In pompa magna, con sberleffi da giullare ai gufi di turno, celebrano un altro pezzo di autostrada. Intanto le città sono sotto una cappa di smog. Chi non è ubriaco dei suoi miti dovrebbe comprendere che c'è un nesso.
Potrebbero sembrare due problemi separati a prima vista ma invece c’è nella realtà un legame indiscutibile tra i due avvenimenti. L'inaugurazione della Variante di Valico è certamente un successo per Autostrade e per i tanti governi di destra e di sinistra che l'hanno promossa ed autorizzata. E la sua realizzazione è una sconfitta per noi ambientalisti e verdi, che tanto ci siamo impegnati per contrastarla.
Ma resto convinta che sia stata una buona battaglia perché il futuro non va in quella direzione, perché la riduzione dei gas serra imporrà scelte diverse invece di far crescere il traffico su strada, che la consapevolezza che il consumo di suolo va fermato e che non c’è una crescita infinita, sono temi molto più diffusi di 30 anni fa.
Perche “sbottigliare” il traffico al valico servirà a ben poco se i problemi stanno nei nodi urbani e lungo le tangenziali come accade a Bologna e Firenze,
Se la Variante di Valico avrà successo inevitabilmente aumenterà i flussi di auto e TIR sui due nodi di Bologna e Firenze dove proseguirà la discussione su tangenziali e bretelle di cui è nota la difficoltà ad individuare tracciati accettabili. E’ recente la decisione da parte dei sindaci della città metropolitana di Bologna di dire no al passante autostradale nella pianura bolognese e di tornare a ragionare di ampliamento della tangenziale urbana. Se questa è la prospettiva il traffico su strada aumenterà a ridosso delle città che già soffocano di traffico, dove bastano due mesi senza pioggia per portare le polvere sottili a livelli inaccettabili, con fenomeni che in futuro proprio a causa del caos climatico diventeranno sempre più frequenti.
Senza contare che in sede europea, oltre alla procedura d’infrazione aperta per la violazione dei limiti della qualità dell’aria ed il mancato risanamento, sono allo studio limiti più restrittivi per diversi inquinanti, tra cui le polveri sottili PM 2,5, quelle più insidiose per la salute umana.
Se poi realizzata la Variante di Valico il traffico restasse stabile, questo sarebbe un problema per i conti di Autostrade e per i tanti sostenitori politici, perché sarebbe stata realizzata una grande opera inutile.
Di sicuro la realizzazione dell'alta velocità ferroviaria Milano-Roma ha ridotto la quota modale dell'auto su questa tratta ed aumentato il numero di viaggi di breve distanza anche sull'autostrada, quelli a cui il nuovo valico autostradale e l’alta velocità servono a poco.
Perché sono le percorrenze di breve raggio per gli spostamenti - pendolari e non - intorno alle grandi città il vero nostro problema principale ed i grandi numeri da servire.
Manca il potenziamento dei servizi ferroviari metropolitani ed urbani, che invece è decisamente indietro rispetto a quello che era stato programmato, siamo al 30% di investimenti, di treni e servizi promessi sui nodi urbani.
E poi c’è il problema delle merci, che invece trarrà benefici dalla Variante di Valico, in termini di percorso, di pendenza e di chilometri effettuati. Un incentivo alla crescita del trasporto su gomma, che oggi già assorbe oltre il 60% del traffico merci, mentre gli obiettivi di riduzione dei gas serra richiederebbero il riequilibrio modale, come sembra voler fare anche la legge di stabilità 2016 del Governo appena approvata dal Parlamento, che sostiene con l’ecobonus l’intermodalità verso la ferrovia ed il trasporto marittimo.
Una misura giusta ma che rischia di non produrre i risultati attesi se il traffico su strada viene ancora agevolato con incentivi all’autotrasporto come avviene ancora oggi e da nuove infrastrutture come la Variante di Valico.
Non si intravede ancora un progetto concreto delle Ferrovie dello Stato di potenziamento del servizio merci che sembra non superare il 6% degli spostamenti merci, di sviluppo dell’intermodalità, di logistica integrata, di integrazione con i porti.
Sembrano questi – il trasporto pendolare ed il trasporto merci – gli obiettivi prioritari dei nuovi vertici aziendali di FS nominati di recente: speriamo davvero che questi obiettivi vengano perseguiti con la stessa determinazione che è stata dedicata all’Alta Velocità.
Infine vanno registrati dei mutamenti molto interessanti ed innovativi nel campo della mobilità: la sharing mobility sta cambiando l'atteggiamento verso l'auto, di cui è avviato l’uso condiviso senza la proprietà individuale. E’ un mutamento importante - dal possesso al servizio dell’auto - e vedremo che effetti produrrà sui flussi di traffico e sull’indice di motorizzazione. Nel 2014 come hanno dimostrato i dati c’è stata una ripresa del trasporto pubblico ed è aumentato l’uso della bicicletta.
In futuro il veicolo elettrico ad energia rinnovabile, in condivisione - e magari senza guidatore - sarà un elemento di forte innovazione per muoversi. Cosi come nei sistemi produttivi e della distribuzione delle merci ci sono delle innovazioni che cambieranno gli scenari conosciuti, come l’e-commerce e le stampanti 3D.E la programmazione delle infrastrutture - a partire dalla revisione della lista delle opere della legge obiettivo che prevede oltre 1000 chilometri di nuove autostrade – è un elemento essenziale di innovazione delle politiche dei trasporti verso la sostenibilità.
La battaglia degli ambientalisti e dei verdi contro la variante di valico è stata una battaglia per un diverso sistema di mobilità, un tema che resta come dimostrano i blocchi del traffico nelle principali città, di scottante attualità. Sarebbe bello tornarne a ragionare pubblicamente.
Spunti positivi ed esempi negativi a proposito sul consumo di suolo in Lombardia e sui tentativi di contrastarlo. Millennio urbano, 22 dicembre 2015
Alcuni recenti interventi normativi regionali e il disegno di legge nazionale non fanno ben sperare sulla concreta intenzione di porre in Italia un deciso limite al consumo di suolo. Del tema se ne era cominciato a parlare circa 15 anni fa: all’inizio tra addetti ai lavori, negli ultimi anni è diventato argomento di dominio pubblico. Ma paradossalmente, con la crescita di sensibilità sul tema, l’efficacia di azione si è andata affievolendo, fino a produrre norme che sembrano scritte per raggiungere risultati opposti rispetto agli obbiettivi dichiarati. In altre parole, procedure attuative farraginose, regole complesse, eccezioni ampie e poco definite creano incertezza interpretativa e spazio di manovra sufficiente per mantenere tutto come prima.
Ad integrazione di questo autorevole intervento provo qui ad aggiungere qualche dato e considerazione per capire cosa si potrebbe fare. Dopo avere visto per tre lustri tentativi vani di regolazione del consumo di suolo sono convinto che le radici del problema siano molto più profonde di quanto possa essere raggiunto con gli strumenti dell’urbanistica. La rendita di posizione produce profitti ingenti e facili, sui quali negli anni si sono consolidate prassi clientelari diffuse trasversalmente in tutti i settori della società, molto difficili da estirpare. Il consumo di suolo ha effetti non solo su ambiente e qualità della vita; produce degrado, congestione, inefficienze, finendo per indebolire i territori e i sistemi economici ad essi associati. Un problema grave quindi sul quale, anche se non si vede ora via d’uscita, si deve continuare a mantenere alta l’attenzione e a cercare una via di soluzione.
Esempi negativi
Salzano spiega le carenze del disegno di legge nazionale, e cita anche l’esempio negativo del progetto di legge n.390 della Regione Veneto sul consumo di suolo. Credo che a questi si debba aggiungere la LR 31-2014 della Regione Lombardia che nonostante il titolo – “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato” – sembra più che altro occuparsi di tutelare le aree già programmate, e gli interessi dei relativi proprietari, congelando la destinazione d’uso e impedendo di fatto di riclassificare come agricole le aree da tempo non attuate. Uno studio presentato ad inizio 2015 da Eupolis, centro di ricerca della Regione, mostra che negli attuali piani dei comuni ci sono aree programmate e non attuate per una dimensione superiore a 500 km2, ossia quasi 3 volte la dimensione del Comune di Milano.
La norma assegna al Piano territoriale regionale (PTR) il compito di definire le regole per la progressiva riduzione del consumo di suolo, ma le prime elaborazioni circolate in queste settimane mostrano una procedura molto complessa e farraginosa all’interno della quale non sarà difficile fare passare eccezioni utilizzando ogni forma di giustificazione. La legge Lombarda costituisce un’esemplare anticipazione di quello che in scala più ampia potrebbe accadere a livello nazionale se il disegno di legge sarà approvato.
Spunti positivi
Nel suo editoriale Salzano cita come esempio positivo le regole sul consumo di suolo inserite nella recente legge sul governo del territorio della Regione Toscana. La legge è molto interessante e innovativa, così come lo erano per i loro tempi le precedenti leggi Toscane del 1995 e 2005, le quali si sono però perse a livello locale per carenza di strumenti attuativi. Regole molto simili a quelle regionali erano già in modo lungimirante state inserite nel 2011 nella variante di un piano territoriale provinciale, che però non è mai arrivata ad approvazione. Vedremo se questa nuova norma produrrà risultati più concreti.
Un sistema di regole per molti aspetti simile a quello della normativa Toscana è incluso nel nuovo PTCP di Pavia, adottato nel 2013 e approvato nel 2015. Purtroppo la recente legge della Lombardia sul consumo di suolo (la sopra citata LR 31-2014) ne congela l’applicazione per un periodo di almeno tre anni, passato il quale le decisioni sull’attuazione saranno nelle mani dei comuni che dalla prossima estate entreranno negli organi di secondo livello della Provincia.
Oltre ad alcuni comuni, pochissimi, che hanno adottato una linea seria sul consumo di suolo, vanno segnalati i tentativi di molte province, che essendo un po’ più distanti dagli interessi locali, negli anni scorsi con i propri PTCP hanno cercato di regolare e contenere il dimensionamento eccessivo dei piani comunali. Nonostante i limiti all’azione dell’ente intermedio imposti dalle norme nazionali e regionali, alcuni di questi piani provinciali sono stati approvati e hanno prodotto interessanti risultati, che se non hanno fermato il consumo di suolo almeno hanno in parte frenato il debordare del fenomeno. Certo in molti casi le regole approvate con i piani sono poi state disattese nell’applicazione delle Amministrazioni, anche dello stesso colore, che sono succedute. In ogni caso si tratta di un complesso di esperienze utili alle quali riferirsi per sviluppare nuove strategie, anche analizzando gli errori del passato per superarli.
Tra i dati positivi va segnalata, importante, la sentenza del TAR Milano n.576/2015, che supera in efficacia sia le norme regionali che gli strumenti di pianificazione. Ad inizio 2015 ha completamente annullato il piano generale di un importante comune per incompatibilità con alcuni obiettivi del vigente PTCP (Piano territoriale di coordinamento provinciale), e tra queste l’eccesso di consumo di suolo in quanto “Le trasformazioni previste dal PGT comporterebbero un consumo di suolo largamente eccedente rispetto a quanto consentito dal PTCP” recita la sentenza.[1] La giurisprudenza traccia in modo chiaro una direzione nuova da seguire, per definire alcune semplici e buone regole per governare i temi di area vasta, tra i quali va annoverato anche quello del consumo di suolo.
E ora si aggiunge il parere di Maddalena: secondo l’ex giudice, il testo - così scritto - è incostituzionale per diversi motivi. Perché in contrasto con il suo obiettivo, ma anche perché dà indicazioni «generiche e inconsistenti», viola le competenze regionali, consente lo stravolgimento del paesaggio e contrasta con il principio del “razionale sfruttamento del suolo” (articolo 44 della Carta).
Il “miracolo” del suolo edificato che torna naturale
La definizione di “area urbanizzata” è, secondo Maddalena, “illogica” e viola quindi l’articolo 3, «perché considera area edificata – spiega a IlFattoquotidiano.it il costituzionalista – anche i parchi urbani e i lotti e gli spazi inedificati interclusi, in contrasto con il fine del contenimento del consumo del suolo che la legge stessa dice di voler perseguire». Lo stesso vale per il concetto di “compensazione ambientale”, secondo il quale è consentito il consumo di suolo agricolo, se, nello stesso tempo, si deimpermeabilizza il suolo già impermeabilizzato. In pratica un miracolo. «Fa ritenere possibile un fatto assolutamente impossibile - spiega il magistrato - poiché, come affermano gli scienziati di tutto il mondo, occorrono centinaia di anni affinché un suolo impermeabilizzato ridiventi naturale”. Detto in parole povere: le legge ideata per limitare il consumo di suolo non limita il consumo di suolo.
Ma c’è dell’altro. Le incostituzionalità più gravi sembrano essere contenute infatti negli articoli 5 e 6 del testo di legge. Il primo, che in sostanza autorizza il governo a emanare deroghe a norme urbanistiche per le aree urbanizzate degradate, riesce a violare contemporaneamente tre articoli della Costituzione. Anzitutto l’articolo 76 “per il carattere generico e inconsistente dei principi e criteri direttivi”, dice il costituzionalista. Ma, soprattutto, viola le competenze regionali in materia di pianificazione e governo del territorio (articolo 117) e non pone nessun limite alla ricostruzione degli edifici esistenti, “consentendo quindi lo stravolgimento del paesaggio urbano – spiega Maddalena – violando quindi l’articolo 9 della Carta costituzionale”.
Anche il capitolo della tutela delle aree agricole colleziona paradossi e non sensi, secondo Paolo Maddalena. “L’articolo 6 – commenta – prevede, anziché la tutela delle aree agricole, la loro trasformazione in aree edificate, attraverso l’escogitazione dello strano strumento dei compendi agricoli neorurali. Gli insediamenti rurali locali, perdono ogni carattere agricolo e, purché, complessivamente, non si superi la superficie occupata da costruzioni rurali alla data di approvazione della legge, essi sono destinati a funzioni diverse, come le attività amministrative, attività di agricoltura sociale, servizi medici e di cura, ecc. A parte la considerazione che non si capisce cosa voglia dire ‘attività di agricoltura sociale’ - continua il costituzionalista - oppure la ‘vendita di prodotti ambientali’, sta di fatto che questa disposizione ha una finalità edificatoria che è direttamente in contrasto con quella che la legge stessa dice di voler perseguire”. Altro punto “illogico” quindi, in contrasto peraltro con il principio del “razionale sfruttamento del suolo”, sancito dall’articolo 44 della Costituzione: principio che implica la bonifica delle terre «e non – spiega Maddalena – la loro trasformazione in edifici, e la ricostituzione delle unità (agricole) produttive».
