«Lo stop del TAR al piano approvato dalla Regione, accolti sei punti dei comitati contro il raddoppio della pista di Peretola: eccessivo impatto ambientale ». Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2016 (c.m.c.)
Un esperto della fragilità delle nostre terre e di cò che va fatto per ridurne i rischi critica il chiacchiericcio delle proposte mainstream e indica le vie della saggezza e dell'esperienza. Associazione Bianchi Bandinelli online 9 settembre 2016
Ancora una volta, dopo la tragedia di Amatrice, la TV e la rete sono sommerse di dichiarazioni del giorno dopo da parte di autorevoli fonti del governo e della politica sull’intenzione di mandare a definitiva soluzione il problema del “rischio simico”. Di fronte al piglio risoluto, decisionista, ormai consueto, con cui è proposto l’impegno, i cittadini sparsi lungo la penisola – ai quali l’ultimo disastro ha ricordato che dalle loro parti il terremoto tira – non possono che aprire una partita di credito.
Ennesime delusioni? Probabilmente sì se si dovesse dar retta ai primi spartiti suonati sugli organi d’informazione: il libretto del fabbricato e il programma Casa Italia al quale un numero imprecisato di generazioni si dovrà dedicare per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio italiano, ma anche affrontare il problema delle periferie, degli impianti sportivi e del risparmio energetico.
Per rendere meno catastrofici i terremoti che verranno si ritiene sufficiente promettere un po’ di soldi all’anno per tanti anni da spalmare su tutto il territorio nazionale e su un coacervo di temi. Soldi che le regioni si divideranno, che poi ciascuna distribuirà tra i comuni e qualche altro centro di spesa. Finanziamenti della cui stringente finalizzazione nessuno sarà più davvero consapevole, così come nessuno sarà responsabile del loro monitoraggio e controllo.
Ogni terremoto, ogni emergenza, ogni ricostruzione ha impartito una lezione di cui chi ha governato avrebbe dovuto tener conto, con la forza e la determinazione necessaria. Dal Belice nel ’68 fino alla scossa del 24 agosto, con in mezzo il Friuli, l’Irpinia, l’Umbria-Marche, San Giuliano, L’Aquila, l’Emilia e tanti altri eventi solo un po’ meno severi, sono stati spesi 150 miliardi di Euro per ricostruire e, soprattutto, è stato pagato un altissimo tributo di vite umane.
Nei giorni luttuosi di Amatrice, Accumoli e Arquata, si è detto di tutto sulla necessità di trovare una soluzione alla irrisolta fragilità di case, scuole, caserme, strade, chiese, ospedali; ma da quelle parti, dove si sapeva davvero bene che il terremoto tira, sembra che nessuno si sia posto, almeno dopo L’Aquila distrutta nel 2009, il problema di individuare quante e quali criticità sarebbero drammaticamente emerse se un terremoto simile a quelli del passato si fosse ripetuto; e nemmeno che distanza vi fosse in quei luoghi dai livelli di accettabilità del rischio, e non solo per la violenza della scossa ma piuttosto per la irrisolta estrema vulnerabilità di case, scuole, ospedali, fabbriche, caserme, chiese e ponti.
Allora bisogna chiedersi perché, dopo tante promesse formulate e mai mantenute, non sia possibile, il giorno dopo, parlare di inevitabili perdite piuttosto che di inaccettabile strage. Il patrimonio edilizio si è dimostrato fragilissimo; la lunghissima applicazione della normativa sismica non ha dato quel che non poteva dare, ovvero la protezione dei centri storici, ma non ha nemmeno conseguito il risultato atteso: la protezione della vita umana negli edifici più recenti o sui quali si era recentemente intervenuti per migliorarli.
Le macerie di Amatrice, tuttavia, mostrano anche l’inefficacia degli altri strumenti di protezione messi in campo negli ultimi decenni, che stentano a raggiungere il loro obiettivo: la concessione di incentivi per la riduzione della vulnerabilità delle abitazioni, gli interventi sugli edifici strategici e sensibili, e poi l’irrisolta fragilità delle infrastrutture di collegamento viario essenziali in emergenza. Insomma, una sconfitta completa. Le analisi e le indagini che saranno fatte, anche dalla magistratura, spiegheranno perché tutto questo è successo. Dimostreranno probabilmente che la responsabilità non è della qualità degli strumenti messi in campo ma piuttosto del come sono stati utilizzati o del perché non sono stati utilizzati.
Ma la sostanza del problema, a fronte del fatto che l’inefficacia di quegli strumenti non è episodica ma sistematica, non cambia di molto: il paese resta enormemente vulnerabile, incapace di assorbire l’impatto di terremoti che si possono ripetere in alcune aree con intensità anche superiori di quella registrata a L’Aquila o ad Amatrice. C’è un enorme squilibrio tra la limitatezza delle risorse che possono essere impegnate e quelle necessarie per ridurre il rischio a cui sono esposte le popolazioni, i beni e il patrimonio storico, artistico e culturale del paese.
Sembra proprio il caso di sottoporre la strategia di riduzione del rischio sismico (ammesso che se ne sia mai perseguita una) a una verifica, e chiedersi se non si possa fare anche qualcosa di più e magari di diverso. Essendovi una certa urgenza, tenuto conto della frequenza con cui i terremoti distruttivi si manifestano, se i soldi sono pochi e le esigenze tante, il buon senso suggerirebbe di utilizzarli dove il rischio è maggiore. Più che continuare con logiche d’intervento su tutto il territorio nazionale, a pioggia, affinché tutti abbiano la loro parte, sarebbe consigliabile farsi guidare da scienza e conoscenza, operare delle scelte a costo di correre il rischio di non centrare sempre il risultato, ma con maggiori garanzie di non sprecare risorse. D’altronde quello di fare delle scelte, di assumersi responsabilità, è il compito di chi governa. Nelle strategie di riduzione dei tanti rischi che incidono su una comunità, in base alla loro dimensione, frequenza ed incidenza, è necessario scegliere come distribuire le poche risorse rispetto alle tante esigenze.
Ciò che è emerso nel dibattito post Amatrice è la riproposizione di interventi a tutto campo e, tra questi, anche un po’ di prevenzione sismica di durata secolare, confidando nella continuità dell’azione politico-amministrativa, senza considerare che nel frattempo un terremoto distruttivo ogni 5-6 anni colpirà il paese, (quasi) certamente dove è già passato. In due generazioni o in settanta anni ci saranno probabilmente una mezza dozzina di forti terremoti. Quando capiteranno qualcuno dirà agli impauriti cittadini superstiti che l’azione di prevenzione avviata dopo il lontano terremoto del 2016 ad Amatrice continua indefessa e che prima o poi il paese sarà salvo.
Lo Stato centrale, i governi che si succederanno, reperite le risorse riterranno di aver assolto alle proprie responsabilità. Spesso a voler promettere troppo si rischia di non ottenere nulla. Il piano Casa Italia che ha preso forma nei salotti buoni televisivi è certamente troppo ambizioso se confrontato con le dimensioni e la natura dei temi che si vogliono risolvere; troppo semplice ritenere che sia sufficiente diluire nel tempo un intervento molto complicato; ma anche troppo facile rispetto ai livelli di responsabilità che ci si deve assumere di fronte al ripetersi di eventi a carattere catastrofico. Se ritornano alla mente le parole del presidente Mattarella oggi, ma anche e soprattutto a quelle di Pertini ai tempi dell’Irpinia, si percepisce l’invito allo Stato, ai governi di ritagliarsi un proprio livello di responsabilità nell’azione di prevenzione dai terremoti, nell’indirizzamento, finalizzazione, controllo di legittimità e qualità dell’utilizzo delle risorse.
Ci si dovrebbe forse concentrare su quella stretta e lunga macchia più scura nelle carte di pericolosità riportata il giorno dopo Amatrice da tutti gli organi di informazione, che parte dal nord-est, corre lungo l’appennino e passa lo Stretto di Messina, fino a dilatarsi attorno all’Etna. Al suo interno sono circa 3000 i comuni a maggior rischio sismico; presi a gruppi accomunati dallo stesso destino rispetto al terremoto potrebbero diventare l’obiettivo di un diverso modo di promettere maggiore sicurezza: lo sviluppo delle conoscenze, la straordinaria evoluzione delle tecnologie di acquisizione, organizzazione e analisi dei dati, potrebbero certamente concorrere a realizzare una piccola rivoluzione.
Si potrebbe pensare che la previsione, la prevenzione e la pianificazione dell’emergenza non siano azioni da tenere separate come lo sono state finora. La previsione non è certo quella del quando un evento si verificherà, ma quella del dove può colpire e che cosa lì potrà accadere; un’azione di prevenzione diversa sarà proprio quella indirizzata dai risultati, limitati ma preziosi, di questa previsione. Sarà efficace una prevenzione che utilizzi gli strumenti di riduzione delle vulnerabilità in modo più incisivo, con interventi mirati e ordinati per priorità e su “oggetti” individuati. Infine la pianificazione dell’emergenza deve sviluppare scenari in grado di prefigurare un quadro dettagliato delle criticità che, un attimo dopo l’evento, debbono essere affrontate e risolte.
Amatrice è in un’area caratterizzata da una delle sismicità più elevate dell’Appennino centrale, non è ammissibile che possa rimanere isolata perché nessuno dei ponti che le garantiscono la raggiungibilità è sufficiente protetto dal terremoto; non è accettabile che a nessun livello di responsabilità si sia pensato a garantire le infrastrutture strategiche per il soccorso. Nel manifestarsi del terremoto diviene critico ciò che era già vulnerabile. Il piano d’emergenza può divenire uno strumento di individuazione puntuale della vulnerabilità, e uno strumento utile a definire, anche sul piano delle priorità, gli interventi di prevenzione.
L’utopia della “messa in sicurezza dell’intero patrimonio edilizio, ci volessero cent’anni”, sulla quale sono stati intrattenuti dai teleschermi i cittadini impauriti dall’ultimo disastro, potrebbe confrontarsi con la possibilità di adottare un approccio più circoscritto, concentrando le risorse nelle aree note a maggior rischio, attraverso programmi nazionali definiti, monitorati e verificati a livello centrale, attuati attraverso le regioni interessate e alimentati dal livello comunale. La prevenzione non si eserciterebbe più solo attraverso prescrizioni normative da applicare a porzioni di territorio accreditate di un determinato livello di sismicità, ma piuttosto attraverso una puntuale verifica di vulnerabilità di “oggetti” individuati dallo scenario di piano: non solo edifici e infrastrutture, ma anche sistemi, reti e funzioni di servizio.
Una scelta coraggiosa, fatta in modo innovativo in un paese che ha problemi diversi da tutti gli altri: la necessità di proteggere le sue popolazioni e al contempo di conservare integra la sua storia meno recente fatta di straordinari paesi appesi ai versanti, pieni di preziose testimonianze, di cultura e tradizioni. Nel momento in cui il dopo terremoto ripetutamente si consuma nella tragedia e genera la comprensione e la solidarietà del mondo, è forse legittimo trovare nuove strade, soluzioni diverse per ridurre la straordinaria vulnerabilità del paese, per cambiar verso davvero all’Italia rispetto ad uno dei suoi più gravi problemi.
«Quando la megalopoli sta in uno smartphone. Con una spesa di 40mila dollari hanno ridotto il traffico del sedici per cento in due anni». Continuano a proporre aspirine quando occorrono amputazioni, o maquillages quando servono pesanti ristrutturazioni. La Repubblica, 4 settembre 2016
Siede in un ufficio spoglio ai piani alti del City Hall, il municipio di Los Angeles. Di futuribile ha poco questo palazzo bianco del 1928, con al centro una torre che vorrebbe ricordare il mausoleo di Alicarnasso. Pesanti ascensori in legno con pulsantiere in ottone consumato, corridoi polverosi, vecchie scrivanie in ferro. E un primato in altezza, i suoi 138 metri, che gli fu rubato negli anni Sessanta.
Eppure per guardare il nuovo volto della città bisogna venire qui e parlare con Peter Marx. Cresciuto nel quartiere Parioli di Roma, il padre lavorava a Cinecittà, lo avevamo incontrato due anni fa quando era appena stato nominato chief technology officer della città di Los Angeles dal sindaco democratico Eric Garcetti. Carica propria di aziende private e non certo di un ente territoriale.
Lui è stato fra i primi. Subito dopo altre metropoli hanno iniziato a fare la stessa cosa, da Amsterdam a New York. Marx ha subito sposato la causa degli open data e messo online tutto quel che di digitale raccoglievano i vari dipartimenti. Oltre alla coordinazione fra i diversi uffici, da quel momento per i vigili del fuoco è stato molto più semplice sapere dove stavano intervenendo quelli del dipartimento dell’energia elettrica, la speranza era che qualcuno avrebbe usato le informazioni per creare servizi. Qualcuno proveniente dal privato.
«Cosa è successo da allora? Che abbiamo speso appena quarantamila dollari», esordisce lui. «Quello che ricordo di Roma è il traffico. Ed è la stessa cosa che si potrebbe dire di Los Angeles. Ma quando vivevo a Roma, da piccolo, non esistevano gli smartphone. Le faccio un esempio: qui Waze è usata da due milioni di persone su quattro milioni di abitanti.
Lo schermo del telefono è la nuova interfaccia della metropoli. Il sistema di trasporto è computerizzato, gli autobus hanno il gps e della metropolitana sappiamo esattamente dove si trova in tempo reale. Sappiamo anche dove ci sono lavori in corso, dove sta intervenendo la polizia, dove c’è una perdita nella rete idrica. Ma la segnaletica tradizionale è statica, immobile. Ogni eccezione all’ordinario richiede che venga portata quella mobile. Ed è inefficace: non avvisa chi sta partendo da casa che in un certo tratto ci sarà un rallentamento. Ci sono solo i semafori che cambiano colore. Quel che abbiamo fatto è stato dare a chi realizza le app ogni tipo di informazione: quali strade sono bloccate e quali hanno lavori in corso, orari delle scuole, percorrenza dei bus, tempi della metropolitana e dei treni».
Di fatto una nuova forma di segnaletica, personalizzabile e dinamica che arriva ai cittadini sull’unico apparecchio hi-tech che hanno di sicuro, lo smartphone, e che permette di ridurre i tempi di percorrenza dal 15 al 40 per cento secondo i casi. E di conseguenza anche l’inquinamento. Marx per certi versi è stato fortunato, per questo ha speso così poco. Los Angeles dal 1984, quando accolse i giochi olimpici, ha un sistema di gestione degli incroci. Serviva a sincronizzare fra loro i semafori. Nel tempo all’Automated Traffic Surveillance and Control (Atsac) sono stati aggiunti quarantamila sensori sparsi per la città, cinquecento videocamere, quattromila cinquecento semafori. «Tutto integrato», spiega lui. «Compresa una serie di semafori dedicati ai cavalli. Già, abbiamo anche quelli in alcune aree. Del resto questo è pur sempre il West».
E non si tratta solo del traffico della automobili private. Dai porti di Los Angeles passano merci con un valore pari a circa il 40 per cento dell’economia statunitense. È un flusso enorme e costante che investe le strade, le ferrovie e la rete di magazzini. Ma il tassello più importante di Atsac, ora, sono quei due milioni di persone che grazie al loro telefono diventano dei sensori. Di qui una infrastruttura pubblica collegata a un ecosistema privato che produce informazioni accurate in tempo reale attraverso delle app. E, a loro volta, le app comunicano al comune i dati dei propri utenti in forma anonima.
«Abbiamo iniziato a usare tecnologie predittive — prosegue Marx — per avvertire in base alle informazioni raccolte nel corso di questi due anni se un certo giorno si prevedono code e dove si verificheranno». Lo fanno anche in altri campi, quello dello streaming musicale, tanto per citarne uno, dove riescono a prevedere il successo di un brano analizzando come le hit del passato si sono diffuse.
«C’è chi crede che il problema del traffico si risolva costruendo nuove strade», conclude Peter Marx, «ma è come mettersi a dieta ascoltando il proprio stomaco. Il traffico cresce in quei casi, senza contare costo e tempi per ampliare le strade. A un certo punto si tocca il limite: aumentare la capacità non risolve mai il problema di congestione di un network». Marx e Garcetti operano però in una città americana. E le multinazionali che producono app per la navigazione sono tutte americane. Compresa Waze, di Google dal 2013. In una metropoli europea un’operazione del genere richiederebbe un po’ più di cautela.
Anche la Sardegna vive i fenomeni che portano alla distruzione dei patrimoni storici su cui poggiano le identità dei popoli. In Sardegna con una velocità maggiore che altrove, per le caratteristiche delle aree interne e le politiche dissennate sulle coste, prima e dopo la parentesi del governo Soru. La Nuova Sardegna, 30 agosto 2016
Mi capita d' estate di andare dalla costa occidentale dell'isola a quella orientale attraversando paesi, uno in particolare. Malinconico tour spinto dalla curiosità pure quest'anno, sotto Ferragosto. Speranzoso di ritrovarla, a metà mattina, quella riunione di anziani all'ombra di un un fico in uno slargo nel percorso. Da un paio d'anni non si vede (quasi) più nessuno lì nei pressi. Facile immaginare che quel gruppo in bianco e nero si sia sciolto. D'altra parte quel paese è quasi vuoto, chiuso e non per ferie, abbandonati i palazzetti più rifiniti, vessilli di un impegno civico orgoglioso. Lo so che un terremoto è un terremoto. Ma fa impressione pure la fine lenta di un paese, vedere la svalutazione progressiva di ogni sua parte, l' inutilità di tutto ciò che lo ha reso vivo, come quel riparo dal sole, minimalista, ma che ha ospitato più dibattiti del centro congressi di Alghero. Impressionante, più della diagnosi dei demografi sulla crisi di oltre 200 paesi sardi. Una settantina stanno peggio, la metà destinata a svuotarsi nel giro di 15-30anni. 0ltre un terzo del territorio coinvolto.
E si sa, la percezione del declino accelera lo spopolamento, specialmente di chi non ce la fa a sopportare disoccupazione + isolamento, “poca vita, sempre quella” è la sintesi di Lucio Dalla. E a poco servono gli appelli a “fare sistema”, tottumpare tutti insieme per risparmiare sui servizi.
L'allarme è stato lanciato da anni. Nell'indifferenza verso un troppo piccolo bacino elettorale. E per quanto sia un comune su cinque ad esaurirsi in tempi brevi, nessun tentativo di soccorso: la fine data per scontata come nella profezia del romanzo di Garcia Marquez, “il futuro non esiste, né mai è esistito sotto il cielo di Macondo”.
Succede anche altrove; ma è peggio in un'isola povera che si spopola anche nelle città, e dove le crescite sono spesso controsensi. Altro che due velocità! In realtà c'è una Sardegna che arretra per sparire. E un'altra dove lo sviluppo edilizio produce insediamenti invivibili, e non solo perché la terra si scioglie sotto i piedi quando piove più forte.
In fondo la sorte della Sardegna ha a che fare con questa schizofrenia, spiegata dal mercato immobiliare, un terrazzo di pochi mq sul mare che può costare quanto qualche ettaro di campagna a una trentina di chilometri verso l'interno.
Per questo vorremmo saperne di più su contenuti e progressi della strategia delineata nella delibera del governo regionale (marzo 2015), obbiettivo “un'inversione del trend demografico”. Vedremo com'è il programma per creare occupazione – lì e ora –, perché senza lavoro non ci sono ragioni che possano trattenere gli abitanti di quei paesi o attirarne di nuovi.
E poi i tempi, perché il tic tac del conto alla rovescia comincia a sentirsi. E se non si agisce finché c'è ancora qualche forza residua in quelle aree, credo che sarà complicato dare senso a vuoti incustoditi, a disposizione di incendiari e per scorrerie postmoderne, nel solco di quelle degli speculatori dell'energia.
Inimmaginabile la Sardegna senza i suoi paesi (il cui valore lo capisci dalla volontà dei terremotati marchigiani a ricostruirli dov'erano). Ed è ragionevole attendersi un impegno straordinario dello Stato (magari annunciato da un tweet di Renzi #lasardegna.nelcuore). E un impetuoso andirivieni tra Roma e Bruxelles delle autorità dell'isola, decise a farsi sentire, il piglio di chi raccoglie la sfida, tipo Al Pacino nel film, “dico quello che penso e faccio quello che dico”. Perché nessuno creda che ci basti un ripiego, che so, l'itinerario attrezzato delle ghost town per i turisti nei giorni no-mare.
Insomma servirebbe un capitolo dedicato allo spopolamento in ogni dossier riguardante l'isola. Pure in quello presentato a Sassari a luglio. E quindi un progetto, dove sia scritto chiaro quali risultati ci possiamo aspettare ed entro quanto tempo. Se non possiamo contare sulla passione, in €, che si mette per salvare una banca, dobbiamo pretendere che almeno si ristabilisca una dignitosa proporzione. In fondo si tratta di paesi, una storia che non può finire.
