«TAV Firenze. Il presidente onorario della rete dei comitati Alberto Asor Rosa chiede di di riaprire un confronto con i cittadini». La Repubblica, ed. Firenze, 4 luglio 2016 (c.m.c.)
Ho seguito con attenzione e, da un certo momento in poi, con appassionata partecipazione le vicende più recenti del sottoattraversamento ferroviario di Firenze. Per sintetizzare al massimo: titolo dell’articolo apparso su La Repubblica del 1 luglio: “Retromarcia sulla Tav. Foster e tunnel addio”. Ne ho ricavato pretesto per queste tre buone notizie.
1) La prima è che il sindaco Nardella ha parlato chiaro e forte per giudicare il progetto Tav inutile e dannoso. Ci vuole un buono e gran coraggio per confessare apertis verbis un così colossale fallimento! Qualche premonizione ce n’era stata già in passato (incontro Renzi-Nardella a Firenze di qualche mese fa). E però oggi, dopo le coraggiose dichiarazioni del sindaco, mi pare non ci sia più spazio per ripensamenti. L’idea che si debba fare il calcolo delle penali, e poi su questo decidere, non sta né in cielo né in terra. Se l’opera è gravemente inutile e dannosa, si paghino le penali e il discorso è chiuso.
2) La seconda buona notizia riguarda tutti i cittadini italiani, fiorentini e no, che in questi lunghi anni si sono fieramente battuti contro la Tav di Firenze. Facciamo finta di dimenticare che a Firenze opera fin dall’inizio, e cioè dalla fase di progettazione dell’impresa (quando non ci sarebbero state penali da pagare), un Comitato No Tav, parte integrante della Rete dei Comitati per la difesa del territorio, il quale ha condotto una lotta dura, tenace, seria, molto responsabile, e per converso vilipesa, contrastata e qualche volta minacciata, per affermare l’inutilità e la dannosità dell’impresa? Questo Comitato, e i suoi qualificatissimi esperti, pronunciarono giudizi che ritroviamo oggi tali e quali sulla bocca del sindaco Nardella. Non era più semplice fermarsi ad ascoltare allora?
3) Infine... No, infine non è corretto. Più corretto è pensare, e scrivere, “per continuare”. E cioè: se la Tav fiorentina è risultata alla fine una così colossale bufala, non diventa legittimo pensare la medesima cosa per altre grandi imprese della stessa ispirazione e natura?
Intendo, quasi ovviamente, il progetto di ampliamento e potenziamento dell’aeroporto di Peretola. Anche qui: una miriade di comitati avversi, molti Comuni della Piana risolutamente contrari, il Parco della Piana in pericolo, la sostanziale inutilità dell’impresa (Bologna e Pisa ad un passo), ecc. ecc. Non sarebbe il caso di fermarsi e ripensare la cosa in un rapporto di confronto e reciproco scambio con i cittadini e le istituzioni interessati, prima di accumulare le ingenti penali da pagare domani?
Se poi c’è chi pensa di barattare l’abbandono dell’impresa Tav con la pacifica e indiscussa realizzazione dell’impresa aeroporto, si sbaglia. Le due cose se mai si connettono, stanno dentro la stessa logica, vanno giudicate e decise con i medesimi rigorosi criteri.
«Grandi Opere. Ora lo ammettono, il sottoattraversamento in galleria di Firenze, e la stazione sotterranea di Norman Foster, sono un gioco costosissimo, e ambientalmente assai problematico, che non vale la candela». Il manifesto, 3 luglio 2016 (c.m.c.)
Tanto tuonò che piovve. Trent’anni di discussioni – e di periodici voti pro tunnel Tav da parte di tutti eccetto Rifondazione e Perunaltracittà – con 700 milioni di euro già spesi, per poi ammettere che il sottoattraversamento in galleria di Firenze, e la stazione anch’essa sotterranea progettata da Norman Foster, sono un gioco costosissimo, e ambientalmente assai problematico, che non vale la candela.
«Stanno dicendo ora quello che abbiamo segnalato e denunciato fin dall’inizio – osserva ai microfoni di Controradio l’ex ferroviere Tiziano Cardosi – il problema è che hanno già speso una montagna di soldi, che potevano benissimo essere investiti per potenziare subito le linee dei pendolari».
Quelli che «lo stanno dicendo ora» sono il sindaco Dario Nardella, anche a nome del suo predecessore Matteo Renzi, e il ministro delle infrastrutture e trasporti Graziano Delrio, ospite d’onore alla due giorni della Regione “Infrastrutture e mobilità, dal dire al fare”.
«Abbiamo lo stesso approccio a tutte le latitudini – ha spiegato Delrio – e stiamo procedendo ad una revisione complessiva dei progetti. Stiamo revisionando la Torino-Lione, abbiamo revisionato la Venezia-Trieste, portandola da un costo di più di 7 miliardi ad un costo più che dimezzato, proprio perché la tecnologia sta facendo passi da gigante: adesso possiamo avere un treno ogni 7-8 minuti in condizioni di sicurezza, presto potremo averne uno ogni 3 minuti. Abbiamo lo stesso atteggiamento qui a Firenze. L’obiettivo è fare le opere in tempi giusti e con costi minori».
La decisione definitiva arriverà a settembre, quando Ferrovie dello Stato presenterà ufficialmente il nuovo piano industriale sul quale sta lavorando da tempo. Certo però l’amministratore delegato Renato Mazzoncini, successore di Mauro Moretti ed ex ad dell’azienda fiorentina di trasporto pubblico locale Ataf, aveva già fatto capire che il gruppo Fs ci stava ripensando.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il parere del Cnr sulle terre da scavo. «Rifiuti da smaltire con accortezza, o inerti da stoccare subito nell’ex cava di Santa Barbara a Cavriglia?». Alla domanda dei ministeri interessati, il Consiglio nazionale delle ricerche ha risposto che le terre dovranno essere esaminate lotto dopo lotto, metro dopo metro di scavo. Troppo complicato, anche per i pasdaran del sottoattraversamento.
Nel gioco del cerino che è già partito, gli enti locali aspettano che siano le Ferrovie a decidere. Perché interrompere un contratto firmato, autorizzato, e condiviso politicamente per venti anni, vuol dire mettere in discussione un altro miliardo di euro di lavori. Con le penali del caso.
Intanto il comitato No tunnel Tav mette il gomito nella piaga: «Anche Renzi, da sindaco, contrattò compensazioni dalle Ferrovie di 80 milioni e accettò l’opera. Fuggire dalle proprie responsabilità non aiuterà la politica locale a ritrovare la credibilità in caduta libera. Se c’è davvero un ripensamento su questo progetto folle, il Comitato si chiede come mai i lavori nel cantiere ai Macelli, dove si sta costruendo la nuova stazione sotterranea, non vengono fermati subito, e si continua a buttare una mole enorme di risorse in quella voragine. Le stime che si possono fare sui costi sostenuti finora sono di circa 700 milioni; una cifra vergognosa di cui molte persone dovrebbero rispondere, ma temiamo che a pagare saranno i soliti cittadini che contemporaneamente si vedono distruggere il sistema di welfare».
«Il rapporto di Legambiente parla di una colata costante che negli ultimi decenni è avanzata al ritmo di 8 chilometri all'anno ». Il Fatto Quotidiano online, 2 luglio 2016 (c.m.c.)
Ottomila chilometri di costa, sì, ma la metà è cemento. Una colata costante e neanche tanto lenta, andata avanti negli ultimi decenni al ritmo di 8 chilometri all’anno. Case, palazzi, alberghi, porti turistici. Ai quali si aggiunge l’erosione, che colpisce un terzo del litorale ed è causata dalla trasformazione per porti e infrastrutture, ma anche dal mancato apporto di sedimenti attraverso i fiumi per via di dighe, sbarramenti, cave.
Meno del 20 per cento della costa è sottoposta a vincoli di tutela, mentre un quarto degli scarichi cittadini in mare continuano a non essere depurati e più di mille insediamenti sono sottoposti a procedura di infrazione dell’Ue. Il quadro – sconfortante – è tracciato da Legambiente nel rapporto “Ambiente Italia“, dedicato quest’anno ai paesaggi costieri sempre più martoriati.
«Crescono del 27 per cento i reati ai danni del mare nostrum che le forze dell’ordine e le Capitanerie di porto hanno intercettato nel corso del 2015. Le infrazioni sono infatti 18.471, rispetto alle 14.542 dell’anno precedente: ben 2,5 per ogni chilometro di costa del Belpaese. Sale anche il numero delle persone denunciate, che passano da 18.109 a 19.614, mentre flette, seppur di poco il dato dei sequestri, sono 4.680 a fronte dei 4.777 del 2014». Una specie di bollettino di guerra.
Il cemento si mangia le coste
Il male più diffuso è proprio il consumo di suolo, che ha colpito già il 51 per cento dei litorali: secondo l’Istat, tra il 2001 e il 2011 sulle coste sono sorti quasi 18mila nuovi edifici. «Per molti italiani, la casa al mare, sia essa sontuosa o piccola e arrangiata con i vecchi mobili della nonna, è un diritto inviolabile. Se non ha le carte in regola, se è stata costruita senza licenza o si trova in un posto dove è vietato posare anche un solo mattone, poco importa. Così i nostri litorali sono puntellati da distese di villini sorti ‘spontaneamente’, in barba alle regole edilizie, al paesaggio e alla qualità dei manufatti», denuncia Legambiente nel dossier Mare Monstrum pubblicato all’inizio della stagione estiva, dedicato proprio alla ferite inferte al litorale italiano.
Ma non si tratta solo di seconde case. Su 6.477 chilometri di costa, escluse le numerose isole minori, quelli cementificati sono 3.291: 720 chilometri sono occupati da industrie, porti e infrastrutture, 920 da centri urbani, mentre in altri 1.650 circa ci sono insediamenti a bassa densità, con ville e villette. A volte alla cementificazione si accompagna l’abusivismo, ma anche dove non si può parlare di infrazioni dei vincoli edilizi e di costruzioni senza permessi, non mancano i casi di progetti controversi. Che non risparmiano nemmeno i parchi e le zone vicine a aree protette.
Comacchio: 190 ettari per nuove strutture ricettive
È il caso di Comacchio, cittadina della costa adriatica dove si continua a costruire, nonostante ci siano già 30mila seconde case a fronte di soli 23mila abitanti. Non solo, denuncia Legambiente, «il piano regolatore del Comune prevede circa un milione di metri quadri di superficie utile ancora da edificare», ma «l’ente gestore del Parco naturale del Delta del Po, modificando uno dei suoi piani territoriali, con il placet dell’Amministrazione, della Provincia di Ferrara e della Regione Emilia Romagna, nel 2014 ha prefigurato la destinazione di circa 190 ettari di terreno, sui lidi di Comacchio, a nuove strutture ricettive», invece di riqualificare le strutture esistenti e le aree degradate.
Nello stesso anno Legambiente ha presentato anche due ricorsi al Tar di Bologna di cui si attende l’esito, ma intanto le lobby dell’edilizia non si fermano: «Il Comune ha continuato a sfornare provvedimenti urbanistici, come quello che intende equiparare le previsioni edificatorie di un campeggio a quelle di un villaggio turistico», con il risultato che, anche grazie a una norma contenuta nel collegato ambientale del governo, «le case ‘mobili’ di Comacchio potranno essere realizzate senza titoli edificatori e poi restare ‘fisse’ tutto l’anno, potranno superare i limiti degli indici edilizi, potranno non essere accatastate e quindi non pagheranno nemmeno l’Imu».
Abusivismo nel Parco del Cilento
Dall’Emilia Romagna alla Campania, dove tra aprile e agosto 2015 il Corpo forestale ha smascherato diverse opere abusive realizzate nell’area protetta del Parco naturale del Cilento. «Decine di persone sono state denunciate a vario titolo per violazione delle norme urbanistiche, occupazione abusiva di suolo demaniale marittimo, deturpamento e alterazione di bellezze naturali in zone sottoposte a vincolo paesaggistico, inosservanza dei provvedimenti disposti dall’autorità giudiziaria. Ville dai 100 ai mille metri quadri, muretti, piscine, pedane, pontili, parcheggi, manufatti in ferro, legno e calcestruzzo; locali ricavati dalla roccia e adibiti a deposito di materiale vario:questi, nell’insieme, i corpi dei reati».
Il nuovo porto turistico che minaccia l’Elba
Il cemento non risparmia neanche le isole minori. All’Elba, nell’Arcipelago Toscano, Legambiente è in allarme per il progetto di ampliamento del porto turistico a Marciana Marina, per 80 nuovi posti barca. Alla base di tutto, denuncia il dossier, c’è un «piano regolatore portuale approvato dal consiglio comunale con i soli voti di maggioranza e respingendo tutte le osservazioni prodotte, incluse quelle della Regione Toscana».
Il Comune – guidato da Anna Bulgaresi, lista civica di centrodestra – ha definito il progetto “ottimale”, mentre per Legambiente «avrebbe un devastante effetto paesaggistico su uno dei lungomare più belli del Mediterraneo, cambiandone completamente la prospettiva, andando a occuparne una parte attraverso la regolarizzazione di imbonimenti e ampliamenti precedenti e snaturando ancora di più un ambiente che ha già subito fin troppe pesanti e caotiche modifiche».
L’associazione, che ha scritto anche alla Regione per manifestare i propri dubbi, chiede una revisione del progetto anche per scongiurare che al cemento si accompagni l’aumento dell’erosione delle spiagge. Spesso succede, perché l’erosione, che si sta mangiando un terzo degli arenili, è legata anche alle trasformazioni provocate da porti e interventi sul litorale: alla fine, dopo la grande abbuffata, delle coste non rimangono neppure le briciole.
L’Emilia-Romagna, ex regione modello, aumenta la patologiadi un’economia basata sulla rendita con inammissibili “dimenticanze” sull’aggiornamentodegli oneri di urbanizzazione. A scapito dei servizi per la collettività, IlMulino, la rivista on-line, luglio 2016 (m.p.g.).
La rendita è una patologia letale del sistema economico italiano che fagocita le risorse e le confina a ruolo passivo a scapito delle attività produttive, come la crisi sta mostrando. Un’anomalia che la mentalità italiana, alimentata da una popolazione di piccoli proprietari
molto conservatori su questo aspetto, non vuole affrontare.
Foriera della divaricazione delle condizioni economiche edella concentrazione della ricchezza.
Perseverare in questo scompenso producendo ulterioriimmobili è pericoloso, significa aumentare l’offerta che, già sovradimensionata,ha portato al deprezzamento dei valori di un terzo da quelli pre-crisi, una perdita patrimoniale ingenteper i cittadini italiani, tanto più per quelli indebitati con mutui.
Un eccesso produttivo che è oltretutto avvenuto in un regimefiscale che prevede oneri concessori bassissimi, un privilegio accordato ai costruttori ai danni della città pubblica. Con la bolla mentre i prezzi degli immobili aumentavano del 60%e i ricavi d’impresa schizzavano di quasi l’82% (incremento tra 1997 e 2007, Bancad’Italia, 2015), gli oneri rimanevano al confronto irrisori e così le capacità di spesa delle amministrazioni locali già prosciugate dai tagli.
