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IL GIUDICE à la carte non è previsto dalla nostra Costituzione. Anzi, vi domina severa la formula dell’art. 25 «nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge». Nessuno può essere sottratto al «suo» giudice per arbitrio di potere pubblico. E, certo, a maggior ragione, nessuno può sottrarsi a esso per arbitrio privato. Questa è la regola, poi ci sono le eccezioni: che, come tutte le eccezioni non possono essere allungate né allargate ad altri casi. Sono perciò racchiuse in formule tassative. Chi scorre gli articoli da 34 a 49 del nostro Codice di procedura penale si accorge facilmente che quelle deroghe al principio costituzionale del «giudice naturale» (cioè fissato una volta, per sempre e per tutti, dalla legge) sono deroghe «strette».

Incompatibilità, astensione, rifiuto dei giudici e trasferimento dei processi a giudici diversi da quello «naturale» sono perciò ipotesi regolate da una casistica minuta che non lascia spazio ad abusi di autorità né a espedienti di imputati.

Ma queste eccezioni alla norma processuale non sono costruite così da sempre. Lo sono da quando, nel 1988, il Codice di procedura penale è stato adeguato alla Costituzione repubblicana. Prima le maglie erano più larghe e più elastiche. Il trasferimento dei processi ad altri giudici - per venire all’ipotesi che è di attualità - poteva infatti effettuarsi semplicemente per «legittimo sospetto» di non imparzialità del giudice, o per motivi di «ordine pubblico».

Quando si pose mano al nuovo Codice, la genericità di quelle formule coincideva con la loro pericolosità. Il Parlamento dette perciò delega al Governo di emanare norme che, prevedendo, come criterio direttivo, le due ipotesi di trasferimento processuale («ordine pubblico» e «legittimo sospetto») le specificassero in norme di dettaglio. Si metteva in moto così un normale procedimento di delega legislativa, con la dualità dei compiti prevista dall’art. 76 della Costituzione. Al Parlamento, la determinazione dei «criteri direttivi»; al Governo, il compito di «attuare» legislativamente quei criteri.

Quella volta però, ed era la prima volta nella storia costituzionale nostra, quel procedimento duale fu più garantito del solito. Si stabilì, infatti, un dialogo assai fitto tra la Commissione che il governo aveva incaricato di attuare la delega e la Commissione parlamentare che doveva controllare l’aderenza delle norme di attuazione alla legge di delega. La prima Commissione era presieduta da Giandomenico Pisapia, la seconda da Marcello Gallo. E per ben due volte la Commissione bicamerale dette, con una densa reiterazione di controllo, parere favorevole, di conformità alla delega, sulle norme scritte dalla Commissione governativa.

Quando quelle due Commissioni giunsero al punto di dare attuazione ai due «criteri» tradizionali di trasferimento processuale (motivi di «ordine pubblico» e di «legittimo sospetto») si trovarono concordi sulla necessità di legare le due formule ballerine a un fatto oggettivo. Questo ormeggio è individuato dall’art. 45 del Codice vigente in «gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili». È da queste «gravi situazioni locali» che possono essere «pregiudicate» sia la «sicurezza o l’incolumità pubblica» (ecco il criterio dell’«ordine pubblico») sia «la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo» (ecco il criterio di «legittimo sospetto» ).

In buona sostanza, la fredda interpretazione di quella concreta delega legislativa ci dice che il criterio direttivo «legittimo sospetto» non è stato omesso. Esso è stato svolto, specificato, dettagliato nella formula delegata.

Giuridicamente, non sono scomparse quelle due parole. Ma sono state incorporate, per attuazione, nella formula che definitivamente è scritta nel Codice. Così come la nozione di «ordine pubblico» non è scomparsa, ma è stata specificata nelle due oggettive situazioni di pericolo per la «sicurezza» e la «incolumità pubblica».

Testimonia Marcello Gallo sul Sole 24 Ore: «Avevamo due possibilità. Intendere la formula «legittimo sospetto» come una clausola generale onnicomprensiva di ogni e qualunque motivo di legittimo sospetto. Oppure enucleare i casi nei quali la giurisprudenza aveva ravvisato, in modo sostanzialmente unanime, il fondato motivo di «legittimo sospetto». Scelsero, a ragion veduta, la seconda possibilità di attuazione della delega. E anche da questa testimonianza si capisce che come la specie non cancella il genere, così la formula di delegazione è stata, com’è naturale, assorbita in quella delegata: e questa va dunque interpretata alla luce di quel criterio.

Sul punto, la Cassazione ebbe allora dei dubbi. Ma furono respinti perché si ritenne, come è scritto nella relazione al Progetto di codice, «che la formulazione adottata recuperasse integralmente ed espressamente tutti i criteri elaborati dalla giurisprudenza» nell’interpretazione del legittimo sospetto. Su quei dubbi la Cassazione è però tornata il 22 maggio scorso, e si è di nuovo chiesta se la norma delegata non dovesse testualmente ripetere nella sua formulazione il criterio direttivo: e non semplicemente attuarlo. La Cassazione ha però preferito passare alla Corte costituzionale la questione, per un chiarimento definitivo del rapporto tra le due norme. Che, a ben vedere, è anche il rapporto tra i due diversi ruoli istituzionali di Parlamento e Governo, fissati nell’art. 76 della Costituzione. Una comprensibile, e legittima, applicazione del principio di precauzione.

Su questa cautela si è infilato, come saldo estivo della sessione parlamentare, il progetto di legge della maggioranza. Che tenta di ripristinare, in tutta la sua straordinaria ampiezza e genericità, il «legittimo sospetto». Non più dunque oggettivato in rischio effettivo alla libera determinazione dei giudici, causato da «gravi situazioni locali». Ma inteso come causa autonoma, affidata al vento degli arbitri pubblici e privati, in «uno spazio autonomo di discrezionalità incontrollata», non più suscettibile di oggettivi ancoraggi.

Un progetto così concepito conduce diritto a risultati devianti dalla correttezza costituzionale. Perché interponendosi tra un giudice e l’altro (Cassazione e Corte costituzionale) compie uno scippo dell’oggetto del giudizio, affermando l’esistenza di una «lacuna». E precludendo così alla Corte, con evidente straripamento di potere legislativo, l’altra più plausibile ed equilibrata interpretazione basata sulla lettura congiunta e inseparabile del criterio direttivo e della norma di attuazione (scippo anomalo già rilevato da processualisti come Giovanni Conso, Vittorio Grevi, Giulio Illuminati). Perché, poi, disancorando il «legittimo sospetto» da dati oggettivi (quelle «gravi situazioni locali» che, come dice Franco Cordero, «snaturino fisicamente l’evento processuale o infirmino l’autonomia morale dei partecipanti») entra in aperta collisione con il principio costituzionale del giudice naturale. Sostituito con il principio del giudice scelto con il dito («a dedazo» dicono in Mexico). Perché, ancora, picconando l’art. 25 sulla precostituzione del giudice, mette in sofferenza il principio costituzionale del giusto processo (fondato sul «giudice terzo e imparziale» dell’art. 111).

Perché, infine, trasporta il «legittimo sospetto» dal processo penale al procedimento parlamentare. Quel procedimento che l’art. 67 delle Costituzione vorrebbe ispirato dalla rappresentanza della Nazione, «senza vincolo di mandato». Mentre qui invece è apertamente richiamato un interesse privato in atti parlamentari. Quello di varare la legge per bloccare, subito, un concreto processo penale a Milano. Dimenticando, senza alcun rimorso, la distinzione antica e civile tra lex e privilegium.

Alcuni giorni fa l’Economist faceva un elenco di leggi di sospetto e favore per membri del nostro governo. Elenco ripreso da tutta la stampa internazionale. Ma quelli dell’Economist non potevano sapere che c’era ancora una coda d’estate. La riscoperta del «legittimo sospetto» per pilotare da una sede giudiziaria all’altra i processi penali. Ecco: ora, il catalogo è questo.

Un velo di misteriosa irragionevolezza copre però questo saldo di stagione. Non si capisce tanto accanimento per un progetto che comunque dovrà andare alla Camera, dove si prepara, com’è ovvio, un Vietnam. Per un progetto che sul piano etico-politico riesce a cementare l’opposizione parlamentare plurale e questa con l’opposizione civica. Per un progetto che innalza tra i Poli un terribile muro, con conseguenze catastrofiche per ogni speranza fondata sulla prospettiva di moderazione e di razionalizzazione dei rapporti tra maggioranza e opposizione.

Di fronte a tanti guasti, si può forse immaginare, dietro i tristi «ascari» esecutori, un mandante. Non si riesce però a capire quale sarà, e se ci sarà, il beneficiario finale di questo sconquasso, privo di senso, del nostro sistema politico.

Tre aneddoti su B. Con quanta empatia venerdì 23 agosto racconta i suoi miracoli all´assise riminense Cl: l´assemblea invoca luce; e toltasi la giacca, lui irradia torrenti luminosi. Poche settimane dopo, ritto sulla jeep, sfila davanti a reparti in armi, acclamato «Silvio!, Silvio!». Martedì 26 novembre il Tribunale viene da Palermo a sentirlo sul sodale bibliofilo, sotto accusa d´affari mafiosi, e lui non risponde, quale ex possibile imputato d´un procedimento connesso. Siamo nella norma? Complicano l´anomalia artisti d´una politica esoterica. L´archetipo italiano è Ludovico Sforza, detto il Moro, usurpatore del ducato milanese (reggente dal 1479, spodesta l´erede Giangaleazzo). Philippe de Commines lo descrive instabile, sottile, ombroso, funambolo, "homme sans foi": la paura gli stimola un funesto eretismo tattico; temendo gli Aragona (Isabella, moglie del nipote in gabbia, è un´aragonese, nipote del re Ferdinando), tresca con Massimiliano d´Absburgo, poi chiama Carlo VIII; gioca partite sincrone; ogni tanto cambia cavallo e finisce malissimo. Caso altrettanto tipico, nel mondo slavo, l´ultimo ministro degli esteri polacco anni Trenta, colonnello Joszef Beck. Alla domanda d´un ospite straniero, cosa pensi d´Hitler, risponde inarcando le sopracciglia: bravo, e sorride; ma quanto dista dal colonnello Beck (A.J.P. Taylor, "The Origins of the Second World War", Penguin Book, 248). Voleva sedere a Monaco, quinto Big: concupisce l´Ucraina; non degna le proposte tedesche su Danzica e Corridoio, sicuro d´intimidire i colossi confinanti; tra due lievi colpi del dito sulla sigaretta incassa l´inutile garanzia inglese; rifiuta l´aiuto russo, molto equivoco ma era la sola carta; e in tre settimane la Polonia sparisce. Esempi da ripensare quando intenditori sopraffini deplorano che gli allarmisti "strillino al regime". Ogni tanto i politicanti parlano lingue lunatiche. Nel lessico comune, dove "regime" significa varie cose, è chiaro che l´Italia 2002 ne subisca uno: sono tanti quanti gli stili governativi; e visto l´attuale, definiamolo regime personale.

Ha qualcosa delle signorie trecentesche. Il punto comune sta nell´investitura popolare o balìa ma, issato al potere dalla borghesia grassa, il signore, appena può, taglia il cordone ombelicale inaugurando politiche meno classiste: perequa i carichi fiscali; nel Pavese i Visconti abbassano i magnati e proteggono le campagne, oppresse dal Comune; a Firenze il duca d´Atene tutela i popolani. La metamorfosi, insomma, porta anche ordine, giustizia, stabilità. È cominciata dal voto assembleare: gli oligarchi delegano i poteri; il mandatario s´emancipa quale vicario imperiale; e dal titolo signorile ereditario nasce lo Stato (A. Anzilotti, "Movimenti e contrasti per l´unità italiana", Laterza, 1930, 1-31). Ora, mentre le Signorie puntavano al futuro, B. incarna forme regressive del potere. Nella fisiologia dell´alternanza il sistema ammette profondi dissensi (mercato del lavoro, fisco, istruzione, ecc.), ma qui sono a repentaglio regole capitali, come non avviene tra Pompidou o Giscard d´Estaing e Mitterand oppure quando Margaret Thatcher sbaraglia le Trade unions. Solo i finti ciechi non vedono l´anomalìa italiana. Era cresciuto sotto l´ala d´una consorteria politica, orfano della quale, irrompe sul campo perché deve salvarsi. Nell´anno 1992 l´auriga dal garofano rosa arranca, poi affoga. Cade il trinomio Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), vacanti Quirinale e Palazzo Chigi. L´establishment muore infognato nel malaffare, avendo condotto l´Italia a due dita dalla bancarotta: fosse ancora vitale, impedirebbe i processi mobilitando sapienti inerzie (così avveniva ai bei tempi); e moltiplicato da labili psicodrammi popolari, l´evento giudiziario affretta lo scioglimento. Naufragano Dc, Psi, Psdi. Vanno alla deriva masse d´elettori captabili dal concorrente più abile. L´unico sopravvissuto è l´ex Pci in cerca d´identità. Manca l´organismo politico dell´opinione liberalsocialista. Mai viste congiunture così fluide.

Anziché puntare sulle lobbies o assumere politici professionisti, B. giostra a viso scoperto, incurante degli avvertimenti (dal fedelissimo alter ego): cava dall´azienda un partito, avendo sotto mano masse elettorali nel suo pubblico televisivo; imbarca i post-fascisti, sdoganandoli dalla quarantena, e Lega; sceglie una sigla dal lessico nazional-calcistico; rende ossequio labiale al movimento epuratorio, mentre raccoglie l´eredità attiva della classe politica folgorata; inalbera insegne d´anacronistico anticomunismo; e gioca al tavolo delle ciarle. Passerà alla storia come supremo antipedagogo, l´Attila degli schermi. Gli spettatori hanno 12 anni, ripete senza stancarsi, esigendo dagli spacciatori formule elementari che vadano diritte alla midolla: dove soffia lui, non cresce più l´erba intellettuale; altro che i dottori Mabuse e Caligaris nei film espressionisti tedeschi. Paragonati agli attuali, i vecchi programmi televisivi erano arte, varia cultura, decoro, sentimento morale. In mano sua lo spettacolo diventa ignoranza, volgarità aggressiva, ciarlataneria, svago plebeo. Con tali arnesi cattura mezza Italia, pescando nelle acque vedove, erede d´un ceto sulla cui caduta versa lacrime da coccodrillo, imputandola al complotto comunista, mentre se fosse meno istrione, ammetterebbe d´avervi guadagnato. L´avventura governativa dura appena 6 mesi. Sconfitto 2 anni dopo, sopravvive benissimo ai 5 nel deserto, anzi, cresce sulla pelle degli alleati e ruba voti agli antagonisti, nei quartieri operai, ad esempio. Stavolta piglia tutto.

Più che vittoria sua, è un suicidio ex adverso. Rammentiamolo perché le memorie politiche deperiscono. Nella primavera '96 il Centrosinistra vince sul traguardo, avendo giocato meglio la partita con uno schieramento dall´area liberale alla neocomunista, mentre sulla destra mancano i voti della Lega. Il da farsi appare chiaro: governare bene, riassestando i conti affinché l´Italia entri nell´Unione europea, obiettivo arduo; e risolvere l´aberrante conflitto d´interessi, cominciando dalle televisioni. L´opera riesce a metà: buono l´esecutivo; funesta la politica nelle Camere; e quanto meglio lavora il governo, tanto meno vitale appare; i becchini contano le settimane; l´aspirante erede postula un B. senza futuro politico o addomesticabile: due ipotesi false, e avvia dialoghi intesi niente meno che a rifondare la Repubblica. L´affabile mago vende fumo, nel qual mercato incanterebbe anche Asmodeo, uno dei più fini alla corte diabolica. L´abbaglio costa caro nella partita con un eversore quale costui era ed è. Alla falsa diagnosi seguono scelte empie. Imperdonabile l´oblio del conflitto d´interessi, né aveva senso colpire le toghe, nemmeno incombesse un temibile potere inquisitoriale: dei dulcamara tengono consulto; un barbiere arrota i ferri; l´Italia corrotta trova benevoli rivalutatori; corre voce che i giudizi berlusconiani siano risolubili extra ordinem, Dio sa come, magari attraverso salvacondotti parlamentari, simili alle lettres de grâce con cui monarchi iure divino salvavano i loro protetti. La Bicamerale tiene a balia filosofie forzaitaliote. Passi falsi elettorali completano la débâcle e poteva finire peggio.

B. deve molto ai "comunisti": erano manna elettorale i diavoli rossi, né fiatavano gli opinanti cosiddetti liberali (salvo schernire l´"apocalittica" antiberlusconiana, e dopo le figure ridicole o pietose al governo, apparso qual è l´uomo d´Arcore, un bagalùn d´l lüster bravissimo solo nell´arricchirsi sulla pelle pubblica, gli rendono l´ultimo servizio predicando il disgelo); non fosse esistito quel Pci, lo inventerebbe; vuole oppositori su misura. Qualche uomo della nomenclatura convola nelle sue file o se lo sogna partner. Lievitano affinità trasversali e pose dialoganti. Ma ogni tanto batte dei colpi un´etica immanente nella storia: e allora le furberie amorali perdono; uomini d´apparato divorano i concorrenti; poi, nonostante l´imprinting bolscevico o forse a causa dello stesso, cadono nelle fauci berlusconiane. S´illudevano d´averlo catturato, quasi non fosse il suo mestiere spacciare illusioni da quando intratteneva i croceristi sulle navi. Bisognava chiudere seriamente la partita. Gli epigoni del Moro filano intese costituenti, l´accreditano e gli lasciano l´ordigno con cui li sgomina. In francese l´idea è presto definita: i dialoghi sono auspicabili con Chirac, avversario, ma lui era Le Pen, nemico; né appare meno predone dopo la vittoria, meno che mai adesso, con l´acqua alla gola. Il lupo nell´ovile non perde i vizi; e se falsi testimoni lo dicono penitente, stia attento l´uditorio: sono favole da Malebolge, le fosse «color ferrigno» contenenti il mondo della frode, «ruffiani, ingannatori, lusinghieri» e simili (Inferno, XVIII).

