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RAI news,

In un rapporto pubblicato oggi, all’indomani dello scandalo suscitato dalle immagini relative alla compravendita dei migranti in Libia, Amnesty International ha accusato i governi europei di essere consapevolmente complici nelle torture e nelle violenze ai danni di decine di migliaia di rifugiati e migranti, detenuti in condizioni agghiaccianti nel paese nordafricano. Il rapporto, intitolato Libia: un oscuro intreccio di collusione, descrive come i governi europei, per impedire le partenze dal paese, stiano attivamente sostenendo un sofisticato sistema di violenza e sfruttamento dei rifugiati e dei migranti da parte della Guardia costiera libica, delle autorità addette ai detenuti e dei trafficanti. "Centinaia di migliaia di rifugiati e migranti intrappolati in Libia sono in balia delle autorità locali, delle milizie, dei gruppi armati e dei trafficanti spesso in combutta per ottenere vantaggi economici. Decine di migliaia di persone sono imprigionate a tempo indeterminato in centri di detenzione sovraffollati e sottoposte a violenze ed abusi sistematici", ha dichiarato John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l`Europa.

I governi europei non solo sono pienamente a conoscenza di questi abusi, ma sostengono attivamente le autorità libiche nell`impedire le partenze e trattenere le persone in Libia. Dunque, sono complici di tali crimini", ha aggiunto Dalhuisen. Dalla fine del 2016 gli stati membri dell’Unione europea e soprattutto l’Italia hanno attuato una serie di misure destinate a sigillare la rotta migratoria attraverso la Libia e da qui nel Mediterraneo centrale, con scarsa attenzione alle conseguenze per le persone intrappolate all’interno dei confini della Libia, dove regna l’anarchia. -

a cooperazione coi vari attori libici si è sviluppata lungo tre assi:

- la fornitura di supporto e assistenza tecnica al Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale (Dcim), l`autorità libica che gestisce i centri di detenzione al cui interno rifugiati e migranti sono trattenuti arbitrariamente e a tempo indeterminato e regolarmente sottoposti a gravi violazioni dei diritti umani, compresa la tortura;
- la fornitura di addestramento, equipaggiamento (navi incluse) e altre forme di assistenza alla Guardia costiera libica per metterla in grado di intercettare le persone in mare;
- la stipula di accordi con autorità locali, leader tribali e gruppi armati per incoraggiarli a fermare il traffico di esseri umani e a incrementare i controlli alla frontiera meridionale della Libia.
La presenza, nella legislazione libica, del reato d’ingresso irregolare, unita all’assenza di norme o centri per la protezione dei richiedenti asilo e delle vittime del traffico di esseri umani, fa sì che la detenzione di massa, arbitraria e a tempo indeterminato sia il principale mezzo di controllo dell`immigrazione in Libia.
Rifugiati e migranti intervistati da Amnesty International hanno riferito dei trattamenti subiti o di cui sono stati testimoni: detenzione arbitraria, tortura, lavori forzati, estorsione, uccisioni illegali che chiamano in causa autorità, trafficanti, gruppi armati e milizie. Decine di rifugiati e migranti hanno descritto il devastante ciclo di sfruttamento in cui colludono le guardie carcerarie, i trafficanti e la Guardia costiera. Le guardie torturano per estorcere danaro e, quando lo ricevono, lasciano andare le vittime o le passano ai trafficanti. Costoro organizzano la partenza, col consenso della Guardia costiera libica.
Se non è dato sapere quanti funzionari della Guardia costiera libica collaborino coi trafficanti, è evidente che nel corso del 2016 e del 2017 questo organismo ha incrementato la sua operatività grazie al sostegno ricevuto dagli stati dell’Unione europea. Di conseguenza, è aumentato il numero delle operazioni in cui rifugiati e migranti sono stati intercettati in mare e riportati sulla terraferma libica. -

Questo articolo è stato pubblicato sul sito di RAI news, in questa pagina dalla quale lo abbiamo ripreso





















See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/rapporto-amnesty-migranti-torture-abusi-libia-65807273-1c38-40c9-94f1-054d39ef5792.html







































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il manifesto

Professor Focardi, nel nostro paese gli episodi di apologia di fascismo si stanno effettivamente moltiplicando o c’è solo maggiore attenzione da parte della stampa e dei partiti in campagna elettorale?
«Direi l’una e l’altra cosa. Registro una ripresa di attenzione dei media non solo italiani, recentemente sono stato intervistato da quotidiani spagnoli, olandesi e inglesi che sono interessati e preoccupati dalla ripresa del fascismo in Italia. Magari la stampa enfatizza e crea allarmismo, magari c’è un uso strumentale di questi allarmi, ma è innegabile che ci sia un salto di qualità nelle azioni delle formazioni neofasciste italiane».

Quali sono le caratteristiche di questo salto di qualità?

«Innanzitutto va ricordato che l’Italia ha avuto il maggiore partito neofascista dell’Europa occidentale, il Movimento sociale. Negli anni Novanta abbiamo assistito a un ritorno di protagonismo dell’estrema destra, con il primo Berlusconi e il suo anticomunismo vintage. Oggi invece è la paura dell’immigrazione a sostenere i neofascisti. Non a caso prevalgono i richiami al nazismo, più che al fascismo, che pure aveva una componente razzista, ma su questo terreno il neonazismo funziona meglio. Si parla di “sostituzione etnica” e vengono recuperati slogan e simboli hitleriani, compresa la bandiera nella stazione dei Carabinieri qui a Firenze».

Che giudizio dà della legge Fiano?
«Mantengo delle perplessità, come tutti gli storici, sulle leggi che corrono il rischio di colpire la libertà di opinione. D’altra parte non ho dubbi che la democrazia vada difesa dalla minaccia concreta di queste formazioni neofasciste. Il loro obiettivo dichiarato è arrivare in parlamento, il loro recente protagonismo può essere letto come un’azione preventiva di fronte al rischio di scioglimento ed esclusione dalla competizione elettorale».

L’antifascismo da campagna elettorale non è controproducente? Non è rischioso che possa essere rivendicato e identificato come il valore di una sola parte?
«C’è questo rischio e va evitato. Ci dovrebbe essere un’attenzione costante per la minaccia neofascista, non solo in campagna elettorale. Non è sufficiente organizzare un corteo a Come, che pure va benissimo ed è da elogiare. Bisogna lavorare sul piano culturale, ormai è prevalso un paradigma valutativo del fascismo che lo ridimensiona, privandolo delle sue caratteristiche repressive, oppressive e criminali che invece ha storicamente avuto. Gli italiani trascurano completamente la dimensione criminale del fascismo e ne hanno un’immagine banale e riduttiva, come di una dittatura all’acqua di rose».

Per questo può servire un museo storico sul fascismo? A Predappio?
«Io penso sia necessario un museo importante sul fascismo, ma a Roma che è la città dov’è andato al potere o a Milano dove è nato. A Predappio il museo si presta più alla nostalgia che alla memoria. Fare di Predappio il luogo della visione critica del fascismo è una sfida che può essere persa e non possiamo permettercelo».

Questo articolo è raggiungibile liberamente qui, nella pagina originale
postilla
Prima ancora di «un’attenzione costante per la minaccia neofascista» dovrebbe esserci una formazione volta nel suo insieme (dalla famiglia alla scuola alla società) a promuovere valori e principi negati dalle ideologie nazifasciste: il rispetto, il valore e le curiosità per la ricchezza costituita delle diversità, la solidarietà per i deboli e gli oppressi, l'accoglienza per i fuggitivi, e via enumerando i sentimenti e i gesti di civiltà.

AG Altro Giornale.org,

1) La strategia della distrazione.
L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione, che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico da problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazione di continue distrazioni e informazioni insignificanti.
La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico di interessarsi alle conoscenze essenziali nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica.

Mantenere l’attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali imprigionata da temi senza vera importanza.
Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare di ritorno alla fattoria come gli altri animali.

2) Creare problemi e poi offrire le soluzioni.

Questo metodo è anche chiamato: Problema > Reazione > Soluzione.

Si crea un problema, una situazione prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare.
Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi una violenza urbana, organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia che richieda le leggi di sicurezza e le politiche a discapito della libertà.

3) La strategia della gradualità.

Per far accettare una misura inaccettabile basta applicarla gradualmente, al contagocce, per anni consecutivi.

E’ in questo modo che condizioni socio-economiche radicalmente nuove, neo-liberalismo, furono imposte durante il decennio degli anni ’80 e ’90.

4) La strategia del differire.

Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come dolorosa e necessaria, ottenendo l’applicazione pubblica nel momento, per un’applicazione futura.

E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato: primo, perchè lo sforzo non è quello impiegato immediatamente, secondo, perchè il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza di sperare ingenuamente che tutto domani andrà meglio e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato.
Questo da più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.
5) Rivolgersi al pubblico come ai bambini.

La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e un’intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale.

Quando più si cerca di ingannare lo spettatore, più si tenta ad usare un tono infantile.
Perchè?
Se qualcuno si rivolge a una persona come se avesse dodici anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà con una certa probabilità ad una risposta o reazione come quella di una persona di dodici anni o meno.

6) Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione.

Sfruttare l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale.
Inoltre, l’uso del registro emotivo, permette di aprire la porta di accesso all’inconscio, per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori.

7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità.

Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.
La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile.

8) Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità.

Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.

9) Rafforzare l’auto-colpevolezza.

Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia.
Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione.
E senza azione non c’è rivoluzione.

10) Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano.

Negli anni ’50 i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti.
Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il sistema ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia della sua forma fisica che psichica.
Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.

Raggiungi qui il testo originale

Assemblea Popolare Democrazia Uguaglianza

Ci rivolgiamo a tutte e tutti coloro che hanno camminato con noi nel percorso del Brancaccio, verso la “Sinistra che ancora non c’è”. Abbiamo risposto per sincero spirito costruttivo e di responsabilità ai tanti appelli che si sono succeduti in questi giorni e di cui ringraziamo tutti. Lo spirito del Brancaccio ha seminato bene, e di questo siamo felici.

Eravamo e siamo a tutt’oggi convinti che la formazione di una alleanza fra cittadini e forze politiche per la difesa della Costituzione e la riaffermazione dei diritti cancellati dalle politiche neoliberiste degli ultimi governi, la costruzione di un fronte unico e innovativo della Sinistra verso un progetto più grande dei suoi singoli pezzi, il rilancio delle politiche per l’uguaglianza e per una democrazia compiuta, in tutte le sue forme partecipative e sostanziali siano e restino l’obiettivo primario di ogni ragionamento e azione politica della stagione che viviamo.

Ma, ad oggi, la nostra proposta alle forze politiche, perché il percorso verso una lista unica a Sinistra potesse essere ampiamente partecipato, democratico, libero e trasparente, non ha avuto alcuna risposta. Il risultato è che ormai si corre a grandi passi verso due liste: una di MDP, Possibile, SI; l’altra di Rifondazione Comunista e altri soggetti.

Nessuna di queste due proposte corrisponde a quella idea di unità, credibilità, partecipazione, innovazione, radicalità lanciata nel nostro appello del 18 giugno, che prefigurava l’inizio di una nuova stagione per il Paese e per la Sinistra.

Di più, le ragioni e i fini che sembrano muoverle – nel rispetto della piena autonomia dei soggetti politici che le guidano – non richiamano, neanche lontanamente, il metodo e lo spirito del Brancaccio. Nessuno ­ – a cominciare da noi due – può pensare di imporre agli aderenti a quell’appello una linea comune circa le decisioni che tutti ci troveremo a dover prendere nelle prossime elezioni: scegliere tra due liste diverse, guardare altrove o prendere la tristissima e dura decisione di non votare.

In queste ore si moltiplicano gli appelli pubblici e privati a noi stessi e a tante personalità della cosiddetta società civile perché si esprimano a favore di uno dei due processi a sinistra: naturalmente ognuno degli interpellati deciderà in totale libertà.

Ma noi teniamo a sottolineare che il progetto dell’ “alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” era quello di fornire ai cittadini comuni gli strumenti per incidere davvero in un processo politico: una cosa molto, molto diversa dall’invitare cittadini dai volti noti a fare i testimonial di una lista, di fatto, controllata dalle segreterie dei partiti. E molto diversa anche dalla partecipazione personale ad un’aggregazione di centri sociali organizzati e altri partiti.

Sappiamo che in tutta Italia una parte degli iscritti a Mdp, possibile, Sinistra Italiana si sta mobilitando, anche con toni di palese protesta, perché le assemblee dei prossimi giorni abbiano qualche possibilità di scardinare un copione prescritto e avvilente. Siamo con loro: la loro aspirazione di democrazia e di rinnovamento è la nostra.

Ma crediamo che, nelle condizioni date, per chi, come noi, non ha la tessera di nessuno dei tre partiti impegnati in questa alleanza non ci siano le garanzie minime per poter partecipare e portare costruttivamente il nostro contributo.

È per questo che noi non interverremo alle assemblee di questo fine settimana e a quella del 3 dicembre, pur augurando a tutti buon lavoro e il miglior successo.

Ed è ancora per questo che vogliamo andare avanti, nello spirito e per i fini che hanno ispirato il nostro appello del 18 Giugno e che hanno portato tante persone a mobilitarsi nella bellissima esperienza partecipativa delle “100 Piazze per il Programma”.

Vogliamo impegnarci a fondo perché tutto questo lavoro comune abbia un seguito: perché è qui, è legato alle cose, alle idee, ai problemi e alle loro soluzioni il nucleo più autentico del cammino che abbiamo condiviso, un cammino che non vogliamo interrompere.

Abbiamo un grande desiderio di incontrarci, e di recuperare l’occasione dell’assemblea che siamo stati costretti ad annullare. Apriremo a breve un percorso di confronto ampio e partecipato sui risultati del lavoro di sintesi fatto sulle proposte programmatiche emerse dalle 100 piazze e sulle scelte che dovremo compiere per organizzare al meglio il nostro lavoro futuro. A gennaio presenteremo a Roma i risultati di questo percorso, discutendolo con quanti di voi vorranno partecipare.

Anche se il percorso del Brancaccio non porterà ad alcuna lista, crediamo che sia importante per tutti che nella prossima campagna elettorale possa avere spazio la nostra visione del futuro: che potrà essere un metro su cui misurare le proposte e le promesse delle diverse liste. E anche un anticipo della costruzione della Sinistra che ancora non c’è, e che bisognerà pur deciderci a costruire.

Crediamo che proprio dall’incontro di gennaio potremo riprendere insieme il percorso: decidendo quale forma, quale mèta, quale passo vorremo e potremo tenere insieme. A presto, dunque, e grazie,

Anna Falcone, Tomaso Montanari

Vedi anche, di Tomaso Montanari, La lista Grasso, una grande occasione perduta

Ancora meno liberi gli USA. Vietato l’ingresso aimusulmani. La Corte suprema ha dato ragione all’editto di Donald Trump

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Associazione Popolare Democrazia Uguaglianza,

Ci rivolgiamo a tutte e tutti coloro che hanno camminato con noi nel percorso del Brancaccio, verso la “Sinistra che ancora non c’è”. Abbiamo risposto per sincero spirito costruttivo e di responsabilità ai tanti appelli che si sono succeduti in questi giorni e di cui ringraziamo tutti. Lo spirito del Brancaccio ha seminato bene, e di questo siamo felici. Eravamo e siamo a tutt’oggi convinti che la formazione di una alleanza fra cittadini e forze politiche per la difesa della Costituzione e la riaffermazione dei diritti cancellati dalle politiche neoliberiste degli ultimi governi, la costruzione di un fronte unico e innovativo della Sinistra verso un progetto più grande dei suoi singoli pezzi, il rilancio delle politiche per l’uguaglianza e per una democrazia compiuta, in tutte le sue forme partecipative e sostanziali siano e restino l’obiettivo primario di ogni ragionamento e azione politica della stagione che viviamo.

Ma, ad oggi, la nostra proposta alle forze politiche, perché il percorso verso una lista unica a Sinistra potesse essere ampiamente partecipato, democratico, libero e trasparente, non ha avuto alcuna risposta. Il risultato è che ormai si corre a grandi passi verso due liste: una di MDP, Possibile, SI; l’altra di Rifondazione Comunista e altri soggetti.

Nessuna di queste due proposte corrisponde a quella idea di unità, credibilità, partecipazione, innovazione, radicalità lanciata nel nostro appello del 18 giugno, che prefigurava l’inizio di una nuova stagione per il Paese e per la Sinistra. Di più, le ragioni e i fini che sembrano muoverle – nel rispetto della piena autonomia dei soggetti politici che le guidano – non richiamano, neanche lontanamente, il metodo e lo spirito del Brancaccio.

Nessuno ­ – a cominciare da noi due – può pensare di imporre agli aderenti a quell’appello una linea comune circa le decisioni che tutti ci troveremo a dover prendere nelle prossime elezioni: scegliere tra due liste diverse, guardare altrove o prendere la tristissima e dura decisione di non votare.

In queste ore si moltiplicano gli appelli pubblici e privati a noi stessi e a tante personalità della cosiddetta società civile perché si esprimano a favore di uno dei due processi a sinistra: naturalmente ognuno degli interpellati deciderà in totale libertà. Ma noi teniamo a sottolineare che il progetto dell’ “alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” era quello di fornire ai cittadini comuni gli strumenti per incidere davvero in un processo politico: una cosa molto, molto diversa dall’invitare cittadini dai volti noti a fare i testimonial di una lista, di fatto, controllata dalle segreterie dei partiti. E molto diversa anche dalla partecipazione personale ad un’aggregazione di centri sociali organizzati e altri partiti.

