasi progetto di pista parallela.
Le conclusioni sono drastiche: “Alla luce di tutto quanto rilevato, si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di valutazione dell’impatto ambientale relativa al progetto siano rilevabili evidenti profili di illegittimità tali da giustificare un parere negativo da parte dell’Autorità competente”.
Come sono state accolte le osservazioni dell’Università? Con sufficienza, naturalmente: lasciamoli dire, tanto poi si adegueranno; ne terremo conto come prescrizioni da affrontare in sede di esecutivi. Del resto anche l’Università, che nel frattempo ha eletto il nuovo Rettore, non si è fatta più sentire. Lanciato il sasso, ritirata la mano? Viene da pensare che siano state offerte adeguate contropartite, se vogliamo pensar male. Ma noi vogliamo pensar bene: crediamo che i colleghi che hanno esaminato e demolito il progetto della nuova pista siano davvero i migliori esperti scientifici su questi temi. Certo, Ilaria Agostini è urbanista, come Paolo Baldeschi, Tomaso Montanari è storico dell’arte: io poi sono un geografo esperto di paesaggi e cartografia. Ma sappiamo riconoscere un discorso scientifico da un minestrone politico-affaristico, quale il progetto della nuova pista.
Credetemi, alla mia età posso ben dire di aver visto cose che voi umani …: una pista sulla vetta della Calvana (1963, qualcuno la prendeva sul serio), un’altra a San Giorgio a Colonica vicino a Poggio a Caiano (1965, ma disturbava la ciminiere dei lanifici di allora). Ma il tempo porta consiglio, e la soluzione piano piano è venuta da sola, in un certo senso: l’aeroporto c’è già ed è quello di Pisa che una volta si chiamava di San Giusto. Negli anni Settanta si poteva fare il check-in a Santa Maria Novella e arrivare in treno fin dentro l’aeroporto. Troppo comodo. In seguito hanno fatto di tutto per smantellare i collegamenti ferroviari, fino a eliminare il raccordino stazione di Pisa – aeroporto per sostituirlo in futuro con un cosiddetto people-mover, tanto per evocare qualcosa di molto moderno.
La soluzione ci sarebbe: ristabilire il collegamento ferroviario delle città toscane (non solo Firenze) con l’aeroporto Galilei, investire sulla rete del ferro che non serve solo i Vip ma anche i pendolari.
[1] “Gli aeroporti sono conformi ad almeno uno dei seguenti criteri:
a) per gli aeroporti adibiti al traffico passeggeri il volume totale annuo del traffico passeggeri è almeno pari allo 0,1 % del volume totale annuo del traffico passeggeri di tutti gli aeroporti dell’Unione, a meno che l’aeroporto in questione si trovi fuori da un raggio di 100 km dall’aeroporto più vicino appartenente alla rete globale o fuori da un raggio di 200 km se la regione nella quale è situato è dotata di una rete ferroviaria ad alta velocità;.
b) per gli aeroporti adibiti al traffico merci il volume totale annuo del traffico merci è almeno pari allo 0,2 % del volume totale annuo del traffico merci di tutti gli aeroporti dell’Unione.”