Da quando imperversa B., la politica italiana è anche psicodramma ciclico. Diviso tra Palazzo Chigi, via del Plebiscito, la reggia d’Arcore e le ville, l’uomo delle decisioni va a soprassalti. Ad esempio, intavola la revisione delle norme sul lavoro, dov’è garantita la stabilità, salve risoluzioni da giusta causa: i destini d’Italia dipendono da lì, proclama; è nato con l’iperbole in bocca. La mossa mette a soqquadro lo scenario: Cisl e Uil siedono al tavolo; Cgl, no; a sinistra scattano i riflessi dialoganti già rifulsi nella sagra bicamerale. «Non basta dire no», ammonisce una bibbia riformistica edita dal presidente del Consiglio, i cui torchi stampano anche i pensieri del leader ex-comunista; e l’affare sarebbe grosso se i tempi editoriali non fossero lenti rispetto alle folgori d’Arcore. L’articolo 18 non interessa più, annuncia il demiurgo. Da archiviare. Che le verità politiche mutino, anche due volte al giorno, lo sapevamo da Orwell, "1984". Con la stessa smemorata labilità gl’interlocutori ripigliano il filo. Nel nostro caso l’ammonimento resta valido, perché B. sferra una questione ancora più capitale: "riforme istituzionali"; a sinistra balenano i soliti riflessi; e come cantano i criptoberlusconiani chierici d’un equivoco bipolarismo.

Nessuno s’era accorto che abbiamo bisogno d’alchimie costituzionali. Non viene prima l’economia malata? Stiamo regredendo a paese senza futuro. Infatti, le riforme sono anche diversivo. L’unico al quale giovino è l’imbonitore. Aveva garantito miracoli: dopo 6 stagioni chi vuol vedere curve all’insù legga costo della vita, disoccupati, debito pubblico; invisibili gl’investimenti produttivi; il metabolismo langue, a parte i malaffari stimolati dalla sua politica del diritto (vedi appalti Inail). Tale il consuntivo taumaturgico: e presentandosi dagli schermi, martedì 30 dicembre, in sguaiata competizione col capo dello Stato, racconta che ogni punto del programma sia cosa fatta, in anticipo sui tempi; vanta anche mirabilia sullo scacchiere internazionale, dove infatti non s’erano mai visti gesti fescennini pari ai suoi; le corna al ministro spagnolo resteranno negli annali, come la mossa d’anca davanti alla banda. Irradia simpatia e calore umano, salmodiano finti indipendenti, né trovano da ridire quando confida d’essere adorato dal pubblico, o rivendica gusti così liberali nella gestione dell’impero editoriale da essersi signorilmente allevato il dissenso; i più fieri oppositori li ha in Mediaset, e ride da un orecchio all’altro. Lasciamolo alle pantomime. Ha l’acqua alla gola: tutti fuorché gl’inebetiti dalle sue televisioni lo vedono inadempiente, bugiardo, ingordo, inetto, sopraffattore; sedersi al tavolo delle riforme in posa collaborante significa concedergli il diversivo del quale ha bisogno; nel bargain imbroglia anche i diavoli; e se l’opposizione l’asseconda, gli elettori reagiscono d’istinto, votandolo. Sarebbe stupido votare dei mestieranti che gli reggono la coda.

Le imprese costituenti presuppongono idee comuni e fiato morale. Dove i dissensi investano gli assiomi (a esempio, Italia 1925 o Germania 1933), è transfuga o suicida l’oppositore cooperante. Consideriamo due punti: l’alternanza sarebbe impostura se tra i contendenti uno fosse padrone dei media; o mandasse al diavolo l’indipendenza della magistratura infeudandosi procure, tribunali, corti. Ora, la campagna delle riforme non è solo diversivo. Eccome le vuole nel solito stile leonino. Anche i meno informati ormai sanno da quali avventure venga, chi sia, dove punti, in che modo. Dalle tribune elettorali s’impegna a risolvere il conflitto d’interessi, non sognandoselo nemmeno: senza l’ordigno con cui entra nelle teste, sarebbe solo un ricchissimo gesticolatore da avanspettacolo, talvolta divertente, con qualche lieve disturbo (Io ipertrofico, fughe dalla realtà, disinvoltura mistificatoria); del fraudolento ddl ora sepolto alla Camera nessuno parla più; e sapete perché?; perché l’argomento interessa solo al 7% degl’italiani. Sfolgora l’abituale analfabetismo politico. In compenso dissesta i quadri della legalità rabberciandosi leggi che lo salvino dai giudizi pendenti. Sono l’unica impresa energicamente condotta nei 18 mesi. Roba ignota al mondo evoluto: i nomi affioranti dalla memoria sono Batista il cubano o Ceausescu, più qualche regolo dell’Africa nera; succede anche nei regimi fondati sul narcotraffico. Poche settimane fa auspica una repubblica presidenziale, candidandosi. Vuol essere solo, capo dello Stato e del governo, padrone com’era ed è nell’universo Mediaset (solo i finti ignari lo presuppongono virtuosamente lontano dalle sue creature): al massimo tollera un presidente che passi in rassegna picchetti d’onore, baci bandiere, canti l’inno, segua funerali, inauguri mostre, consegni diplomi, visiti i luoghi delle sciagure; tutto fuorché interloquire de re publica. Tali essendo i fini, una seconda Bicamerale avrebbe un titolo, "Dialoghi dell’agnello col lupo". Bonapartismo d’Arcore? A parte l’epica familiare, Luigi Napoleone significava borghesia vitale, codici, giurisprudenza colta, prefetture, espansione economica, carriera aperta ai talenti. Ometto l’analisi comparata delle persone, inutilmente crudele, ma bisogna domandarsi cosa vi sia dietro B. Risposta: Mediaset ovvero tecnologia dell’inebetimento collettivo, raccolta pubblicitaria, vertigine d’affari, più qualche incognita buia. Nominiamone due: cambiali siciliane sui 61 collegi; e una giustizia discriminata secondo classi, partiti, persone, feroce col bestiame umano, disattenta o riguardosa verso i colletti bianchi malfattori, purché stiano dalla parte giusta.

Entriamo nel merito. Quali riforme? Primo: premier eletto dal basso ovvero cesarismo populistico, con dei pericoli così evidenti che sarebbe torto ai lettori segnalarli; secondo, dev’essere forte. Aggettivo da intendere alla lettera: che chiami e dimetta ministri, rimescoli i dicasteri, sciolga le Camere; così comanda a fischi, garantendosi fedeltà canina. Tutti a casa, ringhiava l’on. G. Pecorella, avvocato del padrone e suo mandatario negli affari legislativi che gli premono, se qualcuno si fosse azzardato a toccare l’aurea l. Cirami. Esiste un precedente nella l. 24 dicembre 1925 n. 2263, quando da primus inter pares, Mussolini diventa capo del governo: mediante decreto regio (un riflesso automatico) nomina e revoca i ministri, suoi arnesi animati; varia nome, numero, competenze dei ministeri; se vuole, li assume personalmente, delegando date funzioni ai sottosegretari; ogni odg parlamentare richiede il suo assenso preventivo (norma superflua anno Domini 2003: le Camere gli ubbidiscono, essendo un prodotto dei media; e durano finché lui voglia; la minaccia dello scioglimento spegne eventuali velleità frondiste). Le fonti archivistiche dicono gli effetti. Nei 40 mesi 23 giugno 1919-31 ottobre 1922 sfilano 6 ministeri: due volte Saverio Nitti (11 mesi, poi 24 giorni); Giolitti, alla quinta e ultima apparizione, vecchio revenant soverchiato da fenomeni ignoti (poco più d’un anno); Ivanoe Bonomi, socialriformista, funesto interlocutore del partito ormai dominante (8 mesi scarsi); due volte Luigi Facta, ridicolo, imbelle, infìdo giolittiano (complessivamente 8 mesi). Instabilità morbosa ma non indica salute l’unico ministero Mussolini, durato 20 anni, 8 mesi, 25 giorni, dove fluttuano 81 ministri, presi ex nihilo, commutati, estromessi, senza contare gl’interim mussoliniani (Interni, Esteri, Colonie, Guerra, Marina, Aeronautica, Corporazioni, nemmeno avesse i tentacoli d’un polipo e cervello leonardesco). Questa cronologia avalla qualche dubbio sulla compatibilità d’alternanza e premier forte. Montecitorio vota le norme sul Capo del governo senza discuterle. A Palazzo Madama l’unico dissidente è Gaetano Mosca, fondatore d’una scienza e psico-sociologia politiche: «assistiamo alle esequie» del regime parlamentare; e «non avrei mai creduto d’essere il solo» a tenere «l’elogio funebre» (19 dicembre 1925).

Le conclusioni saltano fuori da sole. Non ha senso ventilare nuove alchimie costituzionali finché B. sia padrone dei cervelli attraverso il monopolio degli schermi. È pregiudiziale assoluta risolvere sul serio il conflitto d’interessi. Filare intese rebus sic stantibus sarebbe degno d’un L. Facta, becchino del parlamento. Vuol riscrivere la Carta? Siccome ha i numeri, nessuno può impedirgli d’intavolare l’argomento e relativa agenda. Tutto sta nel non negoziare l’anima. Può darsi che vinca anche stavolta (non è ancora detto), ma la platea guarda, capisce, valuta: chi ha giocato la partita onorevolmente, mieterà voti; inutile dirlo, ci vogliono antagonisti credibili. Forse conviene ripeterlo. Gli elettori sono meno stupidi di quanto lui e qualche suo avversario perdente postulino: l’hanno visto e pesato; misurano i pericoli; esistendo un’alternativa seria, la sceglierebbero; ma lo preferiscono a oppositori equivoci che siedano compunti al suo tavolo. Nemmeno io avrei dubbi, dovendo scegliere tra il diavolo en titre e mezzi angeli frequentatori dei salotti infernali.

Un'ispezione interna, disposta dal direttore generale della Rai Cattaneo per rispondere alle accuse di «agguato» alla sua persona fatte ieri dal presidente del consiglio Berlusconi contro i giornalisti del Tg3. Gli ispettori si sono presentati in redazione, al Tg 3, verso le una e mezzo. Secondo quanto si apprende dalla redazione si trattava di due ispettori dell'ufficio legale dell'azienda. E non hanno controllato soltanto il servizio "incriminato", cioè quello sul «passante» che ha apostrofato il premier all'uscita dalla deposizione al tribunale di Milano dicendogli di «rispettare le leggi, la Costituzione e fasi processare». I due uomini di Cattaneo hanno visionato anche i servizi sulla materia del processo, relativi

alle cifre sui conti correnti dei procedimenti, sarebbe stato chiesto se quei numeri erano corretti o meno.

Nel primo pomeriggio i redattori del Tg 3 si sono riuniti in assemblea in un clima molto teso e di forte intimidazione. Domani a Saxa Rubra ci sarà un'altra assemblea che riguarderà invece tutti i giornalisti dell'azienda di servizio pubblico e alla quale non è escluso che partecipi anche la presidente Lucia Annunziata, oltre ai vertici della Federazione nazionale della Stampa.

È stata proprio una lettera della presidente a scatenare, non volendo, l'ispezione decisa da Cattaneo. La Annunziata infatti dopo l'attacco di Berlusconi al Tg3 ha inviato ieri una lettera al direttore generale della tv di Stato chiedendogli di fare chiarezza su quanto denunciato dal premier ma anche di prendere posizione in difesa del servizio pubblico. Da lì Cattaneo ha deciso di rispondere con quello che sembra a tutti gli effetti un colpo a sorpresa: un'ispezione interna.

L'intento intimidatorio non è sfuggito né ai colleghi giornalisti di altre testate Rai, né agli organismi di difesa sindacale. Il comitato di redazione del Tg 1 ha inviato un comunicato di solidarietà ai colleghi del Tg 3 definendo quanto successo: «Un gravissimo atto di intimidazione, che non intendiamo subire passivamente». Il Cdr del primo canale denuncia «una vergognosa ingerenza nell'autonomia professionale del Tg3 e nelle scelte editoriali della sua direzione. È un forte

segnale di avvertimento -prosegue la nota-, che va ben oltre il fatto cui si riferisce e riguarda tutti i giornalisti del servizio

pubblico».

«Un attacco gravissimo alla libertà e all'autonomia dell'informazione», «una risposta vergognosa del vertice aziendale dopo il vergognoso silenzio» è invece la definizione del sindacato dei giornalisti della tv pubblica Usigrai e del Cdr del Tg3 nel comunicato congiunto con cui si è data la notizia dell'avvenuta ispezione.

Per il sindacato si tratta di «un'azione che mina alla radice l'autonomia dell'informazione Rai, mira ad intimidire i giornalisti del servizio pubblico, intacca i diritti costituzionali garantiti dall'articolo 21. È un attacco di gravità analoga all'emendamento contro i giornalisti votato ieri dalla Commissione Giustizia della Camera», dice ancora il comunicato congiunto.

«Per la prima volta -si legge ancora nella nota-, dichiaratamente e senza più veli, l'azienda entra nel merito dei servizi

giornalistici, del sommario del telegiornale, della successione delle notizie, di come vengono confezionate. Giudica, chiede spiegazioni. Ora più che mai -si coclude il comunicato- la nostra indipendenza è in pericolo».

Nel frattempo il ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri dice che lascia «al presidente e al direttore

generale della Rai dipanare la matassa». Così ha affermato uscendo dall'archivio centrale dello Stato dove è intervenuto

alla presentazione di un nuovo francobollo in merito alla richiesta della Casa delle libertà di convocare in Commissione

di vigilanza il direttore del Tg3 Antonio Di Bella. «Non intervengo su aspetti di questa natura - ha detto Gasparri

riferendosi al servizio del Tg3 sul contestatore di Berlusconi fuori dall'aula del tribunale di Milano - c'è un dibattito in

corso. Certamente quegli aspetti hanno sollecitato una discussione, evidentemente erano discutibili».

Indignati i commenti di molti esponenti dell'opposizione. «La libertà di informazione non è un optional nelle mani della presidenza del consiglio dei ministri. È gravissimo che, dopo le accuse rivolte da Berlusconi al Tg3 dai microfoni della radio il vertice Rai stia mettendo sotto processo i giornalisti del Tg», affermano in una dichiarazione congiunta i due capigruppo della Margherita alla Camera e al Senato Pierluigi Castagnetti e Willer Bordon. «Siamo certi - aggiungono Castagnetti e Bordon - che il presidente della commissione di Vigilanza Petruccioli si attiverà perchè la commissione impedisca comportamenti del vertice Rai in aperto contrasto con il rispetto della libertà di informazione. Per parte nostra rappresenteremo la gravità di questo episodio ai presidenti delle due Camere».

Mentre secondo Oliviero Diliberto segretario dei Comunisti italiani: «si tratta di una vergognosa vendetta di

Berlusconi che pretendeva, in occasione della sua comparsa al tribunale di Milano, l'oscuramento di ciò che in realtà è

accaduto, con una presentazione edulcorata ed ingannevole».

E per Vincenzo Vita dei Ds: «La provocazione di ieri sull'arresto dei giornalisti, apparentemente rientrata e l'ispezione da stato di polizia che sta avvenendo in queste ore nella redazione del Tg3 testimoniano che la libertà di

informazione in Italia è in serio pericolo». «Si è nella fase due del conflitto di interessi. Dalla tutela della concentrazione di Mediaset, dalla conquista della Rai si sta passando all'intimidazione di chi opera nel settore. È indispensabile -conclude Vita- che si costituisca un vastissimo fronte democratico per tutelare lo stato di diritto».

L'ex ministro della Margherita Rosy Bindi, esprimendo solidarietà a direzione e giornalisti del Tg3, chiama in causa la Annunziata: «È il momento per una donna e una professionista della statura di Lucia Annunziata di far vedere cosa

significa essere un presidente di garanzia rispetto all'autonomia dei giornalisti Rai, il pluralismo e la completezza dell'informazione, il rifiuto della censura preventiva e dei condizionamenti impropri del potere politico».

Per Antonio Di Pietro l'ispezione e l'arresto per la diffamazione a mezzo stampa non sono altro che «prove tecniche di regime». secondo il presidente di Italia dei Valori si tratta di «un modo per tappare la bocca a tutti coloro che possono riferire fatti pregiudiziali per il nostro premier. è un attacco gravissimo alla libertà e all'autonomia dell'informazione».

ROMA- Costruttori di eco-mostri. Palazzinari senza licenza. Edificatori selvaggi. Niente paura: non rischierete più che qualche pretore d'assalto vi obblighi ad abbattere l'immobile tirato su alla faccia delle regole. Ve lo promette il presidente del consiglio Berlusconi il quale ieri, al termine della settimanale "giornata di lavoro" al ministero delle Infrastrutture (titolare Lunardi), ha lanciato questo progetto: "Abbiamo aperto con il ministro Lunardi un altro capitolo che a me sta molto a cuore - ha esordito Berlusconi - quello della lotta all'abusivismo". E la soluzione è questa: "Abbiamo ragionato su una serie di ipotesi per cui si potrebbe trasformare una penalizzazione come quella di distruggere l'opera, che magari potrebbe non essere un'opera così negativa per il paesaggio, in un obbligo a realizzare un giardino, contribuire alla realizzazione di un parco, di un parco giochi".

Insomma, secondo Berlusconi, basta con le vecchie ordinanze di demolizione, con gli anacronistici interventi delle ruspe per abbattere le case costruite abusivamente magari in un luogo di pregio paesaggistico o archeologico. Adesso bisogna adottare "una norma più positiva e moderna della semplice norma che prevede soltanto l'abbattimento dell'immobile edificato senza licenza". Questo, ha voluto tuttavia precisare il presidente del consiglio, "non vuol dire che ci sia un condono o una sanatoria in vista, stiamo cercando di tirare fuori delle idee, di essere creativi almeno quanto il ministro Tremonti".