Sappiamo che in tutta Italia una parte degli iscritti a Mdp, possibile, Sinistra Italiana si sta mobilitando, anche con toni di palese protesta, perché le assemblee dei prossimi giorni abbiano qualche possibilità di scardinare un copione prescritto e avvilente. Siamo con loro: la loro aspirazione di democrazia e di rinnovamento è la nostra. Ma crediamo che, nelle condizioni date, per chi, come noi, non ha la tessera di nessuno dei tre partiti impegnati in questa alleanza non ci siano le garanzie minime per poter partecipare e portare costruttivamente il nostro contributo.

È per questo che noi non interverremo alle assemblee di questo fine settimana e a quella del 3 dicembre, pur augurando a tutti buon lavoro e il miglior successo. Ed è ancora per questo che vogliamo andare avanti, nello spirito e per i fini che hanno ispirato il nostro appello del 18 Giugno e che hanno portato tante persone a mobilitarsi nella bellissima esperienza partecipativa delle “100 Piazze per il Programma”.

Vogliamo impegnarci a fondo perché tutto questo lavoro comune abbia un seguito: perché è qui, è legato alle cose, alle idee, ai problemi e alle loro soluzioni il nucleo più autentico del cammino che abbiamo condiviso, un cammino che non vogliamo interrompere.

Abbiamo un grande desiderio di incontrarci, e di recuperare l’occasione dell’assemblea che siamo stati costretti ad annullare. Apriremo a breve un percorso di confronto ampio e partecipato sui risultati del lavoro di sintesi fatto sulle proposte programmatiche emerse dalle 100 piazze e sulle scelte che dovremo compiere per organizzare al meglio il nostro lavoro futuro. A gennaio presenteremo a Roma i risultati di questo percorso, discutendolo con quanti di voi vorranno partecipare.

Anche se il percorso del Brancaccio non porterà ad alcuna lista, crediamo che sia importante per tutti che nella prossima campagna elettorale possa avere spazio la nostra visione del futuro: che potrà essere un metro su cui misurare le proposte e le promesse delle diverse liste. E anche un anticipo della costruzione della Sinistra che ancora non c’è, e che bisognerà pur deciderci a costruire.

Crediamo che proprio dall’incontro di gennaio potremo riprendere insieme il percorso: decidendo quale forma, quale mèta, quale passo vorremo e potremo tenere insieme. A presto, dunque, e grazie,

Anna Falcone, Tomaso Montanari

Sbilanciamoci, Newsletter n.538, 24 novembre 2017. Recensione del libro di Marta Fana, Il mantra da smontare: "meno intervento pubblico e più flessibilità del mercato del lavoro, uguale più crescita e prosperità".

Marta Fana, Non è lavoro è sfruttamento, Editori Laterza, 2017, p. 192, €14,00, anche ebook

Il libro appena uscito di Marta Fana è una immersione nel mondo lavoro per raccontare vecchie e nuove figure professionali. È anche uno strumento necessario per la ricomposizione di un discorso alternativo a quello dell’ideologia dominante

La fine della storia è finita. Ultimamente, il numero di coloro che se ne sono accorti è in forte crescita. A livello globale sono molteplici i casi che dimostrano come siano in atto cambiamenti significativi nel dibattito pubblico. Abbiamo i Corbyn e i Sanders, che parlano esplicitamente di socialismo. Ci sono giornali e riviste come il New York Times e l’Economist che discutono l’attualità del pensiero marxista. L’Italia, invece, sembra latitare su questo fronte. Qui i mutamenti nei processi di produzione e consumo spesso sono stati importati senza un dibattito all’altezza di questi cambiamenti. Eppur qualcosa si muove. In questo contesto si inserisce Non è lavoro, è sfruttamento, il primo libro della ricercatrice Marta Fana.

L’autrice si immerge nel mondo lavoro per raccontare le esperienze di vecchie e nuove figure professionali. Troviamo i turni massacranti nel settore della logistica e la storia Abd Elsalam, ucciso durante un picchetto in una grande azienda vicino Piacenza. C’è lo sfruttamento nel settore pubblico e l’esperienza di Federica e i suoi colleghi che per anni hanno lavorato alla Biblioteca Nazionale di Roma ricevendo come compenso un rimborso spese di 400 euro per un part-time di 24 ore settimanali. C’è il cottimo dei fattorini: una consegna, tre euro, “un pezzo, un culo”. Con la differenza che per gli operai Massa contemporanei le ferie e i permessi per malattia sono solo un miraggio. Più che new economy sembra di essere tornari albori della società industriale. Come se non bastasse, il viaggio nel tempo ci porta ancora più in là, ad epoce precapitaliste. Ci finiamo con il lavoro gratuito dell’alternanza scuola lavoro, ovvero la storia di migliaia di studenti costretti a produrre senza ricevere alcuna retribuzione. E poi le storie di chi un lavoro non ce l’ha e magari neanche lo cerca. Nel nostro paese sono in tanti, troppi, a far parte di quest’ultima categoria, una percentuale della popolazione ben superiore alla media europea.

Nonostante la ricchezza della denuncia della quotidianità vissuta dai lavoratori, non siamo di fronte un elenco di testimonianze. Si tratta piuttosto di una narrazione che al dramma personale riesce a restituire una dimensione collettiva, di classe. Sì, perchè è un libro che parla di e alla classe, a quella lavoratrice. È una boccata di ossigeno che ci ricorda come la lotta di classe non sia mai scomparsa. Lo sanno bene coloro che in questi anni hanno portato avanti questo conflitto e che lo hanno vinto a mani basse, come sostiene il magnate Warren Buffett. Avendo in mente questa prospettiva, le storie di Abd Elsalam, Francesca e tutti gli altri sfruttati presenti nei vari capitoli possono essere interpretate nella loro pienezza. Le esperienze individuali non sono casi isolati, non rappresentano il risultato dell’inezia o della mancanza di vocazione personale, ma sono il frutto di un dinamica strutturale messa in moto con cinismo e razionalità. Sono le conseguenze dell’applicazione di un programma politico il cui esito non poteva essere diverso.

Ed è qui che troviamo l’altro grande contributo del libro. Marta Fana smonta l’apparato ideologico che ha giustificato decenni di liberalizzazioni del mercato del lavoro, promosse indistintamente da governi di centro-destra e di centro-“sinistra”, e ripercorre le misure legislative che una dopo l’altra hanno smantellato diritti in nome di un benessere che non si è mai materializzato. Il mantra ormai lo conosciamo e suona come un disco rotto: meno intervento pubblico e più flessibilità del mercato del lavoro, uguale più crescita e prosperità.

Eppure, questo discorso fa acqua da tutte le parti. In realtà, più che alla riduzione quantitativa della spesa pubblica assistiamo a un cambio nella composizione qualitativo dell’intervento statale. L’esperienza recente mostra che il ritornello del laissez faire si traduce unicamente nella demolizione dello stato sociale perchè, a dispetto dei proclami, lo Stato continua ad intervenire pesantemente nella sfera economica. Lo fa, per esempio, sborsando miliardi per risanare banche ridotte al fallimento da decenni di anarchia finanziaria. “Salvare i piccoli risparmiatori”, si dice. Peccato però che i piccoli risparmiatori siano poi abbandonati al loro destino quando vengono sfrattati di casa perchè non riescono a far fronte alle rate del mutuo (mutuo probabilmente contratto presso le stesse banche salvate dallo Stato). E magari gli stessi lavoratori rimangono disoccupati perchè l’azienda per cui lavoravano ha deciso di delocalizzare dall’oggi al domani, ovviamente non prima di essersi intascata milioni di denaro pubblico via sussidi e sgravi fiscali.

Se quello del minor intervento dello Stato è un falso mito, non c’è dubbio che la flessibilità del mercato del lavoro sia aumentata. Marta analizza le conseguenze di queste politiche evidenziando come le riforme non abbiano portato alla realizzazione degli obiettivi preannunciati. Al contrario, diversi studi scientifici dimostrano come una maggiore flessibilità non incide positivamente sul livello occupazionale né sulla produttività o sull’innovazione. Viviamo in un’epoca in cui il progresso tecnologico potenzialmente permetterebbe di lavorare meno ore e di raggiungere un miglioramento generalizzato del tenore di vita. Nonostante queste possibilità, la nostra è la prima generazione dal dopoguerra che sembra destinata a vivere peggio dei loro genitori, mentre i benefici derivanti dall’aumento della produttività degli ultimi decenni sono finiti nelle tasche di una minoranza privilegiata. Il bilancio della deregolamentazione e degli attacchi al mondo del lavorato è chiaro. Il risultato più tangibile è l’aumento di disoccupazione, disuguaglianza e povertà. Abbiamo fra le mani un j’accuse rivolto a un intero ciclo di politiche ideologiche e classiste.

Infine, un commento sullo stile che accompagna la lettura. Chi pensa che il libro puzzi di formalina si sbaglia di grosso. Marta è un fiume in piena che alla lucidità dell’analisi economica unisce il desiderio di rivalsa di una classe sociale da troppo tempo presa in giro e colpevolizzata. È uno scossone che mostra come lo stato di cose attuale non sia un percorso inevitabile dettato da leggi economiche “oggettive” ma il risultato di scelte precise, parziali, di classe. Non è lavoro, è sfruttamento è uno strumento necessario per la ricomposizione di un discorso alternativo a quello dell’ideologia dominante. Egemonia culturale, si diceva una volta. Il cammino è sicuramente lungo, ma oggi abbiamo un tassello in più per ricostruirla.

L'articolo è tratto da questo sito web: Sbilanciamoci, Newsletter n. 538.

AssembleaPopolareDemocraziaUguaglianza , 23 novembre 2017. Lettera aperta a Anna Falcone e Tomaso Montanari, in relazione alla campagna elettorale in corso

Da ogni punto del variegato mondo della sinistra italiana alternativa al PD (una formazione, quella di Renzi, che per conto mio non ho mai giudicato “di sinistra”) si levano appelli e inviti a formare un raggruppamento elettorale in grado di opporsi sia al PD e alle liste a esso collegate, sia al M5S sia, ovviamente, alle destre.

Forti pressioni si esercitano sull’Assemblea Popolare Democrazia e Uguaglianza (Anna Falcone e Tomaso Montanari, appello del Brancaccio) perché aderisca formalmente a questa lista. La grande distanza che divide, nell’analisi e nella proposta politica, la posizione del Brancaccio da quelle delle sinistre italiane mi è sempre sembrata così profonda- a tutto vantaggio di quella del Brancaccio - che ho sempre nutrito forti perplessità per incontri e confusioni per le due aree politiche: condivido pienamente le ragioni dell’area Brancaccio, ho molti radicati dubbi su quelle della “sinistra”.

Riepilogo le ragioni per cui l’analisi e la proposta di Anna e Tom mi sono sembrate le uniche adeguate a comprendere, e quindi a combattere efficacemente, la crisi che travaglia il nostro pianeta e le sue popolazioni nell’ età del capitalismo globalizzato:
- La denuncia del carattere radicale della crisi che il mondo attraversava. Era una crisi che rivelava come alle sue radici vi fosse l’ideologia dello sviluppo: un’ideologia il cui dominio aveva accresciuto a dismisura la frattura tra ricchi e poveri, tra popoli che vivono nei paradisi del benessere e popoli che vivono negli inferni della carestia e delle guerre, entrambi creati dal dominio di quella ideologia.
- La netta rottura con il passato della “politica politicante”, con i suoi riti, le sue struttura organizzative, i suoi piccolo Pantheon. Craxi, Berlusconi e Renzi, certamente, ma non solo questi. In una parola, la rottura con i gusci grandi e piccoli delle sinistre (e ovviamente le destre) del secolo scorso.
- L’affermazione dell’eguaglianza come essenziale valore e principio da conquistare: un’eguaglianza non solo dei diritti statuiti, ma di quelli sostanziali di ogni essere umano, quale che sia il suo censo, il suo ruolo sociale, il sangue o il suolo dal quale proviene, la lingua che parla, la religione che professa.
- La consapevolezza che la trasformazione da compiere non era l’aggiustamento del sistema economico-sociale nel quale viviamo (il capitalismo), né la moderazione dei suoi effetti più distruttivi, ma il suo superamento radicale (il superamento dell’”economia che uccide”).

Ciò detto, esprimevo la mia perplessità su un punto: non sul piano della strategia ma su quello della tattica. Mi riferivo al difficile equilibrio tra due esigenze: quella della definizione di una identità “di parte”, radicalmente diversa dalle altre identità che si sono affermate nella storia del nostro paese, e quella dell’efficacia politica nell’immediato.

Far prevalere la ricerca dell’efficacia immediata (e quindi proporre una “lista unica della sinistra”) comportava secondo me ad annebbiare il messaggio di rottura col passato che è la forza della proposta. Il percorso che mi sembrava preferibile era: prima affermare, rendere evidente e compiuta, la propria identità/diversità, e solo dopo stabilire le alleanze necessarie per raggiungere gradualmente gli obiettivi nella pratica politica.

La mia perplessità era fondata sul fatto che quella “sinistra” cui il documento si riferiva era stata complice – se non addirittura co-autore – della tragedia che si compiva sotto i nostri occhi. L’ideologia dello sviluppo è stata pienamente condivisa dalla sinistra, e la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, cioè lo sfruttamento delle regioni e dei popoli lontani, era stato lo strumento accettato per accrescere salari e welfare nei paesi “sviluppati”(cfr in proposito il mio articolo La parola "Sinistra"]

Per concludere, accettare di far parte di una “sinistra” capace di contribuire a tagliare le radici della crisi (una “crisi” non cartacea, ma testimoniata ogni giorno dai corpi mutilati o affogati dei fuggitivi) mi sembrava e mi sembra un’ipocrisia, se non è preceduta da una esplicita presa di coscienza delle responsabilità storiche e attuali della “sinistra” e da una concreta applicazione, nella vita politica di ciascuno, di quel convincimento.

Edoardo Salzano, 20 novembre 2017
Qui la fonte da cui è tratto l'articolo

La Repubblica, 2«Ora finalmente, l’astensione di massa è entrata nella discussione politica. Ma di che cosa si discute? Soprattutto di come attirare o recuperare alla propria parte i voti perduti».Nei primi anni della democrazia, le giornate elettorali erano giorni di festa. Chi ha una certa età e un minimo di memoria, ricorda che ai seggi c’era chi si recava con il “vestito buono” e non solo perché era domenica. Si festeggiava la riconquistata libertà. Un’abissale distanza dai rassegnati rituali dei giorni nostri, quando due elettori su tre hanno disertato, non trovando valide ragioni nemmeno per quel piccolo atto di impegno politico che è la scheda depositata nell’urna. Ora finalmente, l’astensione di massa è entrata nella discussione politica. Ma di che cosa si discute? Soprattutto di come attirare o recuperare alla propria parte i voti perduti; di come pescare qualcosa in quel grande bacino di astenentisi che è diventato il più grande partito italiano, più grande di tutti gli altri messi insieme. Insomma, i partiti pensano ai propri interessi facendo promesse sempre meno credute, per sedurre gli elettori e intercettarne i voti. In prossimità delle elezioni, cioè, fanno esattamente ciò che è la causa della frustrazione della democrazia. In Italia c’è il suffragio universale: vero e falso. Vero, perché il diritto di voto è riconosciuto a tutti; falso, perché solo una minoranza lo esercita. È la differenza tra ciò che è in potenza (il diritto) e ciò che è in atto (l’esercizio del diritto). Il voto è diritto di tutti e molti non lo usano. Così la democrazia, che dovrebbe essere il sistema politico della larga partecipazione, diventa “olicrazia”, il regime in cui il governo è nelle mani di minoranze. Senza che si cambino le leggi, cambia la forma di governo.