[2] “Articolo 5 bis. Obiettivi strategici per la qualificazione Aeroporto di Firenze-Peretola
Sulla base del quadro conoscitivo, con riferimento all’intervento di qualificazione dell’aeroporto di Firenze-Peretola, il presente masterplan individua i seguenti obiettivi
strategici:
− l’aumento dei livelli di competitività del territorio regionale, con particolare riferimento all’area metropolitana, in coerenza con la programmazione regionale;
− l’integrazione del sistema aeroportuale fiorentino con lo scalo pisano attraverso forme dicoordinamento operativo, e gestionale delle infrastrutture e dei servizi;
− la qualificazione dell’aeroporto con funzioni di city-airport nell’ambito del sistema aeroportuale toscano, migliorandone la funzionalità;”
Dieci semplici domande, dietro le quali trapela una lunga storia di errori e, soprattutto, di intrecci tra affari, poteri, istituzioni e uomini noti. Come al solito paghiamo noi, quelli di oggi, di domani e di dopodomani. La città invisibile, 6 luglio 2015
1) Il nuovo aeroporto di Firenze è affare di un’impresa sostanzialmente privata. Questi gli azionisti della “Toscana Aeroporti”, società di gestione degli aeroporti di Firenze e Pisa, presieduta da Marco Carrai, sodale del presidente del consiglio: l’argentina Corporacion America Italia Spa rappresenta il 51,13%, Ente Cassa di Risparmio di Firenze 6,58%, So.Gim. Spa 5,79%, “altri” 31,5%; infine, dopo la svendita di Rossi agli argentini, un misero 5% della Regione Toscana.
4) Non esiste alcun serio studio di fattibilità dei lavori propedeutici alla costruzione della pista. Il nuovo assetto idraulico è vagamente tratteggiato: il Fosso reale può veramente passare in discarica quando, viceversa, la normativa ambientale impedisce che le discariche ricadano in aree esondabili (DL 36/2003, all. 1, p. 1.1)?
5) Malgrado l’avvio dei lavori previsto entro l’agosto 2015, del nuovo aeroporto non esiste un progetto esecutivo. In assenza di studi che dimostrino l’effettiva necessità di un aeroporto interno all’area urbana, il Master plan del proponente «è assunto al pari del progetto preliminare/definitivo».
6) Comunque sia, il progetto non sarà sottoposto a una valutazione ambientale propriamente detta. Lo stratagemma del progetto “preliminare/definitivo” consente infatti un aggiramento delle regole, per cui entra nella valutazione come preliminare e ne esce come definitivo, dopo contrattazione tra commissione Via ed enti interessati, che hanno espresso pesanti riserve sui contenuti del progetto e dello Studio di Impatto Ambientale allegato: infrastrutture viarie non conformi col PIT, criticità sanitarie segnalate da ASL e ARPAT, rischio idraulico. Però il parere è positivo.
8) Il procedimento che porterà all’esecuzione dell’aeroporto non è democratico. Secondo la normativa europea, un progetto di questa portata deve essere sottoposto a un processo di partecipazione. Nella variante al PIT, la Regione si era impegnata a sottoporre il progetto a dibattito pubblico, come prevede la stessa legge toscana. Eppure questo non sta avvenendo.
10) La “grande opera aeroporto” condanna ogni possibile alternativa di riscatto per la Piana. In una situazione urbana già congestionata, e nella quale si prevede una pesante presenza di cantieri (linea 2 della tramvia, nuovo svincolo di Peretola, nuovo stadio, inceneritore a Campi e, forse, terza corsia autostradale), si aggiunge il carico di inquinamento aeroportuale: polveri, carburanti, solventi/antigelo per la pista, inquinamento luminoso, rumore etc.
«La nuova frontiera del low cost. Tariffe basse per viaggiare nelle principali città. Ma con l'incremento del trasporto su gomma a perderci sarà l'ambiente». Ci avevano già tolto i treni per tutti, adesso ci restituiscono un po' d'inquinamento in più, e arricchiscono qualche supporter del governo. Il manifesto, 24 giugno 2015
Adesso c’è un’alternativa per chi trova l’Alta Velocità Torino-Milano-Roma troppo costosa: arrivano i megabus. L’omonima compagnia, operante già da oltre un decennio in Usa e in Nord Europa, avvia infatti la sua attività nel centronord del nostro paese, con automezzi che trasportano un centinaio di persone, un prezzo low cost di 15 euro a tratta e tempi poco meno che doppi rispetto a quelli della AV. Ma con un inconveniente non da poco per le infrastrutture e l’ecologia del Belpaese: lo sdoganamento, pure incentivato ed istituzionalizzato, dell’incremento del traffico collettivo su gomma; con tanti saluti ai problemi di inquinamento e congestione connessi.