L’approvazione di una legge così scritta, secondo Maddalena, «imporrebbe alle Regioni e ai cittadini, singoli o associati, di agire in via sussidiaria per ottenere l’annullamento di queste norme da parte della Corte costituzionale». Che tradotto significa ricorsi, controricorsi, tempo perso. E infatti Massimo De Rosa, deputato Cinque Stelle, membro della commissione Ambiente e promotore di una delle proposte di legge sullo stop al consumo di suolo poi confluite nel testo in discussione, ha già disconosciuto “il figlio”. «Dal testo iniziale al testo licenziato dalle commissioni ambiente e agricoltura - commenta a IlFatto.it - si è avuto un peggioramento tale da modificare in modo sostanziale la ‘ragione sociale’ della proposta, che potrebbe realisticamente essere denominata ‘Incentivi al consumo del suolo per uso edificabile’. Presenteremo osservazioni, anche con le associazioni ambientaliste, e se non verranno accettate, non voteremo il ddl. Con dispiacere chiaramente, ma non è questa la legge che volevamo».
«Gli appartamenti vuoti non appartengono a grandi realtà immobiliari, ma a piccoli proprietari che in passato hanno investito nel bene casa e oggi, magari perché non si fidano del mercato dell’affitto o perché li considerano un investimento». La Repubblica, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)
Milano. Architetto Stefano Boeri, cosa si può fare per curare i vuoti urbani creati dalle case sfitte?
«Prima di tutto bisogna prendere atto di un fenomeno evidente soprattutto in Italia, Spagna, Grecia e nell’Europa del Sud: gli appartamenti vuoti non appartengono a grandi realtà immobiliari, ma a piccoli proprietari che in passato hanno investito nel bene casa e oggi, magari perché non si fidano del mercato dell’affitto o perché li considerano un investimento, a volte scelgono di tenerli liberi. La soluzione è la costruzione di Agenzie della casa sostenute dalla pubblica amministrazione».
Felicemente insabbiata una legge che non servirebbe a ridurre il consumo di suolo. Lo ammette anche ol suo primo promotore, Mario Catania. La Stampa, 5 dicembre 2015
Negli ultimi 40 anni è stata cementificata un'area pari all'estensione di Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna: un fenomeno di proporzioni sempre più preoccupanti». Il 14 settembre 2012 non parlava un pericoloso ambientalista, ma un austero economista bocconiano, il presidente del Consiglio Mario Monti. Il suo governo aveva appena varato il primo, rivoluzionario disegno di legge per ridurre il consumo di suolo. Dopo quasi 39 mesi quel testo è ancora lontano dal diventare legge. La commissione Ambiente della Camera ha impiegato due anni e mezzo per discuterlo, modificarlo e approvarlo. Ancora non si sa quando sarà calendarizzato e se passerà l'esame dell'Aula. Poi ci sarà il passaggio (pieno di ostacoli) in Senato. Secondo accreditate fonti parlamentari, ha meno del 20% delle possibilità che diventi legge.
I numeri e i bisogni
Perché è davvero importante tutelare il suolo? Paolo Pileri, docente al Politecnico di Milano, lo spiega nel libro «Che cosa c'è sotto» (Altraeconomia): «Primo: il suolo è una risorsa scarsa e non rinnovabile (per ricostituire 2,5 centimetri di suolo occorrono 500 anni), con giganteschi benefici ambientali, sanitari, alimentari. Secondo: sul suolo si scatenano interessi politici ed economici distorsivi: il valore di un terreno edificabile cresce anche di migliaia di volte».
L'Europa ha fissato una «tabella di marcia» con l'obiettivo di un consumo netto di suolo pari a zero per il 2050. In Germania una legge esiste dagli Anni 90, quando Angela Merkel era ministro dell'Ambiente. In Francia i Comuni sotto i 15 mila abitanti hanno vincoli stringenti. In Italia liberi tutti: per ogni secondo che passa, otto metri quadrati di terra vergine vengono asfaltati o cementificati. Secondo il Wwf, nei prossimi 20 anni sarà perduto un territorio pari a due volte la Valle d'Aosta. «Se continuiamo così, oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento», ha scritto Carlo Petrini. Eppure il valore del suolo dovrebbe essere più considerato proprio in un Paese fragile come il nostro. Pileri ha calcolato che un ettaro di suolo non edificato può trattenere 3,8 milioni di litri di acqua. Se cementificato, costringe lo Stato a spendere 6500 euro l'anno solo per tenere in ordine i tubi che convogliano quelle acque.
Modifiche e interessi
Programmare, ridurre e disciplinare il consumo di suolo: questa era l'idea alla base del disegno di legge del governo Monti, scritto da Mario Catania, all'epoca ministro dell'Agricoltura, mutuando l'esperienza tedesca. «Il testo - spiega Catania - strada facendo è cambiato. Il mio mirava a blindare le aree verdi e non si poneva problemi di pianificazione urbanistica. Era limitato ma coerente. Poi è entrata la parte della rigenerazione urbana: il testo si è allargato ma anche indebolito perché la blindatura delle aree verdi è annacquata».
Solo il Movimento 5 Stelle sostiene convintamente una legge efficace. Al di là dei proclami, in senso contrario si muove un articolato fronte trasversale che raccoglie forze in tutti i partiti, Pd in primis. Anche l'impegno del governo è intermittente: la commissione della Camera ha dovuto attendere sette mesi il parere del ministero dell'Ambiente sugli emendamenti.
Gli industriali si oppongono a qualsivoglia legge sul consumo di suolo: temono limiti all'edilizia, già penalizzata dalla crisi (dal 2008 perso il 35% degli investimenti). Le associazioni ambientaliste, inizialmente entusiaste, contestano le recenti modifiche del testo. L'urbanista Vezio De Lucia ha scritto sul sito eddyburg.it che il meccanismo di tutela del suolo previsto dall'ultimo testo, infarcito di complicazioni burocratiche, sembra fatto apposta per risultare inapplicabile. Inoltre sono stati aggiunti «due argomenti assolutamente estranei, anzi in contrasto con l'obiettivo del contenimento dell'uso del suolo: i compendi agricoli neorurali e la rigenerazione delle aree urbane degradate, al riparo dei quali prendono corpo operazioni che addirittura favoriscono la speculazione immobiliare».
Come sintetizza l'ex ministro Catania: improbabile che la legge arrivi al traguardo. E se arrivasse, il testo sarebbe scritto in modo da essere inefficace.
«Piano Lupi. La Camera vota la fiducia sul «Piano Lupi», oggi il voto finale. L’articolo 5 del decreto taglierà luce, acqua e gas alle occupazioni abitative nel paese». Il manifesto, 3 dicembre 2015
Ieri la Camera dei Deputati ha votato un atto vendicativo contro centinaia di occupazioni abitative in tutto il paese. Trecentoventiquattro deputati del Pd, Ncd e Scelta Civica contro i 110 di M5s, Lega Nord, Sel e Forza Italia hanno concesso la decima fiducia al «Piano Lupi» del governo Renzi sull’emergenza abitativa che all’articolo 5 prevede di tagliare luce, acqua e gas a chi occupa un immobile.
Il provvedimento che incasserà il voto finale oggi a Montecitorio (alle 12,30 le dichiarazioni di voto) lancia una guerra contro almeno 10 mila poveri urbani, italiani e immigrati che solo a Roma vivono in alberghi, scuole, uffici abbandonati, residence o sedi di aziende pubbliche abbandonate. A queste persone verrà anche vietata la residenza e verrà inflitta una disposizione con la quale si stabilisce la nullità degli effetti degli atti emessi in violazione della nuova normativa. «Una decisione presa da un governo incivile in un paese incivile», così l’ha definito il portavoce del Coordinamento cittadino di lotta per la casa.
I movimenti per il diritto all’abitare si sono nuovamente radunati ieri in un presidio a Piazza Montecitorio. Verso le cinque e mezzo la piazza ha cominciato a scaldarsi. Dopo la prima chiama in aula, la piazza circondata da un ingente schieramento di agenti di polizia e carabinieri, è in fibrillazione: «Renzi vattene», «Vergogna, vergogna», «Le case ci stanno perché non ce le danno?». Alla notizia della fiducia, poco prima delle otto, sale la disillusione, poi scoppia la rabbia: «Ma come? — urla disperata una donna — Noi sempre qua a manifestare, a chiedere incontri e risposte, e poi invece di una casa ci danno l’articolo 5? Niente residenze e gas, luce e acqua? E dove andiamo a vivere, come viviamo? I nostri figli senza residenza dove li mandiamo a scuola?». Una pioggia di uova parte diretta verso la facciata del Palazzo. La polizia, nervosa, impugna scudi e manganelli.
Ma il presidio si trasforma, fulmineo, in un corteo. In centinaia si dirigono verso piazza Venezia. Bloccano il traffico. A passo veloce arrivano al Colosseo dove c’è un blitz. Mentre sui Fori Imperiali inizia un’assemblea sul piano Lupi, qualcuno si arrampica sulle impalcature del Colosseo, esponendo lo striscione giallo che ha aperto tutti i cortei degli ultimi giorni: «Liberiamo Roma dai divieti, dalla rendità e dalla precarietà». Paolo Di Vetta dei Blocchi precari metropolitani) annuncia la resistenza al decreto: «Faremo rimangiare ad Alfano il piano sicurezza. Occuperemo l’Anagrafe, l’Acea, i Municipi, non faremo un passo indietro. Dovranno passare sui nostri corpi quando toglieranno acqua, luce, gas a tante famiglie di Roma. Hanno appena votato un testo che uccide il diritto alla casa nel nostro paese, così come il governo Renzi ha già fatto con il Decreto Poletti sul lavoro».
Il piano Casa contiene il via libera alla cedolare secca al 10% per gli affitti nei comuni colpiti da calamità naturali, interventi di edilizia sociale ad hoc per gli over 65, una clausola di riscatto nel contratto di affitto per gli alloggi sociali. Vengono prorogati i benefici per gli inquilini con un contratto di affitto in nero e vengono stanziati 325 milioni di euro in più per il Fondo per gli inquilini morosi incolpevoli.
Come d’abitudine, anche in questo provvedimento sono confluite norme tra le più diverse. C’è un bonus per mobili ed elettrodomestici che estenderà lo sgravio entro un tetto di 10 mila euro. Ci sono inoltre 25 milioni per il comune di Milano per l’Expo 2015 presi con un taglio ai fondi per la stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione. Una decisione che provocherà polemiche. La guerra ai poveri del governo Renzi è tuttavia uno degli aspetti dei problemi che la casa sta producendo.
Sul fronte della Tasi
L’altro fronte è quello della Tasi. Dopo il caos, ora è il turno della beffa. In uno studio della Uil, infatti,si apprende che in 12 su 32 capoluoghi la Tasi presenterà un conto salato. A Roma, e poi a Genova, Milano, Torino verrà superata quota 400 e sarà più cara dell’Imu. Un aggravio che con l’aumento della Tari e delle addizionali comunali rischia di neutralizzare il bonus Irpef da 80 euro. Per i pensionati, i disoccupati e i precari la situazione peggiorerà ancora, aumentando il carico fiscale.
Nei Comuni che non avranno deliberato entro il 23 maggio le aliquote, la scadenza per il pagamento della prima rata della Tasi è stata prorogata da giugno a settembre dal governo. Per tutti gli altri Comuni — si è letto in una nota diffusa nella serata dal Ministero dell’Economia — la scadenza per il pagamento della prima rata della Tasi resta il 16 giugno.
Una soluzione che il sindaco di Torino, e presidente dell’Anci, Piero Fassino ha trovato soddisfacente: «Garantisce certezza sia per i Comuni sia per i contribuenti».
Carlo Petrini teme, giustamente, che la mancanza di una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sia un pesante contrbuto dell'Italia al degrado dell'ambiente. E necessario approvare la legge sul consumo di suolo in discussione al Parlamento? Abbiamo intervistato in proposito Vezio De Lucia.
Oggi si apre a Parigi la Conferenza mondiale sui cambiamenti di clima. Si parlerà molto di energie alternative, di risparmio energetico, di riduzione dei fattori inquinanti, di green economy e così via. I rappresentanti degli Stati si barcameneranno tra l’esigenza di dover contribuire alla riduzione di un rischio di catastrofe e quella di non ridurre il Pil, che sembra essere il totem della religione dominante. C’è grande attesa per i risultati, e una forte pressione che nasce dalle manifestazioni popolari in corso nelle strade e nelle piazze di tutti i continenti.
C’è invece chi denuncia già i limiti della conferenza, della sua stessa impostazione. Carlo Petrini, sul manifesto di oggi, rivendica il ruolo dell’agricoltura riprendendo una problematica sviluppata qualche giorno fa da Piero Bevilacqua. Petrini pone la questione del consumo di suolo. Egli scrive: “In Italia ancora manca una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sempre più invasi dalla cementificazione. Se continuiamo così oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento”.
Che giudizio dai sull’iniziativa che assunse nel 2012 il ministro dell’Agricoltura Catania?
Hai dato un giudizio molto critico della legge attualmente in discussione in Parlamento. Quali sono le ragioni essenziali?
«In primo luogo, l’effettiva entrata in vigore delle norme di contenimento del consumo del suolo è subordinata a un malinteso rispetto del pluralismo istituzionale perseguito attraverso complicati meccanismi procedurali a cascata: Stato, Regioni, Comuni. Meccanismi che non hanno mai funzionato in altri campi, figuriamoci quando sotto tiro sono gli interessi di potentissimi settori dell’economia finanziaria e immobiliare. Non è difficile prevedere che, ove approvata, la legge non sarà applicata proprio dove sarebbe più necessaria e urgente (dal Lazio in giù), oppure – il che è lo stesso – sarà applicata quando non ci sarà più suolo da sottrarre all’edificazione.
Una vicenda locale che meriterebbe attenzione nazionale: leggi ad personam nell'epoca Renzi. Pescaranews.net, 28 novembre 2015
Innanzitutto va detto che la società dei Milia e Mammarella ha vinto perché il Consiglio di Stato ha ritenuto non legittimati i vicini ricorrenti che avevano vinto al TAR. Cosa che non sarebbe accaduta se a ricorrere in difesa della sua pianificazione urbanistica fosse stato il Comune di Pescara. Purtroppo la Giunta Alessandrini si è costituita ma per sostenere il progetto edilizio scegliendo di essere complice e sostenere l’operazione che era stata autorizzata all’epoca della giunta Mascia.
Il TAR aveva bocciato il permesso dando ragione a quanto sostenuto da Rifondazione Comunista: il tribunale amministrativo aveva confermato che le norme del “decreto sviluppo” di Berlusconi, rese permanenti da una pessima legge regionale di recepimento, non si applicano nelle aree sottoposte a piani particolareggiati.