Nell'icona una foto di Gianni Berengo Gardin ripresa, a Carloforte
I disastri di un territorio fragile rivelati dai terremoti sono aggravati e spesso provocati dagli interventi sbagliati (a partire dalle grandi opere). I loro effetti sarebbero ridotti o scongiurati se i intervenire con politiche lungimiranti: ma una classe dirigente che privilegia gli affari sul buongoverno è incapace di comprenderlo e di farlo. Il manifesto, 25 agosto 2016
L’Italia, la parte più bella e più vera del suo territorio e delle sue comunità, si sta disfando. Manca la manutenzione, ordinaria e quella straordinaria. I danni e le vittime, i lutti e i costi provocati dall’ultimo terremoto ne sono solo l’ennesima conferma. Con venticinque milioni di abitanti che vivono in zone ad alto rischio sismico, niente è stato fatto né predisposto per prevenire tragedie e devastazioni, che a detta di tutti i geologi, avrebbero potuto essere evitate. Ma dove non arrivano i terremoti provvede il dissesto idrogeologico: in parte provocato dall’abbandono di terre, insediamenti e attività non sostenuti da interventi pubblici per garantire tutto quello che potrebbero dare al resto del territorio; in parte, ma soprattutto, provocato dalla cementificazione selvaggia: sia quella abusiva; sia contrattata o promossa direttamente da “autorità” che avrebbero l’obbligo primario di salvaguardare il territorio e invece lo svendono per “salvare” i bilanci; sia imposta dall’alto, con quelle Grandi Opere contro cui si battono (per ora senza successo, con l’eccezione della Valle di Susa) le comunità locali.
Quella delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi (per “far ripartire il paese”, che invece affossano) è una logica perversa che impregna la politica istituzionalizzata in ogni sua articolazione. Non ci sono solo il Mose (che probabilmente dovrà essere smontato e portato via, perché, come previsto, non funziona), il Tav Torino-Lione o il sottopasso Tav di Firenze (che non verranno mai realizzati dopo aver inghiottito centinaia di milioni) e tante altre opere incompiute o inutili (come l’autostrada Brebemi, dove non passa quasi nessuno).
L’area più a rischio del paese, il crinale appenninico centro-meridionale, invece di venir messo in sicurezza antisismica, verrà attraversato da un gigantesco gasdotto che dalle Puglie dovrebbe rifornire tutto il resto dell’Europa (e che una scossa sismica potrebbe far esplodere in qualsiasi punto del suo tracciato), da progetti di trivellazioni e geotermici mortiferi per la qualità del paesaggio e delle produzioni agricole, e dall’autostrada Orte-Mestre, che la mancanza di fondi aveva temporaneamente cassato, ma che ora, con la “flessibilità”, concessa dall’Ue, è stata resuscitata.
Ed è sempre la logica delle Grandi Opere quella che impedisce di affrontare il più urgente di tutti i programmi in cui dovrebbe impegnarsi l’Italia (insieme a tutto il resto del mondo): quello della conversione ecologica, e innanzitutto energetica, del paese. Perché sia la conversione ecologica che la manutenzione del territorio non sono fatte solo da tante piccole opere studiate a misura del territorio e delle esigenze delle sue comunità, come ormai hanno capito in tanti, mentre il governo da questo orecchio proprio non ci sente. Entrambe richiedono anche un’inversione della logica che lega la politica agli affari; al punto che, per l’attuale classe dirigente, dove non ci sono affari non c’è politica; oppure deve essere la politica a creare l’occasione di nuovi affari: spendendo denaro sottratto ai cittadini e alla soddisfazione delle loro esigenze, devastandone il territorio, promuovendo la corruzione, creando e mantenendo un universo di finti imprenditori che senza appoggi di Stato non saprebbero mettere insieme due mattoni (altro che liberismo!).
Quattro cose da fare
Come? Innanzitutto, contro il trend che ha caratterizzato gli ultimi decenni e che la riforma costituzionale di Renzi vorrebbe consolidare, va rivendicata piena autonomia fiscale e decisionale ai territori: ai Comuni, alle istituzioni del decentramento, alle unioni di piccoli Comuni che la legge prevede ma che non sono mai state fatte. E’ sul territorio, nelle comunità, che i problemi della vita quotidiana si conoscono, si possono individuare e tradurre in progetti; ed è lì che si può esercitare un controllo sulla loro selezione e realizzazione, promuovendo la partecipazione dal basso.
In secondo luogo bisogna valorizzare il sapere diffuso sul territorio: le comunità sono piene di saperi tecnici, di esperienze professionali, di passione e di conoscenze di qualche caratteristica del loro habitat, fondamentali nell’orientare il dibattito sulle iniziative da intraprendere, e il controllo su quello che viene fatto. La democrazia partecipata è anche e soprattutto questo.
In terzo luogo, bisogna far emergere una nuova imprenditoria. Inutile contare sulla trasformazione dei politici in finti imprenditori; o continuare ad accettare che l’imprenditorialità si trasmetta di padre in figlio. Quella serve solo, e neanche sempre, a perpetuare l’attuale assetto degli affari. Se invece si vuole promuovere una vera imprenditoria sociale, bisogna andare a cercarla là dove si sta già manifestando: nella capacità di far lavorare insieme un gruppo grande o piccolo di persone che condividono una o più finalità comuni.
Poi, ed è la cosa principale, bisogna distribuire il lavoro tra tutti e dare a tutti la possibilità di lavorare: a ciascuno secondo le sue capacità e le sue potenzialità. Solo il progetto di un grande piano nazionale (ed europeo) di piccole opere, finalizzato a creare lavoro aggiuntivo per chi non ce l’ha, come aveva proposto Luciano Gallino, può mettere in moto questo processo. Tutti vuol dire tutti: giovani e anziani (secondo le loro possibilità); uomini e donne; occupati e disoccupati; nativi, immigrati e profughi. Di cose da fare ce n’è per tutti, per tutti i livelli di professionalità, di capacità e di vocazione, e per molti anni.
I disastri e i lutti provocati dall’ultimo terremoto possono essere un’occasione per riflettere su questa prospettiva; per capire che la ricostruzione può essere pensata e realizzata in questo modo, invece di ripetere i disastri che sono state – e ancora sono – la falsa ricostruzione de L’Aquila, dell’Irpinia, del Belice. Non c’è niente di irrealistico nel voler seguire una strada diversa. Anzi, sarebbe sicuramente più efficace, un esempio per introdurre una logica diversa in tanti altri territori che non sono stati colpiti dal terremoto, ma che hanno anche loro da far fronte a grandi e piccoli dissesti.
In tre articoli il racconto di uno scempio programmato per infilzare l'Abruzzo con uno spiedo autostradale sventrando siti protetti e paesaggi incontaminati. C'è chi denuncia e resiste. Il manifesto, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
IL PIANO PER
SVENTRARE L'ABRUZZO
A Cocullo, nell’Aquilano, il casello autostradale dell’A25 è a circa un chilometro e mezzo dal paese. Duecentocinquanta abitanti («in estate di più»), circa mille metri d’altitudine, è borgo celeberrimo nel mondo per l’annuale processione del primo maggio, con la statua di San Domenico avviluppata da centinaia di serpi catturate, nelle precedenti settimane, dai suoi residenti, tra pietre e cespi d’erbe.
L’autostrada qui è arrivata neppure tanto tempo fa, nel ’78. «È una risorsa – dice il sindaco neo eletto Sandro Chiocchio -, soprattutto per il turismo, che è occasione da cogliere in una realtà che, di fatto, per crescere, deve sfruttare bellezze e tradizioni del territorio. Ora a rischio sono sia l’autostrada sia gli splendidi scenari montani».
Perché in ballo c’è un progetto del gruppo imprenditoriale Toto, che gestisce la rete autostradale A24 (L’Aquila-Roma) e A25 (Pescara -Roma), la cosiddetta «Strada dei Parchi» – dal pedaggio tra i più costosi d’Italia – «il più rapido collegamento diretto tra Tirreno e Adriatico, infrastruttura di trasporto di elevato valore economico e strategico», si legge nel sito internet della holding che intende sventrare e asfaltare l’Abruzzo, in lungo e in largo.
Il piano prevede infatti la realizzazione di varianti, assi di penetrazione e di interconnessione, tunnel a volontà con paesaggi annientati, costoni rocciosi bucati e falde che verrebbero intaccate in maniera irreversibile, con una “monumentale” perdita di acqua. Progetto che nasce dall’interesse di un privato e non da programmazione statale: dieci anni di lavori, interventi per 6 miliardi. Niente fondi pubblici ma aumenti certi dei pedaggi (inevitabili, perché il treno per compiere quello stesso percorso, su una monorotaia, impiega più del doppio del tempo) e la società promotrice in cambio guadagnerebbe la gestione del tratto autostradale per altri 45 anni (oltre ai 28 già stabiliti).
«Ricostruire invece che mantenere».
L’idea è di rimodulare l’autostrada esistente in «considerazione della classificazione di A24 e A25 quali opere strategiche per finalità di protezione civile». Inoltre – recita il progetto preliminare – c’è necessità «di adeguamento e messa in sicurezza dei viadotti e degli impianti in galleria». Per sopperire alle carenze e per ammodernare sarebbero necessari interventi di manutenzione straordinaria e invece… Invece si vuole smantellare e ricostruire, cambiando tragitto, aggiungendo, distruggendo.
Le carte, tra continue revisioni, raccontano di demolizioni di tronchi autostradali, apertura e chiusura di caselli, raccordi e svincoli elevati qui e là. È prevista la realizzazione di 10 tunnel, a doppia canna più corsia d’emergenza, per circa 50 chilometri complessivi, in zone altamente sismiche. Un progetto faraonico, con distruzione e stravolgimento irreversibile dei territori (nella mappa, in rosso in nuovi tratti da costruire). Per quali fini? Perché, secondo Toto, è più agevole rifare che aggiustare. Adeguare significherebbe, viene fatto presente, «cantieri sulla viabilità autostradale, con necessità di chiusura delle tratte soggette a lavori, con ripercussioni notevoli sul comfort di viaggio…». Per scongiurare ciò, ecco colate infinite di cemento e catrame.
Sulla nuova autostrada – viene ancora specificato – «la velocità massima potrà essere di 130 chilometri orari, come da legge, mentre attualmente la velocità media possibile è di 90 chilometri, per la presenza delle elevate pendenze longitudinali, per le alte quote». Queste le motivazioni addotte e gli ambientalisti si sono infuriati. «Si promuove il progetto – spiegano – ipotizzando risparmi di tempo immaginari e comunque di manciate di minuti e sostenendo che adesso la velocità media di percorrenza possibile è di 90 km/h come si legge nel parere favorevole di un dirigente della Regione Lazio! Con la nostra esperienza diretta fatta, più volte, con un misero Pandino e senza superare i limiti ci pare di poter smentire questo dato. Inoltre, allontanando l’autostrada dalla Valle Peligna, dalla Valle del Sagittario, dalla Valle del Giovenco, e dall’Alto Sangro, non si è calcolato che i tempi di percorrenza per molti cittadini aumenterebbero a dismisura».
Le montagne bucate
«Nel progetto – rileva il coordinamento “No Toto – Salviamo l’Abruzzo” che abbraccia decine di associazioni, comitati, movimenti, partiti e sindacati – oltre alle varianti, si prospetta una doppia galleria tra il territorio del Parco nazionale d’Abruzzo e Roccaraso, con traforo sotto la Montagna Grande e il Genzana. Ipotesi incredibile e costi assurdi per limitatissimi volumi di traffico. Le zone interne verrebbero letteralmente massacrate, con tunnel che andrebbero a martoriare gioielli ambientali unici in Europa».
Solo il massiccio del Sirente, dove c’è l’unico cratere da impatto di meteorite italiano, verrebbe devastato con un traforo di 12,75 km e con altre due gallerie di 2,3 km e 3,9 km che sarebbero collegate ad un viadotto sulle Gole di San Venanzio. I Monti Simbruini sarebbero perforati per 9,88 km. «Abbiamo sovrapposto i tracciati con i perimetri delle aree protette – sottolineano dal coordinamento – : sarebbero direttamente coinvolti il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise; il Parco regionale del Sirente-Velino; la Riserva del Monte Genzana e quella delle Gole di San Venanzio, senza considerare le riserve limitrofe: di San Domenico a Villalago e delle Gole del Sagittario». La Val Vomano (Teramo), che presenta ancora un po’ di agricoltura, sarebbe distrutta da 24 chilometri di strade «con consumo di suolo irreparabile e risibili vantaggi a fronte di spese assurde».
In Valpescara il comune di Spoltore e la frazione di Santa Teresa verrebbero separate da una bretella: quest’ultima sarà ridotta ad uno spartitraffico. Progetto avallato dalla Regione Abruzzo ma che il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha finora ricusato. E decine di Comuni – delle province di L’Aquila, Teramo e Pescara – sono sul piede di guerra. Grandi e piccoli. «Basta affacciarsi da queste parti – riprende il sindaco Chiocchio – per rendersi conto delle condizioni, da denuncia, in cui versano alcuni piloni autostradali. Se la cura dell’esistente è già scarsa, chi gestirebbe la costosissima manutenzione dei lunghi tratti che verrebbero dismessi? Siamo contro perché il progetto è deleterio e taglierebbe fuori l’intera zona dai principali collegamenti viari. Senza contare il disastro ambientale».
La Valle del Sagittario – con Cocullo, Villalago, Anversa – vanta ambienti esuberanti – con canyon ed eremi -, tutelati per le loro caratteristiche. È rifugio di animali selvatici, dai lupi all’orso bruno marsicano, che qui è autoctono. E che di sicuro, al bitume, preferisce ciliegi da razziare.
TUTTI CONTRO IL PROGETTO TOTO
TRANNE REGIONE E PD
«Cinquanta chilometri di tunnel, lunghi come cinque trafori del Gran Sasso. Parchi, riserve e aree protette deturpati. Impatti irreversibili, comunità isolate, connotati della regione modificati, sfigurati».
Il progetto del gruppo imprenditoriale Toto di abbattere e in parte rifare le autostrade A24 e A25 ha «incocciato» la resistenza di un Abruzzo deciso a bloccare la proposta. «Abbiamo una visione alternativa della gestione del territorio – dicono gli ambientalisti, i primi a scendere in campo dopo essere riusciti a scovare mappe ed elaborati tecnici nascosti a lungo dalla Regione – ed è basata sul rilancio del trasporto pubblico collettivo, a partire dalle ferrovie, e sul risanamento del territorio, l’unica vera grande opera necessaria: dalla depurazione alle bonifiche, passando per il dissesto idrogeologico».
Invece piace tanto alla Regione Abruzzo il progetto e, in particolare, piace al presidente Pd Luciano D’Alfonso, che spinge e accelera.
In Regione, con delibera 325 del 5 maggio 2015, per seguire la faccenda, è stato istituito un Gruppo interdipartimentale che, il 6 giugno scorso, ha emesso un primo parere tecnico favorevole. Questo nonostante esistano più versioni del progetto (l’ultima del 13 aprile) e che una nuova sia in fase di predisposizione. Senza sapere quali saranno le variazioni, senza interpellare le comunità locali, tenendo ben celati pezzi di documenti e delibere, è stato detto sì ai mastodontici interventi.
Pur rilevando, comunque, che bisogna considerare «l’impatto delle gallerie a livello idrogeologico, anche in relazione alle problematiche che emersero durante la realizzazione del traforo del Gran Sasso». E pur evidenziando che l’autostrada in programma attraversa almeno tre «faglie pericolosamente attive» (del Fucino, dei Monti Capo di Moro-Ventrino e della Valle Subequana), quindi sarebbe un percorso «ad alto rischio sismico rispetto all’attuale tracciato». Anche per ciò il fronte del no cresce, si allarga giorno dopo giorno, è ampio ed è trasversale, anche a livello politico. Per le ragioni più disparate.
«Le decine di chilometri di scavi attraverserebbero montagne carbonatiche letteralmente piene d’acqua, la risorsa più preziosa – sottolinea Augusto De Sanctis, del Forum Acqua e coordinamento «No Toto» -. Stiamo parlando del patrimonio idrico con cui ci dissetiamo e che alimenta fiumi e sorgenti utili a industria ed agricoltura. Ebbene, considerando solo i trafori, sarebbero toccati almeno 10 corpi idrici sotterranei di interesse, più di un terzo di quelli dell’Abruzzo e tra i più significativi, un’enormità nell’epoca dei cambiamenti climatici. Ricordiamo – viene aggiunto – che il traforo del Gran Sasso, che ha comportato danni irreversibili alla falda abbassandola di 600 metri, era lungo solo 10 chilometri».
Contro, finora, si sono espressi Forza Italia, Ncd, Abruzzo Futuro, Sel- Sinistra italiana, Radicali, Italia Unica, Rifondazione comunista. Il Partito democratico è (come al solito) spaccato. Si oppongono Cgil e Cobas.
Il Movimento 5 Stelle ha presentato un’interpellanza parlamentare urgente per avere lumi. E, in risposta, dal ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, l’opera è stata definita «non sostenibile sotto il profilo tecnico, amministrativo, giuridico ed economico-finanziario». Fa presente il deputato grillino Gianluca Vacca: «È stata di fatto certificata la totale mancanza di qualsiasi presupposto normativo e amministrativo, confermando che gli unici lavori possibili sono appunto quelli di manutenzione e messa in sicurezza dell’attuale percorso, per un investimento totale stimato di circa un miliardo».
«Un progetto di tale portata calato sul territorio senza informare le istituzioni locali, senza chiarezza, senza confronto: è inaccettabile», tuona il sindaco di Sulmona, Annamaria Casini, che guida una coalizione di centrosinistra e dal cui Consiglio comunale è arrivata una unanime bocciatura all’iniziativa. «Insieme ad altri trenta Comuni, per capirci di più, per approfondire, stiamo promuovendo riunioni, anche di carattere tecnico scientifico. Di fronte ad interessi imponenti, bisogna tenere alta la guardia. Il territorio lavorerà coeso, per evitare di essere deturpato, pensando al proprio sviluppo. Altrimenti chi ci difenderà?».
GLI INTRECCI
DEL POTERE CEMENTIZIO
«Dati i notissimi legami Luciano D’Alfonso-Toto, confermati dai procedimenti giudiziari che li hanno riguardati e li riguardano, il presidente della Regione Abruzzo farebbe bene a dimettersi e andare a lavorare direttamente nel gruppo (anche il ruolo nell’Anas appare incompatibile)».
La stoccata, frontale, al governatore dell’Abruzzo parte da Maurizio Acerbo, di Rifondazione comunista, e l’occasione è data proprio dallo «scellerata trovata di Toto di adeguamento dell’autostrada A24/A25».
Un progetto inopportuno, secondo Acerbo, e «D’Alfonso – afferma – da esperto di infrastrutture e dirigente dell’Anas non può non sapere che l’operazione che sta sponsorizzando rappresenta una forzatura enorme, anche sul piano normativo e non solo su quello dello scempio ambientale».
L’accoppiata Toto-D’Alfonso, come ricorda l’esponente di Prc, è sinonimo di intrecci affari-politica che più d’una volta sono finiti all’attenzione della magistratura. È ancora in corso il processo sulla strada fantasma Mare-Monti a Penne, nato in seguito a proteste di Wwf e Prc e che ruota intorno ad un appalto da 22 milioni di euro, che prevedeva la realizzazione di un viadotto che sarebbe passato nel perimetro della riserva naturale del lago di Penne. Area protetta salvata dall’intervento di Forestale e carabinieri. «Quasi un’anticipazione – dice Acerbo – della mega devastazione che oggi, con questo nuovo progetto, propongono».
Risale invece al 2008 l’arresto di D’Alfonso, allora sindaco di Pescara e segretario regionale del Pd, per presunte tangenti in appalti pubblici. Tra i 21 indagati – per concussione, corruzione, falso e abuso – anche il patron di Air One, Carlo Toto, suo figlio Alfonso e tecnici del Comune.
Secondo l’accusa i Toto avevano riempito il primo cittadino di regali per ottenere lavori, tra cui l’affidamento in concessione dei parcheggi dell’area di risulta a Pescara. Alla fine – nel cosiddetto processo “Housework” perché in ballo c’erano anche interventi alla villa di D’Alfonso – è stato acclarato, con sentenza di assoluzione, che tutti quei “doni” a D’Alfonso c’erano stati ma erano conseguenza di un’amicizia di vecchia data: un’auto con autista per tre anni, dal settembre 2004 al gennaio 2007, pagata dai Toto; voli gratis sulla compagnia area di proprietà, pranzi e cene per circa 11 mila euro, viaggi, benefit, contributi. «D’Alfonso, che si è avvalso anche della prescrizione, è operativo più di prima.
Di recente – sottolinea Acerbo – ha infatti annunciato quella che ha definito una nomina storica, ossia quella di un architetto abruzzese nel Consiglio superiore dei Lavori pubblici (Gianluca Marcantonio, ndr).
Per la prima volta – ha detto D’Alfonso – un abruzzese entra nell’organismo. E guarda caso l’illustre designato è stato testimone della difesa in un suo processo. Dato il rapporto con D’Alfonso non so se questa nomina gioverà all’Abruzzo, – conclude Acerbo – considerato il ruolo che il presidente sta svolgendo di sostegno a progetti al di fuori della programmazione regionale, come quello dell’A24/A25».
«la creazione di un modello di accoglienza per richiedenti asilo, il sindaco di Riace Mimmo Lucano va avanti su un un’altra questione vitale: l’acqua come bene comune». Il manifesto, 17 agosto 2016 (c.m.c.)
E’ stato in marzo che il magazine Fortune ha inserito fra le cinquanta personalità più influenti del mondo, unico italiano, il sindaco di Riace per il suo impegno e lungimiranza nel costruire un modello di accoglienza per richiedenti asilo in grado di connettersi con piccole comunità calabresi a rischio di spopolamento. «La più grande opera pubblica che potevamo fare», commenta il sindaco.