Tutto questo si inquadra nel "progetto bell'Italia" per la riqualificazione dei centri urbani. Il governo - ha annunciato Berlusconi - organizzerà un concorso per il Comune più verde e colorato. "Il programma a cui stiamo lavorando - ha spiegato il premier - richiederà l'intervento massiccio di qualche rete televisiva" e alla gara a chi mette più piantine ai balconi parteciperanno "i Comuni sotto i 5 mila abitanti per far sì che aumenti l'amore per la natura, le piante e i fiori, stimolando la competizione tra le varie amministrazioni per arrivare al titolo del Comune più bello e fiorito d'Italia". In attesa di premiare il paese con più gerani e aiuole, Berlusconi ha pensato anche a Pompei: la vuole illuminare a giorno, sempre. "Dopo l'autostrada che arriverà nel centro campano - ha annunciato infatti - stiamo studiando un'illuminazione notturna di Pompei che renderà gli scavi visitabili anche la notte, estendendo gli orari turistici con degli effetti magici davvero straordinari". Gli scavi di Pompei in realtà sono già illuminati e sono stati aperti al pubblico anche di sera da settembre a dicembre 2002.

Tra un progetto fiorito e una soluzione per l'abusivismo, Berlusconi - che ai primi di febbraio metterà a Venezia la prima pietra del Mose, il sistema di dighe mobili contro l'acqua alta ("10 mila miliardi di vecchie lire" il costo previsto) - ha elencato i progetti per le grandi opere. "Il Cipe in tre sedute ha stanziato finanziamenti che corrispondono a più di quello che ha fatto la sinistra in cinque anni. Il totale - ha detto - è di 4500 miliardi di vecchie lire. Tutto questo inciderà anche nella situazione economica". Se i progetti nelle strade e nelle ferrovie dovessero essere realizzati "potremmo avere un incremento del Pil vicino all'1 per cento, superiore a quello 0,6 che avevamo calcolato sviluppando su dieci anni la costruzione delle nuove opere programmate".

Inadatto a guidare l’Europa. Il primo ministro italiano non è l’uomo che può parlare per l’Europa. Il primo luglio l’Italia diverrà presidente dell’Unione Europea. Passaggio semestrale che solitamente non suscita eccitazione in circostanze normali, ma in questi giorni le circostanze non sono molto normali. Politicamente l’Europa è divisa. Economicamente, sta arrancando. La guerra in Iraq ha lacerato le relazioni con il suo principale alleato, gli Stati Uniti. Dieci nuovi Paesi stanno per entrare e, se l’Unione allargata non vuole rimanere paralizzata, si deve arrivare a un accordo sulla nuova Costituzione. Dunque, sostiene l’Economist, è chiaramente il momento per chiarire, per una finezza diplomatica, una lungimiranza e un esercizio di una sorta di autorità morale che deriva da un rispetto incondizionato. Può l’Italia offrire questa leadership? O meglio può farlo il suo primo ministro, Silvio Berlusconi?

La nostra risposta è no. Due anni fa durante la sua campagna elettorale per la premiership, spiegammo perchè pensavamo che non fosse adatto per quel posto. Sostenemmo che, oltre ai numerosi conflitti di interesse tra i suoi affari e quelli dello Stato che sarebbero emersi se fosse stato eletto, sarebbe anche stato costretto a rispondere a una serie di gravi accuse. Sebbene, i giudici di più alto grado in Italia non lo abbiano definitivamente condannato per nessuna di quelle accuse, deve ancora mettere a tacere tutte le preoccupazioni sulla sua onestà.

La ragione è il modo in cui tutte le cause contro Berlusconi si sono concluse. Per lo più senza un chiaro proscioglimento basato sulle prove, o sulla legislazione italiana, o sui recenti cambi di legislazione che sembrano destinati a beneficiare il primo ministro nella sua veste di imputato. Questi cambiamenti, spinti attraverso il Parlamento, dominato da una maggioranza pro-Belrlusconi, ha incluso una legge sulle rogatorie (con l’implicazione in almeno un caso contro Berlusconi), una sulla depenalizzazione del falso in bilancio, (un altro dei tre casi) e una legge che dia la possibilità agli imputati di spostare i loro processi ad un altro tribunale per legittimo sospetto che la corte tratti il loro caso con dei pregiudizi (che può essere usata per spostare un processo). Quest’ultima è stata invocata inutilmente da Berlusconi in uno dei suoi processi, che è ancora aperto, e ciò spiega il perché lui fosse in aula questa settimana, a negare le accuse di corruzione dei giudici nel 1985.

La pagina di The Economist

Ha detto: posso essere giudicato solo dagli eletti del popolo. Ha comunicato che, anche in caso di condanna, intende restare a palazzo Chigi, perché così ha deciso il popolo. Ha annunciato che, in nome del popolo, cambierà la giustizia in Italia. È il discorso del 29 gennaio di Silvio Berlusconi. Prefigura una deformazione del nostro sistema democratico e la fine della divisione dei poteri sancita dalla Costituzione della Repubblica. Stravolgerà le regole appellandosi continuamente al popolo. Facendosi consegnare dal popolo, attraverso l’uso esasperato degli appelli elettorali, un potere sempre più grande. Nel tono autoritario del proclama, nell’uso della cassetta preregistrata che Rai e Mediaset hanno “dovuto” mandare in onda, nell’esultanza dei capimanipolo impazienti di entrare in azione, si colgono accenti autoritari ed echi golpisti. Ma non sarà un golpe, poiché non è previsto, almeno per ora, l’uso della forza. Sarà una sorta di sovversione dell’alto. Un graduale, costante, insidioso attacco alle istituzioni, magari approfittando dello stato di emergenza psicologica che i venti di guerra porteranno nel paese. Per arrivare a un mutamento di regime. Costi quel che costi.

Il 29 gennaio di Berlusconi non giunge in clima di guerra civile, di spaccatura del paese, di emergenza istituzionale. Dietro il discorso mussoliniano del 3 gennaio del ‘25, c’era un’Italia in fiamme e il delitto Matteotti. Dietro i pieni poteri chiesti dal generale De Gaulle c’era la tragedia di Algeria. Dietro le minacciose parole di Arcore c’è un processo per corruzione di giudici. Certo, non un processo qualunque, poiché tra gli imputati c’è il presidente del Consiglio. Perciò il fascicolo non si è fermato nell’aula di un tribunale, come poteva accadere al caso di un cittadino qualsiasi.

Perciò questa miserabile storia di bustarelle, date e ricevute, è arrivata fino alla Corte Costituzionale, per poi approdare alla Corte di Cassazione. Che è chiamata la Suprema Corte proprio perché i giudici che ne fanno parte rappresentano il massimo di garanzia formale che la giustizia italiana possa assicurare. Alla prudenza di questi supremi magistrati, tutti prestigiosi giuristi, che soltanto la barzelletta di un clown fuori di testa può descrivere come dei giacobini di sinistra, viene in soccorso una legge sul legittimo sospetto, che una maggioranza rassegnata agli ordini del capo ha dovuto approvare in fretta e furia. Una legge moralmente nefasta e tecnicamente sbagliata, tanto che perfino Jack lo Squartatore potrebbe beneficiarne, ma che purtuttavia nel suo garantismo un po’ folle, rappresenta l’omaggio estremo alla dignità di un premier. Se davvero un ventata di prevenzione ha travolto la legge a Milano, con questi giudici così saggi e prudenti e con queste norme così benevole, l’imputato premier avrà tutte le garanzie che chiede e che forse anche gli sono dovute per la funzione che svolge. Ma lui non vuole e i suoi legali non vogliono, semplicemente, più garanzie. Lui pretende e i suoi legali pretendono molto ma molto di più: l’immunità assoluta. Purtroppo per lui e per i suoi legali in questo paese vige ancora lo stato di diritto. E i giudici, ancora, non si possono assumere, e mettere nel libro paga del partito-azienda, come si fa con gli avvocati, o con gli onorevoli, o con i giornalisti. Succede che la Suprema Corte questo legittimo sospetto proprio non riesce a scovarlo nell’aula del tribunale di Milano. E dunque i processi non possono essere trasferiti, per poi ricominciare a Brescia, o a Perugia, o a Catanzaro in un interminabile gioco dell’oca che ha come casella finale la provvidenziale prescrizione. Non si può fare? E allora ci si appella al popolo.

Nell’ora berlusconiana delle decisioni fatali c’è un aspetto davvero paradossale. Dopo che tutti i leader del centrosinistra, e gli esponenti dei movimenti, e i girotondisti più incalliti hanno ribadito che nessuno pensa, neppure lontanamente, a chiedere le dimissioni del premier eventualmente condannato. Dopo che dall’opposizione tutti hanno escluso un uso politico del caso Berlusconi, ecco che a usare politicamente il caso Berlusconi è proprio lui, Berlusconi. Si ha come l’impressione che il discorso di Arcore fosse lì pronto nel cassetto ad essere usato, preparato con cura. Il piano “A”, con il trasferimento del processo, avrebbe tolto ogni impaccio penale al presidente del Consiglio, ma sarebbe rimasta una carta politicamente inerte. La teoria della persecuzione giudiziaria permette, al contrario, di armare una strategia politica formidabile. Con la sovversione dall’alto si può ottenere per via plebiscitaria, e a colpi di maggioranza, un mandato più forte. Con il pretesto dell’ingovernabilità, attribuita alla perfidia dei giudici, si può mettere sotto il controllo del governo quel potere giudiziario riottoso ai diktat padronali, concentrando il potere esecutivo e quello legislativo, e quindi la sovranità, nelle mani di uno soltanto. Fassino, Rutelli e tutta l’opposizione hanno fatto bene a gettare l’allarme Il 29 gennaio rischia di essere davvero una brutta data.

The Italian prime minister is not the man to speak for the European Union

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ON JULY 1st, Italy becomes president of the European Union. It is a six-monthly handing over of the baton that elicits no excitement at all in normal circumstances, but these days the circumstances are not quite normal. Politically, Europe is split. Economically, it is sputtering. The war in Iraq has lacerated relations with its main ally, the United States. Ten newcomers are about to join the club and, if the expanded Union is not to find itself paralysed, agreement must be reached on a new constitution. It is plainly time for clear-sightedness, diplomatic finesse and the exercise of the sort of moral authority that comes with ungrudging respect. Can Italy offer such leadership? Or, rather, can its prime minister, Silvio Berlusconi?

Our answer is no. Two years ago, when Mr Berlusconi was campaigning for the Italian prime ministership, we explained why we thought he was unfit for that job. We argued that, in addition to the many conflicts of interest between his own businesses and the affairs of state that would arise were he to be elected, he also had a compelling case to answer on a string of grave charges. Though Italy's highest criminal court has not definitively convicted him on any of those charges, he has yet to lay to rest all the concerns about his probity.

One reason for that is the manner in which the cases against Mr Berlusconi have been concluded. Most have owed less to clear-cut acquittals based on the evidence than to Italy's statute of limitations, or to recent changes in legislation apparently designed to benefit the prime minister as a defendant. These changes, pushed through a parliament dominated by a pro-Berlusconi majority, have included a law on judicial co-operation with foreign jurisdictions (with implications for at least one case against Mr Berlusconi), a measure to reduce the seriousness of some types of false accounting by making them civil rather than criminal offences (another three cases), and a law to let defendants seek to have their trials moved to another jurisdiction if they have a “legitimate suspicion” that the court handling their case may be biased (which could be used to spin out a trial and thus to help defendants benefit from a statute of limitations). This last law was unsuccessfully invoked by Mr Berlusconi in the one criminal case that is still outstanding, which explains why he was in court this week denying accusations of bribing judges back in 1985.

The allure of immunity

That trial will continue for several months, well into the Italian presidency of the EU and raising the possibility, on the basis of this week's form, that it will become a battleground between the current prime minister and one of his predecessors, Romano Prodi, who is now president of the European Commission. But Mr Berlusconi's allies seem to be more worried about the possibility of a guilty verdict. Last week one of his closest friends and political allies, Cesare Previti, was sentenced to 11 years in jail for corruption. Now there is talk of parliament's passing a law to grant immunity from criminal prosecution to those with “high state roles”. Such a law might ease the discomfiture of Mr Berlusconi's supporters at home. It would do nothing for his wider reputation abroad.

Instead, parliament might usefully be turning its attention to Mr Berlusconi's conflicts of interest. These have been a real or potential embarrassment since before his first prime ministership nine years ago, and it seemed incredible that simple decency had not ensured a resolution by the 2001 election. But Mr Berlusconi seems to find it hard to distinguish between propriety and proprietor. Nearly two years after taking office for the second time, a promised law to tackle his conflicts of interest has yet to be enacted. In the meantime, though Mr Berlusconi exercises huge influence over the state broadcaster, RAI, his family has yet to divest itself of Italy's three largest private television channels.

Mr Berlusconi says he is the victim of a communist plot (, which he is suing for libel, is apparently a part of it), and the judiciary is biased against him. Some Italian magistrates are no doubt left-wingers; it would be odd if that were not so, in a country in which political partisanship has long permeated almost every public institution. But Italy also has right-wing magistrates, and in any event it is possible to hold political views and yet dispense impartial justice. If Mr Berlusconi is indeed the victim of a plot, he needs to show the world his evidence. The proper way to do that, for a man in his position, is to step down from his public post and defend himself in court. If and when he has fully cleared his name, Europeans may feel easier about having him speak for Europe.

BERLUSCONI ha deciso davvero di andare "fino in fondo" o al fondo, trascinando con sé il Paese in guerre che la stragrande maggioranza degli italiani non capisce e non vuole combattere. La prima è quella con l'America di Bush, contro Saddam e anche contro l'opinione pubblica europea, in una posizione di vassallaggio che dovrebbe compensare, secondo lo stratega di Arcore, lo scarso prestigio di cui gode il governo italiano in Europa alla vigilia del semestre di presidenza.

L'altra è la solita, estenuante, eterna guerra alla magistratura indipendente, colpevole di aver confermato a Milano il processo Previti. Berlusconi (o chi gli scrive i discorsi) trova intollerabile che in una "democrazia liberale" la legge sia uguale anche per il primo ministro e da questa delirante premessa fa discendere una serie di conseguenze eversive.

In una democrazia liberale i problemi giudiziari del primo ministro sono affari suoi e non emergenze nazionali. Helmuth Kohl, uno statista che ha unificato la Germania, si è dimesso per il semplice sospetto di aver preso una tangente. Berlusconi, che ha unificato soltanto le reti televisive, non accetta invece che la magistratura indaghi sul perché dai suoi conti partissero centinaia di milioni verso i conti esteri di Squillante e compagnia. E' tutta qui la differenza fra una democrazia e un mezzo regime.

Ma Berlusconi non sente ragione, alla lettera. Neppure la ragione banale, né di destra né di sinistra, che la Cassazione non poteva accogliere una richiesta di trasferimento fondata sulla presenza di un cantastorie "ostile" in piazza del Duomo o sulle presunte pressioni di questo giornale (in edicola a Milano come a Brescia, Perugia e Roma) e altre sciocchezze buone per il popolo bue e per il salotto di Vespa ma non per i seri professionisti delle sezioni unite. Questo processo non s'ha comunque da fare e Berlusconi andrà "fino in fondo".

Da padrone della maggioranza ha deciso che il Parlamento, già paralizzato per mesi sull'inutile Cirami, si bloccherà per un altro anno intorno a una riforma della giustizia che è in sostanza l'abolizione della giustizia stessa. Non si tratta infatti soltanto di separare le carriere dei magistrati ma, come spiega l'avvocato Pecorella, presidente della commissione giustizia, di "spaccare il fronte dei magistrati" sottoponendo la magistratura al controllo della politica.

Fallita la Cirami, che nel frattempo serve però a mafiosi e terroristi, siamo dunque alla soluzione finale: la morte della magistratura indipendente. Berlusconi (e Previti) accetta insomma di essere giudicato soltanto da una magistratura nominata da lui. Se l'avesse proposto Prodi, che nel '96 aveva preso gli stessi voti e qualcosa in più, sarebbe stato ricoverato. Ma si vede che nella logica della nuova destra anche il voto, oltre alla legge, non è uguale per tutti.

Il nuovo pronunciamento sudamericano di Berlusconi ha riscosso uno sconcerto unanime nel mondo della magistratura e rende naturalmente vano l'appello al dialogo lanciato da Marcello Pera. Ma soprattutto azzera anni di chiacchiere e litigi nell'Ulivo sulla possibilità di un dialogo istituzionale con Berlusconi. Anche gli ultimi nostalgici della Bicamerale si saranno convinti che questa possibilità oggi non esiste ed è Berlusconi, con i fatti, a negarla.

Si apre una nuova stagione della politica italiana, nella quale tutti i poteri di controllo, dal Quirinale all'opposizione, sono chiamati a difendere le basi della democrazia da pesanti minacce. Per troppo tempo timidezze e subalternità culturali hanno contribuito a rendere "senso comune" una visione cesarista ed eversiva del potere.

Il risultato è questo delirio d'onnipotenza per cui un premier eletto dal 45 per cento degli italiani si è convinto di essere per questo unto dal signore, al di sopra delle leggi, autorizzato a muovere guerra alle istituzioni o a criminalizzare chi scende in piazza, perfino a sciogliere le Camere, nel totale disprezzo della Costituzione. In nome di che cosa? Non certo della volontà popolare che lo ha eletto per risolvere una crisi economica nel frattempo assai peggiorata. Piuttosto nel nome di una visione padronale e autoritaria che si è fatta strada negli anni grazie allo strapotere mediatico, fino a logorare le istituzioni e a instaurare un clima da guerra civile. Il gioco finora ha funzionato.

Ma la famosa gente comincia ad averne piene le tasche e a separare i problemi di Berlusconi e Previti con la giustizia dai problemi di tutti: l'inflazione, la recessione, la sanità, la scuola, i trasporti, il territorio. Tutto quello che il governo sta lasciando andare a rotoli per fare le guerre di Silvio.