C’è, innanzitutto, una questione quantitativa. Un tempo, “l’astenuto” era l’eccezione. Nelle prime elezioni repubblicane, nel 1948, i cittadini che andarono al voto furono il 92,23 per cento: cioè, tolti coloro che erano impediti dagli acciacchi, dalla malattia o dall’assenza dall’Italia, tutti. A partire dagli anni ’80, si scese sotto l’80 per cento e si incominciò a riflettere. Oggi possiamo dire che non è l’astenuto l’eccezione, ma è il votante, soprattutto in certe fasce d’età e in certe categorie sociali. Una volta ci si chiedeva quali fossero le ragioni del non- voto; oggi, quali le ragioni del voto: un vero e proprio ribaltamento. Il diritto c’è, ma la maggioranza non ne fa uso. Se è vero che l’esercizio dei diritti è ciò che forma l’ossatura morale d’una società (una volta si diceva che bisogna tenere sempre strette le mani sui propri diritti), allora dobbiamo concludere che siamo diventati un popolo straordinariamente malleabile, arrendevole.
I politologi si consolano troppo facilmente osservando che l’astensionismo è diffuso dappertutto, talora in misura anche maggiore che in Italia. Parlando solo dell’Europa, le statistiche provano che siamo comunque nella media dei maggiori Paesi dei quali non si potrebbe contestare il carattere democratico (Regno Unito, Francia, Germania, Svizzera, ecc.). Si dice anzi che sarebbe il sintomo di “democrazie mature”, consolidate: ci si fida a tal punto gli uni degli altri che non si considera necessario agire in proprio. In un certo senso, gli astenuti si fanno rappresentare dai votanti.
Il sintomo, tuttavia, è ambiguo. Non dappertutto e sempre esso significa la stessa cosa. Occorrerebbe andare a fondo nelle motivazioni: molta fiducia e molta sfiducia possono produrre lo stesso effetto. La fiducia è il pilastro della democrazia, ma la sfiducia ne è il tarlo. Non c’è bisogno di sondaggi, statistiche, analisi per capire che in Italia siamo di fronte al rinascente fenomeno di massa del rifiuto della politica, e per sapere di quale mescolanza di delusione, frustrazione, rassegnazione, rabbia e disprezzo esso si alimenta. Basta un po’ di ordinarie, quotidiane frequentazioni e conversazioni.
C’è, poi anche, una questione qualitativa.
Si dice che il nostro tempo è quello del populismo e dell’antipolitica, e il dilagante astensionismo è spesso indicato come un effetto dell’uno e dell’altra. Chissà perché? I populismi, comunque li si concepisca, sono sempre regimi della mobilitazione di massa (mobilitazione, non partecipazione), mentre l’astensione è una smobilitazione. L’anti- politica, poi, è un sentimento attivo che si rivolge “ contro”: contro le istituzioni, i politici, lo Stato, e può sfociare in ribellismo e in anarchismo. L’astensionismo, forse, più precisamente potrebbe definirsi non- politica, “ impolitica”: cioè l’atteggiamento rassegnato di chi dice “ lasciatemi in pace” oppure, drammaticamente, “ ho perso ogni speranza” perché non so chi votare, a chi votarmi.
C’è poi, invece, il popolo dei votanti, il popolo composto da coloro che sanno chi votare— perché mantengono viva una fedeltà, una speranza e una fiducia — e da coloro che sanno a chi votarsi — perché hanno ricevuto promesse di favori o minacce di ritorsioni. Il voto dei primi è libero; quello dei secondi, è forzato. Coloro che appartengono al mondo di chi sa a chi votarsi di certo non si astengono. Così, tanto maggiore è il loro numero, tanto maggiore è l’incidenza del voto corrotto su quello libero. Se — supponiamo — votano in cento e i voti corrotti sono venti, i venti rappresentano un quinto del totale; se votano in sessanta e i voti corrotti sono sempre venti, i venti rappresentano un terzo del totale. Ciò significa, in breve, che l’astensionismo attribuisce un plusvalore al voto di scambio e, in genere, all’influenza delle varie forme di criminalità organizzata che operano nel nostro Paese. La crescita dell’astensione le favorisce. Si ha un bel dire che, astenendosi, i cittadini reagiscono in quel modo al degrado della politica “lanciando segnali”: nel frattempo, però, non fanno altro che dare maggiore potere a coloro contro i quali vorrebbero dirigere la loro protesta.
C’è, infine, la questione politica. Tra gli astenuti, moltissimi sono coloro che dicono: voterei certamente, se solo sapessi per chi. E molti lo dicono con amarezza, perché sanno quanto è costata in lacrime e sangue la conquista del diritto di voto, per ogni spirito democratico il più sacro di tutti. Ma, per non fare vuota retorica (“ occorre”, “ serve”, “ bisogna”), non basta ( più) invocare il “ dovere civico” di cui parla la Costituzione. Deve riattivarsi il circuito della domanda (degli elettori) e dell’offerta (di chi si candida a essere eletto). C’è stato un tempo in cui si chiedeva: tu che ti astieni, che motivo hai per non votare. Oggi, spesso, si vuole sapere da chi non si astiene che motivo ha per votare. Qui c’è la questione politica. Il voto è un mercato. La parola può sembrare odiosa e lo è se il “bene” offerto è il favoritismo, il patronage d’interessi particolari a danno di quelli comuni, il clientelismo, la promessa d’illegalità, la corruzione, la partecipazione in opache strutture d’interessi. Non siamo (ancora) a questo punto ma, se i “ giri del potere” si stringeranno ancora e l’astensione di coloro che ne sono estranei crescerà, verrà il momento in cui l’elettore che fa uso del diritto di voto sarà sospettato di collusione.
La merce offerta sul mercato elettorale può, tuttavia, essere altra: onestà, esperienza, competenza, idee e ideali concreti di vita comune. Questa è la merce che manca al popolo di chi si astiene. Se qualcuno volesse farsene un’idea approfondita, potrebbe leggere il famoso saggio di Max Weber La politica come professione. I partiti che si candidano alle elezioni, così come sono, sono all’altezza del bisogno? Oppure il tempo per correre ai ripari è passato irrimediabilmente? È difficile l’innamoramento di ritorno, ma è ancor più difficile il ritorno alla politica di chi ne è stato prima illuso e poi disgustato.
Di fronte a questo compito, tanto vasto e urgente quanto essenziale per la democrazia, gli slogan, le promesse, le alchimie, le furbizie elettorali, le incoerenze, le menzogne e le recriminazioni reciproche sono contorcimenti nel vuoto che, se possibile, danno ragioni crescenti al popolo degli astenuti che osserva. C’è nell’aria un desiderio di ricominciamento; c’è un sentimento ambiguo di “piazza pulita”. Può essere il preludio a una catastrofe o a una rigenerazione. Se sarà la prima, gli storici daranno tutta la colpa alle inadeguatezze dei partiti e dei loro dirigenti, all’arroccamento nei posti e sulle posizioni acquisite e all’incapacità di cogliere il momento, comprendendo quando i vecchi tempi sono al tramonto e occorre promuoverne di nuovi.

Si dice che il nostro tempo è quello del populismo ma i populismi sono i regimi della mobilitazione di massa, mentre il non voto è smobilitazione

il manifesto,

«Sinistra. Il comportamento di certi aspiranti federatori, all’opera negli ultimi mesi, ci sono costruttori che si sono rivelati sabotatori (periamo inconsapevoli)»

Sono una dei tanti elettori italiani che guardano con vera preoccupazione all’appuntamento delle prossime elezioni perché, semplicemente, non sappiamo per chi votare.

Siamo elettori orfani, persone alla ricerca di un partito o una lista credibili, con candidati pronti ad affrontare un’elezione nazionale proponendo risposte di sinistra alle sfide del tempo: in primo luogo quelle del lavoro e delle disuguaglianze. Ma anche la sfida del clima e dell’ambiente, dell’istruzione e della sanità, del diritto e soprattutto dei diritti. Quello che cerchiamo è una proposta politica che possa guardare al mondo in cui ci troviamo, a cominciare dallo stesso mare Mediterraneo che ci circonda.

PROBABILMENTE ABBIAMO votato in modi anche diversi alle ultime elezioni, ma di una cosa siamo convinti: riteniamo che alla luce dei fatti, delle alleanze che ha stretto e delle leggi approvate dagli ultimi due governi (e di quelle passate nel dimenticatoio), l’attuale Partito Democratico non può o non vuole formulare le risposte che rivendichiamo. Per questo motivo ci appassionano ben poco le ultime manovre in atto per cercare una pezza che sia a sinistra. Vogliamo andare avanti.

E siccome la speranza sarà pur sempre l’ultima a morire, continuiamo a guardare con interesse alla discussione in corso a sinistra per la formazione di una lista comune. Siamo realisti, l’obiettivo non è semplice, trattandosi, almeno in parte, di una ricomposizione tra soggetti che hanno preso strade diverse. Ma avremmo salutato con piacere delle voci nuove nel panorama un po’ polveroso della sinistra italiana. E’ stata un’attesa lunga e frustrante.

Guardando infatti il comportamento di certi aspiranti federatori durante gli ultimi mesi, ci sono costruttori che si sono rivelati – speriamo inconsapevoli – sabotatori, facendo deragliare più di un tentativo avviato per mettere in piede un vero contendete di sinistra. In questo modo al Pd è stato lasciato campo libero per continuare a rivendicare uno spazio politico e la rappresentanza degli interessi di molti elettori che ha, nei fatti, abbandonato da tempo.

È STATO PERSO MOLTO, troppo tempo prezioso, e la delusione in giro a questo punto è tanta. Questo renderà ancora più difficile il compito dei giocatori rimasti in campo, e in particolare dei promotori dell’assemblea nazionale per la costituzione di una nuova proposta politica di sinistra del 2 dicembre, fin qui Roberto Speranza, Pippo Civati e Nicola Fratoianni, a nome dei rispettivi movimenti.

Forse se ne aggiungeranno altri, speriamo di si, perché con la rinuncia a partecipare dei due principali promotori di ’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza’, meglio noti come quelli del Brancaccio’, dopo un percorso di ben 98 assemblee in giro per il paese con l’obiettivo specifico della costituzione di una lista comune, la futura aggregazione ha perso la sua unica componente ‘civica’, guidata da due promettenti new entry sulla scena politica nazionale: Anna Falcone e Tomaso Montanari.

Senza di loro l’appuntamento del 2 dicembre rischia di perdere smalto, la freschezza del nuovo, ma soprattutto respiro: l’eco del movimento di opinione, in particolare di giovani, che contribuirono in modo decisivo a fare vincere il ‘No’ nel referendum costituzionale dell’anno scorso.

MA C’È UN ALTRO MOTIVO che ci fa rimpiangere la loro assenza. Ai due portavoce del Brancaccio va dato atto che sono stati gli unici a porre con forza la questione delle regole per la selezione dei candidati della futura lista comune. Non è una questione da poco.

Il decollo finale della nuova proposta politica deve molto alla protervia con la quale il Pd di Matteo Renzi ha imposto una indifendibile legge elettorale. Questa forzatura politica ed istituzionale ha pubblicamente sancito la tacita alleanza parlamentare del Pd con la destra dell’impresentabile Verdini, e provocato la rottura motivata del presidente del Senato Pietro Grasso, regalando alla nuova formazione di sinistra la possibilità di un leader di peso (o almeno di rango) e tutto meno che divisivo.

LA DRAMMATICA DECISIONE di Grasso ha portato i gravi difetti della legge elettorale all’attenzione di tutti. Un marchingegno cinicamente congegnato per mantenere il potere nelle mani dei capi partito, privando gli elettori non solo del potere di scelta, ma anche di una effettiva rappresentanza. Agli alti principi e alla sovranità del popolo non badava proprio nessuno.

È per questo motivo che il modo in cui si formeranno le liste elettorali del futuro soggetto politico è una questione tutto meno che secondaria, e sicuramente di pari importanza al suo programma elettorale. E questo è il secondo punto che mi preme di sottolineare.

IL PERCORSO DA AVVIARE dopo il 2 dicembre dovrà costituire la rappresentazione concreta del rigetto dei principi guida del cosiddetto Rosatellum: è una legge fatta per consegnare il potere di scelta dei candidati ai segretari dei partiti? Scegliamoli invece «con metodo democratico», come recita la Costituzione. E’ stata abbandonata la parità di genere? Assicuriamola davvero per i componenti della nuova lista. E’ consentito l’obbrobrio delle pluricandidature, permettendo ai capilista di esercitare un potere feudale di prima scelta? La nuova lista le bandirà.

Solo così si potranno smentire le rabbiose accuse lanciate nel giorno della rinuncia da un Montanari più che deluso, che, di fatto, sfida i proponenti dell’assemblea del 2 dicembre a dimostrare che quell’appuntamento non sarà, come ha detto, «un teatro che copre l’obiettivo reale: rieleggere la fetta più grande possibile degli attuali gruppi parlamentari». Se, come me lo auguro, Montanari ha torto, bisognerà dimostrarglielo, e, ciò facendo, sperare di recuperare un bel po’ di delusi come lui nel paese.

Ma se per disgrazia quel gruppo di parlamentari uscenti che si sono ritrovati intorno alla nuova proposta per un futuro soggetto politico di sinistra pensano davvero di allestire una zatterella di salvataggio personale, temo che potrebbero fare la stessa triste fine dei 147 passeggeri della famosa zattera della Medusa (di cui si salvarono solo in 15), con buona pace delle speranze nostre e loro.

il manifesto, 21 novembre 2017. Abbandona il proscenio una nuova sinistra, ecco che un'atra occupa il suo posto. Alla fine ci troveremo a cantare tutti insieme "Bandiera rossa la trionferà"

«Assemblea a Roma organizzata dai militanti dell'ex opg "Je so pazzo" di Napoli. Con rifondazione e comunisti italiani. Si lavora a una lista elettorale, la terza oltre quella di Pisapia con il Pd e di Bersani e D'Alema senza il Pd»

Sabato scorso a Roma si sarebbe dovuta tenere l’assemblea del Brancaccio, invece se n’è tenuta un’altra al Teatro Italia. Tomaso Montanari e Anna Falcone hanno deciso di fare un passo di lato («I segretari di Mdp, Possibile e Sinistra italiana hanno scelto un leader. E questo ha ‘risolto’ tutti i problemi» l’accusa di Montanari). I militanti dell’ex Opg Je so’ pazzo di Napoli hanno deciso di occupare il vuoto lasciato dai «civici» per proporre la costruzione di una lista di sinistra. Senza nessun centro a cui guardare «perché la lotta di classe non l’inventiamo noi, è nelle cose», hanno rivendicato nell’intervento finale.

Gli attivisti dell’ex Opg hanno in gestione (attraverso una delibera dell’amministrazione napoletana) uno spazio «bene comune»: nelle stanze di un convento, diventato un luogo di reclusione per criminali ritenuti pazzi e poi abbandonato, adesso c’è l’ambulatorio popolare, lo sportello legale per migranti e lavoratori in nero, corsi di italiano, doposcuola per i ragazzi del quartiere, la palestra e il teatro popolare. Un lavoro sviluppato in rete con i collettivi, i centri culturali e sociali a partire da Clash city workers e quelli che si riconoscono nella sigla «Potere al popolo», nata lo scorso settembre a Napoli e diffusa in ventidue città da nord a sud della penisola. Avevano provato a partecipare all’assemblea del Brancaccio, a giugno, ma non era scattato il feeling. Con la prima fila occupata dai leader dei partiti della sinistra, l’ex Opg aveva avvisato: «Non costruiamo un luogo per dirigenti senza territori».

Sabato si sono ritrovati con il teatro pieno: molti dei partecipanti erano transfughi del Brancaccio, tante le sigle delle lotte contro le politiche di sfruttamento degli ultimi governi come i No tav e No tap e poi anche realtà strutturate come Rifondazione comunista, il Partito comunista italiano (già Pdci) ed Eurostop. Per cambiare paradigma bisogna cambiare metodo, spiega Matteo Giardiello: «Su lavoro, sanità, scuola, migranti la discussione è monopolizzata dal, quello occupato dal Pd, oppure dal Movimento 5 Stelle o dalla destra. Per costruire una lettura e un percorso di sinistra abbiamo avviato le assemblee provinciali, che porteranno a una sintesi regione per regione. Entro la prima metà di dicembre ci sarà un nuovo incontro nazionale e poi partiremo con la raccolta delle firme. Programma, firme, candidati saranno il frutto del protagonismo delle comunità in cui operiamo».

Sul palco le testimonianze dei lavoratori del call center Almaviva di Roma, licenziati per non aver accettato un accordo capestro che tagliava del 17% stipendi da 600 euro e poi reintegrati dal giudice del lavoro, sindacalisti di base come Giovanni dell’Usb di Livorno: «Abbiamo l’esperienza per mobilitare una grossa parte di questa gente. Sapremo essere la differenza, la speranza, i giochi di segreteria lasciamoli stare, ci hanno ammazzato». E docenti come Roberto, del Coordinamento insegnanti autoconvocati: «Questa esperienza parte dalle lotte, non abbiamo tra noi i responsabili delle politiche degli ultimi anni. Vogliamo cancellare non solo il Jobs Act e la Buona Scuola ma anche il pacchetto Treu e la riforma Fornero, togliere l’appoggio alle guerre imperialiste».
Rifondazione ha aderito al percorso con un voto in direzione (26 favorevoli, 9 contrari): «Giudichiamo negativamente l’annullamento dell’assemblea del Brancaccio e positivamente l’incontro al Teatro Italia, per la capacità di far esprimere esperienze di lotta, pratiche solidali, volontà di partecipazione, nuovo entusiasmo».

Se il percorso lo scrivono i territori, all’assemblea di sabato scorso è toccato indicare il metodo, come spiega Viola dell’ex Opg: «Nella versione de L’Internazionale scritta da Franco Fortini c’è una frase che dice tutto del nostro compito: “Dove era il no, faremo il sì”. Proviamo a rovesciarlo questo mondo rovesciato e iniziamo a farlo rovesciandoci, mettendoci prima noi sottosopra».

NENA news l'urbanizzazione neoliberista in Istanbul e altre città, il regista racconta la vita in Turchia nello stato di emergenza. La trasformazione urbana è una questione sistemica nel sistema socio-economico attuale. (i.b)

Il 21 luglio 2016, a meno di una settimana dal tentato golpe in Turchia, il presidente Erdoğan dichiara l’attuazione per tre mesi dello stato di emergenza (Ohal), rinnovato poi di tre mesi in tre mesi e ancora in vigore. Nel luglio 2017, con due anteprime una a Berlino e poi a Istanbul, viene presentato il documentario “La Turchia sull’orlo dell’abisso (Uçurumun kıyısında Türkiye)”, un film che racconta l’anno appena trascorso nello stato di eccezione.