Molti conoscono il modello di accoglienza di Riace (su questo giornale ne abbiamo scritto quando nacque nel lontano 1999!) , un modello che dimostra come i migranti potrebbero far rinascere le aree interne e spopolate del nostro paese.
Ma, come abbiamo proposto in altre occasioni ci vorrebbe un progetto su scala nazionale ed una nuova Riforma agraria che miri a recuperare case e terreni abbandonati ( e sono tanti non solo nel Sud), a far rivivere le botteghe artigiane, con l’inserimento lavorativo di italiani e migranti. Un progetto nazionale a cui Riace ha dato la prova che si può fare.
Di fronte alla sordità o ottusità dei governo nazionale il sindaco di Riace non si è arreso ed è andato avanti su un un’altra questione vitale : l’acqua come bene comune. Riace si sta liberando dalla dipendenza dalla Sorical, società mista con la multinazionale Veolia come socio privato, che in Calabria gestisce l’acqua pubblica e la fa pagare profumatamente ai cittadini, oltre a non investire nella manutenzione straordinaria di cui abbisognano i vecchi acquedotti della regione.
Un videro amatoriale presenta uno scroscio d’acqua violento che si abbatte su un secchio, acqua che spruzza, che deborda, che allaga tutto intorno, la scritta che accompagna le immagini dice: «Questa sorgente d’acqua ha visto la luce grazie al coraggio e perseveranza del sindaco di Riace Domenico Lucano, assistito dal geologo Aurelio Circosta, progettista e direttore dei lavori».
Non è stato facile, né tecnicamente, né dal punto di vista amministrativo. Sul piano tecnico, la falda acquifera è stata trovata in località Coltura, sinistra orografica del torrente Riace che collega l’abitato della Marina di Riace con il capoluogo comunale; dopo uno studio accurato condotto con elettrosondaggi, rilievi eseguiti nel dicembre 2015, grazie ad un lungo lavoro del geologo Circosta.
La relazione del geologo evidenzia il ritrovamento di colline argillose con una captazione della sorgente a 157 mt di profondità, mediante l’introduzione di una elettropompa sommersa è stato possibile valutare l’uscita dell’acqua di 25 litri al secondo.
Ma, come si poteva finanziare la ricerca e i lavori per il prelievo della falda, nonché la costruzione di una connessione all’ acquedotto comunale? Il ragioniere del comune di Riace mostrava al sindaco un bilancio preventivo 2016 dove non c’era un euro in più da spendere.
Con il coraggio che oggi è assolutamente necessario per gestire gli enti locali, Domenico Lucano decise di inserire in bilancio la metà del costo dell’acqua pagata alla Sorical nell’anno 2015, pari a circa 180mila euro, contando di terminare i lavori entro giugno 2016. In altri termini, il comune faceva un investimento con denaro che non aveva, ma avrebbe avuto al termine dei lavori con il risparmio sul pagamento dell’acqua nel periodo luglio/dicembre 2016.
Il sogno si è avverato. L’acqua è oggi a Riace davvero un bene comune e presto i cittadini ne vedranno chiaramente i benefici anche sul versante della spesa familiare (si stima un risparmio per famiglia di circa il 70% sulla bolletta dell’acqua).
E si tratta di un’acqua potabile, certificata, migliore di quella distribuita dalla Sorical. E’ stato possibile collegare il pozzo in località Coltura con una condotta del diametro di 200 mm e lungo 2500 mt. La potabilità dell’acqua viene rilasciata con certificato dall’Azienda sanitaria provinciale di Siderno il 24 maggio del 2016 «esito di conformità ai parametri di legge».
L’Arpacal evince la mancanza di minerali pesanti, di antiparassiti, di idrocarburi, batteri e composti organici, un aspetto positivo, segnala Circosta, da attribuire alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche del giacimento, l’acqua protetta da una coltre argillosa impermeabile che garantisce l’impossibilità alla contaminazione da agenti inquinanti e assicura la potabilità per il presente e il futuro.
Era il 2009 quando un campo di lavoro dell’Arci ragazzi provenienti da molte parti d’Italia aveva visto decine di giovani lavorare sotto il sole per costruire murales, uno di questi riguardava la casetta con fontanella e la scritta «Acqua bene comune». Nel Il paese dei Bronzi (2010) di Vincenzo Caricari, uno dei primi documentari su Riace, testimonia un consiglio comunale dove il sindaco di Riace propone di inserire nello Statuto «l’acqua è un bene pubblico e tale deve rimanere».
Altri comuni calabresi, in testa quelli della Sila e preSila, stanno seguendo la stessa strada, territori ricchi d’acqua finora malgestita (numerose le interruzioni di forniture idriche) e sfruttata da privati e politici corrotti.
«Dopo che il Tar ha bocciato il progetto di scalo intercontinentale caro a Renzi&Carrai, il sindaco Nardella e il viceministro Nencini replicano che alla fine decideranno i ministeri dell'ambiente e dei trasporti. Con un accentramento dei poteri a livello centrale ben definito nella riforma costituzionale su cui a novembre ci sarà il referendum».Il manifesto, 10 agosto 2016 (c.m.c.)
Il Tar boccia, per i tanti motivi che i lettori del manifesto ben conoscono, il progetto dell’aeroporto intercontinentale fiorentino tanto caro alla premiata ditta Renzi&Carrai? Poco male: «Tanto a decidere sarà il ministero». Questa chiave di lettura, esternata da Toscana Aeroporti, rende bene l’idea di quanto per i padroni del vapore sia seducente l’idea dell’accentramento dei poteri a livello centrale, messo nero su bianco nella riforma costituzionale su cui a novembre si terrà il referendum.
All’indomani della decisione dei giudici amministrativi, la riprova arriva con le parole del viceministro Riccardo Nencini: «Ho sentito il ministro Galletti, la sentenza del Tar non incide sul procedimento di valutazione di impatto ambientale in corso al ministero dell’Ambiente». A fare eco a Nencini ecco Dario Nardella: «Il piano bocciato dal Tar è stato superato: c’è un nuovo piano approvato dall’Enac. Quindi resta valido il percorso avviato con la valutazione di impatto ambientale che attendiamo dal ministero dell’ambiente, e la successiva conferenza dei servizi del ministero dei trasporti: il piano dell’aeroporto, sul quale il Tar non è intervenuto, va avanti». Insomma per Nardella, Nencini, e Toscana Aeroporti, decidono solo i ministeri.
Intanto però Guido Giovannelli, avvocato dei comitati no aeroporto, Medicina democratica e Ordine degli architetti di Prato, che hanno fatto ricorso contro la variante al Pit (Piano regionale integrato del territorio) che ha inserito la pista di 2.400 metri parallela all’autostrada A11, ha già inviato una diffida al ministero dell’ambiente: «Non può procedersi a Via – spiega Giovannelli – in quanto la Vas, la valutazione ambientale strategica che ne costituiva il presupposto normativo a livello regionale, è stata annullata dalla sentenza. Dunque la Via ministeriale, a queste condizioni, potrebbe essere solo negativa, venendo meno i suoi stessi presupposti, o sospesa, in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato sulla vicenda».
A seguire, proprio sul tema dei rapporti fra governo centrale ed enti locali, l’avvocato osserva: «Ho letto e sentito commenti secondo o quali questa pronuncia non cambierebbe nulla. Devo dire che trovo questa posizione contraddittoria. Se così fosse, non si penserebbe a fare ricorso al Consiglio di Stato. Cosa che è stata immediatamente annunciata». A partire da Enrico Rossi: «Ci appelleremo convinti delle nostre buone ragioni, la sentenza è confusa». Continuando con il presidente dell’assemblea toscana, Eugenio Giani: «Sono d’accordo che la Regione impugni la sentenza; ci aiuterà anche a capire che cosa fare per perfezionare gli atti amministrativi. Io sono per votare anche subito una variante che tenga conto delle decisioni del Tar».
Fra queste, come un macigno, spicca anche il problema di Castello, l’area oggi di proprietà di Unipol che ha un piano urbanistico, approvato da Palazzo Vecchio & c., con tutti i permessi a costruire già firmati: «Non risulta possibile approvare il progetto e al tempo stesso far salva la compatibilità con le previsioni urbanistiche» di Castello, scrivono i giudici del Tar, che sul tema accolgono le critiche di «carenza di istruttoria, travisamento dei fatti, contraddittorietà e illogicità manifesta». «E chiaro quale sia l’interesse pubblico predominante», replica Nardella. Interesse pubblico? Nella zona solo la Scuola Marescialli dei Carabinieri è già costruita. E ricadrà nella zona dove il rumore sarà a ben 55 decibel. Auguri ai militari dell’Arma.
«Lo stop del TAR al piano approvato dalla Regione, accolti sei punti dei comitati contro il raddoppio della pista di Peretola: eccessivo impatto ambientale ». Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2016 (c.m.c.)
L’aeroporto di Renzi rischia di precipitare. «Il Tar ha accolto sei punti del ricorso presentato dai comitati», racconta l’avvocato Guido Giovannelli che ha curato l’azione legale contro l’infrastruttura voluta dal premier e dal governatore Enrico Rossi. Con Marco Carrai, fedelissimo del premier, a presiedere la società. E adesso il progetto rischia di fermarsi o di andare avanti con tanti paletti che ne cambieranno il volto.
I punti chiave della bocciatura? «Tanto per cominciare – spiega Giovannelli – la compatibilità della nuova opera con il Parco della Piana. Poi l’inquinamento dell’aria, perché – fanno intendere i giudici – non si possono fare studi su opere che non ci sono ancora. Infine la sicurezza idraulica della zona». Dubbi di cui il Fatto ha già più volte dato conto.
E che erano contenuti anche in un dossier presentato da professori universitari. Spiega Giovannelli: «Il Tar ha annullato il piano di indirizzo territoriale regionale nella parte in cui fissa l’ampliamento dello scalo secondo lo schema della pista parallela-convergente rispetto all’autostrada». Nelle 70 pagine della sentenza si legge: «Ogni prospettato intervento sul reticolo idrico, sul parco o sui boschi produce conseguenze rilevanti in termini di sostenibilità ambientale, la cui valutazione non può essere spostata alla successiva fase di Via».
È la questione sollevata dai comitati: la Valutazione di Impatto Ambientale che arriva a giochi fatti. Una prassi irrituale. Scrive il Tar: «La scelta della pista parallela convergente» con l’autostrada, «comporta una importante diminuzione sia del numero che della superficie totale delle zone umide». Una manciata di righe che, però, imporrebbero una radicale rivisitazione progettuale. Quindi, a pagina 42, il problema dell’inquinamento. In un’area dove oltre allo scalo aereo c’è un’autostrada.
E poi c’è la questione del termovalorizzatore: «Particolarmente delicata si presenta la questione dell’impatto» ambientale, «già l’attuale condizione della piana fiorentina presenta condizioni di criticità in ordine alla qualità dell’aria». Una zona delicatissima anche per l’equilibrio idrogeologico: «La complessità e l’incisività degli interventi previsti, in termini di interferenze con la rete delle acque, avrebbe richiesto, in forza del principio di precauzione, un’esauriente valutazione di sostenibilità ambientale, che invece è stata differita alle fasi successive».
I giudici concludono: «Il principio di precauzione in materia ambientale fa sì che ad esito della valutazione di incidenza sia preclusa la realizzazione dell’opera che risulti pregiudicare l’integrità del sito o anche dia adito a dubbi sulla compatibilità con l’integrità del sito stesso».
Infine il nodo delle ville medicee, sito Unesco che rischia di essere compromesso dall’aeroporto. Il governatore Rossi contesta la sentenza: «Confonde la valutazione strategica con la valutazione di impatto ambientale. Faremo ricorso al Consiglio di Stato». Rossi è convinto: «La sentenza non fermerà l’aeroporto». I comitati, però, pensano di aver vinto: «È la fine dell’aeroporto voluto da Renzi».
«La città sogna di recuperare gli spazi abbandonati della grande fabbrica: l’area può diventare patrimonio dell’umanità. Intanto De Benedetti è stato condannato per sette lavoratori morti». Il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2016 (p.d.)
A Ivrea ci sono dei vuoti da colmare. Vuoti fisici e immateriali lasciati dalla fine della grande azienda che aveva reso la cittadina piemontese una capitale dell’economia e dell’innovazione grazie allo spirito di Adriano Olivetti. Riempirli potrebbe innescare nuovi processi. È l’obiettivo fissato dalla città alcuni anni fa con la candidatura all’Unesco, che nel 2018 potrebbe riconoscere l’area che ruota intorno a via Guglielmo Jervis patrimonio dell’umanità come “città industriale del XX secolo”. Ivrea, però, deve fare il conto con la realtà: il 18 luglio scorso Carlo De Benedetti e altri ex amministratori sono stati condannati per le malattie e i decessi di alcuni ex dipendenti provocati dall’amianto. La procura, inoltre, sta indagando su altri casi. Stesso marchio, Olivetti, ma due storie diverse: quella di Camillo e Adriano, da valorizzare, quella di De Benedetti e altri, da dimenticare.
“Questa Vicenda è un po’rimossa”, racconta Vanda Christillin, insegnante, figlia di impiegati Olivetti che hanno acquistato una delle villette costruite per i quadri, dove la signora abita ancora. “Si pensa che non sia una questione dell’azienda, ma dell’amianto, che in quegli anni era ovunque”. E continua: “La storia dell’Olivetti sotto De Benedetti è diversa: non c’era la dedizione ai lavoratori dei tempi di Adriano e quando lui non ha avuto i rendimenti sperati, l’ha lasciata”. Così si sono svuotati gli stabilimenti di via Jervis e molte stanze di Palazzo Uffici. Il fantasma dell’amianto, però, è restato a lungo prima di dare segnali e prima di essere estirpato: “Già durante la preparazione della candidatura ne abbiamo tenuto conto tra i fattori critici - dichiara il sindaco Pd Carlo Della Pepa -. Siamo intervenuti sugli edifici pubblici, l’ex asilo aziendale,la sede dell’Agenzia regionale di protezione ambientale (Arpa) o le aree della officine Ico (Ing. Camillo Olivetti, ndr) con le facoltà universitarie”. Per gli altri edifici, spetterà ai privati.
“Entra nella storia della tua città”. Con questo slogan uno dei fondi immobiliari informa che “sono disponibili in vendita o in locazione luminosi uffici”. Da più di un anno il cartello è esposto sul “Centro servizi sociali” progettato dagli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, che - su impulso di Olivetti - dagli anni Trenta hanno plasmato quest’area con linee razionaliste e moderniste simili a quelle di Frank Lloyd Wright, Mies Van Der Rohe e Le Corbusier. Nei tempi d’oro era un edificio dallo spirito tipicamente olivettiano, che offriva, oltre ai servizi sociali e assistenziali, anche la biblioteca aperta fino a tardi per i dipendenti della Olivetti e gli abitanti di Ivrea. Ora molti locali sono abbandonati. Di fronte ci sono le officine Ico, dalla più antica in mattoni rossi, progettata da Camillo Olivetti nel 1908, ai suoi ampliamenti (ancora opera di Figini e Pollini) dalle grandi vetrate. Oltre a uffici e magazzini, sono in vendita anche le case dei dipendenti. Con 210mila euro si può comprare una delle villette progettate da Figini e Pollini per i lavoratori con famiglie numerose, case da 210 metri quadri su due piani e 480 metri quadri di giardino. Se l’area avesse il bollino Unesco, la casa sarebbe esente dall’Imu e il valore crescerebbe. “Quasi il 60 per cento degli edifici olivettiani è vuoto”, afferma il sindaco. Renato Lavarini, coordinatore della prima fase della candidatura, aggiunge che “secondo uno studio dello Iulm di Milano il patrimonio Unesco aumenta il valore dell’immagine del 40 per cento”.
Il vuoto più difficile da colmare è però quello lasciato da Adriano Olivetti, morto il 27 febbraio 1960. Nel 1962 è nata la fondazione a lui dedicata con l’intento di mantenerne vivo il pensiero e quello della sua “Comunità”. A 100 anni dalla nascita dell’azienda, la fondazione ha proposto la candidatura: “Ciò che ci interessa è l’aspetto immateriale – dice il segretario generale Beniamino De’ Liguori Carino, nipote dell’imprenditore. Quegli edifici sono i simboli di quello spirito”. “Non candidiamo soltanto i singoli edifici, ma un modello di città”, aggiunge Matilde Trevisani, project manager dell’ente. Se diventare patrimonio Unesco è possibile, sembra impossibile ritrovare imprenditori come lui: “Tanti hanno elementi simili, ma quel modello non è replicabile”, dice De’Liguori Carino. “Penso che sia impossibile ricreare quell’ambiente, ma vogliamo promuovere gli asset - dice Della Pepa - per creare le condizioni utili alle start up. D’altronde abbiamo già l’Interaction Design Institute e l’Arduino: speriamo che tra dieci anni via Jervis, definita da Le Corbusier ‘la via più bella del mondo’, possa attirare aziende e professionisti innovativi. La museificazione non serve a nessuno, men che meno a Ivrea”.
Palermo quell'emendamento, solo tre mesi fa, veniva sventolato dagli abusivi di Licata che si opponevano alle ruspe con i propri figli in braccio. Quell’emendamento, appena riveduto e corretto, martedì potrebbe diventare legge all’Assemblea siciliana, vanificando gli sforzi fatti nell’Isola per far partire le demolizioni. All’improvviso, nel sonnecchiante parlamento regionale piomba la sanatoria per tutte le costruzioni entro i 150 metri dalle coste.
A presentarla un plotone trasversale di 11 deputati capitanati dall’ex sindaco di Trapani Girolamo Fazio: ex forzista oggi al gruppo misto, quest’ultimo, che è diventato («Mio malgrado», dice lui) l’indiscusso fan di chi ha costruito in tutta l’Isola in violazione delle regole.
La proposta di Fazio di legittimare le abitazioni sul litorale era diventata, in primavera, l’argomento principale degli occupanti delle case da abbattere che avevano ceduto ai bulldozer dopo essersi resi protagonisti di incidenti e disordini. E dopo avere – paradosso tutto siciliano – denunciato magistrati e forze dell’ordine per abuso d’ufficio. Al sindaco di Licata, Angelo Cambiano, era andata ancora peggio: dopo quegli episodi gli avevano bruciato la casa di campagna, va tuttora in giro scortato.
In questo clima, «superconvinto» delle sue ragioni, Fazio ha portato avanti il suo emendamento pro-abusivi: prima in commissione, dove la sua disposizione è stata bocciata a fatica (4 no, 3 sì, 3 astenuti) e ora in aula, dove il deputato senza demordere si è rifatto avanti con un testo solo leggermente modificato.
La sanatoria è prevista ora per le case realizzate dal 1976 al 1985 – data del primo condono edilizio – ma nel frattempo i benefici si sono allargati, non più limitati alle sole zone “C”, quelle parzialmente edificate. Ed è previsto che non solo chi ottiene il condono, ma pure i familiari, possano ottenere un diritto di abitazione della casa abusiva. «Uno scandalo, una vergogna inaudita», ha tuonato Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente della Camera, che ha parlato con il ministro Gian Luca Galletti, il quale avrebbe promesso di attivarsi.
L’esito della nuova sanatoria è tutt’altro che scontato: il presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, ieri non ha escluso che l’emendamento possa essere dichiarato ammissibile e dunque andare ai voti, lanciando due allarmi non ingiustificati. Primo: «Se si procede con scrutinio segreto in aula può succedere qualsiasi cosa». Secondo: «Se la norma venisse approvata ci sarebbero danni incalcolabili anche in caso di successiva impugnazione del Consiglio dei ministri: prima del giudizio della Consulta, per un periodo almeno di un anno, in Sicilia ci sarebbe il liberi tutti».
Ma la voce di indignazione più forte è quella di un magistrato, il procuratore aggiunto di Agrigento Ignazio Fonzo che dopo 15 anni è riuscito a riportare le ruspe nella Valle dei Templi. Non esattamente un’impresa di poco conto: le demolizioni fra Agrigento e Licata sono scattate e andate avanti dopo una discreta pressione sui sindaci, minacciati di incriminazione per omissione d’atti d’ufficio in caso di mancata esecuzione di sentenze definitive che risalgono anche a venti anni fa. Il risultato? Simbolico. Ventitré edifici buttati giù, a fronte però di 22.100 abusi accertati dal 2009 al 2015.
E la top ten dei Comuni con il maggior tasso di violazioni edilizie sembra tratto da un’agenzia di viaggi: il mattone selvaggio ha conquistato lo Stretto di Messina e le contrade marsalesi, l’oasi del Simeto, le rovine greche di Siracusa e le ville barocche di Bagheria. Si registrano più nuovi abusi nelle isole Eolie (540) che in quattro capoluoghi (Caltanissetta, Ragusa, Enna e Trapani) messi insieme. I numeri dello scempio crescono, di molto, se si tiene conto delle domande di sanatoria: 770 mila.
Il cemento in Sicilia dal 1988 a oggi, segnala Legambiente, ha mangiato 65 chilometri di costa Ora nessuno sa, esattamente, quanti siciliani verrebbero premiati dall’ultimo emendamento che estende la possibilità di condono. Ma di certo gli abusivi continuano a rappresentare un elettorato molto rispettato in Sicilia. Gianfranco Zanna, presidente regionale di Legambiente, parla di «regalo d’estate ai predatori di coste» e ricorda le dichiarazioni rilasciate del ministro Angelino Alfano (agrigentino) quando andò a trovare il sindaco di Licata dopo l’attentato: «È finito il tempo della politica che coccolava gli abusivi per avere qualche migliaio di voti». Ma a firmare l’emendamento di Fazio, fra i sette deputati della maggioranza che sostiene Crocetta, ci sono tre deputati dell’Ncd. Ovvero il partito di Alfano.