(2 febbraio 2003)

Molti se l’aspettavano, che l’uomo dai mille affari, signore delle televisioni commerciali, incongruo capo del governo, venisse ai ferri corti con la fisiologia costituzionale: non sa cosa sia; ha troppe mani, cervello selvatico, viscere d’autocrate e una storia che parla. Ricapitoliamo i dati visibili: era un impresario edile piduista, inginocchiatosi davanti al Venerabile Licio Gelli; salta nel business televisivo grazie alle concessioni sull’etere benevolmente octroyées da Bettino Craxi, del quale diventa un enorme parassita, bravissimo nel moltiplicare i soldi; dagli schermi disintegra le teste abbassando l’età mentale media a 11 anni; persi i protettori, converte l’azienda in partito, cava un elettorato dalle masse contemplanti, arruola la schiuma; vince, governa sei mesi, cade; sopravvive benissimo abbindolando un avversario mandatogli dal Cielo. Da 3 anni è padrone d’Italia ma trascina vecchie pendenze, sotto accuse molto gravi: siccome teme la decisione, scatena pandemoni criminaloidi intesi al dissesto del sistema legale; nella filosofia d’Arcore le norme valgono o no secondo le persone, sicché traffica impunito chi stia dalla parte dominante. Al governo accumula performances negative lasciando allibiti quelli che, senza illusioni sulle qualità morali, gli accreditavano abilità pragmatiche.

Dell’uomo sappiamo tutto. Figura, stile, maniere, loquela, conclamano un’incoercibile volgarità. Ha due visi: bagalùn d’l lüster, barzellettiere logorroico, istrione (quel contratto elettorale firmato dallo schermo); ma che boss duro sia sotto maschere allegre, lo dicono i gesti. L’enciclica televisiva mattutina 29 gennaio con cui infamava le Sezioni unite, colpevoli d’avergli negato la rimessione, impallidisce davanti alla lettera 30 aprile, dove l’iperbole assume cariche virulente da guerra civile messicana. Il Tribunale milanese condanna lo stretto suo sodale a 11 anni, come intermediario delle baratterie romane, una delle quali vale l’impero editoriale mondadoriano: e lui, mandante (era uscito ignobilmente dal processo, approfittando d’una svista nell’art. 321 c.p.), ulula a tre gole: «sinistra forcaiola», «barbarie giustizialista», «logica golpista»; qualifica «ipocriti» i consigli d’«abbassare i toni» (vengono dal Quirinale); nient’affatto, bisogna «alzarli» a tutela del popolo sovrano, due volte derubato; risuscitando l’immunità parlamentare, vuol riconvertire le Camere in luogo d’asilo. Immune dallo scrupolo estetico-morale lo è già. Come umorista involontario ogni tanto riesce irresistibile. Ad esempio, inalbera l’insegna «libertà e decenza»: i tedeschi lo chiamano Galgenhumor; "Galgen" significa forca. Ovvie proteste dal Csm, verosimilmente condivise al Quirinale, e lui ribatte l’invettiva: erano riflessioni su una decade politica italiana; qualche norma vieta le analisi storiche? «Criminalità giudiziaria», sibila venerdì mattina 2 maggio, uscendo dal consiglio dei ministri. Ai vertici dello Stato non erano mai corse maledizioni simili, nemmeno nel gennaio 1925: parla come un capo-gangster abituato a comprarsi le sentenze o estorcerle; fallito il colpo, sfrena i molossi sperando d’avere avversari equivoci, fragili, codardi.

Non sono i soprassalti d’un sensitivo: ha consiglieri anche spirituali, ghost-writers, archivisti, sondatori, astrologhi, oniromanti, pensatori; suppongo calcolata ogni mossa. L’urlo epistolare ricorda Polifemo ubriaco, è vero, ma vi era costretto: tacendo sulla condanna milanese, come qualunque cittadino rispettoso delle regole, perde quota nell’opinione canagliesca (componente sine qua non del fenomeno B., in forma cruda o santimoniosa); non può sconfessare P., suo agente, e meno che mai gli convengono pose contrite. Forse la politica non era il suo mestiere. Vedeva chiaro quel fedelissimo alter ego contrario all’avventura. Dal notaio romano Cola di Rienzo al maestro elementare romagnolo Benito Mussolini, è vecchia storia che i predatori della psiche collettiva abbiano carriere rischiose: giocano sul carisma; e i carismi subiscono improvvisi squagliamenti. Il suo era legato alla fama d’imprenditore infallibile, creativo, insonne: un self-made man che suscita aziende, soverchia i concorrenti, sprigiona talenti; e se risultasse che il talento era baratteria? Poco male, purché sgomini Dike, dea minore la cui spada ogni tanto manca i bersagli: le voci morali risuonano fioche dopo vent’anni d’uno stregonesco diluvio mediatico; e se le piccole frodi sono perseguibili solo a querela, l’enorme incute rispetto. Perciò emette fuoco e fumo: padrone delle Camere, governa a imboscate e razzie, nello stile dell’oppositore ribaldo; e chiama «il popolo» alla crociata (lo notava Ezio Mauro qui, 1° maggio). Le sue bestie nere sono Stato, legalità, valori morali, decoro. Naturale: è come se Capitan Kidd diventasse ministro con pieni poteri sul commercio marittimo; vi stupite degli effetti dissonanti?

Che il berlusconismo sia religione (d’un gusto infimo, quindi rigogliosa), lo dicono sante icone: vuol anche essere taumaturgo; diventando presidente d’una sua repubblica, magari restaura la benedizione degli scrofolosi («le Roi te touche, Dieu te guérisse»). Sinora il culto gli portava lauti profitti. Ma i fedeli esigono molto dal nume, pronti a ripudiarlo se li delude: mormoravano vedendo come l’unico ad arricchirsi sia lui, mentre l’Italia va in bolletta e le promesse restano sulla carta del contratto elettorale; l’aveva firmato a inchiostro simpatico. Col fiato sospeso seguivano l’ordalia milanese, aspettando vittorie, meglio se inique. Al primo assalto, invece, stramazza dopo soperchierie d’ogni colore, dalle incursioni ministeriali alle leggi truccate, senza contare un passo falso attribuibile alla logorrea: vizio pericoloso; pagherà cara la sbalorditiva confessione d’avere speso 500 miliardi negli avvocati (F. Verderami, «Corriere della Sera», 30 aprile). Il disincanto è micidiale, signor B. Non teme che i disillusi Le diano del "pirla"? Ogni spettatore sveglio La confronta alle persone contro cui inveisce: non hanno reti televisive né giornali né schiavi, liberti, sicari; non militano in partiti, sette, logge; vivono dello stipendio acquisito con un concorso (quel concorso schernito dal partito soi-disant parlamentare, la cui idea del Parlamento tradisce compiacimenti malavitosi); lavorano impassibili sotto continue provocazioni, nell’aula e fuori; sventano furiosi assalti opponendo argomenti agl’imbrogli; l’essai de patience dura 3 anni; e alla fine decidono, perché esiste una legge. Persino l’indurito sente qualche brivido. Ecco cosa significa "moralità".

L’anno scorso, quando gli strapagati difensori discutevano sul «legittimo sospetto» davanti alle Sezioni unite, rievocavo un episodio dalla storia criminale francese anni Trenta (qui, 28 maggio 2002): era enchanteur anche Serge Alexandre Stavisky, alias Sacha, immigrato russo, artista d’affari osés, con sponde nel mondo politico-giudiziario (sullo schermo lo interpretava Jean-Paul Belmondo e c’era anche il vecchio Charles Boyer); ma è vulnerabile nel processo che gli striscia dietro; schiva il dibattimento attraverso 19 rinvii, guadagnando 7 anni grassi, finché a Bayonne incappa nella disavventura finale; collocava cedole false. Dicono che s’ammazzi al momento dell’arresto. Pochi lo credono. Sacha era un povero diavolo rispetto al Sire d’Arcore, editore dominante, monopolista degli schermi, uomo politico più ricco del mondo, presidente del consiglio, ecc.: nel suo piccolo aveva talento però; e qualche pulsione mortuaria ogni tanto trapela dalle gesta berlusconiane. Nella favola italiana il Joker va sul velluto: incassato un colpo, raddoppia la posta; comunque finisca, uscirà ancora più ricco. Vero. Tuttavia, al suo posto mi guarderei dalla pleonexia. È parola greca, signor B.: l’eccesso arrogante, malvisto dagli dèi; a gioco lungo, talvolta lunghissimo, lo puniscono. Il suo futuro politico dipende dagli oppositori. Supponiamoli seri, e serietà significa precedenti limpidi, disegno politico condivisibile, ugole sobrie, teste che connettano: allora soccombe; ma povera Italia se gli regalano una seconda Bicamerale.

La storia comincia 8 anni fa, venerdì primo luglio 1995, quando F. G., pubblico ministero milanese, ascolta S. A., futura testimone velata dal nome criptico "Omega". I colloqui seguenti evocano un mercato romano della giustizia venale, contiguo al serraglio politico-affaristico; e dialoghi intercettati forniscono conferme, specie su una toga capitolina, ex consigliere a Palazzo Chigi (sub B. Craxi), poi al Quirinale (sub F. Cossiga), ora preposto ai giudici delle indagini preliminari. L’arrestano martedì 12 marzo 1996. Da settembre, sul registro milanese delle notitiae criminis figura B., in compagnia dell’avvocato d’affari P., già suo ministro della Difesa, ed era destinato alla Giustizia o agli Interni, autore dell’icastica battuta: «Stavolta non faremo prigionieri»; siamo nel preludio alla campagna elettorale. L’uomo d’Arcore non lesina i fendenti verbali. Quarantott’ore dopo paragona gli inquirenti alla banda assassina della Uno bianca (14 marzo); indi presenta alla stampa i professori reclutati nel pensatoio forzaitaliota: inter quos l’attuale presidente del Senato stronca «la cultura liberale falsa e imbelle impersonata dal senatore a vita Norberto Bobbio» (i curiosi consultino Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio, Mani pulite, Editori Riuniti, 2002, 419-45). I reperti alimentano tre filoni. Seguiamone due.

Nino Rovelli, petroliere, litiga con l’Imi: un collegio del tribunale presieduto da F. V., ora coimputato, gli dà partita vinta nell’an debeatur (siamo nel 1996); un altro deciderà sul quantum; l’udienza conclusiva è fissata al 4 aprile 1989. Il presidente C. M. vuol disporre una consulenza e l’ha incautamente confidato in alto loco. Quel mattino gli arriva una chiamata perentoria dal ministero, dove F. V. funge da capo-gabinetto: venga subito; e corre, spiegando a chi lo sostituisce che l’udienza va sospesa finché lui torni; in via Arenula perde un’ora conversando sul niente; quando torna, actum est; hanno deciso liquidando 650 miliardi al fortunato litigante. Davanti alla Corte d’appello i miliardi diventano 1000, interessi e spese inclusi. Scrive la sentenza V. M., novembre 1990. L’Imi ricorre: ricorso inammissibile, obietta l’appellato, perché nel fascicolo manca la procura speciale (come se uno uscisse nudo, avendo dimenticato gli abiti); la procura c’era, replica il ricorrente; e l’episodio muore nella solita inchiesta contro ignoti. Senonché M. C., relatore, ritiene ammissibile il ricorso e predispone un appunto segreto: qualcuno lo fotocopia mandando le copie ai quattro colleghi; e un corvo scrive al primo presidente, nonché all’interessato, avvertendolo d’essere ricusabile perché ha scoperto anzitempo quel che pensava.

Lo spiato offre l’astensione, sicuro della risposta negativa: «No, resta, è scrupolo fuori luogo»; nient’affatto, il superiore lo sostituisce. Com’era in votis, la Corte dichiara inammissibile il ricorso. Chiude l’intrigo un gesto schernevole: primo presidente, procuratore generale e l’astenuto ricevono copia della procura sparita; mancano margine sinistro e lembo superiore, dove un timbro suole attestare il deposito. Graziosa historiette. Così i pirati intendono l’arte forense. Sui conti esteri dei tre coimputati affluiscono 67 miliardi, pari al 10% del bottino (Barbacetto-Gomez-Travaglio, 466 ss.).

Qui B. era assente, mentre figura nel secondo caso: contendeva a C. D. B. il controllo della Mondadori e soccombente nel giudizio arbitrale, impugna; la Corte d’appello romana decide a suo favore lunedì 14 gennaio. L’indomani salta fuori la sentenza manoscritta, 168 pagine: vi riuscirebbe sì e no Balzac, scrittore dalla mano miracolosa; l’arto de quo, invece, appartiene al V. M. che abbiamo visto nel caso Imi-Sir, uno le cui gestazioni letterarie durano mediamente dai 2 ai 3 mesi; solo 9 volte su 56 scende sotto tale soglia, scrivendo poche pagine, mentre stavolta consuma un calamaio; donde l’ipotesi che il capolavoro preesistesse (Barbacetto-Gomez-Travaglio, 475 ss.). Secondo dicerie avvocatesche, sarebbe nato nello studio d’uno degl’imputati: i vecchi retori li chiamavano "rumores" e sul tavolo istruttorio valgono pochissimo, anzi niente; ma l’erculeo motivatore commette una seconda gaffe quando esce dalla magistratura collocandosi nello studio P.

Non è affare mio stabilire se le prove raccolte bastino alla condanna. Certo, bastano a «sostenere l’accusa» (art. 125 att.), al qual proposito B. appare benedetto dalla sorte: figura tra gl’imputati; il pubblico ministero ha chiesto il rinvio a giudizio. Imprevedibilmente, il giudice dell’udienza preliminare dichiara non doversi procedere: secondo lui, manca la prova che li inchiodi; può darsi ma deve stabilirlo un dibattimento. Su appello del pubblico ministero la Corte li rinvia a giudizio, salvo B., favorito da una svista legislativa stavolta solo colposa: la l. 26 aprile 1990 n. 86 calca la mano sulla corruzione nel processo (art. 319-ter c.p.), poi dimentica l’art. 321 (pene del corruttore); è «errore materiale» da compilatori disattenti; e vi rimediano con l’art. 2 l. 7 febbraio n. 1992 n. 181. Ora, risultando anteriori i fatti sub iudice, la Corte reputa applicabile l’art - 319-ter solo al corrotto e ai mediatori organicamente insediati nel malaffare togato: grazie alle attenuanti generiche, B. risponde dell’ipotetico delitto meno grave, ormai prescritto; ed esce dal processo quale probabile corruttore esente da pena. Poteva rinunciare alla prescrizione, scegliendo l’alternativa secca condannato-assolto: gli innocenti orgogliosi rifiutano un proscioglimento avvilente; lui se lo tiene stretto.

I due filoni, Imi-Sir e lodo Mondadori, confluiscono. Superfluo raccontare cos’avvenga nelle udienze preliminari, poi al dibattimento aperto tre anni fa: sarabande mai viste d’ostruzionismi, cavilli, tempo perso, leggi ad personam, tempeste mediatiche, fino al tentativo d’una fuga preclusa dalle Sezioni unite (28 gennaio 2003). Dopo tre anni, il dibattimento pare concluso. Nel calendario la decisione è attesa giovedì 27 marzo ma solo l’ottimista Candide poteva aspettarsi un P. rassegnato. Infatti, ripete l’antica mossa, ricusando i tre giudici: è l’ennesima volta; li ricusava uno a uno, poi tutti, d’un colpo. L’ordalia diventa farsa. La ricusazione richiede casi tassativi; uno è l’«inimicizia grave» col giudice; e lui ha tre nemici seduti al banco. Ah sì? Crudelissimi, tanto da negargli quel che chiede. Glielo spieghino i consulenti: sono innumerevoli le questioni controvertibili, seriamente o no; una decisione le risolve; il rimedio all’eventuale errore sta nell’impugnarla; altrimenti i giudizi diventano eterni; chiedo cose stravaganti e me le concedono o li ricuso. A sentire lui, il Tribunale sarebbe incompetente perché la notitia criminis appare a Perugia, 25 ottobre 1994, mentre nel registro milanese arriva 11 mesi dopo. Argomento risibile sotto almeno tre aspetti. Primo, l’ipotesi perugina era che qualcuno avesse svelato segreti d’ufficio: qui è in ballo una sentenza venduta; due avvenimenti piuttosto diversi; e nell’ottobre 1994 solo Nostradamus poteva sapere che 9 mesi dopo, sarebbe trapelato l’allegro mercato romano. Secondo: l’«esposto» invocato dal ricusante come fondamento della competenza umbra figurava nel «registro degli atti non costituenti notizia di reato», alias «modello 44» (art.1 d.m. 30 settembre 1989), mentre l’art. 9, c. 3, contempla il «registro previsto dall’art. 335» o «delle notizie di reato», modello 21 o 44 (contro ignoti). Terzo: quando anche fosse la stessa notizia, iscritta nel posto giusto, contro l’identica persona, da sola non basta: ci vuole un séguito qualunque; e se vi fosse, risulterebbe archiviata o verrebbe sulla scena un imputato. I procedimenti aperti dal pubblico ministero indagante non spariscono nell’aria. Sono cose elementari, procedura piatta. Il Tribunale, longanime, rinvia al 2 aprile. Cosa declamerà P. mercoledì prossimo?

La mattinata di ieri l’hanno trascorsa schiacciando i tasti “Stop” e “Play” del videoregistratore nella stanza del direttore Antonio Di Bella. I due ispettori Rai inviati a compiere “accertamenti amministrativi” (come da nota aziendale, ndr) nella redazione del Tg3 hanno svolto scrupolosamente il loro lavoro. Tutto ha avuto inizio due giorni fa con un’intervista rilasciata a Radio Anch'io da Silvio Berlusconi. A proposito delle contestazioni subite mentre usciva dal processo Sme, il premier ha parlato di "agguato studiato, preparato, da parte di uno di questi signori che con a fianco le telecamere, una di una Tv privata, l'altra del Tg3, evidentemente d'accordo, è venuto vicino a me e mi ha dato del buffone". Tanto è bastato perché il direttore generale della Rai Flavio Cattaneo richiedesse un’ispezione sull’operato dei giornalisti del Tg3.