Ma non basta prendersela con l’amministrazione di centrodestra che rilasciò il permesso e quella Alessandrini che lo ha difeso. Infatti in soccorso di Milia-Mammarella è sceso in campo lo stesso parlamento. Infatti – come da me denunciato dopo che per mesi avevano tenuta nascosta la cosa – nel dicembre 2014 è stato approvato un emendamento alla legge di stabilità con un'interpretazione autentica (quindi retroattiva) che sembrava scritta ad hoc per sbloccare il progetto. Infatti la norma precisa che le deroghe e i premi di volumetria si applicano anche all’interno dei piani particolareggiati. La norma è stata ovviamente brandita dai privati e dagli stessi avvocati del Comune contro la sentenza del TAR.
Come è stata approvata in parlamento questa cosa? A presentare l’emendamento in Senato è stato un senatore siciliano, a recepirlo è stato il governo Renzi che l’ha inserito nel maxi-emendamento alla legge di stabilità su cui il governo ha chiesto la fiducia. La norma che cancella ogni regola pianificatoria pubblica è stata votata in parlamento dalla maggioranza NCD-PD .
La relatrice di maggioranza sulla legge di stabilità era la senatrice pescarese Federica Chiavaroli che quando il sottoscritto ha scoperto la “porcata” dopo mesi dall’approvazione ha detto di non saperne nulla. Ricordo che essendo ancora in vigore la legge regionale scritta dai palazzinari pescaresi e fatta approvare con grande impegno dai consiglieri di centrodestra ma che piace anche al PD che non l'ha abrogata la nuova norma di interpretazione autentica si applica a tantissime altre situazioni con effetti devastanti (in pratica vengono superati tutti i piani attuativi comunali). Le regioni in cui sono in vigore analoghe leggi sono Abruzzo, Campania, Calabria e Sicilia. Forse Lazio.
Ricordo che per studiare una progettazione unitaria del piano particolareggiato il Comune di Pescara negli anni scorsi ha speso centinaia di migliaia di euro.
Quando mesi fa ho lanciato l'allarme c'è stata totale omertà politica: nessun partito, esponente politico, parlamentare, consigliere comunale o regionale ha ritenuto di intervenire nonostante le aree siano da anni considerate strategiche e oggetto di ampio dibattito pubblico. Ora speriamo si svegli qualcuno per abrogare questa legge vergogna.
Qualche utile richiamo sulla corposa realtò delle periferie, a ciò che sta dietro il teatrino della decisione del governo di stanziare un po' di soldi alle città. Ma per le imprese o per gli abitanti? La Stampa, 26 novembre 2015, con riferimenti in calce
Dietro l’annuncio di Renzi di destinare 500 milioni di euro aggiuntivi per le periferie ci sono posizionamento politico (anche internazionale, altro che proclami bellicisti) e strategia comunicativa (vedi citazione del «rammendo» di Renzo Piano, ormai di moda). Nessun piano segreto e specifico. Del resto basta fare due conti. I soldi vanno alle città metropolitane (tredici già istituite, la Sardegna potrebbe aggiungere Cagliari), da spendere entro il 2016 per progetti da presentare entro la fine di quest’anno. Meno di 40 milioni per città e 13 mesi per spenderli: tempi e soldi sconsigliano interventi giganteschi. Bisogna recuperare progetti già pronti. «Non c’è cifra che basterebbe a risanare le periferie italiane - dice l’urbanista Francesco Indovina -. 500 milioni sono una goccia nel mare, ma anche pochi soldi servono se spesi bene».
Recentemente Indovina ha pubblicato sulla rivista Archivio di studi urbani e regionali (FrancoAngeli) un saggio intitolato «Il ritorno delle periferie» in cui offre un utile approccio al problema. Innanzitutto bisogna uscire dallo stereotipo «centro bello-periferie brutte». Misurare il degrado urbano ampliando il raggio del compasso sulla mappa può valere per le banlieue parigine, non per le principali città italiane «che invece si presentano sempre più a pelle di leopardo, con diversi centri e diverse periferie mischiate». Renzo Piano docet: il Giambellino, che il suo staff sta «rammendando», nasce come periferia negli Anni 30, ma ormai è semicentrale. E Stefano Boeri, architetto e docente al Politecnico cui fanno torto le eccessive celebrazioni per il «bosco verticale», ha detto di sentirsi più a disagio in piazza Cordusio che in tante periferie.
Nuova e ibrida geografia urbana, dunque, in un contesto di disuguaglianze crescenti, servizi pubblici ridotti, risorse finanziarie scarse. Il rischio che corre il governo è ridurre tutto a un’operazione di riqualificazione edilizia. Accresciuti valori immobiliari di palazzi abbelliti producono come prima conseguenza l’espulsione di una fetta della popolazione, che non può permettersi di «pagare» e si sposta altrove. «Per una periferia risanata se ne crea un’altra degradata», dice Indovina citando Harlem a New York, dove la quota di popolazione nera è calata.
Ma serve quella che l’urbanista napoletano Aldo Loris Rossi chiama «visione olistica» applicata alle città. Approccio soft, processi partecipati, più servizi e socialità che cantieri. Meglio un piccolo locale riutilizzato da un’associazione di quartiere che un grande centro giovanile gestito da funzionari comunali. Non è sempre necessario guardare lontano, dai quartieri sostenibili di Friburgo ai «bandi del barrio» di Barcellona.
Tralasciando le più illuminate iniziative bolognesi degli Anni 70, basta studiare la recente riappropriazione di piazzetta Capuana a Quarto Oggiaro (Milano), la ventennale esperienza di Borgo Campidoglio a Torino, le oltre 400 «social street» nate dal 2011. Gruppi nati su facebook che coniugano attività ludica e sociale, dalle feste di quartiere ai muri tinteggiati, dalla raccolta di cibo in scadenza all’assistenza agli anziani. La social street Baia del Re di Milano si segnala per l’integrazione degli immigrati. «Senza connessione tra le persone, ogni progetto di rigenerazione urbana fallisce», spiega Cristina Pasqualini, sociologa della Cattolica e autrice della prima ricerca sul tema.
E mentre si spendono soldi per periferie degradate, sarebbe il caso di non costruirne di nuove. Nel 1968, fu una grande conquista urbanistica l’obbligo di destinare ai servizi di quartiere almeno 18 metri quadri per abitante. Erano altri tempi e l’urbanistica non era morente come oggi. La Lombardia fu la prima, nel 1975, a portare lo standard a 26,5 metri quadri, seguita negli anni successivi dalle altre Regioni. Nel 2005 la Lombardia formigoniana torna indietro agli standard del 1968. Secondo i conti di Sergio Brenna, docente al Politecnico, a Porta Nuova sono diventati 16 metri quadri, monetizzando (a prezzo irrisorio) la differenza al Comune. E si rischia di peggiorare ancora nei nuovi quartieri pianificati in limine mortis dalla giunta Pisapia, in geometrica continuità con quella Moratti.
Lunga e accidentata la via italiana del rammendo, sia a destra che a sinistra.
Non crediamo che in altri stati europei si rifinanzi un programma senza una preliminare analisi dei risultati ottenuti. Certo che si tratterebbe di una fatica inutile se, come ritiene giustamente l'autore, l'obiettivo è solo propagandistico. Comunque, occhi aperti. La rivista Il Mulino, 10 novembre 2015
Nella riunione dello scorso 1º ottobre della Conferenza unificata, lo Stato, le regioni e gli enti locali hanno dato il via libera al bando per la realizzazione di un “Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate”. Il piano è previsto dalla legge 190/2014 (legge di stabilità 2015) con l’assegnazione di una dote finanziaria di 194 milioni di euro, 44 per il 2015 e 75 per ognuno dei due anni successivi. Con queste risorse, relativamente esigue per gli obiettivi che ci si propone di raggiungere, saranno cofinanziati i progetti promossi dai comuni sui cui territori vi sono aree urbane degradate. Per concorrere ai finanziamenti le amministrazioni comunali devono presentare progetti per la riduzione del degrado sociale, il miglioramento della qualità urbana, la riqualificazione ambientale, la realizzazione di servizi e interventi di riqualificazione cittadina, il miglioramento della qualità del decoro civico e del tessuto sociale e ambientale.
Lo scopo è meritevole. Per perseguirlo non è però necessario un nuovo bando, con nuove cabine di regia, altre graduatorie e anni di attesa prima che si possa vedere un qualche risultato (ammesso che se ne veda qualcuno di rilevante). Sarebbe sufficiente utilizzare i nuovi stanziamenti per rimpolpare la dote finanziaria di analoghe politiche già attive.
Tre anni fa, con il decreto legge 83/2012 (“Misure urgenti per la crescita del Paese”), fu promosso un “Piano nazionale per le città, per la riqualificazione di aree urbane con particolare riferimento a quelle degradate” avente le stesse finalità di questo nuovo piano per la riqualificazione. Per concorrere ai finanziamenti di quel piano, i comuni elaborarono progetti finalizzati “alla riduzione di fenomeni di tensione abitativa, di marginalizzazione e degrado sociale, al miglioramento della dotazione infrastrutturale anche con riferimento all'efficientamento dei sistemi del trasporto urbano e al miglioramento della qualità urbana, del tessuto sociale e ambientale”. Come si vede la sostanza dei progetti è la stessa nei due piani.
I comuni presentarono ben 457 proposte. Ne furono finanziate solo 28, per carenza di fondi. I restanti progetti sono ancora in attesa di essere finanziati, ed è molto probabile che per molti di essi i comuni tenteranno di ottenere i fondi del piano per le riqualificazioni. Furono scelti i progetti velocemente cantierabili, capaci di generare il maggior volume di investimenti. Alla fine di gennaio del 2015 (ultima data di disponibilità dei dati), cioè due anni dopo l’ammissione al finanziamento degli interventi, i contributi statali erogati ammontavano a 7,5 milioni di euro, cioè a meno del 2,5% dei 320 circa disponibili. Non si può dire che la realizzazione dei progetti proceda alacremente.
D’altra parte, ci si stupirebbe, probabilmente, del contrario. Per 8 progetti il contributo statale copre meno del 5% dei 3 miliardi di euro del loro investimento complessivo: se i comuni fossero stati in grado di coprire, con fondi propri o di altri, il restante 95% non avrebbe certo atteso il piano per le città per realizzarli. Per l’insieme dei 28 progetti finanziati il contributo statale copre circa il 7% dell’investimento complessivo previsto in ben 4,4 miliardi di euro: una sproporzione che non predispone certo all’ottimismo sui tempi di completamento degli interventi.
Considerato la lunga lista di progetti in attesa di finanziamento e lo stato di attuazione non certo avanzato di quelli finanziati con il piano per le città, un suo piano fotocopia è quantomeno ridondante. Ma questa duplicazione è figlia di una prassi di governo sempre più pervasiva in cui l'efficacia e la produttività della spesa pubblica diventano un'appendice della ricerca del consenso di opinione ed elettorale che si spera di raccogliere.
Nel caso in questione, non c’è possibilità di raffronto tra lo scarso ritorno politico che si otterrebbe rifinanziando, con qualche decina di milioni di euro per tre anni, una politica già attiva e quello molto più d’effetto assicurato dall’annuncio di un nuovo piano di investimenti, soprattutto se i progetti saranno selezionati con l’intenzione di far lievitare il modesto finanziamento statale di qualche miliardo di euro di investimenti (che dovranno essere finanziati da altri enti pubblici o da privati). Più è grande il volume complessivo degli investimenti annunciati, maggiore sarà il successo immediato del piano.
Poco importa se poi, anche in questo caso, i progetti potrebbero restare in gran parte sulla carta. Prima però che qualcuno se ne accorga passerà del tempo (ammesso che qualcuno abbia voglia di controllare lo stato di attuazione del piano). Nel frattempo, potrebbe anche cambiare il governo.
«Quello delle spiagge è un rito che si ripete puntuale ogni anno. La questione è vecchia, e risale al 2006, quando il governo Prodi nella Finanziaria decise di mettere ordine sulla materia rivedendo i canoni legati alle attività turistico-balneari, spiagge comprese». Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2015 (m.p.r.)
Bene che vada, ci sarà il condono bis, a prezzi di saldo. Male che vada, le spiagge - o meglio gli spazi di “pertinenza economica” degli stabilimenti balneari (bar, ristoranti, palestre, piscine ecc. La vera polpa delle concessioni) - verranno vendute, o meglio, “sdemanializzate”, per usare il linguaggio tecnico dei proponenti. In pratica, peggio di quello che provò a fare il governo Berlusconi nel 2006 - il prolungamento di 50 anni delle concessioni - senza però riuscirci anche per l’opposizione del centrosinistra.
L'affrontare contemporaneamente le molte componenti tecnologiche, economiche, normative e sociali del problema costituisce uno degli aspetti che fanno del testo uno strumento di riflessione sulle possibili integrazioni e di apertura verso nuove prospettive».
L’interessante libro curato da Anna Donati e Francesco Petracchini Muoversi in città- Esperienze e idee per la mobilità nuova in Italia, Edizioni Ambiente 2015 - Collana Kyoto Club fa il punto sulle molte eterogenee innovazioni che interessano la mobilità urbana e formano, nell’insieme, un quadro di rapido e profondo cambiamento sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta. Proprio il fatto di affrontare contemporaneamente le molte componenti tecnologiche, economiche, normative e sociali del problema costituisce uno degli aspetti che fanno del testo non solo uno strumento di conoscenza, ma uno strumento di riflessione sulle possibili integrazioni e di apertura verso nuove prospettive. Se ne sentiva francamente la necessità.
“Esperienze e idee per la mobilità nuova in Italia” recita il sottotitolo al volume. Dove il temine “mobilità nuova” fa riferimento a quegli Stati generali della Mobilità Nuova, giunti alle seconda edizione nel 2015, nei quali il confronto tra molti e differenti punti di vista ha portato ad elaborare una serie di principi e di concrete proposte di radicale innovazione. Secondo il Manifesto messo a punto in quella occasione «La Mobilità Nuova è un paradigma di organizzazione e gestione dei flussi di persone che impone il passaggio da un’ottica autocentrica a una umanocentrica». Con una attenzione senza precedenti ai movimenti a piedi, in bicicletta e alle diverse possibilità di trasporto pubblico e con un vero e proprio rovesciamento dei criteri di efficienza. Nella mobilità nuova assumono un peso prioritario obiettivi come la sicurezza, la salute delle persone, la vivibilità delle strade, l’equità sociale e la salvaguardia del territorio.