«Le sentenze per lo scandalo di Elbopoli hanno condannato un prefetto, un giudice, due costruttori. E' stato sequestrato e demolito, ma dal 2013 i detriti restano lì. ». Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 29 luglio 2016 (c.m.c.)
Dopo la corruzione e l’abuso restano sempre le macerie. All’Elba non è nemmeno una metafora: l’ecomostro di Procchio – una delle 70 spiagge dell’isola – è stato tirato giù e fatto a brandelli, ma i detriti sono ancora lì.
I turisti non rimarranno delusi: troveranno anche questa estate, la quarta di fila, i calcinacci di quello sgorbio vista mare. Sentenze e condanne sono ammuffite, eppure le macerie di Elbopoli – il più grande scandalo giudiziario della costa della Toscana – restano lì. Le ruspe hanno buttato giù colonne portanti, muri maestri e anche responsabilità: tocca all’azienda che l’aveva costruito togliere quell’ammasso di pietre, eppure in tre anni nessuno è andato a battere alla spalla del titolare. Il sindaco di centrodestra di Marciana Marina, Anna Bulgaresi, eletta per la prima volta nel 2009, ci vuole provare ora con un’ordinanza, dopo aver visto che l’iter burocratico normale potrebbe far diventare quelle macerie reperti archeologici. «Gli operai della ditta dovrebbero iniziare intanto a pulire l’area, mentre per vedere i camion portare via le macerie si dovrà aspettare settembre, con la fine della stagione turistica». Ma per ora non c’è nemmeno l’ordinanza.
Lo sgorbio di Procchio, costruito nel 2003 a poche centinaia di metri dal mare, è un graffio in faccia a un’isola che si difende da decine di anni dall’arrembaggio dei pirati del cemento: quei detriti sono un monumento ai caduti e non è solo questione di paesaggio e spiagge da “liberare”. L’ecomostro è infatti un simbolo già dalle fondamenta, costruite in mezzo al corso originario del fosso Vallegrande. Ci sono quattro, cinque, sei canali che si ingrossano ogni volta che piove forte sull’isola e il Vallegrande è tra questi. Proprio quel fosso fu tra i responsabili dell’alluvione del 2011. Ma d’altra parte quell’emergenza (che causò un morto e milioni di euro di danni diretti e indiretti) fu la seconda in dieci anni, perché già nel 2002 l’isola andò sott’acqua. I lavori di messa in sicurezza, disse Legambiente dopo l’ennesima esondazione, non sono fatti per allontanare il rischio, ma per continuare a costruire dove il rischio già si è manifestato. Per anni gli 8 Comuni che governano i 223 chilometri quadrati hanno avuto piani strutturali singoli che – dicono gli ambientalisti – hanno permesso varianti, variantine, finte messe in sicurezza che hanno consentito cemento e infrastrutture e quindi consumo del suolo e terreni impermeabili.
Le macerie di Procchio dovevano essere un grande centro servizi: 7500 metri cubi, appartamenti, negozi, un parcheggio sotterraneo. Troppo grande. La Forestale lo segnalò, la Procura chiese il sequestro perché niente tornava con la licenza edilizia. Ma il giudice del tribunale non dette l’ok ai sigilli. Fu l’inizio dello scandalo Elbopoli che travolgerà – come se fosse un’esondazione del Vallegrande – due prefetti, un giudice, un sindaco, imprenditori, un funzionario comunale. La cricca prima del tempo delle cricche. Una bufera che sposterà i capelli anche a un ministro ora senatore, Altero Matteoli, lasciandolo però immacolato.
E’ l’estate del 2003 quando la guardia di finanza di Livorno ascolta le telefonate tra i proprietari e il progettista del centro servizi. Ma trovano un interlocutore in più: è proprio il giudice che ha negato il sequestro. Si chiama Germano Lamberti, è il capo dell’ufficio gip, ha presieduto il tribunale che ha emesso la prima sentenza sulla tragedia del Moby Prince, viene descritto come un uomo tutto d’un pezzo. Ma secondo i giudici ha un prezzo: poche ore prima Lamberti aveva ricevuto la richiesta del pm Antonio Giaconi di sequestrate tutto e ora suggerisce all’ingegnere progettista cosa serve per mettersi in regola. In cambio – dicono le sentenze definitive – avrebbe avuto un appartamento nel centro di Procchio e un altro a Cavo, altro angolo di serenità dell’isola. E allora risponde al pm che il sequestro va respinto. Il collega giudice che firmerà l’ordinanza del suo arresto scriverà: «Lamberti nel suo provvedimento ha affermato principi giuridici, fatti e circostanze, pur nella consapevolezza e convinzione che essi fossero del tutto errati e non corrispondenti alla reale situazione giuridica».
Il tempo di liberare il progettista – pochi mesi – che già lo riarrestano. Insieme a lui anche il prefetto di Isernia, Giuseppe Pesce, appena promosso dopo aver fatto il vice a Livorno e soprattutto il commissario prefettizio a Rio Marina, paese dall’altra parte dell’Elba, dal 2000 al 2001. Secondo i pm il viceprefetto Pesce ha concesso una concessione edilizia e una variazione di destinazione d’uso per far costruire un residence in un’altra zona spettacolare dell’isola, la ex Costa dei Barbari, a Cavo. In cambio, anche in questo caso, appartamenti a prezzo agevolato. Nella commissione edilizia chi c’era? Il progettista dell’ecomostro di Procchio. Nominato da chi? Dal prefetto Pesce. Infine il prefetto Vincenzo Gallitto. Subito dopo essere uscito assolto dal processo per la tragedia dell’alluvione di Soverato, riceve un altro avviso di garanzia, questa volta per corruzione, questa volta a Livorno. Lo accusano di aver fatto da intermediario tra i palazzinari e il giudice Lamberti. A lui, disse agli immobiliaristi, non dategli un appartamento sulla strada, piuttosto «sul dietro, dalla parte del giardino». In un’altra telefonata Lamberti rassicurava Gallitto sull’eventuale presenza di inchieste per abusi edilizi: ho controllato, spiegava il giudice, «non c’era niente». Non c’era niente perché tra gli indagati c’era anche lui e quindi l’inchiesta era già stata trasferita – come da prassi – da Livorno a Genova.
Dell’inchiesta – secondo la Procura – Gallitto seppe da qualcun altro, cioè dall’allora ministro dell’Ambiente Altero Matteoli. L’ex colonnello di An si è sempre difeso dicendo che in realtà aveva telefonato al prefetto per l’emergenza incendi e aveva chiesto a Gallitto se era vero quello che dicevano i giornalisti, cioè che c’era un’indagine. Ma nessun tribunale lo ha mai verificato perché il processo è morto in un attorcigliamento di conflitti di attribuzione, tra tribunale ordinario, tribunale dei ministri, voti della Camera, pronunce della Consulta. Il processo agli altri invece – tra varie partite di andata e ritorno – è finito nel 2013 quando la Cassazione ha confermato le condanne per gli imprenditori pistoiesi Franco Giusti e Fiorello Filippi a 3 anni e mezzo, il giudice Lamberti a 4 anni e 9 mesi e il prefetto Gallitto a 3 anni e 4 mesi. Tutti accusati di corruzione. Lo è anche il prefetto Pesce, ma il suo reato è caduto in prescrizione, così come quelli di altri imputati (in tutto a processo erano in 8).
Tutto finito, tutto risolto, dopo dieci anni? Macché. Nel giugno 2012 Regione e Comune annunciano che la struttura abusiva sarà demolita dopo 3 mesi e invece di mesi ne passano 9. Firenze ci mette oltre 5 milioni di euro per ricostruire tre chilometri di corso d’acqua, cancellati dalle urbanizzazioni degli ultimi trent’anni (ecomostro compreso). Da quel momento inizia il labirinto burocratico nel quale la responsabilità pare sempre di qualcun altro. «Lo spostamento delle macerie – spiega il sindaco Bulgaresi – era vincolato da parte della Provincia all’approvazione di un piano attuativo presentato dalla ditta con i dettagli della ricostruzione. Con le vicende giudiziarie, però, quella era tornata ad essere un’area ‘bianca’, e prima era necessaria una nuova pianificazione. Il futuro si deciderà con l’approvazione del nuovo piano urbanistico». Perché però l’attesa si è trascinata per anni? «Ce lo chiediamo anche noi – risponde Simone Barbi, consigliere del Pd, all’opposizione – Assistiamo a uno scaricabarile tra Provincia e Comune». La Bulgaresi sostiene di aver «aspettato perché sembrava che la proprietà avrebbe fatto qualcosa. E invece è passato un altro anno e non hanno fatto nulla. Adesso interverrò ordinando in maniera formale alla proprietà di rimuovere le macerie, poi si vedrà come procedere».
L’ordinanza, annunciata dal sindaco per il 13 giugno, non c’è ancora e ilfatto.it non è più riuscito a trovare il sindaco per capire perché. «Ci hanno comunicato che è stato avviato il procedimento per l’ordinanza. L’iter prevede di avvisare prima la ditta», fa sapere Barbi dall’opposizione. L’accelerazione del Comune – dopo tre anni – per il sindaco dovrebbe essere «una mossa per dare un segnale preciso: non possiamo ritrovarci la prossima estate con le macerie».
Perché il motivo principale delle lungaggini è il completamento della progettazione che dovrà ridisegnare tutta l’area. Il piano è in consiglio comunale, si attendono le osservazioni dell’impresa, che non è soddisfatta perché il Comune ha rivisto le cubature al ribasso, spostando dei volumi dagli appartamenti ai servizi. L’impresa che ha la concessione è rimasta la stessa di 13 anni fa. Nonostante l’ecomostro, lo scandalo, le condanne e la demolizione, la legge lo permette.
Un'analisi di alcuni scenari urbani e possibile soluzione per contenere il consumo di suolo. millenniourbano online, 18 luglio 2016 (c.m.c.)
Nel 2010 la superficie totale di tutto il mondo coperta da cemento, asfalto, suolo compattato, aree a parco e spazi aperti per uso antropico, ovvero tutto ciò che costituisce gli insediamenti urbani, è stata stimata in circa 1 milione di kmq: quasi due volte la Francia che si estende su 643,000 kmq.
La popolazione urbana che attualmente vive sulla terra è di circa 3,9 miliardi ma è destinata a crescere fino a circa 6,34 miliardi entro il 2050, su un totale globale di almeno 9,5 miliardi di persone, se si continuerà a consumare suolo per realizzare insediamenti. Si tratta di uno scenario che non è certo sostenibile.
Il continuo consumo di alcuni dei terreni agricoli di maggior valore al mondo nel processo di urbanizzazione del pianeta ha come conseguenza una costante riduzione della densità degli insediamenti urbani di circa il 2% annuo. Di questo passo la superficie coperta da insediamenti urbani potrebbe aumentare a più di 3 milioni di kmq entro il2050, una crescita che potrebbe minacciare le forniture alimentari mondiali.
E dal momento che i terreni agricoli più intensamente coltivati in genere si trovano vicino a dove la maggior parte dei il cibo viene consumato, ovvero le città, gran parte di questi ulteriori 2 milioni di kmq riguarda il suolo agricolo più produttivo. L’attuale urbanizzazione senza freni potrebbe quindi minacciare l’approvvigionamento alimentare a livello mondiale in un momento in cui la produzione alimentare è già non è al passo con la crescita della popolazione.
Un fattore determinante per il dilagare dell’espansione urbana – soprattutto in Nord America, dove il problema è particolarmente grave – è stato il basso prezzo del carburante delle automobili. Quando i prezzi del petrolio hanno raggiunto livelli record nel 2008, aggravando la crisi economica globale, i pendolari che usavano l’auto per recarsi al lavoro sono stati i primi ad avere problemi con il pagamento del mutuo.
Ma la maggior parte delle aggiuntivi 2,5 miliardi di persone che vivranno in aree urbane entro il 2050 si concentrerà nelle città del sud del mondo, in particolare in Asia e in Africa: il 37% di tutta la futura crescita urbana dovrebbe aver luogo solo in tre paesi: Cina, India e Nigeria.
In Africa la popolazione urbana, che è attualmente circa 400 milioni di persone, dovrebbero triplicare entro il 2050: una crescita che in tutto il continente genererà insediamenti urbani con una densità di popolazione relativamente bassa. Nelle città africane – in cui il 62% di tutti gli abitanti vivono in baraccopoli – la maggior parte dei baraccati è insediata in aree periferiche delle città che sono in continua espansione.
Anche in Cina la rapida urbanizzazione ha portato ad un’esplosione di insediamenti urbani informali, mentre in India, dove milioni di abitanti vivono negli slum all’interno delle aree urbane centrali (creando il fenomeno indiano abbastanza singolare di quartieri in cui poveri e la classe media urbana vivono insieme) si assiste ad una crescente sub- urbanizzazione della classe media che viene attratta nei nuovi insediamenti in costruzione attorno alle maggiori città del paese.
Tuttavia la crescita a bassa densità può anche essere evitata. Ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia dove l’80% della popolazione è ancora rurale, gli investimenti governativi stanno trasformando la città in senso diverso. Con i fondi e le competenze fornite da capitali cinesi un sistema di metropolitana leggera è stato costruito attraverso la città: impresa davvero notevole impresa visto che l’80% della sua popolazione vive in baraccopoli. Questo ha incentivato anche la classe media, oltre ai destinatari di alloggi di edilizia popolare, a vivere in insediamenti ad alta densità, in appartamenti realizzati in edifici multipiano che stanno iniziando a sorgere intorno alle stazioni del trasporto pubblico, riducendo così la necessità dei viaggi su strada con auto privata per coprire distanze maggiori. Il risultato è che Addis Abeba si sta densificando, dando l’esempio di ciò che è possibile fare in altre città che affrontano sfide simili.
La chiave di questa strategia di densificazione è il numero di persone che possono accedere al trasporto pubblico. E’ un aspetto che riguarda ad esempio anche una città come Johannesburg, da due decenni alle prese con la transizione dalle township della apartheid ad un modello di sviluppo urbano che sappia integrare ciò che prima era separato. Il numero degli utilizzatori del trasporto pubblico può crescere solo se si intensificano i posti di lavoro e le residenze attorno ai nodi del sistema. E’ una strategia che, unita alle iniziative per migliorare gli insediamenti informali piuttosto che costruire nuove case in periferie, ha contribuito in modo significativo a rendere più densa la città e a scoraggiare l’espansione promossa , a partire dal processo di democratizzazione del Sud Africa iniziato nel 1994, dagli immobiliaristi e dalle banche.
Ma una maggiore densità non è il solo strumento per combattere l’inarrestabile crescita urbana: Los Angeles ad esempio ha una densità media superiore a quella di New York , ma la prima, al contrario della seconda che comprende una rete di quartieri ad alta densità interconnessi da un sistema efficiente di trasporto pubblico, è considerata un modello urbano disfunzionale proprio perché fortemente dipendente dall’auto privata.
Al contrario l’amministrazione della capitale sud coreana, con il motto “Seoul è per le persone, non le automobili”, smantellando l’autostrada a otto corsie che attraversava il centro della città ha evitato di protrarne all’infinito l’espansione.
La Cina – che nel corso degli ultimi tre decenni ha urbanizzato centinaia di milioni di persone relativamente a bassa densità grazie alla realizzazione di “superblocchi” residenziali posti lungo ampie strade congestionate dal traffico e con pochi incroci per kmq – sta cambiando rotta in favore di una densità più alta, strade più strette e interconnesse, una maggiore e migliore presenza del trasporto pubblico.
Lo scenario del raddoppio della popolazione urbana mondiale entro il 2050,considerati l’aumento dei prezzi del petrolio e le limitazioni delle emissioni di carbonio rende l’espansione urbana un fenomeno sempre più insostenibile. Sradicare il consumo di suolo agricolo fertile e la crescita urbana indiscriminata a favore di città vivibili, accessibili grazie al trasporto pubblico efficiente, policentriche e ad alta densità dovrebbe diventare un impegno globale condiviso.
«L’apporto dei migranti può essere significativo proprio rispetto a quella cura del territorio e a quella preservazione del paesaggio culturale, che appaiono i requisiti fondamentali per uno sviluppo montano sostenibile in zone soggette a rischio idrogeologico». Informazione sostenibile, 19 luglio 2016 (p.d.)
Sviluppo del turismo e immigrazione straniera sono due fenomeni tra di loro in relazione da tempo in molte località delle Alpi italiane: in quelle più rinomate la presenza dei “migranti economici” è ormai consolidata, dal settore alberghiero alla ristorazione, dalle pulizie ai servizi alla persona, fino alla costruzione e manutenzione degli impianti di risalita. In anni più recenti, poi, i migranti hanno raggiunto anche le località montane meno note, ma connotate comunque da qualche forma di turismo, spesso caratterizzato per numeri contenuti di ospiti e dimensione slow dell’accoglienza: in questi luoghi gli stranieri trovano impiego in misura più ridotta nel comparto turistico, mentre perlopiù lavorano nel settore primario (agricoltura, taglio del bosco…), nell’edilizia, nel commercio (Dislivelli.eu, n.64/2016).
A questo fenomeno, ormai consolidato, si aggiunge da qualche tempo una novità di rilievo, che viene di fatto ad interfacciarsi con la dimensione turistica alpina: una seconda categoria di stranieri, i rifugiati, comincia infatti a popolare alcune di queste località montane “minori”, in conseguenza di politiche nazionali di smistamento e ricollocazione dei richiedenti asilo su tutto il territorio italiano.
Era dunque facilmente prevedibile che, da più parti, si sarebbe individuato nel fenomeno dei rifugiati una minaccia per il turismo alpino, in un periodo già connotato da perdurante crisi economica e calo delle presenze nelle strutture ricettive: sebbene ancora limitate, già da un paio d’anni si segnalano proteste in diversi comuni montani (di solito organizzate da forze politiche xenofobe) contro la collocazione degli immigrati sul territorio, anche laddove si tratti di piccoli gruppi, alloggiati in strutture dismesse o sotto-utilizzate.
L’arrivo dei rifugiati nell’arco alpino pone dunque nuovi interrogativi rispetto al nesso – già in atto e potenziale – tra immigrazione straniera e turismo: questa nuova popolazione di immigrati, che appartiene più che mai alla categoria dei “montanari per forza” (essendo normativamente costretti a vivere temporaneamente in montagna), viene infatti ad insediarsi in zone in cui spesso si vanno investendo risorse e aspettative per il mantenimento (o la costruzione) di identità montane “per scelta”, funzionali (almeno in parte) alla preservazione o invenzione di determinate immagini turistiche, nell’ambito di economie locali decisamente dipendenti dal mondo urbano. La dialettica tra costrizione e scelta rischia allora di assumere le forme della contrapposizione tra economia turistica (basata sull’offerta ai cittadini di beni culturali, come il paesaggio, e di servizi ad alto contenuto simbolico, come quelli ricettivi di tipo “sostenibile”) ed economia dell’accoglienza (legata invece alla sopravvivenza materiale in loco degli stranieri ospitati, con una caratterizzazione materiale e simbolica di segno ben diverso).
Come discuterò in questo articolo, non sono pochi i casi in cui questa contrapposizione potenziale si va risolvendo tuttavia in qualche tipo di relazione positiva, laddove l’inserimento sociale dei rifugiati diventa occasione per il rilancio innovativo, così come per la gestione ordinaria, di alcuni aspetti del turismo montano nelle località in cui gli stranieri sono stati accolti.
Nel suo complesso, la presenza straniera nelle Alpi italiane è cresciuta significativamente negli ultimi 10-15 anni: si tratta essenzialmente di soggetti che provengono dai Paesi extra UE a forte pressione migratoria o da quelli neo comunitari dell’Europa orientale. E’ questo un fenomeno da lungo tempo connesso alla cosiddetta “migrazione economica” (quella di chi è mosso dalla ricerca di migliori condizioni di vita, in senso lato, a partire dalla dimensione lavorativa) ma, in anni recenti, va assumendo un peso significativo anche la componente migratoria costituita dai richiedenti asilo e protezione umanitaria, in fuga da guerre e da condizioni di miseria intollerabili: migranti economici e rifugiati sono oggi ampiamente presenti, dunque, nell’arco alpino italiano, anche se con connotazioni assai diverse tra loro. Questa presenza variegata investe un territorio che si caratterizza storicamente per la sua vocazione turistica, rispetto non solo alle località più note e di grande afflusso, ma anche, in diversi casi, a quelle “minori”, interessate oggi in modo crescente da forme di turismo sostenibile, promosso e praticato da popolazioni urbane di amenity migrants e di rural users.