Così, gli ispettori Rai si sono presentati a Saxa Rubra verso le 10.30 di ieri, sono andati dal direttore Antonio Di Bella e, in sua presenza, oltre ad aver visionato le cassette con i servizi mandati in onda dal Tg, hanno interrogato vari redattori. O direttamente o facendoli rintracciare per telefono. Gli interrogatori non sono stati per nulla superficiali. Gli ispettori sono entrati minuziosamente nei dettagli. “Si sono fermati per più di due ore - raccontano al Barbiere dalla redazione - a vari giornalisti hanno chiesto quali e quante troupes fossero presenti quel giorno. Hanno chiesto precisazioni sulla veridicità della ricostruzione dei flussi finanziari di cui si parla nel processo Sme (“Queste cifre chi ve le ha date? Sono corrette?“). Sono stati molto pignoli sugli orari della contestazione e sul numero delle telecamere presenti nel corridoio in cui passava Berlusconi. Oltre al Tg3, c’erano La7, Mediaset, TeleLombardia?“. Durante la visione di uno dei servizi, lo stesso Di Bella ha indicato la presenza di più telecamere ad uno degli ispettori: “Nell'inquadratura se ne vedono cinque. Non eravamo soli. Nessun agguato, vede” Non era concertato da noi”. Mariella Venditti, tra i giornalisti che quel giorno hanno confezionato un servizio sull”argomento in questione, è stata interrogata per un”ora e mezza. “Le hanno fatto visionare il filmato con il direttore, chiedendole come avesse lavorato. Lei ha spiegato che la sua telecamera era spenta ed ha perso anche alcuni minuti del passaggio di Berlusconi”. L”ispezione è poi proseguita scandagliando la successione temporale di quel giorno: dove si trovavano esattamente gli inviati durante la contestazione a Berlusconi, chi tra loro ha chiamato la redazione, con chi hanno parlato, chi ha preso la decisione sulla messa in onda dei servizi. Fotogramma per fotogramma, i servizi andati in onda sono stati vivisezionati arrivando perfino a chiedere lumi sull’impaginazione del tg (cioè la successione dei servizi per importanza), sul perché era stato messo prima un pezzo e poi un altro. Tutte cose che decide il direttore.

La radiografia della normale macchina redazionale da parte degli ispettori è risultata intollerabile agli organismi dei giornalisti, Ordine e Federazione della Stampa, che hanno contestato via agenzie la pesante intromissione. Al pari di ogni grande azienda, anche la Rai ha un “ispettorato”. L”“Internal auditing”, come viene chiamato, è una struttura aziendale che in Rai fa capo alle Risorse Umane. Ma, come precisa il segretario dellUsigrai Roberto Natale “si occupa di accertamenti di varia natura, ma non editoriali. Può verificare ad esempio se qualcuno gonfia le fatture o le note spese, non entrare nel merito delle scelte giornalistiche. Gli ispettori invece hanno travalicato i limiti, assumendo funzioni e ruoli impropri. La cosa giusta da fare era chiedere al direttore di testata una nota sulla vicenda”. L'irritazione di Natale è largamente condivisa tra i dipendenti della Rai: “Siamo tutti sconcertati. Non ricordiamo sia mai accaduto niente di simile”. Insomma, ai giornalisti è parso che di amministrativo in questo accertamento ci fosse ben poco. Nel frattempo il Cdr del Tg3, dopo aver indetto una giornata di sciopero e proclamato lo stato di agitazione togliendo le firme dalle edizioni del telegiornale, aspetta l’assemblea convocata alle 14.30 di oggi a Saxa Rubra, a cui parteciperanno tutti i giornalisti Rai, i rappresentanti dell”Ordine e della Fnsi ed anche il presidente Lucia Annunziata.

A GUERRA finita, Berlusconi mette fuori la testa dalla trincea del silenzio, si guarda intorno, indossa la divisa del vincitore e rilancia l’eterna, miserabile, piccola guerra civile contro l’altra metà del paese. L’ultima trovata del premier, esalata durante la campagna elettorale nel Bresciano, è che la sinistra avrebbe confermato con l’impegno per la pace «l’insopprimibile attrazione per le dittature e i dittatori».

Ora, sarebbe facile ricordare a Berlusconi che la moderna sinistra italiana si fonda sui valori della resistenza a una dittatura feroce che la cultura di governo s’incarica ogni giorno di sdoganare, dopo aver portato al potere i nipotini del Duce. Si potrebbe anche aggiungere venendo a tempi recenti, che l’unico leader politico ad aver manifestato attrazione per Saddam è stato il suo attuale vice Gianfranco Fini, nel '91 in missione a Bagdad in compagnia di Le Pen per stringere la mano all’assassino. E infine, perché mai Berlusconi, che parla sempre come lo Schifani di Bush e ora perfino di Rumsfeld, non ha fatto partire i soldati italiani se era tanto convinto delle ragioni americane? Tutti questi argomenti, per quanto ovvi, sarebbero però inutili. Le sparate ignoranti di Berlusconi sulla storia patria non vanno prese sul serio, sono un modo avvilente d’usare una grande tragedia per rimontare un paio di punti nel voto di Brescia e dintorni. La politica, secondo Carl Schmitt, è anzitutto l’individuazione di un nemico. Secondo Berlusconi, è soltanto questo. D’altra parte tutte le promesse del berlusconismo, dal miracolo economico alla nuova missione nazionale, sono miseramente falliti. In due anni di governo la lobby di Arcore si è mostrata una poderosa macchina affaristica calibrata sugli interessi del padrone, un moltiplicatore delle fortune di Mediaset e della galassia finanziaria berlusconiana. Ma si rivela ogni giorno di più un pessimo affare per il paese avviato a un declino economico, politico e civile.

L’Italietta di Berlusconi accumula da debiti a ritardi che un giorno qualcuno dovrà pagare, mentre il suo ruolo in Europa e nel mondo si riduce alle dimensioni folcloristiche del "vorrei ma non posso" cui è improntata la politica estera di cartapesta del premier.

È comprensibile allora che Berlusconi si rifugi nella solita Jihad anticomunista. Il comunismo è l’unico problema sul quale il governo può vantare buoni risultati, essendo morto da una quindicina d’anni. È giusto anche che l’opposizione non perda tempo a replicare alle provocazioni del premier. Abbassare il livello della politica alla polemica sadomaso è un errore di prospettiva: un giorno si dovrà ricostruire un tessuto civile fra le due parti politiche del paese. L’avventura berlusconiana è il punto più basso del fallimento storico, dell’incapacità italiana di darsi una classe dirigente di livello internazionale dopo la caduta del muro e alle viste di un nuovo ordine mondiale. Come si è visto bene anche nel corso della crisi bellica, quando l’Italietta della destra si è nascosta nella nebbia di confine del confronto fra l’asse angloamericano e quello franco-tedesco. Le chiacchiere e le vanterie del Cavaliere, le ossessione e le provocazioni, l’opportunismo di giornata, saranno tratti psicologici bizzarri ma sono storicamente irrilevanti rispetto all’impegno futuro di restituire dignità e grandezza internazionale all’Italia.

L’ABC DELLA DEMOCRAZIA

COMINCIANO a fare una certa impressione, i terremoti che il presidente Ciampi provoca ormai sistematicamente con gli appelli contenuti nei suoi discorsi o nelle sue risposte ai giornalisti. Sono appelli a principi fondamentali del convivere civile, che in una democrazia sviluppata vanno generalmente da sé. I Capi di Stato o i monarchi li evocano di tanto in tanto perché così ordinano la tradizione, l’etichetta, e il prestigio connesso alla natura morale del loro magistero. In alcuni momenti difficili questi appelli si fanno più intensi, ma i momenti sono scelti con sobria sapienza e senso del risparmio verbale. Invece in Italia è oggi tutto diverso: ogni giorno, ogni ora il Capo dello Stato è chiamato a recitare il decalogo che fonda la democrazia, come se si trovasse di fronte a edifici in rovina. Deve ricordare a tutti che «in democrazia è indispensabile il rispetto reciproco», che «la collaborazione non esclude ma richiede un dibattito forte e schietto», che stampa e televisione devono essere libere di criticare, che i giudici obbediscono solo alla legge. E ancora: che le contrapposizioni sono lecite ma non devono superare il limite del rispetto dovuto alle «opinioni altrui: anche le opinioni diverse, profondamente diverse dalle nostre». Che le opposizioni e minoranze devono avere un ruolo riconosciuto, e uno statuto. Queste cose, in una democrazia sviluppata, fanno parte degli esordi: sono lo strato primitivo della sua geologia. Sono spiegate nelle sue scuole elementari, nei suoi giardini di infanzia. Non si rompe il giocattolo del vicino perché è più bello. Non si sputa né sul compagno né sulla maestra né sul bidello. Non si ruba e non si traduce l’invidia in odio. Imparate una volta, queste regole diventano leggi che si conoscono a memoria. Ciampi non ha dunque torto, quando al giornalista accalorato replica: «Ma quale terremoto? Io cerco solo di portare un po’ di tranquillità».

Eppure ogni volta è scossa tellurica, quando il Presidente evoca le norme imprescindibili della disputa politica, e prima o poi verrà il momento di domandarsi perché. Perché questa singolare sensazione di trovarsi in un paese dove tutto ogni volta deve ricominciare da zero, come nelle nazioni appena uscite da guerre, carestie o dispotismi. Un paese che non vive nella sua tangibile realtà e nella sua storia effettiva, ma nel «come se». Come se fosse una dittatura, come se la Costituzione dovesse essere redatta per la prima volta dopo decenni di regime, come se le sue istituzioni giacessero, a pezzi, sotto bombardamenti. Di questi tempi abbiamo sentito parlare spesso di paesi simili: sono paesi come l’Iraq o la Russia, nei quali occorre ricostruire non solo la nazione e lo Stato ma la rule of law, l’imperio della legge. Nel linguaggio degli specialisti quest’opera di civilizzazione si chiama nation-building, riedificazione della nazione: in Italia siamo ancora a questo livello. Stiamo facendo nation-building, non diversamente dall’Iraq, e come il Presidente Karzai in Afghanistan Ciampi deve intervenire ogni giorno, per mettere pace tra i clan ed evitare che la società politica torni alla guerra permanente che caratterizza il primevo stato di natura. Tra le varie ragioni di questo primitivismo politico, e del suo abnorme dilatarsi odierno, vorremmo citarne solo due. Primo: l’assenza o la carenza di un controllo sociale che selezioni e vagli in modo continuo i comportamenti: nel mondo delle istituzioni come in quello economico e scientifico. Un homo novus della politica come Berlusconi ha potuto compiere la sua ascesa senza che fossero prima vagliati la sua correttezza, il suo passato di cittadino e imprenditore, la sua effettiva indipendenza. Il processo contro la presunta sua corruzione dei giudici, risalente ai tempi in cui non era un politico ma un privato cittadino, avrebbe dovuto svolgersi prima che accedesse alle massime cariche dello Stato e non dopo, come si è unanimemente accettato che avvenisse. Lo stesso si può dire per l’esame critico del conflitto d’interessi. Mancato all’inizio, il controllo sociale occorre adesso esercitarlo in vivo. L’intero ceto politico - e non solo il Quirinale - è chiamato a riportare ordine nel rapporto fra legge e cosa pubblica: sono chiamati gli oppositori ma anche gli alleati riformisti di Berlusconi, la stampa, la televisione. Altrimenti si accetta che la democrazia venga corrotta da dentro, sia riportata al grado zero, e si avalla la norma secondo cui un uomo privato può usarla piuttosto che servirla, una volta abbattute le prime barriere del controllo sociale e ottenuta l’acclamazione delle urne. Quando Berlusconi si scaglia contro i giudici e li definisce golpisti e criminali, o quando accusa la stampa di tendergli «agguati», egli fa propria una concezione della democrazia che non conviene a nessuno, neppure a lui: se consiste solo nel verdetto degli elettori - verdetto che prevale su ogni altra cosa, compresi tribunali e imperio della legge - la democrazia può divenire facilmente dittatura della maggioranza. Qualsiasi controllo è inviso, tra due scadenze elettorali, se mette in causa quel primitivo verdetto di cui non si vuol vedere l’insufficienza. In particolare, sono invisi i controlli che più impauriscono i governi autoritari: la magistratura e l’informazione. La giustizia e il pluralismo d’opinione non sono più valori esterni al potere contingente, che perdurano anche quando i governi cambiano: sono oggetti di rissa politica, dunque sono valori mutevoli, sporadici, e mercanteggiabili. La seconda ragione è la tendenza, vigorosa in Italia, alla smemoratezza politica. Qui si dimentica, ogni mattina, quel che si è detto la sera prima. Qui il logos comincia ogni giorno da capo, senza rapporto con la realtà e la storia ma con un rapporto tanto più forte con le convenienze del momento. Anche questo è caratteristico del nation-building successivo alle guerre o alle tirannidi. Nei giorni scorsi, ad esempio, si è parlato molto di immunità per le cariche dello Stato o i parlamentari. Si è parlato dei danni inferti da Mani Pulite negli anni Novanta, degli eccessi di una parte della magistratura e dell’uso che la sinistra ha fatto di Tangentopoli. Si è parlato assai di meno di come la destra formatasi attorno a Berlusconi preparò oltre dieci anni fa il terreno per la rivoluzione giudiziaria italiana, di come la Lega e Alleanza Nazionale si trovarono allora ad attaccare, con virulenza estrema, chiunque criticasse il pool di Milano o consigliasse il ritorno alla protezione immunitaria delle cariche dello Stato. C’è qualcosa di indecente, in quest’oblio sistematico di sé e di quel che si è detto pochi mesi o anni prima. Qualcosa che corrompe le menti di un’intera classe dirigente (politici e imprenditori, giornalisti e studiosi). Qui in Italia non si riscrivono solo la storia e le colpe passate. Qui si riscrive sfacciatamente la storia nel momento stesso in cui essa si fa. I moderati di destra, le persone indipendenti nel governo e nel parlamento non possono a lungo mortificarsi, in questo degrado del senso della verità. Se vogliono avere attorno a sé cittadini non primitivi, dovranno ritrovare un loro rapporto civile con la giustizia, la storia e la stessa verità. Il male che affligge l’Italia non è solo la corruzione sanzionabile nelle aule giudiziarie. E’ la corruzione dei cervelli, è il guasto arrecato alla facoltà di ragionare, giudicare, ricordare. Magistrati e giornalisti non osano più parlare a chiare lettere, e lasciano questo compito ai giornali stranieri. All’Economist che giudica Berlusconi inadatto a guidare la presidenza dell’Unione Europa. Alla Frankfurter Allgemeine, che paragona la paura suscitata nei nostri governanti da magistratura e stampa alla paura provata dai dittatori. La corruzione dell’intelligenza e la primitivizzazione della politica conducono a guasti che sono poi difficili da sanare: al tumulto disordinato, o a un’obbedienza cieca verso il capo che svaluta la virtù stessa dell’obbedire e servire. I tedeschi danno a questa falsa docilità il nome di vorauseilende Gehorsamkeit: l’obbedienza che si affretta a precedere l’immaginato ordine del capo. La nostra televisione pubblica già si affretta - più ancora di quella posseduta in prima persona da Berlusconi - offrendo impropriamente la propria arena a imputati politici alle prese con la giustizia ordinaria: a Previti prima e a Berlusconi poi, rispettivamente a Porta a Porta e a Excalibur. La democrazia è in pericolo quando l’autocensura interviene prima ancora della censura. Quando è costretta ad accordarsi intorno a leggi dell’immunità che si rivelano necessarie per proteggere molto più le maggioranze che le minoranze. Quando le maggioranze fingono di essere opposizioni, e i regimi si difendono dall’accusa di prepotenza lamentandosi di essere essi stessi vittime di un regime. Tutti noi - cittadini e giornalisti, politici e magistrati italiani - siamo a questo grado zero della cultura politica. Ed è difficile non provare una certa vergogna, quando Ciampi ci ricorda l’abbiccì della civiltà e ci tratta, di fatto, non già come adulti ma come scolari di un ineducabile, screanzato, vociferante giardino d’infanzia.

MA L’ITALIA CONTA DI PIU’

di SERGIO ROMANO

Berlusconi e Prodi sono nemici politici. Si sono battuti nel 1996 e potrebbero affrontarsi nuovamente nelle prossime elezioni. Sono diversi per cultura, formazione, stile personale. Ed è probabile che i loro rapporti siano ispirati a reciproca antipatia. Ma hanno contribuito insieme all’unico vero mutamento emerso dalla crisi degli anni Novanta. Se Berlusconi non avesse raggruppato intorno a un partito nuovo le forze del centrodestra e se Prodi non avesse fatto altrettanto nel centrosinistra creando l’Ulivo, gli italiani sarebbero ancora costretti a mettere nell’urna una procura in bianco. Se possiamo scegliere da chi essere governati, lo dobbiamo a questa coppia di eterni duellanti. Ma il duello, con gioia di chi vorrebbe tornare al vecchio trasformismo nazionale, rischia di mandare all’aria il bipolarismo. I primi errori, nell’ultimo round, sono stati commessi da Berlusconi. Quando è apparso di fronte al tribunale di Milano, il premier ha creduto che la condizione di imputato gli desse il diritto di chiamare in causa l’ex presidente dell’Iri. Ma l’insinuazione colpiva il presidente della Commissione e pregiudicava i rapporti istituzionali che i due dovranno avere nel semestre italiano. Il presidente del Consiglio credeva di difendersi e ha fornito armi ai suoi critici. Lo abbiamo constatato quando un settimanale inglese, che Berlusconi aveva querelato per un precedente articolo, lo ha definito unfit (inadatto) a presiedere l’Europa. Non basta. Avant’ieri, con l’intervista in tv ad Antonio Socci, il presidente del Consiglio ha commesso un altro errore. Poteva parlare «a reti unificate», come Scalfaro nel ’93. Poteva indirizzarsi al Paese come Chirac all’epoca degli scandali in cui fu coinvolto. Poteva persino servirsi di una spalla amica, come faceva il generale de Gaulle. Ma non doveva, mi sembra, occupare buona parte di un talk show della tv di Stato senza accettare le regole del confronto.

Prodi, dal canto suo, ha rotto il riserbo che si era imposto. Incoraggiato forse dalle critiche dell’ Economist e dalla gaffe televisiva del suo avversario, ha approfittato di un convegno a Siena per leggere una fulminante dichiarazione contro Berlusconi. Non si è reso conto che il presidente della Commissione è, a tempo pieno, un uomo dell’Europa e, benché attaccato, dovrebbe astenersi da dichiarazioni sulla situazione politica del suo Paese. Ha dimenticato che anche lui, per ragioni diverse, è poco amato dalla stampa britannica e che qualche giornalista potrebbe definirlo unfit a presiedere la Commissione.