Anche in Emilia-Romagna è da più di un ventennio che assistiamo a una produzione edilizia
sovrabbondante. Un eccesso che si è scontrato con l’esaurimento della domanda di investimento e della propensione al miglioramento della condizione abitativa dei ceti medio-alti che avevano sostenuto il mercato. E ha procurato lo sperperodi risorse non riproducibili (suolo e materiali) per la realizzazione di fabbricati inutilizzati che sarà difficile e oneroso riciclare, mentre sull’altro versante socialestride l’emergenza abitativa.
Le attività edilizie sono soggette dal 1977 a un contributo di costruzione (composto dalla
quota costo di costruzione e dagli oneri di urbanizzazione) che i comuni devono
utilizzare per realizzare le opere di urbanizzazione, che entrano così nel patrimonio pubblico. Dal 2005 le leggi finanziarie hanno reso possibile impiegarne unaquota nelle spese correnti sottraendole agli investimenti.
A livello nazionale, scrive Roberto Camagni (2016), tra 2004 e 2012 gli investimenti della totalità delle amministrazioni locali sono calati in media del 34% e nei comunimaggiori (oltre 60mila abitanti) sono diminuite addirittura del 63%. Si spiegain questo modo il disastroso stato funzionale e manutentivo delle nostre città. In Emilia-Romagna benché le entrate generate dal contributodi costruzione siano costantemente aumentate (del 30% tra 2002 e 2008, gli anniimmediatamente pre-crisi), l’incremento era dovuto esclusivamente alla crescitadei volumi edificati, la quota contributiva infatti era ed è rimasta sino adoggi sostanzialmente ferma a quella stabilita dalla regione nel 1998.
L’ Emilia-Romagna impone oneri di urbanizzazione che sono tra i più bassid’Italia. Camagni, ragionando di grandi comuni e di costo al mq, stima a livellonazionale un ammontare medio variabile tra 100 e 150 euro/mq, con Bologna sotto la media (98 euro/mq), Milano a quasi il doppio (244 euro/mq), Firenze a quasi il quadruplo (480 euro/mq).
Tornando al caso emiliano, dal 2008al 2011 il 40% circa del contributo di costruzione è stato spostato dagli investimentialle spese correnti. Tuttavia negli anni più recenti i comuni
emiliani, con decisione autonoma, hanno scelto diridimensionare in maniera molto forte tale
travaso, abbassandolo fino all’8% di media regionale (2013).
Un dato interessante che mostra una nuova attenzione dei comuni, dettata per certo dall’urgenza, per lespese in conto capitale, che vanno cioè a conformare i beni collettivi su cuipoggia la città pubblica. La regione ha operato a questo riguardo una scelta fiscale di difficile comprensione, non ha provveduto alla attualizzazione deglioneri di urbanizzazione come invece, a rigor di norma, avrebbe dovuto accadere.
L'assemblea legislativa, che nel 1998 ha varato norme che ne prevedono l'aggiornamento ogni cinque anni, non ha mai proceduto alla rivalutazione prescritta. Il contributo oggi applicato è ancora calcolato sul medesimo indice revisionaledi quasi vent’anni fa, derivato dai prezzi delle “opere edilizie” rilevati dalministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, che tuttavia nel frattempo, seguendo l'andamentodel mercato, è quasi raddoppiato (DCR 4/3/1998, n. 849 e n. 850).
Una decisione di cui è difficile capire la motivazione. Il decennio 1998-2008, che avrebbe dovuto coincidere con due occasioni di aggiornamento degli oneri concessori, èstato il periodo d’oro della crescita immobiliare, con transazioni aumentatedel 63% e costi per l’acquirente finale aumentati del 60%, ma chi ne ha trattovantaggio sono stati i soli costruttori, che in quelperiodo non avevano certo bisogno di incentivi, mentre le entrate pubbliche continuavano acalare. Si è insomma prodotta in parallelo una progressiva e sostanziosadiminuzione di risorse per la realizzazione delle opere di pubblica utilità. Una scelta che in Emilia-Romagna ha comportato una perdita di entrate comunali pari a più di 500 milioni di euro.
Una cifra che, benché spalmata in 15 anni, è tutt’altro cheirrisoria. Per avere dei metri di paragone basti pensare che nel bilancio regionale di previsione 2016 sono accantonati ad esempio
20 milioni per progetti di riqualificazione urbanadei comuni della costa; 17 milioni per le reti infrastrutturali, lamanutenzione delle strade e reti ferroviarie; oppure che mancano 600 milioni per completare la ricostruzione post-sisma come la regione di recente ha dichiarato.
La cifra negata ai comuni è ingente, in una fase in cui faticano a garantire servizi e manutenzioni. E dunque perché il sacrificio di 500 milioni? Se queste risorse fossero arrivate
ai comuni anziché donate ai costruttori, l’attivitàedilizia si sarebbe più armonicamente divisa tra
produzione privata e opere pubbliche, evitando le storture oggievidenti.
«Fra le possibili risposte alla disaggregazione del tessuto urbano passa attraverso il recupero collettivo del senso del luogo». Il Fatto Quotidiano online, 30 giugno 2016 (c.m.c.)
Prima dell’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, le città erano il mondo; ora, il mondo è una città. Dentro ai flussi di connessione e interdipendenza, le città continuano ad avere evidenti buchi neri. Nell’ultima campagna elettorale uno dei temi più ricorrenti ha riguardato la condizione delle periferie, luoghi nei quali i candidati-sindaco si presentano in campagna elettorale, salvo scomparire durante i mandati di governo.
Nella nostra cultura urbana esiste un errore di fondo: concepire le periferie, sia in fase di progettazione che in fase di gestione, come corpi separati. Siamo incapaci di elaborare l’ambiente urbano come un unico insieme dotato di più centri, un territorio nel quale, omogeneamente, le amministrazioni irradiano i loro servizi.
Persino nelle strategie di comunicazione ciò che accade in centro riguarda tutta la città, mentre ciò che accade in periferia appartiene solo a quella porzione di territorio. Nel recente convegno della Media ecology association presso l’Università di Bologna, tenutasi dal 23 al 25 giugno, (un’associazione mondiale di professionisti le cui competenze diverse si incrociano con la comunicazione) è emersa l’ambizione delle più grandi città del mondo (per l’Italia il caso più evidente è Milano) di esercitare un ruolo internazionale, nelle comunicazioni, nella finanza, nel commercio, quasi nel tentativo di scavalcare lo stato nazionale. Un gigantismo che stride con territori periferici poveri di relazioni.
A Roma, con il tema Olimpiadi, è andata in scena la sproporzione tra ambizioni di crescita, disagio e impossibilità. Tema sul quale esistono visioni contrastanti, tra chi ha avanzato l’idea di ridisegnare la città “sfruttando” l’evento sportivo internazionale (Giachetti) e chi ha continuato a ricordare che la voragine del bilancio comunale, peraltro non ancora esattamente quantificata, non consente avventurosi titanismi (Raggi).
Nella recente tornata elettorale, i temi legati all’ambiente sono rimasti in parte oscurati, sovrastati dai richiami alla sicurezza, all’emergenza immigrati e alla corruzione. Eppure la città resta un ambiente dove è altrettanto importante l’aria che respiriamo, la qualità dell’acqua (come e dove si smaltiscono i rifiuti), la tutela degli spazi verdi, aspetti connessi alla salvaguardia della salute dei cittadini.
Sulla più bassa qualità della vita in area urbana incide anche la difficoltà a creare un tessuto associativo al di fuori delle organizzazioni di natura economica. La nuova divisione internazionale del lavoro ha portato alla deindustrializzazione e allo smembramento di reti associative che offrivano occasioni per creare varie comunità. I flussi migratori hanno acuito le sacche di isolamento e di disadattamento sociale.
Una tra le principali preoccupazioni di un sindaco dovrebbe essere quella di stimolare, su più livelli, il coagulo associativo. Il web crea straordinarie comunità virtuali, ma non genera coesione sociale e non ha sempre un ancoraggio sulle attività locali dei territori. Quanto emerge dai contributi della Media Ecology Association, in tema di politiche urbane, guarda alla possibilità di creare occasioni di incontro ludiche nelle città, sostenendo che anche il gioco (non virtuale) è un elemento di coesione sociale per fare partecipare e integrare pubblici diversi.
Esiste un movimento mondiale (Playable City Movement) che punta a creare momenti ludici negli spazi urbani, con interessanti iniziative avviate nel recente passato a Stoccolma e a Bristol. Momenti legati al tempo libero ci sono anche in Italia, con la proliferazione di fiere locali e feste di strada, ma quello che ci manca è la messa in sistema delle varie iniziative, al fine di ritessere trame comunitarie. Il gioco è un ponte che accorcia le distanze sociali e le politiche del gioco godono di facile attuabilità poiché, generalmente, sono a basso costo.
La tutela della sicurezza pubblica passa anche attraverso la possibilità di creare coesione sociale, senza dimenticare che una comunità coesa è anche una comunità più solidale. Un’accorta politica mediatica deve partire dall’idea che la città è un mezzo di comunicazione per diffondere ciò che intende realizzare: rendere ciascuno parte di un tutto. In definitiva, una fra le possibili risposte alla disaggregazione del tessuto urbano passa attraverso il recupero collettivo del senso del luogo: di quello che può offrire nel presente, di ciò che ha raccontato nel passato.
«Nel 2015, secondo il rapporto di Global Witness dedicato a Berta Cacéres, morta in Honduras nel marzo del 2016, il numero delle vittime tra gli attivisti è cresciuto del 59% rispetto all'anno precedente». Altraeconomia, 22 giugno 2016 (p.d.)
Nel 2015 sono stati assassinati 185 difensori del territorio e dell’ambiente. Secondo Global Witness, che ha pubblicato il 20 giugno il proprio rapporto, si è trattato dell’anno “più mortifero della storia”. Il numero delle vittime rappresenta un aumento del 59% rispetto all’anno precedente.
“I ‘difensori’ sono assassinati a un ritmo di più di tre ogni settimana” scrive la ong. Le pagine di “On dangerous ground” si aprono con un elenco - nome per nome - di tutti coloro che hanno perso la vita nel corso del 2015, e con una foto di Berta Cacéres: Goldman Prize (nobel alternativo per l’ambiente) 2015 per l’America Latina, la leader indigena hondureña è stata uccisa nella propria casa a marzo 2016. Il suo nome figurerà nella lista il prossimo anno, ma intanto Global Witness l’ha voluta ricordare - dedicandole il report - perché nel 2015 il 40% delle vittime erano indigeni, che soffrono una “immensa vulnerabilità”, a causa anche dell’isolamento geografico “che espone questi popoli in modo particolare all’accaparramento di terre per lo sfruttamento delle risorse naturali”.
Tra le risorse, senz’altro è l’opposizione ad iniziative del settore estrattivo e minerario ad aver causato il maggior numero di vittime nel 2015: sono 42 i casi, in 10 Paesi. In questo ambito, l’aumento rispetto al 2014 è del 70%. Gli altri ambiti indicati come cause di un numero rilevante di omicidi sono il comparto agro-industriale (con 20), le dighe e i diritti sull’utilizzo delle acque (15) e lo sfruttamento delle risorse forestali (15).
Global Witness evidenzia con alcuni esempi il profilo-tipo del “difensore della terra” vittima di omicidio nel 2015.Rigoberto Lima Choc, del Guatemala, aveva denunciato l’inquinamento dell’acqua causato da un’industria di produzione di olio di palma. Saw Johnny faceva campagna con l’accaparramento delle terre dell’etnia Karen, in Birmania. Alfredo Ernesto Vracko Neuenschwander, silvicoltore peruviano, difendeva la biodiversità dei boschi. Sandeep Kothari era un giornalista indiano: aveva scritto articoli contro lo sfruttamento illegale di alcune cave, nel Maharashtra. Infine, Maria das Dores dos Santos Salvador, leader di una comunità rurale dell’Amazzonica brasiliana, che aveva denunciato la vendita illegale di terre comunitarie.
Il Brasile è il Paese che ha registro nel 2015 il più alto numero di vittime, 50. Seguono, secondo i dati di Global Witness, che riguardano 16 Paesi, le Filippine (con 33), la Colombia (26), Perù (12) e Nicaragua (12). Complessivamente, sono 7 i Paesi dell’America Latina coinvolti (anche Guatemala, Honduras e Messico, oltre ai 4 già elencati). Sette i Paesi dell’Asia. Due quelli africani.
Tra le raccomandazioni, Global Witness avanza ai governi la richiesta di ratificare la Convenzione numero 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro sui popoli indigeni e tribali, e agli investitori di non realizzare alcuna attività senza aver ricevuto il consenso “veramente libero, previo e informato” dei popoli interessati.
Il rapporto può essere scaricato qui (in inglese) e qui (in spagnolo).
«Berdini a Roma, Montanari a Torino: chi sono e cosa pensano gli assessori in pectore. Stop al consumo di suolo, revisione al ribasso dei piani regolatori, più trasporto pubblico, no alla privatizzazione del patrimonio immobiliare comunale». La Stampa, 9 giugno 2016 (m.p.r.)
È l’urbanistica il terreno su cui già si misura la sfida al Pd di Virginia Raggi e Chiara Appendino nei ballottaggi a Roma e Torino. Come assessori hanno indicato due «urbanisti gemelli»: Paolo Berdini e Guido Montanari. Nomi pesanti con radici accademiche, noti nelle città per le numerose battaglie civili, stessi maestri e una comune radice culturale, «prima che la sinistra buttasse alle ortiche l’urbanistica». Le loro idee: stop al consumo di suolo, revisione al ribasso dei piani regolatori, più trasporto pubblico, no alla privatizzazione del patrimonio immobiliare comunale. Proclamano «la fine dell’urbanistica neoliberista» e una soluzione di continuità con le giunte di centrosinistra.
Berdini e Montanari si riconoscono negli insegnamenti di Edoardo Salzano, Pierluigi Cervellati, Vezio De Lucia. Negli ultimi anni si sono ritrovati sia su temi nazionali che su battaglie locali. L’ultima è quella sulla Cavallerizza di Torino, il complesso tutelato dall’Unesco su cui il Comune ha lanciato un’operazione finanziaria (con Cassa Depositi e Prestiti) di ristrutturazione. Montanari è nel comitato «Cavallerizza Bene Comune», che ha occupato gli spazi e riaperto lo splendido giardino per opporsi alla privatizzazione.
Prima si era battuto contro i grattacieli e la trasformazione in centro commerciale del Palazzo del Lavoro di Pierluigi Nervi, che nel ’61 ospitò la celebrazione del centenario dell’Unità d’Italia. Tutte operazioni targate Pd. Tutte battaglie su cui ha incrociato i militanti del Movimento 5 Stelle. A una manifestazione Chiara Appendino, dopo averlo ascoltato, si avvicinò per conoscerlo. La frequentazione si è consolidata in vista delle elezioni, quando gli ha chiesto di collaborare al programma. Poi l’ha scelto come assessore.
Si sono trovati subito su alcuni capisaldi. Primo: il patrimonio comunale di valore storico e architettonico deve restare pubblico, sia per la proprietà che per la gestione. Spiega Montanari: «I gioielli di famiglia non si toccano. Le esigenze finanziarie? Non si può chiedere a un povero di vendersi cornee e reni».