Nelle località turistiche principali da tempo i migranti economici sono arrivati per la disponibilità di offerte di lavoro a cui molto spesso gli italiani non rispondono, dando luogo spesso alla creazione di “nicchie etniche” rispetto a determinate professioni. Ma i migranti economici si vanno diffondendo sul territorio alpino anche, e oggi soprattutto, al di fuori dei poli turistici più attrattivi, nell’ambito di un più generale movimento di persone (non solo straniere, perché non sono pochi gli italiani tra i “nuovi montanari”) innanzitutto verso la bassa e media montagna, verso le zone meno lontane dai poli urbani di pianura e maggiormente accessibili; un movimento che, in lenta progressione, va raggiungendo anche alcune “aree interne” e località a quote più elevate, laddove siano presenti occasioni di lavoro, disponibilità di immobili a basso costo, e una certa rarefazione sociale, favorevole all’inserimento dei nuovi abitanti (Membretti, 2015). E’ il caso, per esempio, della comunità rumena di Pragelato, comune posto a 1.500 metri di altitudine, nelle “Valli Olimpiche” torinesi: qui, in una località turistica non di primo piano e da tempo in crisi demografica – riscoperta temporaneamente grazie ai Giochi Olimpici Invernali del 2006 – il 25% circa dei residenti sono oggi stranieri (quasi tutti della Romania). Inizialmente richiamati per le realizzazione delle infrastrutture sciistiche, gli immigrati hanno continuato a lavorare nel territorio anche dopo che l’evento sportivo si era concluso, trovando collocazione in diversi settori lasciati scoperti dalla manodopera locale (edilizia, servizi, ma anche commercio) e procedendo quindi ai ricongiungimenti familiari, con un impatto positivo sulla demografia e sull’economia locali.
Se dunque i migranti economici sono da tempo presenti in svariate località turistiche alpine, negli ultimi 2-3 anni una seconda categoria di stranieri, i rifugiati, comincia a popolare, almeno temporaneamente, alcuni di questi territori montani o le zone ad essi limitrofe. In relazione alle politiche del governo nazionale, finalizzate a distribuire sul territorio italiano questi soggetti (cercando di evitare la loro concentrazione al Sud e nelle aree urbano-metropolitane), un certo numero di richiedenti asilo va trovando collocazione (per periodi di tempo solitamente di 6 mesi/1 anno, in attesa di compiere l’iter legato al riconoscimento o meno dello status di rifugiato) nelle aree montane del Nord Italia: questi cittadini stranieri sono ospitati in grandi centri di accoglienza (CAS e CARA), in certi casi situati nelle città pedemontane, oppure in strutture più piccole e diffuse, nell’ambito del modello di accoglienza dello SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).
La presenza dei rifugiati nelle Alpi italiane, al di là dell’effettiva consistenza numerica del fenomeno (amplificata dai media e da alcuni soggetti politici di matrice xenofoba), è dunque oggi un dato di fatto: considerata la caratterizzazione turistica di questi territori (reale o anche solo a livello di immaginario collettivo, laddove le Alpi sono spesso rappresentate tout court come un grande parco naturale ad uso urbano), era facilmente prevedibile che, da più parti, si sarebbe individuato in questo fenomeno una minaccia per il turismo alpino. In questo articolo, tuttavia, non mi occuperò delle proteste o delle campagne mass-mediatiche contro la presenza dei rifugiati in zone montane (una tra tante, nel 2014, la manifestazione, ribattezzata “lago nostrum”, sulle sponde del lago d’Iseo, che ha visto un gruppo di attivisti dell’organizzazione neofascista Casa Pound gettare in acqua dei manichini neri da una barca). Non mi occuperò neppure della collocazione forzosa dei migranti presso strutture alpine in alta quota (ex caserme, ostelli in disuso, in qualche caso anche bunker della seconda guerra mondiale), lontane da qualsiasi località abitata (turistica o meno), nell’intento evidente di isolare la presenza straniera dal resto del territorio.
Il focus di questo articolo è piuttosto sulla relazione positiva – già in essere o potenziale – tra l’arrivo dei rifugiati e la dimensione turistica montana: il tema sarà inquadrato a livello più generale, partendo dal fenomeno dell’immigrazione straniera nell’arco alpino italiano, per poi essere trattato con riferimento ad alcune buone pratiche di inclusione sociale dei migranti, sviluppatesi in località delle Alpi in cui sono presenti forme di turismo slow e non di massa, correlate alla promozione del territorio nel suo insieme e alla cura e preservazione dei paesaggi culturali delle terre alte.
Considererò dunque dapprima il nesso tra immigrazione e possibile inversione dei trend di spopolamento e di abbandono che da decenni caratterizzano vaste aree montane. Analizzerò quindi più nel dettaglio l’apporto che i rifugiati, in particolare, possono dare rispetto a questi territori, non solo in termini di cura degli stessi (funzionale alla preservazione dei paesaggi culturali verso cui si indirizza un certo tipo di turismo sostenibile) ma, almeno in prospettiva e per una parte di questi soggetti, anche rispetto al ruolo che potrebbero avere nel favorire il ripopolamento delle terre alte, fermandosi a vivere nei luoghi in cui hanno trovato accoglienza. In questa analisi muoverò pertanto da domanda di fondo, che tornerà anche nelle conclusioni, ovvero: da “montanari per forza” è possibile che, perlomeno alcuni degli stranieri accolti nelle Alpi, diventino infine “montanari per scelta”, contribuendo così alla rinascita di quelle località alpine oggi in crisi?
2. Il ruolo dei migranti economici nel neo-popolamento alpino
Dopo decenni di fortissima crisi, in cui la capacità di resilienza dei popoli alpini è sembrata venire meno, schiacciata tra l’emorragia da spopolamento e la colonizzazione (simbolica oltre che socio-economica) operata dai popoli di pianura, oggi sappiamo, da diversi studi e ricerche, che le Alpi sono (di nuovo) in trasformazione (Demochange, 2012). Il mutamento è in atto, e sicuramente uno dei suoi aspetti più rilevanti è proprio quello demografico: la popolazione è tornata a crescere in molte aree (i dati per l’Italia indicano innanzitutto gli assi di Val d’Aosta e Val d’Adige, i comuni periurbani e più prossimi alla pianura, i principali centri sciistici, ma anche alcune “aree interne”), cambiando gli equilibri al ribasso che lo spopolamento e lo “scivolamento a valle” avevano creato. Il tasso medio annuo di incremento della popolazione alpina tra il 2003 e il 2013 è stato pari infatti a +0,49%: sebbene non si tratti di un valore elevato, esso rappresenta comunque un indicatore rilevante rispetto alle dinamiche in corso, la cui caratteristica è quella di manifestarsi tuttavia a “macchia di leopardo” sul territorio; a livello disaggregato, infatti, la situazione è molto variegata ed emergono aree in cui lo spopolamento rappresenta tuttora un grave problema, laddove il 42,1% dei comuni dell’arco alpino italiano presentano tassi di crescita della popolazione nulli o negativi.
Dove presente, l’incremento registrato non è comunque di tipo endogeno – la maggior parte dei comuni alpini mostra un tasso di crescita naturale stabile o negativo – quanto piuttosto di tipo esogeno, ovvero dovuto a quel fenomeno migratorio che riguarda quella categoria che è stata chiamata dei “nuovi montanari”. All’interno di questa ampia e variegata popolazione di nuovi abitanti alpini, è interessante allora indagare il peso numerico e il ruolo che stanno avendo, o potranno avere, nei processi di trasformazione in corso, coloro i quali provengono da ambiti etno-culturali molto distanti, geograficamente ed antropologicamente, dalle terre alte italiane.
Quasi 350.000 stranieri, provenienti in gran parte da Paesi extra-UE (dell’Europa Orientale, del Nord Africa e dell’America Latina, principalmente), risultano residenti, a gennaio del 2014, nei 1.749 comuni italiani il cui territorio è ricompreso nella Convenzione delle Alpi. L’incidenza della popolazione straniera su quella totale appare addirittura superiore, nelle Alpi italiane, rispetto al valore medio nazionale: al 1° gennaio 2013 essa era pari al 78,6 contro il 73,5 per mille, mentre solo in 31 comuni alpini non risultava a tale data risiedere neppure un cittadino straniero (ISTAT e Convenzione delle Alpi, 2014). Secondo le elaborazioni effettuate dalla Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI), nei comuni montani del Nord Italia gli stranieri residenti (esclusi dunque i richiedenti asilo e i rifugiati, così come, ovviamente, quelli irregolarmente presenti) arrivano, nel 2013, a quasi 400.000 unità.
Saldi migratori positivi con l’estero si sono rilevati nello scorso decennio nella gran parte dell’area alpina italiana, laddove, con riferimento alla cittadinanza, si osservano concentrazioni di alcune nazionalità in particolari porzioni di territorio, spesso in relazione a determinate attività produttive, di servizio o di trasformazione, in cui gli immigrati trovano occupazione, all’interno di economie che si fondano innanzitutto sul lavoro straniero.
Soggetti portatori di culture, progetti di vita, valori e pratiche che risultano frequentemente agli antipodi di quell’etichetta di staticità residuale, che viene spesso applicata alla montagna, gli immigrati (non solo stranieri, naturalmente, ma anche italiani) sono probabilmente il principale fattore di innovazione presente oggi nell’arco alpino, con il portato di potenzialità e di rischio che ciò comporta per territori fragili, da lungo tempo in crisi e oggi interessati da ambiziose macro-strategie europee di rilancio, quali EUSALP.
Da una recente ricerca, promossa da Dislivelli (Corrado et al., 2014), si evince come tra i “nuovi montanari” siano numerose le provenienze direttamente dall’estero (Romania, Albania, Marocco, tra i primi), le quali risultano più consistenti nei comuni montani più urbanizzati, in quelli più turistici o con particolari specializzazioni produttive (ad es. settore estrattivo, edilizia, artigianato industriale) e nelle fasce periurbane; tra i fattori di attrazione per gli stranieri, si rilevano innanzitutto la disponibilità di alloggi a prezzi contenuti, il minor costo della vita, la possibilità di fuggire il caos delle metropoli (spesso si tratta di persone che provengono in origine da contesti rurali e che ricercano ambienti simili per far crescere i propri figli.
Per quanto concerne il nostro Paese nel suo complesso, al 1° gennaio 2015, in base ai dati forniti dal Ministero dell’Interno, erano regolarmente presenti 3.929.916 cittadini non comunitari (vale la pena di ricordare che la Romania, tra i primi paesi di provenienza degli immigrati stranieri, è da tempo parte dell’Unione Europea: i suoi cittadini quindi non rientrano in questo computo). A livello nazionale, l’incidenza dei soggiornanti non comunitari sul totale della popolazione residente è pari dunque al 6,5% (mentre gli stranieri in totale sono intorno all’8%), ma con una distribuzione territoriale tutt’altro che omogenea: secondo ISTAT, la presenza straniera tocca infatti il suo massimo in Emilia-Romagna (10,6%) e in Lombardia (10,3%), mentre è decisamente più ridotta nelle regioni meridionali. Più in generale, per 13 province, tutte nell’area del Centro-Nord, i soggetti non comunitari sono oltre il 10%. Il Centro-Nord si conferma quindi area privilegiata di presenza di questi cittadini: in particolare, quasi il 36,5% dei soggetti regolarmente presenti ha un permesso di soggiorno che è stato rilasciato o rinnovato nel Nord-Ovest, ovvero in una delle aree del Paese in cui ricade il territorio alpino.
Sempre secondo ISTAT, tra il 2014 e il 2015 il numero di cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti in Italia (è aumentato di circa 55mila unità (+1,4%): i paesi più rappresentati sono: Marocco (518.357), Albania (498.419), Cina (332.189), Ucraina (236.682) e Filippine (169.046). I minori stranieri rappresentano ben il 24% dei cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti: il dato è particolarmente rilevante, specie considerando l’elevato invecchiamento della popolazione italiana, che colpisce in particolare proprio le aree montane. L’Italia senza gli immigrati sarebbe infatti un Paese con 2,6 milioni di giovani under 34 in meno e sull’orlo del crack demografico: gli immigrati, come è noto, sono mediamente più giovani degli italiani e mostrano una maggiore propensione a fare figli. Le nascite da almeno un genitore straniero in Italia fanno registrare un costante aumento: +4% dal 2008 al 2015, a fronte di una riduzione del 15,4% delle nascite da entrambi i genitori italiani (CENSIS, 2016).
Infine è utile evidenziare come, anche se si manifesta un forte turn over degli immigrati (acutizzato da un lato dalla crisi economica che ha investito il nostro Paese e, dall’altro, dal peso numerico che sta avendo in tempi recenti il fenomeno dei rifugiati), la quota di soggiornanti di lungo periodo sia cospicua e continui a crescere: si passa infatti da 2.179.607 nel 2014 (il 56,3% sul totale) a 2.248.747 nel 2015 (57,2%).
A fronte di questi dati sul fenomeno migratorio verso il nostro Paese, è utile parallelamente ricordare come il numero degli emigrati italiani all’estero, pari nel 2015 ad oltre 4.600.000, stia raggiungendo quello degli immigrati stranieri in Italia, stimati nel complesso in circa 5 milioni: se l’Italia non si sta spopolando (nelle terre alte come in pianura e nelle città), è ormai dunque solo e unicamente in virtù dell’apporto di popolazione connesso all’immigrazione dall’estero (Dossier IDOS, 2015).
3. Rifugiati e richiedenti asilo nelle Alpi: l’accoglienza nei piccoli comuni di montagna
Se ormai si è consolidato il fenomeno dell’immigrazione cosiddetta “economica”, l’Italia negli ultimi anni è sempre più terra di arrivo di una nuova ondata migratoria, composta innanzitutto da soggetti in fuga da guerre, catastrofi naturali e condizioni socio-politiche intollerabili. Secondo UNHCR, nel corso del 2015, sono sbarcati sulle nostre coste più di 150.000 migranti e sono state ricevute quasi 90.000 richieste d’asilo. Tra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016, al fenomeno degli sbarchi si è poi aggiunto quello dei nuovi arrivi via terra, in particolare dai valichi montani al confine con la Slovenia, in virtù dell’apertura del cosiddetto “corridoio balcanico” dalla Grecia. Tra questi nuovi arrivi, si registra un’impennata nelle richieste d’accoglienza indirizzate ad ottenere lo status di rifugiato: al 1° gennaio del 2015, secondo dati ISTAT, gli immigrati presenti in Italia, con regolare permesso di soggiorno rilasciato per motivi umanitari, d’asilo o protezione, erano 100.138 maschi e 17.682 femmine (sono esclusi dal conto i soggetti con permessi di lungo periodo, carte di soggiorno e i minori non accompagnati).
A fronte di questi dati, si rileva già dal 2014 una forte contrazione nel numero dei nuovi permessi di soggiorno per motivi di lavoro (-27.500), che scendono da oltre il 33% del totale nel 2013 al 23% del 2014; parallelamente, come era prevedibile, sono risultati in calo anche i flussi per ricongiungimento familiare (-3.844). Per contro, si è appunto verificata una rilevante crescita dei permessi per asilo e protezione umanitaria (+28.727), che sono più che raddoppiati dal 2013 al 2014, arrivando al 19,3% dei nuovi ingressi.
E’ noto agli operatori del settore come – con l’intenzione governativa di diminuire le concentrazioni presenti nel Sud e nelle grandi aree urbane in genere – una quota non indifferente di questi richiedenti asilo sia stata indirizzata negli ultimi 12-24 mesi verso le aree montane e pedemontane del Paese, e in una certa misura verso i territori alpini e subalpini delle regioni del Nord: qui i migranti sono stati accolti in parte nell’ambito di progetti che fanno riferimento al sistema reticolare dello SPRAR e, in misura maggiore, nei grandi centri definiti con le sigle di CARA (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) e CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria). Appare difficile però fare una fotografia realistica dell’attuale distribuzione di questi soggetti nei territori in questione: infatti i dati ISTAT sugli stranieri regolarmente presenti, in base al tipo di permesso di soggiorno in loro possesso (nel nostro caso, quello per ragioni umanitarie/di asilo/protezione) sono relativi al comune di registrazione del permesso stesso; successivamente il migrante può spostarsi o essere ricollocato in altro luogo e, per i successivi 1-2 anni, non viene di nuovo censito il suo comune di residenza: per conoscerne l’effettiva ubicazione, servirebbe dunque incrociare le informazioni di diverse banche-dati – quali ad esempio quelle degli enti previdenziali o socio-assistenziali – con quelle in possesso delle varie prefetture ed enti locali.
Non mi è finora stato possibile effettuare questo tipo di ricerca (né mi risultano ad oggi ricerche condotte da altri sul tema), motivo per cui mi limito intanto a quantificare la presenza di permessi di soggiorno per ragioni umanitarie nelle regioni che hanno territori alpini, al 1/1/2015 (dato di stock fornito da ISTAT): nel Nord-Ovest si tratta di 24.053 unità e nel Nord-Est di 17.892 unità (escludendo dal computo i permessi di lungo periodo, le carte di soggiorno e i minori non accompagnati), per un totale dunque di 41.945 persone, in grandissima parte di sesso maschile.
Come più sopra anticipato, per chi fa domanda di asilo o protezione internazionale, è prevista l’accoglienza sia nel sistema territoriale diffuso SPRAR, sia, in grandissima parte, nei CARA e nei CAS, grandi (e molto criticate) strutture, destinate a tutti quanti i soggetti che non si riescono ad inserire nelle prime due modalità di accoglienza. Secondo l’Ufficio Pastorale Migranti, nel 2015 sono risultate circa 105.000 in tutto le persone accolte regolarmente in Italia nei tre circuiti SPRAR, CARA e CAS: di queste, 8.000 sono state collocate negli 8 CARA esistenti, 23.000 nella rete SPRAR (che coinvolge 450 degli 8.000 comuni italiani, in base alla libera adesione degli enti in questione). I restanti (ovvero la gran parte, pari ad oltre 70.000 persone) sono nei CAS, centri nati in base a un accordo tra Stato e Regioni e destinati, come da denominazione, ad una forma di accoglienza che dovrebbe essere “straordinaria”, ma che risulta invece ormai consolidata e di lungo termine. Il numero complessivo degli ospiti nelle strutture di prima e seconda accoglienza è in forte crescita, essendo passato dai 22.118 del 2013 ai 123.038 al 6 giugno 2016, con un aumento del 456% (CENSIS, 2016).
I richiedenti asilo hanno una previsione di attesa della risposta per il riconoscimento della protezione da parte delle Commissioni territoriali di circa 12-18 mesi (il tempo equivalente di permanenza dunque nei vari centri di accoglienza): vale la pena qui di ricordare come nel 2014 siano state accolte positivamente solo il 60% circa delle domande presentate, dato in calo nel 2015 e che pone seri interrogativi sulla destinazione finale di quanti vedono rifiutata la propria domanda di asilo.
Nell’ambito del sistema SPRAR, l’accoglienza dei rifugiati nei piccoli comuni alpini è oggi una realtà significativa, non solo a livello numerico, ma rispetto alla sfida che l’arrivo dei migranti pone ad un territorio dove coesistono – con una distribuzione a macchia di leopardo – innovazione e tradizione, connessione montagna-città e profonde sacche di marginalità “interna”, turismo di massa e turismo sostenibile di nicchia, spopolamento cronico e tendenze verso il neopopolamento (secondo i dati di Fondazione Montagne Italia, tra il 1951 e il 2001, 2.283 Comuni italiani hanno subito una perdita di potenziale insediativo: di questi, 1.678 sono in montagna). Come è stato affermato in occasione della Presentazione del primo Rapporto di Fondazione Montagne Italia (Ottobre 2015):
“I progetti migliori d’accoglienza nel territorio nazionale vengono dai piccoli Comuni di montagna, perché i numeri ridotti rendono la situazione più facilmente affrontabile rispetto alle realtà metropolitane (..). Il processo di diluizione della presenza antropica in montagna può essere sopperito in parte dalla presenza di immigrati che lavorano e richiedono servizi. Servono programmazione e strategie. I Comuni non devono agire da soli, ma le politiche sono da attuare a livello sovracomunale”.
Il modello di accoglienza che mi interessa in questa sede considerare è dunque quello che offre più possibilità per un inserimento effettivo (temporaneo ma anche, in alcuni casi, con prospettive di insediamento stabile) degli stranieri nei contesti locali, in rapporto poi, in particolare, alla dimensione turistica (e, più in generale, di sviluppo) dei territori alpini in questione: si tratta dunque del modello attuato dalla rete SPRAR, articolata nel 2014, a livello nazionale, in 432 progetti, in cui sono coinvolti 381 enti locali (comuni, unioni di comuni e altri enti sovracomunali): nell’ambito di questa rete, si segnala appunto l’attivismo dei piccoli comuni montani, soprattutto nel Nord-Ovest del Paese.
Con riferimento alle provincie del Nord Italia, il cui territorio è almeno in parte alpino (dalla Liguria sino al Friuli Venezia-Giulia), le permanenze complessive degli immigrati nel sistema SPRAR sono state nel 2015 pari a 2.820. Nel 2016 i posti disponibili nel sistema sono pari invece a 1.723, considerando che ogni posto, nel corso dell’anno, può essere occupato da più di una persona, in turn over (fonte: Cittalia).
Se andiamo invece ad estrarre solo i comuni prettamente montani, classificati come alpini dalla Convenzione delle Alpi, il dato viene fortemente ridimensionato, così come si evidenzia che non tutte le regioni con territorio alpino hanno attivato progetti SPRAR in ambito montano.