Questa “atmosfera” di fondo costituisce la chiave interpretativa delle innovazioni e dei casi di buone pratiche di cui il testo è ricco. Una interpretazione che permea in diversa misura tutti gli interventi dove si alternano ragionamenti di fondo sugli andamenti passati, sulle politiche e sulle prospettive dei prossimi decenni con approfondimenti su aspetti specifici, ciascuno affidato ad uno specialista del tema trattato. Gli approfondimenti spaziano sui molti aspetti rilevanti del problema. In primo luogo i temi classici dell’inquinamento dell’aria e delle emissioni di CO2.
La questione della qualità dell’aria, affrontata da un gruppo di ricercatori del CNR, dà conto dei vantaggi davvero rilevantissimi in termini di allungamento delle aspettative di vita e anche in termini monetari che si potrebbero ottenere riducendo il numero di sforamenti del valore limite per il PM10 (medie giornaliere e numero di giorni), che caratterizzano drammaticamente molte città italiane oppure, ancor più efficacemente, riducendo le medie annuali di concentrazione del PM2,5.
Il contributo dei trasporti alle emissioni di CO2, puntualmente documentato da Mario Zambrini, è centralissimo al fine della possibilità stessa di conseguire gli obiettivi comunitari di riduzione al 2020 e poi quelli ancora più ambiziosi al 2030 o al 2050. Nel primo ciclo di riduzione delle emissioni il nostro paese è riuscito per il rotto della cuffia ad aumentare solo del 2% le emissioni del settore rispetto al 1990. Saggiamente l’autore argomenta che il ruolo della crisi economica nel ridurre le attività di trasporto, e dunque le emissioni, è probabilmente stato determinante. Per il futuro si pone dunque la necessità di ben più strutturali trasformazioni in vista della fine della crisi e della necessità di non ri-produrre le insostenibili tendenze del passato.
Tali trasformazioni richiedono strumenti di pianificazione più adatti ai tempi rispetto a quelli oggi in uso. La tradizionale ripartizione in strumenti di breve periodo (PUT-Piano Urbano del Traffico) e strumenti strategici di medio-lungo periodo (PUM-Piano Urbano della Mobilità) tende a perdere rilevanza nel contesto di forte rallentamento della espansione urbana, di drastica riduzione delle risorse disponibili per investimenti infrastrutturali e, al tempo stesso, per la applicazione diffusa di strumenti di governo della domanda come le politiche di pricing, di telecontrollo, di moderazione del traffico.
Tutte politiche che assumono senso solo se inserite in una pianificazione strategica orientata verso la sostenibilità accompagnata da regolari processi di Valutazione degli aspetti ambientali (VAS). Le argomentazioni in proposito avanzate da Alfredo Drufuca appaiono particolarmente interessanti, così come le aperture verso una nuova generazione di Piani dei trasporti: i PUMS (piani Urbani per la Mobilità Sostenibile). Questa nuova generazione di piani, ad oggi proposti a livello comunitario, costituiscono un reale cambiamento di paradigma, che pone al centro delle politiche per la mobilità non il traffico, ma la qualità della vita dei cittadini.
Le altre sezioni del libro trattano con ampiezza temi specificamente modali: la mobilità collettiva, le forme di mobilità condivisa come il car sharing o il car pooling (ma anche il controverso Uber), l’ampia gamma di esperienze e di soluzioni per il muoversi in bicicletta o ancora la distribuzione urbana delle merci. L’automobile è presente nella sua transizione verso tecnologie che rendano il veicolo sostenibile (motorizzazioni e carburanti), ma anche le innovazione normative, finanziarie e organizzative atte a trasformarla da bene individuale a servizio da usare solo dove e quando serve. Il tema dei “trasporti intelligenti” tratta delle applicazioni della telematica alle diverse modalità di trasporto, e offre un interessante spaccato di tecniche, di applicazioni non convenzionali, di modi nuovi di tariffazione e di informazione tra produttori e utenti dei servizi di trasporto
Ciascuno di questi temi è articolato in una “narrazione” particolarmente efficace. Dopo aver messo a fuoco il quadro dei problemi e delle innovazioni per ciascun tema sono esaminate le esperienze effettivamente realizzate da Amministrazioni locali italiane e di altri paesi, le nuove economie e gli interessi imprenditoriali attivati dalle nuove condizioni della mobilità, le associazioni che se ne occupano e il loro ruolo, le innovazioni ancora in fieri.
In coda mi sia concesso di citare la post-fazione da me scritta sul tema di prospettive per la mobilità urbana sostenibile che nascono da politiche “altre”. Il pezzo si intitola Non solo trasporti intendendo che una mobilità urbana sostenibile si ottiene anche cogliendo le opportunità di “risparmiare traffico” che derivano dalle politiche di rigenerazione urbana che vanno diffondendosi a livello europeo,
Sono politiche che hanno profondi effetti sui modi di muoversi ma nascono nell’ambito di strategie come le risposte al cambiamento climatico, oppure la tutela della biodiversità oppure ancora le iniziative per la coesione sociale. Ai fini della mobilità nuova una componente particolarmente interessante di tali politiche è costituita dalla green infrastructure, ovvero dalla formazione della rete continua di spazi aperti permeabili, parchi e giardini (pubblici e privati), alberate raccordati in modo da realizzare un vera e propria nuova infrastruttura urbana. Una nuova rete per regolare il microclima, assorbire CO2, rimpinguare le falde, gestire l’eccesso di acque di pioggia e anche permettere di muoversi senza mezzi motorizzati nella dimensione urbana, con capillarità, piacevolezza e sicurezza.
Il quadro delle idee, delle suggestioni, delle possibilità che derivano dall’insieme delle riflessioni presentate dal testo è sicuramente utile per gli addetti ai lavori, ma al contempo costituisce una notevolissima fonte di ispirazione per quanti tecnici delle amministrazioni locali, progettisti, associazioni, gruppi di interesse, si trovano ad aver a che fare con problemi di mobilità urbana.
Torino. «In Val di Susa si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali. Da una parte, quelli di natura procedurale, come i diritti relativi alla piena informazione sugli obiettivi, le caratteristiche, le conseguenze del progetto della nuova linea ferroviaria tra Torino e Lione. Dall’altra parte, si sono violati diritti fondamentali civili e politici come la libertà di opinione, espressione, manifestazione e circolazione, come conseguenze delle strategie di criminalizzazione della protesta».
Dopo aver sottoposto a giudizio le violenze commesse dalle dittature in America Latina, le estrazione del carbone in Canada, i rischi del fracking, e molte grandi opere il Tribunale Permanente dei Popoli esaminerà la il Tav TorinoLione. Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2015
Un processo al Tav. Con l’accusa, la difesa (se si presenterà). E un verdetto finale. Sarà celebrato domani a Torino dal Tribunale Permanente dei Popoli. Tutto aperto al pubblico, un’occasione rara per capire le ragioni di chi è contrario alla grande opera e magari anche di chi la difende.
L’appuntamento è fissato presso la “Fabbrica delle E” del Gruppo Abele, mentre per la sentenza finale ci si troverà domenica ad Almese nella sede del Teatro Magnetto. I quattro giorni di incontri seguiranno il ritmo di un vero e proprio processo: la requisitoria dell’accusa, le deduzioni della difesa (sperando che si presenti); poi i testimoni delle parti. E infine la corte che si ritira in camera di consiglio e decide. Il ricorso è stato presentato da diversi comuni della valle e dal Controsservatorio Val Susa. Oggetto, appunto, il Tav della Valsusa. “La sentenza potrebbe portare a un’assoluzione, una condanna, ma anche a una dichiarazione di violazione dei diritti”, spiega il magistrato Livio Pepino che a Torino rappresenterà l’accusa. Una decisione che avrà un peso essenzialmente sull’opinione pubblica.
Il Tpp infatti è un Tribunale di opinione. Indipendente. È nato nel 1979 per occuparsi delle violenze commesse dalle dittature in America Latina, ma ha negli anni ampliato le sue competenze. Ecco così la sessione sull’estrazione del carbone in Canada, sui rischi del fracking, poi su grandi opere progettate in Germania, Olanda e Spagna.
Fa parte del tribunale una rete internazionale di esperti in discipline giuridiche, economiche, socio-politiche. Il loro compito è mettere a confronto le tesi dell’accusa e quelle della difesa. Come è successo in alcune sessioni, dove multinazionali e governi hanno mandato i loro avvo- cati a partecipare. Ma il timore è che a Torino lo Stato, gli enti locali e le imprese coinvolte nella realizzazione del Tav decidano di snobbare la sessione: “Finora la segreteria del Tribunale non è stata ancora contattata dalla difesa.
Tante domande. Un bisogno di informarsi e di vedere confrontate le opposte posizioni. La sessione del Tribunale Permanente dei Popoli a Torino sarebbe una grande occasione. C’è ancora tempo. La giornata di sabato 7 novembre è stata riservata anche alla difesa. Verrà qualcuno?
«Diritti. Grandi opere e territorio, lobby e democrazia. Il modello "coloniale" di decidere e costruire. I tre capi d’accusa di una sessione del Tribunale dedicata alla Torino-Lione». Il manifesto, 5 novembre 2015 (m.p.r.)
La sessione del Tribunale permanente dei popoli dedicata a Tav, grandi opere e diritti fondamentali dei cittadini e delle comunità locali che inizia oggi a Torino è un evento importante, anche oltre il caso concreto. Il tema centrale è, ovviamente, la nuova linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione: un’opera ciclopica devastante, di grande impatto ambientale, di conclamata inutilità trasportistica, insostenibile in termini di spesa pubblica, giustificata solo da una cultura sviluppista ormai anacronistica, da interessi economici lobbistici di breve periodo e dalla disperazione di un sistema politico ed economico incapace di dare alla crisi vie di uscita razionali.
Un’opera inoltre – sarà questo il punto principale dell’analisi del Tribunale dei popoli – decisa in modo autoritario, provocando un movimento di opposizione profondamente radicato e capace di manifestazioni con decine di migliaia di persone. Orbene questo movimento, in tutte le sue articolazioni (anche istituzionali), è stato sistematicamente escluso da ogni confronto reale e da ogni decisione. Esattamente come sta avvenendo in diverse località della Francia, del Regno Unito, della Spagna, della Germania, della Romania e dell’Italia (per limitarsi alle realtà che saranno esaminate dal Tribunale).
L’esclusione delle comunità locali da decisioni cruciali riguardanti il loro habitat, la loro salute, le stesse prospettive di vita attuali e delle generazioni future, è avvenuta e avviene in Val Susa in un modo esemplare di un sistema che si ripete con sostanziale identità per tutte le grandi opere inutili e imposte e che si articola in tre fasi fondamentali:
Tutto ciò – lo si è già accennato e sarà al centro dell’esame del Tribunale – realizza un vero e proprio sistema di governo di pezzi di società che ha a che fare con i diritti fondamentali delle persone e delle comunità e di partecipazione. Di democrazia si potrebbe dire, se il termine non fosse sempre più spesso utilizzato a copertura di scelte che vanno in direzione esattamente opposta e di istituzioni e regimi che tutto sono meno che democratici. Perché la logica sottesa a questo sistema è – non sembri eccessivo il termine – una logica neocoloniale, fondata sulla pretesa di lobby economiche e finanziarie nazionali e sovranazionali e delle istituzioni con esse collegate di disporre senza limiti e senza controlli delle risorse del territorio estromettendo le popolazioni interessate (considerate portatrici di interessi particolaristici e non apprezzabili), trasferita nel cuore dell’Europa.
Parlo di logica ovviamente, essendo ben consapevole che essa si manifesta in Occidente con modalità e caratteristiche incomparabili in termini di uso della violenza e di sopraffazione. Ma il segnale è chiaro. Nelle società contemporanee, percorse da derive decisioniste e autoritarie accade che la verità si intraveda dai margini, dalle periferie, da vicende riguardanti parti limitate della società che anticipano, peraltro, fenomeni di carattere generale. Come hanno dimostrato – tra le altre – le ricerche, ormai classiche, di Enzo Traverso sul nazismo e la sua genesi, la mancata percezione e l’omessa analisi di molti segnali premonitori pur facilmente avvertibili hanno prodotto nel secolo scorso lutti e disastri indicibili.
La speranza è che il Tribunale permanente dei popoli, da sempre in anticipo sui tempi, sappia, anche in questo caso, assumere decisioni e chiavi di letture utili non solo per la Val Susa ma per le prospettive dell’intera Europa.
Consideriamo una buona notizia ogni iniziativa volta a denunciare la rapina del project financing all'italiana, da anni denunciato da inascoltati studiosi e decine di comitati di cittadini. Questa volta viene dal Veneto, ne aspettiamo altre. La Nuova Venezia, 4 novembre 2015
L’offensiva parte da un dato: la maxi rata di 200 milioni di euro che la Regione corrisponde ogni anno a copertura delle opere realizzate in sanità con il progetto di finanza. Per questo, la Cgil del Veneto chiede al presidente della Regione di presentare una legge «per porre fine quanto sta accadendo».
Cominciano a capire che cos'è il project financing all'italiana. C'è chi lo predica da decenni, e noi pagheremo tutto perché chi decide non sente. La Nuova Venezia, 2 novembre 2015
IL PM ORDINA LA PERIZIA SUI COSTI
Mestre. A quasi tre anni da quando Piergiorgio Baita (arrestato per le tangenti Mose) parlò dell’affaire Ospedale dell’Angelo a Mestre, la Procura di Venezia cerca ancora di capire se anche in quell’operazione ci fu un malaffare traducibile in reati da contestare. Da mesi un commercialista sta passando al setaccio il project finacing che ha permesso di realizzare l’opera nella periferia di Zelarino. Le indagini sull'ospedale dell'Angelo, nate da una “costola” della maxi inchiesta sullo scandalo Mose, alimentarono, fin da subito, attraverso le dichiarazioni di Baita, una serie di sospetti su l’opera realizzata attraverso la finanza di progetto. Sospetti, peraltro, estesi anche a tutte le altre opere realizzate o previste in Veneto con analoghe modalità contrattuali.
ZAIA: «VIA LA POLIITICA, DECIDANO I TECNICI»
VENEZIA Le procedure di finanziamento del nuovo ospedale di Padova, la querelle giudiziaria e amministrativa sui costi abnormi dell’Angelo di Mestre, il piano infrastrutturale “dormiente” in Regione: si riaccende così lo scontro sui project financing, i contratti “misti” che nella lunga stagione galaniana hanno sancito l’accesso dei capitali privati alle grandi opere pubbliche, consentendo la realizzazione di obiettivi importanti (dalla sanità alle strade) ma rivelandosi troppo spesso punitivi per le casse del Veneto e “vulnerabili” sul versante della legalità. Che fare allora?