Un anno denso di avvenimenti, migliaia di persone costrette alle dimissioni, giornalisti, politici, scrittori, attivisti fermati, arrestati, processati dopo mesi sempre con l’accusa di affiliazione a organizzazione terroristica ma con prove scarse o inesistenti. Un anno in cui la libertà di espressione ha subito i più gravi attacchi e nonostante ciò la popolazione è stata invitata ad esprimersi con il voto su una questione delicata e decisiva: la riforma costituzionale per il passaggio a un regime presidenziale.

Imre Azem, regista del film e già autore del pluripremiato Ecumenopolis. City without Limits (Ekümenopolis. Uçu olmayan şehir), dopo essersi dedicato per anni al tema delle trasformazioni urbane, della speculazione immobiliare come forma di manifestazione di politiche neoliberiste, ha deciso di narrare un anno di Turchia nello stato di emergenza seguendo quattro persone, quattro attivisti coinvolti in diverse battaglie politiche e impegnatisi in prima linea nella campagna elettorale del referendum.

In La Turchia sull’orlo dell’abisso in compagnia del giornalista Fatih Polat, l’architetta Mücella Yapici, l’attivista Deniz Özgür e la docente Gül Köksal, lo spettatore può vedere da vicino non solo gli effetti dello stato di emergenza ma anche percepire la tenacia e la forza con cui, nonostante tutto, le persone in Turchia non si danno per vinte e continuano la loro battaglia per il rispetto dei diritti democratici.

Alla vigilia della prima italiana del film La Turchia sull’orlo dell’abisso, in una serata organizzata da Kaleydoskop – Turchia cultura e società abbiamo incontrato il regista Imre Azem per porgli alcune domande.

Come nasce l’idea di questo documentario?

Noi abbiamo sempre realizzato documentari sulla città, nel 2011 è uscito Ekümenopolis dopo di che abbiamo prodotto brevi documentari sempre sulle trasformazioni urbane, però in tempi più recenti, in particolare dopo Gezi, abbiamo cominciato a realizzare documentari su questioni più legate alla società, alla politica. All’inizio del 2016 eravamo tornati a fare dei documentari sulla società e volevamo fare un altro film che come Ekümenopolis affrontasse il rapporto tra il mondo della finanza e lo sviluppo urbano, ma a livello globale, e per questo siamo andati negli Stati Uniti, per parlare con gli investitori di Wall Street; siamo rimasti tre mesi, stavamo facendo delle ricerche quando, proprio allora, è avvenuto il colpo di Stato.

Con il golpe in Turchia l’atmosfera è cambiata di colpo e noi abbiamo pensato che, considerato ciò che stava accadendo nel nostro paese, invece di fare le riprese in America, in Europa e in altre grandi città del mondo come avremmo dovuto fare, abbiamo deciso che questo progetto non poteva continuare, lo abbiamo abbandonato, siamo tornati in Turchia per cercare di capire come raccontare quello che stava succedendo.

Nel frattempo una produzione che ci conosceva in Germania ci ha contattato. Subito dopo il golpe, infatti, c’è stato un grosso interesse in Europa verso la Turchia e tutti volevano fare qualcosa su quello che accadeva. Noi abbiamo spiegato loro che tipo di progetto avevamo in testa e che secondo noi per capire dove stava andando la Turchia, parlare con un rappresentante dell’Akp, con uno dell’Hdp, con ognuno dei partiti politici, intervistare i politici e confrontare le loro posizioni sarebbe stata una cosa senza senso. La nostra è stata una posizione chiara, abbiamo inisistito che fosse necessario un punto di vista specifico perché pensiamo che sia importante capire che influenza abbia lo stato di emergenza sulla vita di tutti i giorni, sull’attivismo. Così solo è possibile raccontare in modo più chiaro e trasparente il futuro del paese. Loro hanno accettato questa nostra proposta e quindi abbiamo cominciato a lavorarci.

Questo progetto ha anche molto di personale perché lo racconto dal mio punto di vista e lo faccio attraverso persone che conosco direttamente, che appartengono alla mia cerchia. Non ho scelto queste persone perché in generale cercavo dei profili come i loro e basta ma perché io conosco queste persone, in particolare dopo Gezi abbiamo condiviso la lotta per la democrazia e nel documentario racconto le persone attorno a me, persone con cui ci siamo battuti insieme.

Per me è un film sincero, personale, ma visto che non nascondo il punto in cui ci siamo fermati, essendo coinvolto anch’io in prima persona, anche come voce narrante, per lo spettatore tutto è più chiaro. In questo senso spiega meglio il punto in cui siamo arrivati in Turchia e dove possiamo andare. È un film che dà più informazioni.

Il documentario s’intitola La Turchia sull’orlo dell’abisso. Una definizione inquietante per un paese che solo qualche anno fa, a livello internazionale, rappresentava un modello esemplare di sviluppo economico, democrazia e islam. Ci spieghi come sei giunto a questo titolo?

La prima volta che ho cominciato a pensare a questo film ho cominciato a scrivere di getto il testo, ho scritto molto e il titolo del film è stato di fatto il primo titolo che avevo dato al testo. Di fatto esprimeva il sentimento che provavo rispetto alla Turchia. Non è una condizione nuova, e certamente si è sviluppata piano piano in un lungo processo, però tutto d’un tratto ci siamo ritrovati su un baratro, sull’orlo dell’abisso, e la trasformazione a questo punto può diventare molto difficile: in questo senso parlo di abisso. Per la Turchia l’abisso può essere una guerra civile; io penso che ci siamo arrivati davvero molto vicini e a un certo punto tornare indietro sarà molto difficile. Tuttavia ci sono ancora speranze, penso che non siamo ancora a questo punto.

La Turchia sull’orlo dell’abisso è stato realizzato dalla Kibrit Film, fondata insieme a Gaye Günay, grazie a una produzione tedesca, la gebrueder beetz filmproduktion in collaborazione con ZDF e Arte. Che valore hanno avuto questi fondi stranieri, europei per la precisione, in un momento di grande censura per il cinema indipendente?

Abbiamo cominciato a lavorare alle riprese del film prima di accordarci con la produzione tedesca e Arte, ma avevamo ovviamente molte spese da affrontare: noleggio attrezzature, costi per i tecnici… senza fondi l’avremmo fatto comunque ma probabilmente in un formato molto più breve e meno complesso, invece così grazie ai fondi messi a disposizione abbiamo potuto dedicarci per sei mesi completamente al film oltre a un sostegno tecnico perché abbiamo avuto la disponibilità di un montatore e di una seconda camera. Riuscendo a sostenere i costi abbiamo avuto la possibilità di avere una equipe. Forse l’avremmo fatto lo stesso ma non in modo così completo e dettagliato.

Per molti anni il tuo lavoro e quello della tua casa di produzione, la Kibrit Film, si è concentrato sul tema della speculazione urbana e il suo legame con le politiche neoliberiste. Trovi qualche connessione con quello che hai raccontato finora e la deriva politica dell’ultimo periodo?

In tutti i lavori che abbiamo fatto prima d’ora, abbiamo cercato di raccontare come la trasformazione urbana sia una questione sistemica. In Turchia il processo di trasformazione urbana è stato un riflesso del sistema economico e politico e in questo senso l’amministrazione politica che è cambiata diventando sempre più autoritaria si rispecchia nella gestione della città. Anche nella trasformazione urbana ad esempio si ricorre allo stato di emergenza, con la scusa dello stato di emergenza non si accettano alcune opposizioni, non si dà il permesso per le manifestazioni, anche i procuratori usano lo stato di emergenza e con la scusa fanno passare nuove leggi…

Proprio come ora con i decreti di emergenza e senza nessun rispetto della legge, persino della costituzione, è possibile far passare le leggi che si vogliono. Questo succede anche con i progetti di trasformazione urbana, per esempio nei confronti della natura, la legge sulle miniere, per questioni ambientali; vengono avviati progetti fuori legge, anche non approvati, e in questo senso era già possibile vedere nelle città la condizione dello stato di emergenza.

Il film è uscito ufficialmente a luglio ma è da ottobre che sta girando per la Turchia in un circuito indipendente e autorganizzato. Come sta andando? Come organizzate le proiezioni?

L’anteprima del film è stata a Berlino, la seconda a Istanbul, il 12 luglio nel Ses Tiyatrosu, e ora, infatti, stiamo organizzando proiezioni in tutta la Turchia… in realtà non siamo noi che le organizziamo ma abbiamo dato la nostra disponibilità, così veniamo contattati e invitati a presentarlo. Abbiamo avuto già molte richieste: sono previste proiezioni a Mersin, Ankara, Izmir, Eskişehir, in diverse università, e anche all’estero, negli Stati Uniti, in Germania.

Il film gira quindi grazie a proiezioni private, su iniziativa di singoli o di gruppi, e per noi queste proiezioni sono molto importanti perché uno dei messaggi del film è che la lotta per la democrazia si fa insieme, stando uniti, per essere più forti. Organizzare le proiezioni con gruppi che si battono per i diritti democratici e si riuniscono, si ritrovano e discutono anche stimolati dal documentario per noi è molto importante. Soprattutto perché oggi, a parte i social network, siamo in un periodo in cui dobbiamo davvero ritrovarci, stare insieme, darci una mano e creare occasioni è fondamentale. Poi probabilmente per queste persone il film non racconta nulla di nuovo, perché sono già persone sensibili, coinvolte, ma con le proiezioni si ha modo di discutere e soprattutto si aprono barlumi di speranza, per una lotta comune. Così come, io credo, si contribuisce alla costruzione di una narrazione comune, collettiva, che è ciò di cui abbiamo bisogno.

***

Il documentario La Turchia sull’orlo dell’abisso sarà proiettato per la prima volta in assoluto in Italia venerdì prossimo, il 17 novembre alle ore 20 a Napoli, presso l’ex Asilo Filangieri. La proiezione è parte del primo evento di lancio della rivista online Kaleydoskop – Turchia, cultura e società , una rivista nata quest’estate grazie a una riuscita campagna di donazioni dal basso e online da metà settembre. Fondata da una piccola redazione di cinque donne Kaleydoskop.it, progetto indipendente, racconta la vita culturale e la società in Turchia. Un progetto di cooperazione, di sostegno a forme di cittadinanza attiva in un paese, la Turchia, che sta attraversando un periodo molto critico in cui, giorno dopo giorno, si riducono sensibilmente gli spazi e le possibilità per esprimersi liberamente. Kaleydoskop.it racconta di letteratura, cinema, fotografia, satira, creazioni e documentari sonori, festival, musei, mostre, iniziative, radio, associazioni, lo fa con una costante collaborazione con artisti, giornalisti, fotografi, illustratori turchi.

Dopo la proiezione napoletana è possibile organizzare altre proiezioni del documentario contattando la redazione di Kaleydoskop via email (info@kaleydoskop.it).

Riferimenti
Qui il link al trailer di Turkey on the edge.
Per chi si fosse perso Ecumenopolis. City without limits, qui il video.

il manifesto,

Il brusco arresto del percorso avviato lo scorso 18 giugno al teatro Brancaccio da Anna Falcone e Tomaso Montanari è una brutta notizia per la sinistra e per il Paese. L’idea di introdurre un’iniezione di rinnovamento e di partecipazione dal basso, della società civile più o meno organizzata, insieme ai partiti alla sinistra del Pd e non contro di loro, in una stagione segnata dall’antipolitica e da una forte disillusione, rappresenta una delle poche novità positive del dibattito politico in corso.

Le soluzioni che oggi sono in campo, senza un quadro di riferimento che vada oltre i partiti, e con i leader delle formazioni della sinistra che sottoscrivono un accordo e incoronano un capo autorevole, rischia di essere un deja vu al quale non possiamo e non vogliamo rassegnarci.

Le 100 piazze del Brancaccio hanno suscitato in migliaia di persone una grande aspettativa e la speranza che finalmente la sinistra diffusa, sotto scacco in questo Paese dove l’egemonia della destra è sempre più evidente, potesse rialzare la testa e mettere in campo una alternativa credibile ed efficace. Questo significa confermare sì il ruolo dei partiti, riconosciuto dalla nostra Costituzione, provando però a percorrere strade nuove caratterizzate da un forte rinnovamento, sia programmatico sia di metodo.

L’assemblea del 2 dicembre, presentandosi – al di la delle intenzioni dei promotori – come la ratifica di una scelta interna al “tavolo dei partiti”, certamente legittima, ma che ripropone riti noti, e rischia di tradursi in un arretramento rispetto al percorso aperto ed inclusivo che si stava profilando, mentre vi è oggi la necessità e l’opportunità di produrre uno scarto in avanti che ci allontani dall’esperienza della Sinistra Arcobaleno e dei più recenti insuccessi.

Un’altra disfatta o un risultato semplicemente consolatorio per i partiti a sinistra del Pd sarebbe un disastro, politico e culturale.

La povertà sempre più diffusa, il disagio sociale nelle mille periferie del Paese, il populismo e il neo fascismo crescenti, non consentono a nessuno di rimanere a guardare. C’è la necessità di far ripartire il percorso messo in moto con l’assemblea del Brancaccio, confidando nel fatto che le formazioni politiche che hanno promosso l’assemblea del 2 dicembre diano un segnale di apertura concreto, a partire dalla ridefinizione degli appuntamenti già previsti e fissando le tappe successive in un percorso realmente comune e trasparente. Solo così si potrà dimostrare la reale apertura ai cittadini e a quella “maggioranza invisibile” del Paese che non vota più e dal cui reale coinvolgimento - come già ribadito da più parti - dipendono la credibilità dell’appello dei partiti e il successo elettorale di una qualsiasi lista futura.

Per questo facciamo appello innanzitutto a Tomaso e Anna, a coloro che hanno condiviso quel percorso, ai partiti della sinistra alternativa a questo governo, inclusi quelli che non stanno nel percorso del 2 dicembre, e a tutte quelle persone che credono che la sinistra possa svolgere un ruolo in questo Paese e in Europa, a rivederci per costruire le condizioni per una assemblea nazionale della sinistra unita, alternativa e profondamente rinnovata, realmente aperta ai cittadini e a quanti si riconoscano nel progetto.

Rocco Albanese, Marco Barbieri, Piero Bevilacqua, Sandra Bonsanti, Stefano Brugnara, Alberto Campailla, Anna Caputo, Luciana Castellina, Sergio Cofferati, Massimo Cortesi, Andrea Costa, Vezio De Lucia, Luigi Ferrajoli, Daniele Lorenzi, Giorgio Marasà, Federico Martelloni, Walter Massa, Filippo Miraglia, Andrea Ranieri, Bia Sarasini, Salvatore Settis, Francesco Silos Labini, Domenico Rizzi

milex.org
I dati provvisori degli allegati tecnici al disegno di legge di Bilancio 2018 (1) mostrano un incremento annuo del 3,4% (circa 700 milioni) del budget previsionale del Ministero della Difesa (2), che passa dai 20,3 miliardi del 2017 ai quasi 21 miliardi del 2018. Un aumento che rafforza la tendenza di crescita avviato due anni fa: +8% (circa 1,6 miliardi) rispetto al bilancio Difesa del 2015.

Fonte: milex.org

Analizzando il dettaglio delle voci di spesa previste per il 2018, spicca un aumento di quasi il 10% dei fondi ministeriali per gli investimenti in nuovi armamenti e infrastrutture (2,3 miliardi). In aumento del 4,6% anche la spesa per il personale di Esercito, Marina e Aeronautica (10,2 miliardi) nonostante la riduzione degli organici dettata dalla Riforma Di Paola, a causa degli aumenti stipendiali per gli ufficiali superiori previsti dal recente riordino delle carriere. Ne risulta una tripartizione della Funzione Difesa di 74% per il personale, 9% per l’esercizio e 17% per gli investimenti (secondo la Riforma Di Paola dovrebbe essere rispettivamente 50%-25%-25%). A questo si aggiungono 341 milioni per la pensione ausiliaria (3) e oltre 100 milioni per le funzioni esterne (1/4 per i voli di Stato) (4).

L’aumento delle spese italiane per la Difesa risulta ancor più consistente se si tiene conto di tutte le altre voci di spesa militare ‘extra-bilancio’ sostenute da altri ministeri ed enti pubblici: i 3,5 miliardi (+5% rispetto al 2017) dei contributi del Ministero dello Sviluppo Economico per l’acquisizione di nuovi armamenti ‘made in Italy’ (5) (contributi pari al 71,5% del budget totale MiSE per la competitività e lo sviluppo delle imprese italiane), i circa 1,3 miliardi di costo delle missioni militari all’estero sostenute dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (6), gli oltre 2 miliardi del costo del personale militare a riposo a carico dell’INPS (7) e il mezzo miliardo di spese indirette per le basi USA in Italia (8). Aggiungendo queste voci di spesa e sottraendo invece i costi non propriamente militari (3 miliardi per i Carabinieri in funzione di polizia e ordine pubblico (9) e quasi mezzo miliardo per i Carabinieri in funzione di guardia forestale), il gran totale delle spese militari italiane per il 2018 raggiunge i 25 miliardi: un miliardo in più rispetto al 2017 (+4%), due miliardi in più rispetto al 2015 (+9%).