A fronte di 473 posti disponibili nelle strutture, i comuni alpini hanno dunque registrato nel 2015 quasi 800 presenze di richiedenti asilo: in termini assoluti, così come relativamente al totale degli arrivi, il numero non è molto elevato, specialmente se pensiamo alla grande disponibilità di spazi ed edifici non utilizzati, diffusi in ambito alpino, in contesti spesso caratterizzati da elevata rarefazione sociale e da abbandono di ampie porzioni di territorio. Tuttavia è un dato interessante, in primo luogo perché segnala come al fenomeno storico dell’immigrazione economica si stia aggiungendo quello dell’accoglienza dei rifugiati in un’area geografica che, da un lato, è investita da fenomeni socio-demografici complessi (tra spopolamento e neopopolamento) e, dall’altro lato, si caratterizza per una dimensione turistica articolata e in mutamento (tra turismo di massa e nuove tendenze sostenibili). In secondo luogo, è interessante perché sappiamo che il sistema SPRAR è ancora del tutto minoritario (ma considerato come eccellenza anche dal governo nazionale) rispetto ai grandi centri di accoglienza che insistono in prossimità dell’area alpina, verso la quale, plausibilmente, si apriranno in futuro sbocchi sempre più consistenti, nell’ambito di politiche di ricollocamento dei migranti al di fuori di ampie concentrazioni di persone, difficilmente gestibili sul medio-lungo termine.
I comuni coinvolti nei progetti SPRAR in ambito alpino sono tutti caratterizzati per la presenza di qualche forma di turismo, solitamente non di massa e spesso caratterizzato da un’offerta rivolta a chi è in cerca di paesaggi culturali, di modalità lente di fruizione del territorio, di una dimensione montana più raccolta e attenta alla qualità del soggiorno. In Piemonte i territori montani e pedemontani interessati sono quelli del Val di Susa (da sempre sviluppata turisticamente, in stretta relazione con Torino), della Val Sacra (connotata dalla diffusa presenza di siti di interesse religioso), della Val Pellice (parte delle valli valdesi, coinvolte in circuiti turistici storico-culturali) e infine della Provincia di Biella (culla dell’industria laniera e oggi interessata da progetti di turismo sostenibile e culturale, a partire dal locale ecomuseo del biellese). In Lombardia, invece, le aree interessate sono in Provincia di Sondrio, con particolare riferimento alla Valchiavenna e alla Valtellina (sviluppate turisticamente, con la presenza anche di località molto note, quali Livigno, e con le vette più alte della regione); nelle Prealpi bresciane (dove la produzione di vino attira forme di turismo slow e agriturismo) e in Valcamonica (dove è sviluppato il turismo montano nel gruppo dell’Adamello, oltre a quello archeologico, inerente i siti camuni, e a quello più di massa, sul lago d’Iseo); in provincia di Lecco, nella Comunità montana della Valsassina, Valvarrone, Val d’Esino e Riviera (luoghi di interesse turistico tra monti e lago di Como, comprendenti il Parco della Grigna Settentrionale). In Trentino i comuni aderenti alla rete SPRAR sono in Provincia di Trento (e da soli accolgono circa 1/3 di tutti i richiedenti asilo arrivati nel 2015 nei comuni alpini italiani), in un’area che è all’avanguardia rispetto allo sviluppo del turismo sostenibile, mentre in Veneto sono interessate le Prealpi venete, in Provincia di Vicenza (che attraggono innanzitutto turismo locale). Infine, per quanto riguarda il Friuli Venezia-Giulia, sono coinvolti, in Provincia di Udine, il comune di Cividale (l’antica Forum Julii, città longobarda e poi medievale, ricca di risorse turistiche e affacciata sulle Valli del Natisone) e la provincia di Gorizia (terra di confine con la Slovenia, anch’essa meta di turismo).
4. Quando i rifugiati favoriscono il turismo: tre buone pratiche a confronto
Alpi Marittime: il “Parco solidale”
In provincia di Cuneo, in un’area delle Alpi a grande valenza paesaggistica e caratterizzata da uno spopolamento di lunga data, si colloca il Parco Naturale del Marguareis; qui, nel comune di Chiusa di Pesio, il commissario del Parco ha promosso nel 2015 (basandosi solo su fondi propri dell’ente), il progetto “Parco solidale”: 20 richiedenti asilo (provenienti da Kenya, Costa d’Avorio, Nigeria, Gambia e Senegal, e di età compresa fra i 18 e 30 anni), sono stati accolti come volontari per lavorare, per un periodo di 3 mesi, alla manutenzione e alla promozione turistica del territorio protetto, tramite un accordo con la Prefettura di Cuneo e con l’accompagnamento di una parallela azione di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale ospitante.
Durante l’estate gli immigrati (ospitati in due agriturismi della zona) sono stati dunque impegnati nelle attività di pulizia e riordino dei sentieri dell’area protetta, nella manutenzione delle aree attrezzate fra la Certosa di Pesio ed il Piano delle Gorre, ma anche in supporto ai servizi di accoglienza turistica (informazioni ai viandanti, apposizione di segnaletica, ecc.), rivolti ad escursionisti e famiglie. La loro attività di cura del territorio si è anche svolta nelle Riserve Naturali di Crava-Morozzo e di Benevagienna, così come in Alta Val Tanaro (dove hanno soggiornato per un periodo in una baita di montagna) e nella Riserva Naturale dei Ciciu. L’Ente Parco si è occupato di fornire una formazione di base ai migranti che hanno aderito al progetto (attivando in tal senso i propri operatori) e di dotarli delle adeguate calzature, della maglietta che li identifica come volontari del “Parco solidale” e dell’idonea strumentazione di lavoro e antinfortunistica.
I risultati si sono visti non solo sul piano della cura del territorio, ma anche su quello dell’inclusione sociale e dell’accettazione dello straniero; come spiega infatti Andreino Ponso (medico e assessore di Chiusa di Pesio), «i nostri cittadini hanno superato molte diffidenze e oggi guardano quelle persone in modo diverso. Hanno capito che non sono un pericolo come qualcuno con molta demagogia voleva fare credere. Certo, non è stato semplice, non tutti hanno compreso. Ma abbiamo visto mutare l’atteggiamento della gente».
Alpi Biellesi: “Sent-ieri, oggi e domani”
A Pettinengo, località nota come “il balcone del biellese” e fino a pochi anni fa connotata dalla presenza di lunga data dell’industria tessile legata ai maglifici (oggi tutti chiusi), Pacefuturo ONLUS (attiva da anni nel settore dell’inclusione sociale dei “soggetti svantaggiati”) ha dato vita al progetto “Sent-ieri, oggi e domani”. L’iniziativa, che ha origine nel 2008 dalla collaborazione con l’Amministrazione Comunale e che vede il coinvolgimento fin da subito della comunità locale, è stata finalizzata a riportare alla luce oltre 10 km di vecchi “sentieri operai”, valorizzando nel contempo i boschi e il paesaggio culturale da essi segnati; in questo modo, si è inteso dare vita alla trasformazione responsabile di un territorio in crisi socio-economica e identitaria, coniugando crescita culturale, valorizzazione turistica e solidarietà sociale. Nel territorio comunale, infatti, si diramano camminamenti, oggi ignoti ai più, che collegavano le cascine e le varie frazioni più alte del paese (da cui provenivano i contadini-operai, nel loro pendolarismo lavorativo quotidiano) ai siti degli opifici oggi dismessi, tra cui spicca l’ex Maglificio Bellia (famoso per il marchio Liabel).
L’obiettivo di questa azione è quello di promuovere un modello partecipativo di valorizzazione e di gestione del paesaggio, da un lato creando degli itinerari turistici legati alla pratica di attività outdoor ed alla fruizione di percorsi culturali, e, dall’altro lato, contribuendo alla salvaguardia dell’ambiente dal degrado e dal rischio idrogeologico, dovuti all’abbandono. Allo stesso tempo, l’intervento mira a favorire la riscoperta delle radici identitarie locali, attraverso il recupero delle testimonianze storico-artistiche presenti (sentieri operai, archeologia industriale, cappelle votive, ecc.), restituendone così alla memoria collettiva gli antichi saperi.
Nell’ambito di questa progettualità, dal 2014, l’associazione Pacefuturo, in convenzione con la Prefettura di Biella, ha iniziato a dare accoglienza, a partire dalle proprie strutture (tra cui una villa storica e alcune depandances), ad un gruppo di Richiedenti Protezione Internazionale di origine africana, arrivando nel 2016 ad ospitare a Pettinengo oltre 100 profughi, di diverse nazionalità. Un buon numero di questi soggetti sono stati progressivamente inseriti nel progetto di recupero della sentieristica e dei manufatti architettonici rurali (grazie ad un accordo quadro sul volontariato dei rifugiati, firmato tra Enti pubblici e soggetti gestori), venendo iscritti come soci alla ONLUS e contribuendo, con lavoro volontario, alla cura e manutenzione dei percorsi, nonché alla loro promozione turistica (apposizione di segnaletica, ecc.). Nel contempo, diversi rifugiati sono attivi in modo continuativo nella pulizia del bosco, nella raccolta di legna da ardere (che viene poi consegnata gratuitamente agli anziani del paese) e in altre attività socialmente utili, finalizzate tanto a sostenere il turismo locale, quanto a favorire la permanenza in montagna dei residenti più fragili, specialmente nei mesi invernali. Il progetto è tuttora in corso e vede allargarsi progressivamente il numero degli stranieri coinvolti nelle attività previste.
Il progetto SPRAR “La valle accogliente” costituisce una risposta bottom-up alla prima azione di collocamento dei migranti sul territorio, avvenuta sempre nel 2011 ma con modalità top-down, quando un centinaio di richiedenti asilo (nell’ambito della cosiddetta “’Emergenza Nord Africa”) erano stati insediati a Montecampione (a 1800 metri di altitudine), in una struttura alberghiera da tempo abbandonata, con modalità di accoglienza del tutto inadeguate (mancanza dei servizi essenziali, lontananza dai centri abitati, affollamento abitativo, ecc.). Tra i promotori più attivi del nuovo progetto si segnala da subito la cooperativa sociale K-Pax, che opera a Breno, comune montano di circa 5000 abitanti, posto in media Val Camonica e principale centro amministrativo della zona. Nonostante il clima sociale inizialmente contrario all’accoglienza (con gravi episodi di intolleranza razzista, fomentati da forze politiche xenofobe), la cooperativa dà vita alla ristrutturazione e alla riapertura di un albergo da tempo dismesso, l’Hotel Giardino, unica struttura ricettiva presente nel comune. L’intervento ha favorito la riscoperta della vocazione turistica del territorio, creando posti di lavoro per alcuni residenti italiani e, nel contempo, inserendo attivamente altrettanti rifugiati stranieri, come personale alberghiero, ma anche in attività di promozione turistica e, parallelamente, di informazione sul tema delle migrazioni (anche tramite l’organizzazione del Festival “Abbracciamondo”, rassegna di eventi interculturali, diffusa su tutto il territorio della valle).
L’albergo, ristrutturato e interamente rinnovato, è diventato così l’Eco-Hotel socio-culturale “Il Giardino”, una struttura (unica in Val Camonica) che punta a valorizzare l’utilizzo dei prodotti a Km zero, promuovendo nel contempo le visite guidate agli alpeggi della zona, l’organizzazione di eventi culturali per residenti e turisti, i corsi di cucina, ma anche i servizi di bike-sharing e di book-crossing, sempre nel segno dell’interculturalità, legata al coinvolgimento dei migranti nelle varie attività del previste, i cui ricavi sono interamente investiti in progetti di housing sociale rivolti ai rifugiati.
5. Conclusioni: turismo sostenibile, cura del territorio e neo-popolamento alpino
Le buone pratiche più sopra discusse ci insegnano qualcosa di importante rispetto al nesso possibile tra l’immigrazione straniera – con un riferimento particolare all’accoglienza dei rifugiati – e il turismo montano: innanzitutto, l’apporto dei migranti può essere significativo proprio rispetto a quella cura del territorio e a quella preservazione del paesaggio culturale, che appaiono i requisiti fondamentali per uno sviluppo montano sostenibile e turisticamente attrattivo, in zone soggette a rischio idrogeologico e caratterizzate spesso da significative risorse ambientali e culturali da preservare.
In secondo luogo, l’inserimento lavorativo dei rifugiati può rappresentare un fattore importante nel rilanciare attività ricettive e di servizio eco-turistiche, la cui sostenibilità sia basata sulla logica dell’impresa sociale (a cavallo tra agire nonprofit e creazione di utili), piuttosto che su quella del mercato puro (spesso inadeguata allo sviluppo di iniziative turistiche ed economiche in contesti montani “minori”)..
Ma i rifugiati rappresentano anche una risorsa potenziale per favorire la resilienza di comunità di montagna in crisi economica e identitaria: la sfida socio-culturale posta dagli stranieri (laddove la loro presenza sia gestita con accortezza rispetto al loro numero e alle modalità del loro inserimento) può infatti rappresentare un’occasione per il ripensamento di identità locali altrimenti a rischio di “museificazione folkloristica”. Come ci ricorda Montandon: "Lo straniero evidentemente viene a sconvolgere le cose, l’immobilità, la stagnazione, l’inerzia, il marasma, il torpore, l’abbattimento, la letargia che regnano nella piccola società. Egli introduce un movimento, una turbolenza […] Lo straniero ha un ruolo rivelatore". Ripensare queste identità territoriali in una direzione innovativa e inclusiva delle diversità, può anche avere un impatto turistico, come ci mostra il caso (agli antipodi delle Alpi) di Riace Calabro, che ha sviluppato un “turismo dell’accoglienza”, centrato proprio sull’inserimento intelligente dei migranti nel tessuto socio-economico locale.
Non da ultimo, la permanenza durante tutto l’anno dei rifugiati nei comuni alpini ad offerta turistica può contrastare quella desertificazione sociale, tipica della “stagione morta”: i migranti possono costituire un presidio del territorio che può valere dal punto di vista del controllo del dissesto idro-geologico, dell’offerta di servizi ai residenti storici (spesso anziani) e, più in generale, dell’antropizzazione di luoghi altrimenti a lungo spopolati.
Se dunque le Alpi tornassero ad essere “terra d’asilo”, come storicamente sono state tante volte rispetto ai “forestieri”, non è insensato ipotizzare che, in prospettiva, alcuni di questi stranieri, oggi “montanari per forza”, potrebbero divenire in futuro “montanari per scelta”, contribuendo a quel ripopolamento delle terre alte, senza il quale non possono esistere né identità locali vive, né tantomeno alcun sistema turistico attivo e sostenibile.
Andrea Membretti è Dottore di Ricerca in Sociologia, insegna Sociologia del Territorio all’Università di Pavia. Studia le dinamiche socio-demografiche legate all’immigrazione e al neo-popolamento nei territori montani. Cura la rubrica “Montanari per forza” sulla rivista Dislivelli.eu
Riferimenti bibliografici essenziali:
«Terzo Valico. Una lunga e controversa storia. il progetto dell’Alta velocità italiana: un piano che doveva essere finanziato dai privati,ma che in questi 25 anni è stato completamente pagato dallo Stato». Il manifesto, 20 luglio 2016 (c.m.c.)
Il Terzo Valico è il gigante invisibile delle grandi opere. Grande per impatto ambientale, per la spesa pubblica (6,2 miliardi di euro) e per la lunga e controversa storia, ma sconosciuto alla maggioranza delle persone. Una sorta di Golem, potente ma fragile.
Costellato da tantissimi stop and go, proclami, bocciature e travagli giudiziari, il suo sfumato racconto iniziò nel 1991, l’anno in cui venne presentato dal governo dell’epoca – era uno degli innumerevoli esecutivi Andreotti – il progetto dell’Alta velocità italiana: un piano che doveva essere finanziato dai privati, in primis le famiglie del capitalismo italiano, ma che in questi 25 anni è stato completamente pagato dallo Stato.
Dal primo tavolo dell’Alta velocità, apparecchiato per Fiat, Eni e Iri nell’estate del 1991, erano rimasti fuori i Ferruzzi e i Ligresti. Proprio a loro, in extremis (a dicembre), venne affidato il progetto del Supertreno Milano/Genova, che, dopo tre bocciature della commissione di Via (Valutazione d’impatto ambientale), grazie al salvataggio della legge obiettivo (considerata criminogena da Raffaele Cantone), diventerà successivamente Terzo Valico dei Giovi: dalla città della Lanterna fino alla piccola Rivalta Scrivia, frazione di Tortona.
Meno chilometri ma costi esponenzialmente lievitati. Si tratta di un tragitto ferroviario di 53 chilometri ad alta velocità, di cui 37 in galleria, che iniziano dal nodo ferroviario di Genova (Bivio Fegino) e arrivano nella Piana di Novi per poi ripiombare in una linea tradizionale. In questi anni, i proponenti e i favorevoli, al di là degli slogan («ce lo chiede l’Europa» e «senza Genova morirebbe»), hanno sempre eluso la domanda principale: serve davvero? Solo una seria e indipendente analisi costi-benefici avrebbe potuto dirlo, ma non è stata fatta.
L’11 novembre del 2011, l’ultimo giorno prima della caduta dell’esecutivo Berlusconi, con la firma del contratto per i lavori della linea, il gigante diventò visibile. Ma non senza problemi. D’altronde i guai giudiziari erano iniziati nella seconda metà degli anni Novanta, quando si avviarono i lavori per tre «fori pilota», cunicoli esplorativi per sondaggi geodiagnostici. Due di essi, nella Val Lemme, in provincia di Alessandria, da semplici rilievi esplorativi diventarono gallerie lunghe un chilometro.
Scattò la denuncia degli ambientalisti, con il Wwf in testa. E il 24 febbraio 1998 i cantieri furono chiusi dai carabinieri in seguito a un’inchiesta promossa dalla Procura di Milano con l’incriminazione del senatore di Forza Italia, Luigi Grillo, e dell’ingegner Ercole Incalza, accusati di avere speso soldi dello Stato senza alcun progetto approvato e per opere che non erano affatto «fori pilota».
Il processo per truffa aggravata ai danni dello Stato terminò anni dopo con la prescrizione dei reati grazie alla legge Cirielli. Il Sistema Incalza, così denominato successivamente, era già lampante nel 1998: un mix di burocrazia pubblica, privato affarista e cattiva politica che gestiva appalti sempre più cari.
Ed ora la ’ndrangheta.
Ma non è una sorpresa, la presenza della criminalità organizzata nei cantieri del Terzo Valico è stata documentata dai No Tav, in particolare nel settore del movimento terra, parallelamente alle procure. La presenza della ’ndrangheta è accertata sia in provincia di Alessandria sia in quella di Genova. Delle infiltrazioni se ne parlò, per esempio, a proposito del traffico illecito di rifiuti nelle cave del tortonese, quando fu comminata un’interdittiva antimafia all’imprenditore Francesco Ruberto, e se ne discusse quando fu arrestato per camorra il capo della Lande, Marco Cascella, subappaltatore nei cantieri della grande opera.
Con l’attuale indagine della procura di Reggia Calabria è stata accertata l’infiltrazione degli appartenenti alla cosca Raso-Gullace-Albanese in sub-appalti già aggiudicati per la realizzazione dell’infrastruttura. Alcuni affiliati avrebbero anche sovvenzionato i comitati «Sì Tav» per agevolare l’inizio dei lavori.
Contro tutto questo si è battuto anche ieri il movimento No Tav. A Pozzolo Formigaro, provincia di Alessandria, un centinaio di attivisti si è radunato per opporsi all’esproprio degli ultimi due lotti del cantiere.
Grandi Opere. Enrico Rossi rilancia: "Il sottoattraversamento va fatto, per separare treni av dai regionali". Rispondono i prof di architettura e ingegneria: "Con due binari di superficie in più, problemi risolti"». Il manifesto, 15 luglio 2016 (c.m.c.)
Come effetto collaterale del disastro ferroviario in Puglia, il sottoattraversamento fiorentino dell’alta velocità sta continuando a far discutere. Anche molto animatamente. Quando sembrava che il maxi progetto – doppio tunnel di sette chilometri e stazione sotterranea griffata Norman Foster nell’area Belfiore-Macelli – si fosse almeno politicamente arenato, a riaprire la partita è stata una netta presa di posizione di Enrico Rossi, che ha trovato alleati nel viceministro Riccardo Nencini e nel presidente del consiglio toscano Eugenio Giani.
Sull’altro fronte, dal dipartimento di Architettura dell’ateneo è stata ribadita la bontà del progetto alternativo di superficie, redatto già anni fa da architetti ed ingegneri dell’Università: “C’è già – ha sintetizzato Fausto Ferruzza che guida Legambiente Toscana – una soluzione: due binari in più fra le stazioni di Statuto, Campo di Marte e Rifredi. Una scelta che può tranquillamente assolvere alle stesse funzioni del sottoattraversamento, ma senza sbancare l’alveo del Mugnone, e senza creare un meccanismo di perturbazione grave e il dissesto idrogeologico dell’area”.
Sul punto però Rossi non molla la presa: «I treni ad alta velocità vanno separati da quelli regionali. Per questo si deve fare il sottoattraversamento. Non darò nessun assenso a soluzioni diverse fino a quando sarò presidente di questa Regione, soprattutto alla luce di quanto è avvenuto in Puglia». Il presidente toscano insiste: «Il 21 luglio parteciperò a un incontro con il governo a Roma. Se decidessero diversamente, vedremo con la nostra avvocatura; passeremo, come suggerisce Eugenio Giani, dal consiglio. Se poi la questione è lo smaltimento delle terre di scavo, che lo Stato e Rfi la risolvano. In tutte le altre città, da Bologna a Torino, si è scavato. Qui i cantieri sono aperti, ci sono le imprese, che si finiscano i lavori, altrimenti si cade nel ridicolo».