Ancora una volta, una puntuale analisi di una legge applaudita da tutti i verdi, verdastri, verdagnoli. Evidentemente senza averla letta con attenzione e fidandosi delle buone intenzioni. Speriamo leggano adesso. Con postilla contenente il testo del ddl C2039
Nell’aula di Montecitorio sta per cominciare la discussione sul progetto di legge governativo per il contenimento del consumo del suolo (C. 2039). La prima proposta era stata presentata dal ministro delle Politiche agricole del governo Monti, Mario Catania, tre anni fa, nel novembre del 2012. Da allora ci sono stati due cambi di governo (Letta e Renzi), mentre la proposta di legge è rimasta sostanzialmente ferma nelle commissioni riunite VIII e XIII della Camera. Solo recentemente ha subito un’accelerazione, insieme a un vistoso peggioramento.
Comincio ricordando il percorso in tre atti che dovrebbe portare al contenimento del consumo del suolo (il traguardo è quello fissato dall’Unione europea di un consumo del suolo = 0 entro il 2050):
Un percorso in tre atti (impuri)
3. il terzo atto riguarda la riduzione del consumo di suolo dalla scala regionale a quella comunale, il che avviene con provvedimento delle Regioni e delle Province autonome (art. 3, c. 8).
Come si vede, è uno di quei meccanismi a cascata – Stato, Regioni, Comuni – che non hanno mai funzionato, figuriamoci in questa circostanza, quando sotto tiro sono quell’immane coacervo di interessi che comprende (per dirla con Valentino Parlato) gli stati maggiori e le fanterie della proprietà fondiaria.
Entrando nel merito, penso che uno scrupoloso ministro delle Politiche agricole possa decretare senza particolari problemi, entro un anno dalla entrata in vigore della legge, di quanto debba essere ridotto il consumo di suolo a livello nazionale. Una decisione che può avere una positiva ricaduta sull’opinione pubblica e non dovrebbe suscitare rilevanti ostilità.
Meno scontata è la decisione della Conferenza unificata che dovrebbe deliberare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale. Prevalendo sicuramente le Regioni più sensibili agli interessi del mondo dell’edilizia, la Conferenza potrebbe non deliberare entro i previsti 180 giorni dal decreto ministeriale. In tal caso dovrebbe intervenire un decreto del presidente del Consiglio, dopo aver acquisito il parere della Conferenza unificata (art. 3, c. 6).
Lo stesso dovrebbe succedere se le Regioni non determinano, entro i successivi 180 giorni, la ripartizione a scala comunale del consumo di suolo stabilito per ciascuna regione. Anche in questo caso, il potere sostitutivo è esercitato dal presidente del Consiglio previo parere della Conferenza unificata (art. 3 c. 9).
Questo è il punto. Per quanto ne so, in materia di politica del territorio, il potere sostitutivo dello Stato ai danni delle Regioni non è mai stato esercitato, basta ricordarsi delle generalizzate e mai sanzionate inadempienze regionali in materia di piani paesistici ex lege Galasso. Per non dire dei piani paesaggistici ex Codice del paesaggio.
Rigenerazione della speculazione
I compendi agricoli neorurali (art. 6), di cui ha scritto su queste pagine (30 gennaio 2015) Cristina Gibelli, sono una micidiale novità che riguarda la possibile trasformazione dell’edilizia rurale in attività amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, di cura, eccetera. Una legge che nasce dal ministero dell’Agricoltura per “promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente” (art. 1) consente viceversa la distruzione dell’attività agricola e dei relativi insediamenti rurali.
Ancora più inquietante l’altra novità, introdotta nelle ultime settimane, in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate (art. 5). Si tratta di una delega al governo a emanare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi volti a “semplificare le procedure per gli interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate …”. È una delega in bianco. I principi e criteri direttivi si limitano a richiedere che:
· siano garantiti interventi volti “alla rigenerazione delle aree urbanizzate degradate attraverso progetti organici relativi a edifici e spazi pubblici e privati, basati sul riuso del suolo, la riqualificazione, la demolizione, la ricostruzione e la sostituzione degli edifici esistenti, la creazione di aree verdi, pedonalizzate e piste ciclabili, l’inserimento di funzioni pubbliche e private diversificate volte al miglioramento della qualità della vita dei residenti”;
· i progetti “garantiscano elevati standard di qualità, minimo impatto ambientale e risparmio energetico, attraverso l’indicazione di precisi obiettivi prestazionali degli edifici, di qualità architettonica perseguita anche attraverso bandi e concorsi rivolti a professionisti con requisiti idonei, di informazione e partecipazione dei cittadini”.
Nella delega al governo non c’è traccia del rapporto che gli interventi di rigenerazione devono avere con la disciplina urbanistica. Si devono rispettare gli standard ambientali ma non quelli urbanistici. Sono esclusi solo i centri storici e i beni vincolati “salvo espressa autorizzazione della competente sovrintendenza” (ci mancherebbe). Non ci sono limiti dimensionali, si possono radere al suolo e rifare intere parti di città e paesi. Non sono richiesti impegni circa l’uso sociale e l’accessibilità. Sono ignorate le Regioni e i relativi poteri in materia. Insomma, non è difficile immaginare che le norme emanate dal decreto legislativo finiranno per costituire un “pacchetto” di criteri in deroga alla strumentazione urbanistica comunale.
Devo aggiungere che le norme dell’art. 5 sulla rigenerazione delle aree urbane degradate (evidentemente aggiunte all’ultimo momento su sollecitazione dei costruttori, che stanno scoprendo il bello del recupero) non sono coordinate con quelle del precedente e preesistente art. 4 sulla priorità del riuso. Che impone alle Regioni di incentivare i comuni a promuovere strategie di rigenerazione urbana mediante l’individuazione di “ambiti urbanistici da sottoporre prioritariamente a interventi di ristrutturazione urbanistica e di rinnovo edilizio”. È appena il caso di aggiungere che gli artt. 4 e 5 sono vere e proprie invasioni nel campo della legislazione urbanistica. Sconcerta che ciò avvenga sotto l’egida del ministero dell’Agricoltura e non mi libero dall’idea che l’autentico obiettivo del legislatore sia il rilancio della più spregiudicata attività edilizia, dentro e fuori il perimetro delle aree urbanizzate: dentro con gli interventi di rigenerazione, fuori con l’invenzione dei “compendi agricoli neorurali”. E che a detto obiettivo sia funzionale la manifesta inconcludenza delle norme relative al contenimento del consumo del suolo.
Infine, a definire il carattere a un tempo pretestuoso e propagandistico della proposta sta il fatto che è stata vergognosamente ignorata la legge urbanistica della Regione Toscana (n. 65/2014).
Una legge, grazie ad Anna Marson, “filosoficamente ecologista”, ha scritto su eddyburg (13 maggio 2015) Ilaria Agostini, che traccia (per mano dei comuni) una linea rossa tra aree urbanizzate e aree rurali, e ne impedisce il superamento: nessun nuovo edificio residenziale né altri interventi che vìolino i principi del grande piano paesaggistico regionale.
Il progetto del nuovo aeroporto di Firenze è un concentrato di illegalità. Un masterplan, cioè un progetto preliminare, presentato ... (continua a leggere)
Il progetto del nuovo aeroporto di Firenze è un concentrato di illegalità. Un masterplan, cioè un progetto preliminare, presentato alla Valutazione di impatto ambientale al posto del progetto definitivo. Uno studio di impatto ambientale lacunoso e su dati non completi o non aggiornati. Una Valutazione ambientale strategica su una pista di 2000 metri e non di 2400 come quella sottoposta a VIA. Un piano di utilizzo delle terre di scavo assente, nonostante che per legge la sua presentazione «deve avvenire prima dell'espressione del parere di valutazione ambientale» (art 5, Decr. Min. 161/2012): con la beffa del Comune di Firenze che chiede che il piano sia elaborato «nelle fasi successive della progettazione», cioè quando nessuno potrà controllare alcunché, seguendo una prassi che è stata sperimentata con risultati disastrosi nella realizzazione della Tav in Mugello. Queste sono solo alcune delle torsioni, omissioni, forzature che Enac e Aeroporto di Firenze stanno perpetrando ai danni dei cittadini con la regia del Ministero dell'Ambiente e nel colpevole silenzio della Regione Toscana, che così anticipa la "riforma Boschi", quando le opere di interesse nazionale saranno di esclusiva competenza dello Stato.
Di fronte a un progetto che impatta violentemente sulla sicurezza idraulica della piana fiorentina e sulla salute degli abitanti, i Comuni interessati e le associazioni ambientaliste hanno chiesto all'Autorità alla partecipazione lo svolgimento di un Dibattito pubblico, previsto dalla legge toscana, prendendo, ahiloro, seriamente, un impegno ufficiale della Regione Toscana, sancito nella Variante al Pit che ha dato il via all'aeroporto; richieste rigettate, con la motivazione che avendo rifiutato Adf di mettere a disposizione il progetto e di partecipare, il dibattito sarebbe stato inutile. L'Autorità, tuttavia, in una lettera indirizzata al Presidente Rossi ha ritenuto “auspicabile” che la Regione Toscana promuovesse “una consultazione pubblica, volta a permettere ai cittadini e alle cittadine di essere informati debitamente sul progetto in questione e ad esprimersi su di esso". Ma Rossi ha taciuto e tace tuttora, mandando un chiaro segnale politico; né l'Autorità ha avuto uno scatto di orgoglio, prendendo una propria iniziativa.
Vanificato il Dibattito pubblico nonostante gli impegni, rimaneva un'ultima chance, che uno o più Comuni chiedessero all'Autorità di indire un "processo partecipativo", una forma minore di dibattito che tuttavia non necessita della collaborazione del proponente; così ha fatto il Comune di Calenzano, con l'adesione delle associazioni, ambientaliste. Ma è notizia freschissima che anche questa richiesta sarà probabilmente respinta perché nel frattempo la Regione ha operato un robusto taglio ai fondi a disposizione dell'Autorità. Nessuna forma di partecipazione allora? I diretti interessati non hanno neanche diritto a essere informati? Lo sta facendo Toscana Aeroporti , che ha nel frattempo inglobato Adf, con una mostra nella centralissima piazza della Repubblica di Firenze, dove i cittadini vengono edotti che il nuovo aeroporto ridurrà il rischio idraulico, migliorerà la qualità dell'aria, produrrà più di 2000 nuovi posti di lavoro, un vero toccasana. Toscana Aeroporti riempie a pagamento la pagine dei grandi quotidiani nazionali e, conseguentemente, viene censurata ogni voce di dissenso. La Regione non mantiene fede né alle sue leggi, né alle sue delibere. Il messaggio è chiaro: una vera forma di partecipazione non s'ha da fare, né domani, né mai. Lasciamo ai lettori indovinare chi è il don Rodrigo che dall'alto del suo castello conduce la manovra; e chi è don Abbondio. Quanto ai bravi ve ne sono così tanti che è impossibile individuarli tutti.
Gli errori truffaldini compiuti da malgovernanti (in questo caso Berlusconi) ai danni del territorio e dei suoi abitanti qualcuno li paga: purtroppo mai cil maggiore colpevole. Il manifesto, 20 ottobre 2015
Esponenti della Protezione civile inquisiti per aver truffato la Protezione civile. Esponenti della Protezione civile che tornano e ritornano protagonisti di inchieste nell’Aquila del disastro. Stavolta è cominciata con un balcone crollato e, dopo poco più di un anno di accertamenti e consulenze, la Procura dell’Aquila ha chiuso l’inchiesta sul tracollo di quel balcone, in una palazzina del progetto Case (gli alloggi antisismici provvisori tirati su nel post terremoto) in località Cese di Preturo, sulle condizioni di centinaia di altri balconi e sulle modalità che hanno portato alla loro realizzazione.
Gli indagati sono 37, sospettati di aver imbrogliato e raggirato, per milioni di euro, Stato e Protezione civile. Le verifiche hanno portato al sequestro di 800 balconi in 494 appartamenti (su 4.500) delle 19 new town esistenti, che hanno ospitato oltre 16 mila sfollati e che ancora oggi danno ricovero a migliaia di cittadini. Le accuse, a vario titolo, sono di crollo colposo, truffa in pubbliche forniture e una serie di falsi. Nei guai progettisti, ingegneri, dirigenti del comune dell’Aquila, imprenditori di molte regioni d’Italia, collaudatori.
Secondo la magistratura il legno utilizzato e fornito per la costruzione dei balconi non risulta conforme alle prescrizioni normative, non presenta alcuna certificazione in merito all’idoneità e i pannelli multistrato non hanno alcun tipo di collante, il che ne riduce la resistenza nel tempo (una parte di essi sta marcendo). Gli indagati, a vario titolo, avrebbero indotto in errore la presidenza del consiglio dei ministri, Dipartimento della Protezione civile, che avrebbe erogato più di 18 milioni di euro. I pm, inoltre, contestano il danno procurato e di avere agito approfittando della situazione di necessità degli sfollati, del contesto emergenziale, e di aver commesso il fatto con abuso di potere. I residenti avrebbero più volte segnalato, agli uffici municipali, l’inconsistenza e la scarsa tenuta di quei balconi, ma nessuno li avrebbe mai presi in considerazione.
Tra gli inquisiti “celebri” Gian Michele Calvi, progettista e direttore dei lavori del progetto Case, e Mauro Dolce, direttore dell’Ufficio rischio sismico di Protezione civile e responsabile unico del progetto. I due sono imputati anche nel processo alla Commissione grandi rischi, riunita a L’Aquila il 31 marzo 2009, (in primo grado sono stati condannati a sei anni, in secondo assolti) per aver fornito alla popolazione, a una settimana dal devastante sisma, messaggi tranquillizzanti. Entrambi sono poi coinvolti nella vicenda degli isolatori sismici fallati, le ’molle’ installate sotto le palazzine del progetto Case, risultate inadatte allo scopo: Dolce è stato condannato a un anno, Calvi è ancora imputato.
Sarebbe bello se qualcuno dei decisori e degli operatori pagasse per i danni compiuti stupidndo e arricchendosi. Ma siamo in quest'Italia del neoliberismo straccione. Il Fatto quotidiano, 14 ottobre 2015
Ci sono nuovi problemi per la Variante di Valico, la grande opera autostradale che dovrà unire Bologna e Firenze affiancando la vecchia Autostrada del sole e che ancora non è conclusa a 11 anni dall’inizio dei cantieri. A Rioveggio sul lato emiliano dell’Appennino, un muro di contenimento posto all’inizio delViadotto Casino in direzione nord (non ancora aperto al traffico) ha iniziato a muoversi alcuni mesi fa e a “ribaltarsi” verso l’esterno. Parliamo di movimenti di pochi centimetri, ma che avrebbero preoccupato Autostrade per l’Italia, la società posseduta al 30 per cento dalla famiglia Benetton, concessionaria per i lavori. Sulla pavimentazione stradale infatti si è aperta una lunga fessura longitudinale oggi transennata e coperta con un telo. Stando a quanto ha potuto fotografare ilfattoquotidiano.it dall’esterno dei cantieri, a causa dei movimenti sull’asfalto si è formato anche un gradino trasversale di diversi centimetri. La società Autostrade, interpellata non ha commentato.