Secondo: «Il territorio non deve essere un bancomat per un Comune assetato di oneri di urbanizzazione». Montanari vuole una revisione «dalla A alla Z» del piano regolatore del 1995. «Erano previsti 10 milioni di metri quadri di nuove edificazioni. Ne sono stati realizzati poco più della metà. Il residuo va ripensato, quartiere per quartiere, secondo le esigenze reali di un mercato cambiato, con 50 mila alloggi vuoti. I piani che comportano consumo di suolo si bloccano, le trasformazioni di aree già edificate, come quelle ex industriali, si orientano diversamente: no residenze e centri commerciali, ma piccole attività artigianali e commerciali e servizi collettivi». E poi sconti fiscali per interventi di riqualificazione ed efficienza energetica, investimenti nelle periferie («Le Spine, i quartieri nati negli ultimi vent’anni, sono disastrosi»), difesa delle destinazioni produttive («Meglio una fabbrica abbandonata che un centro commerciale: prima o poi qualcuno torna a produrre»).
Idee che Montanari ha sperimentato negli ultimi anni come assessore a Rivalta, comune dell’hinterland torinese, e illustrato qualche settimana fa all’associazione costruttori. «Ci dicono che noi siamo per l’opzione edilizia zero, per la decrescita? Ma la decrescita c’è già, lo dicono i costruttori. L’edilizia è già a zero. In Comune arrivavano 30 pratiche a settimana, ora 3. Questa è urbanistica del no, la nostra è urbanistica della felicità». È vero che anche le associazioni di categoria negli ultimi anni hanno cambiato rotta su questi temi, ma restano nodi non sciolti. Dove trovare le risorse per fare tutto questo, se si riducono gli incassi degli oneri di urbanizzazione? Resta un margine di vaghezza, oltre l’impegno a racimolare 5 milioni di euro dal taglio di sprechi e consulenze del Comune.
Berdini è sulla stessa lunghezza d’onda. Spiega che «lo stop all’espansione sull’agro romano (15 mila ettari decisi dal Piano di Veltroni nel 2008) non è ideologica, ma pragmatica. Roma è una città fallita perché dal 1993 ha inseguito gli interessi immobiliari privati». Non vuole bloccare tutti i progetti edilizi, ma solo quelli che «provocano un aggravio di spesa pubblica per portare i servizi e gestirli. Sulle aree già urbanizzate si può andare avanti». Altri capisaldi: più trasporto pubblico e stop a grandi opere (tipo centro congressi Eur o stadio del nuoto a Tor Vergata, esempi di spreco e abbandono). «Vogliamo dirottare gli investimenti su interventi nelle periferie della devastazione sociale».
Berdini non si nasconde «i rischi» di un approccio così radicale. Le questioni finanziarie che si possono aprire, i rapporti con le categorie interessate. «Ma qui è in gioco la tenuta patrimoniale delle famiglie. Nelle periferie il valore delle case è calato già del 30-35%. Vogliamo aumentare ancora l’offerta, nonostante la crisi di domanda?». E i palazzinari? «La filiera della casa non funziona, lo sanno anche loro. Sarà dura, ma non ne temo l’ostilità. Ne conosco alcuni, ci capiranno».
«Smog alle stelle. Per il Tribunale di Genova le crociere sono “trasporti di linea” e quindi devono usare carburanti meno tossici. Gli operatori contrari». Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2016 (p.d.)
Multe alle navi da crociera che inquinano. Il rischio, per le grandi compagnie, di non poter più attraccare nei porti italiani in caso di recidiva (che si è già verificata). E una clamorosa sentenza del Tribunale di Genova che vieta ai colossi da 3mila passeggeri di utilizzare carburanti sporchi. Mentre gli armatori, denunciano i deputati M5S, fanno pressing sul ministero dell’Ambiente perché siano innalzati i limiti delle emissioni. “In queste ore si sta combattendo una battaglia decisiva per la pulizia dell’aria nelle città portuali. Quelle dove ogni anno attraccano 4.556 navi da crociera che trasportano 10,9 milioni di passeggeri. Colossi che stanno a pochi metri dalle case”, racconta Arianna Spessotto (M5S) della Commissione Trasporti della Camera. Basti pensare che ogni anno a Civitavecchia si contano 806 “toccate nave”, a Venezia 498, a Napoli 430. Mentre a Savona, dove attraccano letteralmente in pieno centro storico, siamo a 231 e a Genova si arriva a 190. “Senza contare la salute di chi è a bordo. Le navi inquinano infinitamente più delle auto”, spiega Spessotto.
Tutto nasce dalle ultime contravvenzioni che le capitanerie di porto – Venezia e Genova, in particolare – hanno inflitto ad alcune delle maggiori compagnie. L’accusa: violazione dell’obbligo di utilizzare un carburante a basso contenuto di zolfo (1,5% della massa). Ed ecco scattare le sanzioni da 30mila euro. Ma in una partita da molti miliardi, la vera posta è che,in caso di recidiva,il comandante o le navi rischiano di non poter più attraccare nei porti italiani. Così ecco il ricorso presentato da Msc (ma il discorso vale anche per altri grandi operatori) al tribunale di Genova: i transatlantici da crociera, scrivono gli avvocati, non possono essere considerati navi di linea. Questione di orari, di tragitti: “Nessuno li utilizza per spostarsi da un porto all’altro”, scrivono i legali nel ricorso.Ma il giudice PietroSpera del Tribunale di Genova lo ha respinto. Una sentenza che potrebbe rivoluzionare il trasporto marittimo italiano. Scrive il magistrato: “Una serie di traversate a scopo turistico deve essere considerata come un collegamento”.
Ancora: “Dato che le direttive europee hanno lo scopo di tutelare la salute e l’ambiente riducendo le emissioni di anidride solforosa, incluse quelle prodotte durante i trasporti marittimi, detta conclusione non può essere inficiata dalla circostanza chei passeggeri di una nave da crociera beneficino di servizi supplementari, quali l’alloggio, la ristorazione e le attività ricreative”. Infine, rileva il Tribunale, gli orari delle navi da crociera si possono reperire sui siti delle compagnie di navigazione.
Ma che cosa è in gioco davvero? “Cambiare la classificazione di una nave significa risparmiare decine di milioni di euro. Perché le navi non di linea possono utilizzare carburante con una percentuale di zolfo del 3,5 per cento.E una nave da crociera arrivare a consumare 15 tonnellate l’ora ”, racconta un ufficiale della Costa Crociere che non vuole essere citato. Non è soltanto una questione di denaro, assicura un ufficiale Msc, ma anche di disponibilità: “Il carburante più pulito costa molto di più. Ma è anche più difficile da trovare”. Forse anche perché c’è poca domanda. E c’è infine, sostengono le compagnie, la questione della concorrenza: “Servono norme uniformi, perché se in Italia si chiede carburante pulito e in Spagna no, bé… andiamo fuori mercato”. Un business immenso, anche per i porti di accoglienza. “Ma c’è soprattutto la salute”, ricorda Spessotto.
E non c'è soltanto lo zolfo, ma anche le polveri ultrasottili. Come ricorda Luciano Mazzolin di Ambiente Venezia: “Secondo i rilevamenti dell’associazione ambientalista tedesca Nabu, in Laguna la situazione per il pm 2,5 talvolta è peggio che a Pechino. Il livello registrato è 150 volte superiore a quello dell’aria pulita (mille particelle per centimetro cubo)”. Prosegue Mazzolin: “Al ponte degli Scalzi sono stati registrati picchi di particelle ultrasottili di 62.400 unità per centimetro cubo. All’Arsenale, punto di passaggio delle grandi navi, siamo a 133mila unità”. Spessotto aggiunge: “Chiediamo al ministero di sapere se è vero, come ci risulta da fonti attendibili, che in queste ore le compagnie stanno cercando di ottenere un innalzamento dei limiti”. Interpellato dal cronista, il ministero ha smentito incontri. Alla successiva domanda se sia in atto un tentativo di pressing sul ministero non c’è stata risposta.
E non si parla delle navi merci. Secondo l’indagine della trasmissione Petrolio, i 20 cargo più grandi del mondo emettono più diossido di zolfo di tutte le auto in circolazione. Ma la flotta, che trasporta il 90% delle merci mondiali, è composta di 60mila navi. Un terzo transita per il Mediterraneo.
«Il cemento usato come gomma per cancellare il passato, l'alta percentuale di migranti, le arance che un tempo davano ricchezza, i dintorni desolati. Un luogo intenso come pochi altri che almeno una volta nella vita bisogna visitare». Il manifesto, 3 giugno 2016 (p.d.)
Rosarno è un vassoio di cemento in mezzo alle arance. Non importa che adesso al posto delle arance hanno messo i kiwi, la piana è famosa per le arance.
Non sapevo nulla di questo paese, non sapevo che fosse leggermente rialzato dal piano come una torta nuziale. Ci sono stato poco. Non conoscevo questo paese e non credo di averlo incontrato. Ho visto qualcosa, qualche scena. Una sensazione di un film un po’ mesto, vagamente polveroso. C’era un cielo grigio che attenuava l’urlo delle cose. Ho visto un paese che si muove in macchina anche per spostamenti millimetrici. Hanno pensato a consumare il suolo, ma hanno cura di non consumare le suola.
C’è una piazza dove i vecchi stanno in mezzo e guardano la strada che gira intorno. Mi hanno detto che è la piazza centrale del paese. A me quando ci sono arrivato è sembrata una piazza di periferia.
Sono stato due giorni in un senso di grigiore e la cosa è strana nella luminosa Calabria. Il grigio delle nuvole e il grigio delle case non dipinte. La differenza è tra quelle che hanno solo l’intonaco grigio e quelle che hanno solo i mattoni. Qualcuno prova ad aggiungere qualche fregio, ma il tentativo di bellezza qui è riservato all’interno. È davvero singolare la differenza tra le facciate spoglie e gli interni sospesi tra il barocco e il kitsch. Comunque non ha molto senso parlare di bellezza e di bruttezza. Qui c’è un’intensità, sia dentro che fuori. Rosarno è uno dei posti da conoscere assolutamente. Si può dire che ha una sua unicità. È anche il luogo d’Italia con la più alta percentuale di stranieri. Gli africani li vedi subito. Ed è abbastanza facile riconoscere anche le badanti polacche. Più difficile accorgersi che esiste una foltissima comunità di bulgari. Ci fanno perfino un mercato con la merce che viene dalla Bulgaria.
Non so dare un ordine a questo testo, mi piace procedere alla rinfusa. Penso alla cena a casa di Pasquale Reitano. Mi ha raccontato la sua vita. L’emigrazione in Germania, i lavori nei campi. In questo paese si è sempre lavorato tanto. Non è una comunità di accidiosi. I pilastri del non finito calabrese prima che di cemento sono composti di lacrime e sudore.
La voglia di parlare delle persone. La signora che al museo mi aspetta sulle scale, sorpresa della brevità della mia visita. Il museo è bellissimo. Non ci sono insegne per dire dove si trova. Se uno arriva a Rosarno non lo capisce che il paese di adesso viene da un luogo molto antico. Il cemento usato come gomma per cancellare il passato.
Quando si ha tanta bellissima natura intorno viene quasi voglia di intaccarla. E poi qui c’è l’azione congiunta dei cittadini e dello Stato. Verso il mare si vedono le gru del porto di Gioia Tauro. La visita al porto è stato il punto più basso del mio passaggio calabro. Mi sono disteso sulla spiaggia. Mi è piovuta addosso una grande tristezza. Gioia Tauro è uno dei più grandi fallimenti della politica italiana. Il pescatore davanti a me dice che non sta pescando niente. Io ho dato un poco del mio panino a un cane. Le case davanti alla spiaggia mi commuovono per la loro bruttezza. Ecco il pericolo di questa zona: la sindrome di Stendhal alla rovescia.
Ho parlato con poche persone. La conversazione più lunga l’ho avuta con un calzolaio. Una brava persona. Ho avuto l’impressione che le persone parlano volentieri con i forestieri. Vogliono raccontare dei bei tempi passati, i tempi in cui le arance davano ricchezza. Sono le arance ad aver partorito tutto questo cemento. Ora il paese se ti metti in ascolto non può che raccontarti il suo disagio.
Non so cosa mi avrebbero detto se avessi parlato con gli stranieri. Prendono venti euro al giorno, cinque se li prendono i caporali. Notizie attinte a cena. Non ho svolto ulteriori indagini. Non sono un giornalista e credo che il paese sia stato raccontato fin troppo dai giornalisti ai tempi dello scontro tra gli africani e le persone del posto.
Girare per il paese e invece di prendere appunti entrare in un negozio che vende prodotti per l’igiene. Comprato un dentifricio per denti sensibili, due confezioni di bagno doccia al profumo di mirra. Prima avevo comprato la bomba calabrese anche se so che a casa già ne abbiamo molta.
Non ho preso nessun appunto, ho visto molte donne in macchina. Ho visto alcuni africani in bicicletta alle cinque del mattino. Ho visto poco.
Uno dei ragazzi che mi ha invitato a Rosarno è marchigiano. Architetti giovani con buone idee, ma i progetti li fanno gli altri. Questi ragazzi arrivano quando tutta l’edilizia che si poteva fare è stata fatta. Ora si parla di cuciture, rigenerazione. Sono architetti di questo tipo che mi invitano alle loro iniziative, non quelli che fanno girare le betoniere, quelli che sanno come convincere i sindaci.
Per capire Rosarno mi sono mosso anche nei dintorni. Sono arrivato fino a Vibo Valentia. Ho cercato paesi desolati e li ho trovati. Non mi sono segnato il nome di questi paesi, non ho denunce da svolgere. E poi a chi dovrei indirizzarle? In uno di questi paesi c’era un signore non anziano fermo sul ciglio della strada. Seduto su una sedia a rotelle. Era solo, e l’ho ritrovato allo stesso posto anche un’ora dopo, fermo a guardare se passava qualcuno. I paesi ci sono, vedi qualche macchina parcheggiata, ma qui in Calabria il senso di vuoto si mischia col senso di disordine, desolazione e incuria.
Cerco consiglio a un ragazzo per il mio telefonino. Armeggia senza molta convinzione, alla fine ci riesco da solo a risolvere il problema. Lui è qui, ma ogni tanto parte, va a fare il cameriere al Nord. Non mi ricordo il suo nome. Paesologo svogliato.
Volevo andare al Comune e non ci sono andato. Quando la giovane giornalista mi ha accompagnato il primo giorno in giro per il paese io ero un poco perso nelle mie ansie. Più che ascoltare in certi giorni preferisco guardare le scene della vita. Ecco una donna che stira, il signore che telefona, due persone che parlano di malattia su una panchina, un piccolo branco di adolescenti. I gesti della vita quotidiani sono abbastanza simili in qualsiasi posto. Io devo parlare di questo paese, chi mi ha invitato immagina che io posso scrivere qualcosa di interessante. E invece mi pare di zampettare nell’ovvio, forse l’unica soluzione è che l’ovvio sia almeno lucente, non abbia aloni e offuscamenti.
A cena i figli di Pasquale mi sono sembrate brave persone e anche la madre, e anche il cibo. La sera prima avevamo cenato in uno di quei ristoranti in cui ci puoi passeggiare dentro. E ci hanno dato del vino in una bottiglia così brutta che ci è sembrato brutto anche il vino: potenza della confezione.