Fonte: milex.org

Ciò si traduce in un lieve incremento anche in termini di percentuale del PIL: 1,42 (contro l’1,40 del 2017) che potrebbe avvicinarsi all’1,5 se le ottimistiche stime previsionali del governo per il PIL 2018 (10) non si realizzeranno. Ancora lontani dall’assurdo obiettivo imposto dalla NATO del 2% del PIL (ritenuto irraggiungibile dallo stesso Ministero della Difesa, che riporta il dato dell’1,2% riferito al solo bilancio ministeriale di 21 miliardi), ma decisamente più di importanti alleati come Canada (1%), Germania e Spagna (entrambe all’1,2%). Insensato il confronto con le potenze nucleari francese e britannica — anche se l’Italia spende non poco per proteggere l’arsenale atomico USA della base bresciana di Ghedi (23 milioni nei prossimi anni) e per mantenere aggiornata la capacità nucleare dei bombardieri Tornado (parte dei 254 milioni previsti fino al 2031 per l’adeguamento dell’intero comparto bellico chimico-biologico-radiologico-nucleare).

Sommando gli stanziamenti 2018 della Difesa e del Mise per il ‘procurement’, il prossimo anno verrano investiti in nuovi armamenti complessivamente 5,7 miliardi, +7% rispetto al 2017. Qualche esempio (11): oltre 700 milioni stanziati per l’acquisto di altri 3 o 4 bombardieri F-35; 300 milioni per la nuova portaerei Thaon de Revel, dal costo di 1,2 miliardi e quasi 400 milioni per i nuovi pattugliato d’altura; un centinaio di milioni per l’avvio dei programmi di acquisizione di 350 nuovi carri Ariete e Centauro (oltre 2 miliardi il costo totale) e di 2.000 nuovi blindati Lince (un miliardo il costo complessivo) e 50 nuovi elicotteri da attacco (mezzo miliardo solo per lo sviluppo).

Nel 2018 la tripartizione effettiva della spesa militare sarà quindi 60% per il personale, 13% per l’esercizio e 28% per gli investimenti in armamenti e infrastrutture.

Note

(1) http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/Attivit–i/Bilancio_di_previsione/Bilancio_finanziario/2018/Disegno-di-Legge-di-Bilancio/Allegato-t-18-20/

(2) http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Bilancio_di_previsione/Bilancio_finanziario/2018/Disegno-di-Legge-di-Bilancio/Allegato-t-18-20/2018-DLB-04-AT-120-Difesa.pdf

(3) Il collocamento in ausiliaria consiste nella possibilità, al raggiungimento dell’età pensionabile o dei 40 anni di anzianità contributiva, di essere congedati dal servizio attivo con disponibilità ad eventuale richiamo in servizio per un periodo massimo di 5 anni. Il militare in ausiliaria percepisce (dal Ministero della Difesa) una pensione maggiorata dalla cosiddetta indennità di ausiliaria, pari al 50 per cento (70 per cento fino al 2014) della differenza tra il suo ultimo stipendio e la pensione stessa.

(4) Questa suddivisione canonica del budget della Difesa, propria dei Documenti programmatici pluriennali, è ricavabile rielaborando le diverse voci di spesa contenute nei bilanci previsionali nel modo seguente:
• “Funzione Sicurezza”: somma di “Approntamento e impiego Carabinieri per la difesa e la sicurezza” e “Approntamento e impiego Carabinieri per la tutela forestale, ambientale e agroalimentare”
• “Funzione Difesa”: budget ministeriale totale al netto della suddetta Funzione Sicurezza e di “Interventi non direttamente connessi con l’operatività dello Strumento Militare”
• “Pensioni provvisorie in ausiliaria”: “Trattamenti provvisori di pensione”
• “Funzioni Esterne”: “Interventi non direttamente connessi con l’operatività dello Strumento Militare” al netto dei trattamenti provvisori di pensione.
Per le sotto-voci della “Funzione Difesa”:
• “Personale”: somma dei “redditi da lavoro dipendente” e delle “imposte pagate sulla produzione” esclusi quelli relativi ai Carabinieri in funzione difesa-sicurezza e forestale
• “Investimenti”: somma di “Ammodernamento, rinnovamento e sostegno delle capacità dello Strumento Militare” e “Ricerca tecnologica nel settore della difesa”
“Esercizio”: residuo della “Funzione Difesa”.

(5) Lo stanziamento del Ministero dello Sviluppo Economico destinato ai programmi di procurement di armamenti è riportato nel bilancio previsionale del MiSE (http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Bilancio_di_previsione/Bilancio_finanziario/2018/Disegno-di-Legge-di-Bilancio/Allegato-t-18-20/2018-DLB-04-AT-030-MISE.pdf) alla voce “Programmi di sviluppo e innovazione tecnologica nel settore dell’aeronautica, dello spazio, difesa e sicurezza” (missione 11, programma 5, obiettivo 8). Il dettaglio dei programmi finanziati si trova nell’allegato tecnico del bilancio previsionale del MISE (fino al 2015 era la ‘Tabella E’ allegata alla Legge di Stabilità) ai capitoli di spesa 7419, 7420, 7421/7423 e 7485, cui si aggiungono altri sei diversi capitoli (5311, 5312, 5313, 9706, 9707 e 9708) riguardanti il pagamento delle rate dei mutui contratti dal MISE con diversi istituti di credito (Intesa, Bbva e Cassa Depositi e Prestiti i principali).

(6) Si considera qui un stima previsionale a costo invariato rispetto a quello delle missioni internazionali per l’anno 2017 contenuto nella Deliberazione del Consiglio dei Ministri del 14 gennaio 2017 (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1000608.pdf), al netto delle spese relative alle iniziative di cooperazione allo sviluppo e sminamento umanitario (111 milioni nel 2017) e agli interventi di sostegno ai processi di pace e stabilizzazione e alla connessa partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali (34 milioni nel 2017).

(7) Il costo del personale a riposo è calcolato sottraendo al valore annuale delle pensioni erogate dall’INPS al comparto militare (riportato nei rendiconti generali INPS: https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemDir=46801) il valore dei contributi versati all’INPS dal Ministero della Difesa (riportato nei conti annuali del Tesoro: http://www.contoannuale.tesoro.it).

(8) Si considera qui un stima previsionale a costo invariato rispetto all’anno 2017. L’Italia contribuisce al 41% delle spese di stazionamento delle truppe USA nelle 59 basi americane nostro Paese – quinto avamposto statunitense nel mondo per numero d’installazioni militari, dopo Germania, Giappone, Afghanistan e Corea del Sud (http://comptroller.defense.gov/Portals/45/Documents/defbudget/fy2017/fy2017_OM_Overview.pdf e https://www.dmdc.osd.mil/appj/dwp/dwp_reports.jsp) per un importo di circa 520 milioni di euro per l’anno 2017, extra bilancio Difesa.

(9) Qui si considera solo il costo dei Carabinieri in funzione di “difesa militare”, non quello dei Carabinieri in funzione di “ordine pubblico e sicurezza”, così come indicati nella divisione funzionale riportata nel bilancio previsionale della Difesa, sezione di “Riepilogo delle dotazioni secondo l’analisi funzionale”, programma 5.1 “Approntamento e impiego Carabinieri per la difesa e la sicurezza”.

(10) La stima previsionale del PIL 2018 è quella contenuta nella Nota di Aggiornamento al DEF 2017 dello scorso 23 settembre (http://www.dt.tesoro.it/modules/documenti_it/analisi_progammazione/documenti_programmatici/def_2017/NADEF2017.pdf)

(11) Tratto dalle previsioni di spesa contenute nel Documento Programmatico Pluriennale della Difesa 2018-2020 (https://www.difesa.it/Content/Documents/DPP/DPP_2017_2019_Approvato_light.pdf)

il manifesto,

Questa sceneggiata dei “pontieri” che provano a stringere attorno a Renzi una alleanza riparatrice, che va da Alfano alla sinistra, è così grottesca che poteva anche essere risparmiata. Contribuisce solo al degrado culturale della politica che declina nella sua autorevolezza non per la grande tattica, ma per le inutili finzioni di un tatticismo sterile di tante anime belle che blandiscono con amorevoli aperture e però nascondono il pugnale per strapazzarti.

Se l’idea di una lista unitaria di sinistra sarà confermata dopo tanti venticelli ostili, dovrebbe compiere una azione di bonifica per sminare il terreno.Sminarlo dagli esplosivi depositati dai media che inventano trattative in extremis, fantasticano su straordinarie aperture programmatiche concesse dal disperato quartier generale del Nazareno, costruiscono un clima d’ansia per denunciare, chiunque non si accodi agli ordini di Renzi, come un folle estremista degli anni Trenta che spalancò la via del potere al nazismo.

Questa invenzione mediatica di padri nobili che da un piedistallo si lanciano in prediche edificanti e divagano in sollecitazioni ecumeniche a ritrovarsi, svela che il re è nudo e che solo con la paura cerca di resistere. Scomodare il pericolo totalitario e annunciare tragedie dietro l’angolo per colpa di un libero voto degli elettori è segno di una irresponsabile visione della politica.

Cosa c’è da temere? Che un governo padronale, con una spudorata provocazione, cancelli l’articolo 18? Un qualche potere terribile potrebbe strapazzare il diritto del lavoro e regalare ai padroni la libertà di licenziare dietro una simbolica remunerazione monetaria? O c’è da tremare dinanzi all’inquietante idea che una maggioranza occasionale approfitti del plusvalore politico dei numeri per manipolare la costituzione?

A creare spavento è l’immagine di un capo pseudo-carismatico che con disciplina militare maltratta la Carta e poi organizza un plebiscito sulla propria leadership personale? O forse il pericolo incombente è che qualche politicante, a pochi mesi dal voto, imponga, con il voto di fiducia richiesto alla camera e al senato, una nuova legge elettorale che regala il governo alla destra? Si potrebbe affacciare lo spettro di un potere demagogico che aggredisce istituti tecnici come la Banca d’Italia esponendo il sistema monetario e finanziario a rischi immensi?

Dinanzi a cose già viste, questo accanimento dei media unificati per costruire un allarme cosmico si rivela pittoresco. Non ci sono catastrofi da scongiurare con unioni sacre giurate al cospetto di un improbabile negoziatore. La sola alternativa che sta dinanzi alla sinistra è di perdere sotto il comando poco amico di Renzi, lasciando così immutato un sistema dei non-partiti ormai incancrenito, o di sfidare l’imperativo del successo immediato per ricostruire una proposta politica combattiva che consenta di ripartire per un nuovo scenario.

La sinistra deve costruire una alternativa di sistema. La folle legge elettorale, che rilancia le coalizioni insincere, è un ostacolo che però non può indurre alla rinuncia di inseguire cose nuove. La dissoluzione del Pd è avvenuta per limiti oggettivi del progetto originario e per una propensione all’oblio imputabile alla leadership renziana. L’ideologia della rottamazione che porta al potere solo perché si ha un corpo giovane si è avventata in modo catastrofico sulle forme della politica già in sofferenza.

Machiavelli non escludeva i “giovanissimi” dal comando politico e militare. «E quando uno giovane è di tanta virtù che si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere, sarebbe cosa dannosissima che la città non se ne potessi valere». La moltitudine per questo dovrebbe «eleggere uno giovane», senza attendere che svanisca «quel vigore dell’animo e quella prontezza» che lo caratterizzano. Però questo giovane capo deve essersi prima distinto per «qualche nobilissima azione». Con il suo populismo giovanilista, Renzi ha invece esaltato solo il corpo con la camicia bianca e ha lodato l’inesperienza, l’estraneità, la semplicità, il nulla della comunicazione.

Cucire attorno al suo populismo distruttivo una finta alleanza, solo per apparire più competitivi al voto, non serve a nulla. Il Pd espugnato dal comitato d’affari è un esperimento fallito e nessun soccorso rosso potrebbe rianimarlo. Dal passaggio ineluttabile verso la disgregazione di un velleitario partito personale sprovvisto della proprietà di azienda e media, è possibile trovare risposte costruttive. Senza attendere il tonfo della sconfitta annunciata, dovrebbe subito prendere corpo una soggettività della sinistra capace di riorganizzare il conflitto per immettere nella politica interessi collettivi e sottrarla all’abbraccio mortale con il capitale, la finanza, il malaffare.

Nella odierna postdemocrazia, il denaro occupa le istituzioni, privatizza la legislazione. La politica è tramontata come luogo della decisione autonoma, il personale politico segue oscuri percorsi di carriera e appannati canoni di legittimazione. La sinistra dovrebbe essere una prima risposta al declino in una democrazia minore che abbandona il territorio al nichilismo della antipolitica disperata.

La Stampa

I papi hanno abusato della Bibbia per lucrare sul traffico di schiavi». Queste parole non vengono da qualche autore di thriller trash a base di scandali vaticani, ma da uno storico serio che sul tema vanta una doppia legittimazione. È nigeriano (quindi partie en cause) e soprattutto è un prete cattolico. Si chiama Pius Adiele Onyemechi ed esercita da 20 anni il suo ministero in Germania, nella regione del Baden-Württemberg.

La sua innovativa indagine The Popes, the Catholic Church and the Transatlantic Enslavement of Black Africans 1418-1839 (pp. XVI/590, €98 Olms, 2017), che tra gli storici già suscita discussioni, capovolge il vecchio dogma secondo cui il Papato è stato sostanzialmente estraneo alla più grande strage di tutti i tempi: la tratta degli schiavi. Una tragedia secolare che - come ricorda il grande scrittore danese Thorkild Hansen nella sua classica trilogia sullo schiavismo - ha seminato oltre 80 milioni di morti.

Proprio in questi mesi la prestigiosa Accademia delle Scienze di Magonza ha concluso un colossale progetto di ricerca sulla storia della schiavitù durato ben 65 anni, con la collaborazione di studiosi di primo piano come il sociologo di Harvard Orlando Patterson (egli stesso discendente di schiavi) e lo storico dell’antichità Winfried Schmitz. Quasi a suggello è arrivato il libro di don Onyemechi: una radiografia minuziosa del ruolo dei papi nel commercio di schiavi in Africa dal XV al XIX secolo, l’epoca dorata del business schiavistico. Per la prima volta a suon di date, fatti e nomi don Onyemechi punta il dito su responsabilità morali e materiali, avviando un regolamento di conti col passato proprio nel momento in cui la Chiesa di Roma, nella sua tradizione secolare di sostegno ai più deboli, chiama alla solidarietà verso i migranti. Come riassume l’autore, i risultati «fortemente sorprendenti» venuti alla luce «affondano un dito nelle ferite di questo capitolo oscuro della Storia, e nella vita della Chiesa cattolica».

«La Chiesa», spiega il religioso, «ha abusato del passo biblico contenuto nel capitolo 9 della Genesi», in cui si afferma che tutti i popoli della terra discendono dai figli di Noè: Sem, Cam e Iafet. Dopo il diluvio, Cam rivelò ai fratelli di aver visto il padre giacere ubriaco e nudo. Noè maledisse Cam insieme a tutti i suoi discendenti, condannandoli a diventare servi di Sem e Iafet. La Chiesa allora affermò che gli africani sarebbero i discendenti di Cam. Pio IX, ancora nel 1873, inviterà tutti i credenti a pregare affinché sia scongiurata la maledizione di Noè pendente sull’Africa.

Nel nostro romanzo Imprimatur abbiamo reso noto il caso di Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689), che possedeva schiavi, era in affari con mercanti negrieri e vessava i forzati in catene sulle galere pontificie. I documenti che lo provano, pubblicati nel 1887, sono poi misteriosamente scomparsi. Certo, nel Seicento i moderni diritti umani erano di là da venire, ma poi papa Odescalchi è stato beatificato nel 1956, e in predicato per la canonizzazione nel 2002.

Di simili contraddizioni don Onyemechi ne ha scovate a migliaia. Il commercio di schiavi in origine toccava Cina, Russia, Armenia e Persia; mercati internazionali si tenevano a Marsiglia, Pisa, Venezia, Genova, Verdun e Barcellona. Col tempo queste rotte sono tutte scomparse, tranne quelle africane. Come mai? Sarebbe stata la Chiesa a giocare il ruolo decisivo, raccomandando a sovrani e imperatori di «preferire» schiavi africani. Lo fecero vescovi e perfino Papi come Paolo V.

La giustificazione veniva non solo dalla Bibbia ma anche da Aristotele, per il quale alcuni popoli erano semplicemente «schiavi per natura». Una visione poi ripresa da San Tommaso e dall’influente facoltà teologica di Salamanca nel XV e XVI secolo. Padri della Chiesa come Basilio di Cesarea, Sant’Ambrogio, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo e lo stesso Sant’Agostino invece giustificavano la schiavitù come frutto del peccato originale.

A metà del XV secolo il portoghese Niccolò V concesse al suo Paese di origine il diritto di evangelizzare, conquistare e deportare «in schiavitù perenne» gli africani, bollati come nemici della Cristianità insieme ai saraceni (che in verità erano ben più pericolosi e martoriavano, loro sì, i regni cristiani). I successori Callisto III, Sisto IV, Leone X e Alessandro VI non fecero altro che confermare e ampliare i diritti concessi al Portogallo. Altri Pontefici (Paolo III, Gregorio XIV, Urbano VIII, Benedetto XIV) nelle loro Bolle ufficiali si schierarono contro la schiavitù degli Indiani d’America, ma non contro quella degli africani.