Da Architettura si risponde colpo su colpo: «L’assunto principale su cui si fonda il nostro progetto è che gli obiettivi prestazionali del sottoattraversamento possono essere tranquillamente conseguiti utilizzando strutture e spazi ferroviari già esistenti in superficie. La proposta consiste nell’aggiungere, al fascio di quattro binari già esistenti, una nuova coppia di binari destinati a ospitare l’aumento di traffico generato dall’alta velocità.Adottando caso per caso, nei punti dove la sede ferroviaria non consente in modo immediato questa aggiunta, espedienti progettuali ad hoc volti a garantirla». Il tutto, fatto non certo trascurabile, con una spesa del 70% inferiore a quanto previsto, al momento, per la Tav in sotterranea, che ha già drenato più di 700 milioni. Senza che i lavori dei due tunnel siano partiti.
Su questo punto, ieri Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, ha ricordato ancora una volta le “diffuse anomalie” nelle pieghe dei lavori fin qui fatti; con l’inchiesta della procura fiorentina del gennaio 2013, gli arresti anche eccellenti come quello di Maria Rita Lorenzetti, e il processo fissato in autunno. Anche da questo caso Cantone ha tirato le somme generali: «La realizzazione di alcune grandi infrastrutture nazionali ha confermato numerose criticità, quali le carenze nella progettazione, e l’apposizione di numerose varianti e riserve».
Gli aggravi anche forti dei costi, e i diffusi timori di impatti ambientali (e architettonici) come conseguenze dei lavori, sono fattori decisivi agli occhi dei prof dell’ateneo: «Il progetto di superficie nasce sulla base di tre principi: riuso delle strutture già esistenti, con minimizzazione delle nuove realizzazioni e quindi di spesa e impatti; integrazione con i sistemi (ambientali, territoriali, paesistici, urbanistici, dei trasporti…) già in essere nell’area; integrazione prospettica con i quadri scenariali previsti dalla pianificazione (integrazione pro-getto/piano)».
Va da sé infine che le parole di Rossi fanno arrabbiare il comitato No tunnel Tav: «La tragedia della Puglia non c’entra nulla con il tunnel. I 760 milioni spesi per la stazione Foster potevano essere utilizzati per la sicurezza sulle linee regionali. Anche le Ferrovie si sono rese conto dell’insostenibilità del progetto, anche Renzi se n’è accorto». «Rossi dice una sciocchezza – chiosa Alessia Petraglia di Si – affermando che il tunnel assicura sicurezza.Confonde due cose diverse».
Critico anche il comitato pendolari del Valdarno: «Il tunnel non serve ai pendolari. Il tappo è sulla direttissima Firenze Rovezzano, prima del Campo di Marte dove inizia il sottoattraversamento». E Legambiente ricorda: «Noi pensiamo che il Mugello insegni molte cose, basterebbe leggere gli atti di quel processo».
Una corrispondenza per eddyburg sulla giornata del suolo, organizzata da ISPRA, a Roma il 13 luglio. Come accade troppo spesso, a parole tutti si dichiarano consapevoli della posta in gioco. Ma non seguono fatti concreti. (m.b.)
Il SoilDay organizzato da Ispra in collaborazione con l’Ordine degli Architetti di Roma ci invita a riflettere e a fare rete sul problema di un suolo che non c’è più, alla scala locale come a quella globale.
Le principali parole chiave proposte nei dibattiti a più voci tra politici, tecnici, istituzioni di ricerca (Ispra, Cresme, Dipse) e associazioni (Legambiente, Wwf, Fai, Slow Food Italia, Salviamo il Paesaggio, Touring Club, Cia, Coldiretti, Copagri, Conaf) diversamente impegnati su questo tema, sono state: il suolo come tema centrale per il futuro del Paese, il rapporto tra aree urbane ed extraurbane, ma soprattutto il contenimento del consumo di suolo come responsabilità improrogabile per una rigenerazione etico-culturale senza la quale nessuna legge potrebbe garantire quel “consumo zero” entro il 2050 che l’Italia, come gli altri Paesi dell’UE, si sono impegnati a raggiungere nella Conferenza di Parigi del 2015.
I dati del Rapporto annuale 2016 (Ispra) fotografano un Paese tristemente conosciuto che, nonostante la crisi e la decrescita, continua a consumare il proprio suolo a una velocità di 4mq/sec in termini di superficie agricola vitale e di qualità inesorabilmente persa. Il nostro Paese si posizione al 5° posto in Europa (dopo Irlanda, Belgio, Lussemburgo e Germania) per percentuale di consumo di suolo (7%), pur avendo una larga parte del territorio costituita da colline e montagne.
Ma quali sono le conseguenze in termini di perdita di servizi ecosistemici e quali i costi di questo veloce progredire? E soprattutto quali sono le politiche che l’Italia è in grado di mettere in campo per il contenimento del consumo di suolo?
Ispra, nel rapporto 2016, ha contabilizzato in 800 milioni di euro l'anno i costi della mancata regolamentazione del consumo di suolo, dovuti alla perdita di produzione agricola, all’erosione, alla mancata infiltrazione dell’acqua, agli effetti sul microclima urbano.
Quanto alle politiche, la principale risposta a scala nazionale è affidata al Ddl “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”, (in gestazione da più di quattro anni, non certo per colpa del bicameralismo per difetto) e ora in discussione al Senato. Nella versione approvata dalla Camera, il Ddl presenta criticità sostanziali a partire dalla stessa definizione di suolo (con quella attuale verrebbe non considerato circa il 50% di suolo artificializzato), evidenziate con forza dal mondo dell’associazionismo che richiede modifiche sostanziali. Seppur più volte sia stato ricordato dagli stessi relatori del Ddl che non si tratta di una nuova legge urbanistica, che è comunque meglio approvare una legge – anche se imperfetta - che c’è la volontà di apportare modifiche nel passaggio in Senato (fra gli argomenti citati: oneri di urbanizzazione, demolizioni…), rimane il dubbio che il testo così com’è non produca il cambiamento auspicato nelle forme di intervento nel territorio. Il rapporto Ispra sollecita a porre al centro dell’agenda politica il problema del suolo perduto, il “meno peggio” non può sempre essere considerato il risultato migliore.
Riferimenti
Il rapporto sul consumo di suolo 2016 è disponibile nel sito dell’ISPRA, dove - meritoriamente - l'Istituto hè scaricabile la cartografia del consumo di suolo relativa agli anni 2012-15.
Sulla giornata di studi organizzata da Ispra si vedano in eddyburg gli articoli di Paolo Berdini e Luca Fazio, ripresi da il manifesto. Sul disegno di legge, verso il quale eddyburg è radicalmente critico, si veda il recente intervento di Vezio de Lucia, con in calce i riferimenti alle numerose prese di posizione e disamine disponibili nel sito. Tutto quel che c'è da sapere sul consumo di suolo è riassunto in una visita guidata attraverso gli articoli e i documenti pubblicati in eddyburg.it.
C'è chi denuncia, giustamente, il proseguire inarrestato del consumo di suolo e sottolinea i danni provcati, ma c'è chi, al tempo stesso, auspica l'approvazione di un provvedimento che aggraverebbe ancora il devastante fenomeno. Ipocriti, sciocchi o disinformati?.Il manifesto, 14 luglio 2016
Uno. In questo momento, trascorso un secondo, in Italia sono già spariti quattro metri quadrati di suolo sotto una colata di cemento. Fanno circa 35 ettari al giorno, una calamità non naturale ma inesorabile che in soli due anni ha ricoperto 250 chilometri quadrati di territorio. E non è stato nemmeno il biennio peggiore, visto che la crisi ha rallentato l’aggressione all’ecosistema Italia.
Solo per restare sui terreni agricoli, in meno di venti anni le superfici edificate hanno “bruciato” oltre 2 milioni di ettari coltivati: il 16% delle campagne è sparito. E continua a sparire al ritmo di 55 ettari al giorno (per ogni cittadino si “erodono” 350 metri quadrati di aree agricole all’anno). Questa follia suicida figlia di uno sviluppo insostenibile che non si arresta – è come continuare a segare allegramente il ramo su cui si sta seduti – ha un costo annuale che è possibile quantificare in oltre 800 milioni di euro.
Questo è quanto gli italiani potrebbero pagare a partire dal 2016 solo per fronteggiare le conseguenze del consumo di suolo del triennio 2012-2015. Le stime dei costi, non solo economici, sono state pubblicate ieri durante la presentazione del rapporto Ispra 2016 sul consumo di suolo in Italia (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale). «Nonostante questo rallentamento – ha spiegato Michele Munafò, responsabile del rapporto – il consumo di suolo continua e questo ha delle conseguenze gravi anche i termini economici. E’ importante ricordare che oltre alle aree colpite direttamente l’impatto riguarda anche quelle vicine coinvolgendo ormai oltre la metà del territorio nazionale, provocando la perdita dei servizi ecosistemici che il suolo ci fornisce gratuitamente».
Secondo una stima dei “costi occulti” – quelli non percepiti nell’immediato perché si rivelano tali solo nel calcolo delle conseguenze – ogni ettaro di terreno consumato presenterebbe un conto per la collettività che può arrivare a 55 mila euro. Dipende dal tipo di suolo e dalla sua utilità per l’ecosistema: produzione agricola (400 milioni), stoccaggio di carbonio (circa 150 milioni), mancata protezione dell’erosione (oltre 120 milioni), danni provocati per la mancata infiltrazione dell’acqua (quasi 100 milioni), assenza di insetti impollinatori (3 milioni).
Ma far di conto non basta per dare l’idea della catastrofe in corso su scala globale: «Azzerare le perdite di suolo e migliorare lo stato di salute di quello fertile – ha detto Michele Pisante, commissario del Centro per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) – rappresentano due direttrici ineludibili per il pianeta nei prossimi anni. Vincere o perdere questa sfida rappresenterà la differenza tra la vita e la morte per milioni di persone e porrà i presupposti per nuovi equilibri sociali, politici ed economici».
Nelle aree urbane il consumo di suolo altera anche la regolazione del microclima (un aumento di 20 ettari per Km2 di suolo sacrificato provoca un aumento di 0,6 gradi della temperatura), e questo ha un costo. Le tre città campione messe peggio sono Milano (45 milioni), Roma (39 milioni) e Venezia (27 milioni). Inoltre, spiega il rapporto, gli impatti negativi della sottrazione di suolo si producono non solo nelle aree direttamente coinvolte ma fino a 100 metri di distanza.
Le regioni meno virtuose, con più del 10% di territorio consumato nel 2015, sono Lombardia, Veneto e Campania (ma Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Puglia, Piemonte, Toscana e Marche non si sono certo distinte visto che si attestano su valori compresi tra il 7 e il 10%). Si distingue solo la Valle d’Aosta, che comunque ha consumato il 3% del suo territorio. Il fenomeno, curiosamente, riguarda sia i grandi centri abitati, che hanno visto aumentare la popolazione, che i piccoli paesi dove la popolazione non cresce.
A commento del rapporto Ispra, le associazioni dei coltivatori hanno voluto sottolineare altri due aspetti fondamentali per la tenuta del “sistema Italia”. La sicurezza alimentare e il dissesto idrogeologico. «Il consumo di suolo coltivato – ha spiegato il presidente nazionale della Cia Dino Scanavino – rischia di riflettersi sulle cifre dell’approvvigionamento alimentare in Italia, dove a oggi si arriva a coprire il fabbisogno di cibo di tre cittadini su quattro. Dovendo ricorrere alle importazioni per coprire questo deficit produttivo».
Su un territorio reso più fragile, scrive Coldiretti, si abbattono i cambiamenti climatici con precipitazioni intense impossibili da assorbire: «Il risultato è che sono saliti a 7.145 i comuni italiani, l’88,3% del totale, che sono a rischio frane e alluvioni” (le regioni con il 100% dei comuni a rischio idrogeologico sono Valle d’Aosta, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Molise e Basilicata»).
La politica, interrogata, oggi non può far altro che rispondere come Barbara Degani, sottosegretaria all’Ambiente del governo Renzi: «Il tema è al centro dell’agenda politica». E’ vero invece che le strategie e le normative in discussione per considerare il suolo un bene comune per anni sono rimaste lettera morta. «Per questo – ha detto Damiano Di Simine della segreteria nazionale di Legambiente – chiediamo al Parlamento di approvare in questa legislatura e in tempi brevi il ddl contro il consumo di suolo, in ballo da quattro anni e ora in discussione al Senato. All’Unione europea invece chiediamo di approvare una direttiva europea sul suolo».
Legambiente, con altre associazioni, a settembre lancerà una petizione popolare europea che coinvolgerà oltre 300 organizzazioni. Obiettivo: raccogliere un milione di firme per spingere le istituzioni comunitarie a legiferare per la tutela del suolo in Europa.
Per fermare il consumo di suolo «occorre bloccare la cosiddetta legge sulla limitazione del consumo di suolo licenziata di recente alla Camera e ora incardinata al Senato. Lì si consente di realizzare senza difficoltà ogni attività urbana in zona agricola e si deregolamenta ancora la possibilità di demolizione e ricostruzione con elevati incrementi volumetrici». Il manifesto, 14 luglio 2016 (c.m.c.)
L’Ispra, Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, continua lodevolmente a misurare gli effetti dell’espansione urbana. Nel rapporto presentato ieri, il coordinatore della ricerca Michele Munafò ha richiamato l’attenzione sul dato quantitativo impressionante (35 ettari di terreno viene cementificato ogni giorno) ed ha anche posto l’accento su due questioni che, se prese in carico dalle politiche nazionali, rappresenterebbero la chiave di volta per il rilancio economico dell’intero paese.
La prima questione riguarda il fatto che non è più vero che costruire significa aumentare la ricchezza pubblica. Afferma infatti il rapporto che per sostenere la cementificazione realizzata nel triennio 2012–2015 lo Stato nel suo complesso dovrà pagare 800 milioni ogni anno.
Cifre imponenti in tempi di crisi che potrebbero ad esempio servire per sostenere la riconversione energetica del patrimonio edilizio esistente e che invece vengono “bruciate” per sostenere l’abnorme crescita edilizia. Milano e Roma pagheranno la deregulation urbanistica con 43 e 39 milioni all’anno. Se si tiene conto che negli ultimi anni sono stati tagliati i trasferimenti ai comuni per 17 miliardi, si comprende come siano avviati verso il fallimento economico o -nel migliore dei casi- a dover ridurre la qualità urbana. Teniamo dunque ancora acceso il motore di una macchina che sta minando la nostra civiltà urbana e credo sia necessario assumerne tutte le implicazioni.
In primo luogo si dovrebbe avviare una sistematica politica di riqualificazione delle periferie urbane che rappresentano i luoghi in cui si manifestano maggiormente le patologie sociali. Occorre dunque chiudere per sempre l’espansione urbana e indirizzare ogni risorsa al miglioramento di quanto è stato costruito.
Per farlo occorre bloccare la cosiddetta legge sulla limitazione del consumo di suolo licenziata di recente alla Camera e ora incardinata al Senato. Lì si consente di realizzare senza difficoltà ogni attività urbana in zona agricola e si deregolamenta ancora la possibilità di demolizione e ricostruzione con elevati incrementi volumetrici anche in zone di elevata qualità.
La legge approvata sembra dunque risentire di una cultura derogatoria che ha provocato soltanto degrado urbano. E’ invece evidente che potremo rendere migliori le nostre città solo se ricostruiremo un sistema di regoli semplici e immediatamente applicabili: con la deregulation degli ultimi 25 anni abbiamo addirittura ampiamente utilizzato nello scacchiere urbano la legge «Obiettivo» del 2001, definita «criminogena» dal presidente dell’Autorità sugli appalti, Raffaele Cantone. La crisi in cui ci dibattiamo dimostra che l’unico modo per far ripartire la filiera urbana è recuperare il profilo etico invano atteso dall’intero paese. E infine il secondo dato preoccupante.
Afferma l’Ispra che a causa della cementificazione la temperatura aumenta di 0,6 gradi ogni venti ettari di terreno cementificato. Sono più dieci giorni che le temperature delle città si attestano intorno ai 40 gradi e ogni attività umana, dal lavoro alla normale vita degli anziani, risente oltre modo di questo fenomeno.
Per combattere il cambiamento climatico in atto occorre coraggio e siamo certi che il ministro competente sarà in grado di trovarlo: invece di espandere ancora le città occorre avviare una gigantesca opera di riforestazione urbana e potremo pensarla soltanto se prenderemo atto culturalmente che l’espansione urbana è un meccanismo inservibile. Continuare sarebbe un errore strategico imperdonabile.
«Puglia Tragica. A Nord si investono miliardi in Alta Velocità, da Roma in giù si taglia. I veri tagli sono arrivati con il governo Berlusconi che 2010 ridusse le risorse del 50,7%. Da allora dilagano le società degli autobus. Uno dei convogli dell’incidente era del 2004, un lusso per gli standard concessi ai meridionali». Il manifesto, 13 luglio 2016
Ogni giorno al Sud circolano meno treni che nella sola Lombardia. 1738 corse contro 2300. Eppure, da Roma in giù, sono al servizio del doppio degli abitanti. Al Sud i treni sono più vecchi. L’età media dei convogli è di 20,4 anni, al Nord 16,6. La Sicilia è la quarta Regione in Italia per popolazione con 5 milioni di abitanti. Vi circolano meno di 1/5 dei treni regionali della Lombardia, regione che però ha solo il doppio degli abitanti. Al Nord c’è l’alta velocità (o forse sarebbe meglio dire l’alta voracità visti i costi). Molte linee del Sud viaggiano ancora su binario unico, raggiungendo anche i 250 treni al giorno (come nel tratto in Puglia dove si è verificato ieri il disastroso incidente).
Su 71 progetti programmati nel piano triennale dei trasporti 2017/2020 solo due riguardano il Sud.
L’Italia viaggia a due velocità e non fa nulla per cambiare le cose. I soldi per il Tav ci sono, così come ci sono stati quelli per la nuova tratta Milano-Torino (per essere economicamente conveniente doveva trasportare 400 treni, si arriva circa a 40). Per il Sud no. L’incidente di ieri accende una luce sul dramma di migliaia di pendolari di serie B. I treni protagonisti dell’incidente non erano vecchi. Uno dei due era addirittura del 2004, praticamente nuovo per gli standard concessi ai meridionali. Un treno di lusso. Viaggiava però su un binario unico come troppi da Roma in giù. Una condizione di minorità infrastrutturale che non può essere dimenticata di fronte alle possibili colpe umane celate dietro il disastro.
Treni con più di 20 anni? In Europa li fermano, in Italia li mandano al Sud
In Europa i treni che superano i 20 anni di attività vengono smantellati e sottoposti a un radicale revamping. In Italia vengono mandati al Sud. La cosa è evidente con Trenitalia ma lo è anche sulle linee regionali. I tagli hanno imposto alle società di gestione l’acquisto di mezzi sempre più logori. In Abruzzo ben l’84,7% hanno spento le 20 candeline. Un po’ come accade con i bus urbani delle municipalizzate. Quelli appena elencati sono tutti numeri riportati da Legambiente nel rapporto «Pendolaria 2015» che fotografa lo stato dell’arte delle ferrovie italiane.
Cresce il numero degli utenti ma da Roma in giù si taglia
Il numero delle persone che in Italia viaggia in treno è in crescita: +2,4% nel 2015. Eppure si tagliano i servizi in maniera discriminatoria: da Roma verso Milano nel 2007 i collegamenti Eurostar al giorno erano 17, mentre oggi tra Frecciarossa e Italo sono 63, con un aumento dell’offerta in 8 anni pari al 370%. La situazione è completamente diversa a Napoli per coloro che prendono i treni della ex Circumvesuviana (120 corse al giorno): hanno subìto un calo dell’offerta del 30%. Rispetto al 2009 i passeggeri sono aumentati dell’8%; le risorse statali per il trasporto regionale si sono ridotte di oltre il 20%. Scrive Legambiente: “Da una parte il successo di treni sempre più moderni e veloci – si muovono tra Salerno, Torino e Venezia con una offerta sempre più ampia e articolata e un crescendo di passeggeri ogni giorno su Frecciarossa e Italo – dall’altra la progressiva riduzione dei treni Intercity e dei collegamenti a lunga percorrenza su tutte le altre direttrici nazionali (-22,7% dal 2010 al 2014), dove i tempi di viaggio sono rimasti fermi agli anni Ottanta”.
Dal 2010 tagli indiscriminati: da 6,2 a 4,8 miliardi
Il crollo nei trasferimenti è avvenuto con la finanziaria 2010 e i tagli di Tremonti, quando introdusse una riduzione a regime del 50,7% delle risorse per il servizio. Il Governo Monti a fine 2011 intervenne per coprire una parte del deficit relativo al 2011 e al 2012. Se si confronta il dato attuale con la cifra che sarebbe necessaria per il funzionamento del servizio (parliamo dei servizi di base), ossia quella stanziata fino al 2009, ci si rende conto della radice dei problemi del trasporto pubblico in Italia. Si è passati da 6,2 miliardi di euro per il trasporto su gomma e su ferro ai poco più di 4,8. Per il 2016 le risorse a disposizione sono state di poco superiori: si passa da 4,819 nel 2015 a 4,925 miliardi di euro. Per garantire servizi decenti non bisognerebbe scendere sotto i 6,5 miliardi (rimanendo comunque lontani dalle medie europee).