Gli effetti di questa baruffa cadranno tutti sulle nostre spalle. Berlusconi e Prodi avranno rapporti freddi, formali, inconcludenti. Gli interessi nazionali ne saranno danneggiati. L’Italia verrà definita ancora una volta pasticciona, rissosa, ingovernabile. La presidenza italiana del semestre sarà priva di credibilità internazionale. E i nemici del bipolarismo ne approfitteranno per sostenere che è meglio tornare al vecchio proporzionalismo, quando i governi venivano cambiati, mediamente, ogni anno. Chi riuscirà a difenderci da questo insensato duello? Non lo chiediamo al capo dello Stato che continuerà a instillare un po’ di buon senso nella testa della classe politica. Lo chiediamo agli esponenti più intelligenti della maggioranza e ai veri amici di Prodi. Cerchino di ricordare ai duellanti che l’Italia conta più delle loro beghe.

TORINO - Un Silvio Berlusconi come sempre a tutto campo, quello che si presenta - tra gli applausi - sul palco torinese di Confindustria. Il premier, con una mossa a sorpresa, straccia le 26 pagine del suo discorso, e dice alla platea di voler trasformare il suo intervento in un botta e risposta con i suoi interlocutori: "Fatemi domande birichine", chiede agli imprenditori presenti (tra cui Umberto Agnelli). Ne segue un fiume di dichiarazioni sugli argomenti più vari, con alcuni passaggi destinati a fare impennare la polemica politica: come quello in cui il capo del governo definisce "di ispirazione sovetica" alcuni passaggi della nostra Costituzione. Un'opinione che non può certo passare inosservata. Ma il presidente del Consiglio parla anche d'altro: dall'annuncio di una "Maastricht del Welfare" nel semestre di presidenza italiana della Ue, alla difesa dei "pianisti" in Parlamento; dalla futura abolizione dell'Irap al fatto che la Camere saranno convocate già la prossima settimana per esprimersi sull'invio di truppe in Iraq. La

Costituzione "sovietica". Ecco le precise parole di Berlusconi: "Mi sono più volte anche pubblicamente lamentato, del fatto che la nostra legge fondamentale dà alle imprese poco spazio". E ancora: "La formulazione dell'articolo 41 e seguenti risente delle implicazioni sovietiche che fanno riferimento alla cultura e alla costituzione sovietica da parte dei padri che hanno scritto la Costituzione". Lui non cita il contenuto dell'articolo 41; ma per i lettori che vogliono farsi un'idea, riportiamo il testo integrale: " L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali"

. La difesa dei "pianisti". Per il premier, i parlamentari che durante il voto schiacciano anche i pulsanti dei banchi dei compagni assenti non fanno nulla di male: "Ho visto che c'è stato scandalo per i cosiddetti pianisti. Non c'è nulla di scandaloso. Per quanto riguarda l'aula, il singolo gruppo vota per il numero dei componenti del suo gruppo: Se qualcuno è in disaccordo, deve essere presente, per dare il suo voto contrario".

Lacci e lacciuoli alle riforme. Berlusconi risponde con battuta alle lamentele degli imprenditori sul ritardo delle riforme promesse: su questo tema, dice, "non abbiamo fatto un solo passo indietro. La prossima volta le difficoltà si possono superare se darete a Silvio Berlusconi e a Forza Italia il 51% dei consensi. Allora il percorso sarà più agevole". Comunque per realizzarle non basterà una legislatura, ammette. Per poi definire "una fatica di Sisifo" i passaggi necessari a trasformare una proposta in legge: "Ho solo il potere di essere paziente, la situazione attuale non mi dà potere alcuno, posso solo proporre decreti al Parlamento".

La Maastricht del Welfare. "Nei sei mesi di presidenza europea, vogliamo arrivare a un accordo con gli altri 14 Paesi per una Maastricht del Welfare. Il problema dell'invecchiamento della popolazione è generale, tutti gli Stati stanno facendo conti per verificare gli incrementi di capacità di spesa da affrontare". In questo contesto, "l'Italia si ritrova con un sistema che non si può più mantenere così come è oggi".

L'allargamento dell'Unione. Una "grande Europa", che dopo l'allargamento a venticinque, estenda ancora i propri confini dalla Turchia alla Moldavia, dalla Russia fino a Israele: questa l'idea del presidente del Consiglio. Che, aggiunge, nel corso del semestre di presidente farà "76 viaggi all'estero". Mentre, a proposito della crisi in Medio Oriente, Berlusconi ribadisce che l'Italia vuole ospitare i colloqui iraelo-palestinesi.

La guerra in Iraq. Il premier annuncia: "In settimana chiederemo al Parlamento il via libera per le forze di sicurezza" italiane da inviare nel paese del Golfo persico. Poi ribadisce la legittimità dell'intervento angloamericano.

"E' ARRIVATA la bufera / è arrivato il temporale / chi sta bene e chi sta male...": così cantava Renato Rascel trent'anni fa. Bisogna ricorrere alla triste risata dei comici e alla loro lungimiranza per capire meglio a quale punto della nostra "road map" siamo arrivati.

"Resistere" disse il giudice Francesco Saverio Borrelli davanti ai suoi colleghi nel gennaio 2002, all'apertura dell'anno giudiziario, e lo ripeté tre volte. Di fronte all'uragano mediatico scatenato da Berlusconi sulle teste di 46 milioni d'italiani adulti, a noi che facciamo un altro mestiere non resta che ripetere, ripetere, ripetere. Forse sarà stucchevole ma non abbiamo altro modo per tenere acceso un lumicino d'onestà intellettuale nel paese dove la comunicazione è la più monopolizzata e manipolata del mondo e dove il gioco delle tre carte non va in scena nelle suburre metropolitane o nelle piazze di paese, ma nella sala stampa di Palazzo Chigi e nel salotto rosso-oro del presidente del Consiglio. Perciò ripetiamolo questo catalogo delle bugie e del capovolgimento della verità e aggiorniamolo perché ogni ora che passa s'aggiunge un fatto nuovo di stupefacente enormità.

Tutto è cominciato con la lettera di Berlusconi al giornale di Giuliano Ferrara, poi con le "dichiarazioni spontanee" al processo Sme, poi con il comizio all'assemblea-quadri della Pubblica amministrazione, poi ancora con le ispezioni nella redazione del Tg3, e infine (per ora) con lo spot di 51 minuti a Excalibur l'altro ieri sera su Rai2 in prima serata.

Cinque giorni, cinque sortite riprese da tutte le reti televisive pubbliche e private e da tutta la stampa. Parla il presidente del Consiglio, diamine, che è anche imputato in tre processi per corruzione di magistrati (anche se da uno è miracolosamente scomparso per decorrenza dei termini), che tra un mese e mezzo diventerà presidente di turno dell'Unione europea e che controlla il 97 per cento dei media televisivi e una cospicua porzione dei giornali quotidiani e settimanali.

Ieri, parlando a Siena con i giornalisti in margine a un convegno di studi, Romano Prodi ha definito "indecente" l'intervista di Berlusconi ad Antonio Socci (Excalibur di cui sopra). Il presidente della Commissione europea non aveva mai usato un aggettivo di così totale squalifica nei confronti del massimo rappresentante di uno dei paesi fondatori dell'Unione.

Indecente e indegna ha detto Prodi aggiungendo "mi auguro che gli italiani ci riflettano". Lo faranno? Fino a che punto riusciranno a liberarsi dalla cappa della manipolazione mediatica che grava su tutti noi?

L'obiettivo dichiarato di quest'offensiva è di intimidire l'Ordine giudiziario riducendolo all'impotenza. Ma ce ne sono altri non meno rilevanti: intimidire l'opposizione, intimidire il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e più in generale tutte le istituzioni di garanzia, intimidire la stampa. Tutti questi obiettivi sono perseguiti con lucida pertinacia e dovizia di mezzi. Alcuni sono già stati in larga misura realizzati, altri sono in corso d'opera.

Secondo i disegni del nuovo Principe, dovrebbero andare a segno entro l'anno in corso e concludersi a fine legislatura con l'ascesa di "Mister B." al Quirinale con poteri di capo dell'esecutivo, alla francese. Se tutto sarà fatto come si conviene, gli italiani si godranno il regime (come altro chiamarlo?) fino al 2012. Ai posteri l'ardua sentenza. È fin troppo ovvio che ci saranno parecchi ostacoli da superare.

Perciò è già in movimento la tecnica dei veleni, inaugurata dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Telekom Serbia, dove s'è consentito a un faccendiere sott'accusa in Italia e in Svizzera per riciclaggio di capitali d'accusare di corruzione Prodi, Dini e Fassino. Poiché in quello stesso periodo Ciampi era ministro del Tesoro e quindi azionista di Telecom, vedrete che ce ne sarà anche per lui se non starà buono. La Commissione parlamentare s'è comportata come un ventilatore che schizza materia ignobile intorno a sé.

Analogamente il presidente del Consiglio nel comizio tenuto nell'aula del tribunale di Milano dove si celebra il processo Sme che lo vede imputato di corruzione di giudici. In quella sede, parlando senza subire né interruzioni né domande, il Principe ha di fatto messo in un colpo solo Prodi e Amato sul banco degli imputato al posto suo. Naturalmente non ha detto una sola parola sul reato dal quale dovrebbe difendersi; ha parlato d'altro, del prezzo al quale Prodi voleva vendere la Sme a De Benedetti, del maggior prezzo che fu invece realizzato dall'Iri nove anni dopo e di tangenti che sarebbero state versate, ma non ha detto da chi e a chi. I "media" della sua parte (quattro quinti del totale) ci sono andati a nozze.

"Un fatto è comunque certo - ha lapidariamente commentato il vicepresidente del Consiglio Fini - Prodi voleva vendere a 500 miliardi, ma la Sme fu poi venduta a circa 2000 pochi anni dopo". Ebbene: la Sme dell'84 era ben diversa da quella del '93 (nove anni dopo): piena di debiti, passivo alle stelle, obbligo per il compratore di non rivendere e di non scorporare l'azienda per dieci anni mantenendo lo stesso livello d'occupazione nell'84; nove anni dopo l'Iri aveva ripianato gran parte dei debiti investendo molte centinaia di miliardi nella società, che fu scorporata e venduta a pezzi fin dall'inizio con tanti saluti alla creazione d'un polo alimentare nel sud e ai livelli di occupazione di nove anni prima.

Quale delle due vendite - quella virtuale dell'84 e quella effettiva del '93 - sarebbe stata più utile all'economia italiana e allo Stato? Onorevole vicepresidente del Consiglio, la risposta non è affatto certa come lei sembra di ritenere; a lume di naso direi che la vendita effettiva del '93 si risolse in una catastrofe che non abbiamo ancora finito di pagare come contribuenti. Lei, tifoso della Lazio, dovrebbe ben saperne qualche cosa.

Visto che abbiamo parlato di Fini per logico sviluppo del nostro ragionare, fermiamoci un momento su questo personaggio che molti anche a sinistra giudicano migliore di Berlusconi, democraticamente parlando. Può anche darsi: battere nel peggio quel che Altan ha denominato una volta per tutte Silvio Banana è infatti un'ardua impresa. Ma anche Fini ci prova ogni volta che può.

Prendete il dibattito sulla reintroduzione dell'immunità parlamentare, cioè dell'obbligo per i magistrati inquirenti di ottenere l'autorizzazione preventiva del Parlamento per poter avviare un processo contro uno dei suoi membri. Fini, come tutti i cani da pagliaio che fanno parte dell'alleanza del centrodestra, è schierato fino in fondo con Berlusconi. Nel suo partito c'è ancora qualche mal di pancia ma rientrerà, oh, se rientrerà! Dobbiamo comunque al bravo Gian Antonio Stella (sul Corriere della Sera dell'altro ieri) un rinfresco di memoria. Cito: "È ora che si sospendano gli stipendi ai parlamentari inquisiti, se non altro a quelli per i quali è stata chiesta l'autorizzazione all'arresto, che solo in virtù d'un privilegio medievale come l'immunità non hanno ancora fatto la fine del giudice Curtò": dichiarazione di Fini del settembre '93, quando già erano stati incriminati Craxi e Andreotti.

E più oltre, dopo il suicidio in carcere del presidente dell'Eni, Cagliari: "È inammissibile che si prenda spunto da questo suicidio per avviare la campagna di delegittimazione dell'inchiesta che la magistratura sta conducendo contro le ruberie del sistema di potere". Giuliano Ferrara conosce senza dubbio questi precedenti ma non ne parla mai. Neanche Vespa ne parla. E Socci. Perché il Fini del 2003 si è ravveduto, come Gasparri, come La Russa, come Storace, come Bossi. Miracoli di padre Pio? Potenza suggestiva di Silvio B.? Vai a sapere.

Nelle dichiarazioni "spontanee" rese al processo Sme il presidente del Consiglio ha spiegato ripetutamente che il suo intervento per mandare a monte la vendita della società dall'Iri a De Benedetti fu dovuto alla pressante richiesta di Craxi, allora suo predecessore a Palazzo Chigi. Di bugie ne dice più d'una al giorno il nostro capo del governo, ma questa volta ha detto certamente la verità. Apprendiamo dunque (si sapeva già ma ora ne abbiamo l'autentica certificazione) che il presidente del Consiglio Craxi, volendo bloccare un'operazione di mercato, chiese anzi pretese l'intervento di un imprenditore il quale non poteva dirgli di no.

Perché non poteva dire di no a una richiesta così anomala e sicuramente illecita? Per l'evidente ragione che l'impero tv berlusconiano era stato edificato sull'amicizia personale con Craxi e si reggeva - contro le sentenze della Corte costituzionale - unicamente su quell'amicizia e sui decreti-legge ad personam che ne derivarono. Il presidente del Consiglio di oggi è figlio di quello di ieri e ha il palato forte come il suo padre d'adozione. Semmai c'è da osservare che il figlio ha di gran lunga superato il padre.

L'istituto dell'autorizzazione a procedere - privilegio medievale secondo il Fini del '93 - fu abolito perché servì per quarant'anni a sottrarre sistematicamente i membri del Parlamento al controllo di legalità da parte della magistratura. Quando le evidenze erano così schiaccianti da non consentire l'omertà di casta, si faceva in modo di far avocare il processo dal tribunale competente a quello di Roma, non a caso denominato "il porto delle nebbie". Ed è esattamente su quel porto delle nebbie che hanno puntato i riflettori i magistrati di Milano nei casi Imi-Sir, Lodo Mondadori, Sme.

Poiché ho nominato poco prima Giuliano Ferrara, osservo che, proprio durante la trasmissione "indegna" di Excalibur il direttore del Foglio ha ricordato che i magistrati godono del diritto all'inamovibilità dalla loro sede; per simmetria, secondo Ferrara, i membri del Parlamento dovrebbero essere tutelati dal controllo di legalità della magistratura. Spettabile Giuliano Ferrara, l'inamovibilità non sottrae il magistrato al giudizio di giurisdizione, l'autorizzazione a procedere invece sottrae i parlamentari all'accertamento di possibili reati. Non si possono paragonare le pere con i pesci e lei dovrebbe ben saperlo.

È vero che Berlusconi, in quella stessa trasmissione, ha detto che l'autorizzazione a procedere sarà di rigore concessa in casi di flagranza del reato. Ha fatto anche qualche esempio: un parlamentare investe un passante e non lo soccorre; oppure viene sorpreso a compiere atti di libidine su un bambino; o ad uccidere un suo nemico. E la corruzione di magistrati per accomodare sentenze è una bagattella, signor presidente del Consiglio? Non è uno dei più gravi reati previsti dal codice penale? Cose da pazzi.

Eppure lui le dice e gliele lasciano dire, anzi è applaudito per averle dette. Ma obiettano: ci sono giudici politicizzati che incriminano per danneggiare l'onore d'un cittadino e rendono sentenze settarie. Quei giudici vanno dunque ridotti al silenzio. Chi sostiene questa tesi è nientemeno che il presidente del Consiglio, cioè il capo del potere esecutivo. Non è un'interferenza macroscopica mirante a intimidire per ridurre al silenzio l'esercizio della giurisdizione? Non è dunque una violazione intollerabile della separazione dei poteri? Quale concetto ha mai questa gente della separazione dei poteri? Che ogni potere amministri la propria giustizia a casa sua? Cioè che i panni sporchi si lavino in famiglia? O invece, come sta scritto in tutte le Costituzioni del mondo dopo il 1789, che ogni cittadino sia considerato eguale di fronte alla legge?

Gli "equidistanti" che passano il tempo a misurare la forza con cui un giorno danno il colpo al cerchio e il giorno dopo il colpo alla botte, suggeriscono alla sinistra "ragionevole", d'accettare il "lodo Maccanico", cioè la non procedibilità per le cinque più alte cariche dello Stato. E' ragionevole. Molto meno ragionevole è invocare una legge del genere (di modifica costituzionale) mentre è in corso da anni un processo che vede imputato un uomo che riveste una di quelle cariche. Ma sia pure. Fatela quella legge. Alla quale, per essere accettata, occorre almeno mettere due paletti. Primo: riguardi solo i titolari di quelle cariche e non altri. Secondo: la non procedibilità valga solo per il mandato in corso; chi ne gode non potrà concorrere ad altro mandato successivo che goda anch'esso della stessa esenzione.

Quanto all'immunità dei parlamentari, l'autorizzazione si è rimessa - se proprio si vuol ripristinare un filtro che fu abolito a furor di Parlamento appena dieci anni fa con 525 voti favorevoli, 5 contrari e un astenuto - a un collegio "terzo", composto pariteticamente da parlamentari e da magistrati. S'invoca tanto la terzietà, ebbene questo è il caso più adatto per utilizzarla.

Aprile

Finalmente individuata una sede idonea per il processo Imi-Sir. Escluse per manifesta ostilità ambientale tutte le città italiane (in ciascuna delle quali Cesare Previti sta sulle balle a qualcuno), la scelta è caduta sul minuscolo villaggio altoatesino di Seppwald, dove nessuno conosce Previti e vedendo la sua foto tutti ridono credendo sia uno scherzo. Ottimi i requisiti politici per garantire a Previti un processo equo: a Seppwald l’unico comunista scomparve misteriosamente nel dopoguerra durante la Fiera delle affettatrici per spek. L’Amministrazione è di centrodestra, formata da una coalizione di ex Esse Esse e di casalinghe integerrime con i gerani al balcone. Le Esse Esse rappresentano il centro. La prima udienza viene sospesa per cause tecniche: Previti non capisce le domande in tedesco del pretore, e una mucca ostruisce l’ingresso dell’aula. Si trova con urgenza un interprete, riesce a intendersi con la mucca, che si sposta, ma non con Previti, che gli comunica a gesti di non capire la traduzione in italiano dei numeri di conto corrente svizzeri. Il processo è nuovamente sospeso.