Non ho nulla da dire sulla criminalità. Girando per strada non si vede né quella piccola né quella grande. Io ho guardato i muri, i balconi, ho guardato gli angoli delle strade, le carte per terra, non riesco a costruire discorsi su come potrebbe essere questo luogo. Ho provato una sincera simpatia per i ragazzi che mi hanno invitato. Abbiamo avuto anche una bella conversazione appena sono arrivato, peccato che è durata poco.
Se fossi uno del posto proporrei di chiamare Rosarno col suo nome antico: Medma. Ripartire dai primi abitanti del luogo, arrivare di un soffio ai giorni nostri, ribaltare l’idea di essere un problema, Rosarno deve immaginare di essere una soluzione.
La cosa che mi ha colpito è stata scoprire che Salvatore Settis è di Rosarno. Non so che rapporto abbia col paese. Immagino non sia un rapporto facile. I suoi concittadini hanno fatto tutto il contrario di quanto lui vorrebbe. E comunque ho la sensazione che qui il problema non è economico. Se l’economia riparte è facile immaginare che riparte anche il cemento. Allora la faccenda è sistemare la Calabria, decementizzarla. Bisogna portare qui non tanto i soldi ma un gusto estetico più semplice e asciutto. Molta gente si dissangua per riempire le proprie case di oggetti orrendi.
Il paese non ha bisogno che siano nuovamente pavimentate le sue piazze. Bisogna togliere le buche dall’asfalto.
Non seguo un filo. Ora mi viene in mente che mi hanno accompagnato da un’anziana donna che vede se hai il malocchio. Rimanenze dell’arcaico. Ci sarebbe un lungo discorso da fare su come l’arcaico oggi è l’unico futuro che ci resta, ma ora ho un po’ paura di imbarcarmi in teorie e congetture. Ci sono dei luoghi che muovono la lingua e altri che la paralizzano. Posso dire che sono contento di aver visto Rosarno e ci tornerò volentieri. È sicuro che è uno dei posti che non si dimenticano. Consiglio a tutti di andare almeno una volta nella vita a Rosarno. In Italia ci sono pochi posti che hanno la stessa intensità.
«Costerà oltre mezzo miliardo di euro costruire una "bretella" di 15 chilometri tra l'A22, l'A1 e la città delle piastrelle». Altraeconomia, 1° giugno 2016 (p.d.)
Il progetto di un’autostrada tra Campogalliano e Sassuolo, nel modenese, è vecchio di almeno quindici anni: era il 2001, infatti, quando il collegamento tra l’A1, l’A22 e la “capitale delle piastrelle” venne inserito per la prima volta in una delibera governativa del CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica), con una costo stimato di 175,6 milioni di euro.
Nel 2016, il 1° maggio, il CIPE è tornato a parlare di Campogalliano-Sassuolo, e in particolare -riportiamo il comunicato diffuso dal governo- “sull’applicazione delle misure di defiscalizzazione, ai sensi dell'art. 18 della legge n. 183/2011”.
Nel frattempo, l’autostrada è arrivata a costare oltre mezzo miliardo di euro.
Chi realizzerà l’opera, cioè la Società di progetto AutoCS, una associazione di imprese cui partecipanoAutostrada del Brennero S.p.A., Impresa Pizzarotti & C. S.p.A., Coopsette Soc. Coop e alcune aziende e consorzi del modenese, potrà quindi usufruire di uno sconto sull’IVA, sull’IRAP e sulle imposte sul reddito, secondo quanto disposto dalla Legge di Stabilità del 2012 (la l. 183/2011), quella varata dal governo Monti, quando Corrado Passera e Mario Ciaccia, entrambi ex Intesa Sanpaolo, occupavano come ministro e viceministro il dicastero delle Infrastrutture.
Dall’ufficio stampa del ministero ci hanno spiegato -con una e-mail del 2 maggio scorso- che “il contributo della defiscalizzazione attualizzato ammonta a 38,98 milioni di euro”. Se abbiamo atteso quasi un mese prima di pubblicare questo articolo, è perché abbiamo atteso fino ad oggi (1° giugno) che il ministero delle Infrastrutture chiarisse quanto riportato nella risposta a una delle nostre domande. Questa: “Il comma 2 dell’articolo 18 della l. 183/2011 spiega come ‘l’importo del contributo pubblico a fondo perduto nonché le modalità e i termini delle misure previste al comma 1 (la defiscalizzazione), utilizzabili anche cumulativamente, sono posti a base di gara per l'individuazione del concessionario, e successivamente riportate nel contratto di concessione’. Questo significa che la decisione della defiscalizzazione debba essere precedente alla gara per l'individuazione del concessionario?”.
“La misura della defiscalizzazione è stata prevista nella procedura di gara” hanno replicato dal ministero. Ciò, però, non era possibile: il bando di gara, infatti, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 3 dicembre 2010, quando la misura in questione non era nemmeno presente nell’ordinamento nazionale. “È stata introdotto in un secondo momento? Se sì, quando?”, abbiamo chiesto. E, finalmente, dopo quasi un mese d’attesa, dal ministero delle Infrastrutture hanno risposto che “essa è stata prevista nella lettera di invito trasmessa a tutti i partecipanti alla procedura di gara”.
Alla mail non era però allegata la relativa documentazione, da noi richiesta.
A livello locale, la realizzazione dell’opera (che gode di un ulteriore contributo pubblico a fondo perduto, di oltre 200 milioni di euro) è osteggiata, in particolare da associazioni ambientaliste come Legambiente: “L’autostrada correrà per circa 16 chilometri sopra la conoide del Secchia, a una distanza media di 200 metri dal fiume, in un contesto che, nonostante sia stato provato da anni di attività estrattive, mantiene comunque un importantissimo valore paesaggistico ed ambientale. La bretella infatti andrà ad intercettare i corsi d’acqua del reticolo idrografico secondario e vanificherà diversi interventi di riqualificazione ambientale (Oasi del Colombarone, percorso Natura, reti Ecologiche, il potenziale Parco Regionale del Secchia, percorsi ciclabili e pedonali) -spiega Alessandra Filippi, presidente di Legambiente Modena-. Il Secchia, come tutti i fiumi, è un patrimonio ambientale delicatissimo e di primaria importanza, da tutelare, da valorizzare e da riqualificare. Sarebbe un grave errore alterarlo irreversibilmente con una inutile autostrada”. Aggiunge Filippi che “l’infrastruttura attraverserà le zone di rispetto dei campi pozzi di Marzaglia, di Magreta, del campo Tomaselli e Campo San Gaetano interessando circa una ventina di pozzi a servizio di 420mila abitanti”.
Vale la pena leggere la risposta alle critiche di Emilio Sabattini (PD), per dieci anni presidente della Provincia di Modena (dal 2004 al 2014), e oggi membro del Cda di Autostrada del Brennero Spa: “Giro sempre in mountain bikee il territorio dove andrà la nuova Campogalliano-Sassuolo è già rovinato dalle escavazioni”.
C’è un altro elemento che vale la pena sottolineare: la progettazione è stata eseguita all'esterno e ceduta ad ANAS dall'Associazione industriali del comparto modenese. In circa quindici chilometri di tracciato trovano posto 2 gallerie artificiali, 8 viadotti e 5 svincoli. Prima dell’avvio dei cantieri, manca solo il visto buono della Corte dei Conti in merito alla “defiscalizzazione”: una delibera che dovrà chiarire, insomma, se il ministero delle Infrastrutture ha agito in maniera legittima applicando a una gara bandita nel dicembre 2010 (e chiusa, per quanto riguarda la possibilità di partecipare, a gennaio 2011) una misura introdotta nell’ordinamento solo dodici mesi più tardi.
«Consumo del suolo. Presentato nella sede dell'Anci il rapporto "Ecosistema rischio 2016"». Il manifesto, 18 maggio 2016 (p.d.)
Costruire fabbricati su zone alluvionali o a rischio frane è un vecchio vizio italiano, ma la notizia è che purtroppo, dopo tante vittime e tragedie, non è ancora un vizio perso. Nel Belpaese ci sono ad oggi ancora 7 milioni di persone che convivono quotidianamente con il pericolo costante di frane e alluvioni; oltre 100 mila solo a Roma, e altrettante a Napoli. E sono oltre 400, i Comuni dove interi quartieri potrebbero essere spazzati via da un momento all’altro, mentre in più di mille Comuni (1.047) ci sono singole abitazioni costruite in aree a rischio, vicino ad alvei di fiume, terrapieni alluvionali o in zone pedemontane a rischio frane.
In realtà i numeri assoluti sono inevitabilmente sottostimati, perché l’indagine condotta da Legambiente per il rapporto «Ecosistema rischio 2016» presentato ieri nella sede dell’Anci è stata realizzata sulla base delle risposte fornite da solo 1.444 Comuni a un questionario inviato invece a tutti le amministrazioni comunali di città o paesi con aree a rischio idrogeologico (che solo la maggior parte degli 8 mila Comuni italiani).
Tuttavia da tale monitoraggio sulle attività nelle amministrazioni comunali per la mitigazione del pericolo idrogeologico si rileva che «l’urbanizzazione delle aree a rischio non è solo un fenomeno del passato: nel 10% dei Comuni sono stati realizzati edifici in aree a rischio anche nell’ultimo decennio». Nel 31% dei casi, ci sono interi quartieri in pericolo, nel 51% dei Comuni invece nelle aree golenali o franose sorgono impianti industriali o (nel 25%) commerciali, e perfino (nel 18% dei Comuni) scuole o ospedali. Inoltre «solo il 4% delle amministrazioni ha intrapreso interventi di delocalizzazione di edifici abitativi e l’1% di insediamenti industriali».
E non si tratta solo di piccoli paesi o cittadine: a sottovalutare il rischio idrogeologico ci sono anche le amministrazioni delle città capoluogo o metropolitane. Non a caso infatti «solo 12 capoluoghi hanno risposto al questionario di “Ecosistema rischio”: Roma, Ancona, Cagliari, Napoli, Aosta, Bologna, Perugia, Potenza, Palermo, Genova, Catanzaro e Trento». Secondo il report di Legambiente, «a Roma e Napoli sono oltre 100.000 i cittadini che vivono o lavorano in zone a rischio, poco meno di 100.000 anche le persone in aree a rischio nella città di Genova. E, nonostante i pericoli ormai evidenti, nelle città di Roma, Trento, Genova e Perugia anche nell’ultimo decennio sono state realizzate nuove edificazioni in aree a rischio».
Prendiamo il Lazio, per esempio: l’85% dei Comuni della regione è a rischio. Il 33% perché contiene interi quartieri costruiti in aree che dovrebbero essere off limits, e il 15% ha continuato a edificare in tali aree negli ultimi 10 anni.
«È evidente l’urgenza di dire concretamente Stop al consumo di suolo, di bloccare per sempre il diluvio di cemento e fermare l’espansione infinita delle città – afferma il responsabile scientifico di Legambiente, Giorgio Zampetti – a partire da Roma, dove in ogni settore continua ad avanzare il cemento e contemporaneamente si rischia la paralisi della città e si trema ad ogni bomba d’acqua». Una situazione, questa, ha aggiunto il delegato Anci, Bruno Valentini, «già ben a conoscenza dei Sindaci, che da anni chiedono rafforzamento delle risorse, semplificazione normativa e competenze adeguate per intervenire in modo sempre più efficace».
In questa pagina del sito di Legambiente è scaricabile il rapporto.
«Nell’Allegato infrastrutture del Def si parla di politica dei trasporti sostenibile. Ma c’è il rischio che cancellata la legge Obiettivo restino in corsa le grandi opere, mentre nuove semplificazioni sostituiscono quelle previste dal Codice Appalti del 2006». Sbilanciamoci.info, 13 maggio 2016 (p.d.)
Cambia contenuti l’Allegato Infrastrutture al DEF 2016, almeno a parole. Non più il solito Piano di Infrastrutture Strategiche (PIS) previsto dalla Legge Obiettivo, ma un documento di “Strategie per le infrastrutture di trasporto e logistica” che configura la nuova politica del Ministro Graziano Delrio per la mobilità e le reti.
Il documento contiene in Appendice anche la “lista delle 25 opere prioritarie” – già in corso di realizzazione, approvate o in progetto secondo le procedure della Legge Obiettivo già indicate nel DEF 2015 dal Ministero – che vanno avanti come se niente fosse, mentre dovrebbero essere verificate e riviste secondo i criteri di utilità pubblica e analisi costi/benefici indicati dallo stesso documento. C’è quindi una vistosa contraddizione tra i buoni principi e la realtà delle grandi opere in corso.
Il documento è coerente con i contenuti del nuovo Codice Appalti entrato in funzione il 19 aprile 2016, che cancella le semplificazioni della Legge Obiettivo 443 del 2001 del Governo Berlusconi. Le nuove regole cancellano il Piano delle Infrastrutture Strategiche (PIS), l’esclusione dei Comuni dalle decisioni, la VIA sul progetto preliminare. Si torna ad un unico regime ordinario di regole per realizzare le opere, il procedimento sarà in mano al Ministero dei Trasporti e le Infrastrutture, ritorna la VIA sul progetto definitivo, ma resta l’approvazione dei finanziamenti e dei relativi progetti rilevanti al Cipe. L’ultima versione del Codice Appalti pubblicata in Gazzetta ha indebolito il MIT e rafforzato il Cipe, come voleva peraltro la Presidenza del Consiglio.
Il ritorno alla pianificazione dei trasporti e della logisticaLa programmazione delle infrastrutture viene demandata a due strumenti fondamentali: il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica che deve indicare le politiche, gli obiettivi e gli strumenti, che motivano la scelta delle opere, da aggiornare ogni tre anni.
Il secondo strumento è il Documento Pluriennale di programmazione (DPP) che deve integrare tutti i programmi esistenti nelle opere pubbliche – RFI, ANAS, Porti, Aeroporti, reti urbane, Concessionarie Autostradali – con coerenza secondo i principi del DglS 228 del 2011 e mai applicato. Adesso ogni piano settoriale viene approvato ed attuato in modo separato, senza attenzione ai nodi ed alla integrazione dei progetti e dei servizi. Il primo DPP dovrà essere predisposto entro un anno.
A questo strumenti si aggiunge la project review, per rivedere le opere non ancora avviate ma già decise con le procedure della legge obiettivo.
L’Allegato, con le analisi sulla mobilità e le infrastrutture sono già “la premessa ad un nuovo Piano Generale dei Trasporti e della Logistica” con un quadro organico degli obiettivi, delle strategie, delle azioni intraprese e da intraprendere.
Il contesto di riferimento si inquadra nelle politiche europee delle reti TEN, analizza lo stato dei poli e delle reti urbane e metropolitane sottolineando i problemi di accessibilità nelle città, valuta lo stato dei nodi come porti, interporti ed aeroporti, effettua una disamina delle stato delle reti come strade, autostrade e ferrovie.
Di questo contesto italiano analizza i punti di forza e di punti di debolezza, tra cui le scarse risorse investite per la manutenzione, la ripartizione disomogenea di infrastrutture e servizi sul territorio nazionale, lo squilibro modale a favore della modalità stradale.
Nel secondo capitolo vengono indicati quattro obiettivi prioritari della strategia per le infrastrutture e di trasporti:
- Accessibilità ai territori, all’Europa ed al Mediterraneo
- Qualità della vita e competitività delle aree urbane
- Mobilità sostenibile e sicura
- Sostegno alle politiche industriali e di filiera
Per l’accessibilità viene indicato un obiettivo, un target: il 30% della popolazione dovrà essere servita dall’Alta velocità entro il 2030, ed un massimo di due ore per accedere a porti ed aeroporti.