Esulta — insieme al governo — l’Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori, che auspica addirittura una forte crescita del comparto; sistema che invece, secondo l’ultimo Piano Generale Nazionale della Mobilità e dei Trasporti (2001, ormai preistoria), doveva essere addirittura ridimensionato fino all’abbandono.
Colpisce su questi temi (come su molto altro) l’insipienza e l’ignoranza del governo, soddisfatto; che non perde occasione per mostrare la propria incapacità e miopia politica, non solo sui temi territoriali ed infrastrutturali, ma in generale su qualsivoglia capacità di esprimere uno straccio di programmazione innovativa ed orientata ai problemi reali. A meno che questa capacità di vedere solo nel brevissimo periodo (il treno costa troppo? Prendete l’autobus!) senza alcuna strategia economica, né lettura delle conseguenze, non sia intenzionale; dettata dagli interessi finanziari speculativi, legati a varie lobby, non solo massoniche; evidentemente in grado di determinare le azioni dell’esecutivo.
A parte infatti l’iniquità sociale del treno “più moderno e confortevole” accessibile solo agli abbienti (con sperequazioni esasperate dall’abolizione della quasi totalità degli intercity e interregionali) – e al di là del sostegno all’aumento di vettori programmaticamente superati e ad alto impatto, come i grandi bus – è da tempo che si registra il ritorno, soprattutto privato, al traffico su gomma, come conseguenza dei nuovi assetti ferroviari a dominanza TAV, e delle nuove condizioni funzionali e tariffarie.
Da Bologna o da Firenze, per esempio, raggiungere Roma e Milano in treno, frequentemente o periodicamente, è diventato sconveniente da quando gli Eurostar si sono ridenominati “Alta Velocità”, con abbassamento di qualche minuto nei tempi di percorrenza e costi del biglietto di viaggio più che raddoppiati. Il ritorno alla mobilità privata su gomma — specie della domanda a più forte connotazione sociale — riguarda il traffico regionale e locale del centro nord, per i motivi citati; con un generale sbilanciamento degli investimenti verso la modalità Alta Velocità, rispondente a quote assai basse dell’utenza. Ma avviene anche al sud, dove a fronte di incredibili tagli al settore, anche per la regionalizzazione del trasporto locale su ferro, si è registrato un crollo generalizzato degli investimenti.
In realtà, come per la politica urbanistica, una politica dei trasporti manca totalmente, fin dall’avvento nel 2001 della berlusconiana legge Obiettivo. Che oggi Cantone definisce “criminogena” e principale alimento “dell’enorme corruzione nazionale”. Ma che Renzi e Del Rio non hanno abolito, ma solo ridimensionato; solo per renderla più credibile dal punto di vista della credibilità economico finanziaria. Mentre giace in Parlamento la proposta di legge sul contenimento del consumo di suolo, si persiste con le vecchie logiche legate alle grandi opere inutili (compreso l’assurdo e devastante Sottoattraversamento TAV di Firenze, bloccato dalla magistratura ed evidentemente abusivo, progetto che Renzi conosce bene, ma non si decide a cancellare).
Oggi il rilancio del traffico su gomma collettivo costituisce l’ulteriore corollario di tutto ciò. Con tanti saluti all’ecologia e buona pace, oltre che del Santo Padre, anche di quegli eco-ottimisti, che non mollano il partito della nazione, ostinandosi a vedere il “bicchiere mezzo pieno”. Le condizioni sociali, economiche e territoriali impongono invece il ritorno a una categoria tanto ignorata quanto invisa al nostro premier: la pianificazione. Senza una programmazione territorializzata, mirata al paesaggio, anche le istanze della green economy e della smart city diventano occasioni per le scorrerie della speculazione finanziaria, più o meno corrotta, più o meno criminale.