Il pezzo di strada era stato consegnato, con tanto di certificato di ultimazione lavori, nel 2013. A portarlo a termine un’associazione temporanea di imprese di cui faceva parte anche un’azienda del Gruppo Maltauro (l’ex amministratore delegato Enrico Maltauro finì coinvolto nel 2014 nella maxi inchiesta su Expo). Ora, da qualche settimana, sul lato a valle del viadotto si sta quindi costruendo un nuovo enorme muro in cemento armato, ancorato con delle fondazioni profonde, al fine di bloccare il movimento. Il compito sarebbe stato affidato alla cooperativa Cmb di Carpi (che non aveva partecipato alla costruzione di quel tratto di strada).
Nei cantieri sono già arrivati i Carabinieri della Compagnia di Vergato per fare dei rilievi che della questione di quel muro che si è mosso avrebbe informato, come di prassi in questi casi, la stessa Procura della Repubblica di Bologna. I pm bolognesi avevano aperto in passato delle inchieste sulla Variante di valico (quella sulla frana di Ripoli è ancora in corso). Che cosa abbia causato il problema a Rioveggio non è chiaro. Il Viadotto Casino è posizionato a pochi metri del fiume Setta, ai piedi del versante di una montagna: è possibile, ma è solo un’ipotesi, che a farlo muovere sia stato proprio un movimento franoso proveniente da quel versante.
Non è il primo problema della grande opera. A marzo 2015 davanti alla commissione trasporti in SenatoGiovanni Castellucci, amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, aveva rivelato che la grande opera era costata il doppio rispetto al previsto: 7 miliardi di euro invece di 3,5. “I soldi li mettiamo noi”, aveva rassicurato il numero uno di Autostrade, azienda che raccoglie l’85 per cento dei suoi ricavi dai pedaggi che pagano gli automobilisti. “Molti problemi – aveva detto Castellucci riferendosi alla Variante – sono dovuti alla scelta del tracciato, che aveva un livello di rischio geologico, misurato successivamente, superiore a quello ipotizzato dai progettisti”. Il manager aveva però allontanato da sé, e dalla sua lunga gestione, ogni colpa: “La Variante è stata progettata negli anni Novanta, io non c’ero, sicuramente, col senno di poi, oggi la progetteremmo in maniera differente, più in galleria e più profonda”.
Il riferimento del numero uno di Autostrade è ai due casi più eclatanti che hanno rallentato i cantieri della Variante di valico. Sul lato emiliano ci sono stati infatti i guai con due gallerie. La Val di Sambro ha risvegliato una frana sotto il paesino di Ripoli, che ancora continua a muoversi insieme alla vecchia A1, che passa a monte. Pochi chilometri più in là un’altra galleria, la Sparvo, ha dovuto essere letteralmente blindata internamente con degli anelli in acciaio perché un’altra frana aveva iniziato a spaccare la copertura in cemento. Sul lato toscano, una inchiesta giudiziaria per presunti reati ambientali, sfociata poi in un processo, ha bloccato per lungo tempo i lavori. Ma nonostante i problemi c’è chi è fiducioso: “Lavoriamo pancia a terra per aprire al traffico entro metà dicembre”, ha assicurato il sottosegretario ai trasportiRiccardo Nencini in un’intervista al Resto del Carlino.
Nairobi, 20 ottobre 2010. Ri-pubblichiamo le pagine di un diario di viaggio che racconta città africana e i suoi problemi. Seconda parte.
Ho pianificato questo viaggio a Nairobi da tempo… le amiche che mi conoscono bene direbbero che non avevano dubbi al riguardo!
Per me pianificare un viaggio non significa solo “mettere le mani avanti”, organizzare spostamenti, soggiorni, vaccinazioni, contatti, e pensare a questo e a quello. Significa soprattutto cominciare a “viaggiare con la testa” con largo anticipo rispetto al viaggio materiale, assaporando le emozioni e paure della partenza, vivendo la frenesia, e le curiosità prima nella mente che nella realtà. E’ un modo di allungare il viaggio. Ho sempre desiderato viaggiare, ma non per tempi brevi. E raramente i tempi di permanenza fisica in un luogo mi risultano sufficienti. In questo modo il mio viaggio a Nairobi lo faccio durare un anno!
Il problema di questo approccio è che nella mia mente si sono configurati spazi e tempi “immaginari”, situazioni, aspettative che non sono legate alla realtà, ma sono dettate piuttosto dai ricordi (ero stata a Nairobi altre due volte), dalle letture e dai racconti di altri (articoli, saggi, film, fotografie) e dal mio percorso individuale.
Toi Market, Kibera: il World Social Forum, 2007 (dell'autore)
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Devo dire, che sono partita molto entusiasta, ma anche timorosa, non solo nei confronti della tesi, ma anche dell’ambiente nel quale avrei vissuto. L’esperienza del 2007, in occasione del World Social Forum (http://www.eddyburg.it/article/archive/345/) era stata, seppur breve, molto positiva e condivisa.
Nel momento in cui si usciva di casa occorreva dotarsi di tutta una serie di precauzioni che in qualche modo mi dimpedivano di vivere la città come luogo di vita pieno, seppur temporaneo. Faccio un esempio: non tirare mai fuori la piantina della città se no venivi subito individuato come turista e quindi circondato da venditori di Safari e pseudo guide turistiche. Il che mi ha aiutato tantissimo peraltro a disegnarmi mentalmente una mappa della città e a sviluppare un orientamento alternativo rispetto a quello configurato dai segni e simboli a due dimensioni tipici della mappa bidimensionale.
Non usare il cellulare in strada, perché può esserti portato via in un batter d’occhio.
Non girovagare dopo le 5.30 del pomeriggio, cioè l’orario di punta in cui tutti tornano a casa, a meno che sei in un “recinto”.
Avere monetine in tasca in modo da non tirare fuori il portafoglio.
Non guardare negli occhi le persone, perché questo è il mio “segnale” di incoraggiamento per attacar bottone, chiedere l’elemosina, etc.
Essere circospetti con le persone che cominciano a raccontarti storie… la maggior parte delle volte si concludono con una richiesta di soldi. E via così…
Veduta dei quartieri diNairobi, dall’aereo, 2004 (autore sconosciuto)
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Sono atterrata all’aeroporto Jomo Kenyatta al mattino molto presto, stava albeggiando… ero seduta verso il corridoio (la fobia dell’aereo è stata superiore al desiderio di vedere Nairobi dall’alto… poi me ne sono pentita della scelta!) e così non ho visto niente. Ero davvero eccitata quando sono salita in macchina con l’autista inviato dai miei amici che mi è venuto a prendere.
La prima impressione che si è sovrapposta a meraviglia con i ricordi, è quella che tante persone in Kenya si spostano a piedi. Ma non tanto e solo in zone pedonali, ma ovunque, anche luogo le highway. Eppure nonostate la maggior parte delle persone cammina, non ci sono marciapiedi, che possono essere considerati tali. Ma solo carraie ai margini della strada o tra una carreggiata e l’altra che si sono formate con il tempo al continuo passaggio dei pedoni. A questo è associato un traffico esasperante, inquinamento visibile - i tubi di scappamento delle auto emanano fumi neri e puzzolenti, come da noi decenni orsono) – e polvere rossa, bellissima, ma fastidiosa.
WayiakiRoad, October 2010 (dell'autore) |
ThikaRoad, October 2010 (dell'autore) |
Dopo anche solo un paio di giorni mi sono resa conto che la città è meno pericolosa e meno aggressiva del previsto, almeno in centro città. Il cosiddetto CBD (Central Business District) corrisponde alla cuore amministrativo, politico e finanziario della città. E’ l’unica parte della città davvero pianificata, con una griglia ortogonale molto rigida, dove si trovano gli edifici storici (del regime coloniale) e quelli moderni costruiti all’indomani dell’indipendenza (1963) e via via aggiunti nei decenni seguenti. E’ un centro come tanti altri nel mondo.
Non c’è più problema a usare il cellulare, ad aprire la cartina della città (che non faccio, sfidando la mia memoria e il mio orientamento), a camminare a piedi anche fin verso le 7-8 di sera. E sorprendentemente non vedo hawkers (venditori ambulanti senza licenza, che vendono cose da poco e specializzatissimi: solo banane, o solo piselli sgusciati, acqua, noccioline, giornali, etc.), beggars e i safaristi sono davvero pochi…
La città è anche più pulita, anzi è davvero linda! Ci sono panchine, aiuole fiorite, lampioni, persone ben vestite, tanti bar e ristorantini. Ururu hayway il limite sud del centro città e Ururu Park sono veramente attraenti. Insomma, lo spazio pubblico è davvero accogliente, posso tranquillamente sedermi da qualche parte a leggere il giornale non solo nel centro storico, ma anche in questo parco cittadino, senza problemi di essere importunata o assalita. Certo, nel parco è meglio stare nelle areee più affollate e lungo i sentieri dove ci sono anche i rivenditori autorizzati di bibite. Do comunque nell’occhio; di bianchi in giro non ce ne sono molti e certamente non si siedono all’aperto (e non credo sia solo una questione di sole). Ma volendo si può fare, ed è piacevole vedere le persone passare, sostare di qua e di là.
Non nascondo una certo apprezzamento di questo cambiamento, ma ricordando alcune letture ( in particolare “reclaming the streets di Coleman, 2004) e del progetto di “beautification” lanciato dal City Council di Nairobi un paio di anni fa, cerco di informarmi meglio e di scoprire come hanno fatto. Molto semplice! Il major ha emanato una serie di ordinanze che vietano agli hawkers di vendere, agli accattoni di chiedere l'elemosina, agli intermediari di attirare turisti nei negozi di souvenir o nelle agenzie dei safari, ai bambini di strada di accamparsi o gironzolare nel centro. Attraverso un gesto autoritario hanno rigenerato la città, giustificando la scelta attraverso una retorica tutta neoliberista che promuove la “città sicura”, una città innanzitutto sicura per gli affari. Attraverso questo discorso “securitario” si impone divieto a tutto ciò che è “nuisance” che può infastidire il “frequentatore privilegiato” del centro, che è l’uomo d’affari, colui che fa shopping, e che lavoro in uno di questi smart office. C’è anche il discorso di fare di Nairobi una “world class city” e quindi, tutte queste attività informali non fanno parte della buona immagine della città che si vuol dare. Ma tornerò su questo “immaginario” nei prossimi appunti.
Ma chissà che fine hanno fatto però i bambini. Mi dicono che sono stati messi in un orfanatrofio, dove stanno bene, sono sfamati, istruiti… alcuni scappano, ma la maggior parte rimane… immagino sia con le buone che con le cattive…
Gli ambulanti si accalcano nelle strade laterali, nella down town o si avventurano lanciandosi tra le macchine sulle strade. Al di fuori del recinto della business city, è sostanzialmente tutto immutato, anzi forse la povertà è aumentata alla faccia del comune che ambisce a trasformare Nairobi in "una world class city".
Nel dibattito circa questa rigenerazione del centro, la controversia è tutta dedicata all’aspetto “ambientale” e non a quello sociale. Cioè si contesta la validità di dotare Nairobi di così tante aree verdi e di limitare allo stesso tempo la cura all’Ururu Park.
Ecco un paio di video su You Tube che riguardano Nairobi:
http://www.youtube.com/watch?v=VQ5ajfveM7U
http://www.youtube.com/watch?v=RSsFTSB2G5A
1. Il CBD/parte dellacittà formale e Kibera/parte della città informale |
E' arrivato il momento di descrivervi, per sommi capi e senza pretese di completezza o sintesi, come Nairobi sia sorta, ed evidenziare alcune dinamiche che hanno influito più di altre nel processo di trasformazione.
Senza questo quadro di riferimento diventa difficile comprendere alcuni meccanismi che regolano la vita urbana della città, apprezzare lo sforzo e la capacità di migliaia di persone nel affrontare una vita quotidiana in cui anche l’acqua potabile è praticamente un bene di lusso,
e cogliere appieno la profonda inequità nell’allocazione e nella gestione delle risorse che da sempre, anche dopo l’indipendenza, si perpetua e ha sancito il benessere e il malessere dei Kenioti.
La città coloniale
Fin dall’inizio, da quando la città fu fondata dagli Inglesi nel 1899 come deposito degli approvvigionamenti per la ferrovia (l’Uganda Railway che doveva collegare Mombasa al lago Vittoria) ci sono state più Nairobi. Da una parte, la città pianificata (secondo le regole europee) e debitamente servita da infrastrutture che teneva conto solo delle esigenze della popolazione europea (impiegati della ferrovia e amministratori della colonia) e dei commercianti, sia Europei che Asiatici. Parallelamente, cominciava a crescere un altra città, né pianificata nè dotata di servizi, abbandonata a se stessa, occupata dai lavoratori Africani, impiegati nei lavori più umili o in economie informali di pura sussistenza.
2. Nairobi 1909: la suddivisione in quartieri peretnie |
La divisione era allo stesso tempo spaziale e razziale, divideva la città in quattro settori distinti: a nord e a est il settore asiatico (quartieri di Parklands, Pangani and Eastleigh); a est e sud-est il settore africano (quartieri di Pumwani, Kariokor, Donholm); tra sud-est e sud c’era un’altra piccola enclave asiatica; nel settore a nord e a ovest c’erano le aree europee. (Vedi Fig.2).
Vorrei qui mettere in evidenza un primo elemento di questa particolare suddivisione, e questo richiede una precisazione di carattere geografico.
Il Kenya si estende a cavallo dell’equatore sulla costa orientale dell’Africa e Nairobi si trova nella parte meridionale, ai margini del cuore agricolo del paese. L’altitudine di Nairobi varia notevolmente: tra i 1460 mt e i 1920 mt sul livello del mare, e quindi con notevoli differenze climatiche e ambientali. L’altitudine minore si registra nei pressi dell’Athi River lungo il confine sud-orientale della città, quella maggiore sul confine occidentale.
Percorrendo la città circolarmente, si incontrano paesaggi tra loro molto diversi. Ad occidente, laddove gli Europei si erano insediati, il clima è fresco, ventilato e la zona è ricca di vegetazione, addirittura ci sono parchi e foreste. Ad oriente, la temperatura si alza, stare al sole può diventare insopportabile, la terra è arida o semi-arida, ci sono pochi alberi e la coltivazione è pressochè impossibile, se non sussidiata dall’irrigazione meccanica. E qui che agli Africani fu in un qualche modo consentito di accamparsi.