Molto significativo ed opportuno per le aree urbane e metropolitane il target di mobilità sostenibile entro il 2030: la ripartizione modale della mobilità urbana dovrà raggiungere il 40% di trasporto pubblico, il 10% di mobilità ciclopedonale e si dovrà incrementare con un + 20% i km di tram/metro per abitante.
Obiettivi davvero sfidanti e necessari per garantire accessibilità, vivibilità nelle città, riduzione dei gas serra e delle emissioni inquinanti, che qualificano in senso innovativo la strategia del Ministro Delrio sulla mobilità urbana.
Le linee d’azione puntano all’integrazione modale, alla cura del ferro, allo sviluppo urbano sostenibile, alla crescita della portualità e della logistica, al riequilibro modale, favorire l’uso degli ITS, ad incrementare la manutenzione delle reti e la valorizzazione del patrimonio esistente, il potenziamento tecnologico delle infrastrutture.
Un’osservazione critica: tra gli strumenti non viene mai richiamata la VAS, la Valutazione Ambientale Strategica che dovrà accompagnare tutti i processi di elaborazione, partecipazione e valutazione dei Piani e Programmi, ormai obbligatoria. Non era un richiamo inutile in un documento che si pone obiettivi di sostenibilità e che dovrà fare i conti anche con la riduzione delle emissioni dei gas serra – i trasporti pesano per il 26% delle emissioni totali – con gli impegni sottoscritti dal governo italiano.
Positivo che si torna a ragionare di pianificazione, di programmazione, di qualità dei progetti, con una critica esplicata alle semplificazioni ed alle liste della Legge Obiettivo, da sostituire con “investimenti realmente utili al Paese” per offrire servizi di trasporto capaci di soddisfare i bisogni di mobilità ed accessibilità del paese.
Ma intanto avanzano le grandi opere della legge obiettivoInfrastrutture utili, snelle e condivise: cosi è il titolo del capitolo dedicato agli investimenti per i trasporti nell’Allegato: ottimo principio ma quando accadrà davvero?
Come detto nello stesso Allegato DEF 2016 si confermano in Appendice le 25 opere strategiche già decise con l’Allegato Infrastrutture del 2015, in parte in corso di realizzazione ed in parte in corso di progettazione, del valore di 70 miliardi di costo e di cui sono disponibili 48 miliardi, incluse le risorse private dei concessionari. Ma anche su queste opere sarebbe necessario applicare la project review, la revisione di progetto per verificarne l’utilità ed il sovradimensionamento.
Tra queste 25 opere vi sono opere utili come metropolitane, reti tramviarie e Servizi Ferroviari Metropolitani. Ma ci sono anche pezzi di alta velocità come il terzo valico Milano-Genova o nuove autostrade come la Pedemontana Lombarda, che davvero dovrebbero essere riviste dato che la loro realizzazione è al 15% ed hanno un impatto e costi davvero notevoli a fronte di una scarsa utilità collettiva.
Una analogo ragionamento riguarda l’Alta Velocità Torino-Lione, di cui si è ampiamente documentato la scarsa utilità, gli alti costi ed impatti: difficile quindi considerarla una priorità come fa il documento del Ministro Delrio, che motiva la scelta in relazione alle reti TEN europee.
Si dovrebbe rivedere anche la Pedemontana Veneta, che è diventata un ibrido tra superstrada a pagamento ma con caratteristiche autostradali, che grazie al Commissario è stata approvata in deroga alla stessa legge obiettivo e di cui la Corte dei Conti ha denunciato nella sua relazione l’insostenibilità finanziaria.
Di una verifica hanno bisogno anche gli investimenti sulla SS Ionica 106, di cui circa 1 miliardo sono lavori in corso ed altri 6, 3 miliardi sono quelli in progettazione: abbiamo visto progetti sovrastimati, impatti devastanti e costi insostenibili che niente hanno a che fare con il necessario adeguamento della Strada Statale Ionica.
Oltre le 25 opere prioritarie ci sono altre 165 le opere – per un costo complessivo di 145 miliardi – che sono state approvate dal Cipe con progetto preliminare, progetto definitivo e/ quadro economico e finanziario, ai sensi della Legge Obiettivo. Sarà necessario intervenire per selezionare, ridimensionare e cancellare una buona parte di queste opere come prevede lo strumento della project review previsto dal nuovo Codice Appalti.
Tra queste opere c’è l’Autostrada della Maremma, che dopo molte polemiche e revisioni di tracciato, con l’ultimo accordo MIT-SAT-Regioni prevede un progetto autostradale tra Grosseto e Tarquinia a ridosso dell’Aurelia: i scarsi volumi di traffico non giustificano un sistema chiuso, basta adeguare l’Aurelia dove è ancora a due corsie ed introdurre un pedaggio free flow che escluda i residenti.
Ci sono opere come l’Autostrada Cispadana, la Gronda di Genova, il Passante di Bologna che dopo l’abbandono del tracciato nella pianura adesso è tornato come potenziamento del fascio tangenziale ma non avrà pochi problemi di impatto sulla città: bisognerebbe ragionare su come usare in modo efficiente le attuali corsie senza ampliamenti, aprendo anche quelle autostradali (in gergo si chiama banalizzazione).
Per il TiBre autostradale Parma-Verona, il Ministero e Regione Emilia Romagna hanno deciso di abbandonare il secondo lotto – costoso ed impattante – con il disaccordo delle Regioni Veneto e Lombardia. Puntano comunque alla realizzazione del primo lotto, 10 km per 513 milioni di euro: anche qui serve un miglioramento della viabilità locale in diversi punti, un potenziamento delle ferrovie e l’abbandono definitivo del tracciato autostradale.
La cancellazione del progetto autostradale Orte Mestre è già stato annunciato dal Ministro Delrio e Anas ed si punta al miglioramento della E45 e della E55: questo è un bel passo in avanti e sarà importante la qualità dei progetti di adeguamento.
Pessime notizie invece sulla bretella Campogalliano Sassuolo, con il Cipe che nella seduta del 1 maggio 2016 avrebbe sbloccato e risolto gli aspetti finanziari, con la concessione di un prestito statale (da restituire nei primi 10 anni di gestione) e la defiscalizzazione dall’undicesimo anno di gestione in poi. Decisione prese al CIPE ai sensi Dlgs 163/2006 parte Legge Obiettivo, che quindi anche in questo caso continua a produrre i suoi effetti.
Con il nuovo Codice ha debuttato l’obbligo nelle concessioni di traferire al privato il “rischio operativo”, incluse le fluttuazioni del traffico per quelle autostradali, senza che siano presenti garanzie pubbliche. Resta da capire come e se verrà applicata alle concessioni in essere, che hanno atti convenzionali già sottoscritti e che faranno una resistenza granitica all’introduzione di questo principio.
E le preoccupazioni aumentano con il parere circolato nei giorni scorsi del DIPE, Presidenza del Consiglio, in cui si ipotizzava che tutte le opere con procedure autorizzative avviate con la legge obbiettivo dovranno concludersi nello stesso modo.
Se poi aggiungiamo le semplificazioni in arrivo ai sensi della norma Madia,come la nuova Conferenza dei Servizi con il silenzio assenso anche per gli enti di tutela e la VIA ed il Regolamento “sblocca opere” per la completa delegificazione della Pubblica Amministrazione, il quadro è completo e preoccupante.
Il rischio concreto è che, cancellata la legge obiettivo, non si cancellino le grandi opere inutili e devastanti, mentre nuove semplificazioni sostituiscono quelle previste dal Codice Appalti del 2006. Serve una azione energica di indirizzo sul regime transitorio della legge Obiettivo del Ministro Delrio, capace di trasformare in fatti concreti le politiche positive annunciate nell’Allegato al DEF, per realizzare le opere utili, snelle e condivise.
«Il governo stravolge il ddl che doveva tutelare i terreni agricoli: adesso apre al cemento. Da Fai a Legambiente, le associazioni sono preoccupate. Cinquestelle protestano e spiegano il loro no in cinque punti». Il manifesto, 13 maggio 2016 (p.d.)
L’obiettivo della legge è nobile: azzerare il consumo di suolo – in pratica la cementificazione a danno dei terreni verdi e agricoli – entro il 2050, in applicazione di una direttiva Ue. Ma diversi emendamenti della maggioranza hanno allargato le maglie, rimettendo in campo – secondo gli ambientalisti e i Cinquestelle – il pericolo di nuove edificazioni dannose per l’ambiente e il paesaggio. Il ddl del governo è passato alla Camera, e ora proseguirà il suo iter al Senato. Secondo il governo e il Pd, le nuove norme permetteranno di «tutelare la nostra agricoltura, conservando il paesaggio e stimolando l’edilizia di riuso e la rigenerazione urbana con il recupero di aree già occupate e strutture già esistenti» (il ministro Maurizio Martina), ma i pentastellati per protesta hanno alzato cartelli «Basta bugie» e annunciano battaglia.
Il testo approvato contiene «norme innovative, ma ancora molti punti contradditori e pericolosi», affermano le associazioni Fai, Legambiente, Slow Food, Touring Club italiano e Wwf, chiedendo al Senato di «aprirsi al confronto per migliorarlo».
La legge era attesa da anni: è la prima in Italia che si pone organicamente l’obiettivo di fermare il consumo di suolo (l’Ispra calcoa che ogni secondo vengono cementificati 7 metri quadrati), inducendo a riqualificare e rivalutare le aree già costruite. Tra gli aspetti positivi, a parte l’obiettivo in sé (fissato a 35 anni), secondo le associazioni c’è «l’introduzione di un censimento degli edifici e delle aree dismesse, non utilizzate o abbandonate, come precondizione per approvare qualsiasi nuovo consumo di suolo»: il censimento sarà obbligatorio e toccherà ai Comuni. Ancora, agli stessi Comuni viene vietato «di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente e di modificare la destinazione d’uso per le superfici agricole che hanno beneficiato di aiuti Ue».
Vincoli e paletti che dovrebbero aiutare a conservare il verde dei nostri paesaggi. Se nel frattempo non fossero intervenute, proprio negli ultimi passaggi in Commissione Ambiente, delle modifiche che hanno mutato il ddl originario, quello impostato già quattro anni fa dall’ex ministro Mario Catania e che era sostanzialmente condiviso anche da parte dei Cinquestelle. In particolare, sono cinque i punti critici: ce li illustra Massimo De Rosa, deputato M5S.
1) Alcuni rischi possono venire dalla nuova definizione di termini come «impermeabilizzazione», «consumo di suolo», «suolo consumato», che già contengono in sé deroghe all’edificazione. «Il suolo anche solo parzialmente impermeabilizzato non viene considerato perso – spiega De Rosa – Se ad esempio consideriamo un parcheggio fatto con i cosiddetti “autobloccanti a verde”, il fatto che lascia passare l’acqua tra un mattone e l’altro secondo la nuova legge permette di non farlo rientrare nel suolo consumato. Quindi non entrerà neanche nelle relative rilevazioni».
2) Il meccanismo di calcolo e pianificazione dei nuovi suoli consumabili apre a forti consumi in attesa della deadline del 2050. «Stato, Regioni e Comuni devono definire e calcolare a cascata, ma non ci metteranno meno di due anni – spiega De Rosa – Inoltre non ci sono obblighi né sanzioni, quindi è probabile che molti dati non perverranno mai. Una volta ogni 5 anni si decide quanto suolo si è autorizzati a consumare: ma non è che rischiamo di cementificarne troppo entro i prossimi 35 anni?».
3) L’articolo 5, quello dedicato alla «rigenerazione urbana», prevede una delega al governo senza troppi paletti, perché semplifichi le procedure per la riqualificazione di intere porzioni di città. «Semplificazione – secondo l’M5S – rischia di coincidere con “abusi”, visto che non si cita nessun obbligo di riferimento al Testo unico sull’edilizia: e così addio al rispetto degli spazi, delle sagome, dei servizi minimi da offrire ai cittadini».
4) Nell’articolo 6 si permette la modifica di destinazione uso dei fabbricati agricoli, che potranno essere demoliti e ricostruiti diventando studi medici, uffici, spazi ludico-ricreativi o sociali. «La componente maggiore dovrà restare a disposizione di usi agricoli – dice De Rosa – ma nonostante questo si stravolge la storia di interi siti, rischiando peraltro che vengano abbattuti edifici storici non vincolati dalla Soprintendenza».
5) Articolo 11, deroghe pro-Anci: il testo era rimasto immutato per mesi, poi in prossimità dell’arrivo in Aula la maggioranza ha fatto sue le richieste dell’Anci: «Si fa salvo – denuncia l’M5S – quasi tutto quanto già previsto dai piani di trasformazione: e non solo quello che è in fase di lavori avanzati, basta essere al grado della programmazione. Chiaro che ora, prima che entri in vigore la legge, tutti correranno a programmare interventi edilizi: una sorta di maxi-sanatoria». «Per noi la pianificazione del territorio deve essere statale, e il privato deve venire dopo, ma qui è passato il principio contrario – conclude l’M5S De Rosa – Prima di costruire su nuovi suoli, rigeneriamo e bonifichiamo l’esistente. E mettiamo le risorse sulla riqualificazione energetica: ogni miliardo investito crea 17-18 mila posti di lavoro e fa bene all’ambiente».
«"Contenimento del consumo di suolo". Le legge appena approvata dalla Camera favorisce l’aggressione di quanto resta dei territori agricoli e lascia mano libera alla grande proprietà immobiliare di approvare interventi di demolizione e ricostruzione con mostruosi incrementi volumetrici». Il manifesto, 13 maggio 2016
Festa grande nei circoli della speculazione urbanistica e della proprietà edilizia. Ieri la Camera dei Deputati ha approvato a maggioranza con i voti del gruppo di Verdini e della minoranza del Pd una legge che a dispetto del roboante titolo, «Contenimento del consumo di suolo», favorisce l’aggressione di quanto resta dei territori agricoli e lascia mano libera alla grande proprietà immobiliare di approvare interventi di demolizione e ricostruzione con mostruosi incrementi volumetrici.
Prima di descrivere le aberrazioni nascoste nella legge, è però opportuno chiarire che il giudizio negativo non riguarda – come vogliono far credere i commenti trionfali del Pd – la normale dialettica democratica in cui le opposizioni (in questo caso 5 Stelle e Sinistra italiana) criticano i provvedimenti della maggioranza. Molti comunicati emessi dalle associazioni ambientaliste e della tutela – dalla Lipu a Salviamo il Paesaggio – non appena approvata la legge dimostrano che è pessima e solo una sfrontata propaganda può gabellarla come un successo. Le bugie stavolta hanno le gambe corte e inciampano sulla realtà: quelle associazioni hanno collaborato in numerose riunioni e audizioni in Parlamento presentando emendamenti per rendere la legge più efficace. Non è stato concesso loro alcuno spazio e in sede di approvazione in aula sono stati votati articoli che hanno ulteriormente peggiorato la legge rendendola un grande regalo al partito del cemento.