Dallo schiavismo la Chiesa ha avuto un concreto ritorno economico. Attivissimi i missionari portoghesi e soprattutto i gesuiti, che compravano gli schiavi per impiegarli nelle loro piantagioni in Brasile e nel Maryland. Oppure li rivendevano con la loro nave negriera «privata», che trasportava la merce umana da Congo, Luanda e São Tomé verso il Brasile. Don Onyemechi cita il contratto con cui nel 1838 il Provinciale dei Gesuiti del Maryland, Thomas Mulledy, vendette 272 schiavi africani. Prezzo: 115.000 dollari al «pezzo». L’evangelizzazione consisteva per lo più nel battezzare in fretta e furia gli schiavi prima di imbarcarli. Anzi, tutto il meccanismo faceva sì che essi venissero tenuti ben lontani dalla parola di Cristo. I profitti venivano reinvestiti in nuove campagne di aggressione e deportazione.

«Solo nel 1839 la Chiesa ha riconosciuto gli africani come esseri umani al pari di tutti gli altri», ricorda lo storico di origine nigeriana. Lo sancì una Bolla di Gregorio XVI, in verità piuttosto tardiva: i commerci di schiavi erano stati già aboliti da quasi tutti gli Stati tra 1807 e 1818 e gli Inglesi ne avevano preso le distanze sin dalla fine del Settecento. Don Onyemechi ha lavorato su fonti originali nell’Archivio Segreto Vaticano e negli archivi di Lisbona (per decifrare i manoscritti lusitani ha imparato da zero il portoghese) e ha dato un contributo duraturo (realizzato con routine teutonica ogni giorno dalle 3 alle 8 del mattino) alla ricerca della verità storica. A Roma non dovrebbe riuscire sgradito, vista l’attenzione di papa Francesco - anche lui gesuita - per i popoli d’Africa.

il manifesto,Ma nessuno scende in piazza in questo paese?

VERGOGNA ITALIA,
L’ACCORDO SUI MIGRANTI CON LA LIBIA
«È DISUMANO»
di Adriana Pollice

«L'Onu accusa l'Europa. L’Alto commissario delle Nazioni Unite attacca la politica Ue e il piano Minniti: La sofferenza nei campi di detenzione è un oltraggio alla coscienza»

La collaborazione tra Ue e Libia per fermare il flusso di migranti è «disumana». Così l’ha bollata ieri in una nota l’Alto commissario Onu per i diritti umani, il principe giordano Zeid Raad al-Hussein, che ha poi aggiunto: «La politica dell’Unione europea di sostegno alla Guardia costiera libica perché intercetti i migranti e li consegni alle terrificanti prigioni in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità. Il sistema di detenzione per migranti è irrecuperabile: una situazione già disperata è diventata catastrofica». L’accusa si fa più esplicita quando Zeid Raad al-Hussein spiega: «La comunità internazionale non può pretendere di risolvere migliorando le condizioni di reclusione. I prigionieri non hanno alcuna possibilità di contestare la legalità della loro detenzione e non hanno accesso a un aiuto legale». L’Alto commissario ha chiesto la depenalizzazione dell’immigrazione irregolare perché «solo le alternative alla detenzione possono salvare le vite dei migranti».

Secondo il dipartimento libico per il contrasto all’«immigrazione illegale» (che dipende dal ministero dell’Interno libico), 19.900 persone sono trattenute in strutture sotto il suo controllo, contro le 7mila di metà settembre. «L’Ue non ha prodotto nulla per ridurre gli abusi subiti dai migranti» ha proseguito l’Alto commissario. Una donna sub-sahariana ha raccontato allo staff Onu, che a novembre ha visitato quattro strutture: «Sono stata portata via dal centro di detenzione e stuprata in una casa da tre uomini, compresa una guardia del centro». Donne, uomini e bambini raccontano: «Ci picchiano solo perché chiediamo cibo o cure mediche o informazioni». Un uomo rinchiuso nel centro di Tarik al-Matar, dove in 2mila vivono ammassati in un hangar senza bagni funzionanti, ha spiegato: «Non dormiamo, abbiamo malattie, ci manca il cibo, non ci laviamo per mesi. Moriremo tutti, è troppo difficile sopravvivere all’odore di feci e urine».

Stupri e violenze accompagnano i migranti fin dall’inizio del loro viaggio, ricorda l’Onu: «Sono già stati esposti a rapimenti, torture, lavori forzati, sfruttamento, gravi violenze fisiche, fame e altre atrocità nel corso dei loro viaggio attraverso la Libia nelle mani dei trafficanti». Una donna della Costa d’Avorio ha raccontato: «Durante il viaggio uomini armati hanno scelto sei donne, quando mi sono rifiutata sono stata schiaffeggiata e mi hanno puntato una pistola alla testa. Quattro uomini mi hanno stuprata. Ero all’inizio di una gravidanza, ho sanguinato molto, penso di aver perso il bambino».

Ue e Italia, ricorda l’Onu, stanno fornendo assistenza alla Guardia costiera libica per intercettare le imbarcazioni, anche in acque internazionali, «nonostante i timori che questo condanni più migranti a una detenzione arbitraria, illimitata, atroce. Non possiamo essere testimoni silenziosi di questa schiavitù – ha concluso l’Alto commissario – in nome della prevenzione dell’arrivo sulle coste europee di gente disperata e traumatizzata». L’Onu chiede poi alle autorità libiche di porre fine alle violazioni dei diritti umani.

Dall’Ue ieri si è cercato di ridimensionare la portata delle accuse: «L’Unione europea lavora in Libia in cooperazione con l’Onu, la priorità è salvare vite e combattere i trafficanti – spiega una portavoce – per creare canali legali verso l’Europa per chi necessita protezione internazionale. La Ue finanzia Oim, Unhcr e Unicef per migliorare le condizioni in Libia. I campi di detenzione devono essere chiusi, la Ue chiede che i migranti vengano portati in centri di accoglienza con standard umanitari internazionali. Solleviamo regolarmente questo argomento con le controparti libiche». Nessuna marcia indietro neppure sulla marina libica: «Abbiamo addestrato 142 membri della Guardia Costiera. Fa parte dell’Operazione Sophia». Proprio ieri la Guardia costiera libica è tornata ad attaccare le Ong chiedendo più fondi all’Ue. Si è fatto sentire anche il presidente del parlamento europeo, il forzista Antonio Tajani: «Oggi sarà presa la decisione ufficiale, una delegazione del Parlamento europeo si recherà in Libia per verificare la situazione. L’azione contro l’immigrazione illegale non può essere confusa con la violazione dei diritti umani».


ASTE DI SCHIAVI A TRIPOLI,
LE PROVE IN UN VIDEO-SCOOP DELLA CNN

«Vendiamo umani. La giornalista afro-americana commenta: "Mancano solo le catene"»

«Mancano solo le catene», commenta la giornalista afro-americana della Cnn che ha messo a segno uno scoop internazionale sul ritorno del mercato degli schiavi in Libia secondo metodi che sembrano ricalcati dal film Django Unchained senza però la fine catartica di Tarantino.

Il video, evidentemente girato con un cellulare e acquistato dalla giornalista, mostra i volti sgomenti dei due ragazzi nigeriani venduti all’asta e reclamizzati come esemplari forti, adatti a lavori pesanti come quelli agricoli. Immagini riprese in una notte dell’agosto scorso, sulla base delle quali la giornalista della Cnn ha poi cercato conferme e girato interviste nel centro per migranti Treeq Alsika di Tripoli gestito dalle autorità ufficiali di Tripoli.

È riuscita anche a filmare da lontano un’altra asta di carne umana viva, sempre alla periferia della capitale libica. Un mercanteggiamento veloce, sempre di notte, dentro un compound illuminato e presidiato da un guardiano in tuta mimetica di cui non è stata inquadrata la faccia.

La reporter ha anche intervistato un supervisore del centro di detenzione, il quale conferma di aver sentito dire dell’esistenza di queste aste di schiavi ma di non averne mai vista nessuna. «I contrabbandieri di esseri umani – racconta lei – dopo la chiusura della rotta marittima ad opera della Guardia costiera libica sono rimasti in arretrato rispetto ai passaggi e così diventano i padroni dei migranti, che vendono come schiavi». Lei e i suoi collaboratori hanno quindi consegnato alle autorità di Tripoli tutta la documentazione raccolta, prima di pubblicarla con il titolo «People for sale», ricevendo in cambio la promessa di avviare un’indagine.

In base alle testimonianze raccolte nel centro di detenzione di Tripoli, dove si vedono centinaia di giovani africani accatastati gli uni sugli altri in uno stanzone o in specie di gabbie «senza cibo né acqua», le compravendite di uomini non sono una novità, vanno avanti da tempo. Così come le torture e le richieste di riscatto alle famiglie d’origine. Alle Ong dei soccorsi i migranti dicono che avvengono anche dentro i centri.

il manifesto, 1vedi su eddyburg la loro lettera ). Civati ("Possibile") casca dal pero. Con postilla



I CIVICI CONTRO I PARTITI:
«LISTA UNITARIA NON CI SONO LE CONDIZIONI,
CI FERMIAMO»
intervista di Roberto Ciccarelli a Pippo Civati

«Sinistra/ Sconvocata l'assemblea.Rifondazione: noi avanti con lo stesso spirito. Fratoianni: sulle liste nessunaspartizione. Quelli del Brancaccio: non possiamo garantire il confrontodemocratico. Accuse a Prc, Mdp e Si»


«Non ci sono le condizioni minime di lealtà e serenità per garantirvi che l’assemblea non si trasformi in un campo di battaglia tra iscritti a diversi partiti». Tomaso Montanari, frontman dei civici che si sono autoconvocati lo scorso 18 giugno nel teatro romano del Brancaccio, cancella l’appuntamento del 18 novembre al cui ordine del giorno c’è l’adesione alla lista con Mdp, Si e Possibile. Tutto sbagliato, non se ne fa più niente. Con tante scuse. E in effetti di scuse ce ne vogliono tante: non solo per i tanti biglietti di treno e aereo dei militanti che vanno buttati.
Lo stop in realtà non è un fulmine a ciel sereno. L’ultima settimana è stata un precipitare di dissensi e malumori. Il 7 novembre Mdp e Sinistra italiana anticipano alla stampa un documento «di intenti» per la lista unitaria. A stilarlo ha contribuito anche Montanari. Che però non può annunciare l’adesione formale a nome dei suoi prima dell’assemblea. I tre partiti vanno avanti e convocano l’assemblea del 2 dicembre per lanciare la lista. Su Montanari e Anna Falcone, l’altra rappresentante del Brancaccio, piovono le critiche severe del Prc, questioni di merito e di metodo, come si usa dire a sinistra.

Intanto a Torino e a Firenze si celebrano assemblee tormentate. Montanari e Falcone si spiegano. Chat, telefonate, mailing list riservatissime. Si difendono (l’avvocata anche con un’intervista sul ). Ma ancora sabato sera troppe cose non tornano: da una parte la ‘narrazione’ del percorso «dal basso», dall’altra le accuse di scarsa comunicazione e trasparenza. E quella di subalternità verso la Ditta Bersani&D’Alema, dopo le tante critiche ai governi blairisti e di centrosinistra. Per di più la democrazia partecipativa deve essere però organizzata: non è chiara ancora la ’base elettorale’ dell’assemblea, non si rende pubblico il numero di iscritti.

Lunedì mattina i due decidono lo stop. Stop alla convergenza nella lista unitaria, obiettivo delle 98 assemblee svolte in tutta Italia. Lo storico dell’arte firma, da solo, un documento indignato. Nessuna autocritica, è tutta colpa dei partiti della sinistra, tutti: «Hanno deciso che non vogliono questa unione più vasta possibile», si sono scelti un leader dal vertice, cioè il presidente Grasso. E hanno deciso «una spartizione di delegati tra partiti», «un teatro che copre l’obiettivo reale: rieleggere la fetta più grande possibile degli attuali gruppi parlamentari».

Ce n’è anche per il Prc: «Dopo aver sostanzialmente preso in ostaggio l’assemblea provinciale del Brancaccio a Torino, ha fatto capire di voler fare altrettanto con quella del 18 a Roma: ‘prendiamoci il Brancaccio’, si è letto sui social». E allora «un’assemblea senza più nulla da decidere sarebbe solo un rissoso palcoscenico offerto all’impeto autodistruttivo dell’ultimo partito rimasto». Insomma bisogna evitare che l’assemblea scelga per «una piccola lista di Rifondazione riverniciata di civismo», considerato un eventuale «tradimento» delle premesse del Brancaccio, Montanari scende «dall’autobus». Niente liste, semmai si continua un’associazione.

«Abbiamo ricevuto accuse e pressioni inaccettabili. Le rigettiamo tutte, come persone libere, prima che come garanti di questo percorso», scrive Anna Falcone su facebook,e rivendica di aver stoppato i riti verticisti che già l’avevano scottata con la lista Ingroia nel 2013: «Se vi odiate continuate a farlo fuori da qui». Annuncia che le offerte di seggi non saranno accettate e smentisce divergenze con Montanari: «Non ci separiamo, andiamo avanti insieme con la nostra associazione».

I partiti messi sul banco degli accusati evitano di far volare gli stracci, ma si difendono: «Non mi rassegno al fatto che non si continui un percorso che in larghissima parte abbiamo condiviso», dice Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana, impegnato anche a smentire la spartizione delle liste. «Alle liste non stiamo ancora pensando. Abbiamo condiviso tutti i passaggi politici. Considero questa contrapposizione fra partiti e civici davvero anacronistica. Mi rivolgo a tutti i protagonisti del Brancaccio: vengano a contribuire all’assemblea del 2 dicembre». Maurizio Acerbo, segretario Prc, esprime amarezza per il triste finale della vicenda e se la prende con i tre partiti della lista: «Invece di investire sul Brancaccio, cioè la creazione di una lista unica a sinistra davvero innovativa, hanno preferito un accordo di vertice su un profilo ambiguo». Il Prc annuncia una lista «della sinistra antiliberista», «nello spirito del Brancaccio». Ma naturalmente non tutti i comunisti sono d’accordo: per Marco Ferrando, dei trozkisti del Pcl, il fallimento del Brancaccio «non è un incidente, ma la fine annunciata di un equivoco. Iscrivere alla sinistra che c’è D’Alema e Bersani, primi responsabili della distruzione della sinistra ha reso quel paradosso insostenibile». Massimo Torelli, dell’Altra Europa, associazione che pure aveva criticato i due, ora chiede «rispetto» per loro, e di non partecipare «allo scaricabarile o al tiro al bersaglio, abbiamo perso tutte e tutti».

BRANCACCIO, CIVATI (POSSIBILE):
«LA REAZIONE DI MONTANARI
È ECCESSIVA, NON BISOGNA SMOBILITARE»

«Intervista. "Non c'è nessuna spartizione, il percorso è aperto. Invito tutti a confrontrsi sui problemi veri, a cominciare da Rifondazione. L'invito a partecipare all'assemblea del due dicembre rimane. Grasso? Tiene insieme il civismo con la politica"»

Tomaso Montanari scrive che «il percorso del Brancaccio non c’è più». Pippo Civati (Possibile) che succede?
A me dispiace. Questa decisione mi ha sorpreso. Ma è eccessivo sia quello che è stato scritto, sia la decisione di smobilitare. Invito tutti a una riflessione e a esplicitare i problemi veri, evitando toni offensivi dicendo che ci siamo spartiti i posti. Capiamo quali sono gli elementi su cui confrontarci. L’invito a partecipare all’assemblea del due dicembre rimane.

Smentisce un accordo sulle quote della lista unitaria con Sinistra Italiana e Mdp?
Con tutta la forza. Non ho fatto alcuna spartizione. L’unico spartito che seguo è il nostro manifesto. Basta un click sul sito di Possibile per guardarlo. Lo mettiamo a disposizione del Brancaccio, del post Brancaccio e della lista unitaria. Sono sorpreso da quello che scrive Montanari, anche perché ha partecipato alle stesse riunioni dove c’ero anch’io. Non esiste un percorso parallelo, né una leadership pre-ordinata. Solo un mese fa Grasso non era nemmeno in pista. Tutto è aperto e il percorso è in fase embrionale. Dipende da chi si presenterà alle assemblee che convocheremo in vista di quella più grande fissata il 2 dicembre. Se ci saranno solo gli amici stretti non funzioneranno. Ma nessuno si augura questo, altrimenti non avremmo fatto la lista unitaria.

Avete proposto un nuovo ciclo di assemblee. Ma non bastavano le cento partite dal Brancaccio?
Il Brancaccio aveva un limite, si rivolgeva a un pezzo della sinistra mentre quello di chi aveva fatto politica nel Pd era fischiato. È stato un errore. L’ho detto con sincerità proprio al Brancaccio. Siamo rimasti che avrebbero fatto le loro assemblee e ci avrebbero detto cosa piaceva o meno del percorso complessivo. Che ci fosse un impostazione diversa lo si sapeva, ma nessuno era spaventato per questo.

Ora però l’assemblea di sabato 18 è stata annullata. Ci sono stati veti a sinistra?
Nessuno ha posto veti, né ha detto con Rifondazione mai. Se Rifondazione vuole discutere sul programma con noi io sono a disposizione, come lo ero prima che uscissero queste lettere.

Montanari scrive di avere inviato a Si, Mdp e Possibile un «percorso fuori dai confini dei partiti». Ma non gli avete risposto. È vero?
No. La discussione è avvenuta con alcuni in maniera più stretta. Le assemblee che abbiamo lanciato in vista del 2 dicembre non sono lontane dal percorso che hanno stilato Montanari e Falcone. Tutti abbiamo fatto esercizi di umiltà, nessuno ha precostituito nulla e non ho alcun sospetto che lo abbiano fatto altri

Questa vicenda produrrà un contraccolpo sul processo che avete avviato?
Dipende da noi. Lo smentiremo politicamente se apriremo le liste, se faremo le assemblee in maniera democratica, se avremo un programma ambizioso. Non mi interessa rispondere a una polemica che mi sembra spropositata, mi interessa ragionare con tutti, Rifondazione comunista compresa, su come ridare una forma a questo percorso.