Ma torniamo alle regole coloniali vigenti nella città di Nairobi nella prima metà del XX secolo.
Attraverso l’emanazione di decreti reali, gli Africani furono spostati nelle aree meno appetibili - sia da un punto di vista di vivibilità ambientale che di produzione agricola - mentre il Vagrancy Act - una legge che limitava i movimenti degli indigeni al di fuori delle riserve – e altri decreti, ivi compresi quelli relativi alla demolizione di strutture non autorizzate e alla segregazione residenziale, consentivano invece di regolare e controllare il centro urbano.
Siccome nella città coloniale non vi erano stati inseriti quartieri residenziali per gli Africani, se non in pochissime quantità e generalmente riservati a coloro che lavoravano nelle case degli europei e più tardi ai civil servant, gli altri dovettero a loro modo farsi posto nella città, andando a formare quelli che verranno poi definiti quartieri informali o slum.
Molti Africani approdavano in città dopo essere stati depradati delle loro terre dagli Europei che volevano fare del Kenya una nuova Australia: “a white man land”. La costruzione della ferrovia, che serviva per trasportare materie prime dall’interno dell’Africa orientale alla costa, si era rivelata più costosa del previsto e occorreva compensare la spesa con altri servizi: il trasporto di merci kenyote. Ma quali merci, visto che il Kenya non era provvisto di ricche materie prime come metalli o petrolio? Il Kenya era stato colonizzato per poter accedere e collegare l’entroterra ugandese al mare, più che per sfruttare le sue risorse, ma poi si rivelò una terra molto fertile, sfruttabile per colture da esportazione (te e caffe), e così fu incentivata da parte dei colonizzatori britannici l’insediamento degli europei nelle “White Highlands” the terre più fertili del Kenya, che originariamente appartenavano soprattutto alla nazionalità dei Kikuio. Migliaia di persone che vivevano nelle aree della Rift Valley, e nelle aree appena fuori Nairobi, per esempio in Kiambu, Limuru, Ruiru, Kikuyo si trovarono senza terra e quindi senza alcun mezzo di sussistenza.
3. Distribuzione delle etnie nel Kenyapre-coloniale |
Alcuni migrano a nord, per poi essere nuovamente cacciati all’indomani delle due guerre mondiali, quando agli ex militari britannici vennero regalate delle terre, mentre altri raggiunsero la città di Nairobi. Alla fine della Prima Guerra mondiale, i primi otto quartieri informali, tra cui Kibera, Kangemi, e Kileleshwa, si andavano consolidando, e quella che diventerà una caratteristica saliente di Nairobi - una divisione socio-spaziale della città - prendeva forma.
Al settore europeo di Nairobi era assegnata una gran quantità di terra, l’ottanta per cento del suolo residenziale urbano a cui corrispondeva il 10% della popolazione, e quindi aveva la più bassa densità abitativa per ettaro; alle aree degli indigeni africani, corrispondeva invece un’ altissima densità abitativa. Alla fine del 1926 gli Europei possedevano 2,700 acri di terra, gli asiatici, prevalentemente originari dell’India, circa 300 acri, mentre gli Africani ufficialmente nulla se non le case che gli erano state assegnate.
4. Nairobi nel 1926. Immagine tratta dalla storia diNairobi a fumetti, “The struggle for Nairobi” (1994) |
Nel mentre, il centro della città si arricchiva di nuovi edifici pubblici, compresa la Town Hall e il tribunale. Un nuovo piano “The Plan for a settler capital” veniva elaborato nel 1927: si basava sugli esempi delle città coloniali sudafricane rinforzando la suddivisione spaziale per etnie e mirava a normare gli usi, controllare l’accesso alla città, la demolizione di insediamenti considerati insani.
Ma la produzione di spazio, nonostante i decreti e la forza impiegata dal regime coloniale, rimaneva alquanto contestata. La concezione Africana dello spazio e la sua utilizzazione riusciva in un qualche modo ad affermarsi in aree come quella di Pumwani.
All’indomani della seconda Guerra mondiale a Nairobi c’erano circa 77,000 persone, un notevole aumento rispetto alle 40,000 che c’erano nel 1938. Di nuovo, l’aumento di popolazione era dovuto in gran parte al fatto che un’ ulteriore massa di africani si ritrovava espropriata della terra e in condizioni di indigenza.
5. L’espansione di Nairobi: - rosso: nucleooriginario (circa 1900);
- azzurro: piano del 1927; - marrone: all’indipendenza 1963
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Nel 1948 veniva elaborato un nuovo piano per Nairobi, il “Masteplan for a Colonial Capital” che mirava a consolidare i confini della città, piuttosto che ad allargarli, ad arricchire il centro per trasformarlo, anche simbolicamente, in una capitale coloniale, a individuare aree industriali e attraverso le “Neighbourhood Unit Planning” a creare aree residenziali, distinguendole di nuovo in base all’etnia.
Nel periodo coloniale, il nuovo ordine imposto dagli Europei – in termini di concezioni e modelli spazio-temporali e di ordine politico e sociale, - aveva creato nuove identità (l’Europeo-ricco da una parte e l’Africano-povero all’altra estremità, con gli Asiatici nel mezzo) e si affermava come dominante. Il modello di urbanità imposto dal regime coloniale diventava la norma ed espressione della città formale, ovvero della città “autentica”. L’altra parte, la città costruita dagli Africani in maniera spontanea senza piani, si affermava come la città informale, cioè al di fuori della norma. A questo modello eurocentrico corrispondenva non solo una discriminazione su base etnica, che certamente era alla base della separazione, ma anche una discriminazione su base economica: i bianchi erano ricchi e i neri poveri.
All’indomani dell’indipendenza
Non erano mancati momenti di opposizione al regime coloniale: il movimento dei Nandi (1905-1907) e poi quello dei Mau Mau (1952-1960) furono quelli più importanti e violenti, ma nel 1963, repentinamente e pacificamente, fu raggiunta l’indipendenza grazie alla forza combinata dei nazionalisti, che raggruppava partiti politici, sindacati e associazioni etniche.
Nel frattempo la struttura della società era cambiata e un’altra classe di Africani, tra quella dei si stava formando. Il regime coloniale aveva avuto bisogno dei vari leader delle comunità per governare il paese, così come era stata necessaria la formazione di un esercito di civil servant Africani (dai maestri agli impiegati dell’amminitrazione coloniale) per la gestione quotidiana e capillare del paese. Questa “piccola borghesia”, andava pian pianino acquisendo una sua posizione economica e politica e sarà questa che formerà il governo della Republica del Kenya.
Con l’indipendenza gli Europei se ne ritornano in Europa e le loro terre venivano acquisite dalla “piccola borghesia” o dallo stesso governo. Attraverso il cosidetto “Million Acre Scheme”, finanziato con l’aiuto del governo Britannico e della Banca Mondiale, 1200 milioni di acri furono distribuiti a 35,000 famiglie. Altri programmi simili avrebbero dovuto redistribuire il resto delle ex terre agricole europee; invece oltre metà delle terre furono comprate direttamente dagli Africani più abbienti.
E così la stratificazione della ricchezza su base etnica si trasforma in una stratificazione su base puramente economica. Il Kenya diventò una classica “società neopatrimoniale” in cui i gruppi etnici o nazionalità –entità abbastanza flessibili nell’epoca pre-coloniale - si rafforzavano e si trasformavano i vere e proprie “tribù politiche” in competizione tra loro per l’accaparramento delle risorse disponili.
Il rapporto tra gruppi etnici e politica è assai complesso e molto legato a questioni di “identità”, “essere” e “appartenenza” come Patrick Chabal fa notare (consiglio l’interessante libro “Africa: The politics of suffering and smiling”, 2009). Il regime d’ordine che si instaura all’indipendenza e che previlegia di volta in volta il gruppo etnico a cui appartiene il capo dello stato e si tradurrà in una conduzione della stato volta a promuovere il benessere individuale e del clan dell’elite al potere, non può essere descritto solo attraverso il significato moderno di “corruzione”.
Mi riprometto di ritornare su questo aspetto e di spiegare meglio quello che Chabal intende, in un altra pagina di questo diario, riprendendo anche la questione della terra e quello che essa rappresenta nell’immaginario dei kenioti e di come questa sia il contenzioso più importante anche nelle trasformazioni urbane di Nairobi.
Quello che mi preme ora mettere in evidenza è che la nuova elite Africana, per una lunga serie di ragioni – tra cui l’eredità coloniale, la smania per la modernità e la difficoltà di conciliare l’interesse locale della propria comunità di origine e l’interesse generale della nazione - optò per la continuità delle strutture governative coloniali e per una accentuata stratificazione di classe. Nel Kenya indipendente, così come nel Kenya di oggi, l’esclusione sociale su base etnica, perpetuata dal regime coloniale, si trasforma in un esclusione sociale su base socio-economica. La smania dell’elite di arricchirsi e di previligiare la propria comunità di origine, piuttosto che dell’equità sociale e dell’interesse generale a scala nazionale, diventerà il motore del modello segregativo della città.
Volendo riassumere in cosa consiste l’eredità coloniale nel processo delle trasformazione urbane nominerei subito il modello segregativo, di cui ho già parlato. Ma si eredita anche l’incapacità di gestire la crescita urbana e gli slum, delle politiche territoriali volte ad evitare il coinvolgimento/partecipazione della popolazione povera della vita urbana; insediamenti a bassa densità e destinati ad una minoranza; e la mercificazione della casa e dei suoi componenti.
L’enorme disparità in densità e utilizzo del suolo di oggi è una manifestazione di questa segmentazione sociale: i nuclei ad alto reddito, che rappresentano il 10% della popolazione di Nairobi occupano oggi il 64% della superficie residenziale mentre i nuclei a basso reddito, che rappresentano il 55% della popolazione occupano solo il 6% della superficie.
Alla città regolare, pianificata, infrastrutturata e in un qualche modo controllata, luogo del potere, delle classi agiate e dei cosiddetti espatriati, delle banche internazionali, degli alberghi di lusso, dei mall e degli uffici, si contrappone “la città degli slum” costituita da agglomerazioni spontanee e per natura dei materiali “temporanee”, dove vivono migliaia di persone che di fatto sono esclusi dai beni e i servizi urbani di base come l’acqua, le fognature, i trasporti, le strutture sanitarie, le scuole e gli asili. E’ un spesso anche l’esclusione da un lavoro regolare e adeguatamente retribuito, dalla rappresentanza politica e dai processi decisionali.
Nel mezzo, c’è una middle class che certamente cresce e che lascia una traccia sempre più marcata nella città. Occupa quartieri di palazzine in cemento armato construite in varie epoche, ma che negli ultimi dieci anni si sono diffusi a macchia d’olio, occupa le case costruite dal governo e poi vendute o affittate ai suoi civil servants, occupa quartieri che dovevano essere di edilizia popolare ma che per i prezzi troppo alti non sono accessibili alla lower class. Assomigliano a quelle palazzine che vi ho decritto nel diario 3, dove io stessa ho vissuto per un paio di settimane.
Ma ora voglio parlarvi degli slum i quartieri dove metà della popolazione urbana del Kenya vive, facendo una premessa. Possiamo identificare una serie di caratteristiche comuni agli slum di tutto il mondo: possesso della terra molto incerto e non sancito da leggi; abitazioni precarie, costruite con materiali di fortuna e non rispondenti a standard abitativi minimi; altissima densità; una distribuzione sul territorio complessa, ma spesso in aree marginali e non ancora richieste dal mercato; assenza o scarsità di servizi (luce, acqua potabile, fognature, raccolta rifiuti); tassi di mortalità più alti che in altre zone. Ma ogni città, ogni slum ha delle caratteristiche peculiari, che dipendono dal processo di formazione dello slum stesso (qual’era il nucleo originario, le motivazioni dell’insediamento, le trasformazioni successive), i gruppi etnici prevalenti (ogni gruppo etnico ha una sua cultura, concezioni peculiari dello spazio e della vita sociale); l’età media degli abitanti; la permanenza media degli abitanti nello slum; il rapporto tra proprietari e affittuari, ecc.
Quello che io mi accingo a descrivere è la realtà di Nairobi, e in particolare faccio riferimento a due slum: Mathare (Fig. 6) e Kibera (Fig.7)
6. Vista dello slum di Mathare (foto di ValeriaPolizzi) |
6. Vista dello slum di Kibera (autore sconosciuto) |
Gli slum di Nairobi
Cosa sono gli slum
Slums, favelas, barrios, baraccopoli, insediamenti informali, sono parole che indicano dei quartieri costituti perlopiù da baracche addossate le une alle altre, costruite con vari materiali di fortuna (generalmente di scarto o di scarsa qualità) in assenza di un piano di lottizazione o simile, senza allacciamenti alla rete fognaria, elettrica e dell’acqua potabile. A Nairobi la densità abitativa negli slum varia da 15.000 a 85.000 persone per Km quadrato (vedi Fig. 7 e 8).
7. Gli slum di Nairobi, evidenziati sono quelli più popolosi |
9. Nairobi: superfici, popolazione
e densitàabitativa di alcuni quartieri
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Questi quartieri crescono per aggiunte progressive di unità, non comprendono scuole, servizi pubblici, strade o quant’altro ci si aspetterebbe da un quartiere ben pianificato e costruito. Può succedere che con il tempo, una serie di attività collettive e di servizio – dispensari farmaceutici, scuole, cliniche, servizi igienici, vengano costruiti. Spesso con l’aiuto di associazioni e la collaborazione degli abitanti, più raramente, con l’aiuto del governo o dell’amministrazione locale.
Questi quartieri si insediano su terre “libere”, generalmente alla periferia delle città, dove esiste meno “pressione” e dove il mercato immobiliare non si è ancora organizzato, ma possono anche svilupparsi in zone centralissime (un esempio è Kibera), vicino a fabbriche, in aree alluvionabili o a rischio, dove la pianificazione non prevede l’insediamento umano.
Le terre occupate possono essere pubbliche o private, e l’occupazione può essere illegale (squattering) oppure legale, nel senso che il proprietario ha concesso il permesso a queste persone di insediarsi (dietro pagamento di un affitto). Si può anche essere in presenza di una lottizzazione regolare, ma poi i lotti possono essere a loro volta frazionati e affittati o venduti, e poi edificati in assenza di un permesso a costruire.
Insomma la casistica è assai ampia e le condizione di occupazione del suolo, delle baracche e delle relazioni economico-sociali tra abitanti e possessori della terra e delle strutture dipende molto dalle condizioni socio-politiche locali. Questo fattore incide moltissimo sulla composizione sociale dello slum, e rappresenta un elemento chiave per capire le dinamiche di sviluppo del quartiere e delle variabili da considerare qualora si volesse intervenire per migliorare le condizioni abitative.