Maggio

Una legge-quadro del governo (detta legge Schifani anche se Schifani non l’ha scritta, però l’ha decorata di cuoricini fatti col pennarello) parifica giustizia pubblica e privata, istituendo le pay-procure. Davanti al neonato Libero Tribunale “Cesare Previti” di Portofino, Cesare Previti ricusa il posteggiatore e parcheggia direttamente nell’atrio. Con un incalzante interrogatorio, l’imputato mette in seria difficoltà i giudici, incapaci di spiegare perché non sono membri della Canottieri Lazio e perché nessuno di loro ha sposato la sorella di Previti, pur avendone piena facoltà.

Memorabile arringa conclusiva di Cesare Previti, intitolata «Perché il processo Imi-Sir deve considerarsi illegittimo?». Lo svolgimento del tema è: «Perché sì». Giuristi di tutto il mondo non riescono a trattenere la loro ammirazione per la concisione e l’acume dialettico dell’ex imputato.

Giugno

Cesare Previti, definitivamente prosciolto e restituito ai suoi effetti, concede una clamorosa intervista a “Panorama”, spiegando quanto calunniose e persecutorie furono le imputazioni mossegli per il caso Imi-Sir. «Non ho mai conosciuto Guido Imi, e Abel Sir era solo un conoscente di mia moglie».

Luglio

Il ministro della Giustizia Castelli si dimette per protesta: il Consiglio Superiore della Magistratura rifiuta la nuova denominazione di Consiglio Inferiore (o in alternativa, Suggerimento Medio), offendendo gravemente il governo. Il nuovo ministro Cesare Previti stabilisce la separazione delle carriere tra magistrati e uscieri. Funziona così: ci si può laureare in legge, vincere il concorso e perfino aprire un’inchiesta. A partire dal giorno dopo, si diventa uscieri.

Agosto

In vacanza in Costa Smeralda, nella villa di Berlusconi chiamata “Nocciolo Duro” (confina ai quattro lati con altre quattro ville di Berlusconi), Cesare Previti prepara la bozza della nuova legge per abbreviare le vergognose lungaggini del processo penale. Accertato che a indignare i cittadini è l’interminabile attesa della sentenza, viene eliminata la sentenza, evidente punto debole della catena.

Settembre

Previti invita Francesco Saverio Borrelli da Fortunato al Pantheon, per una cena pacificatrice nella tradizionale e simpatica tavolata dove vive e pernotta Lino Jannuzzi (è un tavolo-letto della Ikea, con i ceci della pasta e ceci trasformabili in fiches da poker).

Borrelli rifiuta l’invito. Il ministro Previti lo fa arrestare per resistenza, resistenza, resistenza a pubblico ufficiale.

Alla quinta richiesta di rinvio dell’imputato-capo del governo, il tribunale si chiude in camera di consiglio ed esce con una decisione un po’ a sorpresa, ma non troppo: il processo al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi continuerà a parte, per gli altri otto imputati - da Cesare Previti in giù - si andrà avanti senza dover fare i conti con gli impegni del premier. E questo perché, reclamano i giudici di Milano, un procedimento penale non può annaspare «in una situazione di continua incertezza». Ennesima dimostrazione di uso politico della giustizia, ha subito tuonato qualche «falco» da destra. Ma si può sostenere anche il contrario: secondo il tribunale di Milano l’amministrazione della giustizia non dev’essere condizionata dai tempi e dalle esigenze della politica.

Che la decisione del presidente del Consiglio di presentarsi davanti ai giudici per fare le sue «dichiarazioni spontanee» avesse dei risvolti politici oltre che processuali è opinione di tutti gli osservatori. Così, l’ordinanza letta ieri mattina dal presidente del collegio Luisa Ponti viene anche letta come un sussulto di autonomia e indipendenza della magistratura: un processo che va avanti da centosei udienze non si può impantanare perché l’imputato più eccellente e più impegnato ha improvvisamente deciso di occuparsene personalmente dopo essersene disinteressato per tre anni, come lui stesso ha ammesso.

Berlusconi potrà proseguire a difendersi coi suoi tempi, ma separatamente. Per gli altri si procede secondo il calendario stabilito. Una sorta di Lodo Maccanico deciso in tribunale con l’esclusione dei coimputati dal «congelamento» del processo per il premier, anche se non è proprio la stessa «soluzione politica» che porta il nome dell’ex ministro. Perché, per dirne una, il procedimento contro Berlusconi non è sospeso ma andrà avanti, seppure compatibilmente coi suoi «impedimenti».

Presa questa decisione, nel pomeriggio i giudici pronunciano una nuova ordinanza riguardante Previti e le altre persone accusate di corruzione giudiziaria e reati minori: il dibattimento è chiuso, le nuove prove testimoniali invocate dalle difese non servono. Alla prossima udienza, già fissata per venerdì 23 maggio, il pubblico ministero Ilda Boccassini potrà cominciare la sua requisitoria, con le prevedibili richieste di condanna per gli imputati.

L’esperienza di tre anni e più insegna che nei processi chiamati «toghe sporche» nulla si può dare per certo finché non è avvenuto, ma il calendario è questo. E anche se non farà richieste specifiche sull’imputato-premier, il pm trarrà le sue conclusioni su una vicenda dove ci sono passaggi di denaro e presunte corruzioni commesse da Previti e altri nei confronti di alcuni ex magistrati per conto di Silvio Berlusconi, all’epoca dei fatti imprenditore amico del capo del governo e oggi lui stesso capo del governo. Con l’inevitabile conseguenza di far rientrare dalla finestra dell’aula di giustizia quella politica che i giudici, con la scelta del mattino, avevano tentato di far uscire dalla porta.

Le alchimie tecnico-giuridiche innescate dalle decisioni di ieri offrono ancora altri sbocchi, e aprono la strada a ulteriori incertezze sull’esito di questa partita politico-giudiziaria. In teoria i giudici che hanno appena stralciato la posizione di Berlusconi potrebbero addirittura riunirla nuovamente a quella degli altri imputati; se infatti il premier facesse le sue dichiarazioni di qui a pochi giorni, esaurendo la fase del dibattimento anche nel processo-bis, il tribunale avrebbe la possibilità di tornare a un unico procedimento. Viceversa, se il presidente del Consiglio ritarderà ancora, o i giudici dovessero successivamente accettare l’esibizione di nuove prove, allora i due processi dovrebbero proseguire autonomamente. Con l’insidia finale paventata dai difensori degli altri imputati: qualora nel processo principale si dovesse arrivare alla sentenza, quegli stessi giudici non potrebbero più pronunciare il verdetto nei confronti di Berlusconi, poiché avrebbero già espresso un parere sugli stessi fatti.

La matassa, insomma, è tutt’altro che sbrogliata. E il ping-pong tra giustizia e politica non sembra finito. Nonostante il tentativo di un tribunale che proclama di voler «assolvere al dovere di garantire l’ordinato svolgimento del processo» dopo essere passato indenne, in oltre tre anni, dagli «impedimenti» degli altri onorevoli coinvolti (imputati o avvocati che siano), da ricusazioni e ricorsi alle Alte Corti, dalle nuove norme sulle rogatorie, dal tentativo di sottrarre un giudice al collegio e dal «legittimo sospetto» di parzialità introdotto con la legge Cirami.

Trucco da fiera con sorpresa finale, a ben vedere, l'arrivo in pompa magna di Silvio Berlusconi al Palazzo di Giustizia di Milano. Un evento. Mai il presidente del Consiglio ha preso la parola in un suo processo. "Andrà a Milano e farà delle dichiarazioni spontanee al processo Sme" annuncia un sussurro giovedì pomeriggio. A sera, il sussurro prende corpo e trova conferma nella disperazione (apparente) dei suoi. Paolo Bonaiuti (portaparola) confessa: "Tutti gli stiamo sconsigliando di venire, ma non vuole sentire ragioni...". Gli avvocati del "giro stretto" simulano quiete. Minimizzano, banalizzano, scolorano. "Che volete che dica: dirà quel che ha sempre detto: che è un perseguitato! Viene al banco per rifinire un'operazione mediatica. Dieci minuti in aula. Trenta fuori con i giornalisti. Il processo non ne avrà alcun frutto".

L'attesa ingrassa le congetture e le domande. Perché proprio ora? Perché soltanto ora Berlusconi si decide ad affrontare l'aula legittimando quella magistratura che egli sempre accusa di essere politicamente orientata alla sua distruzione? Alla vigilia si raccolgono, grosso modo, due risposte.

La prima la propongono gli addetti alla vita politica: lo deve a Previti. Meglio, è Previti, con quel suo maligno fare ribaldo, che glielo impone. Il fedele Cesare sta precipitando verso una sentenza che teme e Berlusconi, dopo aver sperimentato tutte le strade tecnico-politiche per soffocare quel processo (Imi/Sir-Lodo Mondadori), non può più tirare la corda con i suoi alleati (soprattutto con An). Può soltanto spendere se stesso, la sua faccia, le sue parole.

Ecco perché sarà a Milano. Per essere fedele a un'amicizia, a un legame che (se tradito) può diventare minaccioso. Che Previti affronti poi il suo destino e la sentenza: "In fondo si tratta soltanto del primo grado, in seguito si vedrà..." .

Gli addetti alla macchina giudiziaria raccontano invece un'altra storia. Berlusconi viene per difendere se stesso e soltanto se stesso. Ora che si approssima la fine del processo Sme, il presidente del Consiglio teme di esserne travolto e decide di fare le sue mosse per coprirsi le spalle.

Altro che amicizia! Altro che Cesare! Gli avvocati di Previti sembrano scossi da un (apparente) brivido di preoccupazione. "Speriamo che si limiti a denunciare quella magistratura che soffoca i diritti della difesa - dice Alessandro Sammarco - Sa, il presidente Berlusconi a volte si lascia prendere la mano. Dio non voglia che affronti il merito delle questioni. Perché, se affronti il merito, legittimi quella magistratura che noi da anni vogliamo delegittimare..." .

Sono le 9,50 del mattino e la giornata comincia a correre molto rapidamente. Berlusconi entra in aula. Prende posto tra i suoi avvocati. Sorride, sorride, sorride, e tuttavia appare a disagio. Chi se ne può meravigliare? Come un imputato qualsiasi, sbircia nervoso gli appunti che ha preparato. Ad allungare il collo sulle sue spalle, si vede un scaletta di argomenti annotati, su tre pagine, in stampatello con una grafia larga e sottile. Al primo punto, "Le testimonianze negate dei giudici".


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Ora sono le dieci, entra il tribunale (mai così puntuale). Appello delle parti... Imputati presenti... Avvocati presenti... Il consueto rito... Attenzione, c'è qualcosa che non va. L'avvocato dell'"imputato Pacifico Attilio" non è in aula. E' da qualche parte nei dintorni, ma non in aula. L'avvocato dell'"imputato Misiani Francesco" non c'è, e non verrà. Dunque, bisogna attendere l'arrivo del difensore di Pacifico. Pochi minuti. E dieci, venti minuti per nominare un difensore d'ufficio per Misiani e permettergli di raggiungere l'aula.

Subito salta su Gaetano Pecorella, avvocato del presidente del Consiglio e presidente della commissione Giustizia alla Camera per conto del partito del presidente del Consiglio. Eh no, spiega, il capo del governo ha soltanto pochi minuti. Al più, può attendere "due minuti" perché deve raggiungere Roma e presiedere il Consiglio dei ministri.

In due minuti, in un tribunale, non si declinano nemmeno le generalità, lo sanno tutti. Lo sa anche Pecorella che, soddisfatto, conclude che "presidente Berlusconi farà allora le sue dichiarazioni spontanee in un'altra occasione, quando i suoi impegni glielo permetteranno" . L'assenza dei difensori in avvio di udienza era programmata? Quell'improvviso vuoto era stato definito a tavolino come l'impaziente fretta dell'imputato venuto fin qui per dichiarare spontaneamente le sue ragioni e disposto soltanto ad attendere "due minuti"? Forse sì, forse no (se si pensa a quella scaletta di argomenti stropicciata con nervosismo da Berlusconi). E comunque ogni risposta è buona, in assenza di fatti.

Le parole di Pecorella comunque suonano per il presidente del Consiglio come la campanella di fine lezione. Guadagna in fretta il corridoio. E' inseguito dalle telecamere, dai microfoni, da guardie del corpo con gomiti energici e puntuti. Berlusconi si ferma come una statua nel punto che ritiene più adatto per sé (inadatto per chi lo deve ascoltare). Vuole dire qualcosa. Quasi si scusa. "Avevo solo un quarto d'ora... Alle 10 ho il Consiglio dei ministri, successivamente un impegno col primo ministro del Giappone. Alle 12.30 ho la firma dell'accordo con il presidente della Regione Toscana per le infrastrutture sul territorio e alle 13.30 un importante incontro con il primo ministro della Federazione Russa. E questo solo per la mattina...".

Accenna poi alle ragioni della sua sortita. "Sapete, a tutti processi che mi sono stati scatenati contro, dopo la mia entrata in politica, io non ho mai partecipato, a parte una volta, su richiesta dei miei difensori. Per il resto mi sono sempre disinteressato...". Questo processo, ripete, gli appare "assolutamente inverosimile e ritengo che dovrebbe essere riconosciuto al cittadino Berlusconi il merito per avere evitato una spoliazione del patrimonio dello Stato".

Il premier era convinto che l'affare si sarebbe chiuso in fretta e bene. "Invece, gli avvocati mi hanno chiesto un incontro e mi hanno illustrato una serie di situazioni processuali francamente paradossali. Allora, dato che si tratta di una vicenda anche importante per la storia del nostro Paese, ho ritenuto che, facendo una eccezione, io dovessi venire qui, non solo per esercitare in pieno il mio diritto a difendermi, ma anche per far conoscere questa vicenda alla generalità dei cittadini".

"Credo quindi - conclude - che si possa ottenere da parte del tribunale che le udienze siano fissate in modo tale da consentirmi di essere presente per chiarire delle situazioni, pur con gli impegni importanti che ho come presidente del Consiglio e soprattutto, oggi, come componente della troika europea e, fra due mesi, come presidente dell'Unione Europea. Ritornerò alla prossima udienza".

Ce n'è anche per l'amico Previti, come è ovvio. Due parole gettate lì, dopo tanta insistenza. "E' indubbio che Previti sia oggetto di una persecuzione. Ciò è confermato anche dal voto della Camera dei Deputati che, quando ci fu la richiesta di arresto, sottolineò l'esistenza del fumus persecutionis" .

Ora Berlusconi va via. Lascia tutti di princisbecco. Tutto qui, l'evento? Quattro parole in croce in un corridoio e la promessa di tornare, se può, quando può? C'è un trucco? E, se c'è, dov'è? Il trucco - o, per dirla in altro modo, la sapientissima e scandalosa mossa per rendere definitiva la fuga dal giudizio - è lì sotto gli occhi di tutti.

Non c'è chi non lo veda. Finora l'imputato Silvio Berlusconi, "validamente citato" , non è mai comparso. Dichiarato "contumace", è stato "rappresentato" soltanto dai suoi difensori. Ma, contumace, l'imputato non può far valere i "legittimi impedimenti" o le assenze "causate da forza maggiore" . Ecco allora la mossa di Berlusconi. La sua presenza in aula a Milano e l'annuncio di voler fare delle dichiarazioni spontanee cancellano la contumacia, lo reintegrano nel suo diritto di essere sempre presente, di vedere rinviate le udienze a cui non può partecipare.

E a quali udienze potrà partecipare un premier già tanto soffocato da un "lavura' de la madona", oggi nella troika europea e tra settanta e passa giorni addirittura, e per sei mesi, presidente di turno dell'Unione europea? La maggioranza degli addetti crede che difficilmente Berlusconi lo si rivedrà tra queste mure inospitali e abbozza uno scenario alquanto ragionevole. Questo. Anche se dovesse davvero ripresentarsi il 2 maggio, per lunghi mesi, diciamo per i sei mesi della presidenza europea, Berlusconi chiederà che gli sia concesso il "legittimo impedimento".

Come non concederglielo? Per comprendere che cosa accadrà al processo, bisogna allora far di conto. I fatti dell'affare Sme risalgono al 1986. L'ultimo presunto pagamento corruttivo ai giudici è del 1991. Da questa data si deve contare la prescrizione del reato che, per la corruzione in atti giudiziari, è di quindici anni. 1991 più 15 uguale 2006.

Entro il 2006, il processo non arriverà mai alla sua conclusione definitiva (primo e secondo grado più Cassazione) se si considera che, bloccato per sei mesi, il primo giudizio arriverà nel 2004. Ma c'è di più. In caso di concessione delle "attenuanti generiche", i tempi della prescrizione diminuiscono di un terzo, di cinque anni. Come non concederle a un incensurato, e per di più capo di governo, come Berlusconi?

E allora l'efficacissimo trucco da fiera andato in scena ieri sotto il naso di tutti - la fine della contumacia di Berlusconi - libera l'eccellentissimo imputato dalla rogna milanese. Per sempre. Per lui, il processo è morto, è una cosa morta. Se la procura vorrà salvare il dibattimento contro gli altri imputati non potrà che chiedere lo stralcio della posizione dell' "imputato Berlusconi Silvio". La fuga dal giudizio del premier sarà allora coronata da un successo costruito con una mossa a sorpresa in un venerdì santo con un'Italia distratta dal lungo ponte pasquale.

(19 aprile 2003)

Signor Presidente del Consiglio,

ho visto "Porta a Porta" di giovedì scorso e ho ascoltato le sue dichiarazioni sui magistrati che si sono occupati dell’indagine Telekom Serbia, in particolare quando ha detto che essi avrebbero chiesto l’archiviazione nei confronti degli indagati perché "magistrati combattenti ... collaterali alla sinistra"; e quando ha detto: "Lo credo bene che Rutelli e Fassino dicono di aver fiducia nei magistrati, sono dei loro".