Anche lei trova Grasso un «programma vivente della sinistra»?
Per me è una figura che potrebbe rispondere all’esigenza di mettere insieme il civismo con la politica più «politica».

Piero Fassino la chiamerà per conto di Renzi e le proporrà un confronto con Mdp e Si. Ci andrà?
Proprio perché lo schema è unitario spero che la sinistra abbia un unico interlocutore risparmiando a Fassino molte telefonate. La lontananza prodotta in questi anni è stata determinata dalle scelte che Renzi ha rivendicato ancora ieri. Vogliono fare un altro Jobs Act. Ma questo non è proprio possibile con noi.

Pisapia insiste: vuole fare il centrosinistra. A chi dare retta?
La discussione sul centrosinistra non è mai iniziata davvero. Se si tratta di fare gli alleati del renzismo non serve a niente. Renzi ha già la sinistra interna ed è già accessoriato. A Pisapia dico che non serve fare gli accessori di Renzi dall’esterno.


Proprio non riescono a comprendere, i vecchi politicanti, sebbene alcuni abbiano trovato nomi nuovi per i loro gusci: “Possibile”, “Sinistra italiana”, oltre a “Prc”e Mdp”. Hanno addirittura eletto, tra gusci, il loro capogrupo (l’ottimo Grasso). Tomaso parla e ha sempre parlato di un’assemblea di persone, non di delegazioni di esponenti di questo o quest’altro gruppo (vedi su eddyburg la lettera di ieri). Ma la coerenza tra le parole i fatti non è cosa di questo piccolo mondo antico,


L’assemblea generale del percorso del Brancaccio convocata a Roma per sabato prossimo, 18 novembre, è annullata. Mi scuso personalmente con tutti coloro che, non di rado con sacrificio, hanno già acquistato il biglietto del treno o dell’aereo.

E mi scuso con tutti i cittadini che sarebbero venuti a discutere la redazione finale del progetto di Paese che è uscito dalle Cento Piazze per il Programma.
Il fatto è che sono sparite una ad una, nelle ultime ore, le condizioni minime per tenere un’assemblea democratica e per pensare che l’itinerario del Brancaccio possa arrivare a raggiungere il suo scopo.

***

Ricordo quale fosse il progetto del Brancaccio, nelle parole della relazione di apertura che ho pronucniato nell’assemblea del 18 giugno: «Se fossimo convinti che la forma partito è sufficiente, oggi non saremmo qua: non si tratta di rifare una lista arcobaleno con una spruzzata di società civile. C’è forte l’esigenza di qualcosa di nuovo, e di qualcosa di più grande. Lo diciamo con le parole di Gustavo Zagrebelsky: è necessaria la “più vasta possibile unione che sorga fuori dei confini dei partiti tradizionali tra persone che avvertano l’urgenza del momento e non siano mosse da interessi, né tantomeno, da risentimenti personali: come servizio nei confronti dei tanti sfiduciati nella politica e nella democrazia”». Un’alleanza tra cittadini e partiti, dunque. Ma oggi sento il dovere di denunciare pubblicamente che i vertici dei partiti della Sinistra hanno deciso che, semplicemente, non vogliono questa unione più vasta possibile. Non vogliono questa alleanza con chi sta fuori dal loro controllo.

I segretari di Mdp, Possibile e Sinistra italiana hanno scelto un leader. E questo ha ‘risolto’ tutti i problemi: nella migliore tradizione messianica italiana.

Poi hanno lanciato un’assemblea, che si sta costruendo come una spartizione di delegati tra partiti, con equilibri attentamente predeterminati. E per di più un’assemblea che potrà decidere, sì e no, il nome e il simbolo della lista: ma non certo la leadership (scelta a priori, dall’alto e dal dentro), non il programma (collage di quelli dei partiti), non le liste (saldamente in mano alle segreterie). Un teatro, che copre l’obiettivo reale: rieleggere la fetta più grande possibile degli attuali gruppi parlamentari. Vorrei molto essere smentito: ma ho fortissimi argomenti per credere che, quando saranno note le liste, tutti potranno constatare che le cose stanno proprio così.
Certo non me lo auguro, ma temo che questa inerziale riedizione nazionale della coalizione che in Sicilia ha sostenuto Claudio Fava (per di più senza Rifondazione Comunista) non avrà un enorme successo elettorale.
È anche per questo che quella dei vertici di Mdp, Possibile e Sinistra italiana a me pare una scelta drammaticamente miope. Non è nemmeno più questione di ‘alto e basso’, o di ‘vecchio e nuovo’: la logica è quella per cui chi è ‘dentro’ il sistema della politica professionale si chiude ermeticamente verso chi è ‘fuori’.
È la logica del partito che garantisce se stesso. E il partito che è stato lasciato fuori dall’accordo, Rifondazione Comunista, ha reagito in modo identico. Dopo aver sostanzialmente preso in ostaggio l’assemblea provinciale del Brancaccio a Torino, Rifondazione ha fatto capire di voler fare altrettanto con quella del 18 a Roma: «prendiamoci il Brancaccio», si è letto sui social.

Non ci sono, dunque, le condizioni minime di lealtà e serenità per garantirvi che l’assemblea non si trasformi in un campo di battaglia tra iscritti a diversi partiti.
In quella assemblea avremmo voluto chiedere, pubblicamente e con forza, come ultima possibilità di una unione più vasta fuori dai confini dei partiti, l’adozione di un percorso veramente democratico (in cui fossero contendibili la leadership, il programma, i criteri di innovazione per le liste): quel percorso dettagliato che avevamo mandato ai responsabili di Mdp, Possibile e Sinistra italiana, senza peraltro ottenere risposta. Rifondazione Comunista (l’unico partito che a questo punto avrebbe partecipato all’assemblea) ci ha annunciato che, invece, avrebbe preteso di votare su una proposta incompatibile con il senso stesso del Brancaccio: e cioè quella di porre condizioni agli altri partiti, come se fossimo un’altra forza politica in cerca di alleanze.

E invece no: il Brancaccio non è una componente. È uno stile, un metodo, un modo di fare politica. Avrebbe avuto successo se fosse riuscito ad essere il motore di un’alleanza tra partiti e forze civiche, tra iscritti a partiti e cittadini senza tessera, non uno strumento per fare alleanze
A questo punto lo scopo del Brancaccio, lo scopo per cui vi avevamo convocati a Roma, è irraggiungibile in ogni caso: e non saremmo responsabili se non dicessimo che un’assemblea senza più nulla da decidere sarebbe solo un rissoso palcoscenico offerto all’impeto autodistruttivo dell’ultimo partito rimasto. L’unica cosa che potrebbe essere partorita ora, infatti, sarebbe una piccola lista di Rifondazione, riverniciata di civismo: ma il Brancaccio era un percorso per una vasta alleanza civica che tenesse insieme i partiti e andasse ben oltre. Qualunque risultato diverso da questo tradirebbe il mandato condiviso da tutti noi: non può e non deve finire con una seconda lista improvvisata, destinata all’irrilevanza e alla coltivazione del risentimento.
È per questo che oggi scendo dal famoso ‘autobus’. Lo avevo promesso a tutti voi, il 18 giugno: «questa ‘cosa’ nasce per ambire a percentuali a due cifre: perché ambisce a recuperare una parte dell’astensione di sinistra. E se dovesse ridursi a una lista arcobaleno con davanti le sagome della cosiddetta ‘società civile’ saremo i primi a dire che il tentativo è fallito». Ecco: oggi, lealmente, vi dico che è così.

***

Se almeno un successo possiamo riconoscerci è stato quello di aver parlato una lingua nuova, radicale, diretta.
Di aver saputo indicare con forza le contraddizioni insanabili del progetto che partì da Piazza Santi Apostoli il 1° luglio. Di aver denunciato la follia di un centrosinistra composto con il Pd; e di aver indicato con forza la necessità di un quarto polo di sinistra radicalmente alternativo a tutto il resto.
Ebbene, questa prospettiva è stata vincente: anche per merito della presenza inedita e indiscreta del Brancaccio. A dimostrarlo è il testo della ‘lettera di intenti’ che è stata sostanzialmente ‘imposta’ a Mdp, e alla cui redazione abbiamo contribuito in modo decisivo (nel pieno rispetto del mandato del 18 giugno: quello di verificare le condizioni per una lista unica e credibile).
Quel testo demolisce tutti i ‘risultati’ del centrosinistra, e anzi impegna a ribaltarli: delineando il profilo di una sinistra radicale in Italia.
Dopo questo indiscutibile successo, è però subito arrivata la totale chiusura sul percorso democratico e sull’innovazione delle liste.
E questo è per noi inaccettabile. Perché in un’assemblea costituita con metodo democratico, cioè veramente libera dal controllo dei partiti, avremmo chiesto con forza 4 vincoli: la presenza nei posti concretamente eleggibili della lista proporzionale di un 50% di donne; di un 30 % di under 40; di un 50% di candidati mai stati in Parlamento; e infine la non candidabilità di chi ha avuto ruoli di governo.
Sono sicuro che un’assemblea libera avrebbe considerato con interesse queste minime prove di credibilità. Prove di credibilità necessarie, perché se versi il vino nuovo in otri vecchi, e compromessi, accade quel che accade in queste ore: mentre si annuncia una forza politica di Sinistra alternativa al Pd, si legge che Bersani tratta in segreto con Renzi un’alleanza di fatto. Vero, falso? Un dilemma che non esisterebbe se la guida fosse rinnovata, e democraticamente scelta.

Ma non ci arrendiamo: la forza del manifesto su cui avrebbe potuto fondarsi una lista davvero nuova era la forza del progetto di Italia che è venuto fuori dalle cento assemblee del programma.
Quello che, nella nostra ingenuità, avremmo voluto discutere e approvare il 18: prima di essere travolti dall’onda del cinismo del ceto politico.

È per questo che ci impegniamo a restituirvi tutti i materiali che ci avete inviato, rifusi in un progetto unitario che potremo discutere pubblicamente, insieme, in un incontro che fisseremo nei prossimi mesi: per misurare su quel metro radicale i programmi delle liste che andranno alle elezioni.
E per ripartire da lì.

***

Perché vogliamo ripartire. Innanzitutto comprendendo fino in fondo i nostri errori.
Lo diciamo con sincerità: se non siamo riusciti a condurre in porto il nostro progetto non è solo a causa del cieco egoismo dei partiti.
Il 18 giugno avevamo detto: «C’è chi teme che i partiti controllino questo processo, come burattinai da dietro le quinte. Questo rischio esiste. E l’esito di questo processo dipende tutto da quanti saremo, e da quanto determinati saremo. Vogliamo costruire una vera ‘azione popolare’. Ma ci riusciremo solo se la partecipazione senza tessere sarà così ampia da superare di molte volte quella degli iscritti ai partiti. Una lista di cittadinanza a sinistra: questo vogliamo costruire».

Ebbene: non è stato così. Le nostre assemblee in tutta Italia sono state tante, bellissime, importanti. E non abbiamo parole per ringraziare tutti coloro che hanno investito il loro tempo e la loro passione in questa breve stagione di entusiasmo civico e politico.
Ma – noi due per primi – non siamo stati capaci di ‘travolgere’ i partiti suscitando un’ondata di partecipazione nuova e senza etichette. Se nessuno dei segretari di partito cui ci siamo rivolti ha compreso minimamente la vitale importanza di cedere sovranità a un progetto più grande, è stato perché il popolo della sinistra non li ha costretti a farlo con la forza della partecipazione.
Eppure – nonostante tutti questi fatali limiti – in questi mesi abbiamo sentito spirare un vento nuovo: in quanti ce lo avete detto, e scritto!
Ebbene, vorremmo che questo spirito, questo entusiasmo che non si vedeva da tanto tempo, continui a soffiare. Anzi vorremmo riuscire a contagiare più cittadini possibile.

Per questo abbiamo Anna ed io abbiamo costituito un’associazione, che si chiama Democrazia ed Eguaglianza, ed è in quella associazione che, subito dopo le elezioni, vogliamo riprendere il cammino, organizzandoci e moltiplicandoci.
Accogliendo tutti coloro che vorranno partecipare: donne e uomini, con o senza tessere politiche o associative in tasca. Ma senza un ruolo dei partiti come tali, e senza i loro apparati, questa volta: perché sbagliando si impara. Intendiamoci: tanti, anche nei partiti, si sono impegnati con generosità in questo percorso, convinti che la funzione delle proprie forze politiche fosse quella di convergere insieme a tutti gli altri in un unico spazio comune e democratico. Ma queste aspirazioni sono state tradite dai vertici di quegli stessi partiti.
Come dicono parole antiche, piene di saggezza profetica: «non apparteniamo oggi ad una città stabile: lavoriamo per costruire la città futura».

È dunque l’ora di costruire una Sinistra dal basso, una coalizione sociale e civica. Per costruirla sulle strade, nelle periferie, nelle povertà. Attraverso la reciprocità e la cooperazione. Per costruirla con la conoscenza, la critica, la capacità di accendere e collegare tanti fuochi di azione popolare. Per metterla in grado, quando sarà il momento, di riportare nei comuni e in Parlamento il popolo italiano. Per attuare la Costituzione, per rovesciare il tavolo delle diseguaglianze, per invertire la rotta.
Ora serve inevitabilmente un impegno di medio periodo: per questo c’è l’associazione, e ci sarà un nuovo cammino da affrontare insieme.
Ma il percorso, così come lo avevamo proposto al Brancaccio e discusso insieme, non c’è più. Questo non vuol dire che si debba cedere alla rassegnazione. Nonostante la situazione in cui siamo, in tante e tanti non hanno alcuna intenzione di mollare. Lo abbiamo capito dalla pioggia di messaggi queste ultime, difficili, ore: e anche di questa vi ringraziamo.
Dopo aver promosso assemblee, dato battaglia nei propri partiti, coinvolto esperienze civiche e comitati o lavorato con determinazione a far collaborare persone diverse in nome di un obiettivo comune, l’impegno di tante e tanti continua: perché solo le spinte dal basso possono modificare uno spartito già scritto, e sorprendere tutti.

Mentre la sinistra che già c’è continua il proprio cammino, purtroppo solitario, in tanti continueranno a dare battaglia nella società, nelle associazioni e anche nei partiti per invertire la rotta, e iniziare dar corpo e forza alla sinistra che non c’è ancora, e di cui questo Paese ha tremendamente bisogno.
Grazie a voi tutti, e scusatemi per tutti i miei errori e i miei limiti,


Tomaso Montanari

il manifesto

Intervista. L'avvocata dei 'civici' del Brancaccio: non abbiamo tradito il mandato, ora chiediamo regole democratiche per l’assemblea del 2 dicembre e i suoi delegati. Rifondazione è dentro questo percorso perché noi abbiamo detto no ai veti

Mdp, Sinistra italiana e Possibile hanno convocato l’assemblea della lista unitaria per il 2 dicembre, il 24 e il 25 novembre eleggono i delegati. Avvocata Anna Falcone, voi civici dell’area del «Brancaccio» siete della partita?
«Abbiamo la nostra assemblea il 18 novembre, consegneremo la lettera di intenti (il documento-base unitario, ndr), lì stabiliremo i criteri di partecipazione alla lista unitaria. Io e Montanari abbiamo contribuito a lavorare a questa lettera che è una proposta. Chiediamo garanzie democratiche sull’assemblea del 2 e su tutto il percorso comune. Ci hanno garantito che sarà così. Lavoriamo perché lo sia davvero».

Il Prc obietta che non avevate mandato per quel testo.
«La lettera è stata pubblicata prematuramente, ha sorpreso anche noi. Non abbiamo fatto in tempo a condividerla con tanti altri soggetti civici. Ma avevamo avvisato Acerbo, il segretario del Prc. Che sul manifesto ha ammesso di averla ricevuta da noi. Ci ha anche risposto».

Condividerla significa comunicarla?
«Comunicarla e sapere gli altri cosa ne pensavano. Ma abbiamo sempre detto che l’obiettivo più importante è la lista unitaria. Sarebbe stato sciocco dire di no. Quel testo contiene tutte le condizioni che abbiamo chiesto nel nostro appello al Brancaccio. È evidente che non contiene tutto, non è ancora un programma».

Quindi non è vero che non avevate il mandato per stare al tavolo con le forze politiche?
«Lo avevamo, avevamo fatto anche una conferenza stampa per dire con trasparenza che iniziavamo una serie di incontri per verificare la possibilità di fare la lista unica. Oggi avere quel documento è una garanzia per noi: è nero su bianco quello che si va a fare».

Non avete consegnato il Brancaccio a Bersani e D’Alema, come dice Acerbo?
«Assolutamente no, è o il contrario. In democrazia non si possono fare liste di proscrizione. Il rinnovamento si fa tutti insieme con regole comuni. Acerbo è sempre stato d’accordo. Certo, dobbiamo avere garanzie su come sarà convocata l’assemblea e come saranno scelti i delegati, quanto sarà democratica e aperta alla società civile. Felici per l’elezione al parlamento regionale di Fava in Sicilia, ma lì si è capito che se una lista non prevede un percorso con la società civile poi non raggiunge i risultati sperati. Ma sono fiduciosa. E non fa bene dare addosso a chi ha lavorato per non escludere il Prc: abbiamo detto sempre no ai veti. Rifondazione è a questo tavolo delle regole anche grazie a questo. L’impressione di aver disatteso gli impegni è falsata e sbagliata. Proseguiamo nel mandato che abbiamo ricevuto».