La grancassa renziana dirà che si tutelano le aree agricole. L’articolo 6 si intitola al contrario «compendi agricoli neorurali periurbani», una locuzione marinettiana che serve «a favorire lo sviluppo economico sostenibile del territorio» e consente ai proprietari di realizzare in aree agricole «alberghi, case di cura e uffici». È noto a tutti – e dunque anche al legislatore – che l’Italia ha gli indici di consumo di suolo più alti dell’Europa intera: abbiamo cementificato circa l’8% del territorio a fronte della media del 4,7% di Paesi europei (fonte Ispra): la ricetta della maggioranza è invece quella di incrementare ancora la frammentazione territoriale.
Ma veniamo al cuore del provvedimento, e cioè l’articolo 5 che porta come titolo «Interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate». Lì è contenuta – come nel caso delle riforma Madia per le amministrazioni pubbliche – la pericolosa delega in bianco all’esecutivo per emanare decreti legislativi per agevolare gli interventi di rigenerazione urbana. In realtà è noto che queste leggi già esistono e non vengono utilizzate proprio perché non permettono di poter aumentare a piacimento le volumetrie da realizzare e obbligano al rispetto degli interessi pubblici. Cose vecchie nella devastante cultura nuovista. Per far capire dove si vuole arrivare, l’aula ha approvato un emendamento del Pd che consente deroghe volumetriche anche per gli interventi in corso. È l’estensione del Piano casa berlusconiano a tutto il territorio.
Del resto, a capo dell’associazione dei comuni italiani siede Piero Fassino, esponente Pd, ed è stata proprio l’Anci a chiedere di escludere dalla tutela le aree di completamento urbanistico «anche future»! Altro che riduzione del consumo di suolo: è il trionfo della speculazione edilizia, come conferma la relatrice di maggioranza Chiara Braga (Pd) che per difendersi dalle critiche ha detto che non bisogna «mortificare l’iniziativa privata». Brava. Se ne sentiva davvero il bisogno perché la deregulation dura da oltre due decenni e a furia di non mortificare l’iniziativa privata sono stati cancellati diritti dei cittadini ad avere città vivibili e territori tutelati.
Da pochi giorni è uscito un volume prezioso – «Viaggio in Italia, le città nel trentennio liberista» (ed. manifestolibri) – che narra gli scempi compiuti in molte città italiane sulla base della cultura della deroga. Il predominio di pochi contro gli interessi di tutti che ha portato ad un eccesso di alloggi costruiti, alla conseguente riduzione dei valori immobiliari – salvo quelli di pregio – e alla demolizione del welfare urbano. La legge renziana approvata ieri dimostra che nonostante i fallimenti non si cambia cura: ancora ulteriore consumo di suolo e ancora nuove costruzioni.
Riferimenti
La critica severa alla legge testè approvata è stata argomentata su questo sito in numerosi scritti. Si veda l'eddytoriale n. 168, nel quale sono richiamati gli scritti più significativi. Al tema generale del consumo di suolo è dedicata in questo sito un'intera cartella. Una guida all'argomento la propone la visita guidata di Mauro Baioni e Carla Maria Carlini Consumare stanca.
Ecco come Matteo Renzi e la renzichenecca ministra Giannini stanno trasformando la scuola italiana, cioè la base della nostra democrazia, del miglioramento delle persone e della ricerca di un mondo migliore. Lettera 43 online, 11 maggio 2016
Ci ha segnalato questo testo Gabriella Giudici (la ringraziamo molto), che lo ha postato sul suo sito con la seguente presentazione. «Un veloce commento di Diego Fusaro delle parole del Ministro dell’istruzione che illustrano le prossime tappe della cancellazione della scuola repubblicana e la sua definitiva strumentalizzazione al servizio di un lavoro (per i più) schiavile, volatile, senza diritti e senza dimora. Per ricordare che oggi scioperiamo per boicottare i test INVALSI e che faremo un referendum per riprenderci l’istruzione pubblica».
L’Italia ha firmato un nuovo accordo con la Germania. Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha siglato, insieme con l’omologo tedesco Johanna Wanka, un’intesa che pone in essere la cooperazione tra l’Italia e la Germania per quel che concerne la formazione professionale. L’obiettivo – dice la Giannini, come precisato da Il Giornale – sta nell’avvicinare il nostro Paese al paradigma sociale ed economico tedesco. In cosa consisterebbe tale modello? Facile: nell’introdurre i giovani al mondo del lavoro.
VERSO LA DISTRUZIONE DELLA SCUOLA. Sicché, dice ancora la Giannini,
«l’Italia deve prendere spunto dalla Germania e colmare la discrepanza che ci divide dai tedeschi. L’accordo odierno è solo l’ultimo passo dopo il Jobs Act e la Buona Scuola per riformare radicalmente il nostro sistema».
Capito? Prepariamoci. La distruzione definitiva della scuola italiana è dietro l’angolo. La scuola non ha più il compito di formare esseri umani consapevoli della loro storia e del loro futuro: deve invece produrre puri atomi pronti a essere inseriti nel mercato del lavoro flessibile e precario.
Parole della Giannini:
«Dobbiamo tendere sempre più verso un modello americano, in cui la flessibilità, che è sinonimo di precariato, è la base di tutto il sistema economico. […] L’esempio al quale tendiamo sono gli Stati Uniti e dobbiamo sognare gli Stati Uniti d’Europa. […] Non ci sarà più spazio per la famiglia come la intendiamo oggi».
LA DISSOLUZIONE DELLE IDENTITÀ. Definire oscene, raccapriccianti e deliranti queste parole è essere generosi. Il capitale mira a flessibilizzare la vita e l’intera natura umana: mira a renderci tutti precari e senza diritti, migranti e senza famiglia, sradicati e deterritorializzati, schiavi sempre disponibili e senza alcuna garanzia.
Alla dissoluzione delle identità si accompagna la disgregazione del radicamento: l’homo instabilis deve, per sua natura, essere portatore di un’identità e di una territorialità nomadi e mai stabilizzate, sempre modificabili secondo le sollecitazioni dell’economico e, dunque, incessantemente pronte a essere ridefinite. Per questo, l’invito ubiquitario a essere “cittadini del mondo” nasconde oggi la mal celata volontà, gravida di ideologia, di sradicare i popoli del pianeta e di ridurli a semplici atomi senza patria e senza diritti, senza identità e senza storia, meri schiavi alle dipendenze dell’economia globalizzata.
L’ISTRUZIONE COME AZIENDA CONCORRENZIALE. È disgregato il lavoro fisso come luogo della stabilità e del riconoscimento sociale, sostituito dal lavoro flessibile e precario; il quale genera la polverizzazione atomistica della dimensione pubblica e la privatizzazione integrale della vita sociale, deeticizzando il mondo della vita e annientando la stabilità esistenziale propria sia della vecchia classe borghese, sia della vecchia classe proletaria.
In quanto privo di eticità, il sistema capitalistico postborghese e postproletario è anche privo di educazione e di formazione. Dalla formazione classica come momento etico orientato a generare consapevolezza critica per esseri umani in fase di sviluppo si è disinvoltamente transitati all’economicizzazione postborghese e postproletaria dell’istruzione ridotta ad azienda concorrenziale erogatrice di competenze tecniche e abilità pratiche. Per questo, il sapere classico della cultura storica occidentale tende sempre più a essere sostituito dallo know how dell’impresa capitalistica. E la Giannini ce l’ha confermato.
In Italia solo cittadini e comitati si sono mobilitati per denunciare il grande inganno delle concessioni autostradali. Inascoltati si sono rivolti all'Europa, che ora interviene. Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2016 (m.p.r.)
La politica di manica larga del governo nei confronti dei signori pubblici e privati delle autostrade insospettisce parecchio l’Europa. Margrethe Vestager, la commissaria per la Concorrenza, ha inviato a Graziano Delrio una raffica di lettere chiedendo spiegazioni su tutte le scelte autostradali più importanti del ministero dei Trasporti: quelle missive sono l’apertura di una campagna in grande stile. Le lettere riguardano la Brebemi, la A 4 Brescia-Padova, la A 22 del Brennero, le Autovie Venete e la Sat, la Società dell’autostrada tirrenica del gruppo Benetton che all’inizio di aprile ha aperto il tratto tra Civitavecchia e Tarquinia (19 chilometri) imponendo un nuovo pedaggio.
Due in particolare le scelte su cui la Ue concentra l’attenzione: la Brebemi (Brescia-Bergamo-Milano) e la proroga della A 4 Brescia-Padova incardinata sulla estensione verso nord fino a Trento della Valdastico che ora da Rovigo raggiunge solo Piovene Rocchette. Per la Brebemi (socio di riferimento Banca Intesa) la lettera della commissaria più che una richiesta di chiarimento è il preannuncio di una procedura di infrazione per violazione della concorrenza. Inaugurata a luglio 2014 l’autostrada padana si è rivelata un flop con un’intensità di traffico molto più bassa di quella prevista dal Piano economico e finanziario (Pef) fatto a sostegno della realizzazione dell’opera. Lo scompenso tra attese e realtà è stato così disastroso che dopo un anno il governo ha deciso (luglio 2015) di intervenire con una delibera del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) a favore della società di gestione con una defiscalizzazione del valore di circa 320 milioni di euro sulle tariffe applicate per i pedaggi. L’iniezione di liquidità non è piaciuta all’Europa, propensa a ritenere che quell’intervento sia aiuto di Stato.
Anche la proroga della concessione della A 4 Brescia-Padova sta mettendo sul chi va là l’Europa. Scaduta a giugno di tre anni fa, la concessione della A 4 era stata temporaneamente prorogata senza gara per 2 anni dall’allora ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, sulla base dell’impegno da parte della stessa A 4 di completare la Valdastico verso nord. Intorno a questo tracciato autostradale relativamente breve (90 chilometri) nel frattempo è stato ingaggiato un braccio di ferro durissimo.
La A 4 è controllata da Banca Intesa più Astaldi, molto interessati alla costruzione dei 90 chilometri perché a essi è collegata la possibilità di estendere per altri 10 anni la concessione della stessa A 4 aumentandone il valore proprio nel momento in cui è stata messa in vendita. Gli spagnoli di Abertis da mesi premono per acquistare e ieri Astaldi ha annunciato di aver venduto proprio agli spagnoli la sua quota del 31,85 per cento per 130 milioni di euro. Ma la chiusura formale dell’affare è stata rinviata per la terza volta, in questo caso a fine luglio, subordinandola all’approvazione da parte del Cipe della realizzazione della Valdastico Nord.
Ma c’è un terzo incomodo, la provincia di Trento, azionista di maggioranza della A 22 del Brennero, l’autostrada su cui dovrebbe innestarsi proprio a Trento la Valdastico Nord. La provincia di Trento quei 90 chilometri non li vuole adducendo un motivo ecologico: scaricherebbe troppo traffico sull’Autobrennero in prossimità della città. In realtà le motivazioni vere sono altre: la Valdastico non scaricherebbe traffico sulla A 22, ma glielo toglierebbe a sud per riconsegnarglielo più a nord. E la provincia di Trento non vuole perdere traffico perché i viaggiatori dell’Autobrennero sono oro. Così, dopo aver ottenuto dal governo il prolungamento di 30 anni della concessione per la A 22 (valore 11 miliardi di euro) promettendo il suo assenso per la Valdastico, ora la provincia di Trento fa melina. In Italia nessuno fiata, in Europa vogliono vederci chiaro.
Approvata da un Parlamento illegittimo, e per di più incompetente, una legge che, col pretesto della riduzione del consumo di suolo, non lo riduce affatto e in aggiunta favorisce la cementificazione plus delle aree già edificate. Un nuovo capitolo del "Rottama Italia". La Repubblica, 11 maggio 2016
Roma. Sette metri quadrati di terra fertile persi al secondo, 80mila ettari consumati dal 2012 a oggi, un’estensione pari a otto volte Parigi. I dati allarmanti dell’ultimo rapporto Ispra (Istituto superiore di ricerca ambientale) dimostrano che il nostro Paese ha un livello di consumo di suolo tra i più alti in Europa, nonostante le caratteristiche orografiche del territorio e l’elevato rischio idrogeologico. Ma se negli ultimi trent’anni sono stati divorati 5 milioni di ettari di terreni agricoli, una media di 80 campi da calcio al giorno, evidentemente il cemento ha avuto la meglio.
Domani, probabilmente, la Camera darà il via libera al ddl sul “Contenimento del consumo di suolo”, una legge che è in ballo da 4 anni e che finalmente arriva al voto in un ramo del Parlamento. L’obiettivo, ambizioso, è quello di tutelare i nostri paesaggi, ridurre gradualmente la cementificazione indiscriminata e arrivare entro il 2050 al “consumo zero” di suolo fertile. Ma il provvedimento ha avuto un percorso molto faticoso e ha messo in allarme l’Anci perché, secondo i Comuni, imponeva vincoli troppo rigidi all’edificazione. Così, a furia di emendamenti e deroghe, il testo originario è cambiato parecchio. Per le opposizioni e gli ambientalisti più intransigenti è stato «stravolto e svuotato» e trasformato in una «legge al ribasso, utile solo ai palazzinari», come denuncia Massimo De Rosa, deputato M5S. Per la maggioranza, invece, si tratta di un provvedimento realistico, frutto di un buon compromesso, anche se migliorabile.
In principio fu il ddl proposto da Mario Catania nel 2012. «La legge attuale - spiega l’ex ministro del governo Monti - non salva solo le aree agricole ma punta anche al recupero delle aree già cementificate. Ma è un testo zoppicante. Mi riferisco, in particolare, alla saldatura tra il partito dei sindaci e gli interessi della filiera del cemento». Il riferimento è all’emendamento pd a prima firma Federico Massa, contestato dai Cinque Stelle, da Legambiente e dal forum Salviamo il Paesaggio. La modifica concede ai Comuni una deroga per gli interventi edilizi già pianificati.
Il timore è che questo si traduca in una “corsa alle istanze” prima che la legge entri in vigore. Ma per i relatori del Pd, Massimo Fiorio e Chiara Braga, il rischio non c’è: «È vero che è un’apertura all’Anci ma, se ci sono dei livelli di progettazione avanzata, sarebbe assurdo mortificare l’iniziativa privata». L’aspetto migliore della legge è il censimento obbligatorio per i Comuni delle aree e degli edifici dismessi e degli alloggi sfitti: «È un passaggio fondamentale - spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente Legambiente - Prima di gettare nuovo cemento devi riusare quello che hai».
La continua perdita di terreno agricolo costringe il nostro Paese a dipendere sempre più dall’estero per le risorse alimentari: «L’Italia ha bisogno di questa legge - afferma il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina - per tutelare l’agricoltura e conservare il paesaggio».
Riferimenti
La critica severa alla legge testè approvata è stata argomentata su questo sito in numerosi scritti. Si veda l'eddytoriale n. 168, nel quale sono richiamati gli scritti più significativi.
Al tema generale del consumo di suolo è dedicata in questo sito un'intera cartella. Una guida all'argomento la propone la visita guidata di Mauro Baioni e Carla Maria Carlini Consumare stanca.
«Il sindaco anti abusivi non lascia "Ho paura ma resisto per mio figlio". Dopo l’attentato a Licata arriva Alfano. Nessuna sanatoria per le villette da demolire». Corriere della sera, 11 maggio 2016
L'arcivescovo di Agrigento sta con il sindaco di Licata. Dice no alle case abusive. Una svolta. Per troppo tempo la Chiesa siciliana ha avuto sul tema posizioni ambigue.