Mi sono molto arrabbiato, essendo io il Procuratore Aggiunto che, insieme con i Sostituti Roberto Furlan e Paolo Storari, ha condotto quell’indagine; e ho deciso di querelarla. Non esiste infatti per un magistrato un’accusa peggiore di quella che lei ci ha mosso, quella di non essere imparziale; e non esiste quindi un insulto peggiore.

Poi, quando ho cominciato a scrivere, mi sono reso conto che stavo per fare uno sbaglio. Io non voglio querelarla: non ho interesse a che lei sia punito per gli insulti che ha rivolto a me e ai miei colleghi; e non ho interesse a ricevere una somma di danaro a risarcimento del danno morale che ci ha cagionato: per lei sarebbe comunque poca cosa; e io non ho mai attribuito importanza al danaro, ne ho quanto mi basta.

Io voglio che lei capisca la gravità di quello che ha detto; che si renda conto di aver accusato ingiustamente persone che hanno lavorato con rigore morale e serietà professionale. Io voglio, signor Presidente, che lei accetti il fondamentale principio che ho in me da quando ho l’età della ragione e che uno dei miei maestri dell’Università ha così bene espresso: se al mondo ci fossero solo due uomini e questi uomini fossero San Francesco e Santa Chiara, il diritto starebbe tra loro ad indicare quello che è giusto. Io voglio che lei capisca che quando un giudice assolve o condanna fa proprio questo, indica quello che è giusto.

I miei colleghi ed io abbiamo governato il diritto; forse non lo abbiamo fatto con sapienza, con competenza e sensibilità adeguate. Ma, signor Presidente, lo abbiamo fatto con imparzialità e senso della giustizia. E lei ha fatto male quando ci ha accusato di essere amici degli indagati, o di persone che a questi erano vicine, o di parti politiche cui gli uni e gli altri sarebbero appartenuti; e quindi di aver preso una decisione contraria al diritto.

Lei, signor Presidente, non aveva nessuna ragione per dire quello che ha detto: non conosce né me né i miei colleghi e non può sapere se noi si sia "amici" di questo o di quest’altro; e nemmeno può sapere se noi siamo giudici disposti a tradire la nostra funzione per favorire eventuali "amici". Non sa nulla di Telekom Serbia, non avendo letto un solo foglio dei 35 o 40 "faldoni" che abbiamo riempito nel corso dell’indagine; e, se per avventura qualcosa avesse saputo, avrebbe avuto il dovere, come cittadino e più ancora come Presidente del Consiglio, di portarlo a nostra conoscenza e di aiutarci a prendere la decisione più giusta.

Ma, soprattutto, lei non doveva dire al nostro Paese, senza motivo e senza prove, che ci sono giudici disposti a favorire gli amici. In questo modo lei ha imbarbarito la coscienza civile dei cittadini, li ha indotti a cercarsi protettori potenti in modo da avere la garanzia di essere "favoriti" se mai ce ne sarà bisogno, ha sostituto la fiducia nello Stato con l’asservimento a questa o quella parte politica.

I miei colleghi ed io, signor Presidente, vogliamo che lei riconosca di aver sbagliato; vogliamo che si informi sulla nostra storia professionale, sul nostro impegno e sul nostro onore. E vogliamo sentirci dire che è vero, non siamo "amici" di nessuno e che, comunque, siamo uomini e giudici per cui eventuali affinità di cultura, di passione politica o di impegno sociale mai possono prevalere, come mai hanno prevalso, sul nostro dovere di imparzialità e indipendenza.

Ci chieda scusa, signor Presidente. Riconoscerà l’onore a giudici onesti e imparziali; e renderà fiducia al Paese.

Con osservanza.

Bruno Tinti

Il nuovo direttore del Tg1, Clemente Mimun, dichiara in un' intervista ( del 21 maggio) che il suo «editore di riferimento» è soltanto il telespettatore e che, essendo la Rai un «servizio pubblico», lui non si sa «immaginare un prodotto che non punti a fare il pieno di ascolti». Colgo l'occasione per dissentire. Ho molto rispetto per Mimun. Le critiche gli sono dovute ex officio, perché è lui che guida l'ammiraglia della tv di Stato. Editore di riferimento è dizione zuccherata e cincischiata. Messa in chiaro vuol dire chi comanda. E la risposta può essere altrettanto chiara: in passato comandava la Dc, poi ha comandato la sinistra e ora comanda Berlusconi. Certo non comanda il pubblico dei 25 milioni di telespettatori del quale Mimun si fa scudo. Magari fosse così. Ma così non è. In un'economia di mercato il consumatore è sovrano perché può scegliere tra prodotti differenziati (dall' utilitaria alla Ferrari) che paga. Nel cosiddetto mercato televisivo io non posso rifiutare di pagare e non posso passare a prodotti di qualità superiore perché nessuno me li offre. A me tocca ascoltare quel che mi passano conventi che sono tutti eguali nel ridurre l' informazione seria a quasi nulla. Sono un sovrano? No, il vero sovrano, qui, è la pubblicità calcolata sui dati di ascolto dell' Auditel. Per i signori di Saxa Rubra il compito del servizio pubblico è di fare un pieno di pubblico, di fare «il pieno di ascolti». Ma se così fosse, qual è la differenza tra servizio pubblico e televisione commerciale? Se così fosse, il servizio pubblico è da chiudere e basta. Perché dobbiamo pagare un canone per ottenere un prodotto commerciale che possiamo ottenere gratis? Il nodo della questione è, allora, che un servizio pubblico è tale perché è tenuto a servire interessi generali, interessi collettivi. Restando al caso dei telegiornali, il loro compito pubblico è, prima di tutto e soprattutto, d' informare sulla cosa pubblica, e in questo senso di formare cittadini in grado di g estire la loro democrazia. Si avverta: informare non è dare notizie di 20-30 secondi che di per sé non significano nulla. Informare è spiegare, è far capire, è far discutere gli eventi non da politici che si urlano addosso, ma da esperti. Questo corretto modo d' informare io negli Stati Uniti lo vedo e seguo tutte le sere. Il modello esiste. Volendo, è facile da replicare. È che non lo si vuole. All' Italia occorre un Biagi ingrandito e moltiplicato per dieci (non può fare tutto lui da solo). In vece il nostro cosiddetto editore di riferimento si propone di silenziare persino Biagi, vuole un oscuramento totale, sovrastato dalla voce del padrone. I poveri 25 milioni di telespettatori del Tg1 non si rendono conto, ovviamente, di quanto non vie ne loro mai detto. Sono imbottiti di cronaca nera, di cronaca rosa, di storie strappalacrime. E i pochissimi minuti di notizie rilevanti sono confezionati in modo da evitare grane. Manca l' acqua in Sicilia? Perché? Silenzio di tomba. Spiegarlo irriterebbe i politici siciliani svelando orripilanti retroscena di mafia (dell'acqua). C' è o non c' è un buco nel bilancio? Esistono economisti in grado d' illuminarci. Ma Tremonti non gradirebbe una verità diversa dalla sua. Meglio abbozzare. E cosa sta succedendo delle fondazioni bancarie? E' un'ennesima, scandalosa pappata dei nostri politici, oppure no? Questi, e moltissimi altri, non sono temi da talk show alla Vespa o alla Santoro (che fanno spettacolo ma che non chiariscono un bel nulla). Sono temi che almeno un telegiornale non commerciale dovrebbe sottoporre a un dibattito di esperti in un'ora di massimo ascolto. La Rai di canali ne ha tre. Ma per un servizio pubblico che si occupa della cosa pubblica non ha posto. Anche se ne avesse sei, li lottizzerebbe. Che vergogna.

MILANO - Severo, preciso, silenzioso. Quarantanove anni di cui gli ultimi diciotto passati in magistratura, Paolo Carfì è una delle toghe più riservate del tribunale di Milano. Nessuno ricorda una sua intervista, nessuno ricorda un suo commento, una qualunque frase che sfuggisse dalla dialettica processuale. A parte una sua passione per Giacomo Leopardi, e in particolare per "A Silvia", non ci sono dettagli sulla sua vita privata.

Carfì non ha mai vestito i panni della pubblica accusa. Sin dal suo ingresso in magistratura, nel 1985, è sempre stato alla "giudicante". Davanti alla sua sezione, la quarta, negli anni si sono presentati imputati di ogni genere, pedofili, spacciatori, ladri e truffatori. Tutti si sono scontrati contro quel muro di silenzio e rigore. Una rigidità che divenne celebre una prima volta già ai tempi dei processi di Tangentopoli quando si rifiutò di interrogare Craxi ad Hammamet perché i difensori non avevano presentato alcun certificato che ne provasse l’effettiva intrasportabilità. Carfì andò contro anche al pool di Mani Pulite: nel 1996 negò il patteggiamento a Dell’Utri per i fondi neri Publitalia. «La pena di 14 mesi patteggiata con il pm - scrisse - appare a dir poco inadeguata per difetto».

Nel 1993 il "Carfì style" entrò nelle leggende del palazzo di giustizia: denunciò una sua segretaria che, dopo aver dichiarato di non poter fare più straordinari, se ne andò a casa costringendolo a sospendere l´udienza alle due del pomeriggio.

(ma. me.)

A Silvia

Se qualcuno avesse dubbi sulla natura della signoria berlusconiana, la svolta del Corriere li dissiperebbe. Sua Maestà B. esige dalla stampa un lessico a tre vocali: e, o, u; eufemismo, ossequio, unzione. Ricapitoliamo in questa chiave gli ultimi 10 anni. Primo tempo: l' uomo d' Arcore salta fuori dalla scatola, allestisce il Barnum forzaitaliota, raccoglie i moderati orfani, imbarca post-neofascisti e Lega, vince, forma un governo, cade dopo sei mesi, tradito da quel Giuda d' un Bossi (parole sue). Quante cose tacciono i pulpiti: che fosse cresciuto come un parassita della consorteria; saltando sul carro politico, vi porti istinti da predatore, tale essendo l' unica logica in cui pensa; intenda lo Stato come roba sua; devasti i cervelli disseminando narcosi, volgarità, fobie, stereotipi ebeti; conduca una compagnia prossima alla gang più che al cenobio; editore dominante, promuova l' analfabetismo; sia monco dell' organo morale; venda fumo; punti al profitto, lasciando alle prede sì e no l' aria che respirano. No, lo dicono campione d' una destra liberal-liberista. Secondo atto: sconfitto, sebbene abbia raccolto qualche voto più degli avversari, meglio schierati, trova Nostro Signore nell' orto: accordandosi col leader del partito ex comunista, salva l' impero mediatico, consolida i conflitti d' interesse, finge intese su riforme delle quali nessuno sentiva il bisogno; raccolto ogni possibile lucro, le rinnega, scatenando furiose campagne contro i partiti al governo; li chiama usurpatori; grida al colpo di Stato; denuncia un regime antidemocratico. Viva la dialettica bipolare, cantano ugole neutrali. Terzo tempo: s' è reinsediato e stavolta chiude ogni spiraglio; converte le Camere in succursali Mediaset; siccome l' unico punto debole sono i processi su episodi dell' irresistibile ascesa tra gli Ottanta e Novanta, scatena un Poltergeist avvocatesco-mediatico-legislativo. Gesta inaudite ma agli oracoli non fanno caldo né freddo: è nelle regole del gioco spartire le spoglie; ventilano una legittima difesa dall' accanimento persecutorio; esortano gli sconfitti a stare quieti 5 anni. Nessuno nota cose ovvie: le norme penali valgono rispetto a tutti, abbiano o no networks televisivi; mai saputo che le vittorie elettorali lavino i delitti; risultando infondata l' accusa, i giudici assolvono; la condanna è appellabile e sopra le corti d' appello siede una Cassazione. Nel caso suo i rischi d' errore sono infinitesimi: recluta quanti avvocati vuole; ha quotidiani, settimanali, tre reti televisive, più tre pubbliche; irradia l' influsso intimidatorio radicato nel triplo potere, economico, mediatico, politico. Macché, parlano d' altro: che iattura se fosse condannato; l' aborto del sistema bipolare causerebbe una funesta instabilità; suvvia, liquidiamo i processi; interessi supremi giustificano deroghe al metro legale, e simili massime poco tollerabili da chi non abbia lo stomaco fortissimo. Quarto atto: l' autocrate abusa dei poteri; calpesta forme elementari del galateo politico; aveva un ministro serio agli esteri e se ne disfa subito; allunga le mani sulla Rai, dissestandola a beneficio delle sue reti; presenta alle Camere un ddl fraudolento sul conflitto d' interessi; siccome le Sezioni unite negano il trasloco a Brescia dei suoi processi, comanda articoli del codice su misura (déja vu sulle rogatorie); i senatori glieli votano in torride sedute notturne; da Montecitorio escono imbellettati. Cosa dicono i santoni alla finestra? Non battono ciglio o addirittura spendono parole dure a proposito d' un tentato ribaltone giudiziario. I meno sordi al lato morale deplorano aspetti canaglieschi del fenomeno forzaitaliota, come se lui non c' entrasse, e lo invocano affinché castighi i manigoldi. Chiedono poco, quasi niente, un minimo rispetto delle forme: i numeri sono suoi; li giochi senza soperchierie troppo visibili. Quinto tempo: s' è riscritto le norme scomode, partendo dal falso in bilancio che gli conveniva ridurre a bagatella; del conflitto d' interessi nessuno fiata più; vuol insediarsi al Quirinale, purché sia una repubblica presidenziale dove lui guidi l' esecutivo e diriga la politica estera, altrimenti rimane capo del governo, futuro premier o cancelliere eletto dal popolo con poteri rinforzati (sciogliere le Camere). Ma qualcosa stride: i maledetti processi pendono ancora; le Sezioni unite negano la rimessione anche sul nuovo testo, perché esiste una logica del diritto insensibile alle fatture parlamentari; l' indomani mattina mugola a reti unite un proclama da monarca assoluto. Dopo 23 mesi, la seconda avventura governativa volge al disastro: nel famoso contratto aveva garantito mirabilia; il mago della finanza virtuale annunciava un' impetuosa crescita del pil, 3.1%, e siamo allo 0.3; casse vuote; è nata col forcipe una pitocca legge finanziaria; vola il debito pubblico; sale l' inflazione; rischiamo il posto nell' Ue. Infine, dopo pietose furberie arranca nel brago mesopotamico con un occhio all' opinione pacifista, quasi guerriero malgré lui: lo seguono 64 italiani su 100, racconta mercoledì 19 marzo, vantando il "capolavoro diplomatico"; l' indomani espone al consesso europeo una maschera cupa. Incantava i topi, come il pifferaio d' Hamelin, e non vi riesce più. Ha l' acqua politica alla gola, mentre gli affari vanno a gonfie vele: accumula soldi senza muovere dito; non c' è giro dove non guadagni; Publitalia divora la Rai nella raccolta pubblicitaria. Nel sesto atto vuole più che mai istituire un sistema legale variabile secondo le persone; che i tempi stringano, lo dicono gli affari Imi-Sir e lodo Mondadori (due sentenze comprate, secondo l' accusa): l' on. avvocato d' affari P., suo mandatario, incassa la condanna a 11 anni come agente delle baratterie. Nell' allegra compagnia ci sarebbe anche lui se l' art. 321 c.p., versione 26 aprile 1990, corrispondesse all' art. 319-ter, che commina 8 anni quando il corrotto sia un giudice: rimedia alla svista una l. 7 febbraio 1991, ma i fatti erano anteriori; il corruttore quindi "gode" d' una pena minore, 5 anni, sicché, con l' elemosina delle attenuanti generiche, il reato risulta prescritto (Corte d' appello, 25 giugno 2001). Dal 30 aprile erutta fuoco: «criminalità giudiziaria»; toghe rosse; c' è «un cancro» nella giustizia italiana ma lui, gran chirurgo, lo estirperà, dichiara al Figaro; e da Arcore, luogo santo, chiama alla crociata "i guerrieri della libertà" su scenari soap opera, tali essendo i suoi gusti. I soliti "terzi" chiedono una sospensione dei processi, o meglio immunità, votata subito: la motivavano col sistema bipolare; il semestre europeo fornisce un secondo motivo, impellente. Sentiamo due oracoli spesso interloquenti, frigido e bollente. Non consumi ribalderie superflue, bisbiglia uno: niente impedisce riforme organiche; leghi pubblico ministero e tribunali al potere esecutivo. L' altro obietta su P., «uomo chiacchierato». Chi vuol «cambiare le cose» plani sopra ogni sospetto. Aurea massima non applicabile alla fattispecie: se il predetto era suo agente, simul stabunt, simul cadent; 9 anni fa l' impresentabile capo del governo lo voleva guardasigilli. Tolto l' hard core, resta poco del fenomeno forzaitaliota. Contava sull' en plein nelle amministrative e incappa in una domenica nera, allora frusta i vogatori. Votino subito quel lodo d' immunità processuale. Seguiranno aperture, perché non essendo più tempi da partito unico, ha bisogno d' oppositori morbidi: quando presieda una repubblica Mediaset, starà bene chiunque se lo sia meritato, ad esempio sedendo al tavolo delle riforme: parlamentari immuni, pubblico ministero comandato dal governo, via libera alla criminalità dei colletti bianchi, riguardi verso la mafia rispettabile; non ha pulsioni peroniste, garantiscono i dottori Dulcamara. Che B. sia un virus, non è slogan apocalittico: l' aveva detto Indro Montanelli, diagnosta attendibile; sapendo vita e miracoli del suo editore, prevedeva calamità se fosse sceso in politica. Chi lo tiene più? Da San Pietroburgo assale i pubblici ministeri milanesi persecutori del fido P. (31 maggio); al consesso degli Otto detta una formula memorabile: aumento terapeutico del debito pubblico, purché la gente lavori, risparmi, non scioperi (Evian, 2 giugno). Altro che secondo Rinascimento, l' Italia non aveva mai volato così alto.

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo ( e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza ( così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.

Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche ( e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d'ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione ( non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

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