Ma vi aggiungerete all’assemblea del 2 dicembre?
«Lo valuteremo in assemblea. Faremo tutti gli sforzi possibili per fare la lista unica di sinistra, su un programma radicale e con un metodo democratico. I nostri sforzi nascono da questo intento. Non abbiamo una subordinata».

O una lista unitaria o niente?
«O c’è una lista unitario oppure il Brancaccio non si spaccherà sulle posizioni di uno o di un altro partito. Non consentiremo che diventi un ring. Se il partiti volessero farne un terreno di scontro, andremo avanti con i cittadini, le associazioni, i movimenti di base e la società civile».

O alla lista arrivate tutti insieme o non ci arrivate?
«Noi abbiamo chiesto a tutti di aderire a una lista unica. Faremo tutti gli sforzi per arrivarci, se la sinistra dovesse andare al voto di nuovo frantumata sarebbe l’ennesimo esempio di poca credibilità. E comunque per altre determinazioni ci vorrebbe un mandato diverso».

Deciderete a maggioranza?

«Non abbiamo un regolamento, ma certo le posizioni si scelgono a maggioranza assoluta».

Chi voterà il 18?
«Le nostre assemblee sono aperte. Ma per evitare che qualcuno pensi di fare una scalata dal Brancaccio voteranno online tutti quelli che hanno fatto l’iscrizione certificata e che hanno aderito all’appello».

Fino a che terrete aperte le iscrizioni?
«Immagino fino al 17 per una minima esigenza di ordine. Dobbiamo evitare lo spettacolo che ha dato la sinistra di polemiche e divisioni e uno dei motivi per cui alcuni partiti, compreso il Prc, non supererebbero da soli la soglia del 3 per cento. Davvero, concentriamoci sulle regole dell’assemblea unitaria».

È sicura che i vostri futuri alleati non le abbiano già scelte?
«Voglio essere fiduciosa: penso di no. Sanno che noi dobbiamo prima decidere nella nostra assemblea. Guardi, litigare sarebbe facile. Noi siamo seri e costruttivi. A conferma, non partecipiamo alla convocazione dell’assemblea del 2 perché abbiamo il passaggio del 18 e perché prima devono essere chiare e garantite le regole di democrazia, partecipazione e deliberazione. È lì la vera sfida. Eviteremo in tutti i modi che succeda come nelle volte precedenti, e soprattutto in Rivoluzione civile, dove si sono fatte assemblee dal basso e invece alla fine i candidati sono stati scelti in una riunione di notte fra i capi delle segreterie. Dobbiamo fare tutti uno sforzo per evitare gli errori del passato. Ma nessuno può dare lezioni agli altri».

Pisapia potrebbe tornare nella vostra lista unitaria?
«Pisapia continua ad avere un obiettivo diverso dal nostro: costruire il centrosinistra e fare alleanza anche con il Pd».


Se non ci fosse il problema delle elezioni (e con quel vergognoso Rosatellum) la soluzione del problema delle alleanze potrebbe essere fedele al manifesto del Brancaccio con una regola molto semplice: all’Assemblea popolare Democrazia e Uguaglianza si iscrive chi vuole, ma, se ha la tessera di un partito la lascia nel cassetto dei ricordi. Ma oggi, alla vigilia di elezioni nazionale si presenterebbero da una parte Assemblea Popolare, dall’altro i vecchi partitini allontanatisi da Renzi, il M5s e in fondo in fondo il PD di Renzi e il resto. A questo punto le scelte sembrano solo due: o si fa un accordo tattico col meno lontano degli altri, oppure si concorre ad accrescere ancora il numero degli astenuti. (e.s.)

la Repubblica,» (c.m.c.)

Se ci chiedessimo se teniamo più alla democrazia o alla sinistra, dovremo rispondere alla democrazia. Per questa ragione teniamo alla sinistra. È il connubio tra queste due sorelle che deve stare a cuore a chi sente franare la terra sotto i piedi della sinistra, nel nostro paese e dovunque nell’occidente. La ricostruzione della democrazia in Europa è stata opera del riformismo cristiano e socialdemocratico, non delle destre.

Ci illuderemmo se pensassimo che il fascismo sia un anacronismo — forse lo è nelle forme arcaiche dell’Italia agricola, ma non nelle idee e nelle aspirazioni, che restano anti-democratiche, anti-universaliste e faziose — convinti che lo Stato debba essere al servizio di una parte, quella identitaria e nazionalista. Questo era ed è ancora l’ordine della gerarchia. La democrazia costituzionale è l’opposto. E ha bisogno di una sinistra riformista. Dal 1945 questo è il paradigma, in Italia e in Europa.Che ha funzionato non solo per una questione di maggioranza numerica. La sinistra aveva una base sociale chiaramente definita - una classe lavoratrice con i suoi possibili alleati sociali - da cui discendeva una visione non ambigua delle politiche da fare.

Questa chiarezza di orizzonte non è nella sostanza cambiata. Perché è vero che le forme del lavoro sono cambiate, ma la composizione del potere sociale segue comunque la condizione del lavoro (e della sua assenza o precarietà); segue la condizione popolare, non quella della ricchezza.

L’eguaglianza e la giustizia sociale sono state sempre le gambe e le antenne della sinistra. Non sono principi astratti — sono principi regolativi che aiutano a leggere gli eventi e i fatti, a individuare che cosa poter volere ora, al fine di poter approntare altre decisioni domani. Non ci sono due mondi: una società ideale che sta sopra le nostre teste, e dei politici che razzolano come possono, con l’assunto che le cose del mondo vanno altrimenti. La sinistra democratica è pragmatica. E lo è perché adotta quei due principi come sue linee guide, e ragione “come se” la società che vuole debba essere giusta e solidale. Senza quel “come se”, senza i principi che guidano le scelte, la sinistra è un partito che vuole voti, e vaga lì o là come un calabrone per prenderli, senza una fisionomia riconoscibile. E sistematicamente perde.

Il “come se” non è poi cosí complicato da capire. Se vogliamo che la nostra società sia inclusiva e i cittadini abbiano eguale dignità dobbiamo volere una scuola pubblica che sia tale; e dobbiamo volere che sia buona per tutti i ragazzi e le ragazze, aperta e inclusiva a sua volta. La scuola pubblica è fondamentale per la democrazia, che non è governo dei sapienti, ma deve rendere i suoi cittadini alfabetizzati e acculturati, per il loro bene e quello di tutti. Non è un optional, e le ricette non sono infinite, né tutte compatibili. Il “come se” non è complicato da capire nemmeno quando si vuole che la Repubblica sia in grado di essere sempre dalla parte dei cittadini quando hanno bisogno di cure.

Non è accettabile che una sinistra si arrenda al dio mammone e privatizzi progressivamente la sanità — con danni irreparabili, anche in termini di costi. E di qualità, perché basta andare negli Stati Uniti per comprendere il disastro della sanità privata.Una sinistra pragmatica è piena di valori, non roboante e non populista, sa bene che senza un’organizzazione partitica la sua politica non fa strada, anche se possono far strada alcuni politici. La personalizzazione della politica può far bene alla destra; fa malissimo alla sinistra (e forse, tra i problemi del Pd vi è proprio il suo statuto), che deve riuscire a conciliare la partecipazione con la delega, la leadership con il collettivo. Per questa ragione il partito deve essere una scuola di vita pubblica e di formazione politica.

Senza questo, c’è tanta audience televisiva e poca costruzione di consenso. E il “come se” non è capito. L’audience premia chi sa gridare contro e crea polemica; uno sport facilissimo, che non richiede studio, né alcuna prova. Queste personalità generano più polverone che politica. Sono lontane dalla realtà, incapaci di riflessione pragmatica. L’audience basta a se stessa, e a loro. Ma la sinistra che forma opinione deve prendere un cammino diverso, e ricostruire la sua cultura politica attraverso l’incontro delle persone, in luoghi materiali e veri.

il manifesto,

Molte volte nella storia dell’Italia le elezioni regionali siciliane hanno anticipato mutamenti che poi si sono registrati a livello nazionale. Dal Milazzismo, al berlusconismo.

Il Milazzismo anticipò in qualche modo nel lontano 1958 il «compromesso storico» tra una parte della Dc e del Pci, il berlusconismo perché la strepitosa avanzata di Berlusconi avvenne proprio in Sicilia dove collezionò la più grande vittoria elettorale della sua carriera conquistando 60 seggi su 60 alle politiche del 2001.

Per arrivare a Grillo che proprio in quest’isola cinque anni fa stupì, non tanto per lo spettacolo dell’attraversamento a nuoto dello Stretto, quanto perché era riuscito in pochissimo tempo a diventare il primo partito della Sicilia.

Fu proprio questo successo del M5S alle regionali dell’ottobre 2012 ad allarmare il Pd che non seppe correre ai ripari e perse di fatto, con Bersani leader, le politiche del febbraio 2013, con il M5S che divenne il primo partito italiano.

Se vuoi capire dove va l’onda politica nel nostro paese devi guardare a quello che succede in Sicilia. Sul perché accade questo possiamo avanzare un’ipotesi, rifacendoci alla tormentata storia siciliana.

Dopo la strage di Portella della Ginestra, il 1 maggio del 1947, il movimento di lotta nelle campagne siciliane subì un duro colpo e in pochi anni scomparve, grazie anche alla Riforma agraria, alla Cassa per il Mezzogiorno ed alla autonomia siciliana che consegnava alla regione ampie risorse. Ci fu in sostanza un passaggio storico dalle lotte contadine e bracciantili al più capillare sistema clientelare che esista in Italia.

Chi non si adeguava, chi restava abbarbicato ai suoi valori o faceva parte della area “rivoluzionaria” del Pci e della Cgil veniva discriminato e non gli restava altro che emigrare. Ci fu un rigurgito di lotte contadine dopo il terremoto del Belice del 1968 e di lotte operaie a cavallo degli anni ’70, ma poi lo scontro si spostò sul terreno della lotta alla mafia e dell’opposizione dei missili a Comiso che fece sorgere un importante movimento pacifista nell’isola, che contò anche sul coraggio e la determinazione di Pio La Torre che coniugava l’impegno pacifista con una vera lotta alla mafia riuscendo, grazie al suo sacrificio, a fare approvare una legge che porta ancora il suo nome.

Dopo il nulla, ovvero la sopravvivenza guardando le onde del mare: se il vento è di tramontana o di scirocco, di libeccio o il grecale. A seconda di come spira il vento della politica nazionale la maggioranza dei siciliani si adegua, sale sul carro del vincitore potenziale. Non c’è solo un atteggiamento servile, c’è anche un calcolo razionale in una fase di grande crisi economica e sociale: se non ci sono alternative a questo sistema meglio affidarsi alle vecchie clientele che almeno sono capaci di far girare il denaro.

Questo comportamento elettorale oggi è comune alla Calabria ed a una gran parte del paese, ma la Sicilia, per un strano karma dell’isola, anticipa i tempi e prefigura quello che verrà.

Certo non tutti si adeguano. In tanti si sono astenuti , oltre la metà degli aventi diritti al voto che non hanno trovato una proposta e un leader che la incarnasse in maniera credibile. L’impetuoso vento “grillino” che in Sicilia aveva avuto il suo battesimo si è leggermente ridimensionato per via di tante polemiche che hanno attraversato il M5S dalla Sicilia al resto del paese, ed anche per aver perso una parte del voto di sinistra che vi era confluito nelle scorse elezioni regionali prima che Grillo e Di Maio assumessero posizioni razziste nei confronti dei migranti. Pertanto il M5S rischia di essere sconfitto, anche sul piano nazionale dove la coalizione del centrodestra, se manterrà questa strumentale unità, dovrebbe vincere a man bassa, anche grazie alla nuova legge elettorale.

Il Pd, come era largamente scontato ne esce con le ossa rotte, anche grazie al travaso di voti verso i “Cento passi” di Claudio Fava che raccoglie un 6 per cento e lancia un chiaro segnale nazionale al PdR (Partito di Renzi): o cambi rotta o chi ha ancora una cultura di sinistra non vota più per il Pd. Piuttosto si astiene.

Rimane la tristezza di un isola dove serpeggia una grande disperazione sociale, dove chiunque abbia governato la regione non è riuscito a incidere su una elefantiaca macchina amministrativa che esiste solo per bloccare, ricattare, e fare clientele con i suoi 15.000 addetti, di cui 1700 dirigenti, su una popolazione di meno di cinque milioni di abitanti, quando la Lombardia con quasi dieci milioni ha meno di 5.000 addetti. Ne deriva un senso di impotenza insieme alla mancanza di credibili alternative che spinge la maggioranza dell’elettorato a disertare le urne: è il fallimento della democrazia rappresentativa.

E’ su questo dato che bisognerebbe ragionare e ripensare a che significa oggi fare politica.

il manifesto,

Intervento al Forum Internazionale «Ottobre, rivoluzione, futuro», Mosca 5 novembre 2017

Inizio ponendomi una domanda: quali sono ora, a cento anni esatti dalla rottura bolscevica, i compiti di una/un militante comunista occidentale nella sua attività giorno per giorno? E quale è il soggetto non solo puramente politico ma sociale, che può svolgere un ruolo rivoluzionario? La classe proletaria, ciò che eravamo abituati a pensare come soggetto, non esiste più nelle forme che conoscevamo.

Quella classe è stata sconfitta, è stata frantumata socialmente, economicamente, culturalmente. È geograficamente dispersa, i contratti collettivi sono sempre più sostituiti da quelli individuali. Contratti individuali attraverso i quali il lavoratore ha l’illusione di svolgere una attività autonoma e libera. L’individualismo ormai la fa da padrone dovunque. Come ricomporre quel soggetto sociale è un compito dei comunisti.

In secondo luogo credo dobbiamo riflettere sullo sviluppo delle forze produttive che non svolgono più un ruolo progressivo. Ve lo ricordate «il grande becchino» del capitalismo? Vi informo che non esiste più. Noi dobbiamo ricomporlo. Ma come fare? Voi conoscete la risposta che è stata data a questa domanda da Toni Negri e Michael Hardt.

È quella del general intellect, dei collettivi di lavoro che possono produrre nuovi spazi di liberazione e che svilupperebbero gradualmente dei soggetti anticapitalisti. Io penso che i processi di ricomposizione invece saranno molto meno spontanei, anche di come li immaginavamo nel passato. Dobbiamo lavorare di più sul progetto complessivo.

Diciamo spesso «siamo il 99% dell’umanità», ma come mai questa assoluta maggioranza non incide come dovrebbe? Ecco questo è il nostro problema: come progettare un mondo diverso.

I parlamenti ormai non decidono più nulla. La privatizzazione che abbiamo conosciuto in questi anni non è stata solo la privatizzazione dei servizi sociali o delle risorse ma anche quella del potere legislativo. Le decisioni più importanti non vengono più prese nei parlamenti ma sorgono da un accordi tra le grandi holding transnazionali che controllano i mercati globali e queste decisioni incidono sulle nostre vite molto di più di qualsiasi parlamento. Dove si trova oggi il Palazzo d’Inverno? Esiste ancora? È veramente difficile dirlo quando le decisioni sono prese molto lontano da noi.

Questo ci rimanda alla questione del partito, perché noi abbiamo bisogno di un partito. Le critiche che sono state fatte alla struttura partito da parte dei giovani sono importanti. Anche il migliore dei partiti è portato solo ad autolegittimarsi politicamente, ignorando le istanze dei movimenti.

Noi abbiamo bisogno di una nuova dialettica movimenti/partito. Il mondo è molto cambiato, esistono tante istanze diverse, non si può ridurre tutto ad uno, ma questo non si significa che il problema della strategia ce lo si possa mettere alle spalle.

Una società che non solo protesta ma anche costruisce, in questo senso credo che il ruolo dei movimenti sia stato sovrastimato. C’è bisogno di forme di organizzazione permanenti della democrazia. La democrazia non è andare a votare questo o quello ogni quattro anni ma la gestione della società.

Il superamento di questo sistema è un processo lungo che non può essere solo la conquista del potere politico, la «conquista della società» è assai più importante. La socialdemocrazia e il comunismo hanno condiviso la stessa cultura, la cultura dello statismo, l’idea della centralità della presa del potere politico. In questo orizzonte io credo che si riproponga ancora una volta quella che Gramsci chiamava la «conquista delle case matte».

E questo ci riporta al Lenin di Stato e rivoluzione in cui da una parte il rivoluzionario russo studia il problema dello Stato e della sua estinzione e dall’altro si pone il problema della costruzione nella società una nuova democrazia organizzata, quella dei soviet. I soviet o gli stessi consigli nella visione gramsciana non sono solo gli organizzatori dell’insurrezione ma anche strutture che iniziano a operare per la riappropriazione cosciente delle funzioni svolte dalla burocrazia statale, per la gestione sociale.

So che tutto ciò è difficile ma ciò potrà impedire che si imponga ancora una volta una società autoritaria, un potere separato dalla società. Se non costruiremo nella società una democrazia reale, quello che abbiamo conosciuto nel passato rischierà di ripresentarsi.

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