La tentazione di mollare tutto, di dimettersi dalla carica di sindaco, di fermare la sua battaglia contro gli abusivi con le case sul mare era inevitabile dopo una notte insonne trascorsa, prima, davanti alla sua casa di campagna dove i vigili del fuoco sono arrivati in tempo per evitare il peggio, poi fino all’alba a riflettere con la moglie in attesa di un bebè. Atterriti da un attentato odioso. Da una plateale minaccia destinata ad avvelenare in questo tormentato lembo della provincia di Agrigento la lotta per il ripristino della legalità, mentre le ruspe continuano a demolire i mostri di cemento con le zampe sulla sabbia.
Ma il sindaco di Licata, Angelo Cambiano, 38 anni, insegnante di matematica in aspettativa, un bernoccolo recente per l’aggressione di un pescivendolo contrario alla riorganizzazione del mercatino, nonostante l’emozione, gli occhiali da sole per coprire gli occhi rossi e un primo sfogo davanti al municipio, dopo avere partecipato ad una riunione sulla sicurezza con il ministro dell’Interno Angelino Alfano, precipitatosi nella sua contraddittoria provincia per solidarizzare con scelte concrete, ha deciso di provare a resistere: «Non so se ci riuscirò, ma per ora resto. Ovvio che mi chieda chi me lo fa fare a rischiare la vita per 1.700 euro al mese. Io non sono un eroe. Vorrei solo amministrare rispettando le leggi. Si, la paura c’è. Ma poi guardo mia moglie che partorirà fra poco e penso a mio figlio. Che gli racconto? Che suo padre scappa? Resto. Serve però la squadra».
Un appello che ieri, si spera non solo per un giorno, sembrava essere stato recepito. Non solo dal ministro, arrivato con il prefetto Nicola Diomede, il questore Mario Finocchiaro, ufficiali di carabinieri e guardia di finanza, ma anche da 40 sindaci e amministratori dei comuni vicini per un’ora in riunione con lui. Tutti apparentemente consenzienti con Alfano, pronto a soffocare le speranze di una sanatoria aleggiata nei giorni scorsi perfino con un disegno di legge presentato all’Assemblea regionale: «Oggi è giunto il tempo della politica e delle istituzioni che fanno rispettare le leggi, puntando al consenso democratico di quei cittadini che onestamente, per fare una casa, chiedono il permesso».
Avrà una scorta il sindaco, incoraggiato dall’incontro con Alfano, sollevato e determinato nel contrasto ai comitati impegnati in manifestazioni continue, a difesa delle villette sul mare di Mollarella e Torre di Gaffe, una costa offesa da 500 costruzioni tirate su sin dagli anni Settanta, a due passi dalla battigia, comunque a meno di 150 metri dalla spiaggia. Tema di una riflessione chiara da parte del sindaco in Tv, ospite domenica dell’«Arena» di Massimo Giletti: «La Procura di Agrigento impone a noi di eseguire demolizioni per le case sulle quali esiste un verdetto definitivo della Cassazione e noi amministratori non possiamo sottrarci». Il giorno dopo, il finimondo. Alle sette di lunedì sera c’è voluto un cordone di polizia per fare uscire sindaco e assessori dal municipio. E due ore dopo qualcuno ha appiccato il fuoco.
Adesso l’amarezza di Cambiano diventa anche denuncia: «In questi giorni ho avvertito la presenza di uno sciacallaggio con politici locali che scaricano sulla mia persona la responsabilità delle demolizioni...». Un dettaglio che viene analizzato dal procuratore della Repubblica Renato Di Natale e dal suo aggiunto Ignazio Fonzo, fiduciosi sulle indagini: «Abbiamo un’idea precisa. Soprattutto sugli ispiratori... Ma importante è sapere che l’azione di ripristino della legalità non si fermerà». Come dire che non serve presentare disegni di legge o emendamenti pro sanatoria come hanno fatto all’Assemblea regionale Girolamo Fazio, ex sindaco di Trapani in quota Forza Italia e un deputato avvicinatosi al Pd, Michele Cimino. Proposte lette con sgomento dal procuratore di Natale: «Sono contro legge. E i cittadini debbono saperlo» .
«Ricucire e riabilitare il nostro territorio urbanizzato,perché il Paese delle cento città non scada a terra delle mille periferie.». La Repubblica,
9 maggio 2016 (c.m.c.)
ESISTE il rischio jihadista nelle nostre città, nelle nostre periferie? Questa domanda serpeggia nella pancia degli italiani. La risposta più comune, da parte di studiosi e autorità pubbliche, oscilla tra il “no” rassicurante e il prudente “meno che altrove”. Certo meno che a Londra, Parigi o Bruxelles. Soprattutto per due fenomeni tipicamente nostrani: non essere stati vero impero, non sentirsi vera nazione. La modesta e tardiva proiezione imperiale comporta che rispetto alle metropoli delle ex potenze coloniali europee le nostre città ospitino un minor numero di musulmani (il 4% nella provincia milanese, la metà in quella capitolina, contro le percentuali a due cifre di Londra o Parigi), in maggioranza ancora di prima generazione.
La tipologia della banlieue come società parallela, ghetto per comunità allogene isolate dal centro dominato dai cittadini “di ceppo”, non ha preso piede da noi.Il moderato sentimento nazionalistico e la tendenza a non enfatizzarlo nella vita quotidiana favoriscono poi la disposizione all’accoglienza del migrante, cui viene di fatto attribuito un ruolo economico e sociale decisivo, fosse solo per limitare l’altrimenti irreversibile declino demografico e per sobbarcarsi lavori cui i nativi sono ormai refrattari. Sicché un Paese che non si pretende paradigma identitario può costituire un caso di integrazione informale che culmina nella “ mixité alla romana” o nel “multiculturalismo alla napoletana”. Architetture sociali precarie, forse irriproducibili, eppure relativamente efficienti.
Ma tali peculiari equilibri sono instabili. Le valvole di sicurezza potrebbero saltare. La paura dell’alieno potrebbe prevalere, istigando e legittimando la ghettizzazione. Così eccitando la stigmatizzazione dello straniero, a cominciare dall’islamico. E la diffusione di ghetti urbani a forte omogeneità etnica, monadi di sofferenza e rabbia. Terreno di coltura per potenziali jihadisti.
L’ossessione securitaria minaccia però di farci perdere di vista i termini davvero decisivi della partita delle nostre periferie. Di quegli spazi che ci ostiniamo a definire periferici, identificandoli non in base alla geografia, che li renderebbe quasi indistinguibili dall’ipotetico centro, ma al disagio urbano. Perché è da qui che conviene muovere per identificare le “periferie” — le virgolette stanno a ricordare la vaghezza del termine — e per tentarne la riqualificazione. Stefano Boeri indica la polarità città-anticittà come più pertinente della coppia centro-periferia nel determinare le direttrici della battaglia per la riabilitazione del nostro frammentato tessuto urbano, che specie lungo la fascia adriatica non ha quasi soluzione di continuità.
Dove per anticittà s’intende il degrado delle infrastrutture, dei servizi e degli edifici, la perdita degli scambi sociali e culturali che segnano storia e spirito della civitas — pur sempre una specialità italiana — il predominio delle mafie. Mentre città significa luoghi di aggregazione — cominciando dalle piazze, dalle scuole, dai centri sportivi e artistici — dove gente diversa costruisce insieme, a partire dalle proprie radici, l’appartenenza allo spazio urbano come bene pubblico.
Ricucire e riabilitare il nostro territorio urbanizzato, dove grande capitale privato e “imprenditori in canottiera” hanno dettato ritmi e moduli della frammentazione urbana con un tasso parossistico di consumo del suolo, significa progettare una strategia a tenaglia, che tenga insieme “alto” e “basso”, pubblico e privato, nazionale e locale, centri e periferie, italiani “di ceppo” e nuovi aspiranti italiani. Perché il Paese delle cento città non scada a terra delle mille periferie.
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"Beni comuni 2.0" a cura di Michele Spanò e Alessandra Quarta per Mimesis. Il libro è una rassegna delle analisi dei beni comuni in Europa, America Latina, Africa e sui temi come il costituzionalismo, la sharing economy o il reddito di base. Il manifesto, 5 maggio 2016 (c.m.c.)
Non è sbagliato presentare Beni comuni 2.0 come un «libro generazionale» come fa Ugo Mattei nella postfazione a un denso volume collettaneo, curato da Michele Spanò e Alessandra Quarta per Mimesis (pp.220, euro 20). Il libro contiene quindici saggi della generazione «under 35» di giuristi e costituzionalisti che conosce la precarietà lavorativa, non solo quella accademica. Cosmopoliti e nomadi, giovani donne e uomini hanno coniugato un attivismo politico-culturale con la pratica di un diritto non statuale all’insegna della teoria dei beni comuni.
Una teoria che, dalla omonima commissione parlamentare diretta da Stefano Rodotà nel 2007 a oggi, ha esteso un dibattito giuridico internazionale già fiorente sui commons alle esperienze politiche significative come il referendum sull’acqua pubblica del 13 giugno 2011 o l’occupazione del teatro Valle a Roma, avvenuta il giorno dopo. La splendida fotografia di Valeria Tomasulo messa in copertina del volume rappresenta uno dei momenti più intensi sia per la generazione degli autori che per i movimenti italiani, degli ultimi anni.
«Com’è triste la prudenza» recitava lo striscione simbolo di un’occupazione oggi rimossa. Dannazione della memoria e atto di vendetta contro un esperimento politico e giuridico che ha provato a coniugare l’auto-governo della Comune di Parigi con il comunismo dei consigli operai e l’idea di nuove istituzioni aperte alla partecipazione dei cittadini e al «costituzionalismo civico» o «dal basso».
Il libro è una rassegna delle analisi dei beni comuni in Europa, America Latina, Africa e sui temi come il costituzionalismo, la sharing economy o il reddito di base. La centralità dei «beni comuni» è abbastanza nota nel dibattito giornalistico e accademico, meno nota in quello politico che sconta un impressionante concentrato di arretratezza culturale e di vera e propria malafede ai danni degli esclusi e dei lavoratori poveri, giovani e anziani. Il progetto di revisione costituzionale voluto da Renzi e dal Pd, così come le loro politiche sulla povertà, escludono programmaticamente ciò che invece costituisce la tensione comune degli autori del volume.
Ciò dimostra che, sia pure da una prospettiva oggi minoritaria, queste analisi sono politicamente situate e prodotto di un conflitto. In questa chiave va valutato il concetto proposto dai curatori del volume di «contro-egemonia». Citazione gramsciana, la «contro-egemonia è l’operazione attraverso la quale una forma di vita usa, piegandola, la forma per fare diversa la vita – nel mezzo delle cose, col mezzo giuridico. Il medio di questa impresa mondanissima è il diritto e con esso i suoi istituti: piegati, sabotati, rifunzionalizzati».
La sfida è quella dell’immanenza: a destra e a sinistra considerata come l’effetto del postmoderno. Per gli autori, che conoscono bene la filosofia, è invece una chance materialistica, un conflitto dentro il diritto e per il suo uso «contro-egemonico». I beni comuni ne hanno offerto più di un esempio. Il libro non va dunque letto solo come «generazionale», ma come un esempio di cosa può fare, oggi, un’intelligenza segnata da una stagione di cui oggi conosciamo i limiti.
Da un’analisi più ravvicinata emerge che la politica non può essere limitata al diritto, né il diritto riassume la pluralità irrappresentabile dell’azione sociale. Il diritto è conservatore, mette in ordine la vita, raramente la potenzia. Un suo uso contro-egemonico può avere valore esemplare, ma non cancella questa differenza, anzi la complica ancora di più. Se la prudenza nella politica è triste, come suggerisce la copertina del libro, non è prudente ignorarne le sconfitte. Anche queste sono utili per la prossima occasione.
«La legge di stabilità promuove un programma straordinario per la riqualificazione urbana. Migliorare la qualità della vita nelle nostre città è fondamentale ma serve un nuovo programma?» Sbilanciamoci.info, 3 maggio 2016
La legge di stabilità per il 2016 (l. 2008/2015) promuove un programma straordinario per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e delle città capoluogo di provincia. Il bando con le modalità e le procedure per presentare i progetti è stato iscritto all’ordine del giorno della conferenza unificata Stato-Regioni-Enti locali dello scorso 14 aprile.
Migliorare la qualità della vita nelle nostre città, e soprattutto nelle loro periferie, è fondamentale anche per contenere le aree di disagio e marginalità sociale ed esistenziale. Ma serve proprio un nuovo programma?
La riqualificazione una e trina
Nel prospetto riportato qui sotto, sono stati messi a confronto i principali parametri e caratteristiche dei tre più recenti programmi di riqualificazione urbana che perseguono gli stessi obiettivi: uno promosso, nel 2012, dal governo Monti e ancora in corso di attuazione, e due dal governo Renzi, con le leggi di stabilità 2015 e 2016; gli interventi da realizzare con il primo di questi ultimi due programmi sono ancora nella penna dei progettisti, malgrado sia passato ormai quasi un anno e mezzo dalla sua approvazione.
Dalla lettura del prospetto si può osservare quanto segue.
1) Fin dalla loro denominazione sono intuibili le sovrapposizione tra i tre programmi. Al riguardo i possibili dubbi sono fugati dalla descrizione sintetica delle opere che possono essere finanziate: i progetti ammessi devono riguardare l’ampio spettro degli Interventi finalizzati al miglioramento delle aree urbane degradate e marginalizzate e al recupero del degrado sociale, che è fonte anche di insicurezza. Nelle liste dettagliate degli interventi finanziabili le descrizoni di alcune di esse sono pressoché le stesse in tutti e tre ibandi indetti per la realizzazione dei programmi.
2) L’ultimo programma promosso limita la partecipazione alle sole città metropolitane e ai comuni capoluogo di provincia. Questi comuni potevano, però, partecipare anche ai bandi relativi ai due precedenti programmi.
3) Le leggi che hanno promosso i due programmi del governo Renzi hanno stabilito un calendario per l’emanazione dei bandi e per la presentazione dei progetti da parte dei comuni. In entrambi i casi le scadenze previste non son state rispettate né per l’emanazione dei bandi né per la presentazione dei progetti.
4) La gestione del piano nazionale per le città è affidata al ministero delle infrastrutture e dei trasporti, competente in materia delle politiche per la casa e per la riqualificazione urbana. La selezione dei progetti da finanziarie con i due programmi promossi dal governo Renzi è affidata ad apposite strutture temporanee costituite presso la presidenza del consiglio dei ministri.
5) La dotazione finanziaria dei programmi è modesta non solo con riferimento ad ognuno di essi, ma anche per tutti i tre insieme. Lo stanziamento totale si attesta sul miliardo di euro; metà di questa cifra è distribuita tra il 2012 e il 2017.
La rinuncia all’efficacia
È una profezia facile prevedere che l’ammontare del finanziamento chiesto dai comuni, sui due programmi più recenti, sarà molto più elevato delle somme messe a disposizione dal bilancio statale. È già successo con il piano città promosso dal governo Monti. In quel caso, i comuni presentarono 457 progetti; con i poco più di 300 milioni di euro disponibili ne sono stati finanziati 28, la cui realizzazione richiede un investimento complessivo di 4,4 miliardi di euro. Non sono reperibili dati sul stato di attuazione degli interventi finanziati, ma è molto probabile che per alcuni di essi sia ancora molto arretrato, considerato che in molti casi il finanziamento ottenuto è solo una percentuale molto piccola della spesa da sostenere.