Vivere negli slum non è gratisVorrei specificare, che praticamente nessuno degli abitanti vive in queste baracche gratis. E’ da non credere, ma anche vivere in una baracca costa! Non solo ma alcuni servizi, l’acqua potabile in particolare, costa di più che in un quartire formale o addirittura in un quartire della high class dove i servizi pubblici sono arrivati. Negli slum infatti la fornitura d’acqua è lasciata completamente al servizio privato, che se ne approfitta.
La stragrande maggioranza degli slum dweller è in affitto, e paga la pigione al “proprietario della baracca”, che spesso è un “absentee landlord” cioè qualcuno che vive altrove (in una casa vera e propria) e che possiede ben più di una baracca. Spesso questo absentee landlord ha ottenuto la terra – originariamente pubblica o common land - come “dono” da un politico, che spesso gli ha anche rilasciato un certificato che ne attesta la proprietà. Ovviamente questa allocazione di terra ad un privato e per usi privati è illegale, la Costituzione non permetterebbe l’uso di terra pubblica per fini privati, ma è successo. Questa pratica, di dispensare terre pubbliche ai propri parenti, e agli appartnenti al proprio gruppo etnico, si chiama land grabbing ed è stata praticata fin dai primi anni dell’indipendenza e non è per niente scomparsa. E’ una delle forme più diffuse di corruzione insieme a quella dell’appropriazione indebita di fondi pubblici attraverso contratti fraudolenti.
Praticamente questi absentee landlord si fanno un sacco di soldi: la terra non l’hanno pagata, ma percepiscono settimanalmente una rendita, su cui ovviamente non pagano le tasse. Non c’è quindi da stupirsi che ci siano persone che hanno interesse a mantenere gli slum così come sono!
Chi sono le persone che vivono in questi quartieri
Per lo più persone normali che non hanno trovato altrove un alloggio adeguato alle loro possibilità di spesa. Sono persone che non hanno un impiego stabile e retribuito adeguatamente, oppure famiglie numerose che devono sopravvivere con un solo stipendio, donne con prole che non hanno altro aiuto al di fuori di se stesse. Tanti giovani provenienti dalle zone rurali in cerca di lavoro, di un opportunità nella vita che sia qualcosa di più della mera sussistanza che ti offre la campagna (sempre che non si siano ondate di siccità o altre calamità naturali). Talvolta, come mi è capitato di conoscere, persone con uno stipendio che potrebbe consentirli una sistemazione migliore, ma che per risparmiare (in genere per l’educazione dei figli) vive qui.
La città in Kenya, come in tutta l’Africa più generalmente, costrituisce ancora una forte attrattiva. Non sempre per le reali possibilità che questa offre, ma più per le potenziali opportunità che possono rappresentare. Le condizioni abitative nella casa di origine nei villaggi sono spesse migliori, o sembrano meno degradanti, di quelle che si ottengano trasferendosi in città e soprattutto a Nairobi. Ma qui, in città, ci sono tutta una serie di servizi, soprattutto la possibilità di studiare, di incontrare persone, di trovare un lavoro – per quanto precario sia – che in campagna.
Raramente i migranti rispondono allo stereotipo dell’abitante povero, analfabeta, e mal adattato. Essi provengono da tutte le classi sociali, e tendenzialmente con lo stesso livello di formazione scolastica, reddito e lavoro di quelli che da sempre hanno vissuto in città, anzi sono spesso quelli ad avere un educazione superiore alla media a lasciare il villaggio per andare in città, quelli meno ‘educati’ tendono a muoversi, in altri villaggi.
Il fatto di vivere in uno slum è uno step accettabile, il primo gradino della scala sociale, l’accesso alla città, in attesa di trovare un posto migliore, magari di studiare, farsi una posizione e quindi poi muoversi in un quartiere appena meglio.
La baracca: non più capanna e non ancora appartamento
La diversità degli slum di manifesta nelle risposte diverse alle necessità (dormire, mangiare, guadagnare, etc.) in una società in trasformazione. Il risultato è spesso di una contaminazione tra ancestrali tradizioni locali e modernità che passa attraverso l’uso generalizzato di beni di consumo e di tecnologie d’importazione (il cellulare primo fra tutti). Il legame con il mondo rurale di origine, è molto forte, e solo a livello di relazioni sociali, ma persiste nell’organizzazione spaziale città degli slum. La dimensione del villaggio e della casa rurale non scompare del tutto come riferimento culturale, comunitario e spaziale. Questo legame a livello di organizzazione spaziale e ambientale non è così evidente a prima vista perchè l’esportazione e l’adattamento della casa rurale nel contesto denso della città trasfigura i connotati e le qualità del modello originario.
La casa nello slum, come quella del villaggio, è fatta di materiali poveri reperibili sul luogo terra prima di tutto; nel caso della città sono soprattutto materiali di scarto come terra, cartone, lamiera, stoffa, pezzi di plastica, e quant’altro di recuperabile si trova nelle discariche. Non è certamente dotata di tutti i comfort di una casa “adeguata”, come d’altronde non lo è una casa rurale. Nello slum ogni nucleo familiare ha generalmente una sola stanza che serve un pò a tutto: l’ambiente è flessibile e c’è spesso commistione tra esseri umani e animali, la vista si svolge soprattutto all’esterno. Dove si trova il focolare. In campagna, il focolare trova spesso riparo in un altra capanna, per riparasi dalle piogge.
Il problema di questo modello abitativo “rurale” è che nella sua trasportazione e adattamento all’ambiente urbano si densifica, aumentando il carico antropico che diventa insostenibile per la terra e l’ambiente.
10. Abitazioni a Mathare (foto di ValeriaPolizzi) |
11. Negozia Kibera (foto di Georgia Cardosi) |
Ma cosa si è fatto per gli slum?
Con l’indipendenza il progetto era quello di eliminare tutti gli slum e di sostituirli con case adeguate, immaginate nella forma di palazzine moderne in cemento. Il governo aveva piani ambiziosi: assicurare ad ogni famiglia un’ unità abitativa accettabile che corrispondeva a due stanze, una cucina separata e un bagno.
Le strutture che non corrispondevano a questi standard erano da demolire, con il risultato che molti abitanti furono espulsi dal centro urbano per andare ad ingrossare le periferie informali
La Banca Mondiale aveva cominciato a promuovere i primi progetti di site and services e di upgrading. Alla base c’era l’applicazione del principio del self-help, ovvero “aiutare i poveri ad aiutare se stessi”.
Site and service significa che agli abitanti viene concesso un appezzamento attrezzato con I servizi minimi: allacciamento alle fognature, all’acqua corrente e all’eletricità, mentre è lasciato a ciscun individuo la responsabilità di costruirsi l’abitazione. Questa concessione non era gratuita, ma prevede un cifra da pagare a rate per andare a “recuperare i costi” e rendere il processo replicabile.
Lo slum upgrading è invece quel processo di recupero degli slum mediante la graduale sostituzione delle baracche con insediamenti umani più vivibili, dove i residenti abbiano possesso sicuro della terra, infrastrutture e servizi primari, e abitazioni adeguate.
Si andava affermando una nuova ortodossia: dall’edilizia pubblica popolare ( e sussidiata) si passava ad un edilizia popolare nelle mani del mercato, sollevando l’impegno ‘storico’ degli stati a provvedere per la popolazione più disagiata. Si preparava così la strada al ritiro massiccio del governo statale e locale nella fornitura di servizi che sarebbe avvenuta negli anni seguenti.
Il governo kenyota, nell’impossibilità di provvedere alle abitazioni necessarie e diventando il problema dei quartieri informali sempre più pressante, tenta strade alternative. Sulla scia del nuovo approccio promosso dalla Banca Mondiale, passa anch’esso all’ approccio più ‘pragmatico’ dell’upgrading e del site&service. Il primo progetto di questa generazione fu quello di Dandora che si prefiggeva di creare 6,000 lotti dotati di infrastrutture destinati a famiglie a basso reddito. Dati i costi, queste unità, andarono però a beneficiare le classi medie e alte e non i poveri per cui erano state inizialmente costruite.
A metà anni ’80 avviene un altro cambiamento, nell’approccio ai problemi degli insediamenti da parte della Banca Mondiale e di conseguenza alle altre agenzie e giù sino ai governi. Il mancato recupero dei costi dei progetti precedenti di upgrading (ritenuti quindi degli insuccessi prima di tutto finanziari), i programmi di aggiustamento strutturale - che spingevano alla privatizzazione dei servizi pubblici, delle risorse naturali, decentramento amministrativo e deregolazione del mercato (spesso in cambio della rinegoziazione del debito che i paesi via via accumulavano nei confronti dell’IMF) – e il ruolo strategico riconosciuto alla città come motore della crescita economica, fanno si che si individua un modello di intervento orientato ad un impegno minore dello stato verso il fare, e un impegno maggiore verso il far fare, ovvero verso le enabling strategies che significa “mobilitare risorse e capacità imprenditoriali per incrementare la produzione di abitazioni e infrastrutture”.
Negli anni ’90, di nuovo, il governo Keniota, sulla nuovo sulla scia delle raccomandazioni della Banca Mondiale, cambia approccio: anzichè assumersi il ruolo di fornitore principale di alloggi, crea incentivi che possano facilitare il recupero dei quartieri informali da parte sia di privati che di ONG. Il Mathare 4A Development a Nairobi, che è anch’esso un progetto di slum upgrading, rappresenta l’applicazione di questo approccio.
Seppur una qualche infrastruttura fu fornita e qualche miglioramento ottenuto, che questo metodo di intervento fu fallimentare; soprattutto perchè non compresero nè i bisogni primari degli abitanti, né il fatto che la maggior parte degli abitanti erano affittuari e non proprietari delle baracche esistenti.
Le cose da allora non sono cambiate molto, ci sono certamente più progetti, ma gli slum continuano ad esistere e la maggior parte dei progetti, seppur riuscendo a migliorae le condizioni di un certo numero di abitanti, rimangono una goccia in mezzo al mare.
Sia i programmi del passato che anche i più recenti progetti, pur nella diversità delle soluzioni proposte, sono simili nella rappresentazione del problema. Il modo in cui il problema è posto riflette una lettura univoca della realtà, che assume la città come un fenomeno sociale ed economico sostanzialmente omogeneo, e paragonabile a quello dei paesi occidentali. Il modello implicito di riferimento, perchè è sulla base del distanziamento della realtà dal modello, che un fenomeno viene considerato un problema, è una città in cui tutti si muovono con lo stesso tipo di razionalità, in cui le regole del mercato valgono per tutti e sono condivise, e che vi sia uno stato in grado di applicare le norme del diritto moderno, e che le esigenze e le aspirazioni individuali non possono che passare attraverso un’abitazione adeguata che consiste in una struttura di cemento (o simile) dotata di acqua corrente (possibilmente potabile), bagno collegato alle fognature, ed elettricità
Perchè, nell’era dell’abbondanza esistono ancora gli slum?
Ad oggi i dati quantitative sugli slum di Nairobi rimangono incerti, non solo perchè la popolazione negli slum cambia velocemente (una percentuale di abitatante è certamente transitoria) ma anche perchè la stessa quantificazione ha una sua “ragione politica” a seconda degli interessi dei diversi attori. Rivelare numeri alti permette di presentare il problema dello slum come “drammatico”, un caso eccezionale, degno di attenzione e quindi di fondi. Viceversa, ridurre la quantità al ribasso permette di considerare il problema sia “trascurabile” che affrontabile, non impossibile da risolvere.
Quindi da una parte abbiamo i numeri che le varie agenzie di sviluppo e ONG fanno circolare, strumentali per il reperimento dei fondi e il finanziamento dei progetti, che sono tantissimi, soprattutto nello slum di kibera, dove pare che ci sia una associazione attiva per ogni 50 abitanti. Dall’altra abbiamo i numeri presentati dal governo, che hanno convenienza a ridurre il problema.
Certamente l’aspetto “quantitativo” ha il suo peso, ma credo che occorra riflettere sull’aspetto qualitativo del problema, e ancora prima ragionare non tanto nè solo su quale sia il problema, ma su quail basi definiamo che un fenomeno sociale un problema.
I dati del Nairobi Urban Sector Profile (Un-Habitat, 2006) riferiscono che a Nairobi
oltre il 60% della popolazione vive negli slum, quindi a fronte di una popolazione urbana stimata intorno ai 3 milioni di abitanti, oltre il milione e mezzo vive in uno dei tanti quartieri informali che costellano la città e ne riempono gli interstizi. Secondo lo stesso documento è inoltre previsto che la popolazione che vivrà negli slum raddoppierà nei prossimi 15 anni.
Pensare che nei prossimi 15 anni non saremo capaci di trovare una risposta a questo problema è assai deprimente!
Quello che è preoccupante invece, dal mio punto di vista, è rappresentare il dilagare degli slum come se fosse un problema “naturale”, una calamità, qualcosa al di fuori del sistema, sul quale non possiamo interagire. Non solo e tanto perchè ci rende inermi, ma soprattutto perchè riflette uno schema mentale e una posizione ideologica per cui i fenomeni non sono considerati i prodotti di quello stessa sistema socio-politico ed economico nel quale viviamo.
Come possiamo essere arrendevoli e semplicemente anche solo pensare che il numero di persone che vivranno in queste condizioni duplicherà nel giro di 15 anni. Solo i barbari accetterebbero questo sistema!
Certamente il problema, non è semplice, soprattutto se questo assume valori quantitativi come quelli di Nairobi, e se calato all’interno di una realtà di paese non ricco, e di uno stato che denuncia carenze di risorse.
Quello che mi chiedo ogni volta che leggo un articolo, un libro su questo argomento e ogni volta che entro in uno di questi quartieri è: perchè oggi nell’età dell’abbondanza, della democrazia, dei diritti, della tecnologia, ci sono ancora persone che vivono nell’indigenza e sono soggette a uno stile di vita che da un punto di vista della lunghezza della vita e della salute, certamente è di una categoria infinitamente inferiore.
Ma credo che, per quanto banale possa essere, il problema principale sia quello di una volontà politica capace di fare accettare al popolo Keniota (e a tutte le agenzie e associazioni che intendono adoperarsi per dare una mano) che occorre individuare un modo per redistribuire più equamente le ricchezze e i benefici, che non si può accettare di far vivere migliaia e migliaia di persone senza un minimo di servizi, quando dall’altra parte si investono risorse per costruire una “world class city” fatta di superstrade, aeroporti, centri commerciali ricchissimi e via di seguito. Perchè è questo che sta succedendo a Nairobi. Nelle prossime pagine del mio diario vi racconterò di alcune opere in corso, dei progetti del governo, ma anche delle micro-imprese che si stanno portando avanti in tanti slum per migliorare le condizioni degli abitanti.