Quel contratto di servizio per gli Intercity fermo al 2014
Dal 2001 la competenza sul servizio ferroviario pendolare è in mano alle Regioni che definiscono i contratti di servizio con i concessionari. Il Ministero, però, è rimasto responsabile del Contratto di Servizio per i treni a lunga percorrenza non a mercato (gli Intercity, molto frequentati dai pendolari), dal valore di 220 milioni di Euro. Un contratto che è scaduto nel 2014. Non è ancora stato aperto un confronto per capire come rinnovarlo o se mandarlo a gara, per decidere se e dove potenziare. Si continua a procedere per proroghe, senza una visione sul futuro di questi treni, che pure percorrono tratte importanti del Paese, provando a tenerlo unito (su tutte le direttrici Adriatica e Tirrenica).
Il business del trasporto su gommaIl Sud è diventato in breve tempo territorio di conquista per le società di trasporto su bus. Non avendo alternative i cittadini prendono la corriera rinforzando, inevitabilmente, un sistema potentissimo che sembra impossibile da cambiare. Si sono moltiplicate le società specializzate, mettendo su un business che ha preso il posto del servizio ferroviario. I governi non hanno fatto nulla per invertire la rotta. Evidentemente conviene così.
Ancora in ballo un disegno di legge più dannoso che utile per la riduzione del consumo di suolo e devastante per le aree gia edificate in attesa di "rigenerazione". Eppure soluzioni efficaci sono a portata di mano, se ci fossero lucidità culturale e volontà politica.
Nel maggio scorso la Camera dei deputati ha approvato e trasmesso al Senato il famigerato disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato ben noto ai lettori di eddyburg [vedi i riferimenti in calce]. La prima considerazione riguarda i dubbi circa la sua definitiva approvazione. L’avvicinarsi delle elezioni politiche (che devono svolgersi entro il 2018) e l’inevitabile impasse che sarà comunque determinata dall’esito del referendum sulla sopravvivenza del Senato (in ogni caso fino alle prossime elezioni le leggi saranno approvate in regime bicamerale), inducono a sperare che il disegno di legge finisca su un binario morto. E perciò, secondo me, dovremmo da subito mettere in campo altre ipotesi.
In sostanza, lo Stato propone ma a decidere sono Regioni e Comuni, e quindi la legge non sarà mai attuata proprio dove più necessaria e urgente. È vero che la norma transitoria blocca il consumo del suolo per tre anni dall’approvazione della legge, ma sono fatti salvi opere, interventi, procedimenti e varianti che coprono abbondantemente la moratoria. Né si dica dei poteri sostitutivi, pratiche che nelle materie di cui stiamo trattando non hanno mai funzionato.
Due articolo per devastare di più
Un’assoluta novità sono infine i compendi agricoli neorurali che consentono la trasformazione dell’edilizia rurale in attività amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, di cura, eccetera. Non male per una legge nata per “promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente”.
Mi permetto un’ultima osservazione sulla scrittura della proposta, pleonastica, fitta di definizioni accattivanti ma inutili, di precetti al tempo stesso ridondanti e inefficaci (le Regioni che “orientano” l’iniziativa dei comuni), di compiaciute complicazioni procedurali (art. 3).
Le alternative possibili
a un testo inemendabile
La strategia dello stop al consumo di suolo perseguita con legge può essere affiancata da un’intelligente azione di governo tramite il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio. A partire dall’art. 145 del Codice che affida al ministero per i Beni culturali il compito di individuare “le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio”. Linee che devono essere rispettate dallo Stato e dalle Regioni nella formazioni dei piani paesaggistici. Ma di queste linee non c’è traccia e l’approvazione dei piani paesaggistici è sempre ferma a Toscana e Puglia e alla parte costiera della Sardegna. Per il resto un vuoto desolante, mentre ministero e Regioni fanno a gara di disimpegno.
Ci fosse la volontà, non sarebbe difficile formulare indirizzi di tutela che obbligano i piani paesaggistici (e quindi i Comuni) a concentrare – anche in questo caso – le trasformazioni all’interno di un’insormontabile linea rossa che racchiude lo spazio edificato, distinto e separato da quello rurale e aperto. Se si affrontasse questo compito, con determinazione – insieme a un coraggioso impegno verso le Regioni –, per il ministero per i Beni culturali, squassato dalle cosiddette riforme, sarebbe, tra l’altro, una straordinaria occasione per recuperare credibilità e prestigio. Ma serve un’altra stagione politica.
Riferimenti
Per una valutazione complessiva della vicenda si vedano l'eddytoriale 148. e l'articolo Eddyburg e le norme sul cosumo di suolo. Analisi critiche puntuali del ddl sono contenute nell'articolo di De Lucia Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione e quelli di Cristina Gibelli,5 (Neologismi in libertà: «compendi neorurali periurbani) e di Ilaria Agostini del maggio 2015 (Due leggi per il suolo).
«Il mondo politico ed economico ragiona in termini di Prodotto interno lordo (Pil) e non di benessere del cittadino. Non interessa la trasparenza e la legalità applicata alla salute dei cittadini ed al concetto di sanità uguale per tutti». Il Fatto Quotidiano online, 7 luglio 2016 (c.m.c.)
Da molti anni cerco di spiegare quali metodi possano modificare il concetto di bene comune inteso come volontà di far applicare un sistema di controllo sull’operato dei medici più vicino al paziente in modo da avere maggior salute e minore spesa sanitaria, in parte dovuta alla medicina difensiva, che si combini con la gestione soggettiva dei dati sanitari, che diventa a sua volta un controllo indiretto.
La politica resta sorda e non ha accettato alcun mio suggerimento e, tanto meno, vuole coinvolgere una persona che possa chiarire o far risparmiare: se non interessa la salute alla politica non interessa la vita delle persone. Questo solo perché il mondo politico ed economico ragiona in termini di Prodotto interno lordo (Pil) e non di benessere del cittadino.
Robert Kennedy nel suo storico discorso all’Università del Kansas del 18 marzo 1968 diceva:
«Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo.
«Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
«Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
A nessuno interessa produrre salute, a tutti interessa produrre tutto quello che gravita intorno alla malattia, consumandolo appena prodotto. In questa ottica entra la produzione di strumentario diagnostico e chirurgico che cambia come per i cellulari, piccole modifiche per far diventare immediatamente obsoleto il precedente.
In questa ottica gravita la produzione di farmaci spesso inutili o controversi come i vaccini antinfluenzali; superflui, come le lacrime artificiali che in Italia sono arrivate a circa duecento tipi differenti; costosi, come Lucentis inutilmente costoso rispetto al sovrapponibile Avastin.
A nessuno interessa la trasparenza e la legalità applicata alla salute dei cittadini ed al concetto di sanità uguale per tutti. A nessuno interessa andare a trovare nuovi sistemi di riduzione di spreco diagnostico, clinico, chirurgico o farmaceutico.
Forse è venuto il momento di cambiare l’indicatore che misura lo stato di salute di un Paese partendo proprio da una radicale riforma dei sistemi e del concetto di salute e di benessere.
Ma quanto vale il deal? Sui numeri dell’offerta vige il massimo riserbo, ma era stato lo stesso ad Mazzoncini, intervenendo a fine marzo in audizione davanti alla commissione Trasporti della Camera, a fornire qualche indicazione in più sulla gara. «È una realtà piccolissima perché non riguarda i binari - aveva spiegato l’ingegnere bresciano - è un’operazione che potrà valere meno di 100 milioni di euro». TrainOSE, stando agli ultimi dati disponibili, ha un fatturato annuo di 130 milioni di euro e un Ebitda di 2 milioni, con un patrimonio netto di circa 40 milioni di euro. La società è stata fondata nel 2005, inizialmente come filiale della compagnia statale OSE Sa, per fornire servizi trasporto passeggeri e merci, e nel 2013 è stata trasferita sotto le insegne dell’agenzia governativa greca per le privatizzazioni (Hellenic Republic Asset Development Fund, Hradf) con l’obiettivo di essere ceduta sul mercato.
Un primo tentativo di vendita, attuato proprio in quell’anno, finì però nel vuoto per la mancata presentazione di offerte vincolanti dopo che la francese Sncf, la rumena Grup Feroviar Roman e gli stessi russi di Rzd avevano depositato una manifestazione d’interesse. Ora, pressato dalla necessità di rispettare gli impegni presi con l’Unione europea, il governo di Atene ha ripreso in mano l’operazione e sta provando a privatizzare anche la società di manutenzione Rosco, anch’essa nata dopo la scissione delle ex ferrovie greche. Così, a gennaio, il cda di Hradf ha deciso di riavviare la procedura di vendita di TrainOSE con scadenza fissata per domani per raccogliere le offerte vincolanti dopo i numerosi rinvii delle ultime settimane.
Ferrovie è quindi decisa a tentare l’affondo per assicurarsi un varco oltreconfine a fronte di un impegno finanziario che, stando ai numeri diffusi dallo stesso ceo Mazzoncini, non dovrebbe essere enorme. Peraltro la Grecia non è l’unico dossier internazionale su cui il gruppo si sta misurando. A febbraio, come si ricorderà, l’ad era volato a Teheran per firmare con il viceministro dei Trasporti e presidente di Rai (Ferrovie iraniane), Mohsen Pour Seyed Aghaie, un memorandum of understanding che, di fatto, avviava la cooperazione tra i due gruppi per la realizzazione delle linee dell’Alta velocità Teheran-Hamadam e Arak-Qom e apriva altresì la strada alle controllate Italcertifer (certificazione) e Italferr (ingegneria). La prima è stata chiamata a lavorare alla progettazione preliminare del test center delle ferrovie iraniane, un centro di prova per testare con apparecchiature all’avanguardia sia l’infrastruttura sia il materiale rotabile, mentre la società di ingegneria del gruppo dovrà prestare assistenza tecnica per il progetto della linea alta velocità Teheran-Qom-Isfahan (circa 400 chilometri). Un fronte di sviluppo, insomma, dal potenziale enorme, come l’Inghilterra, dove il gruppo, forte dell’ottenimento del cosiddetto “passport”, l’abilitazione alla gara - unica azienda non inglese ad averlo conseguito - sta partecipando come gestore alla partita per l’alta velocità sulla linea Londra-Edimburgo.
Sempre, ieri, poi, si sono riuniti i cda delle tre società nate dopo la scissione di Grandi Stazioni, propedeutica alla vendita degli asset retail. Sono stati quindi nominati i i board di Gs Rail (100% Fs), Gs Immobiliare (60% Fs e 40% Eurostazioni) e Gs Retail (55% Fs e 45% Eurostazioni), al centro del processo di cessione che, come noto, ha registrato l’aggiudicazione della società al raggruppamento formato da Antin, Icamap e Borletti Group. Per quest’ultimo, su cui evidentemente ci sarà una discontinuità nel momento in cui avverrà il closing dell’operazione, atteso per metà luglio, sono stati individuati come presidente
GRANDI STAZIONI A valle della scissione sono stati nominati ieri
i board dei tre veicoli Gs Rail: Silvio Gizzi è il nuovo ad
e Vera Fiorani alla presidenza
1 of 2 05/07/2016 12:11
Il Sole 24 Ore http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/vetrina/edicola24web/edicola...
Riccardo Maria Monti e come ad Paolo Gallo, in uscita dall’azienda e destinato a guidare la nuova holding di Italgas che nascerà a valle dello spin off annunciato da Snam nei giorni scorsi. Per Grandi Stazioni Immobiliare, invece, sono stati designati alla presidenza Carlo De Vito e Gallo come ceo. Mentre il cda di Grandi Stazioni Rail sarà composto da Silvio Gizzi (ad), Vera Fiorani (presidente) e Umberto Lobruto (consigliere).
© RIPRODUZIONE RISERVATA Celestina Dominelli
«Il ridimensionamento della grande opera era previsto da anni. Non è un improvviso "Nì Tav" ma la prima ammissione ufficiale della grande truffa perpetrata nei tunnel sotto le Alpi». Il manifesto, 5 luglio 2016 (p.d.)
Commentando una dichiarazione del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, il manifesto di domenica titola con qualche ottimismo e buona evidenza: «Torino-Lione, il governo diventa Nì Tav».
Cosa ha detto il ministro? Ha detto – secondo le agenzie – che il progetto della tratta nazionale della Torino-Lione, che da Bussoleno scende verso il capoluogo e raggiunge Settimo, è stato "revisionato" rispetto a quello preliminare del 2011, prevedendo, almeno in una prima fase, l’utilizzo di una parte consistente dell’attuale linea storica (23 chilometri e mezzo tra Bussoleno e Buttigliera) e l’accantonamento, nella parte di nuova realizzazione, di alcuni tunnel originariamente previsti (in particolare la cosiddetta "gronda merci", cioè la galleria di venti chilometri da scavare tra Torino e Settimo).
Di qui un risparmio di oltre due miliardi, un minor impatto ambientale e una maggior "rapidità" di costruzione della tratta (destinata a essere completata entro il 2030). Naturalmente – si è affrettato a precisare il ministro – "non sono arretramenti ma adeguamenti, e sono un’intelligente rivisitazione dei progetti per fare le opere nei tempi giusti, con i costi minori e che siano davvero utili".
L’affermazione ministeriale, oltre che reticente in alcuni passaggi, è un capolavoro di narrazione tesa a trasformare il flop dell’originario progetto (e le conseguenti necessarie marce indietro) in una scelta strategica dei proponenti effettuata per responsabilità economica ed ecologica (magari accogliendo, magnanimamente, alcune proposte degli odiati No Tav).
In realtà, peraltro, non c’è nulla di nuovo, se non la traduzione in progetto (a quanto pare…) di una sorta di concordato fallimentare predisposto, non senza imbarazzo, cinque anni fa.
Meglio lasciar le parole a una fonte non sospetta (Il Sole24ore del 3 marzo 2012):
«Il miglior alleato dei No Tav è la difficoltà dei governi nel reperire le risorse per la realizzazione dell’intera linea Torino-Lione. Per questo, per uscire da un’impasse che rischiava di chiudere definitivamente in un cassetto il progetto, Italia e Francia sono state costrette, la scorsa estate, a prendere in mano le forbici e a dar vita a un progetto in versione “ridotta”, rispetto a quello da 20 miliardi, ipotizzato dall’Osservatorio di Mario Virano alla fine di un lungo lavoro di concertazione durato 182 riunioni.
«Il risultato è che, ad oggi, l’unica tratta garantita della Torino-Lione è la costruzione dei 57 chilometri del tunnel di base. Solo su questa prima porzione della Torino-Lione si è deciso di procedere con la progettazione definitiva. Sarà invece rimandata a data da destinarsi la realizzazione della parte comune in territorio italiano. Ancora agli albori resta la tratta italiana della Torino-Lione, ferma alla conferenza di servizi. Si lavora a un progetto a basso impatto, che utilizzi la linea storica da Bussoleno alle porte di Torino: costo di 2,2 miliardi rispetto al progetto tutto in variante da 4,4 miliardi».
Nessuna scelta innovativa, dunque, ma la presa d’atto della necessità di una via di fuga per evitare il disastro.
Va bene – si potrebbe dire – ma evitiamo posizioni di principio e rallegriamoci del fatto che qualche frammento di un’opera inutile e dannosa è stato rinviato sine die o abbandonato, qualunque ne siano le motivazioni. Giusto. Purché si prenda atto che ciò rivela una volta di più l’irrazionalità dell’opera complessiva e non lo si utilizzi per rafforzarla con una asserita sopravvenuta "ragionevolezza" del governo.
Se ragionevolezza e coerenza ci fossero, infatti, la "decisione" odierna porterebbe con sé l’abbandono dell’opera nella sua interezza.
Infatti, delle due l’una. O i lavori originariamente previsti sono semplicemente rinviati, e allora la narrazione odierna è pura ipocrisia (anche in termini di risparmio di risorse) e lascia intatte le controindicazioni di sempre. Oppure – com’è probabile, nonostante le rassicurazioni ministeriali che tutto sarà rivisto dopo il 2030 (sic!) – l’abbandono è definitivo e allora ci sarebbe un’ulteriore decisiva controindicazione persino ponendosi nell’ottica dei promotori.
La ragione di fondo a sostegno della nuova linea (esposta con sussiego dai soliti sedicenti "esperti") è, infatti, che la linea storica sarebbe inadeguata in radice, per ragioni tecniche e trasportistiche, alle nuove necessità. Non è così ma, se mai lo fosse, che senso avrebbe costruire un tunnel di 57 chilometri tra Italia e Francia quando, a monte e a valle (ché altrettanto si sta facendo in Francia) resta in gran parte la linea storica?
Non sarebbe come costruire un ponte con dieci corsie quando le strade che vi conducono ne hanno solo due? E quale senso strategico ha la decisione odierna? Nessuno, ovviamente. A meno che tutto fosse, fin dall’inizio, una gigantesca truffa che, finalmente, la crisi economica sta cominciando a svelare. Ad essere seri, la "revisione" annunciata dal ministro dovrebbe portare, quantomeno, alla sospensione dei lavori e a una nuova discussione globale sull’opera, prima che vengano sprecati altri miliardi di euro (poco importa se italiani o europei). Non farlo realizza l’ennesimo inganno.
Nessun "Nì Tav" governativo all’orizzonte, dunque. Ma, certo, una "scelta" e una narrazione che dimostrano una debolezza di fondo su cui occorre inserirsi politicamente.
«Gli organi di controllo devono verificare soprattutto che nessuno rubi o faccia rubare, mica la funzionalità a lungo termine di un argine o di una scogliera che dovranno salvaguardare gli abitati con un orizzonte centennale». Il Fatto Quotidiano online, 4 luglio 2016 (c.m.c.)
Le magagne progettuali vengono sempre più frequentemente alla luce, anche perché stiamo toccando il fondo. Ma i piani, le infrastrutture e le opere che interagiscono con rivi e versanti, fiumi e laghi, litorali e lagune hanno orizzonti assai lunghi. Così come gli asservimenti della natura, dai ponti alle strade, che formano il telaio su cui poggia lo sviluppo di un Paese. Essi traguardano tempi assai più estesi delle fluttuazioni di Borsa; e non sempre ci si accorge subito di errori e omissioni.
Le lacune di oggi si possono tramutare in gravi disastri nel futuro. La bassa qualità – culturale, scientifica e tecnica – è una mina a scoppio ritardato, un virus latente con cui il corpo del Paese si alimenta senza percepirne la pericolosità.
Ci sono ragioni interne, ben note, legate alla nostra attitudine collettiva a trascurare la competenza e il talento a favore di altre “virtù”. Questioni come la gestione dei fiumi Bisagno a Genova e Seveso a Milano, casi eclatanti come il lungolago di Como o il medio Tagliamento sono diventati archetipi a livello mondiale.
La consolidata sottomissione di consulenti e tecnici produce un’acritica dipendenza dal committente, spesso pubblico, del tutto incomprensibile agli stranieri e, sperabilmente, ai posteri. Ha scritto Andrea Rinaldo: «Grande è l’incredulità dei colleghi stranieri per l’assunto tutto italiano consulenza = dipendenza che anima il dibattito tecnico. Sembra loro incredibile, in particolare, l’irrilevanza delle qualificazioni scientifiche per la credibilità delle tesi tecniche».Ma ci sono anche cause esterne, come il predominate fattore finanziario che dirige qualunque progetto, soprattutto se di grandi dimensioni.
Nel contesto nazionale, la corruzione ha fatto nascere istituzioni specifiche di controllo. E questa verifica di onestà, in apparenza semplice ma ostica in pratica, è già compito da far rabbrividire, viste le clientele che dominano il Paese. Insomma, gli organi di controllo devono verificare soprattutto che nessuno rubi o faccia rubare, mica la funzionalità a lungo termine di un argine o di una scogliera che dovranno salvaguardare gli abitati con un orizzonte centennale.
A livello internazionale, anche organismi con una buona tradizione scientifica e tecnica come la Banca Mondiale o la Banca Interamericana di Sviluppo hanno difficoltà a valutare interventi complessi in realtà sfaccettate e contesti soggetti a rapida evoluzione. Anche se le multinazionali della consulenza si stanno attrezzando da tempo per fornire servizi adeguati, compare talvolta il convitato di pietra del conflitto di interesse. Altre volte rimane nell’ombra, perché invisibile o implicito; o magari declinato al motto di ‘cane non mangia cane’ (Canis canem non est).
Il consolidamento del sistema Europa in senso neo-liberista e l’adorazione militante per la ‘concorrenza’, che fu santificata dall’allora commissario Monti, avrebbero potuto comunque scalfire la consuetudine italica a considerare la qualità come un fattore accessorio. Invece non è accaduto. La furia competitiva ha infatti classificato consulenti e i tecnici tra i ‘fornitori di servizi’, il cui contributo va perciò valutato alla stregua dell’affidamento delle pulizie o del servizio postale.
E nel caso dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria è disciplinato dall’art. 91 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE). Non sono esattamente i criteri con cui Ludovico il Moro chiamò a Milano Leonardo da Vinci, presentatosi con un’accattivante lettera di auto-raccomandazione a base di drenaggi, ponti e bombarde, ma che si chiudeva con un frase rassicurante: «Se le cose che ho promesso di fare sembrino a qualcuno impossibili e irrealizzabili, mi offro di farne una sperimentazione in qualunque luogo vorrà Vostra Eccellenza, a cui mi raccomando con la massima umiltà».
Non ultima, la crisi economica porta anche i più attenti e onesti gestori della cosa pubblica a ‘ottimizzare’ le modeste risorse disponibili mettendo in secondo piano la qualità. Accade così che spesso si esageri in quantità nei propri racconti del ‘fare’. E che la ‘bulimia del fare’ porti a dimenticare la qualità di ogni singolo racconto.