È prevedibile che un certo numero di progetti non finanziati con il piano città sia già stato ripresentato per concorrere al bando del programma 2015; le città metropolitane e i comuni capoluogo di provincia, ritenteranno, con gli stessi progetti, la sorte anche con il programma di quest’anno ad essi riservato.
La moltiplicazione di programmi con la stessa finalità dotati di risorse scarse, mentre è già disponibile una lunga lista, di recente formulazione, di progetti già valutati, non può essere classificata tra le pratiche di buon governo e di buona amministrazione. Finanziare con le somme nel frattempo trovate nel bilancio dello stato alcuni dei progetti già valutati positivamente per il piano delle città, ma non finanziati per mancanza di fondi, avrebbe fatto risparmiare costi amministrativi ai comuni e all’amministrazione centrale e ridotto i tempi di avvio delle opere. La celerità nell’esecuzione degli interventi darebbe anche una spinta all’economia. Se fosse stato ritenuto utile, con le stesse norme di promozione dei due nuovi programmi, o con atti amministrativi, le nuove risorse potevano essere riservate a particolari tipologie di opere o di comuni.
Certo questa scelta razionale avrebbe avuto, per il governo, due controindicazioni: a) se si fosse semplicemente scorsa la graduatoria del piano città non sarebbe stato possibile trasferire la gestione dei fondi dal ministero delle infrastrutture alla presidenza del consiglio dei ministri; b) sul versante della comunicazione politica fa più effetto l’annuncio di una nuova iniziativa che la comunicazione del rifinanziamento di una analoga già in essere.
A dire che l’efficacia dell’azione amministrativa e delle esigenze delle città sono state sacrificate ad esigenze politico-mediatiche, si fa, forse, peccato, ma è legittimo ritenere che l’ipotesi sia plausibile.
Non funzionalità e servizio ai passeggeri,(che non a caso vengono chiamati clienti) ma ancora una volta, il vero obiettivo è la mercificazione, il consumo e il massimo ricavo. Corriere della Sera, 3 maggio 2016 (c.m.c.)
E' degno di nota l’impegno con cui «Grandi Stazioni» — non so se spinta da una disperato bisogno di risorse per problemi di bilancio, o forse da pura avidità — si dedica da tempo a deturpare il patrimonio architettonico italiano e a contribuire al degrado ambientale del nostro Paese.
«Grandi Stazioni», per chi non lo sapesse, è una società del gruppo Ferrovie dello Stato, la quale gestisce per l’appunto le 14 maggiori stazioni del sistema ferroviario nazionale. O meglio, più che gestirle direi che le munge. Nel senso che da anni il suo unico scopo sembra quello di risistemarne gli interni allo scopo di riempirli all’inverosimile di spazi commerciali da affittare, obbligando poi i viaggiatori a seguire «percorrenze riorganizzate» (così nell’«italiese» del suo sito), al fine di indurli a comprare quante più cose possibili. Anche la scarsità di posti dove sedere e riposarsi obbedisce allo stesso scopo. Non solo. Pur di far soldi, infatti, «Grandi Stazioni» ha piazzato lungo le banchine dei treni anche una miriade di schermi dove si proiettano interrottamente, per il piacere di chi aspetta di partire, video pubblicitari dal sonoro altissimo.
Per avere un’idea del risultato di tutto ciò basta avventurarsi alla stazione Termini di Roma. Un vero inferno. L’intero disegno architettonico originario, niente affatto spregevole, è stato completamente stravolto da una miriade disordinata di chioschi e di box commerciali disseminati dappertutto, che obbligano i passeggeri a dei veri e propri slalom in un pigia pigia assordante per giungere ai treni. In pratica ci si muove come su un autobus nell’ora di punta. A tutte le ore, poi, centinaia di viaggiatori di tutte le età, non trovando un posto decente dove stare, giacciono buttati per terra. In compenso i negozi sono pieni, e «Grandi Stazioni» rimpingua i suoi bilanci.
«Dopo le polemiche bolognesi, i murales del celebre street artist irrompono in val Susa a fianco del movimento che si oppone all’«alta voracità» e a difesa della casa di Ines, minacciata dalle ruspe». Il manifesto, 3 maggio 2016 (c.m.c.)
Un eurocrate carponi, la cui testa invisibile entra dentro la zona rossa del cantiere dell’alta velocità, defeca denaro. Dietro di lui un sindaco, con fascia tricolore, nella stessa posizione raccoglie una manciata delle feci sonanti e se ne ciba. E poi un costruttore, un giudice con parrucca e toga e una serie di poliziotti: chi armato di codice penale, chi di fucile e chi di manganello. Tutti carponi, tutti coprofagi di denaro, quello prodotto dal cantiere di Chiomonte, in val Susa. È la prima delle due opere dipinte la scorsa settimana da Blu, l’artista anonimo definito dal Guardian «uno dei dieci migliori street artist in circolazione».
«Alta voracità», questo il titolo dell’imponente murales, dà il benvenuto all’interno del cantiere fortezza di Chiomonte. Arrivato giovedì scorso, inaspettato dai più, l’artista ha preso possesso della massicciata oggetto di infinte scritte No Tav negli ultimi anni. Sotto lo sguardo incredulo dei poliziotti – è stato necessario spiegare che si trattava di un artista di fama mondiale – Blu ha iniziato il suo lavoro di pulitura del muro. Dopodiché ha costruito la scena che ricorda il celebre film horror The human centipide, incentrato su un folle medico che vuole unire chirurgicamente tre persone, bocca con ano, allo scopo di creare un «centopiedi umano».
Tutti i personaggi hanno figura vagamente porcina, occhi privi di pupille, sguardo stravolto e perso nel vuoto, e utilizzano la mano sinistra per raccogliere il denaro e divorarlo. Stagliati a metà dell’opera, lunga circa cinquanta metri e alta dieci, si evidenziano le figure del costruttore e del giudice, punto centrale della catena alimentare che mette in relazione il grande burocrate con i soldati posti a difesa del cantiere più contrastato d’Europa.
L’opera è in sé un grande treno umano, che si ciba delle proprie deiezioni per sopravvivere. Ma i personaggi finali di «Alta Voracità», sempre più indistinti, divengono deformi e piccoli, fino ad essere solo dei mostri dalle forme disumane. La disumanizzazione del capitalismo assume così forme disgustose, estreme, che giungono perfino a violare un principio biologico atto a preservare la vita. Ma l’alienazione che parte dal burocrate e si sviluppa per i passaggi successivi rende ciechi coloro che detengono le leve del potere, ignari che stanno distruggendo anche se stessi.
Blu, nella sua opera, getta fiumi di sarcasmo, perché gli unici che possono entrare dentro quel cantiere, che possono oltrepassare quella porta inviolabile ai cittadini della valle, sono i personaggi coprofagi della sua opera: dal burocrateal costruttore, fino alle varie polizie che ogni giorno, che gli piaccia o no, sono poste a difesa di un sistema malato e distruttivo.
Intorno a Blu intento a dipingere si è radunata la solita folla di militanti No Tav, che non aspettavano il suo arrivo. Molto conosciuto in valle, Blu ha solidarizzato con la lotta che vede un momento di calma apparente. Il cantiere di fatto è esiliato in una stretta e lontana valle laterale, e il tunnel di base procede a ritmo blando, senza fretta. La val Susa in sé è intatta, molto meno le casse dello Stato sottoposte all’emorragia Tav. Dopo aver concluso l’opera, apparentemente apprezzata anche dai militari posti al check point adiacente che hanno guardato con curiosità e fotografato, Blu si è spostato nella frazione di san Giuliano, dove dovrebbe sorgere la grande stazione internazionale di Susa.
Prima di passare al secondo capolavoro di Blu è necessario scendere negli abissi dell’irrazionalità. Susa è una bella cittadina incastrata in un fondo valle, famosa per la sua focaccia e l’arco romano in perfette condizioni. Non è poco, ma altro non c’é. Conta ben 6mila abitanti, e nella frazione di San Giuliano, poche case e un forno, si vorrebbe costruire una stazione ferroviaria degna di una metropoli di medie dimensioni.
Qui abita la signora Ines, e la sua bella cascina verrebbe abbattuta qualora si procedesse con la costruzione della Stazione Internazionale di Susa. Blu le ha chiesto se poteva «dare un tinteggiata» alla parete esposta a est. Nulla di meglio per la battagliera signora che espone orgogliosa una bandiera col treno crociato sul balcone. Blu ha disegnato una megamacchina arancione, dotata di benne, manganelli, punte, picconi, mani che impugnano denaro e bandiere. Lanciata contro l’albero della vita così diverso da quello Expo che si spiega su una distesa di cemento. La macchina fuoriesce dalla montagna lasciando alle sue spalle una distesa grigia, fatta di nulla.
Di fronte un albero possente si erge a difesa della bellezza, che non vale niente perché non serve a nessuno. È un’epopea quella dipinta da Blu, in cui sono rappresentati tutti i valori della lotta No Tav. L’albero, protetto da barricate fatte di copertoni, ha rami che si trasformano in braccia che si difendono, che fanno resistenza attiva. Macchine fotografiche, la storica bandiera del movimento, fionde, tronchesine, molotov ricolme di foglie tutto è impugnato: ma soprattutto ci sono braccia che si stringono forte, che serrano i ranghi. E nella parte superiore, dove la quercia si biforca in due possenti rami, le catene si spezzano e l’albero è finalmente libero di crescere.
Quelle di Blu in val Susa sono le prime opere dopo la volontaria cancellazione di alcuni suoi murales a Bologna. Scelta dovuta alla pretesa che le sue opere fossero di fatto privatizzate e mercificate. In val Susa, soprattutto per quanto riguarda il murales dipinto sulla casa della signora Ines, il problema sarebbe diverso: verrebbe perso per sempre, abbattuto. E data la presenza di tre opere di Blu in questo territorio, il movimento No Tav ipotizza una valorizzazione culturale che coinvolga anche le istituzioni. Un percorso nell’arte gratuita, quella che “serve”” ad elevare il cittadino, unica valorizzazione prevista dalla Costituzione.
«Presentato nel 2014 con l'accordo tra associazioni e politica il testo definitivo va in aula il 3 maggio. Ma ha subito una profonda revisione che premia chi erode ancora territorio». Il Fatto Quotidiano online, 2 maggio 2016 (p.d.)
“Per favore, non votate quel testo di legge”. Suona un po’ come la madre che disconosce il figlio l’appello che la rete “Salviamo il paesaggio” rivolge ai deputati della Camera. L’oggetto è il ddl sul consumo del suolo che arriverà in Aula per la votazione martedì 3 maggio. Quel testodi legge, approdato nelle commissioni parlamentari nel 2014, era infatti il frutto di un accordo fra le associazioni ambientaliste e la politica, il “minimo sindacale” che le prime erano disposte a accettare. Ma il ddl ne è uscito stravolto dalle commissioni, stremato, irriconoscibile. Un ritocchino di qua, un comma sparito di là ed ecco che il muro di protezione contro il cemento facile si è sbriciolato sotto il peso degli emendamenti.
Il terreno “consumabile”, di fatto, è stato ampliato a colpi di definizioni: non si considerano più, ad esempio, “superficie agricola” gli spazi destinati a servizi pubblici come scuole, fermate dell’autobus, strutture sanitarie. Le miniere non vengono più considerate consumo di suolo e nemmeno le grandi opere della legge Obiettivo. Quelle potranno continuare a divorare terreno vergine senza intaccare minimamente le statistiche di consumo di suolo in Italia. Un testo, quello che arriverà in Aula martedì, che il costituzionalista Paolo Maddalena, ex vicepresidente della Consulta, aveva definito al fattoquotidiano.it, “incostituzionale”, oltreché illogico.
Come se non bastasse, il 19 aprile è arrivato l’ultimo colpo di spugna: con un emendamento è stato cancellato un comma intero (il 3 dell’articolo 5) che conteneva il vincolo che avrebbe spinto i Comuni a rendere più oneroso costruire su terreni inedificati e più vantaggioso intervenire per riqualificare il patrimonio edilizio già esistente. Ogni Comune, in altre parole, avrebbe potuto decidere come giocare con le aliquote secondo le proprie esigenze. Secondo la commissione bilancio questo meccanismo era incostituzionale, perché avrebbe intaccato la casse comunali. Secondo il M5S era vero giusto il contrario. “Quel comma – fa sapere al fattoquotidiano.it Massimo De Rosa, membro della commissione ambiente nonché primo firmatario della proposta di legge poi confluita all’interno del testo unico – proponeva di limitare il consumo di suolo, facendo in modo che i Comuni rendessero più conveniente riqualificare l’esistente, piuttosto che investire in nuove costruzioni”. Ma nulla: il comma è sparito. E tutti i “poteri” finiscono in mano al Governo. “Si tratta – continua De Rosa – dell’ennesimo tentativo della maggioranza di svuotare di significato un testo nato per salvaguardare i territori dal cemento, e che invece adesso strizza in più passaggi l’occhio a speculatori del mattone e palazzinari. Il Pd chiede nei fatti una deroga sconfinata per poter decidere dove come e chi far costruire in futuro e un amnistia per quanto riguarda gli scempi passati e quelli attualmente in programma”.
Le stesse associazioni ambientaliste adesso, come detto, prendono le distanze dalla loro “creatura”, con tanto di appello inviato a tutti i deputati. “Nel ribadire l’urgenza di una legge efficace, fondata su principi giusti, rigorosi e condivisi – si legge – le chiediamo, di nuovo, di impegnarsi personalmente perché nel testo che state per discutere vengano inseriti dispositivi essenziali per compiere un decisivo passo verso una inversione di rotta non più procrastinabile. Se non lo ritiene possibile, piuttosto che approvare una legge del tutto inadeguata allo scopo che si propone, le chiediamo di fermarsi, per tornare a lavorare ad un nuovo ed efficace impianto legislativo sulla scorta di quanto proposto dal Forum Salviamo il Paesaggio, così da dimostrare al Paese la volontà di voler davvero arrestare, anche se in modo progressivo, il consumo di suolo”.
Non è detto, tuttavia, che questo testo abbia strada spianata. Ncdinfatti non vuole portarlo in aula e chiede di rinviarlo ancora. A questo si aggiunge la “contrarietà” dell’Anci che solo ora, a pochi giorni dall’arrivo in Aula, ha prodotto una nota di sei pagine elencando tutte le sue perplessità. L’associazione guidata da Piero Fassino chiede di modificare (ancora) la definizione di “superficie agricola”, di semplificare il calcolo delle quote di suolo consumabili e di prevedere una norma di raccordo tra il ddl e la normativa. Secondo Agricolae i timori dell’Anci sono riconducibili agli investimenti edilizi sul territorio che “sembrerebbe constino di circa un miliardo di euro in pancia alle banche”. Soldi e risorse che potrebbero essere messi a rischio proprio dall’approvazione della legge sul Consumo del suolo.
Riferimenti
La posizione pesantemente critica di eddyburg sulla proposta legislativa oggi in discussione, sul suo impianto e sulla sua assoluta inefficacia ai fini del blocco del consumo di suolo inutile è stata argomentata più volte. Vedi per tutti l'eddytoriale 169 e i numerosi testi ivi collegati